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7/29/2019 Sallustio (Conte) http://slidepdf.com/reader/full/sallustio-conte 1/10 La vita Gaio Sallustio Crispo nacque ad Amiternum, nella Sabina (oggi press’a poco L’Aquila), nell’86 a.C., da famiglia facoltosa che però non aveva mai dato magistrati allo stato (homo novus,  perciò). Compì probabilmente gli studi a Roma, dove i suoi interessi cominciarono presto a gravitare verso la politica. Si legò inizialmente ai  populares: tribuno della plebe, condusse una campagna accanita contro l’uccisore di Clodio, Milone, e Cicerone che lo appoggiava. Poco dopo subì la vendetta degli aristocratici: nel 50 venne espulso dal senato per indegnità morale. Dopo lo scoppio della guerra civile combatté dalla parte di Cesare, e fu riammesso nel senato dopo la vittoria di quest’ul- timo: la sua carriera ripartì rapida. Una volta sconfitti i pompeiani in Africa, Cesare nominò Sallustio governatore della provincia di  Africa nova. Sallustio dette tuttavia prova di malgoverno e di rapacità; al ritorno dalla  provincia venne colpito da un’accusa di malversazione Per evitargli la condanna e la nuova espulsione dal senato,  probabilmente Cesare lo consigliò di ritirarsi una volta per tutte dalla vita politica. Fu da questo momento in poi che Sallustio si dedicò alla storiografia. La morte lo colse nel 35 o nel 34, nella sua lussuosa residenza con grande parco tra il Quirinale e il Pincio (i cosiddetti  Horti Sallustiani), facendo si che restasse incompiuta la sua opera maggiore, le Historiae. La monografia storica come genere letterario Sallustio è autore di due monografie storiche. Ad ambedue le sue monografie antepone proemi di una certa estensione, nei quali si sforza di giustificare il fatto di essersi ritirato dalla vita  politica, dedicandosi alla composizione di opere storiche. Sallustio alla storiografia attribuisce un valore di gran lunga inferiore a quello della politica, e comunque non le conferisce un significato “autonomo”: per Sallustio la storiografia resta infatti strettamente legata alla prassi politica, e la sua maggiore funzione è individuata nel contributo alla formazione dell’uomo  politico. I pochi cenni autobiografici contenuti nei proemi di Sallustio sono volti a spiegare l’abbandono della vita politica con la crisi che ha irrimediabilmente corrotto le istituzioni e la società. Sallustio denuncia l’avidità di ricchezza e di potere come i mali che avvelenano la vita politica romana. Ma la cosa più importante è che la stessa storiografia sallustiana tende a configurarsi come indagine sulla crisi. Ciò serve a dare conto dell’impianto monografico delle sue due prime opere storiche, che costituiva una novità quasi totale nella storiografia romana.

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La vita

Gaio Sallustio Crispo nacque ad Amiternum, nella Sabina

(oggi press’a poco L’Aquila), nell’86 a.C., da famiglia facoltosa

che però non aveva mai dato magistrati allo stato (homo novus,

 perciò).

Compì probabilmente gli studi a Roma, dove i suoi interessi

cominciarono presto a gravitare verso la politica. Si legò

inizialmente ai  populares:  tribuno della plebe, condusse una

campagna accanita contro l’uccisore di Clodio, Milone, e

Cicerone che lo appoggiava. Poco dopo subì la vendetta degli

aristocratici: nel 50 venne espulso dal senato per indegnità

morale. Dopo lo scoppio della guerra civile combatté dalla partedi Cesare, e fu riammesso nel senato dopo la vittoria di quest’ul-

timo: la sua carriera ripartì rapida.

