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801

Cesare Segre

Semiotica filologicaTesto e modelli culturali

LO I ß

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Indice

p . v i i Premessa

Semiotica filologica

Parte prima

5 i . Semiotica e filologia23 2. La natura del testo39 3 - 1 1 segno letterario45 4. La gerarchia dei segni53 5. Critica testuale, teoria degli insiemi e diasistema 64 Appendice II testo come trascrizione

71 6. Le strutture implicanti

Parte seconda

87 7. La novella di Nastagio degli Onesti (Dee. V vm): i due tempi della visione

97 8. Da Boccaccio a Lope de Vega: derivazioni e trasfor­mazioni

n o Appendice Due racconti del Novellino nel Uegar en ocasióndi Lope de Vega

117 9. Struttura dialogica delle Satire ariostesche131 10. La descrizione al futuro: Leonardo da Vinci161 11. Il sogno del sogno in una poesia di Pessoa169 12. La tradizione macaronica da Folengo a Gadda ( e oltre )

185 Indice dei nomi

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Premessa

Questo titolo doveva venir fuori. Ma non vuole additare il contributo dei filologi agli sviluppi della semiotica letteraria (fondamentale tra noi, e più volte illustrato). Il titolo si ri­ferisce piuttosto al fatto che se la nostra attenzione si con­centra, come oggi accade, sui problemi del testo, diventa im­prescindibile l ’esperienza anche metodologica di chi lavora alla verifica (e al restauro) dei testi stessi: perché è in queste operazioni che si rivela il gioco di valori segnici e letture- interpretazioni, di produzione di significati e significazioni recepite.

Ai problemi del testo sono dedicati i capitoli 2 e 5 di que­sto volume, cui andrà idealmente congiunta la voce testo scritta per VEnciclopedia Einaudi; e rientrano in questo or­dine di riflessioni i contributi sui segni letterari (capitoli 3 e 4), di cui si tenta la descrizione partendo dall’assieme del di­scorso, con la molteplicità di connessioni intratestuali at­tuabili ai suoi vari livelli, e nel quadro dell’antinomia signifi­cazione/ inferenza.

Il rapporto emittente-ricevente è sempre centrale: non solo nei suoi aspetti più formalizzati, ma nei coinvolgimenti pragmatici. Non esiste comunicazione avulsa da contesto e priva di intenzionalità. Poiché la cultura non è che un im­menso sistema di comunicazione, il capitolo 1, programmati- co, tenta di abbozzare con pluralità di approcci l ’incontro di codici che sorregge la continuità della comunicazione testua­le, perciò della cultura. Problemi che un’impostazione filo­logica sottrae alla vertigine delle galassie di significati.

Ma i contenuti semiotici circolano tra un testo e l ’altro, condensandosi in unità di comunicazione che, nel loro assie­me, costituiscono sistemi. Questi movimenti intertestuali,

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Vili PREMESSA

come si vede nel capitolo 6, coincidono con l ’assieme della nostra conoscenza empirica del vissuto, in cui la letterarietà ha una parte notevole, ma non determinante. Siamo invitati insomma a considerare il sistema letterario all’interno dei si­stemi modellizzanti culturali.

Il precedente volumetto Semiotica, storia e cultura (Pa­dova 1977) avrebbe potuto esser fuso con questo, e accettar­ne il titolo. Ma là prevaleva il problema della storia come svi­luppo di strutture, con qualche attenzione ai rapporti strut­tura-sovrastruttura, in un’ottica «politica» che andrà ulte­riormente messa a fuoco (superando le odierne crisi ideolo­giche). I risultati più consistenti in ambito linguistico e let­terario sono qui ripresi nel capitolo 1.

Adottando lo schema degli altri due volumi usciti in que­sta collana di «paperbacks», ho fatto seguire i capitoli teori­ci da un gruppo di saggi che, scritti più o meno contempora­neamente, portano i segni delle stesse preoccupazioni meto­dologiche (anzi il capitolo 10 estende le curiosità all’ambito della semiotica figurativa, sia pure attraverso tramiti di natu­ra testuale). L ’esperienza narratologica, considerata momen­to fondamentale per la riflessione sul testo, viene approfon­dita nei primi due saggi.

È in modo contrastivo che i capitoli 7 e 8 usano le analisi della narrazione: l ’uno rilevando la diversa fruizione di un identico schema da parte di scrittori diversi (anche mediante ricorso alla «teoria dell’azione»), l ’altro mettendo in eviden­za i mutamenti di codici letterari e sociali intervenuti nella ripresa, a secoli di distanza, di materiali narrativi. Attraverso il gioco dei pronomi di persona, il capitolo 9 misura il variare delle distanze poste dall’autore tra sé e i suoi contenuti, tra autobiografia, moralità e invenzione. Qualche sonda nell’in- conscio - presenza avvertita anche nei capitoli 4 e 6 - si ten­ta infine di lanciare con l ’analisi semiotica di una poesia di Pessoa nel capitolo 11.

Potrà apparire d’impianto non semiotico il capitolo 12, ispirato piuttosto alle teorie sociolinguistiche dei registri, della diglossia e dell’interferenza. Confesso di non avere pre­occupazioni di ortodossia: proprio perché credo alla semio­tica come a un progetto d’interpretazione globale dei fatti culturali, ritengo che qualunque risultato conseguito sarà rapportabile, quando si voglia, a un modello interpretativo.

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Semiotica litologica

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Parte prima

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Semiotica e filologia *

o . Non mi propongo di dare un quadro delle posizioni, co­si varie e contrastanti, della semiotica letteraria: dovrei en­trare nelle dispute teoriche, se non teologiche, sulle basi stes­se della semiotica nel contesto delle attività conoscitive, di­scutere i rapporti fra semiotica e scienze umane (la linguisti­ca in particolare), risalire alle possibili fondazioni ideologi­che delle pratiche semiotiche.

Non credo d ’altra parte che un panorama delle applicazio­ni della semiotica alla filologia (in particolare alla filologia ro­manza, in cui esse sono più abbondanti) sarebbe molto avvin­cente. A parte eccezioni, anche eccellenti, molti esercizi se­miotici in campo romanzo sembrano trasposizioni meccani­che di schemi formulati in altra sede: vi si sente, più che un’intima necessità, il desiderio di fare omaggio alla moda o di apparire originali in confronto a ricercatori troppo tradi­zionalisti.

Indicherò piuttosto delle linee programmatiche, ricorren­do alle proposte metodologiche che mi paiono più attraenti, e ricordando solo, come orientamento generale, che la semio­tica affronta o dovrebbe affrontare questi problemi: i) la de­scrizione e la classificazione dei segni; 2) lo studio del funzio­namento, e anche della produzione dei segni nel quadro della significazione; 3) l ’analisi della discorsività, in quanto con­nessione regolata di segni in ordine a significati complessivi; 4) l ’indagine sui sistemi di segni, verbali e non verbali, costi­tuenti nel loro complesso la cultura; 5) l ’approfondimento

* Già pubblicato in XV Congresso International de Linguistica e Filolo­gia Rotnànicas. Rio de Janeiro, 25-30 de julho de 1977. Resumos das comu- nicaföes e trabalhos em curso, Rio de Janeiro 1977, pp. 119-34 Un francese).

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6 PARTE PRIM A

della funzione comunicativa dei segni e dei sistemi di segni. L ’ordine descrittivo con cui elenco i problemi è esattamente l ’inverso dell’ordine reale d ’implicazione: per questo mi li­miterò, nell’esposizione, a osservazioni riportabili agli ultimi due punti, lasciando gli altri tre ad approcci più analitici (cfr. i capitoli 2-5).

Divido l ’esposizione in due parti: semiotica e filologia; fi­lologia e semiotica. La prima vorrebbe mostrare con qualche esempio, su un’area culturale ampia e ben delimitata (quella delle lingue e letterature romanze medievali), che la semioti­ca non offre solo nuovi procedimenti descrittivi, ma permet­te una sistemazione globale delle nostre conoscenze, sinora specialisticamente affidate a discipline parallele ma poco co­municanti. La seconda intende sostenere (ed è l ’assunto di tutto il volume) che un atteggiamento e un’esperienza filolo­gici sono indispensabili per affrontare lo studio di codici e si­stemi culturali, di testi e di contesti. Logica, matematica, for­malizzazione, preziose coadiutrici della semiotica, potrebbe­ro portarla lontano dal suo compito primario, il chiarimento e l ’illustrazione dei processi comunicativi tra individui o gruppi attraverso lo spazio e il tempo. L ’atteggiamento filolo­gico può fungere da appello alle finalità della semiotica. Ma l ’atteggiamento filologico può anche salvare la semiotica dal narcisismo della parola, dall’ebbrezza di fughe senza ritorno. Si può capire che, di fronte alle illusioni di creare una critica «scientifica», si sia verificata una reazione di carattere irra­zionalistico e logocentrico; e il fatto che le due tendenze an­titetiche si richiamino entrambe alla semiotica mostra l ’infi­nità d’implicazioni della nuova disciplina. Ma se si vuole an­dare avanti, occorre cercare terreni più sicuri.

1.1. Parte prima. Semiotica e filologia. L ’attività del filo­logo parte, in generale, dai testi. Egli ne verifica e ne tutela la genuinità, ne studia la lingua, li collega a un contesto prag­matico a partire dal quale essi possono essere interpretati e al­la cui comprensione, a loro volta, contribuiscono.

Ogni testo è un complesso di segni grafici, che hanno co­me significato primario dei valori linguistici. È dunque attra­verso la lingua - una lingua - che il testo ci trasmette un mes­saggio: e la lingua è il più ricco e articolato tra i sistemi se­miotici. Ma anche se ogni testo costituisce una somma di ma­

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SEM IO TICA E FILOLOGIA 7

teriali linguistici preziosi, noi non vi ricorriamo solo per que­sto. Ogni testo è la voce di un mondo lontano che noi cerchia­mo di ricostruire. Un gran numero di discipline sono interes­sate a questa ricostruzione: poetica e metrica, etnografia e storia della cultura, sociologia e storia delle istituzioni, ecc. Queste discipline sono sempre state usate per interrogare, e illuminare, i testi.

Oggi si è affermato un assioma che è risultato molto pro­duttivo: la cultura costituisce un sistema di segni. Qualcosa di ciò che dirò mostrerà come sia applicabile tale assioma. Da un punto di vista generale, si vede subito quanto si possano avvantaggiare discipline eterogenee come quelle citate dal- l ’esser riportate a una matrice unica. Questa reductio ad unum trova un’evidenza immediata nella considerazione dei processi di stesura d’un testo.

Chiunque componga un testo opera una sintesi di elemen­ti analitici della sua esperienza. Sintesi discorsiva (linguisti­ca) di elementi culturali. A sua volta il lettore - il filologo, nel nostro caso - analizza la sintesi attuata dallo scrittore, e ne ricostruisce gli elementi in una sintesi interpretativa. Questo ciclo analisi-sintesi-analisi-sintesi costituisce un’attività emi­nentemente semiotica, dato che sono in gioco, in ogni fase del ciclo, dei significati, e che la comprensibilità è comprensi­bilità di significati

1.2. Molte sono le vie della significazione. Potrei indica­re il sovrapporsi e il comporsi dei significati nell’apparente li­nearità del testo, che, a seconda delle segmentazioni da noi operate, ce ne consegna un numero quasi inesauribile. Pre­ferisco soffermarmi un poco sulla descrizione e sulla tipo­logia delle culture secondo le proposte della scuola di Tartu. Lotman e Uspenskij partono dall’osservazione che «non è ammissibile l ’esistenza di una lingua... che non sia immersa in un contesto culturale, né di una cultura che non abbia al proprio centro una struttura del tipo di quella di una lingua naturale»2. La cultura assume cosi l ’aspetto di un sistema se-

1 Su questo punto si veda il cap. 2 della parte I de I segni e la critica, Torino 1969; 19763.

2 ju. m . l o t m a n e b . a . u s p e n s k i j , Sul meccanismo semiotico della cul­tura, in i d ., Tipologia della cultura, Milano 1975, pp. 39-68, a p. 42.

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8 PARTE PRIM A

conciario, «costruito su questa o quella delle lingue naturali accolte in una data collettività», e «riproduce nella propria organizzazione interna» lo schema strutturale della lingua1. La cultura insomma può esser vista non solo come un gene­ratore di strutturalità, ma come un linguaggio essa stessa.

Qui interviene la nozione, oggi cosi attuale, di modello. Il modello di un oggetto è ciò che riproduce l ’oggetto stesso ai fini del processo conoscitivo. Se l ’uso dei modelli è comune nelle scienze e nelle correnti critiche più impegnate verso la scientificità, più nuova è la concezione dell’opera d ’arte co­me modello del mondo, e della cultura come di un modello generale che precede e prepara la creazione dei vari modelli. In tal modo la cultura e l ’opera d ’arte possono esser conside­rati sistemi modellizzanti, cioè insiemi strutturati di elemen­ti e di regole di strutturazione. Se la lingua è il sistema model- lizzante primario, la cultura e i testi saranno sistemi modelliz­zanti secondari.

Parlando di modelli del mondo, si può appunto partire dalle concezioni spaziali del territorio, dell’ambiente. Un mo­dello interessantissimo è quello proposto da Lotman \ sulla base del punto di vista della collettività cui appartiene uno scrittore (ES = Esterno; IN = Interno):

1 ju. m . l o t m a n , Introduzione a l o t m a n e u s p e n s k i j , Tipologia della cultura cit., p. 30.

2 ju. m . l o t m a n , Il metalinguaggio delle descrizioni tipologiche della cultura, in l o t m a n e u s p e n s k i j , Tipologia della cultura cit., pp. 145-81. Do­po la stesura del presente testo sono già uscite interessanti applicazioni al Medioevo romanzo dei modelli culturali lotmaniani. Per esempio: κ . m . b o -

k l u n d , On thè Spatial and Cultural Characteristics of Courtly Romance, in «Semiotica», 20 (1977), pp. 1-37; e a d ., Socio-sémiotique du roman courtois, in «Semiotica», 21 (1977), pp. 227-56; c. a c u t i s , La leggenda degli Infanti di Lara, Torino 1978. Sarebbe utilissimo un confronto con la tipologia lette­raria a base di opposizioni proposta da l . s t e g a g n o p i c c h i o , Oppositions binaires en littérature: l ’exemple brésilien, in «Diogène», 99 (1977), pp. 3-26.

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SEM IO TICA E FILOLOGIA 9

Nella derivante opposizione noi vs gli altri, come scrive Lot­man, «la coincidenza di un determinato spazio col punto di vista del depositario di un testo conferisce un orientamento al modello culturale di quel tipo» '. Il punto di vista del te­sto potrà coincidere con lo spazio interno del testo, oppure con quello esterno:

ES

IN

ES

producendo le due opposizioni noi (IN) vs essi (ES), oppure noi (ES) vs essi (IN). Il primo modello, sul quale dirò qual­che parola, è, lo si riconosce facilmente, quello dell’antica letteratura cristiana e dell’agiografia. Lo si potrebbe sintetiz­zare col verso 1015 della Chanson de Roland: «Paien unt tort e chrestìens unt dreit», che implica le opposizioni cri­stiano/pagano, cultura/barbarie. Interessante il fatto che lo spazio interno, nel primo modello, s’identifica in origine con i concetti di struttura e di ordine: ES è il non strutturato o il destrutturato, insomma il caos. Ciò appare anche in realizza­zioni più recenti del modello, quelle in cui IN sono i membri dell’élite cortese, ES i non cortesi, i villani in senso lato. La cortesia appare come una disciplina di comportamento e di giudizio, di fronte alla rozza materialità dei villani. In versio­ni più raffinate IN ed ES si oppongono invece simmetrica­mente: pensiamo ancora alla Chanson de Roland, dove le strutture organizzative cristiane si ripresentano, con nomi mutati, tra i pagani, alla trinità cristiana ne corrisponde una saracena ed è lecito esclamare, a proposito di Baligante: «Deus! quel baron, s’oüst chrest'ientét! », v. 3164. È solo la marca Cristianesimo che conferisce positività o, con la sua assenza, negatività a due sistemi omologhi.

Esterno e interno possono anche opporsi come mondo ter­reno e aldilà. V i sono culture in cui l ’attributo del disordine

ES

ES

1 l o t m a n e u s p e n s k i j , Tipologia della cultura c i t . , p . 155.

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IO PARTE PRIM A

appartiene a Q L (= Quello), altre in cui il disordine è di QS (= Questo). Nei testi cristiani il modello è per lo più cont­

esso corrisponde evidentemente agli elementi cielo, terra, in­ferno, e istituisce una prospettiva in cui l ’ordine è rappresen­tato da ES buono, il caos da ES cattivo, ed IN si trova in bi­lico tra i due poli di attrazione. S’aggiunga che l ’appartenen­za ad IN è del tutto transeunte: ogni gesto o pensiero dei vivi è simbolo o prefigurazione dell’ordine, cioè di ES buono, op­pure cade sotto il dominio di ES cattivo, che del resto rientra nei disegni del signore di ES.

La validità dei modelli di Lotman risulta anche dalla loro applicabilità a testi di varie culture. Si prenda quest’altro mo­dello spaziale, che combina le opposizioni IN vs ES e QS vs Q L, nel senso che IN e ES i appartengono a QS, ES2 a QL:

Lotman ne dà una bella esemplificazione folclorica, ma noi pensiamo subito agli eroi di Chrétien de Troyes, agli Erec, Lancelot, Yvain, Perceval, che si muovono tra la reggia di Artù e/o il cuore della loro amica e moglie, e un mondo ester­no ed estraneo, spesso giungendo a lande oltremondane, go­vernate da leggi diverse dalle nostre. I passaggi perigliosi, i fiumi e i muri d ’aria sono frontiere da violare perché l ’in­

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SEM IO TICA E FILOLOGIA II

treccio si compia: dato che, come scrive Lotman, «lo sche­ma dell’intreccio nasce come lotta contro la costruzione del mondo»

i .3. I modelli culturali sono i più ampi e schematici. Poi, i loro vari livelli e sottoinsiemi hanno proprie strutturazioni, sempre correlabili beninteso. Mi permetto ora di soffermar­mi sul problema della diversa durata di questi sottoinsiemi. È un problema che, come storici della cultura, non possiamo non considerare basilare \ Parto da due osservazioni elemen­tari. Lo stile letterario ha sviluppi veloci, misurabili a decen­ni. Viceversa la nostra logica è rimasta sostanzialmente im­mutata sin dai tempi di Aristotele (e diversa da quella dei pri­mitivi e dei popoli estranei alla civiltà greco-latino-cristiana). Noi ci muoviamo dunque fra sistemi di idee statici, o in svi­luppo impercettibile, e sistemi di idee estremamente mute- voli. Questi vari sistemi di idee (o codici) sono presenti in ogni testo letterario. Prenderò come esempio i testi narrati­vi, su cui le ricerche semiotiche sono più avanzate.

Un testo narrativo, a mio avviso, può essere esaminato se­condo almeno quattro tagli descrittivi: 1) Discorso; 2) In­trigo; 3) Fabula; 4) Modello narrativo. Il discorso rappre­senta 1 aspetto verbale del testo (linguistico, stilistico, metri­co ecc.); l ’intrigo l ’assieme di azioni narrate, nell’ordine in cui le presenta il testo in rapporto al montaggio e al punto di vista adottato; la fabula è l ’assieme delle azioni in ordine lo­gico e cronologico, a prescindere dai modi dell’esposizione; il modello narrativo è la struttura immanente, ridotta ad in­variabili risalenti a un paradigma valido per un dato corpus di testi o per un àmbito di azioni umane.

Questi quattro tagli descrittivi corrispondono, nel conte­sto culturale, a quattro strati:

1. Lingua (comprese stilistica, retorica, metrica ecc.).2. Tecniche dell’esposizione (prospettive temporali, rap­

porti tra autore, narratore e narrazione ecc.).3. Materiali antropologici (temi, miti, motivi ecc.).4. Concetti-chiave e logica dell’azione.

1 LO TM AN e U S P E N S K IJ , p. 168.2 Sintetizzo qui i risultati de Le strutture narrative e la storia, in Semio­

tica, storia e cultura, Padova T,ì77i ΓΓ '“ΓΊ17

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12 PARTE PRIM A

La diversa mobilità di questi quattro strati apre notevoli pos­sibilità di storicizzazione; perché sviluppi di breve periodo si pongono sullo sfondo di sviluppi di medio periodo e nella cornice di elementi invariabili o praticamente invariati.

Una dialettica che acquista evidenza se si confronta il per­corso semiotico dell’autore (l’emittente) e del lettore (il rice­vente). L ’emittente, in quanto inserito nel contesto, attua la sua produzione inventiva salendo dalla zona 4 alla zona 1, e trova poi i significati e i significanti letterari nei punti corri­spondenti della colonna del testo. A sua volta il ricevente svolge la sua analisi del testo nell’ordine opposto (da 1 a 4), mettendosi cosi in contatto con i punti corrispondenti del contesto letterario. (Si tratta di successioni teoriche, non cro­nologiche).

Testo Contesto culturaleRicevente

1. Lingua (compr. retorica, metrica ecc.)

2. Tecniche

1. Discorso

2. Intrigo

3. Fabula

4. Modello narrativo

dell’esposizione3. Materiali

antropologici* 4. Concetti-chiave

e logica dell’azioneEmittente

Mi spiego con un esempio ben noto, quello del lai di Eli- due di Maria di Francia. Il suo modello più ridotto è sintetiz­zabile cosi: un uomo si sposa successivamente con due don­ne, pur restando viva la prima. Questo modello può avere un suo interesse di eccezione, quasi di enigma, solo in luoghi e tempi in cui: 1) non esista poligamia; 2) non sia ammesso il divorzio. Il paradigma degli elementi costitutivi può essere ottenuto dal confronto con casi in cui il doppio matrimonio avviene per falsa informazione (Gilles de Trasegnies), per autorizzazione del papa (conte di Gleichen) ecc.; o con casi in cui il matrimonio sussiste con una sola delle donne (Isotta la bionda e Isotta dalle bianche mani). Dobbiamo dunque ag­giungere nel modello di Eliduc l ’accordo e il ritiro volonta­rio della prima moglie.

Questo modello vale anche per Ille et Galeron di Gautier d ’Arras, che deriva appunto da Eliduc. Ma subito si notano le differenze in ordine alla fabula. Per esempio in Eliduc so­

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SEM IOTICA E FILOLOGIA 13

no presenti i temi, folcloricamente diffusi, della bella addor­mentata nel bosco e del miracolo della donnola, mentre nei viaggi e nelle imprese di Ille e Galeron si vede lo schema dei romanzi bizantini, ciò che avvicina quel romanzo al Bueve de Hanstone, dove, tra l ’altro, il secondo matrimonio è sfio­rato ma non attuato.

Il più interessante è il diverso modo di evitare all’eroe l ’a­dulterio. Gautier d’Arras ha scelto una soluzione meccanica e moralistica: Ganor ama Ille, ma Ille non ama Ganor se non dopo che Galeron si è monacata. Molto più sottilmente, Ma­ria di Francia fa che Eliduc soffra i tormenti della sua ambi­valenza affettiva, e che proprio Guildeluec, generosamente,lo metta in condizione di sposare Guilliadun. Tecnicamente, la coesistenza di due mogli è evitata dalla disgiunzione geo­grafica (vicino/lontano) o dall’alternanza funzionale (catales­si di Guilliadun / monacazione di Guildeluec).

Tra la fabula di Ille et Galeron e quella di Eliduc sussisto­no dunque differenze la cui motivazione ideologica si po­trebbe e dovrebbe dimostrare, qualora non vi fossero gli espliciti accenni polemici di Gautier d’Arras contro Maria ( « Grant cose est d’Ille a Galeron : | N ’i a fantome ne alonge, | Ne ja n’i troverés me^onge» ecc.). Risulta chiaro cosi il di­verso modo in cui modello e fabula, mentre costituiscono strutture portanti del récit, si collegano anche con le conce­zioni della realtà e della vita.

Direi cose troppo note ai lettori se mostrassi le possibili­tà di uno studio comparativo e caratterizzante offerte dall’a­nalisi delPintrigo e del discorso. Ciò che importa a me è di indicare come i vari piani di ricerca siano parti integranti della prospettiva della significazione; e come sotto la super­ficie del testo si sviluppino numerosi sistemi significanti che in una visione centripeta collaborano all’istituzione del sen­so dell’opera, mentre in una visione centrifuga si collegano con quel polisistema che è la cultura.

1.4. Ho dato sinora come implicita la natura comunicati­va dell’attività letteraria. A pensarci bene, la comunicazione letteraria (o, per essere più completi, la comunicazione te­stuale) ha caratteristiche proprie. Un testo può avere un de­stinatario immediato, scelto dall’emittente: è il dedicatario, oppure il pubblico a cui il testo è destinato. Ma esistono altri

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14 PARTE PR IM A

riceventi, lungo un tempo e per uno spazio imprecisati e im­prevedibili. Le differenze tra il ricevente1 e il ricevente2 sono decisive: il ricevente1 è a contatto diretto (anche se non ma­teriale) con l ’emittente, di cui conosce e in gran parte condi­vide le premesse culturali; in qualche caso può persino chie­dere chiarimenti o imporre mutamenti, attuando una sorta di feed-back. Per il ricevente2 il testo è sempre un messaggio giunto in una bottiglia: egli non ha contatti con l ’emittente, spesso ignora persino chi sia, dove e quando sia vissuto '.

G li sforzi che noi facciamo per datare e localizzare i testi e per conoscere qualcosa, dei loro autori vanno dunque molto al di là della mera erudizione. È che ci rendiamo conto che il significato dell’opera diventa più comprensibile ed eloquente se inserito nel suo contesto. Le recenti ricerche della lingui­stica testuale - un’altra branca della semiotica - partono ap­punto dall’assioma dell’inscindibilità della sintassi e della se­mantica di un testo dalla pragmatica.

Questo assioma implica difficoltà gravissime, in parte in­superabili. Ne sono consapevoli gli editori di testi antichi. Sappiamo che neanche l’autografo di un’opera è al riparo da distrazioni e confusioni; sappiamo che in genere un archeti­po s’interpone tra l ’autografo e le altre copie, con propri er­rori; sappiamo che tutti i manoscritti sono inquinati da ulte­riori deformazioni, e che non è ancora stato messo a punto un metodo per la ricostruzione sicura degli archetipi2. Queste difficoltà sono costituzionali: sono le tracce, nell’opera, del­l ’attraversamento del tempo.

Quelli che noi, razionalisticamente, chiamiamo errori o deformazioni o rimaneggiamenti, costituiscono il risultato di successive sovrapposizioni di sistemi. Il sistema originario viene ogni volta contaminato con quello dei copisti o rifaci­tori. Ogni manoscritto è un diasistema. È proprio nei casi - i più numerosi - in cui manchiamo dell’autografo, che ci ren­diamo conto del lungo cammino che il filologo deve percorre­re all’indietro, attraverso organizzazioni letterarie e culturali continuamente mutate.

1 Sui problemi emittente-destinatario si veda la trattazione di m . c o r t i , Principi della comunicazione letteraria, Milano 1976, cap. ir.

2 Cfr. qui il capitolo 5.

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SEM IO TICA E FILOLOGIA 15

1.5. Quello che nella teoria della comunicazione si chia­ma canale, diventa il segno incontestabile della comunicazio­ne stessa. Ma ammettiamo pure che un testo sia ricostruibile senza residui. La difficoltà maggiore sussiste: il ricevente2, lettore o filologo, trova due ostacoli: 1) egli conosce solo par­zialmente il codice in base al quale il messaggio è stato formu­lato; 2) egli usa un codice diverso, e non è in grado di pre­scinderne totalmente nella decodifica.

V i sono due soluzioni entrambe illusorie. La prima discen­de dalla fiducia del filologo di poter dominare completamen­te codici di un’epoca cosi lontana. La seconda corrisponde a una sostituzione sic et simpliciter dei nostri codici a quelli in base ai quali il messaggio è stato formulato: l ’opera viene de- storicizzata, considerata come se fosse contemporanea a noi. In realtà il nostro impegno verso il codice di partenza è affi­ne a quello verso l ’originale: codice e originale sono due limi­ti a cui dobbiamo tendere con tutti i nostri sforzi, ma che dif­ficilmente potremo toccare con le mani. Va aggiunto che ma­neggiare perfettamente un codice non più in uso è tanto dif­ficile quanto avere «competenza» in una lingua morta.

Quello che importa è mantenere sempre il messaggio nel­la tensione tra il codice dell’emittente e quello del ricevente. L ’apporto del codice del ricevente non è affatto da trascurare. Il tempo può conferire alle strutture del messaggio degli in­crementi di significazione: esso allarga senza sosta i confini della realtà, e perciò anche di quella letteraria. Le strutture semiotiche racchiudono un’infinita potenzialità. Non che es­se, in un’opera, si trasformino; è il fruitore che percepisce nuovi rapporti, nuove visuali, entro una serie di punti di vi­sta che si può considerare inesauribile.

D ’altra parte la struttura dell’opera non può essere intesa pienamente a prescindere dal contesto. Se l ’opera letteraria è un grande sintagma, le può venir luce dal paradigma, anzi dai paradigmi a cui i suoi elementi si richiamano. Se essa pro­duce significato, in praesentia, dall’interagire delle sue parti, l ’assieme e il valore dei significati è anche determinato, in ab- sentia, dalla loro appartenenza a un sistema semiotico coevo. Se l ’opera fornisce un di più d ’informazione, è in relazione all’informazione complessiva del sistema della cultura. In realtà tutte le strutture letterarie sono strutture implicanti,

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cioè s’illustrano a vicenda l ’una con l ’altra, e l ’unica interpre­tazione possibile è di tipo contrastivo.

Prendiamo per esempio il romanzo Flamenca. Individuar­vi la presenza del triangolo D{onna)-M(arito)-A(mante), ca­ro a tutta la novellistica e già sperimentato, in Provenza, nel Castia-gilos, non serve a molto. Più interessante rilevare l ’en­trata del triangolo in ambiente cortese, con l ’accoglimento di opposizioni basilari:

16 PARTE PRIM A

matrimonio amore

gelosia dedizione

non cortesia cortesia

Naturalmente andranno distinti i casi in cui il marito è estra­neo al mondo cortese, e quelli in cui, pur appartenendovi, è escluso dal matrimonio stesso a un rapporto cortese con la moglie (cosi per i trovatori, per Andrea Cappellano, per mol­ti romanzi). Per ciò che riguarda la gelosia, si hanno queste due eventualità:

matrimonio include gelosia esclude amorematrimonio esclude gelosia esclude amore,

a seconda che la gelosia esprima uno smodato senso di pos­sesso o i tormenti di un amore infelice (nel qual caso è ap­pannaggio dell’amante).

Il romanzo di Vlamenca si può solo comprendere all’in­terno di una fase post Chrétien de Troyes, in cui amore e ma­trimonio sono conciliati. Archimbaut s’innamora di Flamen- ca come Erec di Enide ( foc amoros, amoros consires, douzor ecc., vv. 159 sgg.; «en Archimbautz sab ben a cui | laissa son cor que ges non porta», vv. 286-87) ‘. La sua gelosia, anche se ingiusta, è descritta con attenzione psicologica negata ai gilos dei trovatori: è una specie di follia. Cosi, nella narrazio­ne, si hanno tre momenti: 1) amore e matrimonio Archim-

1 Cfr. con l’analisi di A . L i m e n t a n i , L‘eccezione narrativa. La Provenza medievale e l ’arte del racconto, Torino 1977, pp. 211-21.

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baut-Flamenca; 2) pazzia di Archimbaut e amore Guillem- Flamenca; 3) rinsavimento di Archimbaut e rinnovato amo­re Guillem-Flamenca. Abbiamo dunque marito e amante si­tuati entrambi in situazione cortese. La vittoria di Guillem è prodotta da due ordini di fatti: a) incrinatura e decaden­za dell’amore di Archimbaut, causa la gelosia; b) superiorità dell’amore di Guillem. Tutto è sintetizzato nelle frasi arci­note che dice Amore a Guillem:

Us fols gelos clau e rescon la plus bella dona del mon e la meillor ad ops d’amar; e tu sols deus la desliurar, car tu es cavalliers e clercs ( w . 1/95-99).

Dunque: Guillem non è solo cavaliere, come Archimbaut, ma anche clercs, uomo di lettere (e lo vedremo comporre un salut d ’amor). Inoltre: se Archimbaut s’è innamorato per vi­sta, Guillem s’è innamorato, più raffinatamente, per fama; se Archimbaut è un veterano d ’amore («ieu conosc ben d ’aitals affars», v. 887; «Eu conosc ben los guins e -ls sinz, | E-l mas estrinz e-ls pes causins», vv. 1135-36), Guillem ne ha solo una conoscenza teorica (vv. 1761-62), sicché per lui amore e amore per Flamenca sono una stessa cosa (unicità di amore).

L ’autore di Flamenca ha dunque dovuto affrontare diffi­coltà create da Chrétien col porre il matrimonio nell’area del­l ’amore. In compenso, è Chrétien stesso che gli ha suggerito la soluzione per il passaggio al terzo momento del racconto. Quando Archimbaut rinsavisce, Guillem deve rafforzare la sua superiorità di cavaliere e di chierico: ciò che farà, analo­gamente a tanti eroi di Chrétien, abbandonando per un po­co Flamenca e compiendo imprese cavalleresche e letterarie in Fiandra. Nel terzo momento del romanzo si realizza dun­que non solo un amore cortese, ma anche un «adulterio cor­tese».

Il filologo deve dunque addentrarsi audacemente fra le strutture dell’opera e cogliere i significati che esse propongo­no. Egli farà tutto il possibile per attenuare qualsiasi feno­meno di «disturbo» nella comprensione; egli dev’esser con­sapevole che gli riserva scoperte più esaltanti l ’ascolto del messaggio sempre vivo emesso dalle strutture semiotiche di un’opera, che non l ’intervento indiscreto delle sue aspirazio­ni di co-autore.

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ι 8 PARTE PRIM A

2.1. Queste osservazioni ci portano al secondo argomen­to annunciato, quello dell’eventuale contributo della filolo­gia alla semiotica. Il fascino delle proposte della semiotica ha fatto si che correnti di pensiero diverse e contrastanti si sia­no ritrovate sotto una medesima bandiera, con equivoci an­che gravissimi. Porrei tra questi equivoci la parziale sovrap­posizione della nuova critica con la semiotica. Una sovrappo­sizione che sta venendo meno, ma che ha sparso confusione e malintesi.

Segnalo brevemente alcuni assiomi caratterizzanti la nuo­va critica, basandomi su affermazioni del suo lucido capofila. Eliminazione del soggetto, sia esso l ’autore o il lettore, unico soggetto essendo il linguaggio: «Il linguaggio non è il predi­cato di un soggetto inesprimibile, o che il linguaggio stesso servirebbe a esprimere, ma è il soggetto» ‘. Conseguente eli­minazione della differenza tra opera e critica, viste come due aspetti di una sola attività, la scrittura: «L ’opera (anche se classica) non è un oggetto esterno e chiuso di cui possa più tardi impadronirsi un linguaggio diverso (quello del critico), non è il supporto di un commento (parola accessoria, avvolta a un centro duro, pieno); priva di origine, la scrittura, dovun­que si collochi istituzionalmente, conosce un solo modo di esistere: la traversata infinita delle altre scritture: quello che ancora ci appare come "critica”, è solo una maniera di "cita­re” un testo antico, che è anch’esso, nel suo prospetto, intes­suto di citazioni: i codici si ripercuotono all’infinito. È dun­que giusto affermare che nel momento in cui nasce una scien­za della scrittura, che è la scrittura stessa, muoiono ogni Let­teratura e ogni Critica»2.

Questa inesauribile traversata delle scritture aborrisce qualunque definitività e gerarchia di significati. Il testo è tra­volto da una pluralità trionfante; in esso «le reti sono multi­ple, e giocano fra loro senza che nessuna possa ricoprire le al­tre; questo testo è una galassia di significanti, non una strut­tura di significati; non ha inizio; è reversibile; vi si accede da più entrate di cui nessuna può essere decretata con certezza

1 R . b a r t h e s , Critica e verità, Torino 1969 [1966], pp. 57-58.1 Ibid.,p.<): è nell’introduzione, scritta per l ’edizione italiana.

