Panorama del Nuovo Testamento
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I VANGELI SINOTTICI
(Matteo, Marco, Luca)
BIBLIOGRAFIA
(per l’approfondimento)
AUTORE TITOLO E CASA EDITRICE
Harrison, E.F.
Parola del Signore 2: Introduzione al Nuovo
Testamento. Modena, Voce della Bibbia, 1972
(fuori stampa)
Alexander, David e Pat (a
cura di)
Guida alla Bibbia. Roma, Ed. Paoline, 1982 (fuori
stampa)
Marshall I., Millard A.,
Packer J. e Wiseman D. (a
cura di)
Nuovo Dizionario Biblico. Roma. GBU, 2008.
Drane, John Gesù e i quattro Vangeli. Torino, Claudiana, 1986
Guthrie D. / Motyer J.A. (
a cura di )
Commentario Biblico, vol. III. Modena, Voce della
Bibbia, 1976 (fuori stampa)
Walvoord J. / Zuck R. Investigare le Scritture vol. 2. Vicenza, Casa
Biblica, 2002.
AA.VV. Commentari al Nuovo Testamento. Roma, Ed. GBU
Lagrange, M-J. (a cura di)
Sinossi dei Quattro Evangeli. Brescia, Morcelliana,
1970 (fuori stampa. Una compilazione sinottica
dei quattro Vangeli, a cura di Antonio Piacentini,
è disponibile a richiesta dal docente del presente
corso)
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1. INTRODUZIONE: L’AMBIENTE E LA LINGUA DEL NUOVO
TESTAMENTO
1.1 Il contesto storico
Dopo la conquista e la distruzione di Gerusalemme da parte dei Babilonesi nel
587 a.C., i Giudei non furono mai più una nazione indipendente. Il ritorno (solo di
una parte del popolo) dall’esilio in Babilonia avvenne comunque sotto il dominio
medo-persiano. La conquista di questo impero da parte di Alessandro Magno (331
a.C.) segna l’inizio del dominio ellenistico del Medio Oriente, importante perché
da esso deriva l’uso del greco come lingua franca.
Dopo la morte di Alessandro senza lasciare eredi (323), l’enorme impero da lui
conquistato fu diviso tra i suoi generali, che divennero fondatori di altrettante
dinastie: Tolomeo (Egitto), Seleuco (Siria) e Antigono (Macedonia). La Giudea
faceva parte dell’impero dei Seleucidi, i quali seguirono una politica aggressiva di
ellenizzazione (introduzione forzata di costumi greci). Nel 2° secolo a.C., Antioco
IV estese questa politica alla sfera religiosa, profanando il Tempio di
Gerusalemme (come era stato profetizzata da Daniele) e provocando così la rivolta
dei Maccabei (175-164), membri di una famiglia sacerdotale costituitisi poi leader
politici, come raccontata nell’omonimo libro apocrifo.
Nel 64 a.C. la Siria, e quindi anche la Giudea, fu conquistata dai Romani. Essi
stabilirono come procuratore della Giudea Antipatro, e successivamente come re-
suddito suo figlio Erode I detto “il Grande” (37-4 a.C.). Egli dovette però prima
sconfiggere ed eliminare il candidato dei Parti, Antigono, un discendente dei
Maccabei. Fu Erode a ricostruire e ampliare il Tempio di Gerusalemme (a partire
dal 19 a.C.). Egli però non era Giudeo, bensì di estrazione edomita.
Erode I fece uccidere tre dei propri figli (Alessandro, Aristobulo e Antipatro), e alla
sua morte il regno fu diviso tra altri tre suoi figli. La Galilea e la Perea (la regione
ad est del Giordano) furono affidate ad Antipa, detto anche “Erode il Tetrarca”
(esiliato 39 d.C.), il quale fu responsabile della morte di Giovanni Battista
(decapitato nella sua fortezza a Macheronte, sulla sponda orientale del Mar
Morto); i territori a nord-est (Iturea e Traconitide) andarono a Filippo (Lc 3:1), che
stabilì la propria capitale a Cesarea di Filippo. La Giudea e la Samaria furono dati
ad Archelao (4 a.C.-6 d.C.) (Mt 2:22), il quale però si rivelò così sanguinario da
provocare la rivolta dei Giudei, che si appellarono ai Romani perché fosse
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destituito. Fu quindi mandato in esilio e fino al 41 d.C. quei territori furono
affidati a governatori romani (dei quali il più noto è Ponzio Pilato).
Nel 37 Erode Agrippa, nipote di Erode il Grande dal figlio Aristobulo, fu costituito
dall’imperatore Claudio re dei territori a Nord-Est che erano stati di Filippo; dopo
l’esilio di Antipa (39) vi furono aggiunti anche la Galilea e la Perea, e nel 41 anche
la Giudea e la Samaria. La sua morte improvvisa all’età di 54 anni è raccontata in
Atti 12:20 (e anche da Giuseppe Flavio). Salì allora al trono suo figlio Erode
Agrippa II, le cui udienze del prigioniero Paolo sono raccontati in Atti capp. 25-26.
Al tempo del Nuovo Testamento, tra i raggruppamenti principali nel giudaismo
erano:
I Farisei (spesso associati agli scribi) erano il partito religioso, stretti osservatori
della Legge, nella tradizione fondata da Esdra.
I Sadducei erano il partito dei sacerdoti e dei “capi” benestanti, che dominavano
il Sinedrio; essi discendevano dai Maccabei nel loro ruolo più recente di capi
politici. Erano pesantemente compromessi con i Romani, dai quali derivava il
loro potere (cfr. Gv 11:49-50).
Gli Zeloti, la “resistenza” politico-militare al dominio romano, si consideravano
gli eredi spirituali dei Maccabei del periodo più antico. Essi guidarono la rivolta
armata contro i Romani a partire dal 66 d.C. Uno dei 12 discepoli, Simone detto
“lo Zelota” (Lc 6:15, Atti 1:13; detto anche “il Cananeo”, dall’aramaico qan’an,
“zelota” o “zelante”, Mc 3:18, Mt 10:4), proveniva da questa origine.
Gli Esseni (mai nominati nel N.T.) erano asceti mistici che vivevano ricercando la
purezza religiosa e morale e si consideravano gli unici in Israele ad essere
rimasti fedeli al patto, oltre che gli unici a poter capire i misteri dell’A.T. Si
ritiene che la comunità di tipo monastico di cui si sono scavati i resti a Qumran,
nel deserto della Giudea, e alla quale appartenevano presumibilmente i “rotoli
del Mar Morto” ritrovati nelle grotte là vicino, rappresentasse questo
movimento. Alcuni studiosi ritengono che Giovanni Battista possa aver passato
là la sua giovinezza (cfr. “nel deserto”, Lc 1:80).
1.2 La lingua
Il Nuovo Testamento fu scritto nella forma di greco chiamata koine (“comune”),
una semplificazione del dialetto attico in cui è scritto gran parte della letteratura
classica. Tale dialetto era diventata la lingua dell’amministrazione pubblica, del
commercio e della comunicazione quotidiana tra popoli che parlavano molte
lingue diverse (un po’ come l’inglese oggi). Ai tempi del Nuovo Testamento i
Giudei erano in gran parte bilingui, tanto che esistevano in Giudea sinagoghe
dove si usava il greco (Atti 6:1, 9:29). È verosimile che Gesù sapesse il greco oltre
all’aramaico e all’ebraico (che era la lingua biblica e liturgica).
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Il linguaggio del Nuovo Testamento non è dunque “religioso”, formale o letterario,
ma al contrario la lingua della comunicazione quotidiana, scritta però in gran
parte da persone che non la usavano in famiglia.
2. LA RELAZIONE TRA I VANGELI SINOTTICI
2.1 “Il Vangelo”
Questa parola (= “buona notizia”) è usata nel N.T. per indicare il messaggio della
salvezza in Cristo annunciato da Lui e dagli Apostoli. Nel N.T. viene usata sempre
al singolare: vi è un solo Vangelo (cfr. Gal. 1:8). L’uso della parola per indicare
ciascuno dei primi quattro libri del N.T. inizia solo al 2° secolo d.C.
Questo unico Vangelo lo troviamo narrato da quattro autori in quattro versioni
diverse, non “divergenti” ma “convergenti”: “il vangelo secondo ...”. Tre delle
versioni presentano notevoli somiglianze, per cui sono dette “sinottiche” (“dallo
stesso punto di vista”), mentre la quarta (Giovanni) ha una prospettiva molto
diversa:
o perché l’autore non voleva ripetere tante cose già dette da altri (se, come
comunemente si ritiene, il 4° Vangelo fu scritto molto più tardi degli altri);
o perché fu scritto in modo indipendente, prima della diffusione delle altre
versioni (l’ipotesi di J.A.T. Robinson in Redating the New Testament, 1976).
2.2 Confronto fra i Vangeli Sinottici
A. I fatti
Quasi tutto il contenuto di Marco viene riprodotto da Matteo, e gran parte anche
da Luca. Questo schema, dovuto a Westcott (vedi Harrison, pag. 149) dà un’idea
della situazione (cifre in percentuali):
Peculiarità Parallelismi
(con altri Vangeli)
Marco 7 93
Matteo 42 58
Luca 59 41
Giovanni 92 8
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Tuttavia, nei brani paralleli, Marco tende a riferire più dettagli degli altri due
Sinottici (ad es.: Mc 9:14-29, 12:32-34).
Inoltre circa 200-250 versetti sono paralleli tra Matteo e Luca, sebbene a volte in
forma talvolta differente. Queste sezioni contengono soprattutto i discorsi di Gesù
(mentre Marco ne privilegia le azioni). Naturalmente le differenze si potrebbero
spiegare, almeno in parte, dalla probabilità che Gesù abbia ripetuto gli stessi
discorsi e insegnamenti in più occasioni e cambiandone le forme. In alcuni casi
questa spiegazione si impone con forza: ad es. nei casi del “Sermone sul Monte”
(Mt capp. 5-7) e il “Sermone sulla pianura” (Lc 6:20-49), delle due forme diverse
del “Padre nostro” (Mt 6:9-13, Lc 11:2-4), o delle parabole simili ma diverse dei
Talenti (Mt 25:14-30) e delle Mine (Lc 19:11-27).
B. Le teorie
È largamente accettata l’ipotesi secondo la quale Marco sarebbe la versione più
antica, usata poi come fonte sia da Matteo, sia da Luca. Tale ipotesi è sostenuta
da due considerazioni:
i dettagli contenuti solo in Marco, verosimilmente omessi dagli altri come non
essenziali, mentre invece è difficile supporre che Marco li abbia aggiunti alla
versione trovata in (ad es.) Matteo, omettendo nello stesso tempo tutti gli
insegnamenti contenuti in Matteo;
se Marco fosse una riduzione di Matteo, difficilmente sarebbe stato accettato
come canonico per quelle poche cose che contiene in esclusiva.
Se invece il materiale comune fosse soltanto derivato da una fonte orale comune,
sarebbe difficile spiegare il linguaggio quasi identico. Luca 1:1 afferma che,
quando egli si mise a scrivere, già esistevano narrative scritte del Vangelo, che
presumibilmente furono consultate da lui.
Per il materiale comune tra Matteo e Luca, sono possibili tre ipotesi:
1. Matteo consultò Luca;
2. Luca consultò Matteo;
3. Entrambi consultarono una fonte comune (comunemente chiamata “Q”, dal
tedesco “Quelle” = “fonte”).
Quest’ultima ipotesi è generalmente considerata la più verosimile. (Per una
discussione più dettagliata, vedi Harrison, pagg. 153-158).