Una volta sconfitti i pompeiani in Africa, Cesare nominò

Sallustio governatore della provincia di  Africa nova.  Sallustio

dette tuttavia prova di malgoverno e di rapacità; al ritorno dalla

 provincia venne colpito da un’accusa di malversazione Per 

evitargli la condanna e la nuova espulsione dal senato,

 probabilmente Cesare lo consigliò di ritirarsi una volta per tutte

dalla vita politica. Fu da questo momento in poi che Sallustio si

dedicò alla storiografia. La morte lo colse nel 35 o nel 34, nella

sua lussuosa residenza con grande parco tra il Quirinale e ilPincio (i cosiddetti  Horti Sallustiani),  facendo si che restasse

incompiuta la sua opera maggiore, le Historiae.

La monografia storica come genere letterario

Sallustio è autore di due monografie storiche. Ad ambedue le

sue monografie antepone proemi di una certa estensione, nei

quali si sforza di giustificare il fatto di essersi ritirato dalla vita

 politica, dedicandosi alla composizione di opere storiche.

Sallustio alla storiografia attribuisce un valore di gran lunga

inferiore a quello della politica, e comunque non le conferisce unsignificato “autonomo”: per Sallustio la storiografia resta infatti

strettamente legata alla prassi politica, e la sua maggiore

funzione è individuata nel contributo alla formazione dell’uomo

 politico.

I pochi cenni autobiografici contenuti nei proemi di Sallustio

sono volti a spiegare l’abbandono della vita politica con la crisi

che ha irrimediabilmente corrotto le istituzioni e la società.

Sallustio denuncia l’avidità di ricchezza e di potere come i mali

che avvelenano la vita politica romana. Ma la cosa più

importante è che la stessa storiografia sallustiana tende a

configurarsi come indagine sulla crisi. Ciò serve a dare contodell’impianto monografico delle sue due prime opere storiche,

che costituiva una novità quasi totale nella storiografia romana.

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L’impostazione monografica serviva in maniera eccellente a

delimitare e a mettere a fuoco un singolo problema storico sullo

sfondo di una visione organica della storia di Roma. Così il

 Bellum Catilinae illumina il punto più acuto della crisi, il

delinearsi di un pericolo sovversivo di qualità finora ignota allo

stato romano; il  Bellum Iugurthinum affronta direttamente,

attraverso una vicenda paradigmatica, il nodo costituito

dall’incapacità della nobilitas corrotta a difendere lo stato, e

insiste sulla prima resistenza vittoriosa dei populares. 

La congiura di Catilina e il timore dei ceti subalterni

Catilina, la cui “congiura” Cicerone console aveva represso

nel 63, aveva intravisto la possibilità di coalizzare una sorta di

“blocco sociale” avverso al regime senatorio: il proletariato

urbano, i ceti poveri di alcune zone dell’Italia, i membri

indebitati dell’aristocrazia, forse masse più o meno ampie dischiavi.

Dopo il proemio (1-4), Sallustio muove dal ritratto di

Catilina: la personalità di questo aristocratico corrotto è messa a

fuoco sullo sfondo generale della decadenza dei costumi

romani, dovuta allo stesso accrescersi della potenza dell’Impero

e al dilagare del lusso e delle ricchezze. Approfittando di questa

degradazione morale, Catilina raggruppa intorno a sé personaggi

che per i motivi più diversi, per sfuggire alla miseria o ai

tribunali, auspicano un cambiamento di regime (5-18).  La

nobilitas,  che grazie ad alcune indiscrezioni comincia a

subodorare il complotto, sotto l’effetto dei timori da essosuscitati decide di affidare il consolato ad Antonio e ad un homo

novus,  Cicerone. Catilina continua i suoi preparativi,

estendendoli a tutta l’Italia. Grazie a un proprio accolito,

Manlio, raduna a Fiesole un esercito composto in larga parte di

disperati e gente piombata nella miseria (18-25). Catilina,

sconfitto nelle elezioni consolari, compie alcuni attentati alla

vita di Cicerone, che vanno a vuoto. Cicerone ottiene dal senato

i pieni poteri per soffocare la ribellione; l’8 novembre del 63

accusa apertamente Catilina in senato ( I   catilinaria).  Catilina

fugge da Roma, e va a raggiungere Manlio e il suo esercito; il

senato dichiara entrambi nemici pubblici (26-36). A questo punto Sallustio introduce un excursus sui motivi della