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la principale; i codici che mobilita si profilano a perdita d’oc­chio, sono indecidibili»

Paradossali in apparenza, questi asserti si fondano su con­statazioni assai serie. Se è eccessivo sacrificare il locutore al discorso del linguaggio, è però indubbio che il gioco del lin­guaggio determina in modo anche cospicuo l ’espressione let­teraria. L ’idea della lingua come strumento maneggiato dallo scrittore non convince più nessuno. Può sembrare prevarica­zione di critico l ’affermare che «la posta del lavoro letterario (della letteratura come lavoro) è quella di fare del lettore non più un consumatore ma un produttore del testo» 2; si potreb­be dire che tra i soggetti in discussione, quello che viene dav­vero spossessato è l ’autore, non il lettore; che se l ’opera è messa davvero in forse, la critica diventa la regina delle let­ture plurali, delle traversate del testo, della combinatoria dei significanti. Resta però il fatto, non sempre sottolineato ab­bastanza, che il testo incomincia a esistere solo quando lo si legge, che è solo il lettore (il critico, il filologo) a trarre signi­ficati e sensi dai segni che lo compongono.

2.2. Ma la semiotica aiuta a ridimensionare molte di que­ste formulazioni, e perciò anche di queste tesi. Non è lecito contrapporre e sfasare nel tempo significati e significanti, che sono semplicemente le due facce del segno, oppure l ’ordine del significato e quello del simbolico, come fa altrove Bar- thes. L ’idea di promuovere il discorso a protagonista è mol­to brillante, ma estende incautamente una proposta di La­can, valida forse per il linguaggio dell’inconscio. Quando si parla di comunicazione non è in gioco l ’autonomia delle ope­razioni mentali, bensì un assieme di atti di trasmissione: di speech acts, di atti linguistici.

È proprio sulle funzioni comunicative che interviene la co­scienza filologica. Il testo incomincia a comunicare solo quan- ̂do lo si legge, è verissimo. Ma teniamo ben conto di due fat­ti cosi ovvi da poter essere dimenticati. Primo: il testo comu­nica perché vi è stato concentrato un contenuto. Si ricordi il ciclo analisi-sintesi-analisi-sintesi di cui ho parlato all’inizio. Secondo: non esiste soltanto il lettore attuale, il signor Io.

1 R. B A R T H E S , 5/Z, Torino 1973 [1970], ρρ. I I ,2 Ibid., p. 10.

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20 PARTE PRIM A

Da quando il testo è stato scritto, ascoltatori e lettori si so­no succeduti, e la sostanza comunicativa è sopravvissuta alla prepotenza di tante soggettività. Il nostro tesoro di informa­zioni contiene già le informazioni precedentemente assimila­te, e i nostri codici sono la trasformazione dei codici prece­denti. Il filologo ha più di altri il sentimento della durata dei testi.

C ’è di più. Affrontando un testo antico, noi siamo portati indubbiamente a estendere il più possibile la retroattività dei nostri codici. Non si tratta solo di imperialismo del presente sul passato, bensì di un nostro istintivo aggrapparci alla no­stra «competenza» semiotica: solo per l ’oggi noi dominiamo completamente il nesso lingua - sistemi culturali illustrato da Lotman. A un certo punto ci accorgiamo che le estrapolazioni non sono più possibili. Il sistema linguistico del testo rivela l ’illusorietà della sua trasparenza, o si scopre improvvisamen­te opaco. Le nostre conoscenze del sistema culturale del pas­sato appaiono sconnesse o lacunose. È allora che inizia, con i suoi rischi affascinanti, la ricostruzione dei codici non più vi­genti. Il filologo ha la chiara consapevolezza della trasforma­zione dei codici, del loro essere-nella-storia.

La filologia aiuta dunque a superare il soggettivismo e il solipsismo di certe posizioni moderne della critica e, ahimè, della semiotica. La filologia rivendica la funzione dell’emit­tente, non come individuo isolato ma come membro di una comunità culturale, come espressione e interprete di un si­stema di codici. La filologia deduce dalla consapevolezza del­la nostra storicità il riconoscimento a storicità anteriori o, in ogni caso, diverse.

2.3. Le posizioni critiche cui ho accennato rientrano in una grande polemica. Discutere il sens supposi préalable del segno e la gerarchia dei codici, sostituire ai sistemi le pra- tiques signifiantes, è parso un modo di ribellarsi alle cristal­lizzazioni della conoscenza, paragonabili e collegabili con ogni altro autoritarismo. Non si è subito avvertito che questa ribellione è sostanzialmente irrazionalistica, che eliminando la comunicazione rimane soltanto una intersoggettività esta­tica, un gorgo di parole.

Non c ’è dubbio che i segni e i loro sistemi sono soggetti a tensioni contrastanti, non c’è dubbio che ogni gerarchia deve

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avere alternative, e che i modelli stessi sono sistemazioni provvisorie, non solo migliorabili ma dislocabili, non c ’è dub­bio che l ’imparzialità dello scienziato, e perciò anche del filo­logo e del semiologo, è una interessata illusione. Si può però aggiungere che, per quanto riguarda il passato, i giochi sono fatti, e noi possiamo verificare, anche giudicare, ma non mu­tare. Le lacune della nostra ricostruzione sono compensate dalla quasi immobilità delle situazioni (dico quasi per il po­tenziale ancora eventualmente in opera nell’oggi). Inoltre, come abbiamo visto, la persistenza dei codici è assai varia, sicché l ’immagine di una frattura epistemica risulta assai for­zata: molti dei codici medievali sono ancora vigenti, altri conservano vigore da millenni. Qualche legame col passato sussiste sempre.

Quanto al mondo in cui viviamo, la nostra vigilanza può ridurre i condizionamenti, aguzzare lo sguardo verso latenze, contraddizioni, imminenze. L ’atteggiamento decisamente, spregiudicatamente critico, che è proprio del filologo, deve anche essere quello del semiologo: il soffio della ragione, che distingue, si dice, l ’uomo, è la sua unica chance di capire, e perciò anche di situarsi, rispetto al ieri, rispetto all’oggi.

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La natura del testo *

0 .1. Ritengo che non sia stata felice l ’adozione del termi­ne testo per ogni tipo di discorso, scritto e orale1. Diventa infatti necessario usare un attributo (testo scritto, testo let­terario, ecc.) per i testi nel senso tradizionale della parola; e viene indebolita la polarità testo-commento. Naturalmente condivido i motivi teorici che hanno portato all’adozione di un solo termine (ma poteva non essere testo) per quella che costituisce l ’unità fondamentale sulla quale il linguista ope­ra, al fine di individuare il sistema della lingua. Decisione op­portuna, dunque, quando l ’oggetto della ricerca è la lingua come sistema. Quando invece si vogliano studiare gli elemen­ti costitutivi dell’unità e della coerenza di un enunciato, mi pare che sarebbe stato più opportuno non anticipare una con­clusione terminologica a ricerche che potrebbero concludere con l ’eterogeneità delle leggi di coesione dei vari tipi di testi.So benissimo che l ’uso del termine testo è ormai invalso; vo­glio soltanto esprimere il mio imbarazzo nel ricorrervi.

1. Che cosa costituisce un testo?

i .i . G li studiosi di linguistica testuale hanno formulato definizioni del testo molto diverse. In generale, credo che

* In corso di stampa in j. s. p e t ö f i (a cura di), Text vs Sentence, Buske, Hamburg 1979 (in inglese).

1 Alludo al significato attribuito alla parola testo dalla linguistica testua­le tedesca e olandese, su cui si dà competente informazione in m . e . c o n t e (a cura di), La linguistica testuale, Milano 1977 e w. u. d r e s s l e r , Introdu­zione alla linguistica del testo, Roma 1974 [1972]. Questo capitolo è stato scritto infatti per una grande inchiesta sulla linguistica testuale organizzata da J. S. Petöfi (le domande che precedono i paragrafi sono quelle del que­stionario). Il problema terminologico non si pone nel resto del volume, in cui si parla soltanto di testi letterari.

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24 PARTE PRIM A

nessuna vada respinta e nessuna accettata: ogni definizione mette in rilievo elementi reali, ma in una prospettiva unila­terale. Se si insiste sulla tessitura linguistica del testo, si defi­nirà il testo come una successione di segni linguistici (per lo più frasi) enucleabile dal continuum delle elaborazioni lin­guistiche collettive (a) per la sua autonomia contenutistica o (b) per l ’evidenza di segni di demarcazione iniziali e finali. Nel caso b la definizione pare più rigorosamente linguisti­ca; ma in realtà i segni di demarcazione vengono valutati dal­l ’osservatore solo con l ’aiuto di indizi di carattere contestua­le. Nel caso a si fa già riferimento, con i contenuti, al con­testo pragmatico. La tendenza che si sta affermando nella lin­guistica testuale, secondo me giustamente, è appunto quella a prendere in esame, insieme col testo, il contesto pragmati­co in cui esso è stato prodotto. È una necessità evidente in particolare nel caso di testi orali, perché in tal caso è indubi­tabile non solo la commistione dei codici (verbale, gestuale ecc.), ma lo stesso intreccio tra oggetti e situazioni reali e i loro rappresentanti verbali (si pensi ai deittici), e l ’evidenza di implicazioni che in testi d ’altro tipo andrebbero almeno suggerite. Nei testi scritti, il contesto pragmatico è presente in maniera più sfumata; perché se un testo giuridico, un con­tratto d ’affari ecc. hanno il loro punto di partenza in una si­tuazione precisa e definita, e si propongono un risultato perlo- cutivo immediato, un testo letterario può riflettere, della real­tà che circonda l ’emittente, più i condizionamenti che i dati (anche perché guarda a una realtà più vasta), e in genere ope­ra illocutivamente su una scala non precisabile né prevedibi­le. Direi dunque che la definizione dei tipi di testi dipende dalla descrizione dei tipi di rapporto fra testi e contesti.

1.2. Molti testi vengono prodotti, e sono individuati dai riceventi, in base a precise convenzioni. Tuttavia è fonda- mentale l ’apporto dell’osservatore: i limiti del testo sono fis-

* sati dallo studioso del testo. Un «canzoniere», per es., può esser considerato un testo nel suo complesso; ma anche ogni singola composizione può esser considerata un testo. Una conversazione, da quando ha inizio a quando termina, può es­ser considerata un testo unico; ma vi si possono anche distin­guere, su basi tematiche, più testi; e le battute degli interlo­cutori possono essere incolonnate sotto il nome di ognuno di

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LA NATURA DEL TESTO 25

essi, oppure esser considerate assieme, nella loro polifonia. Inoltre, il tema di una conversazione può esser ripreso an­che molto tempo dopo. Non è dunque possibile definire delle regole generali di demarcazione dei testi: ogni studioso deve dichiarare quali regole intende applicare. La validità di un asserto, in questo caso, coincide con la sua operatività.

1.3. Agli effetti linguistici, la differenza tra un testo orale e uno scritto non pare fondamentale; anche il testo ora­le fruisce del contributo dei tratti soprasegmentali, oltre che dell’alleanza con altri codici. Fondamentale è invece un’altra differenza, che coincide in parte notevole con la prima: quel- φ la fra testi ripetibili e non ripetibili. Il testo di una conversa­zione non è ripetibile, perché una sua eventuale trascrizioneo registrazione prescinde dagli elementi contestuali, e viene inserita in una diversa situazione pragmatica. I testi nel senso tradizionale della parola sono ripetibili perché già formulati in vista di una loro ricezione multipla. Essi possono essere ri­prodotti con caratteri e materiale scrittorio diversi, perché il testo non sta nella materialità della scrittura, ma nei valori segnici, convenzionali (5.1).

1.4. Alla domanda «Che cosa costituisce un testo? », da­to quanto ho detto sinora, non si dovrebbe rispondere con una definizione («Il testo è costituito da...»), ma con una se­rie progressiva di restrizioni alla definizione più generale di enunciato. Si dovrà tener conto: a) del tipo di contesto prag­matico in cui un dato tipo di testo viene prodotto; b) del tipo di funzione illocutiva che il testo può svolgere in quel conte­sto, sia esso stato destinato a svolgerla o no; c) delle modali­tà di comunicazione del testo (improvvisato / non improvvi­sato; con/senza ricorso a codici non verbali ed azioni dirette; monologico/dialogico; orale/scritto, ecc.); d) dell’esistenza di norme precise sulla costituzione dei testi (esse sono parti­colarmente rigorose per quelli scritti); e) della misura di ri­petibilità. Solo all’interno di questa graduazione possono es­sere sensatamente formulate delle regole di coesione di ca­rattere grammaticale o tematico: perché queste regole varia­no secondo i tipi di testi.

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2 6 PARTE PRIM A

1.5. In verità c’è un procedimento che permette di repe­r i r e l ’unità di un qualunque testo: si tratta della parafrasi.

Si potrebbe affermare l ’individualità di un testo quando esso permette, a un livello qualsiasi, una parafrasi unitaria. In ef­fetti, ed esemplificando su due estremi opposti, la parafrasi permette o d’integrare in un testo frammentario gli elementi contestuali e le connessioni implicite, dunque d’integrare il contesto nel testo, oppure di eliminare ridondanze ed ele­menti di contorno, mettendo in vista la linea tematicamente unitaria del testo. La verifica qui indicata ha carattere semio­tico, non linguistico. Parafrasi sommaria e parafrasi integra­tiva formulano bensì in enunciati linguistici il «contenuto» di un testo, ma appunto come traduzione di una sostanza se­miotica. Qualora assumessimo le parafrasi nel loro aspetto linguistico, non faremmo che sostituire un altro testo a quel­lo dato. Per questo non possono esistere, a mio avviso, rego­le di trasformazione tra le «strutture profonde» del testo, se­miotiche, e quelle testuali (cfr. 2.1): perché le strutture te­stuali di superficie hanno natura linguistica, quelle profon­de no.

Il reperimento dell’unità del testo mediante parafrasi è una operazione inevitabilmente interpretativa. Se noi consi­deriamo il testo, nel suo aspetto immediato, come una suc­cessione di enunciati elusivi (per il continuo uso di ellissi), ambigui (donde la persistente necessità di disambiguare), di­spersivi (percorsi non lineari logicamente), nell’attuare una parafrasi integrativa noi ricostituiamo gli elementi sottinte­si, rendiamo univoco ciò che si presenta plurivalente, ripri­stiniamo la successione e la consecuzione - dunque la regola­rità temporale e logica - del contenuto dell’enunciato. Sono esattamente le operazioni che si compiono nell’analisi del rac­conto, sia distinguendo la fabula dall’intreccio, sia la fabula dal modello narrativo scomponibile in funzioni. Pertanto le pratiche formalistiche e neoformalistiche possono esser con­siderate un primo e felice esempio di definizione delle « strut­ture profonde» del testo. Soltanto un esempio, perché esse sono state messe a punto esclusivamente per i contenuti di azione, mentre i contenuti del testo sono anche di carattere descrittivo, dianoetico ecc. G li sviluppi che si possono auspi­care all’analisi del racconto, in modo da esaurire la totalità

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LA NATURA DEL TESTO 27

della narrazione, sono gli stessi che si dovrebbero program­mare per l ’analisi del testo.

La parafrasi integrativa non può non estendersi al sistema delle motivazioni. Motivazioni spesso non espresse perché in qualche modo presenti nel contesto pragmatico, o implicite nel testo stesso, o suggerite da rapporti intertestuali. Questa estensione non snatura il carattere della struttura testuale profonda, che non può certo ereditare dal testo le sue (appa­renti) insufficienze e incongruenze, ma conferma l ’eteroge­neità di tale struttura rispetto alla superficie testuale. Quan­to alla parafrasi sommaria, non basta dire che essa è una sin­tesi di quella integrativa. Proprio della parafrasi sommaria è di cogliere gli elementi essenziali, irrinunciabili, del contenu­to, e i loro legami precisi. Il suo carattere interpretativo è dunque fuori discussione. Si può anzi aggiungere che essen­zialità corrisponde a pertinenza in una data situazione prag­matica, e perciò implica una comprensione globale e sicura del contesto. Cosi anche le parafrasi ci portano all’assioma della complementarità di testo e contesto.

1.6. Parafrasi interpretativa e parafrasi sommaria sono termini necessariamente approssimativi. Fatto sta che il no­stro modo di comprendere, e più ancora di riformulare il con­tenuto di un testo, consiste nell’attingere alla sua costituzio­ne semiotica «traducendola» subito in parole. Le infinite pa­rafrasi possibili, le formalizzazioni tentate, passano sempre attraverso questo stadio semiotico per uscirne con espressio­ni verbali. Definiamo il testo mediante un altro testo, in un processo senza fine.

Forse si dovrebbe ancora meditare sul concetto di strut­tura di un testo. Ammettiamo che la struttura sia l ’assieme dei rapporti immanenti tra tutti gli elementi semantici di un testo. Ogni sforzo di definire questa struttura impone delle scelte: si tratta d’individuare, tra tutti i rapporti, quelli più significativi, se possibile le leggi che li sorreggono. È nell’am­bito di queste scelte che si stabiliranno anche delle «misure», preferendo secondo le necessità descrizioni semplici o pluri­me, concise o particolareggiate. Esempio tipico l ’analisi del racconto, che sceglie come rapporti privilegiati quelli attinen­ti la sfera dell’azione, e di volta in volta decide se mantener­si al livello delle azioni esplicite, o giungere a quello più

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28 PARTE PR IM A

astratto della natura delle azioni in rapporto con lo svilup­po del plot.

Può essere suggestivo considerare le varie rappresentazio­ni possibili del «contenuto» di un testo lungo una linea che va dal massimo di astrazione al massimo di particolarizzazio- ne e di articolazione. Si parla allora di strutture profonde e di strutture superficiali; ciò che sarebbe del tutto innocente, se questa terminologia generativa non suggerisse un tipo di sta­tuto che non è certamente quello delle nostre strutture se­miotiche.

Si deve innanzitutto respingere una visione genetica di questo fascio di strutture. La nostra cosiddetta struttura pro­fonda (a) non coincide col progetto di testo che aveva in men­te chi lo ha prodotto: tale progetto è stato infatti continua- mente adeguato al mutare della situazione esterna ed anche interna (sopravvenire di altre motivazioni); (b) non è dimo­strabilmente identificabile col sistema di forze da cui l ’emit­tente era condizionato o che egli voleva estrinsecare.

Ancor più si deve respingere l ’idea che il testo sia il risul­tato ultimo di una serie di trasformazioni da una struttura profonda (che come ho detto non gli preesiste) a strutture su­perficiali e infine al discorso realizzato. Non si può infatti parlare di leggi per un avvenimento unico e non replicabile come sono le operazioni costitutive di quel testo in quel con­testo e in quel momento. (Naturalmente sono in gioco nume­rosi codici e regole, ma essi non estendono la loro azione sui processi che precedono l ’enunciazione).

Bisogna rendersi conto che le strutture da noi individuate, a diversa profondità, nel testo esistono solo dal momento in cui il testo esiste: esse hanno infatti il loro supporto nella glo­balità della struttura immanente del testo. Se ci liberiamo dei nostri idola temporali e genetici, ci rendiamo conto che il mo­do di procedere regressivo (dal testo alle strutture profonde) non è euristicamente meno redditizio di quello progressivo (dalle strutture profonde al testo). Ciò che importa è che, in­dividuando e classificando queste strutturazioni, cogliamo i nessi tra le strutture semiotiche del testo e la loro manife­stazione.

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LA NATURA DEL TESTO 29

2. Quali sono le proprietà di un testo che non possono es­sere in nessun caso proprietà di una frase?

2.1. Rispondere a questa domanda equivale a precisare le differenze tra la grammatica (che regola la costruzione delle frasi) e una eventuale grammatica testuale (che regole­rebbe i collegamenti tra le varie frasi). Queste differenze pos­sono esser verificate in vario modo.

Data una lingua, sono note ed elencabili le trasformazioni fondamentali a cui una frase nucleare può essere sottoposta (attivo/passivo, negazione, interrogazione, ecc.); queste tra­sformazioni interessano tutti gli elementi della frase, anche se non sempre li mutano. Se invece, con una parafrasi som­maria, definiamo il «contenuto» di un testo, le possibilità so­no queste: 1) considerare questa parafrasi come «sintesi» del testo dato, e avente col testo il rapporto biunivoco de­scritto ad 1.6; 2) considerare questa parafrasi come un ab­bozzo sviluppabile in una serie infinita di testi (questo è il caso di un modello narrativo rispetto alle narrazioni realiz­zate). Nel primo caso il testo è un dato, e le nostre operazioni di schematizzazione o di riverbalizzazione sono soltanto degli sforzi per coglierne la struttura globale: le trasformazioni so­no quelle della nostra progressiva sintonizzazione. Nel secon­do caso i modi di dar forma alla sostanza del contenuto sono infiniti (e non linguistici), e infinite le espressioni possibili per una data forma del contenuto. Non si tratta di trasforma­zioni (solo linguistiche) ma di sviluppi (contenutistici; e lin­guistici soltanto al momento delPestrinsecazione dei conte­nuti elaborati). In breve: mentre il passaggio dalle frasi nu­cleari alle strutture di superficie è linguistico, quello dal con­tenuto del testo alle sue strutture di superficie è, come affer­mato prima, semiotico.

Una seconda verifica ce la fornisce la storia stessa della linguistica testuale. Se ci rivolgiamo agli studiosi che hanno cercato di individuare regole grammaticali del testo (anafora, pronominalizzazione, rinominalizzazione ecc.), ne trarremo l ’impressione che queste regole riguardino soltanto alcuni elementi delle frasi: quelli che operano la saldatura delle fra­si in testo. Viceversa gli studiosi che hanno insistito di più sul piano contenutistico e tematico (topic/comment, presup­

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posizioni, implicazioni ecc.), abbracciano una porzione più ampia della sostanza del contenuto, ma non le articolazioni grammaticali. Ritengo costituzionalmente impossibile che la convergenza dei due tipi di analisi approdi a una piena inte­grazione. Tranne che in esempi fittizi, ogni frase appartiene a un testo o costituisce un testo. Pertanto la sua elaborazione è già avvenuta tenendo conto sia dei rapporti contenutistici, sia delle regole grammaticali, sia delle «regole di connes­sione».

Semplificando un po’, si può dire che gli studiosi del te­sto adottano o un’ottica orizzontale (che collega elementi del­la superficie del testo) o un’ottica verticale (che collega la su­perficie del testo con la sua supposta struttura profonda). L ’incompatibilità fra le due ottiche è superabile solo se si prendono in considerazione i processi di produzione del te­sto.

Il testo è un enunciato. Esso è il risultato di una serie di collegamenti, contenutistici e grammaticali, che non vengono perfezionati nell’ordine che a noi è utile distinguere a poste­riori ( sostanza e forma del contenuto, sostanza e forma dell’e­spressione), ma attraverso una serie continua di messe a pun­to contemporaneamente contenutistiche e grammaticali. Le due prospettive: «dall’enunciato al testo», «dal testo all’e­nunciato», costituiscono dunque due ordini possibili di ricer­ca, ma non hanno corrispondenza col processo dell’enuncia­zione, in cui gli enunciati vengono elaborati simultaneamen­te al testo. Individuare regole testuali consìste nel cogliere entro l ’enunciato i segni dell’enunciazione.

2.2. Naturalmente noi abbiamo gli enunciati e non le enunciazioni. I collegamenti che si possono istituire (a) tra una frase e la grammatica di una data lingua, (b) tra una frase e le altre del testo a cui appartiene, rientrano in due pro­spettive antinomiche come la diacronia e la sincronia. Nel momento in cui confronto una frase col paradigma a cui è ri­feribile, io la detestualizzo; nel momento in cui la confron­to con le altre dello stesso testo, io non ne accetto soltanto la struttura grammaticale, ma i valori semantici e le implicazio­ni che la legano indissolubilmente a tutte le altre frasi del testo.

C ’è di più: analizzando una frase si deve tener conto del­

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LA NATURA DEL TESTO 31

le valenze semantiche implicate, ma nell’ambito dei valori che ad esse conferisce la langue. Viceversa il testo d’uso (il testo non letterario) costituisce un blocco unico con la situa­zione pragmatica, dato che vi è immerso, è condizionato da essa e la condiziona. Perciò, mentre la grammatica indica del­le norme o, al massimo, delle possibilità d ’uso, un’eventuale grammatica del testo dovrebbe considerare l ’uso della lingua indissolubilmente dalla situazione pragmatica.

Quando si esamina un testo, le alternative che si prendo­no in considerazione per ogni frase non sono tutte quelle pos­sibili, ma soltanto quelle possibili in quel testo. È perciò che le regole testuali ci appaiono soprattutto come liste di compatibilità e di incompatibilità tra elementi di frasi suc­cessive (qui si può o si deve usare il nome, qui il pronome; qui si può o si deve usare l ’articolo indeterminativo, qui quel­lo determinativo, ecc.).

Su questa linea, comunque, le ricerche possono continua­re utilmente. Il programma massimo che si può enunciare è forse questo: date le frasi a, b, c, d ecc., indicare quali sono le forme permesse per una frase n che esprima il contenuto x.I risultati son resi più difficili dal fatto che la frase « sarà anche condizionata dalla forma e dal contenuto della frase n + i che la seguirà, e cosi via. Si presenta sempre il rinvio dall’enunciato all’enunciazione; anche se ora l ’analisi pro­gressiva indicata permette di simulare i processi enunciativi.

3. Quali sono i compiti della linguistica testuale? (Quali sono le aree della linguistica testuale che si possono in­dividuare e quali relazioni esistono o dovrebbero esi­stere fra tali aree?)

3.1. Sotto 1.4 e 5.1 elenco quelli che dovrebbero essere, a mio avviso, i compiti della linguistica testuale. Qui prove­rò invece a definire unitariamente il campo di lavoro. Credo si possa partire da questa dichiarazione di intenti: compito della linguistica testuale è studiare la produzione di unità co­municative. Spiegherò brevemente questa definizione. Par­lando di «unità comunicative» si precisa l ’ambito della ricer­ca in seno allo studio della comunicazione in generale, ma nello stesso tempo si indica la prospettiva in cui vengono po-

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sti gli «oggetti» linguistici osservati. Si tratta insomma di analizzare l ’articolarsi dei discorsi in testi, in funzione dell’u­so comunicativo. Con «unità» si segnala appunto la combina­zione di elementi semplici, che da soli non costituiscono di­scorsi comunicativi, bensì, al massimo, appelli. Quanto alla parola produzione, essa è da intendere nel senso di una atti­vità includente anche il suo risultato concreto, il prodotto. Vantaggio di questo termine è di abbracciare l ’enunciato in­sieme alPenunciazione (cfr. 2.1 e 2.2): dato che lo studio del testo, comunque venga svolto, richiede un riferimento ade­guato all’atto che gli ha dato origine.

Si potrebbe anche seguire un cammino assiologico inver­so. Si potrebbe affermare che lo scopo della linguistica testua­le è di studiare la competenza testuale. E allora si potrebbe distinguere tra la competenza linguistica, che permette di formulare delle frasi ben formate, la competenza testuale, che permette di collegarle in un discorso, e la competenza re­ferenziale, che consente di usare le altre due competenze in rapporto a precise situazioni, e necessità, pragmatiche. V i so­no disturbi psichici che, lasciando intatte le prime due com­petenze, compromettono o annullano la terza. Definizioni troppo analitiche, anche se si precisa la gerarchia funzionale delle tre competenze: competenza referenziale > competenza testuale > competenza linguistica.

Ciò che va sottolineato è il legame biunivoco fra compe­tenza linguistica e competenza testuale: la seconda si può realizzare solamente attraverso la prima, la prima non con­sente da sola di congiungere frasi in enunciati.

La linguistica testuale dovrebbe studiare la combinazione di queste due competenze. Sinora ha ritenuto più opportuno, forse a ragione, vedere una di esse nella prospettiva fornita dall’altra. Se la prospettiva era quella della frase, ha cercato di individuare regole che eventualmente governino il colle­gamento tra le frasi che istituiscono il testo; se la prospettiva era quella del testo, ha cercato di cogliere i collegamenti transfrastici che valicano i limiti delle frasi, considerate co­me dei dati.

Più esauriente, ed è già stata tentata, una rappresentazio­ne di tutti gli elementi in gioco, linguistici e pragmatici. Es­sa sfocerebbe in un modello della produzione di unità comu­nicative. Si tratterebbe di un modello di situazioni di discor­

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so. Se questo modello riuscisse pure a rappresentare presen­za, assenza e quantità degli elementi in gioco, esso funzione­rebbe anche come modello dei tipi di enunciati. Non direbbe nulla, naturalmente, sui singoli enunciati, sui quali sono for­mulabili soltanto spiegazioni a posteriori. Non si possono in­fatti pronunciare previsioni se non dopo l ’avvio del proces­so enunciativo; prima, le possibilità di ordinamento e di for­mulazione sono infinite. Unica mediazione tra modelli e tipi è quella dei generi e delle écritures: ma tocchiamo una feno­menologia che ha compattezza solo nel caso di testi letterari o in qualche modo convenzionali (giuridici ecc.).

Questo modello non potrebbe dar conto dei singoli testi, potrebbe però dare indicazioni sulla validità (secondo le si­tuazioni di discorso) di questa o di quella regola testuale: co­stituirebbe perciò il tramite fondamentale tra un elenco di regole testuali e la precisazione della loro area di applica­bilità.

4. Quali compiti della linguistica testuale non possono in nessun caso essere affrontati dalla linguistica della fra­se?

4.1. La risposta più semplice potrebbe essere questa: ad una frase è sufficiente di ottemperare alle regole della lingui­stica della frase; mentre un testo deve soddisfare le necessità della comunicazione. Grammaticalità per la frase; grammati­calità + comunicabilità per il testo. Parlando di necessità del­la comunicazione, alludo contemporaneamente a eventuali regole di compatibilità tra la forma di una frase e quella del­l ’altra, e a tutta la rete di implicazioni e di possibilità ellit­tiche che il contesto pragmatico fornisce: ha origine qui l ’e­conomia del testo, che altrimenti richiederebbe un’estensio­ne intollerabile anche per un enunciato d ’importanza mi­nima.

Il sistema (lingua) ha origine nel processo (testi). L ’esigen­za realistica, che ci fa tornare ai testi dopo tanto indugiare sul sistema e sui suoi elementi, non deve però annebbiare il mo­vimento bidirezionale tra processo e sistema. Il succedersi di processi continua a precisare la validità delle regole, che a loro volta affrontano situazioni nuove quando vengono ri­

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portate dal sistema ai processi, cioè funzionalizzate a singo­li atti comunicativi. Si tratta di un rapporto già ben descritto come dialettica langue-parole, ma che ora, con la formula lin­gua-testo, può meglio tener conto di tutti gli elementi costitu­tivi della comunicazione.

Rischio, a questo proposito, di cadere nell’ovvio. Ma suc­cede talora, leggendo lavori di linguistica testuale, di avver­tire un disperdersi delle osservazioni sui casi più complicati o stravaganti che potrebbero rendere o non rendere ammissibi­le un dato testo. Agli effetti dello studio del testo, si tratta di estrapolazioni contestabili, perché il testo è stato emesso in una, e una sola, situazione. Senza dubbio si può ricorrere alla competenza testuale, creare degli exempla fida. Ma allora il procedimento corretto è, mi pare, indicare prima la situazio­ne ipotizzata, poi il contenuto da esprimere, infine le forme di espressione ammesse. Diverso il caso delle regole gramma­ticali, che rimangono intatte, e sulle quali perciò gli esercizi di applicazione sono attuabili senza verifiche esterne. Occor­re dunque evitare il rischio di portare una mentalità gram­maticale nello studio del testo, e una mentalità testuale nello studio grammaticale delle frasi.

5. Qual è il compito più urgente della linguistica testuale, e come potrebbe o dovrebbe essere attuato nel modo ottimale?

5. X. Non penso che si possano suggerire indirizzi di ricer­ca a studiosi che da anni seguono, attentamente, le piste che hanno considerato migliori. Quanto a me, i problemi che con­sidero più interessanti sono questi:

a) la definizione dei tipi di testi (cfr. 1.4). È probabile che i tipi di testi si raggruppino in un numero limitato di classi: queste classi andrebbero definite in base ai loro rapporti con la situazione pragmatica e all’eventuale regolazione di tali rapporti^td opera di convenzioni generalmente accettate. In­fine si dovrebbe decidere se queste classi sono riportabili a una noziofie unica di testo.

AlPinterno dei tipi di testi, sarà importante precisare: a') le caratteristiche del testo letterario. È infatti questo che

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pone le maggiori difficoltà a una definizione unica dei testi, per almeno due caratteristiche: i) esso mantiene la sua pos­sibilità comunicativa anche al di fuori del contesto pragmati­co: nel testo letterario avviene una introiezione dei riferi­menti contestuali, che perciò il lettore può dedurre dal testo stesso; 2) esso può violare le (talora: tutte le) regole gramma­ticali e logiche, normali supporti alla coerenza dei testi. Men­tre il punto 1 andrà affrontato complessivamente da una pragmatica dei testi, il punto 2 può trovare soluzione solo mediante il metodo della parafrasi (cfr. 1.3): più precisamen­te, mediante parafrasi motivazionali, che esplicitino le pre­messe teoriche (di poetica) del testo dato. Sono specialmente le avanguardie che amano mettere in questione la lingua e la logica correnti, e propongono, in vista di una antilingua e di una antilogica, esempi di violazione sistematica. La coerenza testuale di questi esempi è istituita unicamente dalla loro mo­tivazione, mediante iperenunciati performativi quali: «Que­sta serie incoerente (o illogica, ecc.) di parole (o sintagmi, ecc.) vuole rappresentare (preannunciare, ecc.) l ’incoerenza di X».

Forse la caratteristica principale del testo letterario, agli effetti della linguistica testuale, è la pluralità delle attitudini comunicative. Il testo letterario è passibile di un numero al­tissimo (forse infinito) di segmentazioni: può essere scompo­sto in blocchi diversi di unità segniche, secondo diversi «per­corsi di senso». Il sovraordinarsi e il subordinarsi di questi percorsi realizza a volte la gerarchia propria delle semiotiche connotative, ma spesso si indirizza in direzioni differenti, o persino opposte. Per questo il testo letterario non finisce mai di parlare, non ci consegna una verità ultima. Slegato dalla si­tuazione, esso non è assoggettato ai suoi interventi selettivi sul senso.

b) la distinzione tra le regole di linguistica testuale valide per singole lingue e quelle di validità universale. Le differen­ze si possono mostrare a posteriori (i procedimenti anaforici e l ’uso dei deittici variano alquanto secondo le lingue) e a priori (le convenzioni comunicative e i tipi di contesto hanno carattere culturale, perciò mutano secondo tempi e luoghi). In altre parole, si tratta di distinguere tra la competenza te­stuale in una data lingua e la competenza testuale complessi­va, che alla fine risale forse all’umana capacità di connettere.

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3<S PARTE PRIM A

A questo punto la linguistica testuale non può non collegarsi con la logica e con la psicolinguistica.

c) la distinzione tra regole testuali e suggerimenti stilisti­ci. Retorica e stilistica vengono spesso indicate tra i preceden­ti della linguistica testuale: la quale ha a sua volta accolto termini della retorica e della stilistica (anafora, ellissi, ecc.). La retorica, muovendo tra il polo del gusto (quest’uso è più elegante di quell’altro) e il polo dell’azione linguistica (que­st’uso è più efficace di quell’altro), viene in molti punti a col­limare con la linguistica testuale. Lo sforzo di separare i due àmbiti può chiarire quali siano gli elementi obbligativi delle regole testuali, e quali quelli alternabili in rapporto alle fi­nalità.

d) indagini sulla «consistenza» del testo. In genere i testi orali (conversazioni, dibattiti, ecc.) vengono studiati dalla linguistica testuale in trascrizioni, che possono evocare ma non rappresentare tutti gli elementi extralinguistici del con­testo di attuazione. L ’inconveniente più grave di queste tra­scrizioni è che esse conferiscono al testo orale caratteristiche che gli sono estranee: linearità non univoca, perché lo si può rileggere parzialmente o totalmente; definitività, perché es­so viene esaminato come un dato, mentre costituiva un pro­cesso dagli esiti non (o non completamente) predeterminati, ecc.