Da notare però che, se questa ipotesi è esatta, è impossibile sapere:
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a) quanto del materiale contenuto nell’ipotetica “Q” era identico, o simile, a quello
di Marco. (Talvolta “Q” – cioè Matteo e Luca concordemente – riporta lo stesso
episodio in una versione diversa da quella di Marco.)
b) quanto materiale riportato solo da Matteo, o solo da Luca – e quindi attribuito
alle loro rispettive fonti esclusive (dette “M” e “L”) – provenga in realtà da “Q”,
ma sia stato utilizzato solo dall’uno o dall’altro.
Qualcuno ha identificato “Q” con il documento di Matteo di cui Papia (135 d.C.
ca.., citato da Eusebio) scrisse: “Matteo mise insieme gli oracoli [o “detti”] in lingua
ebraica [?aramaica?], e ognuno li interpretò [o “tradusse”] come meglio poteva”. Ma
“Q” potrebbe essere comunque una fonte o tradizione orale.
In conclusione, sembra piuttosto verosimile questo schema ipotetico:
fonti esclusive (“M”) Marco “Q” fonti esclusive (“L”)
Matteo Luca
2.3 Critica delle forme
È stata dedicata molta attenzione negli ultimi decenni alla “critica delle forme”,
con la quale si spera di risalire alla fase orale della trasmissione del Vangelo,
immaginando anche il tipo di situazione in cui il brano può essere stata utilizzata
nella predicazione o nell’insegnamento. Sono state avanzate pretese esagerate
per questo tipo di analisi, tuttavia lo studio ad es. delle parabole, dei “detti” (tipo
proverbio) di Gesù, dei miracoli, ecc. può avere qualche utilità. In particolare, sono
stati fatti vari tentativi di ricostruire la forma originale in aramaico dei detti di
Gesù, e di trovarvi una forma poetica o mnemonica. Ovviamente, ogni tentativo
del genere rimane un’ipotesi non dimostrabile che può essere più o meno valida. I
tentativi di alterare il testo greco in base a tali ricostruzioni sono comunque poco
attendibili.
3. INTRODUZIONE AI SINGOLI VANGELI
3.1 Marco
Autore: Giovanni Marco fu un compagno d’opera prima di Paolo (At. 13:5, Col.
4:10, Filem. 24) e poi di Pietro (1° Pt. 5:13). Fu cugino di Giuseppe detto Barnaba
(Col. 4:10), un facoltoso Ebreo (Levita) di Cipro (At. 4:36). La casa di sua madre
Maria a Gerusalemme era un punto d’incontro per i credenti di quella città (At.
12:12). È abbastanza verosimile l’identificazione di Marco con il giovane di Mc
14:51 (episodio riferito solo da Marco e irrilevante ai fini della storia). Qualcuno
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ha suggerito che la casa dell’Ultima Cena potrebbe essere stata quella della sua
famiglia (Mc 14:14).
Composizione: Papia, vescovo di Ierapoli intorno al 140 d.C., riferisce:
“Marco, diventato l’interprete di Pietro, scrisse accuratamente, però non in
ordine, tutto quanto ricordava delle parole e degli atti di Cristo. Egli infatti
non ascoltò il Signore direttamente, né fu suo seguace, ma in seguito...
accompagnò Pietro, che ne adattava l’istruzione alle necessità del momento,
non come se dovesse compilare in ordine gli oracoli del Signore. Quindi non vi
fu errore da parte di Marco nello scrivere le cose come le ricordava” (riferito
da Eusebio, Stor. Eccl. 3.39.15).
Similmente Ireneo di Lione, il quale era stato discepolo di Policarpo (martire ca.
158 d.C.), scrive:
“Dopo la loro dipartita [cioè di Pietro e Paolo], anche Marco, discepolo ed
interprete di Pietro, ci ha tramandato per iscritto la sostanza delle cose
predicate da Pietro”.
Egli dice anche che Marco scrisse “mentre Pietro e Paolo predicavano il Vangelo a
Roma e vi fondavano la chiesa”. La parola “dipartita” è exodos, che può essere
letta sia come “partenza” (il significato più comune), sia come “morte”
(l’interpretazione della maggior parte degli studiosi, cfr. Lc 9:31, 2Pt 1:15).
Secondo Clemente di Alessandria, l’opera fu scritta mentre Pietro era ancora in
vita dietro richiesta di alcuni credenti; invece il “Prologo Antimarcionita” al
Vangelo di Marco dice che fu scritto dopo la morte di Pietro.
Queste testimonianze sono concordi nell’indicare Pietro come fonte principale del
contenuto del Vangelo di Marco, e sembrano indicare una data di composizione
prima o poco dopo il martirio di Pietro intorno al 62 d.C. Tale data sembra
confermata anche dal frammento di papiro ritrovato in una caverna di Qumran
(noto come “papiro 7Q5” e pubblicato da J. O’Callaghan nel 1972), che non può
essere stato scritto più tardi del 68 d.C. e che la maggior parte degli studiosi
ritiene sia un frammento del Vangelo di Marco.
Anche il confronto tra Mc 15:21 e Rom. 16:13 (Rufo è nominato come persona
nota ai lettori originali del Vangelo di Marco) conferma la probabilità di una
composizione a Roma.
Contenuto: il libro si divide in due parti:
1:1 - 8:30: “Chi è Gesù?”
8:31 - fine: “Perché Gesù è venuto?” (cfr. 8:31 e 10:45).
I capitoli 1-9 trattano il ministero in Galilea, i rimanenti quello in Giudea.
Caratteristiche:
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1. Una chiara struttura (v. sopra).
2. Vivacità e freschezza del linguaggio, con molti dettagli.
3. Contiene molta narrativa, meno degli insegnamenti di Gesù (cfr. At. 10:34-43).
4. Il linguaggio contiene molti aramaismi, ma anche parecchie parole latine.
5. C’è un problema testuale per quanto riguarda il finale (16:9 - fine).
3.2 Luca
Autore: collaboratore di Paolo; medico (Col 4:14), forse originario di Filippi o di
Troas. Autore anche degli Atti, che contiene brani scritti alla 1a
persona plurale.
L’unico autore biblico probabilmente non ebreo.
Composizione: secondo Ireneo, “Luca, discepolo di Paolo, mise per iscritto il
vangelo da lui [Paolo] predicato”. La data è probabilmente tra il 60 e il 70 d.C.
Fonti: a parte Marco e “Q” (vedi 2.1.2), Luca dispone di una fonte vicina a Maria
madre di Gesù (forse lei stessa), cfr. capp. 1-2. Luca conobbe Giacomo, fratello del
Signore (At. 21:18) e visse per più di due anni in Palestina, dove fu anche ospite di
Filippo l’evangelista (At. 21:8-10).
Caratteristiche:
1. È il Vangelo per i Gentili:
a) usa termini comuni in greco al posto di termini ebraici (rabbi, osanna, ecc.),
e spiega anche la geografia palestinese;
b) stabilisce le date facendo riferimento agli imperatori romani;
c) dà più spazio a personaggi non Ebrei (il “buon Samaritano”, il lebbroso
guarito, ecc.);
d) la sua genealogia risale ad Adamo, progenitore di tutti gli uomini (cfr. Atti
17:26).
2. Dà molta attenzione ai poveri e ai sofferenti (cfr. Lc 6:20 con Mt 5:3).
3. Dà grande enfasi all’opera dello Spirito Santo.
4. Dà molta attenzione alle donne.
5. Dà importanza alla lode e alla gioia.
6. Dà particolare importanza alla preghiera.
7. Con la lettera agli Ebrei, Luca scrive il greco migliore, dal punto di vista
stilistico e grammaticale, del N.T.
8. È molto accurato dal punto di vista storico (v. 2:1-2, 3:2 ecc.).
9. Forse si possono individuare tracce del linguaggio medico.
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3.3 Matteo
Autore: Papia (citato da Eusebio) scrive: “Matteo mise insieme gli oracoli [loghia] in
lingua ebraica, e ognuno li interpretò come meglio poté”. Anche Ireneo, Origene e
Girolamo riferiscono che Matteo scrisse un Vangelo per gli Ebrei nella loro lingua.
Questo documento fu presto identificato con il primo Vangelo.
Tale identificazione incontra alcune difficoltà:
a) Il Vangelo di Matteo fu noto anche ai Padri solo in greco (e sembra che abbia
attinto da Marco, che fu certamente scritto in greco).
b) È incerto il significato di loghia, sebbene possa probabilmente comprendere
“fatti” oltre che “detti”.
c) Sembra strano che un Apostolo e testimone oculare sia tanto dipeso da Marco,
che non lo era.
Per queste ragioni, la grande maggioranza degli studiosi moderni non accetta
questa identificazione.
È comunque possibile che sia stato Matteo, dopo aver compilato in Aramaico (più
probabile che in Ebraico) una raccolta dei detti di Gesù, li abbia poi incluso in una
narrazione in greco in cui attinge anche da Marco. O forse il nostro Vangelo
proviene da un ambiente vicino a Matteo e attinge alla sua fonte.
Data: sembra probabile una data fra il 65 e 1’80. Da notare che Eusebio credeva
che fosse posteriore a Marco e a Luca.
Caratteristiche:
1. È il “Vangelo per gli Ebrei”:
a) usa un linguaggio contenente molti termini ebraici, senza dare spiegazioni;
b) contiene moltissime citazioni dall’Antico Testamento per dimostrare che in
Cristo si erano compiute le profezie;
c) mostra un grande rispetto per la Legge (mentre è polemico con i Farisei).
2. Mostra uno spiccato interesse per la Chiesa (è il solo Vangelo a contenere
questa parola: 16:18, 18:17), vista come il “nuovo Israele”.
3. Dà molto spazio agli insegnamenti di Gesù, concentrati principalmente in
cinque discorsi, ognuno dei quali termina con la formula: “Quando ebbe finito
questi discorsi...” (o simile): cap. 5-7; 9:36 - 11:1; 13:5-53; 18:1 - 19:1; 24:11 -
26:1.
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4. LA NASCITA E L’INFANZIA DI GESÙ (Matteo capp. 1-2, Luca capp. 1-3)
Mentre Marco tralascia del tutto la nascita e l’infanzia, i racconti di Matteo e di
Luca sono del tutto diversi, ed è evidente che Matteo narra le cose dal punto di
vista di Giuseppe, mentre Luca lo fa dal punto di vista di Maria. Solo Luca, poi,
racconta le circostanze della nascita di Giovanni Battista (1:5-25, 57-80).
Il fidanzamento (Lc 1:27) era considerato un contratto matrimoniale vincolante
(cfr. “marito”, Mt 1:18-19) e di solito durava un anno.
È significativo il fatto che, seppure sia Matteo che Luca raccontano del
concepimento miracoloso di Gesù da Maria ancora vergine, da nessuna parte la
Bibbia usa questo fatto come prova della Sua divinità: evidentemente perché è un
dato non dimostrabile e che viene accolto per fede, quindi da chi già crede per
altri motivi.
La visita dei Magi (sacerdoti/astrologi orientali, mai definiti nella Bibbia “re”, e dei
quali non è specificato il numero”) la strage degli innocenti e la fuga in Egitto (Mt
2:1-18) sono narrate soltanto da Matteo.
Per quanto riguarda l’infanzia e la giovinezza di Gesù, viene riferito un solo
episodio, quello della visita al Tempio quando aveva dodici anni (l’età del bar
mitzvah, quando i ragazzi ebrei vengono ammessi come membri adulti del popolo
di Dio). Da notare che le storie dell’infanzia (compresi parecchi “miracoli”) con-
tenute nei “Vangeli apocrifi” non hanno nessuna storicità o attendibilità: in genere
provengono da ambienti eretici (Gnostici), e le storie di miracoli sono in aperto
contrasto con l’affermazione di Gv. 2:11 (e cfr. Mc 6:2) che Gesù non operò
nessun miracolo prima dell’inizio del ministero pubblico.