degenerazione della vita politica e sulle condizioni che hanno

favorito l’attività di Catilina (37-39). La narrazione riprende con

le varie vicende grazie alle quali Cicerone arriva ad avere in

mano le prove tangibili del complotto. Cicerone fa incarcerare i

complici di Catilina rimasti in città, e il senato si riunisce per 

deliberare sulla loro sorte. Dopo che Decimo Giunio Silano si è

 pronunciato per la condanna a morte, si contrappongono i

discorsi di Cesare e di Catone il Giovane: il primo chiede una

 pena più mite, il secondo ribadisce con vigore la necessità della

condanna a morte (40-52). Dopo averne riportato i discorsi,Sallustio introduce un parallelo tra Cesare e Catone, due

 personaggi dalle virtù opposte e complementari, i soli grandi

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uomini del tempo (53-54). I complici di Catilina vengono

giustiziati. Catilina, a capo della sua armata, tenta di rifugiarsi

nella Gallia Transalpina, ma viene intercettato dall’esercito

regolare e costretto al combattimento nei pressi di Pistoia

(gennaio 62). L’armata ribelle viene annientata, e lo stesso

Catilina, dopo avere combattuto valorosamente, trova la morte

nella battaglia (55-61).

Sallustio, come molti suoi contemporanei, vedeva del resto

nel pericolo catilinario uno dei sintomi della ben più grave

malattia di cui soffriva la società romana; ad essa lo storico,

interrompendo la narrazione, dedica un ampio excursus,  quasi

all’inizio del  Bellum Catilinae.  Si tratta della cosiddetta

“archeologia”, che, con ispirazione tucididea, traccia una rapida

storia dell’ascesa e della decadenza di Roma. Il punto di svolta è

individuato nella distruzione di Cartagine, a partire dalla quale -

con la cessazione del metus hostilis,  il timore verso i nemici

esterni che in precedenza aveva mantenuto salda e compatta lacollettività cittadina - Sallustio fa incominciare il deterioramento

della moralità romana. In questo processo di degenerazione, il

“democratico” Sallustio attribuisce un ruolo di rilievo alla figura

del dittatore aristocratico Cornelio Silla, al cui esempio si

ispirano gli individui della risma di Catilina: lo storico insiste

infatti sull’orrore delle proscrizioni sillane, in cui Catilina si era

tristemente distinto all’inizio della sua carriera.

Un secondo excursus, collocato al centro dell’opera, denuncia

la degenerazione della vita politica romana nel periodo che va

dalla dominazione di Silla alla guerra civile fra Cesare e

Pompeo. La condanna coinvolge in pari modo le due parti inlotta, i populares e i fautori del senato: da un lato demagoghi che

con elargizioni e promesse alla plebe ne aizzano l’emotività per 

farne il piedistallo delle proprie ambizioni; dall’altro aristocratici

che si fanno velo della dignità del senato, ma combattono in

realtà solo per consolidare e ampliare i propri privilegi. Sallustio

vede un legame organico fra la faziosità dei partiti contrapposti e

il pericolo di sovversione sociale; abolire la “conflittualità”

diffusa è necessario per mettere i ceti possidenti definitivamente

al riparo da quel pericolo. La condanna del “regime dei partiti” è

in questo senso coerente con le aspettative che Sallustio ripone

in Cesare; da parte di quest’ultimo, lo storico auspicava probabilmente l’attuazione di una politica per certi aspetti non

diversa da quella che Cicerone si riprometteva dal suo  princeps:

un regime autoritario che sapesse porre fine alla crisi dello stato

ristabilendo l’ordine nella res publica, rinsaldando la concordia

fra i ceti possidenti, restituendo prestigio e dignità a un senato

ampliato con uomini nuovi provenienti dalla élite di tutta l’Italia.