Persino il testo scritto presenta problemi a cui non sem­pre si è prestata attenzione. Ogni testo scritto è in realtà tra­scritto: da un copista, da un tipografo. Anche l ’autografo è una trascrizione (dalla brutta copia); e la brutta copia costi­tuisce di norma un testo non definitivo. Insomma, ogni tra­scrizione è anteriore o posteriore al testo; nessun testo può essere identificato col Testo. La critica testuale ha messo in rilievo da secoli la serie di incidenti di trascrizione (trivializ- zazioni, incroci, anticipi ed echi, dettatura mentale, ecc.) a cui sono soggetti non solo i copisti, ma gli autori. Perciò lo studio del testo dovrebbe in verità affrontare 1’« immagine del testo» deducibile dalla tradizione valida di un testo dato

Questa «immagine» non s’identifica, a mio parere, con il testo concreto, ma col suo complesso segnico liberato dai gua­sti della sua materialità e della trasmissione. Occorre decide­

1 Vedi qui il capitolo 5 e VAppendice.

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LA NATURA DEL TESTO 37

re se chiamare testo la realtà fisica di fogli di pergamena o di carta coperti di segni grafici, o la realtà mentale che il letto­re (e l ’autore stesso, una volta terminata l ’opera) mette in es­sere mediante la lettura. Occorrerà tener conto, nel secondo caso, che ogni lettura è una forma di «esecuzione», e che nes­suna lettura è esente dall’intervento dei codici, linguistici e culturali, del lettore. Occorre il massimo impegno perché 1’«immagine del testo» di input corrisponda quanto più fe­delmente possibile all’«immagine del testo» di output (e qui è irrinunciabile il contributo della «filologia»); ma si deve anche aver coscienza che, come nelle esperienze della fisica, l ’intervento dell’osservatore non può turbare le condizioni dell’osservazione. Non si può pertanto studiare un testo al di fuori di una fenomenologia della lettura e della percezione.

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Il segno letterario *3·

Chiamerò rapporto segnico quello intercorrente fra signi-

IS tc—:— · chiamerò rapporto discorsivoS.to

quello intercorrente fra i segni (monemi) costituenti il discor­so : segno + segno + segno + n segni.

Lo studio del segno letterario è lo studio dei rapporti tra questi due rapporti: studio della significazione.

Il caso più semplice è quello, non solo letterario ma lin­guistico in genere, della significazione degli enunciati. La se­mantica moderna ha già rilevato che il significato delle singo­le parole è determinato dall’assieme del discorso (dal co-te­sto). Perciò nella serie segno + segno + segno + n segni, il si­gnificato del singolo segno (segno verbale) è costituito — tra tutti quelli possibili (elencati dal vocabolario) - da una se­rie di successive esclusioni determinate dai segni vicini. Que­sto permette subito una precisazione importante: il rap­porto segnico è condizionato da quello discorsivo, non meno di quanto quello discorsivo sia condizionato da quello segni- co (oltre che dal sintattico). Ogni monema non è un segno con significato proprio, ma può essere (costituire) molti se­gni, entro la totalità dei discorsi in cui può ricorrere. Si resta ancora in ambito linguistico precisando che nel rapporto di­scorsivo i segni vengono interessati più volte, secondo pro­gressivi raggruppamenti: ogni monema ha un suo significa­to, ma lo ha anche ogni frase, e via via gruppi di frasi sem­pre più ampi sino alla totalità dell’enunciato:

* In corso di stampa negli Atti del convegno di Bressanone (luglio 1976) su Simbolo, metafora e allegoria.

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40 PARTE PRIM A

S.te

S.te S.te S.te S.to S.to S.to

S.to

Questi raggruppamenti di segni costituiscono a loro volta dei segni: li chiamerò plurisegni discorsivi.

L ’elemento peculiare del discorso letterario è l ’esistenza di connotazione, cioè la validità sul piano dell’espressione dell’assieme del piano dell’espressione e del piano del conte­nuto di un livello inferiore, denotativo. Io seguirò qui un ap­proccio più elementare ed empirico, che però converge a un arricchimento del concetto di connotazione.

Cercherò di ricostruire il procedimento di lettura, stante che i segni non esistono in sé ma vengono istituiti attraverso una sintesi attuata con la lettura (che rinnova la sintesi della scrittura). La lettura ha Pirrinunciabile punto di partenza nel discorso come struttura linguistica; essa ha pertanto le proprietà che discendono dalla linearità del discorso e dalla pluralità di segmentazioni possibili.

Un primo punto è dunque da sottolineare: che dai mede-* simi elementi del discorso si possono ritagliare più segni. Ciò

non vale solo in direzione di generalizzazione, per la quale si può arrivare a un significato sintetico anche per un enunciato lunghissimo:

S.te S.te S.te S.te S.to S.to S.to S.to

S.to S.to

S.to

Ciò vale anche per l ’individuazione di una compresenza di si­gnificati, per es. narrativi, descrittivi, tematici ecc.:

-ι-η-|----- — — ----- — |——1----- — |— |----- -----— r—.----- 1-|------- --- » dlSCOrSO

---------------- -------- -------- -------- -------- -------- i* serie di significati

____ ____ ____ ____ _________ 2* serie di significati

---------------- -------- -------- -------- 3* serie di significati

Non è pertinente, in questa ricerca, la funzionalizzazione o meno delle stesse zone del discorso per l ’individuazione di significati diversi, ma è sempre bene sottolinearla, perché è

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IL SEGNO LETTERARIO 41

conseguenza della sussistenza «letterale» e non oggettiva dei segni. I segni ritagliati da punti separati del discorso si pos­sono chiamare plurisegni intradiscorsivi.

Sin qui ho parlato di elementi in cui è immediata e totale l ’interazione tra S.nti e S.ti: in cui le caratteristiche formali del discorso vengono scarsamente utilizzate. A ll’estremo op­posto ci sono i reperimenti di «figure» entro i significanti (segni intraverbali) : figure che poi assumono un significato (Saussure negli sviluppi di Kristeva e Agosti; figure foniche; colori vocalici e consonantici; allitterazioni), meglio confer­mabile e riconoscibile se collegato con i significati di contenu­to (Beccaria). Insomma gli elementi del discorso in parte ad­ditano direttamente dei significati, in parte li creano, attra­verso la loro concatenazione fonica, a prescindere dai precisi nessi sintattici e semantici. È come se ci fosse una «vischiosi­tà» nel passaggio attuato (con la lettura o l ’ascolto) da S.nti aS.ti, come se in questo percorso verso i S.ti s’indugiasse nella fisicità fonica del testo, in giochi articolatori e combinatori.

Accanto a questa utilizzazione, microscopica, del discorso, ce ne sono altre, macroscopiche, sempre di natura segnica: per esempio, l ’uso di monemi o gruppi di monemi a scopo retorico. Questo uso è spesso iconico1 :

anafora: — ..........

epifora:

complexio:

poliptoto: — (1°)..........— (2°)............ — (3“)

antitesi: — / —

comparazione : — —

’ Nei primi quattro esempi si valorizza il tema rispetto al rema.

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42 PARTE PRIM A

Ma la definizione di iconico è solo formale. L ’interessante è che le figure retoriche hanno funzione interpretativa rispet­to al significato stesso delle parti di discorso cui appartengo­no; insomma sono raddoppiamenti di segno. La loro è una funzione indexicale rispetto al mero contenuto denotativo; indexicale e amplificatoria. In questo caso non c’è sovrappo­sizione di segni, ma somma di segni, sovraccarico di segni.

Negli esempi citati la linearità del discorso è, in qualche modo, rispettata. Ma pensiamo alle parole-chiave, alle paro- le-tema, ai punti distinti di Terracini, alle isotopie di Grei- mas. Certo, possiamo considerarli come un discorso secon­do, un ipodiscorso. Essi si collegano da un punto all’altro del co-testo, creano una specie di discorso asintattico in cui si valorizzano elementi concettuali isolati piuttosto che nessi e sviluppi consequenziali. Cosi la linea del significato frastico e transfrastico viene a intrecciarsi con una o più linee di si­gnificati concettuali. Ma quello che va rilevato è che queste linee concorrenziali possono anche istituire un antidiscorso, esercitare subliminalmente una critica al discorso esplicito. Possibilità utilizzata spesso dai poeti, in una specie di «per­suasione occulta». In questi casi abbiamo un richiamarsi dei monemi, a distanza, secondo leggi di coerenza diverse da quelle che realizzano la loro significazione fondamentale. L ’asse dell’antidiscorso può essere orientato diversamente da quello del discorso, o non essere orientato:

----- ------ ------ ------ ------ ------------- ------ ------ ----- > discorso

------------ ------------- ------------- ------------ significazione

<------------------------ ------------- ------------------------- » anti discorso

perché questo segue comunque la linearità di una metasin- tassi, mentre quello confluisce alla sintesi memoriale tro­vandosi un ordinamento proprio: come gli allineamenti ver­ticali attuati, ad altro scopo, da Lévi-Strauss.

Un accenno a parte va riservato a ritmica e metrica. Il lo­ro apporto alla significazione è molto complesso. Certo, un ritmo o una forma metrica possono avere una funzione sug­gestiva, perciò affine a quella dei giochi fonici. Ma questo non è decisivo. Esaminati in modo autonomo, gli schemi metrico- ritmici costituiscono codici forti, simili a quelli musicali per

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IL SEGNO LETTERARIO 43

la mancanza di un significato protocollabile, verbalizzabile. Tecnicamente, è da sottolineare la loro natura ipostatica, cioè il loro utilizzare in modi acconci proprietà dei monemi costituenti il co-testo: accenti, pause, lunghezza delle parole. Appunto qui il loro primo valore significativo: essi formano uno «schema vuoto» in cui i monemi vengono ordinati. Que­sto «schema vuoto» I) presenta alternative, II) presenta co­strizioni. Tra alternative e costrizioni il fluire del discorso viene enfatizzato e sottolineato, con effetti di attesa / sorpre­sa, monotonia / rottura della monotonia. S’istituisce cosi, gra­zie a questi segni di rincalzo, una forma rigorosa di dialettica tra il detto e il dicibile, modo di additare (ancora in forma in- dexicale) la definitiva scelta dei segni del discorso e i rapporti intradiscorsivi, di richiamo o di opposizione, tra le sue parti non attigue.

Ma gli schemi, specialmente metrici, hanno anche un’al­tra funzione, di carattere per cosi dire sintonizzante. Sono dei «segnali di emissione». Quando trovo lo schema d ’un so­netto o d’una canzone o d’un romanzo, mi sintonizzo a pren­dere contatto con un certo tipo di significati. La mia scelta tra possibilità non è più infinita, ma limitata, e cosi le inter­pretazioni che riterrò di poter attuare. Si tratta di una deli­mitazione di campo entro l ’universo dei segni. Essa fa parte, evidente, della pragmatica, nello stesso modo che la com­prensione di un enunciato è possibile solo conoscendo il con­testo, del quale l ’enunciato non può, per economia, osten- dere tutti gli elementi. Parleremo dunque di segni selezio­natori.

Di qui potrei passare a un’analisi delle unità letterarie co­me unità segniche, inserendo in un modello comunicativo la funzione del testo letterario. Ma non voglio uscire dalla stra­da dell’empiria in cui ho cercato di mantenermi. Su questa strada, abbiamo incontrato segni verbali (monemi), plurise- gni discorsivi (frasi e gruppi di frasi), plurisegni intradiscor­sivi (ottenuti da elementi non attigui del discorso), segni in- traverbali (ottenuti da elementi fonici non attigui del discor­so); abbiamo individuato segni di rincalzo e segni seleziona­tori. È tutta una nomenclatura che potrà esser integrata e perfezionata.

Per concludere, vorrei discutere il famoso assioma delle Tesi di Praga del '29 secondo cui «il principio organizzatore

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dell’arte, in funzione del quale essa si distingue dalle altre strutture semiologiche, è che l ’intenzione viene diretta non sul significato ma sul segno stesso». Se l ’asserto venisse in­terpretato, d’accordo con molti strutturalisti, come afferma­zione del primato del significante sul significato, esso sareb­be da respingere. Evidentemente si è stati suggestionati dal­l ’opposizione significato-segno, quasi che segno stesse per si­gnificante. Che invece segno vada qui inteso secondo l ’orto­dossia saussuriana, risulta da quanto detto poco prima: «Dal­la teoria, in cui si afferma che il linguaggio poetico tende a mettere in rilievo il valore autonomo del segno, risulta che tutti i piani di un sistema linguistico, aventi nel linguaggio della comunicazione un ruolo strumentale, assumono nel linguaggio poetico valori autonomi più o meno notevoli». In più, è evidente nelle Tesi la polemica, sacrosanta, contro il gretto contenutismo di certa critica, specie ideologica.

Le conclusioni che invece credo di poter trarre dalle po­che e sommarie osservazioni che son venuto facendo, consi­stono in una rivalutazione e illustrazione del concetto hjelm- sleviano di connotazione. Da precisare in questo modo:

i) l ’opera letteraria consiste in una interrelazione ed in­tersecazione delle funzioni significanti, che va al di là di quanto previsto dalle norme di attuazione del discor­so comunicativo.

n) nell’opera letteraria si realizza un rallentamento, una morosa delectatio nel passaggio tra significante e si­gnificato: è nei voluttuosi indugi di questa discesa al significato che si verifica, più che «le plaisir du texte», l ’individuazione delle valenze che sorreggono la rete intricata del senso.

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La gerarchia dei segni *4·

Dai tempi di Peirce ad oggi, è passato un secolo circa; e la semiotica è stata inventata due o tre volte. (Di che cosa sia segno questo curioso fenomeno sarebbe da chiarire). Ora, la semiotica è scienza riconosciuta ufficialmente, con associazio­ni, riviste e sfruttamento editoriale. Le terminologie dei vari autori vengono mescolate e confuse, anche perché si prescin­de spesso dalle loro basi teoretiche. Proprio da quella di Peir­ce, la più complessa e minuziosa, si traggono parole (indice, icona, simbolo; qualisegno, sinsegno, legisegno, ecc.) senza sempre riportarle, come faceva Peirce, ai concetti di «primi- tà», «secondità», «terzità», che ne costituiscono la base fi­losofica. Una base anche totalmente contestabile, ma solo a patto di sostituirgliene una più solida.

Scienza riconosciuta, dicevo, la semiotica; anzi scienza guida (o pretesa tale). Chi però si soffermi sulla ormai strari­pante produzione che va sotto il suo nome, si accorgerà con stupore che i problemi del segno vi sono affrontati di rado e con impegno ridotto. Quasi che l ’aver stabilito la natura se- gnica di ogni fatto culturale esaurisse l ’esigenza di definirla. Esprimiamo pure i fenomeni dell’esperienza, della percezio­ne, dello scambio di oggetti e idee in termini segnici. Ma ne avremo vantaggio soltanto se la visione segnica permetterà di descrivere o classificare meglio quésti fenomeni: ciò che si può escludere se si generalizza l ’uso indifferenziato della pa­rola segno.

Ho insistito già altre volte - e non sono il primo — sulla

* Già pubblicato in a . v e r d i g l i o n e (a cura di), Psicanalisi e semiotica, Feltrinelli, Milano 1975, pp. 32-42.

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46 PARTE PRIM A

necessità di distinguere anzitutto tra segni convenzionali e se­gni non convenzionali. I segni convenzionali (che chiamo se­gnali) vengono istituiti per iniziativa personale (alfabeto Braille e Morse, cartelli stradali, lingua dei sordomuti o dei trappisti, segnalazioni con bandiere, ecc.) o per creazione col­lettiva, ma trasmessa in forma cogente (la grammatica e il les­sico di una lingua). Solo per i segnali si può parlare in senso proprio di codici. Essi hanno infatti le seguenti proprietà: i) sono costituiti di elementi discreti; 2) sono insiemi chiusi (nel senso che ogni mutamento dev’essere notificato e ratifi­cato); 3) si raggruppano in sistemi, con relazioni precise tra i loro elementi.

V i sono sistemi di segnali molto semplici, come il cosid­detto linguaggio dei fiori, le acconciature e le vesti che distin­guono prepuberi da puberi, nubili da maritate e da vedove, il galateo, le precedenze, ecc. ecc. Essi godono comunque delle stesse prerogative su indicate, entro gruppi umani che cono­scono e condividono queste convenzioni (o «contratti socia­li», per dirla con Rousseau e Saussure).

Per i segni non convenzionali, i termini più in uso sono in­dizio e sintomo. Essi sono dati nei dizionari come quasi sino­nimi, anche se nel primo è insita una connotazione scientifi- co-poliziesca, che lo potrebbe far riferire a osservazioni su fatti di natura, nel secondo una connotazione medica, adatta ad osservazioni su fatti umani. Ma è una distinzione non ur­gente. Urgente è invece il problema di come proseguire una classificazione di questi segni.

A mio parere, vi possono essere due punti di vista privile­giati per l ’analisi dei segni non convenzionali. Il primo è l ’a­nalisi del processo di significazione, cioè di produzione di se­gni; il secondo è l ’analisi del processo di inferenza, quello me­diante il quale si riconosce il contenuto di un segno. Nel pri­mo caso si prende in esame l ’emissione del segno, nel secon­do la ricezione.

I segni non convenzionali sono infatti non solo umani, ma anche naturali. L ’ambito della significazione (esclusivamente umana) è più ristretto di quello della ricezione, che compren­de in pratica tutta la nostra esperienza. Insistendo sul proces­so di significazione, si sottolinea la presenza e l ’opera dell’e­mittente il messaggio; insistendo su quello di inferenza, si fa

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LA GERARCHIA DEI SEGNI 47

leva sul ricevente. Questa alternativa dev’essere posta alla base, a mio parere, di qualunque gerarchia dei segni ‘.

I sostenitori - e sono maggioranza - dell’unificazione di segnali e segni non convenzionali insistono sulla stretta ras­somiglianza tra qualunque interpretazione dei segni. Collega­re il fumo col fuoco, la presenza di una persona con quella del suo accompagnatore immancabile, ecc., non è diverso dal col­legare il significante di una parola o di un cartello stradale col suo significato. La nostra esperienza diretta o indiretta ci met­te in possesso di codici culturali altrettanto minuziosi e pre­cisi dei codici di tipo linguistico.

Affermazione contestabile da più punti. Avverto intanto che i codici culturali non possiedono le proprietà sopra attri­buite ai segnali. Non sono costituiti di elementi discreti, per­ché lo spirito d’osservazione o l ’esperienza dei vari interpreti si rifanno, nella decifrazione dei fenomeni, a dati più o meno ampi, particolareggiati e strutturati. Non sono insiemi chiu­si, perché il repertorio delle esperienze è strettamente perso­nale, e l ’assieme delle esperienze eterogeneo. Non si raggrup­pano in un solo sistema, ma in vari sistemi con limiti mal de­finiti e variabili secondo gli individui. L ’esperienza è insom­ma un magma indifferenziato, entro il quale ogni persona co­glie, seleziona e ordina le sue percezioni istituendole a cono­scenze.

Ma voglio insistere soprattutto sull’estensione impropria del termine codice. Il codice è un sistema di segni convenzio­nali atti a comunicare. La comunicazione implica: i) l ’esi­stenza di un emittente e di un ricevente; 2) la possibilità di risposta: il ricevente diventa emittente, e viceversa. Per mez­zo dei segnali noi effettivamente comunichiamo; per mezzo

1 II problema è anche più complesso. Alle alternative: punto di vista (leU’emittente / punto di vista del ricevente; comunicazione volontaria / co­municazione non volontaria, ne vanno aggiunte almeno altre due: quella tra comunicazione immediatamente informativa e comunicazione non immedia­tamente informativa (si recupera cosi tutto l’ambito dei sistemi di modelliz- zazione culturale) e quella tra due tipi di procedimento: dal segno al com­plesso di segni / dal complesso di segni (per es. dal discorso) al segno: dato che ogni complesso di segni sviluppa significati non compresi nella sempli­ce somma dei segni componenti (come anche qui si accenna). Perché i vari procedimenti euristici risultino produttivi occorre che ognuno venga mes­so in atto col massimo di rigore: ciò spiega l’energia con cui difendo distin­zioni che risulterebbero meno operative all’interno dei procedimenti con­correnti: essi però ne esigeranno altre, altrettanto nettamente argomentate.

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48 PARTE PRIM A

delle inferenze noi interpretiamo segnicamente dei fatti. Pos­so, con un esperimento o con la ricerca di controprove, cer­care conferma a una mia osservazione; ma non si può dire che questi miei interventi sulla natura siano delle comunica- zionij I segni non convenzionali appartengono dunque a un tipo di comunicazione in cui: può mancare l ’emittente (a me­no di chiamare emittente la natura o Dio); manca la volontà dell’emittente di comunicare; manca la conoscenza, da par­te dell’emittente, del codice di cui si servirà poi il ricevente, interpretando; manca la reversibilità del rapporto emissione- ricezione. Si voglia o no continuare a usare, in questi casi, i termini codice e comunicazione, è scientificamente sviante mettere in un sol fascio i segnali e gli altri segni.

L ’analisi della ricezione ci ha dunque messo in mano un ottimo strumento di scelta. Passiamo ora all’analisi dell’e­missione. Qui tutte le esigenze del circuito comunicativo so­no soddisfatte: se l ’emittente formula un messaggio, vuol di­re che ha o spera di avere un ricevente, che può anche essere egli stesso. L ’analisi della comunicazione è in molti casi sem­plice. Le segnalazioni per mezzo di cartelli o bandiere, per es., se le regole sono perfettamente note ai due interlocutori, son solo soggette ad inconvenienti nel caso di emissione o ri­cezione difettosa, disturbi o simili. Il margine di equivoco è minimo.

Ma l ’analisi dell’emissione di segni diventa molto interes­sante quando si passa ai segni linguistici, meglio ancora se usati a fini letterari. Diamo per scontato che l ’emittente co­nosca alla perfezione il suo codice (la lingua). Il suo uso delle regole grammaticali sarà dunque corretto. Ma quando vi sia­no possibilità alternative, registro parlato o letterario, eleva­to o popolare o volgare, o si oppongano termini locali, maga­ri dialettali, a termini non marcati, in ogni parola o costruzio­ne l ’emittente ha verisimilmente fatto ricorso a due ordini di segnali, che però - e questa è una proprietà caratteristica del linguaggio — convivono nello stesso segno.

Non mi importa; me ne infischio; me ne frego; me ne sbat­to, sono quattro frasi che contengono, dal punto di vista del denotato, gli stessi significati, sono insomma sinonime. Ognu­na delle frasi ha però, in più, un significato tonale, dalla col­loquialità di me ne infischio alla volgarità delle ultime due. L ’esistenza del significato è riscontrabile solo paradigmatica-

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LA GERARCHIA DEI SEGNI 49

mente, cioè in base al confronto con i sinonimi. L ’emittente ci ha comunicato il suo segnale operando una scelta lingui­stica.

Di fronte a un testo letterario, non possiamo in genere in­terrogarne l ’autore. Perciò, ammesso che i significati lettera­li siano inequivocabili, siamo costretti a considerare quelli tonali come degli indizi, o sintomi. Solo al termine dell’anali­si saremo in grado di misurare la volontarietà comunicativa di questi indizi, di portarli dunque sulla colonna dei segnali. Saranno l ’analisi complessiva del lessico e delle sue alternati­ve, e la valutazione funzionale o retorica di singole espressio­ni, che ci permetteranno di conoscere l ’area delle scelte del­l ’autore e la sua consapevolezza. Precisare la gerarchia dei se­gni di un testo equivale ad approfondire il grado di coscienza letteraria che lo ha prodotto.

Non è questa la sede per abbozzare un catalogo dei segni letterari Mi basta avvertire che le parole, costituenti già di per sé dei segnali, si raggruppano poi in frasi, che sono a loro volta dei segnali complessi (e, per essere esatti, va avvertito che il significato di una parola-segnale è determinato solo dal contesto frastico, dalla frase-segnale). Abbiamo insomma dei segnali complessi, i quali determinano nel loro assieme il va­lore dei segnali semplici che essi inglobano.

E non v ’è solo questo conglomerarsi di segnali. V i sono dei segnali posizionali, risultato della combinazione dei se­gnali, quando questi segnali siano concatenati in modo da produrre precise successioni di accenti (versi), precisi giochi di terminazioni (rime), ecc. E sono segnali posizionali con ef­fetto iconico gran parte delle figure retoriche: la contrappo­sizione mima il contrasto tra due concetti, il parallelismo mi­ma l ’insistenza o la progressione, l ’allitterazione mette in contrasto le affinità articolatone con le differenze semanti­che, ecc. \

Voglio invece concludere tornando alla coppia segnale/sin- tomo. La psicanalisi ci ha insegnato a leggere dietro ad ogni discorso esplicito un discorso implicito, preconscio o incon­scio. Credo che il caso più elementare (da cui potrebbe parti­re una complessa casistica) sia quello dei simboli. Una paro-

1 Vedi qui il capitolo 3.2 Cfr. pp. 41-42.

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PARTE PRIMA

la qualsiasi (poniamo casa, porta, albero) può avere, oltre al significato proprio, ben ingranato nella frase e nel discorso complessivo, un significato simbolico rispetto a spinte od og­getti dell’inconscio. Questo significato si articola pure, anche se in modo meno «grammaticale», in un discorso sottogia­cente.

La parola (casa, porta, albero) è dunque contemporanea­mente un segnale, interpretabile in base al codice linguistico e alla funzione frastica, e un sintomo. Questo sintomo, come tutti gli altri, non è interpretabile immediatamente: la stessa parola può assumere simbolismi differenti, o non assumerne alcuno. Esso è interpretabile, ancora una volta, attraverso l ’inferenza, che confermerà o meno la prima intuizione del critico-analista, e se la confermerà la riporterà a un discorso inconscio più complesso.

Non so quanto senso abbia domandarsi se la scelta della parola (mi limito sempre a questo caso più semplice, ma omo­geneo agli altri che si potrebbero considerare) sia determina­ta primariamente dalle spinte inconsce o dagli intenti comu­nicativi ed espressivi. Il rapporto tra consapevolezza e incon­scio, tra razionale e irrazionale è troppo intimo perché si pos­sa istituire a priori una distinzione. La distinzione sussiste solo in forma teorica, e solo a posteriori. Ogni discorso lin­guistico comunica volontariamente un messaggio attraverso segnali che l ’emittente attinge dal codice-lingua, e che il rice­vente interpreta in base allo stesso codice. Questo discorso veicola pure, o, capovolgendo l ’affermazione, è il pretesto per un discorso inconscio tessuto di sintomi, che l ’analista cerca di decifrare. Tra emittente e testo si istituisce dunque un rapporto di questo genere:

Emittente Testo

conscio

inconscio

Ma il discorso, dicevo, è solo teorico. Il ricevente adibirà la sua ragione, la sua parte conscia, a districare gli elementi consci e quelli inconsci del testo. Ma anche il ricevente ha la sua parte inconscia. Se essa potrà forse aiutarlo a intuire gli elementi inconsci dell’emittente, potrà però anche spostarsi

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LA GERARCHIA DEI SEGNI 5 1

verso un simulacro di testo, di cui il testo è solo un pretesto. Questo simulacro deformerà la visione precisa del testo, da considerare pertanto impossibile.

Emittente

conscio

inconscio

Testo Ricevente

conscio

inconscio

Tale inevitabile ambiguità ai due lati del processo di co­municazione letteraria rispecchia le enigmatiche operazioni di quell’animale, l ’uomo, che ha giocato la scommessa folle dell’astrazione, della logica, della ragione.

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Critica testuale, teoria degli insiemi e diasistema *5 ·

Dopo le tempeste che si sono abbattute sulla critica testua­le, una certa pace si diffonde. Una pace che in certi paesi ras­somiglia alla morte, dato l ’abbandono in cui questa attività è ormai lasciata. Ma altrove, le esperienze sono continuate, si vanno applicando metodi sempre più raffinati, e anche l ’im­piego degli ordinatori elettronici invita a ulteriori chiarifica­zioni.

L ’accento di questo capitolo sarà posto prevalentemente su problemi teorici. Il punto di partenza sarà offerto dall’ap­plicazione della teoria degli insiemi e di quella dei grafi alla critica testuale, secondo una proposta abbastanza recente di Dom Froger (La critique des textes et son automatisation, Paris 1968) accolta da Avalle.

Gli elementi in gioco sono sostanzialmente i seguenti: 1) i manoscritti; 2) le varianti; 3) gli errori. Una breve discussio­ne mostrerà come questi elementi giochino in rapporto con le operazioni di recensione e di ricostruzione del testo.

I manoscritti. È evidente che i manoscritti contenenti una data opera costituiscono un insieme: esso è la stessa co­sa che il risultato della recensio. Naturalmente si potrebbero poi istituire dei sottoinsiemi di carattere geografico (in base alla provenienza dei mss), codicologico (in base alle misure dei mss, alle miniature ecc.). Ma quando Dom Froger parla di sottoinsiemi, egli considera già avvenuta la recensio : per­tanto i sottoinsiemi sono per lui i gruppi e le famiglie in cui vengono distribuiti i manoscritti entro uno stemma codicum

* Già pubblicato in «Académie Royale de Belgique. Bulletin de la Clas­se des Lettres et des Sciences Morales et Politiques», l x i i (1976), n. io -n , pp. 279-92 (in francese).

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54 PARTE PRIM A

individuato. Si potrebbe allora considerare l ’individuazione dei sottoinsiemi come l ’obiettivo della classificazione:

classificazione = individuazione dei sottoinsiemi.

Le varianti. A ll’interno di una trascrizione più o meno uniforme di una data opera, le varianti emergono come dif­ferenze di lezione, più o meno estese, tra i vari manoscritti. Anche le varianti possono esser considerate come degli insie­mi. Quali i sottoinsiemi individuabili? Ripercorrendo sche­maticamente l ’operazione filologica, si possono specificare queste fasi:

a) quando certe lezioni vanno considerate con sicurezza come erronee, esse non si affiancano più neutralmente alle lezioni concorrenti, ma si oppongono loro secondo la for­mula:

errore vs lezione corretta.

La presenza di errori comuni in due o più manoscritti per­mette di tracciare lo stemma. Nel linguaggio della teoria de­gli insiemi, si dirà che gli errori si riuniscono in «collezioni» (parti dell’insieme di parti di un insieme), alcune delle quali individuano i grandi raggruppamenti di manoscritti, altre i raggruppamenti minori, o infine i singoli manoscritti. Anchei raggruppamenti di manoscritti costituiscono delle «colle­zioni»;

b) una volta definito lo stemma, è possibile, entro certi li­miti, individuare su basi logiche le lezioni originarie, anche quando esse non si oppongano a veri errori, ma a lezioni ap­parentemente equivalenti. In questo modo si opera sull’op­posizione:

lezione conservata vs lezione innovata.

c) se dunque consideriamo, d ’accordo con Dom Froger, come référenciel tutte le lezioni, esso conterrà gli insiemi delle lezioni innovate; alPinterno di questi insiemi si situa­no gli insiemi più ristretti degli errori (la distinzione tra erro­ri e lezioni innovate non è ben rilevata da Dom Froger).

G li errori. I termini 'varianti’ ed 'errori’ si pongono a due fasi distinte della ricerca. La variante viene individuata me­diante il confronto contenutistico dei manoscritti, e non im­plica un giudizio di valore. Il concetto di errore ci porta in­vece alla fase del giudizio comparativo tra lezioni in concor-

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lenza. In una fase ulteriore, successiva all’individuazione del­lo stemma, si può mirare ai più ampi insiemi di lezioni in­novate: sia in base alla logica lachmanniana, sia in base ai noti criteri della lectio difficilior, dell’usus scribendi ecc. Ma alle coppie errore vs lezione corretta e lezione conservata vs lezione innovata, si devono aggiungere le coppie di lezioni su cui non si può esercitare né il vaglio della logica, né quello linguistico-stilistico: sono le coppie di lezioni adiafore o equi­pollenti, tra le quali l ’editore di testi sceglie in base a criteri convenzionali che implicano per lo più una valutazione del testimonio più che della singola variante.

Ho seguito di proposito nell’esposizione le fasi dell’ope­razione filologica; proprio perché sia evidente la differenza tra la situazione quale si presenta, attraverso successive ma parziali chiarificazioni, al filologo, e la situazione reale.

Se infatti esistessero dei criteri infallibili per il vaglio delle varianti, tutte le lezioni si distribuirebbero in due grandi in­siemi complementari: lezioni conservate e lezioni innovate. La distinzione tra errore e lezione innovata sarebbe priva di in­teresse, e la classe delle lezioni equipollenti verrebbe eliminata.

Il cap. iv del volume di Dom Froger, intitolato La théorie des ensembles et la critique textuelle, si trova dopo tre capi­toli in cui i procedimenti della critica testuale sono esposti in forma tradizionale; esso è seguito da un capitolo su L ’auto- matisation dans la critique des textes, in cui la teoria degli insiemi è utilizzata limitatamente alla sua funzionalità all’im­piego dell’ordinatore. Si ha insomma l ’impressione che il va­lore euristico del ricorso alla teoria sia stato sottovalutato, o comunque ridotto. Lo confermano le ultime pagine su Les modèles dans la critique des textes, dove si elencano e si di­scutono «le modèle du cours d’eau», «le modèle judiciaire», «le modèle médical», «le modèle généalogique»; ma quan­do si tratta di proporre un nuovo modello, non è già quello insiemistico, ma «le modèle génétique».

Avalle (Principi di critica testuale, Padova 1972) ha inve­ce colto l ’importanza di « traslitterare la terminologia corren­te in sistemi di segni più formalizzati» (p. vm ). Eppure an­ch’egli riconosce che «gli strumenti impiegati (provenienti dalla teoria delle funzioni - insiemistica, grafi, ecc. - ed in genere dalla matematica - probabilità, calcolo combinato­rio -) non contribuiscono certo a modificare di molto l ’asset-

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PARTE PRIMA

to logico e i procedimenti tradizionali della nostra scienza». Quali dunque i vantaggi di questa innovazione teorica? Essi consisterebbero soprattutto, secondo Avalle, nel superamen­to «degli ostacoli che una terminologia sostanzialmente an­tropomorfica come quella tradizionale frappone di fatto alla soluzione di taluni problemi rimasti insoluti (o quasi), quale ad esempio quello della "contaminazione” ». Come nel libro di Dom Froger, si ha l ’impressione che il ricorso alla teoria delle funzioni non porti un vantaggio considerevole alla comprensione dei meccanismi della tradizione testuale, ma soltanto alla loro rappresentazione e schematizzazione.

È la linguistica, a mio avviso, che ci fornisce delle sugge­stioni terminologiche tali da illuminare anche i procedimen­ti stessi della critica testuale. Alludo ai termini struttura, si­stema, diasistema.

Inutile insistere sul fatto che ogni testo letterario costi­tuisce una struttura. Tale struttura è la realizzazione di un si­stema linguistico e stilistico. Il rapporto fra struttura e siste­ma è infatti il medesimo che sussiste tra parole e langue. Chiunque analizzi un testo letterario fa sempre ricorso, espli­cito o implicito, al concetto di struttura: non v ’è infatti pa­rola o frase che sia interpretabile correttamente se non in rapporto con tutti gli altri elementi della struttura, cioè con le parole o frasi con significato uguale, affine, opposto, ecc.,o indicanti fasi anteriori o posteriori, cause, effetti, ecc.

Il sistema realizzato viene colto secondo un taglio sincro­nico. Ma è anche possibile una prospettiva diacronica, se si prendono in esame due opere dello stesso autore o, meglio ancora, due redazioni successive di una stessa opera. In que­sto caso possiamo riscontrare la persistenza dell’elemento contenutistico e la variazione di quello formale.