5. GIOVANNI BATTISTA, IL BATTESIMO E LA TENTAZIONE
(Matteo 3:1-4:11, Marco 1:1-13, Luca 3:1-4:13)
Tutti e quattro i Vangeli prefiggono al ministero di Gesù la descrizione di quello di
Giovanni Battista, ponendo così la venuta del Messia nel contesto di un risveglio
religioso, in contrasto con le diffuse attese di un liberatore politico e militare. Il
battesimo era un rito di purificazione simbolica già in uso presso i Giudei, anche
per l’accoglienza dei proseliti. Ma la predicazione di Giovanni – nella migliore
tradizione dei profeti – insiste sulla necessità di una purificazione interiore (cfr.
Gioele 2:13). Nel racconto di tutti e quattro i Vangeli, Giovanni preannuncia Gesù
come “colui che battezzerà nello Spirito Santo”.
Quando Gesù si presenta per essere battezzato da Giovanni, la discesa su di Lui
dello Spirito Santo e la voce udibile di Dio che esprime approvazione e
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compiacimento fanno contrasto con il resto della gente, che si faceva battezzare
confessando i peccati (Mc 1:5 ecc.).
Subito dopo il battesimo, Gesù viene “condotto dallo Spirito nel deserto per essere
tentato dal Diavolo”. Il digiuno e le tentazioni durano 40 giorni, ma conosciamo
solo quelle conclusive. Poiché non c’erano testimoni, questo episodio deve essere
stato raccontato da Gesù stesso ai discepoli. Le tentazioni gettavano dubbi
sull’identità e sulla chiamata di Gesù; suggerivano un abuso della potenza
soprannaturale a fini egoistici; e cercavano di indurlo ad agire fuori dalla volontà
di Dio.
Poi Gesù inizia a predicare in Galilea; i primi episodi, svolti mentre Giovanni
Battista era ancora in libertà, sono raccontati solo da Giovanni (capp. 2-4). Gesù
diventa subito una figura controversa perché annuncia fin dall’inizio l’universalità
del Vangelo, offendendo i Giudei di più stretta osservanza (Lc 4:25-30).
6. I MIRACOLI DI GESÙ
In tutti i Vangeli i miracoli occupano un notevole spazio (particolarmente, in
proporzione, in Marco) e hanno la funzione di sollevare la domanda: “Chi è
dunque quest’uomo?” (Mc 4:41). Sono dunque “segni” (questo termine è però
caratteristico del Vangelo di Giovanni) del Regno di Dio. I miracoli possono essere
classificati in tre grandi categorie:
A. Guarigioni (i più numerosi), comprese alcune resurrezioni di morti;
B. Liberazioni di indemoniati;
C. Altri miracoli, specialmente di trasformazione della natura (moltiplicazioni di
cibo, ecc.) e dominio su di essa (ad es. la tempesta calmata, camminare sul
lago).
A differenza di altre religioni, i miracoli del Vangelo non hanno quasi mai lo scopo
semplicemente di impressionare o di suscitare meraviglia: sono atti di
misericordia, utili per aiutare le persone (cfr. la tentazione nel deserto). A questa
regola ci sono poche eccezioni: la maledizione del fico (Mt 21:18-22 e parall.),
l’invito a Pietro di camminare sull’acqua del lago (Mt 14:28-31). Sembra che questi
episodi insoliti servano per porre in rilievo la grande importanza che Gesù
attribuisce alla fede.
Nell’operare le guarigioni, è notevole la grande varietà dei mezzi utilizzati da
Gesù: l’imposizione delle mani (Mc 6:5, Lc 4:40); il contatto con la sua persona o
con gli indumenti (Mt 9:20, 14:36); una parola di comando autorevole (Mt 8:8,13,
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Lc 17:14); la saliva (Mc 7:33, 8:23); ecc. ecc. In alcuni casi scaccia uno spirito di
infermità (Lc 13:11), ma questo è piuttosto eccezionale.
7. LA SCELTA E LA FORMAZIONE DEI DISCEPOLI
“Discepolo” significa “alunno” o “apprendista”. Un discepolo aderiva a e seguiva
(anche fisicamente, perché spesso voleva dire una vita itinerante) un maestro,
dopo avergli chiesto di accettarlo come suo discepolo. Gesù ebbe molti discepoli,
alcuni dei quali si offrivano volontari (Mt 8:19, Lc 9:57, 61), altri furono chiamati
da Lui (Mt 9:9, 19:21, Mc 1:17, Lc 9:59, ecc.). Anche le donne che lo seguivano e
provvedevano alle sue necessità (Lc 8:2-3) e Maria sorella di Marta “la quale,
sedutasi ai piedi di Gesù, ascoltava la sua parola” (Lc 10:39) possono essere
considerate come “discepole”.
Fra questi discepoli Gesù scelse – dopo lunga preghiera e riflessione – dodici in
particolare da formare perché portassero avanti la Sua missione nella formazione
e conduzione della Chiesa (Mc 3:13-19 e parall.). Non solo dovevano stare con lui,
osservarlo, ascoltarlo e imparare da lui, ma essere anche formati attraverso
l’esperienza pratica: predicare, guarire, ecc. (3:15), ma anche compiti pratici quali
comprare il cibo, trovare l’alloggio e tenere la borsa dei soldi.
Fra i Dodici ci fu poi il “cerchio intimo” dei tre (Pietro, Giacomo, Giovanni) che
Gesù porta con sé in talune occasioni (ad es. la resurrezione della figlia di Jairo,
Mc 5:37; la Trasfigurazione, Mc 9:2, la preghiera nel giardino di Getsemani, Mc
14:33 e parall.), fra i quali Giovanni è identificato in particolare come “quel
discepolo che Gesù amava”.
8. LE PARABOLE
Spesso nel suo insegnamento Gesù fa uso di parabole, in cui un racconto su cose
e situazioni familiari è usato per illustrare una verità spirituale. Una parabola non
è un’allegoria, nella quale ogni particolare ha un significato corrispondente (anche
se certe parabole si avvicinano all’allegoria, cfr. Mt 13:37-43). Ordinariamente
nella parabola, ci sono uno o due punti principali, mentre i dettagli servono solo
per abbellire la storia e renderla più interessante (cfr. Lc 15:11-32). Matteo
raccoglie le parabole quasi tutte in alcuni “blocchi” (cap. 13, 21:28-22:14, cap.
25), mentre in Marco e Luca sono più dispersi.
Non sempre le parabole sono presentate esplicitamente come tali (Lc 15:11-32,
16:1-8, 19-31), ma il loro carattere è evidente dalla forma. Raramente Gesù ne
spiega il significato, e allora solo ai discepoli (Mt 13:36, Mc 4:10-11). In questo
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segue un principio didattico molto valido, in quanto i segreti del regno di Dio non
sono per tutti (cfr. “le perle date ai porci”), ma sono per coloro che cercano,
chiedono e bussano per comprendere e potersene appropriare.
9. I DISCORSI
Oltre alle parabole, i Vangeli (in particolare Matteo e Luca) contengono dei
discorsi o insegnamenti, di cui i più notevoli sono il “Sermone sul Monte” (Matteo
capp. 5-7), con il semi-parallelo “Sermone sulla pianura” (Luca 6:20-49), e il
“Discorso profetico” (Matt. capp. 24-25 e parall.).
È assai probabile che Gesù, come altri rabbini (e come era abitudine universale
nelle culture prevalentemente orali), ripetesse gli stessi insegnamenti in più
occasioni e in forme leggermente diverse. Questo spiegherebbe la diverse forme
in cui vengono riferiti insegnamenti come il “Padre nostro” (Mt 6:9-13, Lc 6:4) o le
“Beatitudini” (Mt 5:3-11, Lc 6:20-26), come anche le parabole simili ma diverse (ad
es. i “Talenti” (Mt 25:14-30) e le “Mine” (Lc 19:12-27).
10. LA PASSIONE E LA RESURREZIONE
In tutti i Vangeli gli eventi dell’ultima settimana della vita di Gesù occupano un
grandissimo spazio, poiché su questi si fonda il messaggio e la speranza del
cristianesimo:
Matteo: 8 capitolo su 28
Marco: 6 capitoli su 16
Luca: 5½ capitoli su 24.
In questa fase il parallelismo tra tutti e quattro i Vangeli è notevole. Per quel che
riguarda i Sinottici, si possono distinguere le seguenti fasi:
Matteo Marco Luca
1. L’ingresso trionfale 21:1-11 11:1-11 19:29-44
2. La purificazione del Tempio 21:12-17 11:15-19 19:45-48
3. Il fico sterile seccato 21:18-22 11:12-14,
20-26
------
4. I discorsi nel Tempio 21:23-39,
22:15–23:39
11:27–
12:44
20:1–21:4
(cfr.13:34-35)
5. Il discorso profetico sul Monte
degli Ulivi
24:1–25:46 13:1-37 21:5-38
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6. L’ultima cena 26:1-35 14:1-31 22:1-38
7. La preghiera nel giardino di
Getsemani
26:36-46 14:32-42 22:39-46
8. L’arresto, il processo e la
flagellazione
26:47–27:31 14:43 –
15:20
22:39–23:25
9. La crocifissione e il
seppellimento
27:32-66 15:21-47 23:26-56
10. La resurrezione, le apparizioni
e l’ascensione
cap. 28 cap. 16 cap. 24
È notevole il fatto che nei tre Vangeli i racconti delle apparizioni dopo la
Resurrezione sono notevolmente diverse, come se attingessero da tre fonti
diverse e selezionassero tra una grande quantità di episodi (cfr. Atti 1:3).
IL VANGELO DI GIOVANNI
Nota: I commenti dettagliati sul testo di questo Vangelo non saranno oggetto di
domande approfondite nei test, dal momento che scendono più nel dettaglio di
quanto richiederebbe un “Panorama del Nuovo Testamento”. Tuttavia si è riienuto
di fare cosa utile mettendoli a disposizione per intero, visto che già esistono, come
risorsa per una futura consultazione e uno studio più approfondito.
INTRODUZIONE
2.1 Autore e data
Che l’apostolo Giovanni, figlio di Zebedeo, sia l’autore del Vangelo fu accettato
senza discussione dalla chiesa primitiva. A sostegno di questa convinzione ci
sono delle testimonianze esterne (Ireneo, Ippolito, ecc.), ma anche delle prove
interne: Giovanni non è mai espressamente nominato, ma è facile identificarlo con
il “discepolo che Gesù amava”, il quale in 21:24 dichiara di essere l’autore del
Vangelo (cfr. anche 1:14, 19:35).
Alcuni hanno obiettato che è inverosimile che questo Vangelo sia stato scritto dal
pescatore Giovanni, Ebreo descritto in Atti 4:13 come “popolano senza istruzione”,
per i seguenti motivi:
Panorama del Nuovo Testamento
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l’influenza ellenistica che si nota nel Vangelo;
la sua ostilità nei confronti dei “Giudei” (da identificare però con le autorità
religiose, non con tutto il popolo);
la familiarità con nozioni filosofiche (ad es. nel “Prologo”).
Ma la sua lunga permanenza (secondo un’antica tradizione) ad Efeso, l’ostilità dei
capi del Giudaismo ufficiale contro il cristianesimo, e il desiderio di prendere le
distanze da esso per conquistare i Gentili, sono ragioni sufficienti per spiegare
queste caratteristiche; mentre l’intelligenza e la cultura non sono da identificare
con il grado di istruzione formale. Anche Gesù suscitò meraviglia per il suo livello
di cultura, essendo un artigiano senza istruzione formale (Gv 7:15).