La divergenza principale dell’ideale di Sallustio dalla politica

effettivamente perseguita da Cesare riguardava probabilmente la

funzione che questi aveva attribuito all’esercito: Sallustio -

anche qui non troppo diversamente da Cicerone - sarà stato

disgustato dall’“inquinamento” del senato con l’immissione di personaggi provenienti dai ranghi militari.

Questa impostazione generale spiega la parziale

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deformazione che nel  Bellum Catilinae Sallustio ha compiuto

del personaggio di Cesare, purificandolo, per così dire, da ogni

contatto e legame con i catilinari ed evitando la condanna

esplicita della sua politica come capo dei  populares.  Sallustio

stacca il fenomeno catilinario dalla politica sana

dell’opposizione antiaristocratica e indica nella corruzione della

gioventù la causa prima della congiura. Nel riferire la seduta del

senato in cui viene decisa la condanna a morte dei complici di

Catilina, Sallustio fa pronunciare a Cesare un discorso che, per 

sconsigliare la condanna a morte, fa largo appello a

considerazioni legalitarie; il discorso “rifatto” da Sallustio non è,

a quanto pare, una sostanziale falsificazione: ma l’insistenza

sulle tematiche legalitarie, se anche trovava qualche appiglio nel

discorso effettivamente tenuto da Cesare in quell’occasione, è

soprattutto coerente con la propaganda cesariana degli ultimi

anni, quale ce la mostrano i Commentarii, e con l’ideale politico

di Sallustio. La preoccupazione per l’ordine e la legalitàconteneva, agli occhi dello storico, un valore perenne:

mostrandola operante nel pensiero di Cesare fino dal 63,

Sallustio implicitamente suggeriva la coerenza e la continuità

della sua linea politica.

Immediatamente dopo la narrazione della seduta del senato,

Sallustio delinea i ritratti di Catone e di Cesare, che in

quell’occasione avevano dato pareri opposti. L’idea del

confronto fra i due personaggi non è senza rapporti con la

 polemica su Catone che si era sviluppata dopo il suo suicidio in

Utica. Sallustio sembra essere stato il primo a tentare una

riflessione serena, che approda a una sorta di ideale“conciliazione” fra i due personaggi. Il ritratto di Cesare si

sofferma da un lato sulla sua liberalità, munificentia,

misericordia, e dall’altro sulla infaticabile energia che sorregge

la sua brama di gloria. Le virtù tipiche di Catone sono invece

quelle, radicate nella tradizione, di integritas, severitas,

innocentia,  ecc. Differenziando i mores dei due personaggi,

Sallustio voleva affermare che entrambi erano positivi per lo

stato romano, anzi nelle loro virtù individuava virtù

complementari; in particolare, nei principi etico-politici

affermati da Catone, Sallustio - al di là dei dissensi sul ruolo del

ceto nobiliare cui Catone dava voce - riconosceva unfondamento irrinunciabile della res publica.

Indicando in Cesare e in Catone i più grandi romani

dell’epoca, Sallustio non perseguiva certo l’intento di denigrare

Cicerone; ma è un fatto che, dalla narrazione del  Bellum

Catilinae, la figura del console che si era trovato a reprimere la

congiura appare alquanto ridimensionata a chi abbia presenti i

vanti che lo stesso Cicerone si era largamente prodigato. Il

Cicerone di Sallustio non è il politico che domina gli eventi

grazie alla lucidità della propria mente, ma un magistrato che fa

il suo dovere pur non essendo un eroe, superando inquietudini e

debolezze.Attinge invece una sua grandezza, sia pure una grandezza

malefica, il personaggio di Catilina, del quale Sallustio delinea

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un ritratto a tinte forti e contrastanti, sottolineandone da un lato