La critica testuale ha solo una funzione propedeutica allo studio delle varianti d’autore, specialmente quando siano conservati gli autografi. Viceversa, lo studio delle varianti d’autore può gettar luce sui procedimenti della critica testua­le. Come ha dimostrato per la prima volta Contini, l ’insieme delle correzioni apportate da un autore al suo testo è legato da rapporti organici '. Non ha senso cercare nel confronto tra

1 I contributi principali sono raccolti in Varianti e altra linguistica, To­rino 1970.

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CRITICA T E STU A L E 57

due varianti corrispondenti i motivi del cambiamento, se non si tiene pure conto dell’assieme del testo, dei richiami a di­stanza tra brani in qualche modo connessi, e infine delle altre eventuali correzioni intervenute in questi brani.

Farò un esempio semplicissimo, da una poesia delle Sole- dades di Machado

(I) Fue una clara tarde, triste y sofiolienta tarde de verano [Del lento verano] (1-2)

(II) Fue una tarde lenta del lento verano (15)Fue està misma lenta tarde de verano (26)

(III) ... en la tarde de verano vieja (32)(IV ) Fue una clara tarde del lento verano (39)

Tra parentesi quadre indico, nel v. 2, la lezione originaria, poi mutata da Machado. Confrontando soltanto le due lezio­ni successivamente adottate, si potrebbe pensare che la cor­rezione abbia inteso eliminare la quasi-rima interna sonólien- ta: lento, e introdurre la ripresa di tarde, che fa anche enjam- bement col v. 1. Spiegazioni solo parziali. Conta di più, a mio parere, il passaggio da uno schema circolare:

clara tarde... del lento verano tarde lenta del lento verano lenta tarde de verano tarde de verano vieja clara tarde del lento verano

a uno schema di sviluppo: l ’aggettivazione è prima caricata su tarde·, poi s’introduce l ’attributo lento (che allude a una durata psicologica): lento è attribuito prima a verano, poi alla tarde-, ancora alla tarde, ma scavalcando il verano, si at­tribuisce l ’aggettivo vieja, che sempre in Machado allude al passato vissuto; infine, ed è quasi un’agnizione, si rileva il contrasto tra apparenza lieta e sostanza triste, tra clara tarde e lento verano. È appunto il mutamento al v. 2 che dà al v. 39 questo valore di agnizione, già bruciato all’inizio nella prima redazione della poesia.

Che cosa accade se i ritocchi linguistici e stilistici non so­no attuati dall’autore stesso, ma da copisti, editori ecc.? Da un punto di vista teorico, si verifica l ’interferenza tra due si­stemi: quello dell’autore e quello del copista, editore ecc. Il

1 L ’esempio è tratto dal mio Le varianti di Soledades VI, in I segni e la critica cit.

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5« PARTE PRIM A

copista mantiene, per lo più in quantità cospicua, il sistema dell’autore, ma vi interviene realizzando in parte un proprio sistema.

Soffermiamoci un momento sulla natura della variante. Quando noi collazioniamo tutti i manoscritti di un testo, avanziamo lungo segmenti più o meno ampi del testo senza ri­scontrare deviazioni. Per tutti questi segmenti il sistema rea­lizzato nella struttura del testo è stato conservato fedelmen­te. Solo dove emerge una variante si deve pensare che la struttura del testo sia stata, da un manoscritto o dall’altro, modificata, realizzando un diverso sistema. Si ha come conse­guenza che tra tutti i segmenti conservati unanimemente per­mangono le relazioni interne proprie della struttura del te­sto; mentre queste relazioni sono turbate, o rinnovate, dalle varianti introdotte dai copisti.

Il fenomeno è universalmente noto per ciò che riguarda il colorito linguistico dei testi. I copisti medievali lavorano di solito fra due poli d’attrazione: lo sforzo di rispettare l ’e­semplare da cui copiano, e la tendenza a seguire le proprie abitudini linguistiche. Il risultato è un compromesso lingui­stico; e il filologo deve faticosamente individuare, per es. at­traverso le rime, l ’aspetto originario del testo. Il risultato di questa Sprachmischung potrebbe esser definito, a mio avviso, un diasistema. In dialettologia, il termine diasistema, creato da Weinreich, designa o il supersistema a cui si possono rife­rire due sistemi affini, oppure il sistema di compromesso tra due sistemi in contatto ‘. Mi pare che il mélange linguistico rappresentato dalle trascrizioni medievali costituisca un tipo particolarmente sviluppato e interessante di diasistema, nella seconda delle accezioni elencate.

Ma quello su cui voglio ora soffermarmi un poco è il dia­sistema stilistico. Bisogna convincersi che l ’atteggiamento del copista non è mai passivo. Quando egli incontra nel suo esemplare un errore o una lezione a lui incomprensibile, egli è convinto di correggere, cioè di migliorare il testo. E molto spesso interviene anche dove la comprensibilità non è com­promessa. Consapevole di esser stato preceduto da altri copi­sti liberi come lui, egli potrebbe persino credere di recupe-

1 u. w e i n r e i c h , Languages in Contact, New York 1953; The Hague 19632. Nella traduzione italiana, Torino 1974, sono stati aggiunti saggi di V. Francescato, L. Heilmann e C. Grassi sul problema del diasistema.

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rare una lezione più valida attraverso i suoi interventi. Va so­prattutto detto che ogni copista si sente detentore di un gusto che può esser mutato e che perciò è più 'aggiornato’ rispetto all’epoca di composizione di un’opera. Quando i diritti d ’au­tore non erano riconosciuti, quando lo sfruttamento del la­voro letterario altrui era lecito, anzi lodevole, entro l ’ideolo­gia dell’auctoritas, quando la vitalità dell’opera si realizzava come una sua ripresentazione sempre rinfrescata, si può capi­re perché la tradizione dei testi volgari sia tanto avventurosa.

Se è vero, come ho proposto prima, che i concetti di va­riante, errore, lezione equipollente rientrano nei due insie­mi complementari di lezioni conservate e lezioni innovate, l ’individuazione del sistema stilistico proprio di ogni copista fornisce il filologo di un nuovo strumento di analisi. Non gli errori soltanto, infatti, permetteranno di cogliere l ’affinità genetica tra due o più manoscritti, ma anche l ’appartenenza di questi manoscritti a uno stesso sistema stilistico diverso da quello realizzato nell’opera. Ogni variante propria di questo sistema può esser considerata innovata, anche quan­do in sé sia del tutto plausibile. Questo criterio diventa par­ticolarmente fruttuoso se applicato a testi nei quali si incon­trino, piuttosto che errori, vere e proprie rielaborazioni, co­me le chansons de geste.

Nel caso più semplice, il diasistema sarà il risultato del compromesso tra il sistema del testo (S1) e il sistema del co­pista (S2): D = S‘+S2. Ma a sua volta la copia verrà trascrit­ta da un altro copista, col suo sistema (S3), per cui si avrà: D = (S1+S2) + S3, e cosi via. Allora l ’individuazione di uno stemma codicum coinciderà con una stratigrafia dei vari dia- sistemi coesistenti in un testeuE poiché la dicotomia rappre­senta la maggioranza statistica entro le possibilità stemmati- che, diremo che per lo più il filologo si trova di fronte due dia- sistemi, quelli dei subarchetipi, dalla cui comparazione può cercare di risalire a un’immagine dell’archetipo (o dell’ori­ginale).

È di questa operazione che darò qualche esempio, basan­domi sull’esperienza fatta sulla tradizione della Chanson de Roland1. Ricordo soltanto, preliminarmente, che i testi della

1 Gli esempi sono tratti dalla mia edizione critica, Milano-Napoli 1971; nell’apparato un’analisi esaustiva di tutti gli esempi citati.

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6o PARTE PRIM A

ChR si dividono in due famiglie, a, rappresentata dal co­dice di Oxford (O), e 0, rappresentata dagli altri manoscritti francesi e dalle versioni medio altotedesca, norrena, galle­se, neerlandese. La ricostruzione dei due subarchetipi è già attuata nella mia edizione del 1971.

I sistemi di a e ß si realizzano talvolta in varianti presso­ché equivalenti. Per es.:

E dist al rei (O 496, 676) Bel sire roi (ß)Aprés ϊςο i est Neimes venud (O 230, 774) Davanti Carlo (le

roi δ) è li dux Naymes venù (testo di V 4 )

Ma spesso il microsistema di opposizioni α/β può esser valu­tato entro un macrosistema. Per es.:

porz d ’Espaigne (O 870, 1103) porz d ’Aspre (ß):

depone contro O il fatto che ad 870 Espaigne ripete un Es- paigne del verso precedente, e a 1103 Espaigne viola l ’asso­nanza. Ma è decisiva l ’osservazione che a 824 e 1152 O e ß hanno porz d ’Espaigne. Esiste dunque un sistema originario con l ’opposizione porz d’Aspre / porz d’Espaigne·. esso è sta­sto conservato da ß, mentre è stato ridotto a un sistema con soltanto porz d’Espaigne in O.

In complesso, si può dire che ß tende a generalizzare solu­zioni, sistematizzare riprese, accentuare similarità. Ecco qual­che esempio, con le prove che l ’iniziativa è sua.

Dopo 180 e 244, ß aggiunge un verso con una richiesta di consiglio, che è già implicita. Si può osservare facilmente che nel sistema della ChR le richieste di consiglio non precedono, ma seguono l ’esposizione dei problemi (vv. 15-21; 740-42).

Sia dopo la presentazione di Blancandrino, sia dopo quel­la di Namo, ß aggiunge questi versi:

Blanga oit la barbe et lo vis cler (24 bis) (testo di V 4 )

Blanga oit la barba, et li cevo tut ganù (230 bis) (idem).

Si tratta di un verso formulario proprio del sistema della ChR, ma attribuito nel testo di questa solo a Carlo (117 , 3503) e a Baligante (3x73), cioè ai due monarchi contrap­posti.

La parificazione più sistematica, e più disastrosa, è quella attuata nelle condizioni di pace di Carlomagno a Marsilio. Si ricorderà che Marsilio aveva offerto, tra l ’altro, di convertir­si e di ricevere in feudo da Carlo la Spagna («Chrestìens ert,

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CRITICA T E STU A L E 61

de mei tendrat ses marches», 190); Carlo accetta l ’offerta, e in questi termini la esporrà ancora Gano al ritorno dall’am­basceria («De vos tendrat Espaigne le regnét», 697). È anche noto che Gano, per suscitare l ’ira di Marsilio, espone le con­dizioni infedelmente e in forma più dura: accompagnandole con minacce umilianti, e offrendo a Marsilio solo la metà del­la Spagna («Demi Espaigne vos voelt en fiu duner», 432), la seconda volta precisando che l ’altra metà andrà a Rolando («L’altre meitét avrat Rollant sis niés», 473). Chiaro l ’inten­to di suscitare odio verso Rolando, ß intanto pareggia queste due ultime lasse, cancellando la progressione (già nella prima dice: «L ’altra mità a Rollant, ses nef», 432 bis). Ma, imper­donabilmente, mette in bocca allo stesso Carlo, negli amplia­menti alla lassa xxv, le condizioni inverosimili inventate da Gano, e le minacce. La smania di unificare i luoghi paralleli toglie il significato a un episodio-chiave.

Come già riscontrato qui, β non comprende il valore del crescendo. Ecco un altro esempio:

Respunt li reis (O 248) Li enperer ferament li respon, Poi li à dit (β)

Respunt li reis (O 259) Li enperer si inclina son ςεί, Aprés li dist (β)

Li empereres respunt par maltalant (O 271, lezioni divergenti in β)

Non documenterò qui la tendenza di β a generalizzare la similarità iniziale e finale delle lasse: basta scorrere l ’appara­to dell’edizione critica. Mi soffermo invece su un caso in cuiil «metodo» di β appare più consapevole. Le lasse l i x e l x sono similari all’inizio:

Li quens Rollant, quant il s’o'it juger (751)Quant ot Rollant qu’il ert en rereguarde (761 ).

Ma β ha eliminato la lassa l x . Orbene, egli ha sentito la ne­cessità di recuperare la similarità, premettendo alla lassa l x i

il verso:

Li cont Rollant el n ’appella Carlon (765 bis).

Per contro, β non sembra apprezzare la ripresa tra la fine di una lassa e i versi iniziali della successiva. Tra questi due versi:

Atant as vos Guenes e Blanchandrins (413)Blancandrins vint devant [Marsiliun] (414),

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62 PARTE PRIM A

il primo alla fine della lassa xxxi, l ’altro all’inizio della lassa xxxii, ß elimina il v. 413. Il caso più evidente è quello delle lasse xi-x ii:

Desuz un pin en est li reis alez,Ses baruns mandet pur sun cunseill finer (165-66)

Li empereres s’en vait desuz un pin;Ses baruns mandet pur sun cunseill fenir (168-69).

ß elimina il v. 165, indebolendo questa ripresa; per contro, esso premette al v. 168 un v. 167 bis:

Beaus fu li jors, li soul est esclariz (testo di C 200),

che istituisce similarità d ’inizio con la lassa xi :

Bels fut li vespres e li soleilz fut cler (157).

Quando l ’aggiunta non consiste in versi isolati, ma in las­se intere, l ’analisi del sistema stilistico permette di caratte­rizzare molto esattamente ß. Naturalmente le osservazioni devono esser confermate da una perizia linguistica negativa quanto alla genuinità, cioè alla discendenza dall’archetipo.

Cosi, dirò brevemente che ß ama i toni lagrimosi: si va dal v. 364 bis («Por la moie arme misses canter ferez») alla lassa cx i bis 3 («L’un plura l ’altro per molt gent amistee: ] Per ca­ritè se sont entrabasee»), dove tra l ’altro vediamo i Franchi cadere più volte nella disperazione, poi sollevati ed elettriz­zati da Turpino. Altre volte, si tratta di un tono grandgui- gnolesco: i Franchi cavalcano immersi nel sangue dei nemici ([cxxnb] bls), la fila dei morti saraceni giunge sino a Marsilio {ibid.); in uno scontro le armi fanno fuoco e fiamme, spargen­do attorno sangue e cervella (c x x v bis2). Persino nella tecni­ca narrativa si colgono differenze sostanziali: citerò come esempio le lasse c x i bls 2-3 e c x m bis 2‘3, nelle quali si porta al­ternativamente l ’attenzione sul campo cristiano e su quello saraceno, come non accade mai nelle lasse autentiche.

In base all’individuazione dei due sistemi stilistici, quello di a e quello di ß, si possono persino avviare delle considera­zioni affini al criterio della lectio difficilior. Esse dovranno naturalmente esser considerate alla stregua di indizi, e ne­cessitano di prove d’ordine testuale.

S’è visto che ß tende a sistematizzare le similarità. Quando dunque una similarità di O , dubbia per altri motivi, non

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CRITICA T E STU A L E 6 3

abbia corrispondenza in β, si può sospettare che sia β a con­servare la buona lezione. Ciò accade nelle lasse cx ii-cxm : la seconda, a parere di molti editori, sarebbe stata avvicinata alla prima da O. Difatti, si può notare che lo spostamento dà vita a una similarità speciosa:

Marsilie vient par mi une valee (1449 [cxii])

Marsilies veit de sa gent le martirie (1467 [cxm ]).

β, che non presenta questa similarità, è per ciò stesso degno di ascolto.

Abbiamo rilevato la scarsa sensibilità di β alle progressio­ni. Ma si veda ora questo caso. Nella lassa lxvi si descrive la tristezza e la nostalgia dei cavalieri che tornano in Francia: al pensiero dei loro cari e della loro terra «Cel n’en i ad ki de pitét ne plurt» (822). Invece, Carlo pensa con angoscia a Ro­lando:

As porz d’Espaigne ad lessét sun nevold.Pitét l ’en prent, ne poet miier n’en plurt (824-25).

Si nota subito l ’inopportuna rassomiglianza dei vv. 822 e 825. Ebbene, β non presenta il v. 825. Ma si passi alla lassa successiva. Abbiamo i vv. 829-30:

Li emperere s’en repairet en France.Suz sun mantel en fait la cuntenance,

a cui β aggiunge:

Plore des oil, tire sa barbe blanfe.

Il v. 825 di O, e quello aggiunto da β, sono altrettanto soste­nibili (cfr. 773 e, rispettivamente, 2943, 3712,4001). Ma la posizione di 825 O ha qualcosa di ridondante, mentre il ver­so di β istituisce un crescendo. A conferma, ecco la risposta di Carlo a Namo, nella stessa lassa l x v ii:

Si grant doel ai, ne puis müer ne-1 pleigne (834).

La successione dei versi di β è dunque la più soddisfacente.Infine, abbiamo visto che nelle lasse aggiunte da β si nota

un gusto molto diverso da quello delle lasse originali; e av­verto che per lo più β introduce serie di lasse, che trasforma­no a fondo la narrazione. Per questo una lassa come lx iii bis, cosi sobria, può convincere della sua genuinità. Tanto più se si nota che essa è simmetrica, a distanza, alla lassa xxvn : là

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6 4 PARTE PRIM A

l ’armamento di Gano che parte per l ’ambasceria, qui quello di Rolando che parte per la retroguardia. Le rassomiglianze tra le due lasse sono sottili e misurate: nulla dell’insistenza di ß nei parallelismi. È anche per queste considerazioni che si può ritenere che sia stato a, od O , a eliminare la lassa lxiii bis, autentica.

* Le osservazioni che ho esposto portano, se non m’illudo, qualche elemento di chiarificazione nella polemica non anco­ra spenta fra lachmanniani e bédieriani. A i bédieriani, che difendono la concretezza documentaria del singolo mano­scritto, si può infatti mostrare che questa concretezza na­sconde la compresenza e spesso l ’antagonismo di due o più sistemi, i quali offuscano i rapporti strutturali del testo. D ’al­tra parte il concetto di diasistema induce a considerare un po’ primitivo il concetto di ricostruzione, più o meno meccani­ca, del testo. Ad esso è meglio sostituire quello di interpreta­zione di sistemi e diasistemi: la ricostruzione, attuata solo là dove le conclusioni siano incontrovertibili, è un esercizio parziale e sperimentale. Quello che ritengo l ’insegnamento più positivo di queste considerazioni, è che la dialettica tra i sistemi in contatto riproduce le vicende della storia delle isti­tuzioni letterarie, entro la quale soltanto la storia della tradi­zione testuale ritrova il suo spazio e il suo senso.

Appendice *

Il testo come trascrizione

La trascrizione di un testo è un processo molto più com­plicato di quanto a prima vista non appaia. In apparenza, si tratta di ripetere una successione di significanti grafici, a ̂volte usando lo stesso sistema grafico di partenza, a volte un altro sistema. In realtà, l ’intento sarebbe di riprodurre una immagine del testo, cioè il suo esatto significato, in modo tale che questa immagine sia conservata intatta. Se cerchiamo di rappresentare i processi messi in atto, troviamo che, per

* Letta in francese al Congresso parigino su «La pratique des ordina- teurs dans la critique des textes» (29-31 marzo 1978). Inedita.

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quanto si semplifichi, l ’operazione è delle più avventurose, soprattutto per l ’intervento di operazioni mentali. La trafila è, più o meno, questa:

immagine del testo 1 -» stesura -» appercezione di significati par­ziali (parola per parola) e totali (sintagmi) -» comprensione -> emissione degli stessi significati -» trascrizione mediante significan­ti grafici -» copia -> appercezione ecc. -* comprensione -» imma­gine del testo 2.

Istintivamente, siamo portati a credere alla sovrapponibilità dell’immagine del testo 1 e della 2, quasi che il divario stesse soltanto nella diversità dei significanti grafici, o al massimo in qualche errore meccanico. In verità, ci sono numerosi pas­saggi dal fisico al mentale, ed è nello spazio mentale che si realizzano le appercezioni, le successive comprensioni sinte­tiche, le eventuali ritraduzioni in significanti grafici.

L ’immagine di un testo è una struttura linguistica che rea­lizza un sistema. Ogni copista, a sua volta, ha un proprio si­stema linguistico, che viene a contatto col testo nel corso del­la trascrizione. Se più scrupoloso, il copista cercherà di lascia­re intatto il sistema del testo; ma è impossibile che il sistema del copista non s’imponga per qualche aspetto. Perché i si­stemi in concorrenza sono partecipazioni storiche: mettere a tacere il proprio sistema è altrettanto impossibile che annul­lare la propria storicità. A l massimo, la reverenza verso testi di alto prestigio religioso, giuridico, letterario, aumenterà lo scrupolo; mentre vi sono testi che sembrano incoraggiare il rinsanguamento da parte dei sistemi vigenti.

Se poi la lingua o il dialetto del copista è diverso da quel­lo del testo, il fenomeno si fa macroscopico: egli non ha «competenza» nella lingua che pure trascrive; egli non pos­siede una variante del medesimo sistema, ma un sistema di­verso, da cui è continuamente richiamato, deviato, influen­zato.

Ogni trascrizione costituisce dunque una specie di «creo­lizzazione» del testo. È un fenomeno ben noto per quanto ri­guarda gli aspetti linguistici. G li spogli linguistici che accom­pagnano in genere le edizioni critiche non fanno che precisa­re le mescolanze tra la lingua, o il dialetto, di base, e partico­larità linguistiche peculiari del copista, o dei successivi copi­sti. Spesso, in analisi più raffinate, vengono colti anche feno­

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66 PARTE PRIM A

meni d ’interferenza, cioè soluzioni di compromesso tra le lingue in gioco. Perché, come scrive Vogt,

ogni arricchimento o impoverimento di un sistema comporta ne­cessariamente la riorganizzazione di tutte le sue precedenti oppo­sizioni distintive. Ammettere che un dato elemento venga sempli­cemente aggiunto al sistema che lo riceve senza alcuna conseguen­za per quest’ultimo vorrebbe dire distruggere il concetto stesso di sistema.

Quello che voglio sottolineare qui è appunto la necessità di considerare tutte le varianti del testo - non solo quelle lin­guistiche - soggette alle medesime interferenze (che saranno interferenze, oltre che di sistemi linguistici, di sistemi semio­tici). Certo esistono i qui-pro-quo dovuti a cattiva lettura o cattiva scrittura - essi comunque andrebbero esaminati dal­l ’attenzione dello psicologo. Ma per lo più i mutamenti di le­zione sono le spie delPincompleta sovrapponibilità dei due si­stemi a confronto, quello del testo e quello del copista. Il co­pista è soggetto alla pressione del proprio sistema; nei punti deboli, cioè dove la sua comprensione è in qualche modo ri­dotta, o dove le sue attese divergono dalle realizzazioni pro­poste, il nuovo sistema, il suo, s’impone. I mutamenti di struttura che ne conseguono si ripercuotono sul resto del te­sto, rendendo necessari continui compromessi (interferenze).

Un simile modo di vedere pone in una luce diversa i ma­noscritti che usiamo per ricostruire il testo. La filologia tradi­zionale considera le varie trascrizioni conservate nei mano­scritti come l ’effetto di un movimento centrifugo rispetto a un dato centrale, l ’originale. L ’entropia vi sarebbe continua- mente all’opera. Col concetto di diasistema si scopre invece l ’azione di una serie non meno cospicua di forze centripete: quelle che reggono i diasistemi realizzati in ogni manoscrit­to. A l centro di questa tensione non c ’è più l ’originale, ma, ogni volta, e ogni volta diverso, il testo risultante dal com­promesso fra i sistemi.

Verrebbe voglia di ripetere un’esclamazione di Bédier:

Les variantes de nos anciens textes! Pauvres choses bizarres, informes, difformes, quand on les regarde grouiller comme des larves au fond d ’un appareil critique, mais qui, si souvent, pren- nent du sens et du charme à l ’instant où on les replace dans leur contexte, à l ’instant où, de variantes, elles redeviennent legons.

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E senza dubbio Bédier ha predicato meglio di ogni altro sull’individualità del singolo manoscritto, sui pericoli di in­terventi violenti e non sempre giustificati dell’editore. Tut­tavia la concezione del diasistema, se anche propone argo­menti di meditazione a lachmanniani e neolachmanniani, non costituisce certo un rilancio dello scetticismo bédieriano. Es­sa arricchisce la casistica delle difficoltà ecdotiche, ma anche le nostre conoscenze.

La soluzione positivistica di Bédier occulta, sotto il com­piacimento per la natura oggettiva del manoscritto base, l ’i­neludibile problematicità del testo che, tràdito da una serie successiva di trascrizioni-interpretazioni, viene ancora tra­scritto mentalmente e interpretato dal lettore: anche noi, nel nostro impossessarci di un testo, istituiamo inconsciamente un nuovo diasistema.

Altrettanto mistificante è però l ’illusione, ammantata con scientificità di procedimeiiti, di «ricostruire» un originale, o un archetipo. Una ricostruzione totale sarebbe possibile sol­tanto qualora le innovazioni dei copisti fossero fenomeni iso­lati, senza rapporti interni e senza rapporti con la personali­tà del copista. Sarebbe possibile se si potessero meccanica­mente separare, lungo la linea discorsiva del testo, le zone in­contaminate e le zone danneggiate dall’errore e dalla distra­zione. Una dicotomia che il concetto di diasistema abbatte, collegando errori e deviazioni minime, varianti di forma e di contenuto, ecc.

C ’è di più. Il diasistema si costituisce nel corso stesso del­la trascrizione. Scrupolo e libertà trovano il loro equilibrio, equivoci di lettura ed errori lasciano il posto a più sottili com­binazioni. E quanto più compatto si fa il diasistema, più di­viene aleatorio lo sforzo per smascherarlo. Il diasistema rea­lizza, insomma, una pulsione temporale.

E che fare delle varianti di stile? I criteri di valutazione, per queste, sono riconosciuti da sempre come estremamente opinabili. In che misura sarà prevalso nella lezione origina­ria il desiderio di variazione rispetto all’insistenza del paral­lelismo o della similarità? E come sapere se in un dato punto è prevalso il desiderio di straniamento (la lectio difficilior) o la coerenza del testo d’assieme (1 ’usus scribendi)? Chiun­que si sia soffermato a lungo su trascrizioni antiche o moder­ne conosce questa esperienza di polarità. E il giudizio di gu­

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68 PARTE PRIM A

sto, per quanto sia corroborato da una prospettiva storica, ri­schia inevitabilmente di risalire a misure proprie del nostro sistema semiotico, del nuovo diasistema che siamo forzati di istituire.

Queste osservazioni non minano la validità del metodo lachmanniano; piuttosto, inducono a migliorarne l ’ottica e ad arricchirne i procedimenti.

I procedimenti possono essere arricchiti in due modi. Pri­ma di tutto riferendo le singole varianti a dei sistemi com­plessivi: varianti in sé adiafore mostreranno spesso la loro appartenenza a un sistema, e su tale base potranno essere clas­sificate. In secondo luogo, il criterio della lectio difficilior po­trà essere esteso ai luoghi in cui il membro di un sistema si troverà allineato, per una lezione, con i rappresentanti di un altro.

Quanto all’ottica, propongo di riflettere sulla distinzione fra immagine reale e immagine virtuale. Se l ’autografo ci for­nisce l ’immagine reale del testo, le copie - in assenza dell’au­tografo - ce ne dànno un’immagine virtuale. Allora le opera­zioni ecdotiche devono esse pure distribuirsi tra l ’ambito del reale e quello del virtuale. L ’ambito del reale è quello in cui si può operare tranquillamente sulla base degli errori con­giuntivi e separativi, che non mancano quasi mai. Qui il me­todo lachmanniano ha la sua applicazione legittima, e dà buoni risultati, perché ciò che queste varianti investono è sol­tanto la letteralità del testo, senza ripercussioni diasiste- miche.

Ma tutte le volte che il sistema è in gioco, tutte le volte che non si può ricorrere all’opposizione errore / lezione cor­retta, anche l ’operazione ecdotica dev’esser portata nell’am­bito del virtuale. Si tratta di proporre correzioni, ma non at­tuarle, di abbozzare ricostruzioni, ma lasciarle nell’ipotesi, di segnalare connessioni tra varianti, ma non concludere drasticamente. È una fenomenologia che si può sintetizzare con un grande triangolo. Sugli angoli inferiori si possono mettere le due famiglie in concorrenza, a. e ß. A l vertice del triangolo si trovano le lezioni che sono, nella sostanza, equi­valenti in a e in β, o per le quali si possa dimostrare che una delle attestazioni, deteriore, è stata sostituita all’altra, più corretta: è in questi casi che si è autorizzati a correggere il testo di base, una volta dimostrate l ’esistenza e la genesi del­

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CRITICA T E STU A L E 69

l ’errore. Tra gli angoli inferiori e il vertice, abbiamo tutta una serie di possibilità. Per es.: la lezione di una famiglia è più attraente e convincente di quella dell’altra, che però non si può definire, a rigore, errore. Oppure: la lezione della fa­miglia di base è certamente erronea, e quella dell’altra è, nel­la sostanza, convincente, ma essa presenta i tratti stilistici propri di questa famiglia, e non può essere utilizzata. O an­cora: la lezione della famiglia di base, a, è erronea, ma quella di β non ci aiuta a correggere.

Possiamo considerare il testo critico come il luogo del rea­le, l ’apparato come quello del virtuale. Sarà allora lecito in­tervenire sul testo solo nei pochi casi sicuri che ho indicato; in tutti gli altri casi l ’apparato ospiterà, oltre che la varia lectio, cioè gli elementi sostanziali dei diasistemi in concor­renza, tutte le considerazioni che possono facilitare il vaglio di questi elementi, indicare un’eventuale gerarchia di proba­bilità nella loro scelta, suggerire soluzioni possibili sia sul piano dei significati, sia su quello dei significanti.

V i sono insomma due binarismi da distruggere: il binari- smo lezione corretta / lezione corrotta; e il binarismo: testo critico definitivo / apparato delle lezioni rifiutate. Occorre in­somma rendersi conto che la certezza dell’operazione filologi­ca si pone al limite estremo di tutta una gamma di possibilità dimostrative; occorre soprattutto tenere aperte le comunica­zioni tra il testo e l ’apparato, e lasciare in vista, nel loro deli­cato equilibrio, i procedimenti che solo qualche volta si sono concretati in vere correzioni al testo. Cosi i filologi possono evitare due opposti feticismi: il feticismo dell’edizione criti­ca considerata come un risultato assoluto, come un atto di fe­de; e il feticismo del codex optimus, risposta positivistica alla crisi di questa fede.

Che posto può toccare ai calcolatori in questa prospettiva? A prima vista si direbbe che la nozione di diasistema, la qua­le si riferisce a una complessa situazione di natura culturale, e implica l ’intervento degli artefici stessi del diasistema, i copi­sti, porti sempre più lontano dalla sfera delle opposizioni bi­narie, della separabilità e numerabilità dei dati. E si deve cer­tamente riconoscere che, se le induzioni di ordine testuale vengono operate cosi come qui ho cercato di abbozzare, è difficile meccanizzarne l ’attuazione. È d ’altro canto evidente che la natura globale del diasistema non può non giovarsi del­

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7 ° PARTE PRIM A

la possibilità di una rassegna completa e istantanea degli ele­menti in gioco. Direi perciò solo che il diasistema viene a de­limitare più esattamente le sfere in cui il ricercatore e il com­puter possono operare: una distinzione dei compiti non è mai inopportuna.

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Le strutture implicanti *

6 .

Il nostro concetto di struttura si fonda in genere sull’as­sioma dell’autonomia e dell’autotelia. Non si tiene presente il ciclo sistema-struttura-sistema-struttura ecc., in cui gli ele­menti del sistema risultano dalla destrutturazione delle strut­ture, e vengono riordinati secondo leggi altre ‘. Il sistema è il risultato di una, o di più, o di tutte le operazioni di smontag­gio delle strutture. È implicito nelle strutture, le precede e le segue. Il rapporto sistema-struttura è analogo a quello lan- gue-parole, competenza-performanza.

Si potrebbe vedere una forma di transizione nel passaggio sistema-struttura (e la seconda sarebbe un modo di realizzare il primo). È cosi, per esempio, che ogni enunciazione realiz­za le possibilità del sistema linguistico ampliandone l ’ambi­to e perciò le future possibilità. Qui voglio insistere piuttosto su una tensione opposta, quella che ci fa percepire le struttu­re sullo sfondo della loro precedente latenza, quella, anche, la quale ci fa integrare i significati strutturali con i significati delle strutture già decostruite. Le strutture, oltre a istituire, implicano e rinviano. Cosi si possono vedere due avanzate pa­rallele; le strutture da un lato, i fantasmi del sistema dall’al­tro. E se sulle strutture può vantare qualche diritto il sog­getto, i sistemi sono tendenzialmente collettivi, potenzial­mente e parzialmente inconsci.

Col concetto di struttura implicante si strappa la struttu­ra dalla sua ingannevole autonomia, che è soltanto un espe­

* Già pubblicato in v. finzi ghisi (a cura di), Crisi del sapere e nuova razionalità. "Psicanalisi linguistica economia: sulla transizione, De Donato, Bari 1978, pp. 77-95.

1 Per un’analisi più approfondita vedi il cap. 2 della parte I de I segni e la critica cit.

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diente pratico dell’analizzatore. Dietro alla struttura biso­gna lasciar che si muovano i fantasmi delle altre strutture de­costruite, cosi che il sistema, dalla sua latenza, ci comunichi le sue suggestioni, spesso ermeneuticamente preziose. Trar­rò un primo esempio da considerazioni sulla tematica. Il di­scorso dei fatti, particolarmente in un testo narrativo, costi­tuisce l ’armatura del discorso letterario. Il resto è materiale di vita, conformato linguisticamente e letterariamente; in­tendendo per materiale di vita l ’assieme delle esperienze, comprese quelle mentali.

Anche senza risalire ai presupposti psicologici delle nostre percezioni, si può considerare evidente il fatto che verbaliz­zare l ’esperienza costituisce un’operazione semiotica. Essa si può dividere in due momenti: quello del riferimento del vis­suto a schemi di rappresentabilità e quello della realizzazio­ne linguistica di questi schemi. Le regole per la realizzazione linguistica degli schemi di rappresentabilità non sono ancora state descritte; siamo comunque informati sugli schemi di rappresentabilità relativi al repertorio di azioni e situazioni possibili: essi coincidono in gran parte con quelli che la teo­ria letteraria chiama temi e motivi.

Lo studio della tematica ci mette dunque a contatto col materiale erratico d ’esperienza che gli uomini hanno elabo­rato nel tempo secondo schemi. Un’elaborazione a cui gli scrittori hanno dato un contributo, però soltanto di consacra­zione e di formalizzazione. Temi e motivi, è facile constatar­lo, non sono appannaggio della sola letteratura. Questa ope­razione semiotica è stata attribuita da Jung all’inconscio, sia pure ad un inconscio collettivo. Il complesso dei suoi risul­tati, definiti come «residui psichici di innumerevoli avveni­menti dello stesso tipo», costituirebbe una «mitologia in­conscia». Il ricorso agli schemi, che Jung chiama «archeti­pi», avverrebbe ogni volta che l ’uomo giunge «ad una situa­zione tipica». «In tali momenti, - egli scrive, - non siamo più degli esseri particolari: noi siamo la specie, ed è la voce dell’umanità che risuona in noi» '. A questo si potrebbe ri­durre senz’altro il processo di creazione, il quale «consiste,

1 c. G. j u n g , II problema dell’inconscio nella psicologia moderna, Torino 1959 [1931], pp. 47-50: qui tutte le citazioni successive (sottolineature del­l ’autore).

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- dice Jung, - in un’animazione incosciente dell’archetipo, nel suo sviluppo e nella sua formazione, fino alla realizzazio­ne dell’opera perfetta».

Comunque si vogliano intendere questi suggerimenti, è da considerare con la massima cura la descrizione del modo di essere degli archetipi nell’inconscio: «Non esistono rappre­sentazioni innate, ma possibilità innate di rappresentazioni, che pongono limiti definiti anche alla fantasia più audace; cioè esistono categorie dell’attività della fantasia, in certo qual modo idee a priori, la cui esistenza non è dimostrabile senza l ’esperienza. Esse appaiono solamente nella materia formata, quali principi regolatori della sua formazione; il che significa che noi non possiamo ricostruire il modello primiti­vo dell’immagine primordiale se non per mezzo di conclusio­ni tratte dall’opera finita. L ’immagine primordiale o archeti­po è una figura, demone, uomo o processo, che si ripete nel corso della storia, ogni qualvolta la fantasia creatrice si eser­cita liberamente».