La tradizione dice che il Quarto Vangelo fu composto ad Efeso da Giovanni ormai
vecchissimo – quindi verso la fine del primo secolo – per supplementare e
completare le informazioni date dai Sinottici. Gv 21:23 sembra appoggiare la tesi
della vecchiaia (si accenna in 21:19 al martirio di Pietro come già avvenuto), e le
prove interne suggeriscono che l’autore fosse a conoscenza dei Sinottici. Alcuni
dei più antichi manoscritti del N.T. che possediamo sono di questo Vangelo: il
papiro Bodmer di Ginevra (ca. 200 d.C.), che contiene quasi tutto il Vangelo, e il
frammento Rylands (Manchester) che risale addirittura al 120 ca.
2.2 Scopo, contenuto e teologia
Lo scopo dichiarato del Vangelo è evangelistico ed apologetico (20:31);
evidentemente, come Luca/Atti, si rivolge a un uditorio colto (d’altronde il solo in
grado di leggere in quei tempi!). Tuttavia, la frase “affinché crediate” potrebbe
estendersi al rafforzamento della fede di chi è già credente: infatti questo Vangelo
è da sempre particolarmente amato dai credenti per la sua ricchezza teologica e
devozionale. Uno scopo secondario potrebbe essere quello di aggiungere
informazioni non riportate dai Sinottici. In alcuni punti sembra difficile conciliare
Giovanni con la versione dei Sinottici: notoriamente nella cronologia della
Passione, ma anche per es. la purificazione del Tempio all’inizio del ministero (Gv
2:13-17, cfr. Mt 21:12-17 ecc., che comunque rappresenta probabilmente un
episodio diverso).
Il Vangelo concentra l’attenzione sul ministero di Gesù a Gerusalemme, mentre i
Sinottici privilegiano quello in Galilea. A differenza dai Sinottici, l’insegnamento è
riportato quasi interamente in forma di discorsi o dialoghi, mentre mancano le
parabole. È a volte difficile stabilire dove finisce un discorso, e dove inizia il
commento o la riflessione dell’autore (ad es. 3:11-21,27-36). I discepoli e la loro
formazione sono meno in vista che nei Sinottici.
Panorama del Nuovo Testamento
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Al centro dell’attenzione è la cristologia: “Chi è questo Gesù?” Rispetto ai Sinottici,
Egli viene presentato più nel suo aspetto divino e meno in quello umano. È
sottolineato il suo ruolo come Messia (1:41, 4:29. 11:27), ma anche e soprattutto
come “Figlio di Dio”, pre-esistente ed incarnato, e il suo sacrificio come Agnello di
Dio. C’è una serie di affermazioni che cominciano “Io sono…” (la Via, la Vita, la
Luce, la Resurrezione, la Verità, il Buon Pastore, ecc.), che esprimono aspetti
diversi della sua persona e della sua opera, ma che costituiscono anche pretese di
divinità (cfr. 8:58). I miracoli riportati nel Vangelo sono selezionati per il loro
valore di “segni”, e ciascuno serve come “parabola concreta”. Viene dato molto
risalto anche alla persona dello Spirito Santo (specialmente nei capp. 14-16).
CONTENUTO
2.3 Il Prologo: 1:1-18
Anziché iniziare dalla figura storica di Gesù, Giovanni comincia dal Cristo
eternamente preesistente (“la Parola”, greco logos, termine forse preso in prestito
dalla filosofia dell’Ebreo ellenistico Filone di Alessandria), solo in seguito
identificato con il Gesù storico (v.14). L’esordio (v.1) è chiaramente inteso a
ricordare Gen. 1:1. Anche il riferimento alla “luce” (v.5) probabilmente richiama
Gen. 1:3, anche se qui è in vista la “luce” spirituale che all’inizio del mondo
illuminava gli uomini, caduti poi nelle “tenebre” a causa del peccato (cfr. vv.5-9,
8:12, ecc.). Nel v.2 si afferma chiaramente la natura non creata della Parola, che
anzi ha partecipata alla creazione di ogni cosa fatta.
Al v.18 i manoscritti più antichi hanno non “l’unigenito figlio” ma l’insolita
espressione “l’unigenito Dio”, una straordinaria testimonianza della dottrina
cristologica della Chiesa primitiva.
2.4 Testimonianza di Giovanni Battista: 1:19-34
L’autore dà per scontato che il lettore sia già a conoscenza di Giovanni Battista e
della sua opera. È forse possibile che ci fossero rimasti ancora dei discepoli o
ammiratori di Giovanni (cfr. Atti 19:1-4). Come nei Sinottici, egli viene presentato
come il “precursore” che annuncia un altro, più grande di lui, che verrà dopo e che
battezzerà nello Spirito Santo; ma qui, Giovanni lo presenta anche come “Agnello
di Dio” (vv.29,36). Giovanni descrive la discesa dello Spirito Santo su Gesù (v.32),
ma non il suo battesimo da parte di Giovanni.
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Notiamo la ripetizione di “il giorno seguente…” (vv.29,35,43, cfr. 2:1), come per
sottolineare il fatto che si tratta di una testimonianza oculare (cfr. 1:14, 1° Gv 1:1-
3, ecc.).
2.5 I primi discepoli: 1:35-51
I Sinottici non riferiscono che Andrea e il suo compagno (forse lo stesso
Giovanni?) fossero stati già discepoli di Giovanni Battista, anzi raccontano la loro
chiamata a “lasciare le reti” al lago di Galilea come se fosse una cosa improvvisa;
qui invece ne vediamo la retroscena. Viene ancora sottolineato il carattere
transitorio del ministero di Giovanni e la superiorità di Gesù (cfr. 3:28-30). Andrea
qui riconosce subito Gesù come Messia, mentre nei Sinottici tale comprensione
sembra arrivare gradualmente e molto più tardi (Mt 16:16 ecc.).
Anche la chiamata di Simone e il conferimento del soprannome “Pietro” avvengono
in modo diverso qui rispetto ai Sinottici. È possibile riconciliare le due versioni
(qui Gesù usa il tempo futuro, come per indicare che Simone non meritava ancora
tale nome); ma Giovanni vuole sottolineare il discernimento profetico e sopran-
naturale di Gesù (cfr. 1:47-48, 2:24-25, 4:17-19 ecc.). È messo in rilievo la
“reazione a catena” della chiamata dei discepoli: questo è infatti il Vangelo che
sottolinea maggiormente l’evangelizzazione e la conversione individuale.
Episodi avvenuti mentre Giovanni Battista è ancora in libertà
2.6 Il miracolo di Cana: 2:1-12
È significativo che questo “primo miracolo” del ministero di Gesù viene compiuto a
favore della gioia di una festa di nozze: così Gesù benedice ed approva
l’istituzione del matrimonio e i festeggiamenti che l’accompagnano. Non è chiaro
se nelle parole di Maria (v.3) sia implicito un invito a fare qualcosa, o che cosa
(anche se la risposta di Gesù lo fa pensare). Maria ricordava certamente le
straordinarie promesse date alla sua nascita e probabilmente capiva che Egli stava
per iniziare il suo ministero pubblico. La risposta di Gesù (v.4) sembra un rifiuto
di ingerenze in cose che riguardano solo Lui e suo Padre: per questo chiama Maria
non “mamma”, ma “donna” (termine che comunque non comporta una mancanza
di rispetto).
Le “due o tre misure” (v.6) per 6 recipienti fanno 6-7 ettolitri in tutto: questo, e
l’ottima qualità del vino (v.10) sono “segni” della grandezza delle risorse divine.
Sembra che non tutta l’acqua fu mutata in vino ma solo quanto ne fu attinto per i
convitati, dal momento che “i servitori... avevano attinto l’acqua” (v.9). Il fatto che
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si parli di “questo primo dei suoi miracoli” (v.11) toglie ogni credibilità ai racconti
di “miracoli d’infanzia” nei cosiddetti “Vangeli apocrifi”.
2.7 Prima visita a Gerusalemme. La purificazione del Tempio: 2:13-25
L’azione di Gesù costituisce una pretesa di autorità sul Tempio (“la casa del Padre
mio”, v.16), ed è un esempio di “ira senza peccato” (cfr. Ef. 4:26). Le parole
enigmatiche del v.19 divennero base dell’accusa contro Gesù al suo processo (Mc
14:58 ecc.), e furono comprese dagli stessi discepoli solo dopo la Resurrezione
(v.22). vv.23-25: non si dànno informazioni dettagliate sui “miracoli” compiuti
durante questo soggiorno, ma il risultato fu che “molti credettero nel suo nome”.
Gesù, viceversa, “non si fidava di loro”: il verbo è lo stesso, seppure con
costruzione diversa. Implicitamente, si dice che anche in chi crede (magari in
modo superficiale) si può annidare ancora il male.
2.8 Incontro con Nicodemo: 3:1-21
Mentre di solito troviamo i Farisei ostili a Gesù, eccone uno – un “capo” e membro
del Sinedrio (7:50) – che vuole interrogarlo seriamente. Il suo nome greco indica
una provenienza ellenistica. Viene “di notte” – si suppone per non farsi vedere – e
riconosce Gesù come “un dottore venuto da Dio” in base ai “segni”.
Gesù però non aspetta neanche le sue domande, ma interviene con l’affermazione
radicale del v.2. “Di nuovo” si può tradurre anche “dall’alto”: entrambi i sensi
vanno benissimo, ma Nicodemo sembra capire il primo (v.4). Notiamo bene che
Gesù dice che è necessario nascere di nuovo per vedere o entrare nel Regno, non
che sia sufficiente!
v.5: si discute se “acqua” qui si riferisca o meno al battesimo. Comunque l’acqua
parla di purificazione e di rinnovamento (il simbolismo del battesimo stesso). I
due elementi sono abbinati ad es. in Ezech. 36:25-27.
“Il vento” (v.8) traduce, non la parola comune per “vento” (anemos), ma quella per
“spirito” (pneuma). Comunque, in ebraico la stessa parola (ruach) ha entrambi i
significati. Gesù parla dell’opera dello Spirito come qualcosa di misterioso,
incomprensibile in termini umani, ma che produce effetti percettibili. Nonostante
questo, fa parte delle “cose terrene” (v.12).
È incerto se il discorso di Gesù termini al v.12, al v.15 o al v.21. La “discesa” di cui
al v.13 deve essere l’Incarnazione; ma qual è la “salita” (al tempo passato)? Se è
Gesù che parla, potrebbe riferirsi a “discese” e “salite” prima dell’Incarnazione
(pensiamo alle apparizioni dell’“Angelo del Signore”); oppure vuol dire: “Nessun
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[uomo] è salito in cielo; solo io ci sono stato, che ne sono disceso”. Le parole “che
è nel cielo” non si trovano nei MSS più antichi.
Notevole è la definizione del “giudizio” (krisis) al v.19: Dio non giudica
arbitrariamente, ma prende atto della decisione (sentenza) di ogni uomo in
relazione a Sé. Di nuovo il tema “luce/tenebre” (cfr. 1:4-9).
2.9 Gesù e Giovanni Battista: 3:22-36
Si vede qui la “staffetta” tra Giovanni e Gesù. Giovanni è ben conscio del suo ruolo
di “precursore” e si rallegra del successo dello “sposo” (vv.29-30).
2.10 Gesù e la Samaritana: 4:1-42
La donna si meraviglia (v.9) perché Gesù non tiene conto del duplice pregiudizio
giudaico nei confronti delle donne e dei Samaritani. Ma la richiesta di Gesù è un
pretesto per attaccare discorso con una persona bisognosa. Evitando le sterili
polemiche religiose (si noti “Giacobbe nostro padre”, v.12 e il v.20!) parte
dall’immediato interesse materiale (v.15) e fa uso dei doni di rivelazione (v.18) per
suscitare meraviglia e rispetto, spostando il discorso sempre dalla “religione” alla
coscienza e all’interiorità (vv.23-24). Questa donna è la prima persona cui Gesù si
annuncia apertamente come il Messia (v.26), e ne diventa subito “testimone”
(vv.28-30).