l’energia indomabile, dall’altro la facile consuetudine con ogni

forma di depravazione. Il ritratto è dominato dall’esigenza

moralistica: mentre tratteggia il suo personaggio, Sallustio lo

giudica. Il moralismo di Sallustio è del resto coerente con il suo

moderatismo politico; indicando le cause del fenomeno

catilinario in una degenerazione morale che investe ormai

numerosi membri della classe dirigente, lo storico può evitare di

spingere lo sguardo più a fondo, fino a vedere in quel fenomeno

una conseguenza logica e necessaria della crisi: ciò, più che ad

una condanna, sarebbe stato quasi equivalente a una

giustificazione del movimento eversivo. Ma dai discorsi che

Catilina pronuncia nella monografia sallustiana affiorano più di

una volta - probabilmente al di là delle stesse intenzioni dello

storico - i motivi profondi della crisi che da tempo travaglia lo

stato romano: da una parte pochi potenti che monopolizzano

cariche politiche e ricchezze, sfruttando i popoli dominati,dall’altra una massa senza potere, coperta di debiti e priva di

vere prospettive future.

Il  Bellum Iugurthinum:  Sallustio e l’opposizione

antinobiliare

All’inizio della sua seconda monografia, Sallustio spiega che

la guerra contro Giugurta (svoltasi tra il 111 e il 105)  fu la prima

occasione in cui “si osò andare contro l’insolenza della nobiltà”.

In effetti, il  Bellum  Iugurthinum è largamente indirizzato a

mettere in luce le responsabilità della classe dirigentearistocratica nella crisi dello stato romano.

Giugurta, dopo essersi impadronito col crimine del regno di

 Numidia, aveva corrotto col denaro gli esponenti

dell’aristocrazia romana inviati a combatterlo in Africa, ed era

 pertanto riuscito a concludere una pace vantaggiosa. Metello,

inviato in Africa, ottiene successi notevoli, ma non decisivi;

Mario, luogotenente di Metello, dopo lunghe insistenze ottiene

da questi il permesso di recarsi a Roma per presentare la

candidatura al consolato. Eletto console per il 107, riceve

l’incarico di portare a termine la guerra in Africa. Mario

modifica la composizione dell’esercito. La guerra in Africariprende con varie vicende; si conclude solo quando il re di

Mauritania, Bocco, tradisce Giugurta, suo precedente alleato, e

lo consegna ai Romani.

 Nella narrazione sallustiana, la guerra contro l’usurpatore

numida acquista rilievo sullo sfondo della rappresentazione della

degenerazione della vita politica: l’opposizione antinobiliare, cui

Sallustio si riallaccia, rivendicava, contro la nobiltà corrotta, il

merito della politica di espansione, della difesa del prestigio di

Roma. Come nella precedente monografia, Sallustio introduce al

centro dell’opera un excursus che indica nel “regime dei partiti”

(mos partium et factionum) la causa prima della dilacerazione edella rovina della res publica; ma la condanna è probabilmente

 più sfumata e, per così dire, meno equanime che nel  Bellum

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Catilinae. Nella seconda monografia, il bersaglio principale di

Sallustio è la nobiltà, e dall’excursus  traspare, per esempio, la

 preoccupazione di non condannare la politica dei Gracchi in

maniera globale, bensì solo nei suoi eccessi.

Per certi aspetti, il quadro che emerge dal  Bellum

 Iugurthinum è piuttosto deformante: al fine di rappresentare la

nobiltà come un blocco unico guidato da un gruppo corrotto,

Sallustio trascura di parlare dell’ala dell’aristocrazia favorevole

a un impegno attivo nella guerra, l’ala più legata al mondo degli

affari e più incline alla politica di imperialismo espansionistico.

Le linee direttive della politica dei  populares sono

esemplificate nei discorsi che Sallustio fa tenere dal tribuno

Memmio per protestare contro la politica inconcludente del

senato, e successivamente da Mario, quando quest’ultimo

convince la plebe ad arruolarsi in massa. Per Sallustio, ambedue

i discorsi sono rappresentativi dei migliori valori etico-politici

espressi dalla “democrazia” romana nella sua lotta contro lanobiltà. Memmio invita il popolo alla riscossa contro