Northrop Frye riprende questa teoria degli archetipi ap­plicandola all’attività letteraria. Se noi consideriamo la poe­sia come attività sociale, come «punto focale di una comuni­tà», come fatto di comunicazione, il simbolo ci appare, dice Frye, come «l’unità comunicabile che noi definiamo archeti­po, cioè una immagine tipica o ricorrente»; dunque, conclu­de, «indichiamo con archetipo un simbolo che collega una poesia ad altre poesie e serve a unificare e integrare la nostra esperienza letteraria» '. Frye esemplifica con immagini del mondo fisico (il mare, la foresta), con metafore (quelle bibli­che del pastore o del gregge), ma anche con temi più comples­si: «Per fare un esempio fra tanti, ricordiamo come una con­venzione diffusa nel romanzo ottocentesco sia quella di pre­sentare due eroine, una bruna e una bionda: quella bruna ha un carattere passionale, orgoglioso, caldo, è straniera o ebrea, e in qualche modo evoca l ’indesiderabile, o suggerisce il frut­to proibito, come l ’incesto. Quando le due eroine sono lega­te allo stesso eroe, ci si deve liberare della bruna, o, se la sto­ria è a lieto fine, trasformarla nella sorella dell’eroe».

Senza seguire Frye nelle precisazioni sulla potenzialità si­

1 N. f r y e , Anatomia della critica, Torino 1969 [1957], p p . 139-40: qui tutte le citazioni successive.

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gnificativa degli archetipi, sulla varia misura di innovazione con cui essi appaiono nei diversi generi di produzione poeti­ca, sulla loro progrediente decadenza, si può notare come egli colleghi poi gli archetipi in modo sin troppo immediato al conflitto primordiale tra desiderio e realtà, sicché lo studio degli archetipi s’identificherebbe con lo studio della civiltà, non solo come imitazione della natura, ma anche come «pro­cesso di costruzione di una forma umana totale al di fuori della natura», sotto la spinta di «quella forza che abbiamo definito desiderio». Portata su questo livello metastorico, l ’indagine viene ad individuare due ritmi, uno ciclico, uno dialettico. Il primo è quello del rito come atto ricorrente le­gato ai cicli naturali dei pianeti, delle stagioni, della vita uma­na. Il secondo è quello della dialettica di desiderio e ri­pugnanza, che ha l ’espressione più piena nel sogno.

Sogno e rituale convergono nel mito. Scrive Frye: «il mito non solo conferisce un significato al rituale e un elemen­to narrativo al sogno, ma è anche l ’identificazione di rituale e sogno, in cui l ’uno pare essere l ’altro in movimento». Na­turalmente Frye usa la parola mito in senso piuttosto figurato che proprio, come è richiesto dalla sua tendenza allo studio autonomo della letteratura. Cosi, costruisce con desiderio e sogno, rito e mito, natura e civiltà, un allettante e fragile castello.

Pare indubbio che, se anche la letteratura costituisce il più ricco e assortito repertorio di temi, l ’indagine sugli schemi di rappresentabilità vada portata al di fuori della letteratura: su tutte le espressioni simboliche dell'immaginazione. Le ri­cerche degli etnologi e degli storici delle religioni sui simboli che sono stati concepiti e modificati nell’arco di millenni, e quelle dei folkloristi sulle cellule di situazioni e di azioni che ricorrono nelle narrazioni più lontane e diverse, devono es­sere confrontate con le attività simboliche dell'inconscio e con i loro mutamenti, se si possono cogliere. Osservazioni che dovrebbero poi essere analizzate da una psicologia degli schemi dell’esperienza.

È giusto, d ’altra parte, evitare distinzioni troppo nette tra gli schemi di rappresentabilità riscontrabili all’osservazio­ne etnopsicologica e quelli attivi nella letteratura popolare e in quella colta. Il nostro modo di schematizzare la realtà è de­terminato anche dai clichés letterari, che si diffondono a ogni

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livello di cultura. Si può solo ammettere che i temi e i motivi presenti nei testi popolari e letterari costituiscono un insieme abbastanza ben delimitato, con scambi tra popolare e lettera­rio. E se a un estremo abbiamo, con un massimo di stereo- tipizzazione, i topoi, dall’altro abbiamo gli schemi non anco­ra consacrati letterariamente, anche se già riconoscibili come patterns dell’esperienza collettiva.

Acquista cosi efficacia la dialettica di tema e motivo. Per­ché i temi, più articolati e riconoscibili, possono già fungere da «types-cadre», come dice Zumthorl; ma i motivi possono anche costituire la propria individualità con il loro ripetersi nH’interno del testo. Un modo di avviare un’autoselezione tra gl’infiniti valori simbolici che si potrebbero cogliere in tutti gli elementi che costituiscono un testo. Selezione per via di recursività, che poi s’integra con la selezione operata dalla convergenza dei motivi all’istituzione di campi di si­gnificato riportabili al tema. Cosi, la dialettica di temi e mo­tivi contribuisce all’istituzione del senso dell’opera.

Un contributo fondamentale alla distinzione tra contenu­to, soggetto e idea ispiratrice viene da Panofsky, il quale fa leva appunto su argomenti storico-culturali \ Egli distingue, in un’opera figurativa, un soggetto primario o naturale, un soggetto secondario o convenzionale e un significato intrin­seco, o contenuto. Il soggetto primario viene individuato identificando le pure forme, in quanto rappresentazione di oggetti naturali con le loro eventuali caratteristiche espressi­ve. «Il mondo delle pure forme cosi riconosciute come por­tatrici di significati primari o naturali potrà denominarsi il mondo dei motivi artistici».

Il soggetto convenzionale o secondario si coglie collegan­do motivi artistici con temi e concetti. Per esempio una figu­ra maschile con coltello per uno studioso di iconografia è san Bartolomeo, e si può interpretare il quadro con collegamenti di tipo culturale. I motivi ci si palesano allora come immagi­ni, le loro combinazioni sono storie ed allegorie. Il signifi­cato intrinseco, o contenuto, corrisponde ad atteggiamenti fondamentali di gruppi storicamente determinati (e assunti

1 p. z u m t h o r , in «Poétique», u (1971), pp. 354-65: qui anche le cita­zioni successive.

2 e . p a n o f s k y , Studi di iconologia, Torino 1975 [1939], pp. 5-8.

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dall’artista). Essi sono interpretabili, con Cassirer, come va­lori simbolici.

La sfera dei motivi è dunque, per Panofsky, molto più am­pia di quella dei temi: i temi sono quei motivi a cui la storia ha conferito un significato secondario, che rientra in conven­zioni culturali. A loro volta, questi significati secondari ven­gono risemantizzati a ogni loro reimpiego, in base alle con­cezioni di cui l ’artista è portatore (o creatore), cosi che il sog­getto primario, già culturalmente determinato, assume un nuovo valore nel campo della produzione artistica e nel pre­ciso contesto in cui viene inserito.

Il discorso di Panofsky può esser ripreso tale e quale per la letteratura, solo che si consideri l ’identità tra soggetto se­condario e argomento, tra significato intrinseco e diànoia o senso. Ciò che Panofsky evidenzia è il fatto che l ’individua­zione del tema di un testo sia un atto eminentemente storico, perché è condizionato dalla cultura di chi lo esegue, oltre che dalle vicende proprie di quelPargomento. V i sono per esem­pio argomenti legati strettamente ai nomi dei personaggi (Edipo, Tristano e Isotta, Don Chisciotte, Don Giovanni) - talché è facile riconnettervi anche eventuali svolgimenti con nomi diversi - ed altri in cui i nomi sono variabili persisten­do immutata la vicenda (per esempio la storia del casto G iu­seppe, che si ritrova in tutto il folklore anche indipenden­temente dalla Bibbia). E solo la storia dà un minimo di validi­tà alla distinzione nomenclativamente debole che vien fatta da Trousson1 tra thèmes héroiques e thèmes de Situation, i primi legati al carattere di un personaggio, gli altri a precise situazioni storiche.

Dare alla storia la responsabilità d ’individuare e inven­tariare i temi, equivale a riconoscere nei temi una sintesi del­le vicende possibili (tanto che alcuni temi, come quello di Edipo, sono divenuti veri e propri paradigmi), una forma di autocoscienza dell’umanità. Come scrive Trousson, «nos mythes et nos thèmes légendaires sont notre polyvalence, ils sont les exposant de l ’humanité, les formes idéales du destin tragique, de la condition humaine». D ’altra parte l ’attitudine dei temi ad assumere nel tempo significati sempre diversi

1 r . t r o u s s o n , Un problème di littérature cotnparée. Les études de thè­mes, Paris 1965, p. 6.

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conferisce allo studio della tematica un posto importante nel­la storia delle idee.

Terminologicamente, la distinzione panofskiana tra sog­getto e significato intrinseco o contenuto sarebbe attraente, perché eliminerebbe l ’ambivalenza della parola tema, che può significare sia 'argomento’, sia 'idea ispiratrice’. Purtrop­po, l ’uso anteriore e posteriore ha preferito mantenere l ’am­bivalenza - non senza qualche giustificazione, come accenne­rò - , sicché qui continuerò a parlare di temi, eventualmente distinguendo tra temi contenutistici e temi dianoetici, cioè temi che riguardano l’idea ispiratrice.

La distinzione panofskiana tra soggetti primari e secon­dari risulta fondamentale per qualsiasi approfondimento ul­teriore. Se il tema è un motivo culturalmente qualificato, esso va inserito nell’assieme dei materiali figurativi convenziona­li che confluiscono nell’opera d’arte: materiali riportabili a un type o a un pattern, definibili in qualche modo come dei clichés. Zumthor per esempio li considera come «marques formelles dans la texture des ceuvres», che permettono d’in­dividuare l ’esistenza della tradizione, e ne propone una classi­ficazione basata sulla loro appartenenza alle forme dell’e­spressione, alle forme del contenuto o ad entrambe, secondo la nota doppia bipartizione di Hjelmslev. Nelle «formule epi­che», per esempio, un esiguo contenuto figurativo è legato a scelte lessicali e a moduli ritmico-sintattici: siamo dunque a un livello vicino alle forme dell’espressione. Appartengono viceversa alle forme del contenuto i topoi, i luoghi comuni tradizionali, che sono, come dice Zumthor, dei «types à do­minante figurative, faiblement lexicalisés, et sans marque syntaxique particulière»; mentre esistono procedimenti (co­me l ’equazione canto = amore nelle canzoni cortesi) in cui so­no parimenti interessate le forme del contenuto (per gli ele­menti figurativi) e quelle dell’espressione (per le scelte lessi­cali, in genere molto codificate).

L ’analisi di Zumthor, anche se richiederebbe più ampia documentazione, è notevole perché inserisce gli elementi te­matici nell’assieme dei processi stereotipanti di assimilazio­ne: mostra dunque la vitalità, attraverso i testi, di questi «matériaux de réemploi... issus de quelque bricolage archaì- que». È giusta l ’insistenza di Zumthor sulla ripetitività, non tanto in singoli testi, quanto nell’assieme dei testi di una cui-

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tura. Perciò la differenza che si fa normalmente tra, per esem­pio, un Leitmotiv ecc., e viceversa la ripetizione del tema at­traverso i testi di una cultura o i testi di varie culture, non ha nessun senso se noi consideriamo appunto i testi non iso­latamente ma all’interno del grande testo della cultura. È la tradizione che palesa le sue tracce nella ricorrenza dei clichés da testo a testo. La tradizione, come sempre, si rivela in una dialettica di passività e reattività: il cliché può essere riporta­to meccanicamente, può farsi stimolatore di sviluppi concet­tuali, può essere rinnovato. Ciò che importa è l ’assieme delle relazioni funzionali tra gli elementi di un cliché, relazioni che ne mantengono la coesione, anche nel suo passaggio da un te­sto all’altro. Come scrive Zumthor, «un type sera ici tout élé- ment d ’ " écriture ” à la fois strutture et polyvalent, c’est-à- dire comportant des relations fonctionnelles entre ses par- ties, et réutilisable indéfiniment dans des contextes diffe­rente».

È difficile, con un impianto di questo genere, che qui ho soltanto esposto per accenni, sottrarsi alle tentazioni della psicoanalisi: alle quali cede anzi, pur basandosi su osserva­zioni rigorosamente formali, e mostrandosi sensibile all’ana­lisi musicale dei temi e delle variazioni, la psicocritica di Ch. Mauron ‘, impegnata a individuare nell’opera di uno scritto­re le associazioni o i raggruppamenti di immagini, ossessivi e probabilmente involontari, e a cercare poi come in essa «si ri­petano e si modifichino le reti, i raggruppamenti o, con ter­mine più generico, le strutture rivelate dalla prima operazio­ne giacché, in pratica, queste strutture disegnano rapidamen­te figure e situazioni drammatiche». Combinando «l’analisi dei temi variati con l ’analisi dei segni e delle loro metamorfo­si», si possono osservare, dice Mauron, «i passaggi tra l ’as­sociazione di idee e la fantasia immaginativa» e si giunge a raffigurare il «mito personale» di ogni poeta. J.-P. W eber2 giunge anzi a collegare con l ’inconscio il singolo tema, visto come « u n événement o u u n e S itu a t io n (au sens le plus large du mot) infantiles, susceptibles de se manifester - en géné- ral inconsciemment - dans une oeuvre ou un ensemble d ’oeu-

1 c h . m a u r o n , Dalle metafore ossessive al mito personale, Milano 1966[ i963l> PP· 33 sgg-

1 j .- p . w e b e r , Genese de l’ceuvre poétique, Paris i960, p. 13.

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vres d’art soit symboliquement, soit en clair», donde la ne­cessità di risalire dai rilievi sulle modulazioni di un tema (o sulle ricorrenze lessicali sintomaticamente ossessive) nell’o­pera poetica, a ricerche sul trauma infantile probabilmente determinante per l ’autore. Cosi, i motivi, le immagini, le fi­gurazioni caratteristiche di uno scrittore, si rivelerebbero ri­flessi congiunti di un solo ricordo, traccia di un’esperienza se­gretamente condizionata da un trauma.

Come secondo esempio del rapporto tra sistemi e struttu­re, voglio venire adesso, e cerco di farlo velocemente, allo studio di un canzoniere. Ho scelto un canzoniere di cui mi so­no già occupato in anni lontani, cioè le Soledades di Macha­do Mi collego qui con una stimolante affermazione di Bou- sono, nella sua Teor'ta de la expresión poètica2, e con le de­duzioni che ne trassi in un mio vecchio saggio. L ’affermazio­ne di Bousono è questa: «El concepto de modificante puede tener aùn mayor alcance quiza, si pensamos que, dentro de un mismo libro, unos poemas se apoyan en otros y a su lado cobran relieve». A proposito io scrivevo: «Si potrebbe opi­nare che i significati, impliciti all’interno di una lirica, siano da considerare esplicitati dalle liriche affini. Si tratterebbe, più che di un altissimo parassitismo, di una specie di irradia­zione di significati dall’una all’altra struttura in cui il siste­ma semiologico del tema si è realizzato». È opportuno, dice­vo, «fissarsi su una sola faccia di una realtà, consapevoli pe­rò della sua prismaticità».

La prospettiva aveva dato dei risultati abbastanza ricchi. Si era potuta individuare una tendenza della lirica machadia- na a quelli che chiamavo «parti gemellari», cioè a creare cop­pie di poesie i cui significati s’illuminano a vicenda. Si era po­tuta spiegare l ’eliminazione, in un certo senso la censura, del­le liriche più esplicitamente enunciative in ordine a un dato tema, quando Machado riunì in raccolta poesie che aveva prima pubblicato in rivista. Si erano illustrate poesie in cui il tema che studiavo, che è quello della fontana e dell’albero, as­sumeva ormai funzioni laterali, come se i valori simbolici

1 Le cito da a . m a c h a d o , Poesie, a cura di O. Macri, Milano 19613. Il mio lavoro cui alludo è Sistema e strutture nelle Soledades di A. Machado, inI segni e la critica cit.

2 Madrid 1952, p. 107; le mie deduzioni in I segni e la critica cit., pp.109 sgg.

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esplicitati nelle prime liriche fossero considerabili impliciti, per una specie di riferimento non pronunciato, di prenotorie­tà, al momento della prima, più complessa ed articolata ela­borazione.

Questi rilievi potrebbero anche essere inquadrati, tradi­zionalmente, sotto l ’etichetta del perfezionamento e del raf­finamento. Ma si troverebbe un ostacolo là dove la lettera è cosi reticente o stringata da essere interpretabile solo con l ’aiuto di altre liriche, le quali vengono a ricostituire tutto un ordine di processi simbolici, in altre parole un discorso che non è esaurito dal discorso di quella lirica ma che è il discor­so di tutto il canzoniere o persino il discorso di tutto Macha- do. Questa delucidazione reciproca delle liriche può essere posta molto vicino al concetto di connotazione: in questo caso avremmo delle connotazioni di scambio, istituite dai rinvìi impliciti invece che da connotatori linguistici. Questa operazione viene fatta dal lettore, e non ha aggancio nel di­scorso esplicito del poeta.

Si prendano per esempio due composizioni, la xxxir nel­l ’edizione Macri delle opere complete, e la cxxv: la prima al margine del periodo di sviluppo del tema (verso il 1907), la seconda molto posteriore (1913). La poesia xx x n suona cosi:

Las ascuas de un crepusculo morado detras del negro cipresal humean...En la glorieta en sombra està la fuente con su alado y desnudo Amor de piedra, que suefia mudo. En la marmòrea taza reposa el agua muerta.

In questa poesia c ’è un’impressione apparentemente non ca­ricata di simboli; ma poiché i simboli sono già stati presenta­ti in altre liriche (ecco il concetto di prenotorietà), noi non possiamo prescinderne. Noi conosciamo intanto i luoghi e gli oggetti: la piazzetta, la fontana, conosciamo questo crepu­scolo di brace. Li conosciamo perché si trovano, tutti questi particolari, in una poesia rifiutata, il n. x: potrei mostrare i riscontri verbali che attestano la vicinanza tra le due liriche. Salvo che nella poesia x, lunghissima a differenza di questa, e in poesie che ancora precedono il n. xxxn nella raccolta completa, si espone l ’opposizione sèmica (e psicologica) fon­damentale: l ’opposizione passato/presente, fatta coincidere

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I.E STRU TTURE IM PLIC A N TI 8 r

con l ’opposizione gioia/dolore. Perciò il n. xxxn , che neutra­lizza l ’opposizione (ne è indizio l ’Amore che sogna muto), è comprensibile pienamente solo sul suo sfondo, dunque gra­zie ai fantasmi del sistema. E solo su questo sfondo si può ap­prezzare il transfert del sogno all’Amore di pietra (di solito chi sogna è l ’acqua, e l ’acqua è legata più direttamente, attra­verso tutta una serie di metonimie, al poeta stesso); le remi­niscenze favorite dal mormorio dell’acqua sono, in questa se­rie, d ’amore.

Viceversa, nella poesia cxxv, composta, come ho detto, quando ormai Machado era lontano da questa tematica e vo­leva soltanto rievocare la sua infanzia, il ricordo dell’infan­zia è spogliato delle sue armoniche sentimentali. Ma anche questa spoliazione, forse rimozione, si avverte soltanto nel confronto con gli altri testi. Ecco alcuni versi del n. cxxv, dove si indica esattamente la localizzazione degli oggetti evo­cati:

Tengo recuerdos de mi infancia, tengoimagenes de luz y de palmeras,y en una gloria de oro,de luefies campanarios con cigiiefias,de ciudades con calles sin mujeresbajo un cielo de afiil, plazas desiertasdonde crecen naranjos encendidoscon sus frutas redondas y bermejas;y en un huerto sombrio, el limonerode ramas polvorientasy palidos limones amarillos,que el agua clara de la fuente espeja,un aroma de nardos y clavelesy un fuerte olor de albahaca y hierbabuena [..,]

Dicevo che qui c’è una spoliazione delle armoniche senti­mentali che ha tutta l ’aria di essere una rimozione. Certo in questa lirica sembra di arrivare continuamente alle soglie di un’epifania che poi non si realizza: i «palidos limones ama­rillos, | que el agua clara de la fuente espeja» corrispondono di solito al sovrapporsi di passato e presente, di sogno e real­tà; il «fuerte olor de albahaca y hierbabuena» è quello che sembra di cogliere nei fantasmi dell’infanzia che invece evoca soltanto; ma non qui. Questa è la lirica della soglia, del ricor­do censurato da emozioni, e lo dice lo stesso Machado: «falta el hilo que el recuerdo anuda | al corazón», manca il filo che annoda il ricordo al cuore.

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Ciò che più conta in queste liriche, dietro al simbolismo esplicito di passato e presente, di gioia e dolore, è proprio la meccanica della reminiscenza. Essa è ben argomentata, e per­fezionata, in due o tre liriche, poi al solito viene deferita al sistema e rimane latente negli altri testi. Anzi, le liriche più esplicite vengono eliminate esse stesse, nella raccolta in vo­lume. Per esempio nella lirica n. i, condannata, abbiamo il movimento da puntuale a simbolico e permanente:

Y doquiera que me halle, en mi memoria,- sin que mis pasos a la fuente guie - el simbolo enigmatico aparece...,

e il movimento opposto, dalla continuità alla singolarità:

cautivo en ti mil tardes sofiadoras el simbolo adoré de agua y de piedra

Y en ti sonar y meditar querria [...]

Nel n. n i, pure rifiutato, c ’è la trasposizione spaziale della coppia presente/passato:

Escucha bien en tu pensil de Oriente mi aiegre canturia,que en los tristes jardines de Occidente recordaras mi risa clara y fria,

dove il riso della fontana appare nei giardini tristi d ’occiden­te come è apparso prima in quelli d’oriente: indicazione del­le località dell’infanzia e della maturità di Machado. C ’è infi­ne l ’inclusione delle due opposizioni nello spazio mentale, nel sogno:

[...] Tu destinosera siempre vagar ;oh peregrino del laberinto que tu suefio encierra!

Nella poesia x, anche questa rifiutata, viene sviluppata la trasposizione spaziale (c’è il giardino dell’infanzia e quello del presente)-, viene accentuata la funzione del sogno e dell’o­blio: sognano le colombe, dorme l ’acqua, i fiori sono in un angolo d’oblio, ma nel poeta risuscitano «mil suefios». An­che l ’epifania è soggetta a una coazione a ripetere: «otros dolores buscan otras flores, j otro amor, otro parque en otra tierra». Questa ripetizione ossessiva di otro, altro, indica ap­

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LE STRU TTU R E IM PLIC A N TI 83

punto la ripetitività e il continuo cambiare nel ripetersi del simile.

Da cogliere al volo, qua e là, i processi della reminiscenza. Memoria volontaria, là dove si parla di buscar, cercare: «bu­scando una ilusión càndida y vieja». Memoria involontaria, quando il «demonio de los suefios» apre le affascinanti « ga­leri as del alma». Memoria rimossa quando una storia viene descritta come confusa, più avanti come borrada, cancellata (e si noti che i versi di questa composizione, la v m , dicono: «borrada la historia, contaba la pena»). Memoria infine come consolazione strappata, travolta, quando sibila il vento: «Me llevaré los llantos de las fuentes», l x v i i i .

Le più elaboratamente raffinate sono le liriche v i e v i i , di cui però tralascerò l ’analisi, già attuata altrove. Sono le poe­sie della sovrapposizione temporale. Dal presente si muove al passato, dal passato al presente. La metafora è quella dello specchio, ma di uno specchio la cui traversata è anche una traversata degli anni: gli oggetti si riflettono nell’acqua cari­candosi di tempo. La concomitanza dell’esperienza attuale e dell’accumulo nella memoria è rappresentata con un conti­nuo rimbalzare dei termini antitetici lejano-presente, con una disposizione a cannocchiale dei tempi e con la cerniera iden­tificante del mismo: «Fue està misma tarde. [...] Fue està mi- sma lenta tarde». La ciclicità delle stagioni e delle ore favori­sce l ’inganno. Ma c’è anche l ’atto della sovrapposizione vo­lontaria, l’unità del soggetto che varca con un gesto il tempo, che distingue o unifica. Da un lato i «te recuerda» della fon­tana, quasi induzioni ipnotiche, dall’altro la messa a punto razionale «mas sé que tu copia presente es lejana»; oppure «Yó sé que tus bellos espejos cantores | copiaron antiguos delirios de amores». Infine, con un balzo del soggetto nel fondo degli anni (e questi sono versi chiave, mi pare): «Que tu me viste hundir mis manos puras | en el agua serena, | para alcanzar los frutos encantados | que hoy en el fondo de la fuente suefian...» Dove le mani pure sono quelle dell’incon­sapevolezza perduta, ma sono sempre le stesse mani.

Che cosa ho fatto con questi accenni? Ho sistematizzato ciò che viene parzialmente detto o alluso in una serie di liri­che. Da questo momento le liriche si collegano a catena, si il­lustrano a vicenda. Viene istituito un discorso di cui le sin­gole liriche sono parti. Questo discorso ci comunica un siste­

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84 PARTE PRIM A

ma latente per ogni lirica, salvo che per le parti che vi emer­gono. Un accumulo da cui ogni volta balza fuori il desunto.

Concludo. Ho fornito due esempi di strutture implicanti. Ci si sarà ormai accorti che i due esempi non sono che uno. Si tratta sempre di tematica. Salvo che dapprima essa appa­riva nella sua esistenza collettiva, ora nella soggettivizzazio- ne dei suoi mezzi. La tematica è potenzialità di significato, materiale erratico in attesa di investimento. Nel sistema di un poeta essa appare già strutturata, salvo che opera come se fosse destrutturata. Perché essa non ha una strutturazione globale, ma varie strutturazioni parziali che il lettore può ren­dere globali solo a costo di decostruirle.

Questo è forse un insegnamento anche per il problema dell’accumulo culturale. Si tratta di uno sfasciume eteroge­neo eppure già assoggettato a vari riordinamenti: quelli ideologici, quelli letterari, quelli per tipo di testo. È uno sfa­sciume che in parte ci si impone, in parte setacciamo volonta­riamente; una memoria collettiva su cui operano i meccani­smi della memoria personale, per esempio quelli descritti da Machado. I vari riordinamenti citati inseriscono questo cu­mulo di materiali in griglie razionali alternative e spostabili. Ed è probabile che ogni elemento ne porti dietro altri, per la­bili ma vivaci associazioni.

Ci si presentano cosi due immagini entrambe valide. Quel­la di una persistenza dei materiali decostruiti in forma di fan­tasmi operanti nel nostro discorso, e quella di una serie di strutturazioni provvisorie in preparazione della convenzio­nale definitività delle strutture discorsive. Queste due imma­gini rappresentano un principio d ’indeterminazione del di­scorso cosciente e lasciano spazi aperti, non per l ’irrompere, ma per l ’astuto e complicato agire dell’inconscio.

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Parte seconda

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La novella di Nastagio degli Onesti (Dee. V vili): i due tempi della visione *

7 ·

i . La contaminatio. Per poche novelle del Boccaccio co­me per quella di Nastagio degli Onesti si possono indicare con tanta precisione le fonti di temi e procedimenti. Punto di partenza è il racconto della «caccia tragica» (mito di origine germanica) nella versione di Elinando1 poi ripresa da Vin­cenzo di Beauvais2 e tradotta da Iacopo Passavanti \ L ’inna­morato che addita all’amata le tragiche conseguenze della su­perbia e della crudeltà d’una donna ha un precedente nell’ex, x iii della Disciplina clericalis (forse con qualche ricordo del racconto di Vertumno nelle Metamorfosi ovidiane, X IV 622 sgg.). Infine la «moralità» è quella di testi d’ispirazione cor­tese come il Lai du trot *, e soprattutto come il De amore di Andrea Cappellano5.

* Inedito.1 Flores I 13, in Migne, P. L. CCXII 734.2 SpeculumHistorialeXKIX 120.3 Lo specchio della vera penitenza, ed. F. L. Polidori, Firenze 1863, dist.

I li , cap. 11, pp. 46-48. l . d i F r a n c i a , Alcune novelle del «Decameron» illu­strate nelle fonti, in «Giom. stor. d. lett. it.», x l i x (1907), pp. 257-80, so­stiene che Boccaccio deriva esclusivamente da Elinando; ma raffronti verbali mostrano contatti col Passavanti (cfr. A . m o n t e v e r d i , Studi e saggi sulla let­teratura italiana dei primi secoli, Milano-Napoli 1954, pp. 192-93), di cui Boccaccio può aver ascoltato qualche predica (lo Specchio fu composto dopo il Decameron).

' Cfr. w . a . N E iL S O N , The Purgatory of Cruel Beauties, i n « R o m . » , x x i x (1900), pp. 85-93.

5 Vedi c. g r a b h e r , Particolari influssi di Andrea Cappellano sul Boccac­cio, in «Annali della Fac. di Lett. e Filos. e di Magistero dell’Univ. di Ca­gliari», xxi (1953), II, pp. 67-88. Per un quadro generale dei testi affini cfr. m o n t e v e r d i , Studi e saggi sulla letteratura italiana cit., pp. 192-93, e il com­mento di V. Branca al Decameron. Sulla nostra novella, importanti le anali­si di N. s c a r a n o , La novella di Nastagio degli Onesti, in Studi lett. e linguist. ded. a P. Rajna, Firenze 1911, pp. 423-51, e m . g i a c o n , La novella di Nasta­gio e la canzone delle visioni, in «Studi sul Boccaccio», vili (1974), pp. 226-49.

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88 PARTE SECONDA

Eppure Boccaccio ha fatto ben più che attuate un’abile contaminatio, e abbellire col suo stile materiali preesistenti. Egli ha sistemato in una struttura unitaria, compatta, la fa­bula. ricomposta; e attraverso questa struttura ha fatto par­lare la propria ideologia, con efficace dissimulazione. La co­noscenza delle fonti non serve soltanto a escludere la falla­cia (già fuori uso) di una creazione ex mhilo; piuttosto ci in­duce a vedere il lavoro dell’invenzione come elaborazione di altre precedenti invenzioni, come riaggiustamento e riasset­to, come istituzione di nuove prospettive suggerite dal rias­setto. L ’autore è il demiurgo del gioco delle strutture.

2. La visione a due tempi. A un povero carbonaio appa­re, secondo Elinando, un cavaliere che insegue una donna nuda, la uccide a coltellate e la arde tra le fiamme della fossa per il carbone. Della visione, che si è ripetuta più volte, il car­bonaio parlerà col conte suo signore; ed è a lui che il cavalie­re, riapparso nel solito modo e alla solita ora, spiegherà che egli e la donna stanno scontando, in purgatorio, l ’adulterio che hanno assieme commesso, e l ’uxoricidio perpetrato dalla donna. Il cavaliere chiede in grazia preghiere e messe, che ac­corcino i tempi dell’espiazione.

La visione è evidentemente, anche, un messaggio: viene manifestata ai viventi per ottenere una riduzione della pena. Inoltre, essa può avere una funzione esemplare: finalità se­condaria per i personaggi, ma primaria nelPimpiego ad opera di Elinando. L ’emittente i , il cavaliere, è il messo di un emit­tente 2, che possiamo chiamare Dio. Ma la visione viene a manifestarsi al conte tramite il suo carbonaio, che ha dunque funzione di «contatto». Il carbonaio non interpella il cava­liere purgante; si limita a collegare emittente e destinatario, tra i quali sussistono elementi di omogeneità: x ) sono ambe­due nobili; 2 ) hanno rapporti di vassallaggio ( amante e mari­to della donna erano «uomini» del conte); 3) appartengono allo stesso ambiente culturale (ciò che può favorire la funzio­ne ammonitoria della visione, voluta dall’emittente 2). Per il carbonaio, «vir pauper in saeculo, sed dives in Deo, reli- giosus et timens Deum», nessuno di questi elementi sus­siste.

Boccaccio mantiene i due tempi della visione, ma con mu­tamenti sostanziali. Già, la visione appare subito a Nastagio,

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LA NOVELLA DI NASTAGIO DEGLI ONESTI 89

ed è con Nastagio che il cavaliere esibisce rapporti di conti­guità familiare: Nastagio, che subito dopo l ’apparizione in­terpella il cavaliere, corrisponde anche nel comportamento al conte di Elinando, non al carbonaio. Nastagio eredita dal carbonaio solo la funzione di «contatto» per un uso meglio finalizzato della visione: organizzando il ricevimento in cui prevede che l ’apparizione si ripeterà, con effetti suasori sulla giovane da lui amata senza successo. A l climax di Elinando:a) visione descritta senza esplicazioni; b) visione con esplica­zioni, si sostituisce un anticlimax·, a) visione descritta com­piutamente con esplicazioni; b) visione richiamata somma­riamente.

Chi è il destinatario della visione? Senza dubbio la giova­ne deiTraversari: certo l 'exemplum del cavaliere suicida per amore può toccare Nastagio, ma l ’ammonimento vale soprat­tutto per la donzella, che può e deve sentirsi adombrata nel­l’infelice vittima della caccia tragica. Sotto questo aspetto Nastagio corrisponde al carbonaio di Elinando, la giovane al conte. Interessante è che il messaggio non contiene richieste: esso è dominato dalle espressioni di durezza verso la donna, verso «quel cuor duro e freddo, nel qual mai né amor né pie­tà poterono entrare» (24). Se l ’emittente fosse, come in Eli­nando, il cavaliere, il messaggio sarebbe superfluo.

A meno di interpretarlo come un atto di solidarietà verso chi è analogamente vittima della crudeltà femminile. Dopo essersi presentato, Guido degli Anastagi dice: «io... era troppo più innamorato di costei [la donna che insegue] che tu ora non se’ di quella de’ Traversari» (21). Ma non è lui a sug­gerire a Nastagio la replica, funzionalizzata, della visione. La motivazione vale in superficie, come pure la pensata di Na­stagio, del ricevimento con la visione come dessert. Nel pro­fondo, l 'emittente del messaggio è lo stesso Nastagio.

Ammettendo questa ipotesi, le corrispondenze anche ver­bali ' tra le due vicende, e soprattutto le due donne, si trasfor­mano di affinità in identità (cfr. «cruda e dura e salvatica», 6, con «per la sua fierezza e crudeltà», 21, «per lo peccato della sua crudeltà», 22; «d’averla in odio come ella aveva lui», 7, con «di seguitarla come mortai nemica, non come amata don­na», 23, ecc.). E c ’è una spia decisiva nei nomi: Nastagio de­

1 Cfr. M a c o n , La novella di Nastagio c i t . , p p . 230-31.

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9 ο PARTE SECONDA

gli Onesti, Guido degli Anastagi·. lo stesso nome divenuto patronimico. Nastagio e Guido sono una persona sola.

Leggendo la novella alla luce di quest’ipotesi, si nota be­ne il trasformarsi dell'immagine della Traversar! nell’imma­gine dell’altra donna, per Nastagio: egli vaga per la pineta perché «entrato in pensiero della sua crudel donna» (13), ed è allora che gli appare l ’altra donna inseguita; a sua volta la «compassione della sventurata donna» (17) che lo invade na­scerà, almeno in parte, dall’averla identificata con la Traver­sati. È poi la stessa Traversari, dopo la seconda visione, a sentirsi, quasi fisicamente, una sola cosa con l ’altra, e insegui­ta da Nastagio: «già le parea fuggire dinanzi da lui [Nasta­gio] adirato e avere i mastini a’ fianchi» (40).