Con i discepoli (vv.31-38) Gesù fa un discorso sul “lavoro” spirituale: essi devono
seguire il suo esempio (v.34), desiderando compiere la volontà di Dio più dello
stesso cibo. L’accoglienza dei Samaritani (39-42) non incontra pregiudizi da parte
Sua.
2.11 Secondo miracolo in Galilea: 4:43-54
Gesù ritorna in Galilea. L’“ufficiale reale” non può essere identificato con il
“centurione” dei Sinottici, ma è un altro che vive fuori della religiosità “ufficiale”.
La risposta di Gesù (v.48) indica l’importanza del miracolo come “segno” per
portare alla fede, e non solo come risposta al bisogno umano. Nondimeno,
l’urgenza dell’uomo (v.49) vince le resistenze di Gesù, facendo appello alla Sua
compassione. Il miracolo mette in evidenza la natura della fede che crede senza
ancora vedere (v.50), e porta alla fede più importante (v.53), quella nella persona
di Gesù, non più soltanto nella sua opera.
Panorama del Nuovo Testamento
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2.12 Guarigione del paralitico a Betesda: 5:1-16
Non si sa per quale festa giudaica Gesù va di nuovo a Gerusalemme. La vasca con
i suoi cinque portici, una volta citata come esempio di errore storico in questo
Vangelo, è stata poi scoperta dagli archeologi. I vv.3b-4 mancano nei MSS più
antichi e sono probabilmente il commento di un copista.
v.6: la domanda di Gesù sembra superflua, ma era possibile che, dopo tanti anni,
l’uomo stesse lì più per abitudine che con l’effettiva speranza o desiderio di
tornare sano. (Talvolta anche noi faremmo bene a rivolgere la stessa domanda ai
malati, prima di pregare per una guarigione…) Evidentemente è per una precisa
rivelazione dal Padre (cfr. vv.19-20) che Gesù si rivolge a quest’uomo in
particolare, fra i tanti malati presenti.
vv.9-10,16: come nei Sinottici, il sabato diventa uno dei principali motivi di
conflitto tra Gesù e le autorità religiose. v.14: come in altri casi (ad es. Mc 2:3-12),
si fa un collegamento tra malattia e peccato. Ma in questo caso la guarigione non
presuppone il ravvedimento, piuttosto mira a produrlo.
2.13 Discorso di Gesù: 5:17-47
vv.17-18: notiamo la radicalità di “chiamare Dio suo Padre”, nome che Gesù dice
anche a noi di usare. Nei vv.19-30, notiamo il meraviglioso equilibrio tra la
subordinazione del Figlio al Padre (vv.19,30) e la sua uguaglianza al Padre (vv.20-
23, 26). Il v.24 e una “classica” affermazione della realtà della conversione,
effettiva già al presente: senza fede in Cristo, anche chi vive è in realtà morto, ma
viene il tempo in cui questa realtà si manifesterà apertamente con la resurrezione
e il giudizio (vv.25-29).
La seconda parte del discorso riguarda i testimoni a favore di Gesù, cioè: a)
Giovanni Battista (vv.32-35); b) le opere potenti (v.36); c) il Padre stesso, tramite
queste opere (vv.37-38); d) le Scritture (v.39).
2.14 La moltiplicazione dei pani; Gesù cammina sul mare: 6:1-21
È l’unico miracolo riferito in tutti e quattro i Vangeli (il che potrebbe riflettere la
sua popolarità come soggetto di predicazioni nella chiesa primitiva). La scena è di
nuovo in Galilea. Solo Giovanni riferisce che l’entusiasmo della folla arrivava al
punto di voler dichiarare Gesù re (v.15). Come in Mt e Mc, il racconto di Gesù che
cammina sul mare segue immediatamente dopo la moltiplicazione dei pani.
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2.15 Il pane della vita: 6:22-71
Solo Giovanni riferisce questo lungo discorso, che prende spunto dal miracolo
appena raccontato. Gesù mette in contrasto l’atteggiamento della folla, che
ricerca solo il vantaggio materiale, con quello giusto di ricercare prima il bene
eterno (vv.26-27). Al v.35 c’è il primo dei grandi “Io sono” di questo Vangelo. Gesù
stesso è il “segno”, ma anche dopo averLo vista, i più non credono (cfr. vv.30,36),
mentre nei vv.39,40 Gesù afferma di avere potere sulla stessa morte.
Al v.51 Gesù introduce un nuovo concetto: quello che “il pane… è la mia carne”,
cioè la propria vita data in sacrificio. Naturalmente i Giudei si ribellano al pensiero
di dover “mangiare la sua carne e bere il suo sangue”: ricordiamo che era vietato
loro anche il sangue degli animali, per non parlare di questo “cannibalismo”! Però
è vero che c’è una sorta di “cannibalismo”, in quanto Gesù doveva morire perché
noi avessimo la vita. Non è certo che ci sia qui un riferimento alla Cena del
Signore, come suggeriscono gli interpreti cattolici, anche se è probabile che ciò
fosse nel pensiero di Giovanni quando scrive; nel v.63, Gesù implicitamente
identifica “il pane” che dà vita con “le parole”, a scanso di qualsiasi interpretazione
di tipo materialistico.
Alla conclusione del discorso, molti – anche se definiti “discepoli” – si ritirano e
non seguono più Gesù (vv.60-66). Anche i Dodici mostrano segni di turbamento,
ma, avendo compreso quale sia la fonte della vita eterna, non hanno altra scelta,
per quanto sia alto il prezzo del seguire Gesù (vv.67-69).
2.16 Gesù e i suoi fratelli: 7:1-9
Nel cap. 2 abbiamo già visto una certa incomprensione nella relazione tra Gesù e
la madre; qui è illustrata quella con i fratelli, di aperto scherno e ostilità. vv.3-4:
essi non negano i miracoli, ma non comprendono le motivazioni di Gesù,
suggerendo che egli cerchi il riconoscimento pubblico e la popolarità. Nel v.7,
Gesù smentisce questa idea con una certa durezza. La “testimonianza” alla quale
si riferisce è quella della vita e della presenza, più che delle parole.
2.17 Alla festa dei Tabernacoli: 7:10-52
Il v.17 è un versetto di grande importanza: la chiave della vera conoscenza
spirituale – quella che si ha per rivelazione – è la volontà. v.27: si discute se
Gesù possa essere o no il Messia. La tradizione sull’origine nascosta e misteriosa
del Messia era basata soprattutto sui libri apocrifi (1° Enoc, 2° Esdra, ecc.).
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vv.37-39: nell’ultimo giorno della festa si celebrava un rito solenne in cui un
sacerdote portava solennemente dell’acqua e la versava in dei vasi posti
sull’altare. Come in 4:10, Gesù prende spunto da questo rito per parlare
dell’acqua che disseta veramente; ma questa volta aggiunge che non solo
disseterà chi ne beve, ma diventerà anche un “fiume” per dissetare gli altri. Non è
chiaro a quale “Scrittura” egli si riferisce: la più vicina sarebbe Is. 58:11.
v.42: Giovanni dà per scontato che i suoi lettori conoscono il racconto della
Natività, che non è riferita nel suo Vangelo. Il riferimento è a Michea 5:1.
2.18 La donna adultera: 7:53-8:11
Questo brano si trova in uno solo dei MSS più antichi. Anche alcuni di quelli più
tardivi che l’includono lo segnano con un asterisco per esprimere dubbi; alcuni lo
mettono alla fine del Vangelo, altri dopo 7:36 o dopo Lc 21:38. Comunque è
chiaro che rappresenta una tradizione antica e non ci sono ragioni decisive per
negare la sua storicità, anche se probabilmente non faceva parte del Vangelo
originale di Giovanni. Da Girolamo e Agostino (IV sec.) impariamo che era
presente in alcuni MSS del loro tempo e che anche allora si discuteva sulla sua
autenticità. Lo stile è leggermente diverso da quello abituale di Giovanni, e gli
avversari di Gesù sono qui chiamati “gli scribi e i farisei”, espressione frequente
nei Sinottici ma mai usata altrove da Giovanni, il quale parla solitamente de “i
Giudei”.
I Farisei, come in altre occasioni, cercano di mettere Gesù in difficoltà con una
domanda a trabocchetto. Notiamo anche che, a dispetto della Legge (Deut.
22:22), volevano lapidare soltanto la donna e non anche l’uomo preso con lei!
Nella risposta di Gesù è implicita la pretesa di superiorità sulla Legge e di avere
l’autorità di perdonare i peccati. Non va comunque intesa – come fanno alcuni –
come espressione di indulgenza verso ogni forma di peccato.
2.19 Gesù e il Padre: 8:12-59
v.12: il secondo “Io sono” di Gesù: cfr. 1:4-9.
La menzione del Padre (v.18) porta a una discussione sull’origine e identità di
Gesù (vv.21-29). vv.31-36: Gesù parla del legame essenziale tra verità e libertà. È
necessario non solo conoscere la parola di Gesù, ma anche “perseverare” in essa,
cioè nel metterla in pratica (cfr. Mt 7:24-27). Gli ascoltatori rispondono vantandosi
della loro discendenza da Abramo. (Ricordiamo comunque che, nel senso politico,
gli Israeliti erano stati “schiavi” in Egitto per 400 anni, poi in Babilonia, e ora
Panorama del Nuovo Testamento
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stavano sotto il dominio romano!) Nel v.34, Gesù espone la condizione di chi
commette il peccato: è questa la vera schiavitù.
I vv.35-36 possono avere diverse interpretazioni:
1) il “figlio” è Gesù, il solo ad avere “diritto di residenza” nella casa del Padre,
quindi l’unico autorizzato a liberare gli “schiavi” e farli vivere nella casa di suo
Padre. Ma il “padrone” degli schiavi è il peccato (v.34), così non è chiaro per
quale motivo Gesù avrebbe il diritto di liberarli: deve essere in questo caso
sottintesa la sua vittoria sul “padrone” (cfr. Mc 3:27);
2) lo “schiavo” e il “figlio” nel v.35 sono due diverse condizioni di peccato. Alcuni
peccano contro voglia, perché ci sono costretti (cfr. Rom. 6:16-22, 7:14-23);
essi possono essere liberati da Gesù in quanto Figlio di Dio. Altri sono invece
“figli” del peccato (cfr. v.44): essi peccano volentieri, per libera scelta. Per loro
non c’è possibilità di lasciare quella “casa” (fino a quando non si ravvedono,
cessando così di essere “figli”). È questa dunque l’interpretazione da preferire.
vv.37-44: continua il discorso sulla “paternità”. Gesù insegna un principio
importante: i figli si riconoscono per la loro somiglianza con il Padre
(vv.39,41,42,44). Questo brano smentisce l’idea popolare, incoraggiata dal
cattolicesimo liberale, che “sono tutti figli di Dio”. Nel v.41 c’è forse
un’insinuazione relativa alle “voci” che circolavano sulla nascita di Gesù; ma può
anche riferirsi al senso spirituale di “fornicazione” come “infedeltà a Dio”. L’ostilità
dei Giudei arriva al culmine con la tentata lapidazione (v.59).
2.20 Guarigione dell’uomo nato cieco: cap. 9
Anche questo miracolo ha carattere di “parabola concreta”, come questa volta
spiega esplicitamente Gesù (vv.39-41). Come altre volte in questo Vangelo, è Gesù
che prende l’iniziativa della guarigione (cosa rara nei Sinottici). vv.2-3: a
differenza dal cap. 5, questa volta l’infermità non è risultato del peccato. vv.8-38:
le vivaci discussioni sul miracolo – anche questa volta fatta di sabato (v.14) –
portano il guarito a capirne sempre meglio il significato e a prendere posizione
sulla persona di Gesù. vv.39-41: come in 3:19, il “giudizio” è soprattutto una
“separazione”. La venuta di Gesù sconvolge l’apparente ordine morale: cfr. Mt
21:31-32.