l’arroganza dei  pauci,  l’oligarchia dominante; enumera i mali

del regime aristocratico: il tradimento degli interessi della res

 publica,  la dilapidazione del denaro pubblico, la

monopolizzazione delle ricchezze e delle cariche. Nel discorso

di Mario, d’altra parte, il motivo centrale è fornito

dall’affermazione di una nuova aristocrazia, l’aristocrazia della

virtus, che si fonda non sulla nascita, ma sui talenti naturali di

ciascuno e sul tenace impegno a svilupparli. Mario si richiama ai

valori antichi che hanno fatto la grandezza di Roma, quei valori

che in un’epoca remota hanno permesso di emergere agli stessicapostipiti delle casate aristocratiche, ormai tralignanti e

caratterizzate solo da inettitudine.

Il discorso di Mario esprime soprattutto le aspirazioni della

élite italica ad una maggiore partecipazione al potere; tuttavia il

giudizio complessivo di Sallustio su Mario rimane segnato da

ambivalenze e sfumature spesso difficili da apprezzare nella loro

reale portata. L’ammirazione per l’uomo che seppe opporsi

all’arroganza nobiliare è in qualche modo limitata dalla

consapevolezza delle responsabilità che in futuro Mario si

sarebbe assunte nelle guerre civili; ma già l’arruolamento dei

capite censi getta ombre inquietanti sulla sua figura: Sallustionon sembra approvare il provvedimento - in cui si individuava

comunemente l’origine degli eserciti personali e professionali

che avrebbero distrutto la repubblica - e pare anzi che egli vede

come inquinata dall’affermarsi del proletariato militare

quell’aristocrazia della virtus che Mario (con piena coscienza di

homo novus)  esalta nel proprie discorso. Il fondamentale

moderatismo fa sì che Sallustio non possa accantonare

importanti riserve sull’uomo che nella lotta antinobiliare non

aveva esitato ad agitare la feccia plebea.

 Non si può abbandonare la trattazione del  Bellum

 Iugurthinum senza accennare al ritratto di Giugurta: come giànei confronti di Catilina, Sallustio non nasconde la propria

 perplessa ammirazione per l’energia indomabile che è sicuro

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segno di virtus, anche se di una virtus corrotta. Una differenza

importante rispetto al ritratto di Catilina è che la personalità del

re barbaro è rappresentata, per così dire, in evoluzione: la sua

natura non è corrotta fino dall’inizio, ma lo diviene

 progressivamente. Il seme della corruzione viene gettato in

Giugurta durante l’assedio di Numanzia, da nobili e homines

novi romani. Per il suo personaggio, Sallustio non ha comunque

scusanti o attenuanti, né si sforza mai di illuminare la situazione

dal punto di vista di Giugurta: quest’ultimo, una volta che la sua

indole si è corrotta, è solo un piccolo tiranno perfido, ambizioso

e privo di scrupoli. Non è certo l’eroe dell’indipendenza

numidica che alcuni interpreti hanno creduto di ravvisare in lui:

agli occhi di Sallustio le ragioni dell’imperialismo erano tanto

evidenti da apparire indiscutibili.

Le Historiae e la crisi della res publica

La maggiore opera storica di Sallustio rimase incompiuta per 

la morte dell’autore: le  Historiae iniziavano col 78 a.C.,

riallacciandosi alla narrazione di Sisenna, ma non sappiamo fino

a che punto Sallustio si ripromettesse di condurre il racconto (i

frammenti che ci restano non vanno comunque oltre il 67 a.C.).

Dopo gli esperimenti monografici, Sallustio si cimentava ora in

un impresa di vasto respiro: si imponeva il ritorno alla forma

annalistica, che del resto anche in seguito avrebbe dato prova di

tenace vitalità nella storiografia latina. L’opera (per noi perduta,

ma nota almeno fino al V secolo) influenzò molto la cultura

d’età augustea.Alcuni dei frammenti che ci restano delle  Historiae sono

 particolarmente ampi. Si tratta di quattro discorsi (per esempio

quello del tribuno Licinio Macro per la restaurazione dei poteri

tribunizi, nel 73; quello di Lepido contro il sistema di governo

dei Sillani; quello di Marcio Filippo, una violenta reazione a

quegli elementi che nel discorso di Lepido più palesemente

miravano alla sobillazione demagogica), e di un paio di lettere,

una di Pompeo e una di Mitridate. Di queste lettere ha

 particolare importanza quella che Sallustio immagina scritta da

Mitridate: dalle parole del sovrano orientale che combatté

lungamente contro i Romani, affiorano chiaramente i motividelle lagnanze dei popoli soggiogati e dominati da Roma. Il solo