Anche i due tempi della visione vengono ora illustrati me­glio. Il primo tempo è un materializzarsi di fantasticherie al­lo sguardo di un Nastagio pensoso («piede innanzi piè se me­desimo trasportò pensando infino nella pigneta», 13; «rotto il suo dolce pensiero», 14; soprattutto: «per più poter pen­sare a suo piacere», 13) e dimentico della realtà quotidiana («non ricordandosi di mangiare né d ’altra cosa», 14; «mara- vigliossi nella pigneta veggendosi», ibid.); egli entra progres­sivamente nella nuova dimensione: prima «gli parve udire» (14), poi, in modo più netto, «vide» (1 5 ,1 6 ); e progressiva­mente ne esce: «in picciola ora si dileguarono in maniera che più Nastagio non gli potè vedere» (31). Il secondo tempo non è più una visione, ma uno spettacolo. Portando i suoi ospiti e l ’amata (il pubblico) intorno allo spiazzo che divente­rà la scena della visione, facendo anzi sistemare le tavole ( « fe­ce le tavole mettere sotto i pini dintorno a quel luogo dove veduto avea lo strazio della crudel donna», 36) come in una platea, Nastagio fa, nettamente, da regista. L ’esatta previsio­ne del comportamento gli procura lo sperato successo.

3. U alternativa possibile. Le rassomiglianze tra Nasta­gio e Guido degli Anastagi, tra la donna de’ Traversari e la crudele dama di Guido sono fitte. I due uomini amano non riamati, e la situazione loro e quella delle dame sono descrit­te con analoghe parole. Salvo che nella visione si hanno gli sviluppi possibili della situazione di Nastagio: se a Nastagio era venuta voglia di uccidersi (7), Guido si è effettivamente ucciso (21), se Nastagio fantasticava di trasformare il pro-

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LA NOVELLA DI NASTAGIO DEGLI ONESTI 9 1

prio amore in odio (7), Guido ora odia, tant’è vero che stra­zia, la sua donna (23); cosi l ’indifferenza della giovane de’ Traversari diventa malvagio godimento per la morte di Gui­do nell’altra (22).

La funzione esemplare della visione sta dunque nel raffi­gurare le conseguenze di una delle alternative possibili alla donna, si che essa, impressionata, possa scegliere l ’altra. Ella può continuare nelle ripulse, oppure no: se continuerà, il suo innamorato può morirne, e lei ne sarà responsabile, e potrà finire all’inferno. Frangenti facilmente evitabili se, invece, scegliendo l ’altra alternativa, ricambierà l ’amore.

Ridotta ai termini più semplici, la novella narra il passag­gio da una situazione iniziale:

Nastagio ama la TraversariLa Traversari non ama Nastagio

ad una finale:Nastagio ama la TraversariLa Traversari ama Nastagio,

cioè la trasformazione del sentimento amoroso da asimmetri­co a simmetrico. Questo passaggio, questa trasformazione, sono prodotti dalla coscienza, che la visione apporta alla don­na, delle conseguenze di questa asimmetricità.

La visione-spettacolo non è soltanto un momento decisivo per la vicenda, è anche il documento di un diverso statuto narrativo. La visione ha una cornice visiva e gestuale (commi r4-2o: apparizione della donna inseguita dal cavaliere; Na­stagio tenta con atti e parole di difendere la donna; commi 28-31 : si completa lo strazio della donna da parte del cavalie­re) e una parte centrale discorsiva, costituita dalla narrazio­ne fatta dà Guido (commi 21-27). Caratteristico della parte discorsiva è che essa da un lato risale sino al momento inizia­le della storia, perciò a molto prima della scena-cornice, che comunque ingloba; dall’altro lato anticipa, in forma narrati­va, ciò che poi viene descritto ai commi 28-31, andando an­che più in là nel tempo, tanto da fornire il calendario dell’e­spiazione della donna.

Sembra insomma che il discorso di Guido degli Anastagi, invece d’incastrarsi all’interno della visione, si accavalli ai suoi margini, con un effetto di ridondanza marcato dal Boc­caccio stesso («si come tu vedrai incontanente», 24; «lo stra­

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92 PARTE SECONDA

zio che vederai», 26). È un modo di sottolinearne l ’autono­mia: in effetti, mentre discorso e visione sono in grado di in­fluire sullo svolgimento della storia, la storia non può avere la minima conseguenza su di essi. Il discorso di Guido ha lo statuto di un factum, la storia in cui è inserito ha quello di un fieri.

4. Le due fabulae. La nostra novella narra una fabula in cui è inserita un’altra fabula. Abbiamo già visto che la secon­da fabula è la prima capovolta, essendo uguale nelle premesse (l’uomo ama non riamato), ma sviluppando le conseguenze di un’alternativa possibile. Sicché, chiamando P e C le pre­messe e le conseguenze della seconda fabula, p, ~p e ~c rap­presentano le premesse e le conseguenze della prima, tenen­do conto che, visto il nesso P.C, la donna, per evitare c, capo­volge p in ~p. Perciò la struttura generale della novella si può sintetizzare, accogliendo il simbolismo di von Wright (An Essay in Deontic Logic and thè General Theory 0/ Ac­tion, Amsterdam 1968), specie per i simboli T (successione temporale) e I (invece di), in questi tre tempi:

p ~e ~(P.C) Tp. (P.C)~c I p .c-(P .C ) T ~ p ~c. (P.C) I p.c~(P.C)

Nel primo tempo p è ancora in assenza di c e della fabula se­conda, cioè (P.C); nel secondo tempo l ’intervento della fa­bula inserita produce la scelta di invertire c, invece di pro­durre la successione p.c, che sarebbe intervenuta senza (P. C); nel terzo tempo l ’inversione di c si riflette su p, condot­to a ~p.

La seconda fabula ha la rigidità di un factum, la conse­quenzialità di un teorema (e noi sappiamo che l ’emittente è il protagonista della prima fabula, il quale ha ben calcolato gli effetti da ottenere). Si noti che è un racconto tutto azione (salvo l ’ultima frase), senza un solo discorso, diretto o indi­retto che sia. Il fieri della prima fabula coincide con le sue potenzialità di sviluppo. Basta confrontare la parte preceden­te la visione, che sottolinea con la sintassi contrapposizioni e asimmetrie («troppo più nobile che esso non era», 5; «non solamente non gli giovavano, anzi pareva che gli nocessero», 6; «né egli né cosa che gli piacesse le piaceva», ibid.-, «quan­to più la speranza mancava, tanto più moltiplicasse il suo amore», B), e quella che la segue, col suo veloce slittare ver­

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LA NOVELLA DI NASTAGIO DEGLI ONESTI 93

so la conclusione, dopo l ’ancor più veloce capovolgimento delle premesse.

Uno slittare che passa sopra qualunque sospetto di verisi- miglianza psicologica: tant’è vero che se la complicatezza del periodo rende bene il groviglio di paura e rimorso (comma 40), è poi quasi puerile la spiegazione del movimento odio-»amore: «E tanta fu la paura che di questo le nacque, che, acciò che questo a lei non avvenisse, prima tempo non si vide, il quale quella medesima sera prestato le fu, che ella, avendo l ’odio in amore tramutato, una sua fida cameriera se­gretamente a Nastagio mandò» ecc. (41).

Si potrebbe dire che si tratta di un contrappasso subito dal Boccaccio: a procedimento razionalistico non poteva segui­re che conclusione altrettanto razionalistica. Ma il razionali­smo con cui la donna spaventata cambia il ségno del suo sen­timento, precipitosamente; il razionalismo con cui «tutte le ravignane donne» (44) decidono d’essere arrendevoli alle vo­glie degli innamorati esce dalla sfera della verisimiglianza per entrare in quella del comico. Solo in questa sfera l ’effet­to ammonitore della visione poteva essere tanto travolgente, e cosi duraturo nella sua efficacia: tanto più quando essa non si realizza in sacrifici e rinunce, ma in un più pieno abbando­no all’eros.

Non si vuol dire che la novella sia comica: solo, la comici­tà della conclusione si irradia, con effetto retroattivo, sul re­sto del racconto, istituisce una duplicità di fasce connotati­ve, crea un’ambiguità maliziosa. Quell’ambiguità grazie alla quale il già miserevole Nastagio può esser considerato «au­tore», oltre che avveduto valorizzatore, della visione.

j . Uno spazio per la fantasia. Lo schema abbozzato nel paragrafo precedente collima incompletamente con l ’intrigo della novella: ampie zone della quale (commi 9-12633-35) sviluppano particolari a cui, proporzionalmente all’impor­tanza, sarebbe potuto toccare meno spazio. Questi sviluppi sono, almeno in parte, condizionati. Boccaccio non ha potuto attenersi a questo schema:

amore non corrisposto - visione - amore corrisposto,

perché ha accettato che la visione avvenga, come nella fonte, in due tempi. Occorreva un’intercapedine tra i due tempi; e

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94 PARTE SECONDA

un’intercapedine che prima disgiungesse l ’innamorato e la renitente donna per concedere all’uomo di contemplare solo la visione, poi li ricongiungesse perché assistessero insieme al secondo tempo.

Lo schema, più complesso, deve tener conto della vici­nanza ambientale e di quella affettiva

I. 2. 3 - 4 - 5 · 6.(Ravenna) (Pineta) (Pineta) (Pineta) (Pineta) (Ravenna)

N - * T N -» TVisione I

N -» TVisione II

N<-»TN A T N v T N A T N a T

( i e 2 corrispondono al primo momento dello schema prece­dente; 3, 4 e 5 al secondo; 6 al terzo). La disgiunzione am­bientale di Nastagio e della donna è attuata mediante il sog­giorno di Nastagio nella pineta; e la loro congiunzione avver­rà ancora nella pineta. Il movimento 4 ripete, sommariamen­te, il movimento i , per preparare, in seguito a 5, il capovol­gimento di 6.

La pineta non è una zona intermedia, ma una zona di me­diazione 2. Boccaccio non ha opposto città e pineta come cul­tura e natura, ma ha inserito tra i due elementi, compatibile con entrambi, la mondanità. Nastagio lascia la vita mondana di Ravenna per la pineta, dove comunque, mondanamente, continua a ricevere e imbandire. Solo al momento d’assistere alla visione si troverà in solitario contatto con la natura; ma sarà ancora attraverso la mondanità che potrà procurare la presenza in pineta della Traversari, e di tanti altri.

Illustrato il procedimento narrativo sotteso all’invenzione del soggiorno in pineta, se ne deve rilevare il significato to­nale. La novella appare svolta su tre livelli: il livello base, quello della storia d ’amore di Nastagio e della Traversari; il

1 N sta per Nastagio, T per (donna dei) Traversari, y\ e \/ stanno, ri­spettivamente, per vicino e lontano; -» sta per rapporto amoroso asimmetri­co,«-» per rapporto amoroso simmetrico.

2 La selva come luogo della visione deriva da Andrea Cappellano: cfr. g r a b h e r , Particolari influssi di Andrea Cappellano cit., pp. 75-76. Da nota­re la connessione amore-dispendio: amici e parenti consigliano a Nastagio di allontanarsi per evitare che consumi «sé e ’l suo avere» (9), dato che per­siste «nello amare e nello spendere smisuratamente»; una strada percorsa sino in fondo da Federigo degli Alberighi, nella novella immediatamente precedente.

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LA NOVELLA DI NASTAGIO DEGLI ONESTI 95

livello alto, quello della visione e della storia di Guido e del­la sua donna; infine il livello intermedio, quello della vita di Nastagio nella foresta.

Cosi la pineta diventa spazio deputato alla fantasia, luogo di riflessione e meditazione. Sarà la riflessione di Nastagio a culminare nella visione di un suo possibile futuro travestito da passato altrui; sarà la riflessione tremebonda della donna a mutare i suoi atteggiamenti, sul livello intermedio e, poi, su quello della realtà.

Cosi gli spostamenti diventano figura di cambiamenti mentali.

6. Parodia. Riesaminiamo il procedimento boccacciano. Punto di partenza è il racconto di una visione abbastanza tipi­ca, basata sulle pene sofferte, nell’aldilà, da una coppia di adulteri. Ideologia cristiana in forma medievale. Boccaccio fa si che la pena cada, più che sull’uomo, suicida, sulla donna; inoltre, la donna non tanto è punita come responsabile del suicidio dell’uomo, quanto per la mancanza di rimorso, per aver considerato merito quello che era una colpa. Boccaccio ribadisce insomma con forza l ’uscita della novella dai binari dell’ideologia cristiana (su cui avrebbe potuto mantenerla in­sistendo sul suicidio e sulla responsabilità indiretta per il sui­cidio): il peccato della donna è la pervicacia nel rigettare il principio che «Amor [...] a nullo amato amar perdona».

Una morale che sarebbe imprudente proporre ‘, e che Boc­caccio ha avanzato qui, scherzosamente, come morale ad usutn Oelphìni (l’emittente della visione, e perciò anche del suo ammonimento, è Nastagio, a cui basta che valga per la sua bella). È infatti solo con un sorriso malizioso che si segnalano i perduranti effetti sulle «ravignane donne». Implicare in una morale del genere la giustizia divina (« si come la giustizia e la potenzia di Dio vuole», 25; «lasciami la divina giustizia mandare ad essecuzione», 27); aggravare, con effetto deter­rente, la pena: di purgatorio per Elinando, nel cui testo la donna è ben altrimenti colpevole (adultera e uxoricida), d ’in­

1 Almeno in un contesto apparentemente cosi ligio alla morale costitui­ta; altro è il discorso per le teorizzazioni cortesi (che Boccaccio in parte ri­flette), la cui morale poteva esser considerata all’interno di un gioco o di una finzione di società.

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C)6 PARTE SECONDA

ferno per Boccaccio, rientra assai bene nel gioco. Un gioco di parodia '.

Uexemplum, di solito, agisce lentamente nelle coscienze, le scava pian piano con le sue minacce, le agita con la forza dei suoi simboli. Esso deve sussistere nelle memorie, operare al­la presenza di analogie. Qui la visione, che vale come exem- plum, travolge la destinataria, subito pronta ad accogliere nel suo letto l’uomo sino allora detestato (sarà lui a volere la le­galità delle nozze). Il contenuto della dottrina e l ’immedia­tezza del suo successo svolgono, congiunti, una bella parodia dell’exemplum medievale.

In questo disegno parodistico diventano molto più sa­porose le fittissime riprese dantesche, notate già dai commen­tatori: facendo intravvedere dietro la caccia tragica varie bol­ge infernali, Boccaccio cosparge di tocchi paurosi o angosciosi una vicenda che la spregiudicatezza della morale potrebbe far declinare troppo presto in direzione del malizioso e del comi­co: ai quali, del resto, approda.

Tutelatosi abilmente con la massima liminare («come in noi [donne] è la pietà commendata, cosi ancora in noi è dalla divina giustizia rigidamente la crudeltà vendicata», 3, ove non si dice che la crudeltà consiste nel non cedere a chi non si ama), Boccaccio entra agilmente sul terreno della predicazio­ne e della moralità medievali. L ’indole scherzosa dell’assunto escludeva pericoli d’ordine teologico. Ma si farebbe torto a Boccaccio negandogli consapevolezza nel manipolare con tan­ta disinvoltura un exemplum edificante. Nell’ampia strategia boccacciana di svuotamento delle concezioni medievali, la spregiudicatezza di questa novella ha un suo posto, anche se non eclatante.

1 La natura parodistica della novella è stata colta da v. Sk l o v s k i j , Una teoria della prosa, Bari 1966 [Moskva 1929], p. 59; Torino 1976, p. 61, che purtroppo si accontenta di pochi cenni; è stata invece negata da l . r u s s o , Letture critiche del Decameron, Bari 1967 [Bari 1956; tratte dal commento fiorentino al Decamero», 1938], p. 178, quasi essa compromettesse il valore artistico della novella, che ne risulta invece arricchito.

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Da Boccaccio a Lope de Vega: derivazioni e trasformazioni *

o. Quando un autore come Lope de Vega si riallaccia di­rettamente a un confratello attivo oltre due secoli e mezzo prima di lui, il sistema di motivazioni e modalità si propone sin troppo ampio. Qui mi limiterò a studiare le otto comme­die di Lope ispirate a novelle del Boccaccio soprattutto per individuare: i mutamenti nella logica narrativa; i mutamenti nello sviluppo dell’intreccio; i mutamenti di ordine tematico. Ricerca che si può definire «contrastiva», perché il confronto enfatizza le peculiarità tecniche dei due scrittori, e può perciò giovare alla definizione di entrambi. Concluderò con le tra­sformazioni provocate in Lope dalla realizzazione dramma­tica dei suoi testi, ma omettendo i rilievi basati su troppo ov­vie differenze tra diegesi e mimesi.

Ecco l ’elenco delle commedie di Lope con le corrisponden­ti novelle del Boccaccio':

* Già pubblicato in Boccaccio: secoli di vita. Atti del Congresso Inter­nazionale: Boccaccio 1975. Università di California, Los Angeles 17-19 Ot­tobre 1975, Longo, Ravenna 1977, pp· 225-37. L’appendice in Mélanges d’Etudes Romanes du Moyen Age et de la Renaissance offerts à M. Jean Rycbner (» «Travaux de Linguistique et de Littérature», xvx, 1 [1978]), pp. 483-87.

1 Tutte queste commedie sono raccolte in Obras de Lope de Vega, in Biblioteca de Autores Espafioles, CCXLII (vol. xxxi) e CCIL (voi. xxxn), Madrid 1971 e 1972. Le citazioni del Decameron provengono dall’edizione curata da V. Branca, Milano 1976 (Tutte le opere, IV). Gli ultimi e più completi lavori sul rapporto Lope-Boccaccio, già segnalato da Menéndez y Pelayo, sono: c. B . b o u r l a n d , Boccaccio and thè Decameron in Castilian and Catalan literature, in «Revue Hispanique», XII (1905), op. 1-232; j. c. J. m e t f o r d , Lope de Vega and Boccaccio’s Decameron, in «Bulletin of His- panic Studies», xxix (1952), pp. 75-86. Alla prima dobbiamo la dimostra­zione che Lope usò il Decameron in italiano, e non rifacimenti spagnoli; al secondo la conferma, con qualche puntualizzazione, delia data attribui­ta da s. g . m o r l e y e c. b r u e r t o n , The Chronology of Lope de Vega’s co- medias, New York 1940, all’assieme di queste commedie (1595-1608); osser-

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98 PARTE SECONDA

E l anzuelo de Fenisa La boda entre dos maridos

V ili xX vili

III ni X xV ix II iiV iv X i

La discreta enamorada E l ejemplo de casadas E l halcótt de Federico E l Uegar en ocasiónE l ruisenor de Sevilla E l servir con mala estrella

I . i . Le commedie si distribuiscono equamente in due se­rie, a seconda che corrispondano nella loro totalità alle novel­le del Boccaccio (El anzuelo de Fenisa, La boda entre dos ma­ridos, E l ejemplo de casadas, El llegar en ocasión), oppure le utilizzino soltanto per una parte, per lo più finale, della pièce (le altre quattro): nel primo caso abbiamo un’espansione del racconto boccacciano, nel secondo una retrogradazione.

Partendo dal primo gruppo, in cui gli schemi del Boccac­cio costituiscono l ’ossatura delle commedie di Lope, si pos­sono avanzare le seguenti osservazioni:

i) Lope tende a moltiplicare il numero degli attori (come altri ha notato nei rifacimenti dal Bandello) : non solo per ne­cessità dell’azione, ma per motivi che incidono sull’impianto stesso delle commedie: a) sviluppare un’intera trama paralle­la alla principale: nell 'Anzuelo de Fenisa l ’amore di Albano per Dinarda, frequentemente in scena col suo travestimento maschile, che fa innamorare di lei Fenisa (la madonna Janco- fiore del Boccaccio): ciò raddoppia, alla conclusione, lo smac­co di Fenisa stessa, derubata da un innamorato e trovatasi priva dell’unico (creduto) uomo che sentiva di amare; nel Uegar en ocasión la congiura di Federico contro il Marchese di Ferrara: Federico cerca rifugio presso Laura, e contribui­sce involontariamente al finale matrimonio di Laura, amata da Federico, con Otavio (il Rinaldo d’Esti boccacciano);b) fornire i cavalieri di scudieri o paggi, le dame di donzelleo sorelle o cugine: in queste coppie di «alleati» risulta:i ) Una gradazione o una polarizzazione di spinte interiori proprie degli attanti di cui le coppie sono una realizzazione (donzelle, sorelle e cugine anticipano e favoriscono per lo più le mosse sentimentali delle dame, mentre gli scudieri-paggi

va2Ìoni (pp. 82-83) sullo sforzo, da parte di Lope, di eliminare elementi « im­morali» delle trame boccacciane, e indicazioni sugli sviluppi e le aggiunte al primario nucleo novellistico. Non sono d’accordo col Metford sulla supe­riorità di Lope nella caratterizzazione dei personaggi.

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DA BOCCACCIO A LOPE DE VEGA 99

- talvolta con tratti da gracioso — fanno anche da consiglieri, ed eventualmente mettono in guardia il cavaliere contro i pe­ricoli della situazione); spesso pure gli amori restano sdop­piati (le donzelle, sorelle o cugine amano gli scudieri-paggi);2) Una possibilità di saturazione di valenze matrimoniali ri­maste libere: lo sdoppiamento di Fabia con la sorella Celia fa si che, essendo ceduta a Febo Fabia da Lauro (o, per dirla col Boccaccio, Sofronia a Tito da Gisippo), questi possa spo­sare Celia.

11) La conclusione matrimoniale è quasi di prammatica (lieto fine); se non è possibile per i personaggi principali, vie­ne trasferita a personaggi secondari. Cosi nella Boda entre dos maridos, essendo presto sposati Febo e Fabia, alla fine si coniugano Lauro e Celia, nonché Andronio, vecchio preten­dente di Fabia, con Dorena, sorella di Febo; nzWAnzuelo de Fenisa, dove la conclusione principale sta nella beffa a Feni- sa, abbiamo comunque le nozze di Dinarda con Albano. L ’im­portanza delle nozze finali risulta soprattutto dalle altre due commedie del gruppo: il Llegar en ocasión, che per Boccac­cio si esauriva in una piacevole notte d’amore, per Lope giun­ge al matrimonio tra la caritatevole vedova, Laura, e il suo ospite notturno, Otavio; con reazioni a catena: il Marchese di Ferrara, deluso da Laura, sposa Camila, sorella del ribelle Federico, e Federico Diana, sorella del Marchese (matrimo­nio incrociato); in più, Fenisa sposa Fabio, mentre resta di­menticata, o comunque non risolta, l ’incertezza di Serena tra Tancredo e Tirso; neìVEjemplo de casadas l ’annullamento del ripudio di Fenisa-Griselda entra in un doppio fascio di lu­ce matrimoniale attraverso l ’offerta di nozze del principe di Béarn, che funge anche da apoteosi pubblica della donna. Da notare che nel Llegar en ocasión questo tipo di finale si ri- percute sull’inizio: Laura non è più una mantenuta del Mar­chese, ma una donna che egli corteggia, e la notte d ’amore a cui si prepara non si trova alla metà di una serie, ma è la pri­ma che sta per concedergli. Evidente che in questo partito narrativo la convenzione drammatica e lo stereotipo sociale devono corrispondersi in modo abbastanza stretto.

1.2. Queste osservazioni valgono in buona parte anche per le commedie derivate solo parzialmente dal Decameron : a) trame parallele: nel Ruisenor de Sevilla, l ’amore di Adria­

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xoo PAR TE SECONDA

no, fratello di Lucinda, per Lisarda, che è sempre in scena tra­vestita da uomo, e s ’innamora di Félix, ma alla fine favorisce il matrimonio Lucinda-Félix (Caterina e Ricciardo Manardi del Decameron). Nel Servir con mala estrella, il dramma nel­la commedia: Sancha tra il suo regale amante e il fratello ge­loso Tello, che fa uccidere; poi, quasi nemesi, i cessati favori del re e la scelta della clausura. Sdoppiamento dei personag­gi: nel Servir con mala estrella, Rugero (cioè Ruggiero de’ Fi- giovanni) e Turin, che con minor pudore del padrone espri­me il disappunto per la mancanza di compensi; nel Ruisenor de Sevilla, Lucinda e Dorotea da un lato, Félix e Riselo dal­l ’altro: cosi i convegni sono sempre a quattro; nella Discreta enamorada si mettono di fronte due coppie madre-figlia, pa­dre-figlio: l ’amore della figlia col figlio è intralciato dal fidan­zamento col padre, mentre il fittizio amore del figlio con la madre apre la strada all’ovvia conclusione che accoppia ma­dre-padre, figlio-figlia. V ’è dunque anche saturazione di va­lenze matrimoniali, b) Conclusione matrimoniale in tutte e quattro le commedie. Abbiamo nozze anche quando nella vi­cenda l ’elemento amoroso è secondario, come nel Servir con mala estrella (nozze Rugero-Hipólita); e nozze a grappolo: nel Ruisenor de Sevilla, oltre che fra i protagonisti, tra Juan, pretendente della donna, e una Celia apparsa dal nulla; nel Servir con mala estrella, oltre che tra Rugero e Hipólita, an­che tra personaggi di contorno, Ramiro e Clara, Fernando e Marcela (con cambiamenti inesplicati rispetto all’inizio, quando Clara amava Fortunio e Marcela Ramiro, e con spa­rizione di due personaggi, Bianca e Fortunio).

2.1. Ma ora si può passare a osservazioni che toccano di­rettamente le basi degli intrighi boccacciani e lopiani. Nel Decameron il comportamento dei personaggi si sviluppa in relazione col comportamento dei loro antagonisti: ogni suc­cessivo momento delPintrigo è condizionato da un'avvenuta presa di coscienza: il sistema muta per il mutare degli ele­menti che lo compongono. In Lope non ci sono sviluppi inte­riori, quella che predomina è la meccanica dell’azione: muta­no i rapporti tra elementi non mutevoli del sistema. Salabaet- to non è solo sedotto, nel Decameron, dalla donna, ma am­maliato dalle aristocratiche delizie di cui ella lo circonda: la generosa insistenza dei doni fa leva sulla sua avarizia di com­

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DA BOCCACCIO A LOPE DE VEGA I O I

merciante, smentendo solo di sbieco le voci sfavorevoli alla donna. In Lope la situazione è definita sin dall’inizio : Tri­stan percepisce subito i propositi truffaldini di Fenisa, e met­te in guardia Lucindo: l ’ostentata generosità di Fenisa vuol chiaramente controbilanciare il giudizio negativo. E ancora: Salabaetto è un ingenuo che, ingannato, si fa astuto per ven­dicarsi; fra Lucindo (nella misura in cui è messo in guardia da Tristan) e Fenisa si svolge, in tutta la commedia di Lope, una continua gara d ’astuzia. Altro esempio: Gualtieri di Sa- luzzo vuole «con lunga esperienzia e con cose intollerabili provare la pazienzia» di Griselda; Enrico nell'Ejemplo de ca- sadas dà spettacolo a sé e agli altri della perfezione di Fenisa, su cui non ha dubbi. Si oppone insomma il provare, «mettere alla prova» di Boccaccio al dimostrare di Lope.

2.2 Lo sviluppo narrativo del Boccaccio è spesso costitui­to da una progressione o da una contrapposizione, sviluppa­ta retoricamente: il climax delle prove di Griselda, prima or­bata della figlia e del figlio, poi ripudiata, poi spettatrice di nuove nozze del matito; la simmetria tra la generosità di G i­sippo verso Tito, e quella di Tito verso Gisippo. Il ritmo te­stuale della novella è evidentemente sotteso da queste pro­gressioni. La maggior complessità dell’azione, l ’intervento di altri calcoli distributivi, che concernono l’alternanza delle scene e la sfilata dei personaggi, offuscano quasi sempre in Lope il rigore di queste misure. Cosi nell 'Ejemplo de casadas Laurencia è privata della figlia e del figlio, poi ripudiata; ma le nuove nozze fittizie vengono inscenate molto dopo, quan­do Enrico torna dalla crociata; nella Boda entre dos maridos le trame rese necessarie dallo scambio di persona tra Lauro e Febo, e i particolari della progressiva disgrazia di Lauro, di­luiscono la simmetria tra i due alterni atti di generosità, e in complesso sacrificano il secondo, pur conclusivo.

Insomma le progressioni e le simmetrie boccacciane sono funzionali perché su esse è strutturata la narrazione stessa: immergendole in un intrigo complicato da altre azioni etero- nome, si produce un allentamento dei loro rapporti reciproci, e in definitiva la loro riduzione a semplici elementi dell’in­trigo maggiore.

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10 2 PARTE SECONDA

2.3. Si può ora precisare meglio perché le commedie deri­vate per «retrogradazione» dal Decameron esasperino i con­trasti sinora rilevati. In generale, i materiali boccacciani vi si trovano immersi in (o accordati a) una preponderante ma­teria lopiana, e vengono assoggettati alle leggi a cui essa si conforma. Ma veniamo ai particolari.

Esaminiamo anzitutto El halcón de Federico e E l servir con mala estrella. Esse mostrano corrispondenza con le no­velle del Decameron solo nel terzo atto, mentre nei primi due espongono, inventandoli, i precedenti: i primi due atti del Halcón de Federico traggono, con molte innovazioni, spunti dai commi 5-9 di Decam. V ix; i primi due atti del Servir con mala estrella sviluppano, con anche maggior fantasia, i com­mi 3-5 di Decam. X 1. La posizione terminale dà un rilievo particolare all’elemento boccacciano; ma la libertà inventiva arrogatasi nei primi due atti dal commediografo fa si che egli si trovi, quando si collega con lo spunto boccacciano, un intri­go ormai nettamente orientato: di qui lo snaturamento ine­vitabile dello spunto. Nel Halcón de Federico c’è un intrico di amori e gelosie: Camilo, marito di Celia (la Giovanna del Decam. ), ha qualche rapporto con Julia, innamorata respinta di Federico. Julia farà credere a Camilo che Celia ricambia l ’amore di Federico; Camilo impazzisce e muore. Questi pre­cedenti fanno si che il finale incontro di Celia e Federico, in­vece di svolgersi nella discrezione cortese del Boccaccio, si ponga alla convergenza fra due rancori: quello di Federico, che incolpa Celia della propria rovina economica, e quello di Celia, che accusa Federico della morte di Camilo, e di quella del figlio, sempre dovuta, anche se per troppa generosità, a Federico. Nel Servir con mala estrella c ’è un ambiente eroico, da romane ero, con le imprese di Rugero contro gli Arabi; e c ’è la tresca (in cui ancora Rugero serve fedelmente il re) fra re Alfonso e Sancha, che presto giunge al fratricidio. L ’in­gratitudine di Alfonso ha infinite occasioni di rivelarsi, ed è più volte sottolineata anche pubblicamente, da lui e dallo scudiere Turin. Quando Rugero parte, il re ne vede bene la ragione, e il suo farlo accompagnare da un inviato, e l ’invitar­lo a tornare, rientrano in un chiaro disegno autogiustificati- vo. Nel Decameron il re non conosceva i motivi della parten­za di Ruggiero, ed è per questo che lo faceva seguire; la bat-

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iuta di Ruggiero deluso gli veniva elucidata, col solito gusto del motto, da Ruggiero stesso, che del resto non era ferito tanto dalla mancanza di ricompense, quanto dal fatto che es­ita sembrava denotare poca considerazione da parte del mo­narca.

Alle altre due commedie le novelle del Decameron non of- frono nemmeno episodi unitari, ma invenzioni narrative for­temente rielaborate perché si saldino al resto dell’azione. Nel Ruisenor de Sevilla l ’espediente della notte all’aperto e del canto dell’usignuolo rientra fra gli stratagemmi inventati da Riselo per favorire gli amori di Félix con Lucinda, già pro­messa dal padre a Juan. Cade insomma quel carattere d’im­provvisazione un po’ infantile (la giovinetta che soffre il cal­do estivo) che fa deliziosa la novella. Inoltre l ’immediata ac­cettazione, da parte del padre, del pernottamento in terraz­za, e il moltiplicarsi dei convegni, abbassano la sorridente tensione narrativa del Boccaccio. Anche nella Discreta ena- morada l ’astuzia della donna rientra in una serie più ampia, dato che Fenisa ha già occasione d’incontrare Lucindo, grazie al fidanzamento, voluto dalla madre, di Fenisa e del padre di Lucindo. Sostituire, come involontario mezzano, il padre del­l’innamorato al confessore boccacciano, sembra rendere più piccante la vicenda. In verità più artificiosa, perché allo scioc­co zelo del prete si sostituiscono i rimproveri, misti di gelo­sia, del padre al figlio; e occorre poi ritirare le accuse, quando la rivalità padre-figlio si fa troppo evidente. Si noti poi che le confessioni menzognere perdono: a) la funzione di presa di contatto con la persona desiderata (con cui gl’incontri, in Lope, son già possibili); b) la funzione di istruzioni per la sua condotta. D ’altra parte la purezza distributiva dello sche­ma a tre fasi successive del Decameron è oscurata dalle altre, e più convenzionali, astuzie di Fenisa, dal fazzoletto lasciato cadere per strada alla benedizione della futura «matrigna» al futuro «figliastro».

3.1. La trascuranza o lo scardinamento di funzioni basi­lari nel racconto boccaccesco trovano due tipi di compensi. Il primo compenso sta nella fitta rete di connessioni istituita tra i momenti successivi dell’intrigo: le spinte causali non sono viste in modo unitario, ma segmentate in un succedersi di fat­ti, appartenenti a una fascia più ampia di realtà, in cui anche

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104 PARTE SECONDA

le «coincidenze» hanno il loro posto. Lope moltiplica i per­sonaggi e le complicazioni da essi prodotte : il godimento del testo drammatico sta proprio nel seguire lo sbrogliarsi pro­gressivo della matassa. Nel Llegar en ocasión Laura viene a trovarsi non solo tra due pretendenti, Otavio e il Marchese, ma con al fianco, ospite indesiderato, il fuggitivo Federico, che Otavio prende per un nuovo rivale: proprio la gelosia fa si che Otavio si scopra, dando l ’avvio allo scioglimento. Nel­la Boda entre dos maridos Lope riesce, con una serrata con­duzione degli sviluppi narrativi, a motivare tre passaggi ap­pena accennati dal Boccaccio: a) la disgrazia di Gisippo- Lauro (dovuta al rancore dei parenti di Fabia, non rassegna­ti allo scambio di marito); b) la presenza di un morto, di cui Lauro si dichiarerà omicida: perciò anche, data l ’appartenen­za del vero assassino al cast dei personaggi, c) l ’autodenun­cia dell’assassino, che chiude felicemente la gara di generosi­tà fra Febo e Lauro.

3.2. Il secondo compenso consiste nella funzionalizzazio­ne di ricorsi tematici, i quali vengono a costituire delle «gui­de» per lo sviluppo coerente delle azioni. Come sostituire una motivazione «diffusa» a una motivazione «compatta». Procedimento abbastanza ovvio là dove caratterizza il prota­gonista: cosi, per Fenisa (El anzuelo de Fenisa), il tema del­l ’amo (= inganno) e del pesce, e il punto d ’onore di truffare persone avvedute e prudenti. Più decisiva la sua importanza nelle altre commedie. Nel Llegar en ocasión, è l ’insistenza sulla variabilità della Fortuna e dell’animo femminile che spiega il pronto subentro di Otavio al Marchese nei favori della donna (mentre è attenuata con vari espedienti la schiet­ta spiegazione naturalistica del Boccaccio: «già, per lo mar­chese che con lei doveva venire a giacersi, il concupiscibile appetito avendo desto nella mente...» II, 11, 35). NeU’E/ew- plo de casadas, il crudele sperimentalismo del marito e l ’ob­bedienza assoluta della moglie sono inquadrati, più esplici­tamente che nel Boccaccio, in un’opposizione tra mondo cor­tigiano e mondo contadino: la durezza del marito s’intride di capriccio signorile, la dignità della moglie si colora di schiettezza paesana; un’intersezione tra i due mondi visualiz­zata in scena con la mescolanza di personaggi di corte e perso­naggi di campagna, portavoce, questi, di una concezione del­

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Ι)Λ BOCCACCIO A LOPE DE VEGA IO ?

la vita semplice e giocosa. E si veda come domina il tema ri­corrente nella Boda entre dos tnaridos. Il tema è quello del­l’amicizia come identità spirituale e fisica, specularità, inter­cambiabilità. Esso serve anzitutto a preparare, meglio che col ricorso a sentimenti astratti, la cessione che Lauro fa a Febo di Fabia, e tutti gli equivoci che interpungono l ’intri­go. Ma ha pure una funzione più sottile: Fabia non si trova soltanto un marito invece di un altro; si sente comunque sballottata tra due uomini che si amano più di quanto non amino lei stessa. Un nuovo tipo di gelosia, per persona d’un altro sesso, che porta in un’aura di mai esplicitata omofilia.