2.21 Il buon pastore: 10:1-21
Questo discorso continua senza interruzione dal capitolo precedente, per cui
sembra che Gesù voglia proporre un contrasto tra se stesso e i Farisei, cattivi
pastori (cfr. Ezech. 34) e guide cieche (Mt 23:16). Ma i principi qui esposti si
applicano ad ogni vero pastore, che è tale perché partecipa al ministero pastorale
di Gesù come Suo delegato.
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Il discorso, sebbene proposto in forma diretta (“Io sono…”), ha molte delle
caratteristiche di una parabola, in quanto non è possibile attribuire un significato
a ogni singolo dettaglio. vv.3-5: si sottolinea il fatto che le pecore riconoscono il
vero pastore e lo seguono volentieri, mentre il “ladro e brigante” riesce a
impossessarsene soltanto con la forza o con l’inganno. v.8: il riferimento deve
essere ai falsi Messia, non ad es. ai profeti dell’A.T. v.10: “il ladro” è ogni falso
pastore, ma è anche il capostipite di tutti gli impostori, il Diavolo. vv.11-15: si
propone un altro contrasto, quello col “mercenario”, che custodisce le pecore solo
per guadagno (sia materiale, sia per altri tipi di tornaconto personale: stima,
posizione, fama, ecc.). “Dà la sua vita” (vv.11,15,17): il verbo greco (lo stesso nei
tre vv.) sottolinea il carattere volontario del sacrificio di Gesù, pensiero sviluppato
ancora nel v.18. La stessa prontezza a sacrificare (“mettere da parte”) la propria
vita caratterizza ogni vero pastore.
Le “altre pecore” (v.16) devono essere i Gentili. Sarà così abbattuto il “muro di
separazione” tra Giudeo e Gentile (cfr. Ef. 2:14).
2.22 Alla festa della Dedicazione: 10:22-42
Questa festa (ebr. hanukkah) – solo qui menzionata nelle Scritture canoniche – fu
istituita da Giuda Maccabeo (1° Macc. 4:56) per commemorare il ripristino del
Tempio dopo la profanazione operata da Antioco Epifane (164 a.C.), e aveva luogo
in novembre o dicembre (v.22), due mesi e mezzo dopo quella dei Tabernacoli. Il
fatto che avesse luogo d’inverno, cioè nella stagione piovosa, spiega il perché
Gesù stesse sotto il portico di Salomone (v.23).
v.26: Gesù riprende il tema del pastore e delle pecore. Chi non riconosce la voce
del Pastore e non lo segue, dimostra di non far parte del suo gregge. “La mia
mano… la mano del Padre” (vv.28-29) prepara la strada all’affermazione seguente:
“Io e il Padre siamo uno” (lett.: “una sola cosa”). Quest’affermazione di divinità è
chiaramente compresa dai Giudei (vv.31-33). vv.34-36: la citazione è dal Sal. 82:6
(“legge” qui deve indicare tutta la Scrittura). Gesù afferma (v.35) l’eterna validità e
inerranza delle Scritture. Il brano citato chiama “dèi” gli uomini rivestiti di autorità:
se Dio dà loro questo titolo, quanto più vi ha diritto colui che Dio ha inviato dal
cielo?
2.23 Lazzaro risuscitato: 11:1-46
Questo è l’ultimo e il più grande dei sette miracoli compresi nel Vangelo di
Giovanni, e quello che occupa maggiore spazio. Costituisce dunque un punto
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culminante, così come il suo “messaggio” – la vittoria di Gesù sulla morte – è
quello centrale del Vangelo. Come nei casi della figlia di Jairo (Mt 9:23 seg. e
parall.) e del figlio della vedova di Nain (Lc 7:11-17), nonché i simili miracoli
operati dai profeti dell’A.T., il ritorno in vita non costituisce una “resurrezione” nel
senso pieno, di cui Gesù sarà la “primizia” (1° Cor. 15:20), ma piuttosto una
guarigione spinta agli estremi limiti: i beneficiari di questi miracoli poi
invecchiarono e morirono come tutti, e attendono anch’essi la resurrezione finale
dei morti.
v.2: Giovanni presuppone una certa familiarità con questi personaggi e con i fatti
con loro connessi: l’unzione dei piedi di Gesù è raccontata solo nel cap. 12. v.4:
questa affermazione di Gesù sarà poi apparentemente smentita dai fatti. v.6: la
N.Riv.omette il paradossale “dunque” (per il quale cfr. v.15). Ma, anche se Gesù
fosse partito subito, non sarebbe comunque arrivato prima della morte di Lazzaro
(v.17). vv.9-10: c’è un tempo giusto per ogni cosa, e chi cammina secondo l’orario
stabilito dal Padre non cade in errori né in pericoli.
vv.20-22: Marta, la sorella più “attivista”, viene incontro a Gesù. Le sue parole
suggeriscono una speranza che non osa esprimere apertamente. Gesù risponde
puntando l’attenzione sulla realtà di fondamentale importanza, quella della
resurrezione finale e della vita eterna (vv.23-27).
v.32: anche Maria incontra Gesù con le stesse parole della sorella, che forse
riflettono dunque dei discorsi fatti tra di loro. Gesù, sebbene mosso unicamente
dalla volontà del Padre, è toccato dall’emozione dei suoi amici (vv.33,35,38). Il
verbo tradotto “fremere” (vv.33,38) significa letteralmente “indignarsi”: Gesù
considera la morte come un “nemico” (cfr. 1° Cor. 15:26). Il suo comando della
situazione fa contrasto con l’impotenza di tutti gli altri (vv.19,31,33,37). È
significativo che egli non prega, ma ringrazia e comanda (vv.41-43): la battaglia
era stata già vinta nella preghiera.
2.24 Reazione delle autorità: 11:47-57
Il Sinedrio non nega la realtà dei miracoli (v.47), ma invece di credere in Gesù, fa
un calcolo di convenienza politica (v.48). Caiafa (vv.49-50) propone con molto
cinismo, anche se in maniera velata, la sua eliminazione; questo è un raro caso di
profezia inconsapevole (vv.51-52). v.52: si anticipa ancora l’estensione del
Vangelo ai Gentili. È notevole che gli eletti sono chiamati “figli di Dio” ancora
prima di credere: cfr. 3:21.
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2.25 L’unzione in casa di Lazzaro: 12:1-12
Questo episodio, nonostante le molte somiglianze, non può essere lo stesso di Lc
7:36-50, che avviene in casa di “Simone il fariseo” da parte di una donna
peccatrice. È invece chiaramente lo stesso episodio di Mt 26:6-13 e Mc 14:3-9,
anche se là si parla della casa di “Simone il lebbroso”, la donna non è nominata, e
si descrive l’unzione del capo e non dei piedi. Il valore del profumo è notevole: il
denarius era la paga giornaliera di un operaio. Le obiezioni allo “spreco”, in Mt e
Mc attribuite ai “discepoli” in generale, qui vengono da Giuda Iscariota in
particolare, e sono attribuite alla sua avarizia perché usava rubare. Giuda viene
così proposto come un esempio di quanto scritto in Lc 16:10-13.
2.26 Ingresso trionfale in Gerusalemme: 12:12-19
Il grido della folla viene dal Sal. 118, uno dei “canti dei pellegrinaggi” cantati dai
Giudei che si recavano a Gerusalemme per le grandi feste. È soprattutto il
riconoscimento popolare di Gesù come “Re d’Israele” a mettere in allarme i Farisei
(cfr. 11:48). Il motivo principale di questo momento di successo e di popolarità
sta nei miracoli, e particolarmente quello di Lazzaro (vv.17-19).
2.27 Gesù e i Greci. Annuncio della Passione: 12:20-50
I “Greci” devono essere proseliti al Giudaismo o “timorati di Dio”; il loro incontro
con Gesù anticipa l’estensione del Vangelo al di fuori dei limiti del Giudaismo
etnico. Si rivolgono a Filippo, la cui origine in una città agli estremi confini
(bilingui) della Galilea, insieme con il nome greco, lo rendono un intermediario
naturale. Il principio del “granello di frumento” (vv.24-25) è applicato non solo a
Gesù stesso, che sta per morire, ma anche in senso più generale; il v.25 si trova
anche nei Sinottici. Il v.27 sembra un “pensiero espresso ad alta voce”, non
indirizzato alle persone presenti.
v.31: la destituzione del “principe di questo mondo” avviene con la crocifissione
(Col. 2:15), ma si concretizza poi progressivamente (1° Cor. 15:24-28). Così anche
del “giudizio di questo mondo”, visto come sistema essenzialmente malvagio.
“La folla” (vv.35,37) ora si volge contro Gesù, nonostante i miracoli. Is. 6:10 è
citato anche in tutti i Sinottici nel contesto della parabola del Seminatore. È
notevole il v.41: la visione di Isaia 6 della gloria di Dio nel tempio è qui descritta
come visione di Gesù. La chiusura del ministero pubblico di Gesù ribadisce ancora
i temi della luce (vv.35-36,46) e del giudizio (vv.47-48).
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2.28 Gesù lava i piedi ai discepoli: 13:1-17
Questo Vangelo accenna appena alle circostanze della “cena” (v.2): di nuovo
sembra presupporre una conoscenza dei Sinottici, o almeno degli avvenimenti
raccontati in essi. Viene sottolineata la consapevolezza di Gesù: “sapendo…
sapendo” (vv.1,3), e il suo amore per i discepoli (v.1).
Il lavaggio dei piedi è riferito solo in questo Vangelo. Gesù svolge un servizio
normalmente riservato al servo più umile, sia come espressione dell’amore (v.1),
sia come esempio ai discepoli (v.15). È notevole il fatto che egli lavi i piedi anche a
Giuda Iscariota, pur sapendo già che questi stava per tradirlo (v.11): anche per
noi, dunque, il servizio non è determinato dal merito di chi lo riceve, ma dal
comando di Gesù di imitare il Suo esempio. Gesù qui ci insegna la vera umiltà, che
non consiste nel negare i doni o la dignità che abbiamo ricevuto da Dio (v.13-14),
ma nel prendere la posizione di un servo anche nei confronti degli inferiori (cfr.
Fil. 2:5-8, Mc 10:42-45).
Il lavaggio dei piedi ha anche un significato simbolico, ancora nascosto ai
discepoli (v.7): nonostante il “lavaggio” o purificazione completa all’inizio della
vita cristiana, continuiamo ad aver bisogno di una “pulizia” regolare da parte di
Gesù. Questo è però un fatto interiore e spirituale, non determinato da riti
esteriori (v.10).
2.29 Annuncio del tradimento: 13:18-30
Gesù cita il Sal. 41:9 – che in primo luogo si riferisce al tradimento di Davide da
parte di un suo intimo amico (forse Ahitofel, 2° Sam. 17) – come una profezia
riferita a Sé. Egli parla della preconoscenza che ha per dare un’ulteriore prova del
fatto che è più che un uomo normale (v.19): di nuovo l’espressione greca è “Io
sono”. Il v.20 sembra anticipare la sua partenza e il conseguente affidamento della
missione ai discepoli: aveva usato le stesse parole nel mandarli in missione in Mt
10:40.
L’identità del traditore non viene annunciata apertamente, ma rivelata
privatamente a Giovanni stesso (vv.26, 28). Il gesto di dare il boccone intinto nella
salsa del piatto comune era un segno d’onore e indica l’amore che Gesù continua
a nutrire per Giuda Iscariota (cfr. v.1). Ma Giuda rifiuta anche quest’ultimo appello
e così fa posto perché “Satana entri in lui” (v.27). Gesù ne è cosciente e perciò lo
invita ora a non perdere più tempo (v.27). La menzione della “notte” simboleggia il
male e le azioni vergognose che si nascondono al buio: cfr. 3:19-21, 1° Tess. 5:4-
8.