motivo che i Romani hanno di portare guerra a tutte le altre

nazioni - scrive Mitridate - è la loro inestinguibile sete di

ricchezze e di potere. Possediamo anche parecchi frammenti di

carattere geografico ed etnografico, a conferma di un interesse

già presente nella monografia maggiore.

Le  Historiae dipingono un quadro in cui dominano le tinte

cupe: la corruzione dei costumi dilaga senza rimedio; a parte

 poche nobili eccezioni (fra le quali Sallustio ammira

 particolarmente Sertorio, campione della libertas che, ribelle a

Silla e al prepotere degli optimates, aveva fondato in Spagna unanuova repubblica) sulla scena politica si affacciano soprattutto

avventurieri, demagoghi e nobili corrotti. In generale, il

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 pessimismo sallustiano sembra acuirsi nell’ultima opera; dopo

l’uccisione di Cesare, e la frustrazione delle aspettative riposte

nel dittatore, lo storico non ha più una parte dalla quale

schierarsi, né aspetta più alcun salvatore.

Lo stile di Sallustio

L’epoca che aveva visto da un lato il rinnovamento

dell’oratoria e della prosa artistica operato da Cicerone, e

dall’altro il travaglio dei neòteroi  per ottenere la più perfetta

elaborazione formale, si aspettava anche la nascita di un nuovo

stile storico. Cicerone, che alcuni auspicavano desse la sua im-

 pronta anche alla storiografia, pensava, com’era nei suoi gusti, a

uno stile armonioso e fluido: più esattamente egli pensava a una

“scrittura” storiografica che fosse un opportuno adattamento del

modello dell’oratoria, quale egli stesso aveva perfezionato, e

concepiva perciò la storia come opus oratorium maxime(un’idea, questa, sostanzialmente ellenistica, basata su canoni

retorici isocratei; d’altronde la cosa appare comprensibile se si

considera che a Roma l’oratoria aveva raggiunto la sua maturità

almeno una generazione prima della storiografia).

A condizionare in larga misura - anche se non esclusiva - la

futura evoluzione stilistica della storiografia latina fu invece

Sallustio, che, nutrendosi di Tucidide e di Catone il Censore,

elaborò uno stile fondato sull’inconcinnitas  (il contrario della

ricerca ciceroniana di simmetria, il rifiuto di un discorso ampio e

regolare, proporzionato), sull’uso frequente di antitesi, asim-

metrie e variationes di costrutto: il difficile equilibrio, fra questodinamismo inquieto da una parte e un vigoroso controllo che sa

frenarlo dall’altra, produce un effetto di  gravitas austera e

maestosa, un’immagine di meditata essenzialità di pensiero.

“Pensieri troncati e brusche interruzioni e una concisione che

tocca l’oscurità” (anputatae sententiae et verba ante

exspectatum cadentia et obscura brevitas): così Seneca definiva

lo stile di Sallustio, mentre derideva i goffi eccessi di chi voleva

imitarlo (“In Sallustio - continua Seneca - questi tratti di stile

sono disseminati con parsimonia, nel suo imitatore Arrunzio si

moltiplicano e figurano quasi senza interruzione: Sallustio infatti

trovava queste maniere espressive sulla sua strada, l’altra neandava in cerca”).