4.1. Terminerò con rilievi che sviluppano su segmenti più estesi le osservazioni già accennate sulle diverse modalità di estrinsecazione della diegesi novellistica e di quella teatrale; ma sottolineo energicamente che non penso di cogliere pro­prietà generali, bensì immanenti al metodo espressivo dei due scrittori.

Nella novella di Federigo degli Alberighi, i due personag­gi, con finezza e nobiltà di sentimenti da «cuor gentili» (V ix3), muovono passi paralleli guidati da amore: l ’amore per la donna è più grande dell’affezione al falcone, in Federigo; l ’a­more per il figlio può far andare la donna al di là della discre­zione e del ritegno. Il parallelismo è insomma fomentato dal rispetto reciproco: naturale in Federigo, il quale infatti in­terpreta sempre nel modo più positivo gli atti della donna, ma più significativo nella donna quando monologa dubitosa- mente nel comma 14 («Come manderò io o andrò a doman­dargli... »). I l figlio, desiderando il falcone, unisce, ancora con una linea d’amore, la donna e Federigo. Mediante l ’ingestio­ne del volatile, la donna entra in comunione diretta con l ’a­more di Federigo, che ne ha fatto un’offerta sacrificale (per questo s’insiste tanto sul pasto, 26-27, 33,36-37). Invece del dono desiderato dalla donna - che sarebbe stato trasmissione di un oggetto da Federigo al figlio tramite lei - si realizza una consumazione carnale comune, che rende inutile la mediazio­ne del bambino, presto morto infatti. In Lope i movimenti intimi di Federico e di Celia sono asimmetrici (Federico ama già Celia nel momento in cui ella è ancora dominata dalla ge­losia per il marito) e persino antagonistici. Se verso la fine es­si si trovano un sentimento in comune, si tratta del rancore,

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ιο6 PARTE SECONDA

in lotta con l ’amore in Federico, con la crescente ammirazio­ne in Celia. Drammatizzazione di sentimenti che vanifica il valore simbolico e la funzione risolutiva dell’ingestione del falcone: e infatti Celia apprende la sorte del volatile, e ac­corre dal figlio delusa, prima di averne gustato. Si noti che il valore simbolico del sacrificio è ben notato da Lope: «por ha- ceros sacrificio | De mi propio corazón, | Fui donde estaba el halcón...»; ma Lope deve ancora mettere in movimento sino a una nuova sistemazione più favorevole a Federico il poligo­no dei sentimenti precedentemente costruito: anche perché gli manca la mediazione del rispetto reciproco istituito dal Boccaccio. Si ha insomma l ’impressione che Lope abbia ri­nunciato alla linearità di sviluppi e alla minima escursione sentimentale del Boccaccio perché sentiva il bisogno di por­tare sulla scena forti contrasti di sentimento, da trasformare poi col processo dell’azione.

4.2. Confrontando la novella di Ricciardo Manardi con El ruisenor de Sevilla, tocchiamo un vero ostacolo tecnico al passaggio dalla narrazione alla rappresentazione: si tratta delle possibilità di eco tra dialogo e narrazione, e viceversa. Nel primo discorso indiretto della Caterina, il caldo è il pre­testo principale per la richiesta di dormire sul verone: «Io soperchio caldo» (15); e su questo risponde la madre («che caldo fa egli? », 16; «non posso fare caldo e freddo a mia po­sta», 18); poi (discorso diretto) la Caterina aggiunge, anzi premettendolo al caldo, il canto dell’usignolo («udendo can­tar l ’usignuolo e avendo il luogo più fresco...», 21). Nel dia­logo tra madre e padre, è notevole che la madre ripeta ancora i due argomenti («non ha... trovato luogo di caldo... le sia in piacere l ’udir cantar l ’usignuolo», 25); mentre il padre, pri­ma restio poi domo, parla solo dell’usignuolo («Che rusi- gnuolo è questo...?», 23; «e oda cantar l ’usignuolo a suo senno», 26). Dunque il padre, evidenziando l ’aspetto capric­cioso della richiesta, si prepara in un certo senso alla consta­tazione che verrà, facendo intanto una scelta stilisticamente produttiva per l ’uso metaforico cui darà spunto la scoperta della tresca. Ma l ’uso metaforico è inaugurato in un brano narrativo: «per tutta la notte diletto e piacer presono l ’un dell’altro, molte volte faccendo cantar l ’usignuolo» (29). Di qui l ’effetto comico della prima battuta del padre ancora igna­

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ro («Lasciami vedere come l ’usignuolo ha fatto questa notte dormire la Caterina», 31) — in cui si sfrutta il gioco d ’anti­cipo tra l ’informazione del lettore e quella dei personaggi. Dopo la scoperta, il padre accoglie, e definitivamente, il senso metaforico dell’usignuolo·, «è stata si vaga dell’usignuolo... che ella l ’ha preso e tienlosi in mano» (33): non dunque nel sintagma far cantar l ’usignuolo, che nella narrazione allude al­l’atto della copula, ma unito a prendere, che sempre nella nar­razione descrive la posa del finale abbandono («presolo per quella cosa che voi tra gli uomini più vi vergognate di nomi­nare», 30). Di qui scrittore e attori tornano a passarsi le bat­tute. In brani narrativi la madre vede «come la figliuola aves­se preso e tenesse l ’usignuolo il quale ella tanto disiderava d’udir cantare», 36 (con prendere e tenere, ma anche col ri­torno della scusa del caldo)·, poi considera che «erasi ben ri­posata e aveva l ’usignuol preso» (39). Il padre attua un ulte­riore sviluppo metaforico, prevedendo che Ricciardo «si tro­verà aver messo l ’usignuolo nella gabbia sua e non nell’al­trui», (38): lo scrittore adotta anche il simmetrico lasciare («lasciò l ’usignuolo», 44), e poi una nuova metafora: «uc­cellò agli usignuoli e di di e di notte quanto gli piacque» (49). La novella può esser dunque letta come lo sviluppo di una metafora, dal significato letterale a quello figurato e alle sue varianti: ma uno sviluppo le cui fasi coincidono con momenti della vicenda e con interventi alterni degli attori e del nar­ratore.

I rapporti fra intrigo e metafora sono rivoluzionati da Lope. Già, l ’idea dell’incontro in giardino è di Riselo, scu­diere di Félix, non dell’innamorata Lucinda, cui appartiene invece l ’invenzione dell’usignuolo. In più, la parola ruisenor viene subito codificata come equivalente di innamorato (non di membro virile: si sente la pudicizia dell’epoca): la usa Lu­cinda con la cugina Dorotea, con Pedro, con Félix stesso («jMi bien, ruisenor del alma!»); e quando Félix e Riselo giungono, si dicono pajaros (e Félix, ancora, ruisenor). Re­sta il ritardo del padre e del consigliere Fabio nel riconoscere la metafora: il tenero padre continua a credere all’invenzio­ne di Lucinda, e provvede a che l ’usignuolo non venga distur­bato dai servi - donde una scena comica, in cui le donne ma­liziosamente usano ruisefior metafora, mentre il padre lo usa in senso proprio. Ma lo scioglimento avviene senza connes­

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ιο 8 PARTE SECONDA

sioni con la metafora, che solo riappare, interpretata scrittu­ralmente, quando Lucinda giustifica il suo amore («Senor, | El ruisefior me ha enganado... pues | Eva dijo culebra, | Y yo digo ruisefior»).

G li sviluppi semantici eliminati vengono sostituiti da Lo­pe con sviluppi musicali. Lucinda, all’inizio, non denuncia il caldo, ma una forte melanconia, anche con febbre (curioso ma non pertinente il richiamo calentura-caldó), e il padre le offre lo svago di un intrattenimento musicale: la risposta ne­gativa di Lucinda istituisce subito una concorrenza usignuo­lo-musico. Quando poi, in prossimità delle nozze aborrite da Lucinda (il padre l ’ha fidanzata con Juan), i musici interven­gono, è per cantare un’«alba» dell’usignuolo, che celebra gli effetti benefici del canto dell’usignuolo sulla melanconia del­la donna: divertente il dialogo tra il padre soddisfatto per la guarigione di Lucinda e il vero usignuolo, Félix. I versi fina­li della canzone («quedito, pasito, amor, j No espantéis al rui­sefior») erano già stati anticipati dai servi («pisad con tien- to, pasito, | No espantéis el ruisefior»), e verranno poi ripe­tuti da Riselo come un sottofondo sdrammatizzante nella sce­na finale, col padre che scopre l ’inganno e infine si rassegna. In sostanza la metafora, mentre perde il suo valore «euristi­co», si trasforma in tema verbale e, col ritornello ricorren­te, in tema musicale.

5. In questo studio le due serie di testi sono state mante­nute a fianco: l ’analisi «contrastiva» non è stata avara. Ma per Lope l ’analisi era anche «comparativa». Perché le com­medie di Lope sono soltanto strutture a trama affine, rispetto alle novelle del Boccaccio, ma le novelle del Boccaccio sono fonti rispetto alle commedie di Lope. Il confronto non in­veste l ’operazione letteraria del Boccaccio, che costituisce un dato, ma investe l ’operare di Lope, che intervenendo su questo dato ha prodotto come conseguenza le differenze. Per questo le conclusioni non possono riguardare che Lope; anzi, Lope e la sua epoca, dato che le analisi hanno toccato aspetti tecnici e convenzioni più che il dominio su essi eser­citato dall’artista (esso chiederebbe un’applicazione molto più protratta).

L ’elemento più vistoso è una complessa ma rigorosa codi­ficazione dei comportamenti descritti. Questa codificazione

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cerca di proporsi come specchio idealizzato di un costume, in cui tutto è previsto e risolto in anticipo. I sentimenti che mu­tano, i colpi di scena e le agnizioni, sono spostamenti minimi di un sistema che subito si riassesta. V e un macchinismo complicato di attori e comparse, una minuziosa descrizione di impulsi e stati d ’animo, una trama di parallelismi e di contra­sti; ma tutto assume l ’aspetto di un gioco di società, in cui i personaggi ambiscono ad apparire come attori, non gli attori come personaggi.

Il fatto è che questa gioiosa «estroversione» nasconde una reticenza e una rimozione molto forti, specie in campo ses­suale. Oltre alla pudicizia linguistica, si noti: le mantenute diventano amanti, le amanti si comportano da innamorate, gl’innamorati fingono di appagarsi d’un sentimentalismo gor- gheggiante, e comunque mirano a disinfettarsi con un matri­monio finale.

È una censura che si estende a tutti gli aspetti della realtà: le spinte causali sono rese irriconoscibili dalla loro segmenta­zione, o delegate a motivazioni di superficie, o tradotte, gra­devoli ed evasive, nella musicalità verbale di motivi ricorren­ti. Persino la parola, che materia di sé un testo teatrale, si fa parola-gesto più che parola-atto (come è spesso nel Boccac­cio).

Le nostre non sono certo le migliori commedie di Lope. Eppure vi si potrebbero cercare (e qualche volta ho indicato) le tracce del suo magistero. Ma piuttosto che avviare queste conclusioni molto provvisorie verso una celebrazione super­flua, preferisco che esse mostrino le capacità di smaschera­mento del metodo. Il testo letterario non è soltanto un mes­saggio da interpretare, ma un complesso di segni emesso in una situazione pragmatica da cui è nettamente marcato.

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n o PARTE SECONDA

Due racconti del Novellino nel Uegar en ocasióndi Lope de Vega

i . Nel Llegar en ocasión1 Lope non ha soltanto sviluppa­to una novella del Decameron2, ma ha voluto mantenere l ’ambientazione italiana. La donna che l ’occasione spinge tra le braccia del protagonista è, in Lope come nel Boccaccio, eroticamente legata col marchese di Ferrara (Azzo, secondo il Boccaccio); il luogo dell’inopinata avventura è, nei due au­tori, Castel Guiglielmo, Castilguillermo (tra Ferrara e Ba­dia Polesine). In più, i personaggi del Llegar en ocasión par­lano di viaggi a Roma (p. 70), progettano di riparare a Firen­ze o a Roma (p. 96), citano vicende di napoletani (p. 71). Certo, si tratta di un’ambientazione approssimativa: non mi risulta esistesse a Ferrara una «Torre del Aguila» (p. 80), né che il governo ferrarese avesse tra i suoi organi un Senato (Otavio si dice figlio di un senatore, pp. 106 e 121); la con­giura contro il Marchese, assai simile ad altre che offuscaro­no la storia degli estensi, ha protagonisti non identificabili con quelli delle cronache (Federico vuol vendicare l ’oltrag­gio fatto alla sorella Camila dal Marchese, mentre la sorella del Marchese, Diana, è innamorata e complice di Federico).

Ma c’è anche un’ambientazione più sottile, quella cultura­le. La donna ospitale, anonima nel Boccaccio, viene battezza­ta Laura da Lope per un’evidente, ovvia allusione al Petrar­ca, come risulta, più che dall’apostrofe «Laura, Laura cele- stial» (p. 63), che arieggia «L ’aura celeste» di Petrarca, Rime CXCVII 1, dall’immodesto confronto che fa Otavio: «en materia de firmeza | seré tu Petrarca3, Laura» (p. 86). Lo stes­so Otavio, poi, fa una citazione ariostesca, quando afferma: «Sin duda que anoche entré | en el mesón de Atalante» (p.

1 La commedia è stampata nel tomo CCXLVII della Biblioteca de Au- tores Espafioles: Obras de Lope de Vega, XXXI, Madrid 1971, pp. 57-125; la cito per pagine.

2 È la novella 2 della giornata II. Per un’analisi della rielaborazione si veda il capitolo che precede.

3 Nell’edizione b a e citata Patrarca.

Appendice

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90; cfr. Für. XII 7-13). A sua volta Laura cita la Commedia di Dante: «Dante poeta extremado, | dijo de amor, y sé yo | que es verdad: " no perdono | de amor a ningun amado” » (p. 62; cfr. Inf. V 103).

2. È appunto nel quadro delPambientazione culturale che penso rientrino due racconti del Novellino1 rielaborati da Lo­pe, naturalmente senza indicare la fonte. Uno dei due raccon­ti è riassunto in un ampio periodo da Otavio, che lo adduce per spiegare come mai i ladroni lo abbiano privato del ve­stito:

ςΝο has oido que un sefior dijo que vestir queria cuantos en su tierra habfa.(ibuen arbitrio, aunque rigor!), y que al dalles los vestidos con los rotos se quedó, adonde dicen que hallo seis mil escudos cosidos? (p. 87).

Non mi par dubbio che si tratti della prima parte di Novelli­no LXXXIV, che raccoglie vari aneddoti su Ezzelino da Ro­mano. In corsivo le corrispondenze letterali:

Messere Azzolino Romano fece una volta bandire nel suo distretto, e altrove ne fece invitata, che voleva fare una grande limosina; e però tutti i poveri bisognosi, omini come femine, e a certo die, fos­sero nel prato suo, e a catuno darebbe nuova gonnella e molto da mangiare. La novella si sparse. Trasservi d ’ogni parte. Quando ven­ne il giorno dell’agunanza, ì siscalchi suoi furo tra loro con le gon­nelle e con la vivanda; e a uno a uno li facea spogliare e scalzare tutto ignudo, e poi li rivestia di panni nuovi, e davali mangiare. Quelli rivoleano i loro stracci·, ma neente valse; ché tutti li messe in uno monte e cacciòvi entro fuoco. Poi vi trovò tanto oro e tanto ariento, che valse più che tutta la spesa; e poi li rimandò con Dio.

3. L ’altra novella viene narrata da Lidonio a Otavio ed Kstacio. Si tratta di una parte della vicenda complessiva che risale alla fonte principale, Decam. II 11 5. Rinaldo d’Esti, mentre viaggia da Ferrara a Verona, s’accompagna incauta­

1 Lo cito dalla mia edizione, ne La prosa del Duecento, a cura di C. Se- grc e M. Marti, Milano-Napoli 1959, pp. 793-881. Poco attendibili, nono- utente le pretese critiche, le successive edizioni; Novellino e Conti del Due­cento, a cura di S. Lo Nigro, Torino 1963; II Novellino. Testo critico, intro­duzione e note a cura di G. Favati, Genova 1970.

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1 1 2 PARTE SECONDA

mente con alcuni masnadieri, che prende per dei mercanti; essi, dopo aver deliberato fra loro di derubarlo, lo intratten­gono per un certo tempo «d’oneste cose e di lealtà... favel­lando», sinché improvvisamente lo assalgono ad un guado presso Castel Guiglielmo. Lope sostituisce agli amabili di­scorsi sulle orazioni e sull’efficacissimo «paternostro di San Giuliano» la narrazione, proprio da parte dei banditi, Lido- nio e Doristeo, di due particolareggiati racconti. Racconti che culminano entrambi in «motti», secondo una spiccata predi- lezione del Novellino e di molta narrativa italiana delle ori­gini, poi tornata in voga tra Quattro e Cinquecento.

Lasciamo da parte quello di Doristeo, che non risale al No­vellino. Quello di Lidonio. narra in prima persona l ’affare amoroso con una bella signora, durante un soggiorno in Ro­ma. La prima parte della narrazione è piena di echi celestinia- ni, riconosciuti («Tuve medios para hablalla... a imitación de Calisto»); le corrispondenze col Novellino sussistono solo nella seconda parte:

Estàbamos una tardeen dos sillas divertidos,cuando él [il marito] llegó, y a la puertase puso encubierto a oirnos.Y o comencé, muy celoso, a decir: « Por Dios bendito, que no sé còrno sufris este forzoso enemigo!Otros maridos se ven,con ser discretos y Iindos,de muchas mujeres feasen extremo aborrecidos,y vos queréis una bestiamas que la del laberintoque es medio toro y medio hombre,y es un camello vestido.Es tan feo corno necio, y tan necio que ha venido [vencido?] a su mesma necedad igualandose a si mismo».El abrió la puerta entonces, y sin alterarse dijo:«Hombre, trat a tus negocios, no te metas en los mios».Quedéme helado, y sacando la espada, al umbral camino

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I)A BOCCACCIO A LOPE DE VEGA 113

para defenderme del;mas mando la puerta miro,veo que el hombre se iba,sólo con haberme dichoque dejase sus negociosy que tratase los mios (pp. 70-71).

Ecco la novella X LVII del Novellino :Uno cavaliere pregava uno giorno una donna d’amore, e diceale in­tra I’altre parole ch’elli era gentile e ricco e bello a dismisura:

- E ’l vostro marito è cosi laido, come voi sapete E quel cotal marito era dopo la parete della cammera. Parlò, e disse:

- Messere, per cortesia, acconciate li fatti vostri, e non iscon- ciate li altrui!

Messere Lizio di V aibona1 fu ’l laido, e messere Rinieri da Cal- voli fu l ’altro.

Si tratta poco più che di uno schema, in cui ha maggior rilievo la battuta del marito tradito. Lope non tanto ha aggiunto particolari e tocchi d ’ambiente (soprattutto alPinizio) quanto ha messo movimento là dove, per forza, ne manca. Cosi il ma­rito non si trova «dopo la parete», ma si è proprio nascosto « a la puerta », e per parlare « abrió la puerta » ; e se con la bat­tuta il racconto del Novellino termina, Lope vuole ancora descrivere lo spavento e la mossa difensiva del protagonista, c l’allontanarsi tranquillo del marito. La battuta stessa viene quasi centellinata, ma anche un po’ devitalizzata, mediante la reduplicazione («sólo con haberme dicho | que dejase sus negocios | y que tratase los mios»).

Non sono in grado di dire se il Novellino sia per Lope una fonte diretta o indiretta (esso fu spesso utilizzato dai com­pilatori cinquecenteschi di facezie e novelle). Mi pare che il trovare due racconti della stessa provenienza inseriti nella medesima commedia debba far propendere per la prima even­tualità, mentre il modo diverso in cui essi sono elaborati non è un argomento a favore della seconda. Lope potrebbe aver avuto fra le mani, se non la rara edizione Gualteruzzi, del 15 2 5 , quella del Sessa, del 1 5 7 1 , o quella più famosa del Borghini, del 1 5 7 2 , che sostituisce molte novelle della prima, ma non le nostre.

1 Un filo della rete di riferimenti italiani in cui è finito Lope: Lizio di Vaibona è il padre della Caterina di Decam. V iv, novella tenuta a base da Lope per El ruisefior de Sevilla.

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1X4 PARTE SECONDA

4. Merita qualche indugio la sostituzione delle novelle al­le conversazioni durante il viaggio di Otavio e dei masnadie­ri. Essa ci porta alla paradigmatica novella di madonna Oret­ta (Decam. V I 1), a cui un cavaliere promette: «Madonna Oretta, quando voi vogliate, io vi porterò, gran parte della via che a andare abbiamo, a cavallo con una delle belle no­velle del mondo» (7). Questa espressione è stata collegata col proverbio «Facundus in itinere comes pro vehiculo est», di cui sono note molte varianti («Comes facundus in via pro vehiculo est»; «Facetus comes in via pro vehiculo est»; «Fa­cundus est comes vie compendium»; «Si sit facundus comes, est auriga iucundus»; «Verbis facundi labor attenua tur eun- di; I Qui cum facundo graditur, porta tur eundo») '; ora an­che ad un enigma a larga diffusione medievale, e il cui succo è racchiuso in questa frase di una delle sue redazioni: «Quan­do duo milites equitant et unus narrai aliquod pulchrum exemplum, dicitur socium portare eum et viam abreviare»\

Però Lope indica una fonte diversa e più illustre, Apuleio:Bien Apuleyo divinolo dijo en cierta ocasión, porque oyendo al compafiero ciertos cuentos de unas viejas, corno iba a pie, en sus consejas dijo que iba caballero (p. 70).

Si tratta certamente del dialogo tra Apuleio, Aristomene e il suo compagno, nel primo libro delVAsino d’oro, e in partico­lare della lunga favola raccontata dallo stesso Aristomene, concernente in parte un’avventura di Socrate con la maga Me- roe, più volte definita anus. Apuleio procede a piedi, per far smaltire la stanchezza al suo cavallo; quando il compagno di Aristomene lo rimprovera per la sua credulità, Apuleio risponde:

[...] Sed ego huic et credo Hercules et gratas gratias memini, quod lepidae fabulae festivitate nos avocavit, asperam denique ac pro-

1 Sono raccolti da H . w a l t h e r , Proverbia sententiaeque latìnìtatis Medii Aevi, Göttingen 1963 sgg., nn. 2961,8680, 8720, 29178, 33119; li elenca ora, ma senza dire di averli dedotti dal Walther, A. Freedman, II cavallo del Boc­caccio: fonte, struttura e funzione della metanovella di madonna Oretta, in «Studi sul Boccaccio», ix (1975-76), pp. 225-41, a p. 228, n. 1.

2 Lo ha tratto dalla Compilatio singularis exemplorum (fine sec. xm) il Freedman, Il cavallo del Boccaccio cit.

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lixam viam sine labore ac taedio evasi. Quod beneficium etiam il­luni vectorem meum credo laetari, sine fatigatione sui me usque ad istam civitatis portatn non dorso illius, sed meis auribus provecto ‘.

I .a contrapposizione non dorso illius, sed meis auribus attri­buisce funzione veicolare all’ascolto, perciò alla favola che tlell’ascolto è stata oggetto. Lope ha reso il me... provecto con iba caballero, forse ricordandosi della citata novella de- cameroniana, forse di una delle versioni del proverbio me­dievale. A noi il richiamo ad Apuleio serve comunque per mostrare che enigma e novella non stanno su una linea di derivazione, come propone Freedman, ma sono esponenti, insieme col proverbio, di un topos che ha in Apuleio una del­le sue prime attestazioni.

1 Apulei Platonici Madaurensis Metamorpboseon libri XI, ree. R. Helm, Leipzig 1907, libro I, 20.

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Struttura dialogica delle Satire ariostesche9 ·

i . Nel 1560 usciva a Venezia un volumetto intitolato Sette libri di Satire, che fu poi più volte ristampato '. Il cura- lore, Francesco Sansovino, nelle premesse alle varie sezioni mostra di aver voluto delineare una storia e una caratteriz­zazione della satira. Il primo libro è dedicato alle Satire del- ΓAriosto; e questo nome ritorna più volte, quasi paradigma per gli altri antologizzati. La schiacciante superiorità qualita­tiva viene cosi visualizzata in anteriorità d’ordine.

Che la satira italiana risalisse molto addietro, il Sansovi- iH) sa e dice. Raggruppando nel quinto libro le Satire del Vin­ciguerra, egli dichiara che esse «furono in quei tempi molto celebri e care al mondo, percioche innanzi a lui non si truoua chi hauesse scritto in questa lingua in cosi fatto stile» 1. I l ve­neziano Antonio Vinciguerra (1440 c. -1502) scrisse le sue Satire tra il 1473 e il 1501; pubblicò solo quelle contro il matrimonio, nel 1495, mentre il grosso usci postumo, nel 1527, e altre furono recuperate in tempi vicini a noi \

* Già pubblicato in Ariosto 1974 in America. Atti del Congresso Ario- stesco - Dicembre 1974, Casa Italiana della Columbia University, Longo, Kavenna 1976, pp. 41-54.

1 SETTE LIBRI | DI SATIRE | DI | Lodouico Ariosto. | Hercole Ben- litiogli. I Luigi Alamanni. | Pietro Nelli. | Antonio Vinciguerra I Francesco Sunsouino. | E d’altri Scrittori. 1 CON VN DISCORSO | in materia della Sa­tira. I Di nuouo raccolti per Francesco Sansouino. || IN VENETIA (In fine) IN VENETIA | APPRESSO FRANCESCO | SANSOVINO, ET.C. | MDLX. Ristampe nel 1563 e 1583.

2 Sette libri di Satire cit., c. I29r.’ Sulla vita del Vinciguerra cfr. A. d e l l a t o r r e , Di Antonio Vinciguerra

e delle sue Satire, Rocca San Casciano 1902, con notizie sui manoscritti e mille stampe e satire inedite. Solo sei infatti furono pubblicate nel Cinque- rcnto (1515 e 1527), poi ristampate dal Sansovino nella raccolta cit. Vedi Inoltre p . l . r a m b a l d i , Intorno ad A. Vinciguerra ed ai principi della satira regolare italiana, in «Nuovo Archivio Veneto», n.s., x (1905), P.I., pp. 129-

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ι ι 8 PARTE SECONDA

Le coordinate crono-geografiche del Sansovino restano va­lide anche se si tien conto di nomi e testi cui egli non accen­na. È nel 1480 che uscirono, sempre in Venezia, le Satire di Giovenale tradotte dal vicentino Giorgio Sommariva (colle­ga del Vinciguerra nell’amministrazione della Repubblica) e deve risalire al 1480 circa la Cosmici satyra ad Magnificum D. Thomam Mocenico et consortem2 (del Cosmico l ’Ariosto scrisse un bell’epitaffio latino, η. XVI; accennò poi a lui, ma in termini sprezzanti, nel sonetto contro il Trotti e nella sat. V I 61).

Gli umanisti si erano già provati qualche decennio prima nello stesso genere: la Satyrarum Hecatosticon Prima Decas di Francesco Filelfo (1398-1481), terminata nel 1448, era stata offerta ad Alfonso re di Napoli nel 1453, e fu poi stam­pata a Milano nel 1476. Poco dopo scrissero dei sermones — l ’altro termine usato per il genere da Orazio - Gregorio Cor­rer (14x1-64) e Tito Vespasiano Strozzi (1424-1505), col quale ci troviamo ormai nell’ambiente dell’Ariosto, anche per la curiosa coincidenza che entrambi, Strozzi e Ariosto, dedicarono una satira a Bonaventura Pistofilo.

Tra la metà del Quattrocento e l ’Ariosto, la satira ha una storia lineare, con tappe abbastanza ravvicinate. Ciò non ri­sulta dalla lettura delle trattazioni sul genere3, in cui si con­fondono i temi e i motivi satirici, che in ogni epoca riescono a proiettarsi sui testi più vari, con il genere come unità formale e strutturale, segnata da un nome preciso. Dal Sommariva alPAriosto, ma molto più decisamente dopo di questo, e per suo influsso, abbiamo unità di termine (satira) e di forma me­trica (terzine dantesche), oltre al costante riferimento alla satira latina. Che il termine, da solo, sia già stato usato prima- per es. nella canzone di Cino Deh quando rivedrò ’l dolce paese — e che la tradizione del capitolo morale in terzine sia

163. È ora uscita una documentata biografia di B. Befla, Antonio Vinciguer­ra Cronico, segretario della Serenissima e letterato, Berna 1975. L ’edizione più ricca, ma insoddisfacente, resta sinora quella di a . s o p e t t o , Le Satire edite ed inedite di A. Vinciguerra, Ciriè 1904.

1 Lo osserva v. c i a n , La satira, Milano 1923-24; 19452, p . 399.1 i d . , Una satira di N. L. Cosmico, Pisa 1903.! Alludo in particolare a quella del Cian, cit. Vedi invece l ’ottimo arti­

colo su La tradizione della terza rima e l ’Ariosto di A. Benvenuti Tissoni, in Ludovico Ariosto: lingua, stile e tradizione, a cura di C. Segre, Milano 1976,p p . 3 0 3 - 1 3 ·

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iissai antica, son fatti che riguardano soltanto la preistoria del genere.

Anche limitandosi alla raccolta del Sansovino, si nota su­bito l ’apporto decisivo dato dall’Ariosto alla satira. Intanto gli autori di satire volgari si fanno numerosi solo dopo di lui, che dunque diede la misura delle possibilità del genere. Ma soprattutto la satira, che nel Vinciguerra è un sermone, una predica in versi, assume con l ’Ariosto quel suo andamento più affabile, in cui la confessione e le tranches de vie veicola­no con garbo i suggerimenti morali, scansando i pericoli del- l'enfasi.

La posizione dell’Ariosto verso il lettore ha uno strumen-lo preciso: la forma epistolare, realizzata come un dialogo continuo col destinatario. L ’evidente affinità tra satirae ed cpistolae in Orazio diventa, ad opera dell’Ariosto, identità; mentre il modello giovenaliano, che ancora col Sommariva sembrava soperchiare quello oraziano1, viene accantonato (PAriosto non cita mai Giovenale). Non inventata, ma isti­tuzionalizzata dall’Ariosto, la struttura epistolare fu accolta con favore dagli imitatori, come Benivieni, Sansovino, ecc.

Forma epistolare non significa solo per l ’Ariosto rivolger­si a corrispondenti diretti - a cui è da credere che abbia in­viato effettivamente le singole satire - e apostrofarli proe­mialmente. Significa ribadire, per simmetria al tu rivolto a parenti e amici, persone non solo reali e contemporanee, ma appartenenti alla sua cerchia di frequentazione e di conver­sazione, l ’individualità esistenziale dell’io che parla nelle Sa­tire. Io e tu, come nota Benveniste, non sono propriamente persone, ma realtà di discorso, indicatori che solo il contesto collega con degli individui \ L ’Ariosto garantisce la referen- zialità di io identificando in partenza tu con persone con­crete.

La forma epistolare lega inoltre le singole satire a situa­zioni precise. Due espedienti, l ’uso del tu e la puntualità dei riferimenti situazionali, per sfuggire alla genericità di un io esemplare e magistrale. L ’Ariosto è luì stesso a presentarsi,

1 Sino a tutto il Quattrocento la fortuna di Giovenale supera di gran lunga quella degli altri satirici latini: cfr. c i a n , La satira cit., pp. 409 sgg.

e . b e n v e n i s t e , Problemi di linguistica generale, Milano 1971 [Pro- blèmes de linguistique générale, Paris 1966], c a p . XX.

•STRUTTURA DIALOGICA D ELLE « SA T IR E» ARIO STESCH E 1 1 9

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spesso autocritico o soggetto alle critiche degli interlocutori. L ’eventuale contenuto pedagogico delle Satire deve risulta­re da contrasti effettuali o da opposizioni di idee.

Appunto per questo, le satire sono, nella loro interezza, un continuo dialogo con gli interlocutori, a cui il poeta attri­buisce obiezioni, dubbi, insinuazioni. I suoi cambiamenti di tono e di argomento appaiono come le svolte di una vivace, li­bera conversazione. La pluralità delle voci è accentuata dal fatto che nelle Satire prendono anche la parola personaggi del ricordo o della fantasia, in brevi aperture su un palcoscenico sempre mutevole.

Fondamentale, dunque, nelle Satire, la funzione del tu. Di cui si possono elencare queste realizzazioni principali:

1) tu rivolto dall’autore ai destinatari; esso comprende anche dei pronomi d ’interessamento alla seconda persona;

2) tu con cui l ’autore apostrofa personaggi da lui evocati;3) tu rivolto dai destinatari all’autore;4) tu rivolto all’autore da una voce anonima, che si alterna ai de­

stinatari nell’obiettare ad affermazioni dell’autore;5 ) tu che si rivolgono tra di loro i personaggi di scene fittizie o di

favole esemplari.

Il tu n. 1 appartiene allo statuto comunicativo attribuito dall’Ariosto ai suoi testi, mentre il tu n. 5 nasce dalla realiz­zazione mimetica, teatrale, di una parte della narrazione. Più complessa la funzione dei tu n. 2, 3 e 4, tra i quali sussistono solo differenze nella percentuale di finzione: il tu dei desti­natari appartiene alla finzione dialogica di base, gli altri a finzioni di secondo grado, perché gli obiettori anonimi sono e si presentano come supposti, e le apostrofi ai personaggi ri­suonano nello spazio esclusivo dell’invenzione letteraria. In realtà, l ’Ariosto dialoga con se stesso: l ’esistenza di interlo­cutori reali scatena in lui un atteggiamento dialettico, che moltiplica le attualizzazioni del Contraddittore, unico aitan­te effettivo.

Le Satire esplicitano dunque una specie di controversia interiore: di cui si può addurre a prova l ’intercambiabilità diio e tu, o la loro compresenza, negl’interventi dei gruppi 3

e 4 'L ’obiezione può infatti esser presentata in forma indiret­ta, all’interno di un discorso dell’Ariosto al destinatario (cioè entro un n. 1):

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Qui la cagion potresti dimandarmiper che mi levo in collo si gran peso. ( I I 124-25).

Può apparire in forma diretta introdotta ( tu all’autore en­tro un tu al destinatario):

Mi potresti anco dir: - De li tuoi scotti fa che ’l tuo fante comprator ti sia. (I 82-83).

Può rompere il flusso del discorso come intervento diret­to non introdotto:

- Oh! il signor t’ha dato... - (I 91).

La controversia interiore è ancor più evidente quando solo un verbum dicendi incidentale demanda a un ipotetico con­traddittore una riflessione che l ’autore potrebbe presentare personalmente:

S’io fossi andato a Roma, dirà alcuno,a farmi uccellator de benefici,preso a la rete n ’avrei già più d ’uno. ( I l i 82-84).

O quando l ’obiezione è messa in bocca, imperativamente, al destinatario:

Dimmi or c’ho rotto il dosso ecc. ( I l i 10).

Solo i tu che ho numerato sotto 2 e 5 si sottraggono a que­sta fitta conversazione tra poeta e destinatario; cercherò più avanti di interpretarne la funzione.

2. L ’andamento epistolare delle Satire è un elemento di strutturazione. Scostandosi un poco dalle divisioni della re­torica medievale (salutatìo, propositio, narratio, conclusio, petitió), le Satire dell’Ariosto sono costituite secondo uno schema che rappresenterei cosi:

I. Enunciazione della domanda o della richiesta, se è l ’Ariosto che interpella (a), riassunto delle domande del corrispondente, se è interpellato (b );

II Esposizione dei fatti (a), in forma di risposta sommaria alla domanda quando l ’Ariosto è interpellato (b );

III. Giustificazioni e considerazioni generali;IV . Conclusioni, talora in forma indiretta (Sai. II , III).

Ma è ancora uno schema troppo vago. Esso non tiene con­to dei passaggi di argomento e di tono, nei quali si articola la

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parte III, che naturalmente è la più ampia. Ebbene, questi passaggi sono indicati costantemente dalle apostrofi del poe­ta agli interpellati, o degli interpellanti e di obiettori imma­ginari al poeta.