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2.30 Il discorso dell’Ultima Cena: 13:31 – 16:33
Il comandamento dell’amore (13:31-38): Per preparare i discepoli alla sua
partenza, Gesù dà il “nuovo comandamento” dell’amore (vv.34-35): “nuovo” perché
presenta come norma e misura il Suo amore, non più quello che ognuno ha per se
stesso (Lev.19:8).
Gesù consola i discepoli (14:1-11): I discepoli si erano turbati alla predizione del
tradimento da parte di uno di essi (13:21-28), e ancora di più a quella
dell’imminente e misteriosa partenza di Gesù e del rinnegamento di uno dei più
rappresentativi tra di loro. Perciò Gesù ora li rassicura, esortandoli ad avere fede
nel Padre e in lui e puntando l’attenzione sulla loro futura riunione (vv.2-3). Nella
famosa affermazione del v.6, l’attenzione è ora puntata sulla “via”; ma chiunque
viene a Gesù lo scopre inizialmente in uno o in un altro di questi tre ruoli. Nei
vv.7-11, insiste ancora sulla piena identificazione che esiste tra se stesso e il
Padre.
La promessa dello Spirito (14:12-31): Gesù promette ai credenti la stessa potenza
ha manifestato lui, e delega loro la sua missione (v.12). I due mezzi per accedere
a questa potenza sono la preghiera (vv.13-14) e lo Spirito Santo (vv.15-17), che
finora e stato “con” loro (perché in Gesù), ma presto sarà “in” loro (v.17). È qui
descritto soprattutto come Spirito di rivelazione che manifesterà loro la realtà e la
presenza invisibile di Gesù e del Padre (vv.18-23); rivelerà non solo queste cose,
ma anche le verità che riguardano Gesù (v.26).
L’ultima frase (v.31) è stata interpretata da alcuni come indicazione che a questo
punto Gesù e i discepoli escono dalla stanza e si avviano verso il Getsemani: il
discorso della vite sarebbe allora suggerito dai vigneti per i quali sarebbero
passati. Ma è meglio vederla come anticipazione dell’effettiva uscita dopo il cap.
17: cfr. 18:1.
La vite e i tralci (15:1-17): questo famoso discorso allegorico inizia con un altro “Io
sono” (vv.1,5). L’immagine del popolo di Dio come vite o vigna si trova diverse
volte nell’A.T. (Is. 5:1-7; Ez. 15:1-6, 19:10-14; Sal. 80:8-16, ecc.). Qui però Gesù
stesso è la vite, e i “tralci” hanno vita perché innestati in Lui. Ma, se il discepolo è
un tralcio, Gesù è tutta quanta la vite: radici, tronco, tralci, foglie e frutto! (cfr. il
discorso della Chiesa come suo Corpo).
v.2: come in tanti altri brani del NT, si sottolinea il fatto che il fine del Vangelo e
quello di produrre frutto: il tralcio che non ne fa viene reciso e buttato via (nel
caso presente, ci può essere qui un riferimento a Giuda Iscariota), mentre anche
Panorama del Nuovo Testamento
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quello che fa frutto viene potato (un esempio sarà Pietro da qui alla Pentecoste). Il
tralcio non compie sforzi per fare frutto (principio delle opere), ma resta
semplicemente innestato nella vite e il frutto cresce da sé (principio della grazia e
dello Spirito). Un aspetto del “portare frutto” particolarmente notato da Gesù è la
preghiera efficace, frutto dell’unione con Gesù e con le Sue parole (v.7); e un
aspetto del “dimorare in lui” particolarmente sottolineato è quello di “dimorare nel
suo amore” (vv.9-10), il che porta alla ripetizione del “nuovo comandamento”
(vv.12-13,17).
Infine Gesù annuncia, come termine del processo del discepolato, un nuovo tipo
di rapporto con i discepoli: “non più servi, ma amici” (vv.14-15) e conferma la loro
elezione per grazia, non per loro scelta umana. È questa la garanzia che sarà
raggiunto lo scopo di portare frutto per l’eternità (v.16): di nuovo egli sottolinea la
parte del “frutto” rappresentata dalla preghiera.
Persecuzioni nel mondo (15:18 – 16:4): “Il mondo” è qui un sistema ostile a Dio,
controllato da Satana (12:31), al quale partecipa volentieri la maggior parte
dell’umanità. I discepoli non devono perciò scoraggiarsi per l’indifferenza o
l’ostilità dei più, come se indicasse una mancanza da parte loro, perché Gesù
stesso ha incontrato la stessa reazione (v.20). Nel v.22 egli afferma con chiarezza
che il giudizio tiene conto della luce ricevuta: ora che Gesù è venuto, dando
abbondanti prove di essere venuto da Dio (v.24) e ha dato agli uomini la
possibilità di riconciliarsi con Dio e di essere liberati dalla schiavitù del peccato
(8:32-36), chi non se n’è valso non ha più scusa per il propria peccato.
Nel v.25, Gesù cita il Sal. 35:19 o 69:4, che chiama di nuovo “Legge”, anzi “la loro
legge”, per sottolineare il fatto che la riconoscono ma non l’osservano. Anche qui
egli cita delle parole scritte all’origine da Davide per descrivere una propria
esperienza, e che a sua insaputa parlavano profeticamente del Cristo. Nel v.26
ripete ancora la promessa dello Spirito, questa volta come “testimone” di Gesù, sia
con le opere potenti, sia con la convinzione portata nei cuori degli ascoltatori (cfr.
16:8). In 16:1-4, ritorna sul tema delle persecuzioni, aggiungendo che queste
avverranno, da parte del “mondo”, in nome della religione: parola adempiuta
prima con Saulo (Atti 9:1-2), poi durante tutta la storia del cristianesimo
(Inquisizione ecc.).
L’opera dello Spirito Santo (16:5-15): Il cuore di questo brano è il v.7: “È utile per
voi…”, ossia “è vantaggioso”, “vi conviene”. La venuta dello Spirito non solo
compensa la partenza di Gesù, ma addirittura è da preferirsi alla Sua presenza
continuata. Questo è perché lo Spirito non sarà soggetto a nessuno dei limiti
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imposti dalla natura umana di Gesù, ma potrà agire in ogni luogo
contemporaneamente, non si stancherà, ecc.; inoltre, sarà dentro i discepoli e non
solo vicino a loro (14:17). vv.8-11: qui si parla dell’opera dello S.S. nei confronti
del mondo. Egli convincerà gli uomini increduli di essere peccatori, soprattutto del
peccato supremo di rifiutare di abbandonarsi con fede all’unico Salvatore (cfr.
6:28-29, 12:48); della giustizia di Gesù, dimostrata dalla sua accoglienza presso il
Padre; e della certezza del giudizio, dimostrata dal trionfo della Resurrezione e
dalla vita di Cristo nella Chiesa. Nei vv.12-15, invece, si parla della Sua opera nei
credenti: di nuovo è sottolineata la rivelazione di verità ancora nascoste (cfr. ad
es. Ef. 3:2-6).
La morte, la resurrezione e la glorificazione di Gesù (16:16-33): Di nuovo Gesù
parla della sua imminente partenza, aggiungendo però che la separazione sarà
seguita da una gioiosa riunione (vv.20,22), quando potranno capire cose finora
incomprensibili (vv.23a, cfr. Atti 1:3). Ripete ancora le grandi promesse che
riguardano la preghiera (vv.23b-27). Chiude però il discorso avvertendoli dello
smarrimento che proveranno durante i giorni della sua assenza (v.32, cfr. cap.
21), e con l’annuncio della sua vittoria come fonte della pace in cui potranno
vivere pure in mezzo alle difficoltà (v.33).
2.31 La preghiera per i discepoli: cap. 17
Dopo aver parlato con i discepoli, Gesù chiude il suo ministero terreno con questa
grande preghiera, in parte preparazione alla Croce (vv.1-5), in parte intercessione
per i discepoli attuali (vv.6-19) e per tutti i futuri credenti (vv.20-26).
v.2: di nuovo si sottolinea la grazia e l’elezione divina come base della
conversione. v.3: è l’unica definizione biblica di “vita eterna”, della quale Gesù
mette in rilievo non la durata, ma l’essenza: conoscere (essere in unione con) Dio
(Padre e Figlio). vv.4-5: la glorificazione è reciproca: il Figlio glorifica il Padre con
l’ubbidienza e il compimento della missione; il Padre glorifica il Figlio esaltandolo
alla propria presenza (cfr. Fil 2:5-11).
Il “nome” (vv.6,26) non è una parola, ma la Persona (cfr. Is. 30:27). v.9: Gesù inizia
fin da ora quella che sarà la sua principale occupazione d’ora in poi (Ebr. 7:25,
Rom. 8:34). La sua preghiera è per la loro protezione (vv.11,15), unità (v.11) e
santificazione (vv.17,19).
La preghiera si estende poi a tutti i futuri credenti (vv.20-26), sottolineando di
nuovo l’esigenza dell’unità (vv.21-23), che sarà la dimostrazione più convincente
del fatto che Gesù è realmente venuto dal Padre.
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2.32 Il tradimento e l’arresto: 18:1-11
Giovanni non parla della lotta di preghiera nel giardino, ma c’è un riferimento ad
esso nel v.11. vv.4-5: Gesù non aspetta che Giuda lo individui, né tantomeno cerca
di fuggire, ma si fa avanti e si autoidentifica.
v.6: perché cadono a terra? Sembra sotto la potenza del Nome pronunciato da
Gesù: “Sono io” (ego eimi) è la stessa espressione altrove tradotta “Io sono”, cioè il
nome di Dio. Questo fatto sottolinea ancora il fatto che Gesù non viene
sopraffatto, ma si offre volontariamente all’arresto e alla morte. Tutti i Vangeli
riferiscono il gesto di Pietro che taglia l’orecchio al servo del sommo sacerdote,
ma solo Giovanni ne dà il nome, mentre invece omette la sua guarigione da parte
di Gesù (Lc 22:51).
2.33 Gesù davanti al Sinedrio. Pietro rinnega Gesù: 18:12-27
Gli altri Vangeli parlano solo di Pietro che segue Gesù alla casa di Anna (qui
chiamato “il sommo sacerdote”, cfr. v.24, sebbene avesse lasciato questo incarico,
v.13), il quale conservava ancora molta influenza. “L’altro discepolo”, secondo
l’usanza di Giovanni, dovrebbe essere lui stesso, ma non si sa come avesse
conosciuto il sommo sacerdote (v.15). Comunque, anche il v.26 implica che
Giovanni conosceva bene questa casa.
La descrizione dell’interrogatorio (v.19) suggerisce che sospettavano Gesù di aver
impartito ai discepoli un insegnamento segreto e sovversivo. La calma e la
padronanza di sé dimostrate di Gesù (v.23) fanno contrasto con il maltrattamento
(v.22) che mette in risalto l’irregolarità di tutto il procedimento. Il rinnegamento di
Pietro (vv.17,25-27) è riferito solo sommariamente, senza menzione della sua
reazione (cfr. Mt 26:75).
2.34 Il processo davanti a Pilato: 18:28-40
Nel v.28 c’è un contrasto ironico tra la scrupolosità dei capi nell’osservare le
norme rituali (temevano probabilmente di rimanere contaminati entrando in una
casa dove ci fosse del lievito, cfr. Es. 13:7, anche se non c’è nessuna norma
precisa in questo senso nella legge di Mosè), e la leggerezza con cui si apprestano
ad uccidere un uomo innocente per motivi di convenienza politica (cfr. 11:50). La
loro risposta a Pilato (v.30) è evasiva e nello stesso tempo arrogante.
v.32: la pena di morte presso gli Ebrei era per lapidazione (cfr. Stefano, Atti 7:58),
mentre Gesù aveva predetto che sarebbe stato crocifisso (cfr. anche Sal. 22:16).