Alla gravitas austera di questo stile contribuisce parecchio la

ricca patina arcaizzante. L’arcaismo, però, non è solo nella scelta

di parole desuete, segnate dalla dignità dell’antico, ma anche

nella ricerca di una concatenazione delle frasi che è di tipo

 paratattico. I pensieri così si giustappongono l’uno all’altro

come blocchi autonomi di una costruzione; è evitato il periodare

 per subordinazione sintattica, in cui un pensiero dipende da un

altro come un’espansione ordinata gerarchicamente; sono evitate

le strutture bilanciate e le clausole ritmiche care al discorso

oratorio elaborato. Estrema è l’economia dell’espressione(asindeti e una più generale omissione di legami sintattici, ellissi

di verbi ausiliari); ma alla condensazione del discorso, reso

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essenziale, reagisce il gusto per l’accumulo asindetico di parole

quasi ridondanti (con effetto di intensità). L’allitterazione

frequente dà colore arcaico, ma potenzia anche il senso delle

 parole. Uno stile arcaizzante, insomma, ma innovatore, perché il

suo andamento spezzato è del tutto anticonvenzionale e perché

lessico e sintassi contrastano di fatto quel processo di

standardizzazione che stava verificandosi nel linguaggio

letterario.

Sul piano della tecnica narrativa, l’esigenza di sobrietà e di

austerità imponeva la rinuncia a tutta una serie di effetti

drammatici tipici della storiografia “tragica”, incline a suscitare

emozioni e perciò ispirata a uno stile di narrazione vivace e per 

così dire “realistico”. Ma la limitazione approda a una

drammaticità più intensa proprio perché più controllata, meno

effusa. I protagonisti delle due monografie, Catilina e Giugurta,

sono personaggi “tragici”; e gli argomenti delle due opere, oltre

che per il loro interesse come sintomi rivelatori della crisi, sonoscelti anche in funzione della varietà e della drammaticità dei

casi che lo storico può mettere in scena. Lo stile elaborato nelle

due monografie doveva acquisire più piena maturità artistica

nelle Historiae, tanto da costituire uno dei modelli canonici della

successiva storiografia latina.

Le Epistulae e l’ Invectiva

Le opere di Sallustio ottennero un successo immediato e

rilevante: il pubblico romano ebbe la felice sensazione di

 possedere ora uno storico capace di soddisfare le aspettative per un genere di letteratura che suscitava interessi culturali assai

vivi. Lo stesso stile di scrittura, personalissimo ed efficace,

 provocava ammirazione. Le scuole retoriche non potevano

restare insensibili al desiderio di emulare il suo modo di

scrivere, immaginando per esempio il grande autore di opere

storico-politiche impegnato in situazioni suggestive: o nel

contrasto con Cicerone e con i suoi tanto diversi ideali politico-

culturali, o in esortazioni e consigli rivolti a Cesare vincitore. I

manoscritti di Sallustio ci conservano una  Invectiva in

Ciceronem,  che anche Quintiliano considerava autentica; ma è

 probabile che l’autore sia un retore di età augustea (l’operettavuol sembrare scritta nel 54 a.C.; anche questo, però, fa

difficoltà). Suo evidente  pendant  sarebbe l’ Invectiva in

Sallustium che si attribuiva a Cicerone (questa sicuramente un

falso confezionato nelle scuole di retorica: vi si accusa Sallustio

di aver sfruttato vergognosamente, a scopo di arricchimento

 personale, la nuova provincia di Numidia, di cui Cesare gli

aveva affidato il governo). Ugualmente spurie sono da ritenersi

le  Epistulae ad Caesarem senem de republica,  trasmesse

anonimamente in un codice che contiene lettere e discorsi tratti

dalle opere storiche di Sallustio. Lo stile è quasi più sallustiano

di quello di Sallustio (l’ineliminabile difetto di ogni falsario, prigioniero del modello che deve fedelmente contraffare, e

molto meno libero di ogni autentico autore): ma oltre che

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7/29/2019 Sallustio (Conte)

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Sallustio

risultare eccessivamente arcaizzante, la scrittura pare impropria

alle forme letterarie del discorso oratorio e dell’epistola.

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