Questa predizione, che talmente colpì Giovanni, non si trova comunque in
Panorama del Nuovo Testamento
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Giovanni, il quale l’accenna soltanto (3:14, 8:28, 12:32), ma è esplicito nei
Sinottici (Mt 20:18-19 ecc.).
v.33: si vede che Pilato ha avuto notizia di Gesù, e che gli interessa solo
l’eventuale pericolo della sovversione politica. vv.36-37: Gesù ammette di essere
Re, ma chiarisce la natura del suo regno (questo è importante nello stabilire un
orientamento per i cristiani nei confronti della politica e delle guerre tra nazioni).
v.38: questa celebre domanda esprime lo scetticismo dell’uomo di mondo nei
confronti della filosofia e della teologia, e non un serio desiderio di conoscere la
risposta. Tuttavia non ritiene Gesù un sovversivo pericoloso. v.39: cerca una via
d’uscita dalla difficoltà volendo “graziare” Gesù, che però egli stesso ritiene
innocente. Per quel che riguarda Barabba (v.40), impariamo da Mc 15:7 che era un
ribelle politico.
2.35 Gesù flagellato e schernito: 19:1-16
v.1: da Lc 23:16 appare che Pilato ordina la flagellazione come alternativa alla
condanna a morte (cfr. v.4). La flagellazione romana era una punizione
estremamente severa, alla quale la vittima non sempre sopravviveva: il flagello era
fatto di strisce di cuoio armate di punte di ferro, piombo o osso. A questo si
aggiungono gli scherni dei soldati, qui riferite solo in breve.
Con le famose parole “Ecco l’uomo!” (v.5), Pilato intende semplicemente:
“quell’uomo che mi avete presentato”, ma l’Evangelista certamente vi dà un senso
più profondo: “L’Uomo per eccellenza”. v.6: il lavaggio delle mani è riferito solo da
Mt (27:24), ma queste parole esprimono lo stesso atteggiamento di debolezza,
indifferenza e cedimento. v.8: Pilato si trova tra due fuochi.
v.11: la risposta di Gesù ribadisce la sua superiorità ai regni umani, e insegna la
sovranità di Dio anche sulle autorità di questo mondo (cfr. Rom. 13:1). v.15: le
parole dei capi ebraici esprimono di fatto il rifiuto del governo di Dio: cfr. 1° Sam.
8:7.
2.36 La crocifissione: 19:17-37
Giovanni non parla di Simone di Cirene, obbligato a portare la croce, e solo in
breve dei due malfattori crocifissi con Gesù (v.18). Questo è invece il solo Vangelo
a dire che l’iscrizione (vv.19-22) fu ordinata da Pilato. Aggiunge anche il
particolare sulla tunica di Gesù (vv.23-24), con il riferimento al Sal. 22:18: i
Sinottici dicono solo che si divisero le sue vesti, tirando a sorte.
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Le donne vicino alla croce (vv.25-27): non è chiaro dal testo di Giovanni se le
donne sono tre o quattro, se cioè “la sorella di sua madre” e “Maria di Cleopa”
siano due persone diverse oppure la stessa. Ma, confrontando con Mt 27:56 e Mc
15:40, sembra chiaro che devono essere due, e che “la sorella della madre di
Gesù” è la stessa con “Salome” (Mc) e “la madre dei figli di Zebedeo” (Mt). In questo
caso Giovanni e Giacomo sarebbero cugini di Gesù, e questo aiuta a spiegare
perché Gesù affida a Giovanni la cura di sua madre (ricordiamo che i suoi fratelli
non sono presenti e non hanno ancora creduto in lui, per cui c’è evidentemente
una breccia tra loro e la madre). Inutile soffermarsi sulla curiosa interpretazione di
molti cattolici di questo episodio, seconda la quale Gesù avrebbe invece affidato
Giovanni alle cure di Maria, e di conseguenza anche tutti i discepoli successivi (!).
vv.28-29: la Scrittura accennata sarebbe il Sal. 69:21. v.30: l’ultima parola dalla
croce si riferisce non tanto alle sofferenze di Gesù, ma alla sua opera di
redenzione. Egli “rese lo spirito” volontariamente: cfr. 10:18.
Anche il fatto che non gli spezzano le gambe (vv.31-36) è un adempimento della
Scrittura (Es. 12:46, riferimento all’agnello pasquale), così come il colpo di lancia
(Zacc. 12:10). Il “sangue e acqua”, particolarmente sottolineato da Giovanni (v.35,
cfr. 1° Gv 5:6), è stato variamente interpretato: o è un fatto soprannaturale,
oppure “l’acqua” fu in realtà il siero separatosi dal sangue già coagulato, una
prova conclusiva dell’avvenuta morte.
2.37 Il seppellimento di Gesù: 19:38-42
Solo Giovanni menziona il ruolo di Nicodemo, assieme con Giuseppe, nel
seppellimento di Gesù. È sottolineato il fatto che la tomba era nuova (v.41),
perché in questo modo il corpo di Gesù non venne a contatto con la corruzione e
l’impurità rituale.
2.38 La resurrezione: 20:1-10
Del gruppo di donne descritto nei Sinottici, Giovanni menziona solo Maria
Maddalena, la quale però parla al plurale (v.2), quindi a nome anche di altre. È
omessa anche l’apparizione dell’angelo. Evidentemente Giovanni ha operato una
scelta tra il materiale disponibile per focalizzare l’attenzione su determinati
aspetti della resurrezione: in particolare sulle testimonianze oculari, tra le quali la
propria.
Solo Giovanni descrive accuratamente l’aspetto dei panni in cui il corpo di Gesù
era stato avvolto (v.7). Evidentemente questo costituisce una prova importante
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della resurrezione (v.8): non solo perché nessuno, venuto a rapire il corpo, si
sarebbe trattenuto a spogliarlo, ma anche perché i panni indisturbati
dimostravano chiaramente di non essere stati srotolati dal corpo, il quale si era
piuttosto “smaterializzato”, come poteva fare Gesù dopo la resurrezione (cfr.
v.19). (N.B. La descrizione del “sudario… piegato in un luogo a parte” sembra
essere una prova conclusiva della falsità della Sindone di Torino, che, essendo una
tela unica, non corrisponde a questa descrizione).
2.39 L’apparizione a Maria Maddalena: 20:11-18
Sia Matteo che la conclusione più lunga di Marco concordano nel dire che la prima
apparizione di Gesù fu alle donne (Mt) o alla sola Maria Maddalena (Mc); ma
Giovanni ne dà il racconto più dettagliato. È solo quando Gesù la chiama per nome
che Maria lo riconosce: la luce era ancora poca, ma anche nelle altre apparizioni i
discepoli hanno difficoltà a riconoscerlo.
Il divieto di toccarlo (v.17) è stato spiegato in vari modi, visto che poco dopo Gesù
non lo vieta alle donne che “gli strinsero i piedi” (Mt 28:9), e che in Lc 24:39 e Gv
20:27 invita i discepoli a farlo: 1) La parola tradotta “toccare” avrebbe il significato
di “attaccarsi, avvinghiarsi”: Gesù quindi dice a Maria di non attaccarsi alla sua
persona fisica, che tra poco non si vedrà più: il trionfo della resurrezione si
sarebbe completato solo con l’ascensione (così Calvino e altri). 2) Vuol dire: “Non
perdere tempo ora nell’abbracciarmi, perché solo tra quaranta giorni me ne andrò
da voi, ma corri subito a dirlo agli altri”. 3) Gesù qui parla, non dell’Ascensione,
ma di una sua prima “visita” a presentarsi alla presenza del Padre. Ma in questo
caso rimane comunque misterioso perché questo sarebbe una ragione per non
toccarlo.
“Ai miei fratelli”: e la prima volta che Gesù usa questo termine riferendosi ai
discepoli, e lo rafforza ancora dicendo “al Padre mio e Padre vostro”. La nuova
nascita è strettamente legata alla resurrezione: cfr. 1° Pt. 1:3.
2.40 Due apparizioni ai discepoli: 20:19-31
Nel “corpo spirituale” della resurrezione (cfr. 1° Cor. 15:44), Gesù può passare
nonostante le porte chiuse; tuttavia, porta ancora i segni della crocifissione.
vv.21-23: si discute se qui Gesù conferisca effettivamente lo Spirito Santo, o se si
tratta piuttosto di un’anticipazione della Pentecoste. È chiaro invece che,
delegando loro la sua stessa missione, conferisce loro anche la sua autorità
spirituale, che comprende la facoltà di perdonare i peccati (Mc 2:10). Ma
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ovviamente, essi dovevano esercitarla allo stesso nodo in cui lo aveva fatto Lui:
non arbitrariamente, ma in sottomissione e ubbidienza ai principi morali che
governano l’universo e a quanto gli suggeriva il Padre (Gv 5:19,30).
Giovanni omette altre apparizioni e salta subito al seguito di questo, “dopo otto
giorni”. La risposta di Gesù all’incredulità di Tommaso (v.29) non deve trarre in
inganno: Gesù concede volentieri delle “prove” a chi sinceramente le richiede, e la
fede così fondata non è per questo meno reale; ma il Signore vuole evitare che si
rifiuti di credere senza “prove”. La confessione di Tommaso – “Signor mio e Dio
mio!” – è comunque la più chiara espressione di fede di tutto il Vangelo, e
conduce naturalmente ai vv.30-31, in cui Giovanni spiega lo scopo del suo
Vangelo e dei “segni” in esso riferiti: portare il lettore alla stessa fede.
2.41 Apparizione ai discepoli in Galilea: 21:1-14
Gesù aveva detto che avrebbe incontrato i discepoli in Galilea (Mc 16:7); qui però
si trovano insieme solo sette degli Undici. Il miracolo della pesca ripete quello di
Lc 5:1-7, e chiaramente ha significato di “segno”, oltre a portarli a riconoscere
Gesù. È però notevole il fatto che Gesù ha già pronti pesci e pane da offrire loro!
2.42 Il colloquio con Pietro: 21:15-25
Pietro portava ancora la vergogna del triplice rinnegamento (Gesù aveva dovuto
includerlo esplicitamente tra i discepoli nel suo messaggio, Mc 16:7), ma ora Gesù
lo “riabilita”, nello stesso tempo assicurandosi che non cada più nel peccato della
presunzione. Infatti Pietro ora rifiuta di paragonarsi con gli altri discepoli, dicendo
di amare Gesù più di loro (v.15, cfr. Mc 14:29); anzi, con la triplice ripetizione
della domanda in termini sempre minori (l’ultima volta Gesù usa il verbo fileo,
usato da Pietro in tutte e tre le risposte, anziché il termine più forte agapao), Gesù
intende far ricordare a Pietro il suo fallimento e il fatto che non può avere fiducia
nella propria carne. Su questa base, Gesù gli affida la cura del Suo gregge (come
uno dei suoi pastori: nulla qui fa pensare che debba esserne il solo o il sommo
pastore…!). Gli ricorda anche che per lui, il costo del discepolato sarà
effettivamente il martirio (vv.18-19).
Con l’ultimo paragrafo, sembra che Giovanni voglia smentire la voce secondo la
quale egli non sarebbe morto prima della venuta del Signore. Ma c’è anche il
messaggio che seguire Gesù, e il costo che ognuno è chiamato a pagare, è un
fatto strettamente personale. Nei vv.24-25, Giovanni finalmente si identifica con
“quel discepolo che Gesù amava”.
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