Ce lo può mostrare l ’analisi di due satire attigue nell’or­dine e nella cronologia, la III (post 1518) e la IV (del 1522): la prima è una risposta, a domande che potrebbero essere sta­te solo verbali, la seconda una proposta, anche se non espri­me richieste precise, ma piuttosto un bisogno di confidenza e, quasi, confessione. Ricordo che in cinque delle satire l ’A- riosto è l ’interpellante (I, II, IV , V , V I), in due è l ’interpel­lato (III, V II).

La sat. I l i esaurisce il suo contenuto nudamente comuni­cativo nei vv. 1-12. In essi è infatti riassunta la domanda del­l ’interlocutore («Poi che, Annibaie, intendere vuoi come [ La fo col duca Alfonso...») e formulata con brusca immediatez­za la risposta («senza molto pensar, dirò di botto | Che un peso e l ’altro ugualmente mi spiace, | E fora meglio a nessuno esser sotto»). Intanto, vengono già anticipate e controbattu­te le due obiezioni più probabili («perché, s’anco di questo mi lamento, | Tu mi dirai c’ho il guidalesco rotto...»; «Dim­mi or c’ho rotto il dosso e, se ’l ti piace, | Dimmi ch’io sia una rozza, e dimmi peggio: | Insomma esser non so se non ve­race»).

Il poeta si libera cosi, con fermezza epigrafica, delle prime due parti dello schema indicato sopra; tutto ciò che segue forma la III parte, dato che la IV , eccezionalmente, è omes­sa. Dapprincipio l ’Ariosto sviluppa, w . 13-81, una narrazio­ne apologetica: le necessità familiari che l ’hanno obbligato a servire, la scelta della vita di corte come un minor male, la poca ambizione di onori e l ’amore per la vita sedentaria. L ’e­lemento più positivo del «servigio del Duca» è che non lo al­lontana troppo da Ferrara, e perciò non turba i suoi studi let­terari e la convivenza con l ’amata Alessandra. È con l ’ipote­si di uno scherzoso intervento dell’interlocutore che si chiu­de questa parte: come se l ’Ariosto avesse qualche titubanza a riconoscere il suo amore, infatti ancora segreto; ma, dice, «a

1 Cito da l . A r i o s t o , Opere minori, a cura di C. Segre, Milano-Napoli I954> PP· 497-579· K testo è quello fissato da S. Debenedetti, di cui si uti­lizzano i materiali anche nelle note e nelle datazioni.

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difender la bugia j Non volli prender mai spada né scudi».I vv. 83-313 passano a un nuovo tema: l ’eventuale carrie­

ra che l ’Ariosto avrebbe potuto fare a Roma, soprattutto gra­zie alla vecchia amicizia con Giovanni de’ Medici, divenuto papa Leone X nel 1 513. Ma il tema è orchestrato in due mo­vimenti: tra i vv. 83 e 168 si mostra l ’impossibilità che il pa­pa si occupi di un lontano conoscente, quando ha prima da beneficiare un esercito di parenti ed uno, più ampio, di per­sone che lo hanno sorretto nella scalata al solio pontificale; tra i vv. 169 e 313 si mostra la vanità delle ambizioni umane e lo scatenarsi, ad esse legato, di bassi istinti.

II primo movimento ha l ’avvio dall’intervento d ’un obiet­tore ipotetico («S’io fossi andato a Roma, dirà alcuno, | A farmi uccellator de benefici, | Preso a la rete n’avrei già più d’uno...»); è lo stesso obiettore a fornire, sotto veste di argo­menti a sostegno, gli elementi della biografia ariostesca che avrebbero dovuto motivare i favori papali. L ’Ariosto rispon­de con la famosa favola della gazza (vv. 109-65), incornician­dola in frasi che ne valorizzano la funzione dimostrativa: fra­si rivolte, per la mediazione del destinatario, all’obiettore fittizio. A l principio: «A chi parrà cosi farò risposta | Con uno essempio: leggilo, che meno | Leggerlo a te, che a me scriverlo, costa»); alla fine, estrapolando i termini propri del racconto alla sua situazione personale: «Se, fin che tutti bea­no, aspetto a trarrne | La voluntà di bere, o me di sete, | O sec­co il pozzo d’acqua veder parme».

Il secondo movimento si suddivide in due fasi. La prima ha carattere personale: ammesso che Leone accontenti ogni desiderio del poeta, non per questo egli si assicurerà la quie­te dell’animo. L ’inverosimiglianza delPammissione è sottoli­neata da una serie di concessive, sintesi di altre eventuali obiezioni («Ma sia ver... | Che costui sol non accostasse al ri­vo I Che del passato ogni memoria absterge»; «Or sia vero che ’l Papa attenga tutto j Ciò che già offerse»; «Sie ver che tante mitre e diademe | Mi doni»; «Sia ver che d ’oro m’em­pia la scarsella»). Riflessioni che passano poi a un livello di generalità con la favola degli uomini che volevano catturare la luna: inserita senza transizione nel discorso, essa è in com­penso seguita da una esplicazione-morale: «Questo monte è la ruota di Fortuna, | Ne la cui cima il volgo ignaro pensa j Ch’ogni quiete sia, né ve n’è alcuna». D i qui si passa alla ter-

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za ed ultima fase, la più mossa. G li onori sono quasi il con­trario che l ’onore: «Il vero onore è ch’uom da ben te tenga | Ciascuno, e che tu sia»; invece, gli ambiziosi son pronti a qualsiasi abiezione: ed ecco una sfilata di traditori, truffatori, ladri, assassini giunti ai fastigi del potere. Il tu del poeta è come un dito accusatore («Che gloria ti è vestir di seta e d ’o­ro...? »); e se qualcuno dei cattivi soggetti esprime la sua spu­doratezza («— Abb’io pur roba, e sia l ’acquisto [ O venuto pel dado o per la macchia... — »), l ’Ariosto lo apostrofa con cal­mo disprezzo: « - Pian piano, Bomba; non alzar la voce:| Biastemian Cristo li uomini ribaldi, | Peggior di quei che Io chiavaro in croce... - » Ed è su questo tono d’indignazione che la satira si chiude senza conclusioni esplicite.

La satira si svolge dunque per biforcazioni successive:

Ι Ί 2 ΛI 13-81 ̂ ( 82-168

3 3 1 82-313 ] f 169-228l 169-313 {

l 229-313

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I vv. 13-81 mantengono un registro sommessamente afori­stico, anche perché punti di riferimento sono le scelte di vita deU’Ariosto, via via più esplicitate. Segmento tonalmente unitario, racchiuso tra le parti dialogiche dei primi versi e quelle finali. I vv. 82-168 sviluppano una dimostrazione più staccata, e più incisiva: nella favola della gazza il pastore de­finisce liste di priorità quasi burocratiche per l ’abbeveramen- to, ma nell’applicazione agli antagonismi attuali gli risponde la canea dei cortigiani che gridano le loro benemerenze. Que­sta geometrica valorizzazione dell 'esempio (cosi chiamato ai vv. 107 e 151, apertura e chiusura) vuol essere una risposta ponderata, staccata, a dubbi che l ’Ariosto stesso deve aver nutrito, anche se li attribuisce a un anonimo alcuno: tant’è vero che segue, e il tono passa all’ironico, la controprova bio­grafica (vv. 175-86). L ’esposizione altèrna dunque i suoi regi­stri in rapporto con i discorsi immaginari scrittore-destinata­rio. Ma il dialogo tu-io cessa col v. 208. Il dialogo cessa per­ché l ’Ariosto non si mette più in scena; egli non parla per se stesso, ma per tutti, non si giustifica, accusa. L ’esempio dei cercatori della luna è un mito da interpretare, non un argo­mento diretto, e se il tu riappare, esso non appartiene più a

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un dialogo paritetico, ma all’indignazione del poeta, fuori scena, contro la squadra di furfanti che sta evocando. Si con­ferma che la forma epistolare serve all’individuazione, attra­verso il tu, dell’io storico del poeta.

Perciò io non abbandona mai la sat. IV , in cui la trama dia­logica è più fitta. Il testo è chiaramente tripartito: spiegando al cugino Malaguzzi come mai il soggiorno garfagnino gli ha bloccato ogni attività poetica, l ’Ariosto cita prima la nostal­gia della sua Alessandra, debolezza affettiva a cui non sono comparabili i peccati ben più gravi di molti uomini pubblici; poi confronta i lieti svaghi giovanili al Mauriziano con le du­rezze e le delusioni del governatorato di Garfagnana; infine racconta i motivi che gli fecero accettare l ’offerta del gravoso posto da parte del Duca Alfonso. Le tre parti sono distinte (si può dir numerate) da apostrofi all’interlocutore. Tra pri­ma e seconda: «Questa è la prima, ma molt’altre appresso | E molt’altre ragion posso allegane | Che da le dee m’ha tolto di Parmesso»; tra seconda e terza: «Vedi or se Appollo, quando io ce lo invite, | Vorrà venir, lasciando Delfo e Cinto,| In queste grotte a sentir sempre lite. | Dimandar mi potreste che m’ha spinto | Dai dolci studi e compagnia si cara | In que­sto rincrescevol labirinto».

Il registro della prima parte è inizialmente apologetico - e gli scambi interni di battute simulano captationes all’interlo­cutore - , poi accusatorio; ma con accuse che devono appunto alleggerire il peccato amoroso dell’autore, e perciò schiumeg- giano di minor sdegno che nell’altra satira. La seconda parte è evocativo-descrittiva: evocativa della gioventù felice, de­scrittiva delle difficoltà attuali. Infine, con imparziale incisi­vità, è descritta nella terza parte una scena di vita di corte; l ’e­sempio del Veneziano a cavallo viene proposto più per la sua applicabilità al poeta, che per una sua generale validità: tan­to che la morale congiunge poi il personaggio dell’exemplum e il poeta stesso:

... Meglio avrebbe egli, et io meglio avrei fatto, egli il ben del cavallo, io del paese, a dir: - O re, o signor, non ci sono atto;

sie pur a un altro di tal don cortese.

Queste veloci analisi sono sufficienti per avanzare due te­si: i) che le Satire dell’Ariosto sono caratterizzate da una

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successione di registri, correlati alla posizione del poeta ri­spetto alla materia; 2) che le apostrofi ai destinatari e gl’in­terventi dei destinatari stessi svolgono una funzione distribu­tiva, cioè operano la transizione da un registro all’altro '.

Naturalmente le battute del dialogo poeta-destinatari so­no adibite solo in parte a questa funzione distributiva. In ge­nerale, si può dire che gl’interventi dialogici si muovono tra due posizioni estreme: la prima strutturale, la seconda affet­tiva. Hanno funzione prevalentemente strutturale le battute che scandiscono i momenti dell’argomentazione, in rapporto con l ’impianto apologetico di quasi tutte le satire. Hanno piuttosto una funzione affettiva le apostrofi con cui l ’Ariosto sembra voler controllare e dominare l ’attenzione dei destina­tari, implicandoli sentimentalmente nella materia del suo di­scorso. Viene demandata alle prime o alle seconde una fun­zione distributiva, a seconda che le svolte del discorso siano piuttosto di natura contenutistica o registrale.

3. Sono tutti fittizi, è evidente, i tu dei destinatari al poe­ta; anche quelli del poeta ai destinatari, nella misura in cui la finalità espressiva predomina su quella comunicativa. Se per­ciò i tu servono a garantire la storicità del poeta, essi sono nel contempo il prodotto della sua individualità. È io che ha bi­sogno di tu per dirsi.

Abbiamo infatti visto che la formulazione epistolare delle Satire implica una comunicazione diretta tra emittente e de­stinatario, meno generica e vaga di quella intercorrente col destinatario anonimo, imprevedibile che è il lettore di un’o­pera letteraria. È possibile che l ’Ariosto intendesse pubblica­re le Satire, ma anche in questo caso il lettore sarebbe stato, come è, un destinatario di seconda istanza, uno spettatore del dialogo con i destinatari diretti.

Lo conferma una breve riflessione sull’io che dice tu o fin­ge di farselo dire dallo stesso tu. Parlando della funzione di­stributiva di molte apostrofi, abbiamo rilevato che esse attua­no la transizione tra un registro e l ’altro. Tali registri si ri­portano in gran parte a questi contenuti espositivi di base:

1 Simile, la funzione distributiva delle apostrofi alle lettrici nella Fiam­metta del Boccaccio. Cfr. il mio Le strutture e il tempo, Torino 1974, pp. 87- 1x5, cui rinvio per la definizione di «registro».

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a) autodefinizioni; b) narrazioni; c) apologie; d) generalizzazioni morali.

I primi tre tipi di contenuti prevalgono nettamente sul quar­to; e tutti e tre necessitano la presenza continua di io, impe­gnato a chiarire i termini del suo comportamento, giustificare le sue azioni, narrare le sue vicende.

Questi fatti privati, queste abitudini personali anche se di­gnitose, questa difesa di decisioni storicamente irrilevanti, sembrano poter trovare un’udienza complice e affettuosa so­lo nella cerchia dei parenti e degli amici. Ed è solo in questa cerchia che l ’Ariosto può continuare a dire io senza far peri- clitare la sua discrezione.

Una volta installato in questa prospettiva di discorso, 1Ά - riosto si abbandona alla varietà di umori stimolati dall’argo­mento d ’ogni satira; dà via libera al ricordo elegiaco o risen­tito, affila gli argomenti di un’ipotetica autodifesa, si compa­tisce o si compiace. Questi passaggi da un atteggiamento al­l’altro, e perciò da un registro all’altro, sono segnati da nodi riflessivi, battute d ’un dialogo interiore che, data l ’imposta­zione delle Satire, si realizza in forma di dialogo con i destina­tari. È insomma PAriosto che, approfittando del tipo di di­scorso adottato, si sdoppia in un assertore e in un contraddit­tore, dando realtà alla finzione del dialogo bidirezionale.

Molto diversa la prospettiva del discorso in quelle che ho chiamato generalizzazioni morali, quarto dei contenuti espo­sitivi individuati. Qui le considerazioni non si allineano lun­go il segmento emittente-destinatario, ma percorrono quello che collega immediatamente gli oggetti (personaggi contem­poranei) col soggetto che, dall’alto, li osserva e li giudica. Giudizi e sentimenti non si sviluppano più entro il circuito comunicativo con i corrispondenti, ma sono enunciati in pri­ma persona, rafforzati da un confronto-contrasto. Io abban­dona il dialogo con tu per affrontare bruscamente egli.

Infatti, le generalizzazioni morali (per es. I I 148-255; III 229-313; IV 43-107 ecc.) sono sempre costruite o a blocchi contrapposti, dedicati uno ad io, l ’altro ad egli, oppure a spi­na di pesce, con alternanza continua io, egli, io, egli, io, egli. La presentazione di egli è pregiudicata dal contesto in cui vien fatto apparire, oltre che dai termini usati; si tratta di contrapposizioni tra le debolezze dell’Ariosto e quelle dei

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personaggi reali e fantastici più o meno corposamente evo­cati. Giudici di questo confronto sono i destinatari delle sa­tire, mentre il volgo, o l ’opinione pubblica, appaiono compli­ci, o almeno indulgenti, anche verso i peggiori crimini.

Queste contrapposizioni non potrebbero avvenire tra po­sitivo e negativo, tra un Ariosto virtuoso e gli altri viziosi; ciò contrasterebbe con l’indole del poeta, e più ancora con la tonalità giustificativa e apologetica delle satire. A l contrario, le contrapposizioni sono quantitative: le stravaganze o i pec­cati dell’Ariosto sono molto meno gravi di quelli dei perso­naggi evocati. Cosi, nella II, l ’Ariosto riconosce in partenza la sua «macchia di pazzia», il non stimare «il più ricco capei che in Roma sia» se il suo prezzo è la libertà (148-53); nella IV confessa il «saldo chiovo» dell’amore per Alessandra (42), soggiungendo: «non dico né a difender tolgo ) Che non sia fallo il mio; ma non si grave j Che di via più non me per­doni il volgo» (52-54).

Comunque, l ’orizzontalità del rapporto tu-io lascia il po­sto a un rapporto di tipo verticale: io evoca egli, lo dipinge con tinte spesso livide o lo incastra in deprecazioni ed escla­mazioni. La comunicazione è sostituita dalla rappresentazio­ne: ed è infatti in queste parti, oltre che in quelle autobiogra­fiche, che lo stile si fa più incisivo, risentito, mosso da una ro­busta indignazione. Del resto, il dislivello prospettico tra io ed egli si allarga su una visuale cosi vasta da permettere un’ampia analisi della corruzione politica e amministrativa dei tempi dell’Ariosto, cui la riservatezza personale non di­stoglie, anzi acuisce lo sguardo.

È l ’indignazione che produce a volte, fiammate di corti cir­cuiti, i contatti immediati tra io ed egli, sia che d ’improvvi­so l ’Ariosto apostrofi il personaggio, sdegnato della protervia che ha attribuito alle sue battute (III 282 sgg.), sia che si senta immerso nella situazione descritta come possibile, e vi si muova all’interno, dialogando con i suoi attori (II 76-87).

Naturalmente appartengono anche al campo dell 'egli gli exempla, tutti famosi, delle Satire·, l ’asino e il topo, la gazza nella siccità, gli uomini che volevano la luna, il veneziano a cavallo, il pittore e il diavolo, la zucca e il pero. Si tratta di un egli con caratteristiche esattamente opposte al preceden­te: un egli visto col distacco che compete al mito. Con i per­sonaggi umani·, animali, vegetali delle sue fiabe, l ’Ariosto non

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prende contatto diretto, anzi li ingloba in un discorso dimo­strativo: dimostrazioni sceneggiate, quale che sia la loro per­fezione narrativa.

Col solito garbo, l ’Ariosto introduce queste favole senza alcuno stacco che non sia tonale: è alla fine che ne trae una moralità, o conseguenze pedagogiche (III 208-28; V 298­324; V II 70-87), che possono anche esser lasciate implicite (I 247-61). Solo in un caso la funzione dimostrativa è prean­nunciata con un come (IV 208-32), e in un altro la favola è presentata esplicitamente, all’inizio e alla fine, come un esem­pio (III 106-50). Comunque, è all’interno di questi piccoli miti che il poetalo resta assente: e ciò pone le favole al mar­gine opposto a quello della soggettività spesso occupato dal­ie satire; al margine, cioè, dell’oggettività.

4. La struttura dialogica delle Satire propone il proble­ma di eventuali «rapporti» con le commedie. E a questo pro­posito non è priva d’interesse una considerazione cronologi­ca. Le Satire sono state scritte negli anni 1517-25, dunque dopo il periodo delle commedie in prosa (1508-509) e della stesura e stampa del Furioso del ’ i6 , e prima dell’epoca più intensa di composizione delle commedie in versi, di rifaci­mento in versi di quelle in prosa (1528-32; solo il Negroman­te I è del 1520, seguito dagli Studenti), e di rielaborazione del Furioso del '32. Dal punto di vista biografico, esse appar­tengono alla zona centrale della vita dell’Ariosto: terminata, con l’abbandono del cardinale Ippolito, la fase avventurosa delle ambascerie e dei viaggi, si avvicina quella della tran­quillità ferrarese, con gl’incarichi di corte affidati al poeta fa­moso.

Le Satire, col loro andamento dialogico, formano dunque un ponte fra le commedie in prosa e quelle in versi; esenti pe­rò dalla ruggine sintattica delle prime, dalla monotonia e da­gli sdruccioli delle seconde. L ’Ariosto non doveva sentirsi molto impegnato dalle storie di giovani focosi ma anonimi e di schiave romantiche, dedotte dalla commedia latina; e nean­che i riferimenti contemporanei, che aveva sviluppato sem­pre più, erano tali da abbattere il recinto della convenziona­lità di trame e colpi di scena. Nemmeno permetteva, la for­ma teatrale appena riscoperta, la trasfigurazione fantastica di azioni reali, propria del Furioso.

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Nel contesto confidenziale e autoanalitico delle Satire l ’A- riosto è invece riuscito a condensare meglio in forma di dia­logo le parole sue e di altri personaggi storici e immaginari: perché questo dialogo deriva efficacia icastica dall’immedia­tezza del rapporto con una meditazione a fondo sulla realtà contemporanea sperimentata di persona. Condensati vocali della memoria o dell’immaginazione, i dialoghi delle satire hanno la vitalità e la precisione del giudizio acuto del poeta. Le Satire sono forse le migliori commedie delTAriosto.

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IO.

La descrizione al futuro: Leonardo da Vinci *

i . i . Pittura e segni. Ascrivere o no la pittura all’ambito della semiotica; e se si, come. Non è soltanto una delle (ne­cessarie) esplorazioni del territorio semiotico, è anche una ri­flessione sul modo di essere, per i fruitori, della pittura stessa.

Un buon punto di partenza, al solito, lo offre Benveniste (1969):

Tout système sémiotique reposant sur des signes doit nécessaire- ment comporter ( 1 ) un répertoire fini de s i g n e s , (2) des règles d’ar­rangement qui en gouvernent les f i g u r e s (3) indépendemment de la nature et du nombre des d i s c o u r s que le système permet de produire. Aucun des arts plastiques considérés dans leur ensemble ne parait reproduire un tei modèle (p. 56).

Questa affermazione, con la sua drastica semplicità, viene successivamente precisata mediante la distinzione tra «les systèmes où la signifiance est imprimée par l ’auteur à l ’oeuvre et les systèmes où la signifiance est exprimée par les éléments premiers à l ’état isolé, indépendemment des liaisons qu’ils peuvent contracter» (p. 59). Le opere di pittura appartengo­no ai sistemi del primo tipo: i colori, per esempio, non hanno un significato proprio, e la segmentazione della loro gamma è lasciata alla sensibilità individuale; ma ecco che:

l ’artiste les choisit, les amalgame, les dispose à son gré sur la toile, et c’est finalement dans la composition seule qu’elles s’organisent et prennent, techniquement parlant, une «signification», par la sé- lection et l ’arrangement. L ’artiste crée ainsi sa propre sémiotique: il institue ses oppositions en traits qu’il rend lui-mème signifiants dans leur ordre. Il ne regoit donc pas un répertoire de signes, re- connus tels, et il n ’en établit pas un. La couleur, ce matériau, com­

* In corso di stampa nella «Romanistische Zeitschrift für Literaturge­schichte».

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porte une variété illimitée de nuances gradables, dont aucune ne trouvera d ’équivalence avec un «signe» linguistique (pp. 58-59).

Mentre si ribadisce l ’inesistenza di segni pittorici, venia­mo messi ora in presenza di una significazione prodotta dal sistema che l ’artista ha messo in essere: una significazione che resta immanente nel sistema, e le cui regole posano esclu­sivamente sul sistema stesso. Non esistono arte o linguaggio artistico, bensì la singola opera d ’arte, che fa sistema a sé, di­verso da ogni altro:

L ’art n’est jamais ici qu’une oeuvre particulière, où l ’artiste in­starne librement des oppositions et des valeurs dont il joue en toute souveraineté, n ’ayant ni de « réponse » à attendre, ni de con- tradiction à éliminer, mais seulement une vision à exprimer, selon des critères, conscients ou non, dont la composition entière porte témoignage et devient manifestation (Benveniste 1969, p. 59).

Questo sistema non è un sistema semiotico, sia perché non corrisponde alle esigenze formulate inizialmente (cfr. qui p. 13 X), sia perché è tanto poco autonomo da richiedere, per es­ser detto, un’altra semiotica, quella della lingua:

Toute semiologie d ’un système non-linguistique doit emprunter le truchement de la langue, ne peut donc exister que par et dans la semiologie de la langue (Benveniste 1969, p. 60).

Il rapporto tra sistema linguistico e sistema artistico, come ogni rapporto tra sistemi, «s’énoncera alors comme un rap­port entre s y s t è m e i n t e r p r é t a n t et s y s t è m e i n t e r p r e ­t e » (Benveniste 1969, p. 54): lo stesso che sussiste tra lin­gua e sistema della cultura.

Se qualcuno avesse l ’impressione che Benveniste venga sfumando o attenuando il suo diniego iniziale, dovrebbe subi­to ricredersi davanti alle pagine finali dell’articolo. Qui Ben­veniste distingue tra il semiotico e il semantico: il semiotico designa «le mode de signifiance qui est propre au s i g n e lin­guistique et qui le constitue comme unité» (Benveniste 1969, p. 64); il semantico è «le mode spécifique de signifiance qui est engendré par le d i s c o u r s » {ibid.): esso ci porta «au monde de l’énonciation et à l ’univers du discours» {ibid.). La conclusione è il preannuncio di una semiologia «di seconda generazione», che superi la nozione saussuriana di segno co­me principio unico, da cui dipendano sia la struttura, sia il funzionamento della lingua:

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LA DESCRIZIONE A L FUTURO : LEONARDO DA VINCI 133

Ce dépassement se fera par deux voies:- dans l ’analyse intra-linguistique, par l ’ouverture d ’une nouvelle

dimension de signifiance, celle du discours, que nous appelons sémantique, désormais distincte de celle qui est liée au signe, et qui sera sémiotique;

- dans Panalyse translinguistique des textes, des oeuvres, par l ’éla- boration d ’une métasémantique qui se construira sur la sémanti­que de l ’énonciation (Benveniste 1969, p. 66).

Profezia che oggi si sta realizzando, anche se la distinzione tra semiotico e semantico, nei termini di Benveniste, non è accettata né, credo, accettabile (qualche dubbio esprime lo stesso Benveniste 1969, p. 63, n. 1).

1.2. I l quadro come spazio epistemologico. Il rifiuto di Benveniste ad ascrivere la pittura al linguaggio resta finora incontestato. Se di linguaggio è lecito parlare, lo è soltanto in senso metaforico (e la critica d ’arte ha accolto da tempo que­sta possibilità).

Con differenze che qui non importano, i semiologi france­si della pittura (Schefer, Marin ecc.) hanno compiuto il ge­sto drastico di conferire la semioticità al linguaggio con cui si parla dell’opera pittorica: la lettura del quadro diventa l ’at­to di fondazione del suo senso, il «visible» tende a identifi­carsi col «lisible» (Marin), le sequenze individuate nel qua­dro lo costituiscono come testo: « l’analyse est toujours celle d’un texte; ce que l ’on y cherche n’est pas tant un sens que sa textualité» (Schefer 1969, p. 54).

Sintomatico quanto afferma Schefer 1969, p. 104:ce que définit le tableau ce n’est pas sa structure mais le nombre et le type de lectures que l ’on peut en faire: c’est la lexie 1 qui an­nexe à la fois le syntagme et le système. L ’opération qui consiste à isoler une structure est, en l ’espèce, purement utopique. C ’est en effet à partir d’une lecture, c’est-à-dire à partir du sens, que l ’on peut ici retrouver des signifiants (relativement commutables) et en isoler une matrice.

Analogamente, secondo Marin 1971, p. 51, l ’oggetto pittori­co s’identifica col suo découpage·, e, detto in modo più ener­gico, «le parcours du sens ne vise pas à découvrir les signifiés, mais à constituer les signifiants» (Marin 1971, p. 54). Cosi

1 Lexie è usato cosi da Schefer: «Nous opposons au code une unité de lecture macroscopique, la lexie, qui a pour but de déterminer tous les ni- veaux référés du texte» (Schefer 1969, p. 171).

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134 PARTE SECONDA

il percorso dello sguardo non solo immette la temporalità nel­la compresenza spaziale, ma fonda il senso dell’opera istituen­done il significato complessivo.

Le letture sono praticamente infinite. I l quadro è infatti il risultato di una sovrapposizione di sistemi costituenti, per dirla con Schefer, uno spazio epistemologico, entro il quale si può svolgere, mediante combinazione, sovrapposizione o in­tersecazione di sistemi, il gioco della significanza.

Le letture hanno dunque il vantaggio di far ricorso alla perfetta funzionalità semiotica del linguaggio, invece che al­la dubbia consistenza segnica della rappresentazione visiva. Più volte notata: o contrapponendo all’arbitrarietà del segno linguistico la natura analogica dell’immagine, o parlando di «aplatissement du signifiant sur le signifié» (Barthes), o no­tando, più sottilmente, che

en peinture les signes ne sont pas arbitraires: il seraient, en effet, « ressemblants » à quelque degré; mais justement le ressemblant est un figurant et ce n’est qu’à partir de son figuré que l ’on peut parler de signifiant (Schefer 1969, p. 67).

Merito di questo tipo di teorizzazione è di avere enfatizza­to il divario tra la fisicità del quadro e la natura mentale delle operazioni con cui lo si «comprende», tra la simultaneità del suo presentarsi e la temporalità della fruizione, tra la sua compattezza e Pinevitabilità delle segmentazioni come mo­mento della lettura. Ma non è detto si tratti di conclusioni definitive. Tra fisicità, simultaneità, compattezza da un la­to, e, dall’altro, la lucida presa di possesso da parte del lin­guaggio, non ci saranno delle fasi intermedie? Il conferi­mento al linguaggio dei pieni poteri non può produrre una rottura tra una funzionale chiarezza estraniata dal suo ogget­to e una realtà (artistica nel nostro caso) condannata al si­lenzio? Il timore è che all’imperialismo del linguaggio corri­sponda l ’emarginazione di altri linguaggi, di altre possibilità di espressione.

E infatti, se si portano alle estreme conseguenze gli assio­mi qui presentati, possono svanire le possibilità di una verifi­ca sull’oggetto delle infinite letture, o di un ordinamento del­le letture secondo livelli interpretativi omologati alla natura­lità del quadro. Lo spazio epistemologico dell’opera non è proprio misurabile?

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LA DESCRIZIONE A L FUTURO: LEONARDO DA VINCI 1 3 5

1.3. Rappresentazione come enunciazione. La negazio­ne della consistenza segnica di molti — non di tutti — i pro­dotti dell’arte figurativa contraddice gli aspetti iconici cosi evidenti, specialmente in certi periodi, da aver dato origine a una corrente interpretativa, l ’iconologia. Le analisi iconologi­che e prospettiche, indubbiamente, sembrano voler fonda­re una linguisticità dell’immagine: ordinandone il contenuto in una catena enunciabile verbalmente, esse strappano il qua­dro alla sua simultaneità per affidarlo a una durata discorsiva. L ’atto verbale di rinvenirvi oggetti e relazioni mette in essere la linearità temporale del linguaggio. Vedere una pittura, cioè trascenderne la percezione bruta, è leggerla, scatenarne una tensione verso il linguaggio. La cosa non sfugge a Benveni­ste, il quale si esprime in proposito con riserve progressiva­mente ridotte:

Certes, on peut reconnaìtre dans la sculpture médiévale un certain répertoire iconique qui correspond à certains thèmes religieux, à certains enseignements théologiques ou moraux. Mais ce sont des messages conventionnels, produits dans une topologie également conventionnelle où les figures occupent des emplacements symbo- liques, conformes à des représentations familières. En outre, les scènes figurées sont la transposition iconique de récits ou de para- boles; eiles reproduisent une verbalisation initiale. Le véritable problème sémiologique, qui à notte connaissance n’a pas encore été posé, serait de rechercher c o m m e n t s’effectue cette transposition d ’une énonciation verbale en une représentation iconique, quelles sont les correspondances possibles d ’un système à un autre et dans quelle mesure cette confrontation se laisserait poursuivre jusqu’à la détermination de correspondances entre s i g n e s distincts (Benveniste 1969, p. 59, n. 1).

È proprio sviluppando queste pseudo-obiezioni che si posso­no toccare alcune possibilità di analisi semiotica della pittu­ra. Nelle prime due frasi, si colgono parole come répertoire, thèmes, messages conventionnels, topologie... convention­nelle·. tutti termini che non sembrano troppo lontani dal­l ’arbitrarietà del segno linguistico e dai sistemi di segni. Non solo, ma topologie e, poco dopo, emplacements symboliques, preludono alla possibilità di individuare un codice posiziona­le. Ancor più importante, nelle altre due frasi, l ’allusione a un’eventuale «verbalisation» di una parabola (insomma di una fabula), e a una possibile trasposizione: énonciation ver­bale représentation iconique.

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1 3 6 PARTE SECONDA

Il segno «-» è mio. Benveniste sembra pensare soltanto a un passaggio da narrazioni verbali a rappresentazioni iconi­che (perciò usa transposition); ma non vedo perché esclude­re un influsso delle rappresentazioni iconiche sulle successive narrazioni verbali \ Il segno ha però implicazioni anche più vaste. Esso può riguardare la natura sintattica, discorsiva di una rappresentazione iconica. Questa natura trova voce in due momenti estremi dell’atto pittorico: quando il commit­tente, o l ’autore, descrive il contenuto denotativo che l ’opera dovrà avere, e quando il fruitore (che può anche essere il committente o l ’autore) lo deduce dalla visione del quadro. La sostanziale omologia tra énonciation verbale 1, quella an­teriore alla rappresentazione, ed énonciation verbale 2, quel­la che dalla rappresentazione viene dedotta, è resa possibile da procedimenti di sintassi figurativa attuati nella rappresen­tazione stessa.

In realtà, quando Panofsky 1939 mostra la sovrapposizio­ne di un soggetto secondario o convenzionale a un soggetto primario o naturale (p. 5), distingue esattamente fra la rap­presentazione di oggetti naturali (eventualmente connessi in eventi) e la funzione loro attribuita, per convenzione cul­turale, di immagini, costituite di motivi e combinazioni di motivi (ed eventualmente connesse in storie e allegorie). Non precisa - e ai suoi fini non occorreva — che già il combinarsi dei motivi in immagini è un fatto di sintassi visiva: uomo e coltello, donna e pesca raffigurano, rispettivamente, san Bar­tolomeo e la Verità, solo in base a un rapporto indicato con­venzionalmente tra l ’uomo e il coltello, la donna e la pesca. San Bartolomeo deve avere il coltello in mano, od averlo ac­costo quale simbolo del martirio: se il coltello fosse, per es., posato su un tavolo o piantato in un tronco, l ’uomo non rap­presenterebbe più san Bartolomeo2.

Sembrano cosi profilarsi elementi di una grammatica del­l ’immagine: la rappresentazione di singoli oggetti come les­sico, il loro rapporto con altri oggetti come sintassi (e poi, la

1 Interessante il concetto medievale (Giovanni Damasceno, ecc.) delle pitture o delle vetrate come « storie » per coloro che non sanno leggere (cfr. Uspenskij 1973, p. 339).

2 Nell’interpretazione, soggetto primario e secondario possono anche es­ser individuati nell’ordine opposto, come mostra con ottime osservazioni Klein 1970, pp. 387 sgg. Ma è un problema teorico che qui non interessa.

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LA DESCRIZIONE AL FUTURO: LEONARDO DA VINCI 137

successione delle scene come narrazione). Ma lo statuto di questi elementi è molto diverso. L ’oggetto rappresentato è sempre un individuo preciso, ritratto, ricordato o immagina­to dall’artista: esso assume un articolo (il, un) o diventa un ente o un personaggio determinato (con nome proprio, in questo caso) solo mediante l ’assieme dell’apparato icono­grafico o, in mancanza di questo, l ’assieme dell’immagine; a volte occorre un titolo, per indicare il grado di generalità pre­disposto. Solo la globalità del discorso assegna agli elementi le loro qualifiche.

Del resto, anche discorso è usato solo metaforicamente. È più esatto parlare di prospettiva, perché è la prospettiva che istituisce e sorregge la sintassi dell’immagine.

1.4. Prospettiva e concezione del mondo. Un passo de­cisivo nella valorizzazione della prospettiva è compiuto da Uspenskij. Attraverso la prospettiva, egli scrive, si mettono in rapporto «non la tavola della realtà e la tavola del quadro, ma il mondo della realtà e quello del quadro [...]. Le leggi prospettiche servono per identificare i due mondi, per tradur­re (per cosi dire, "ricalcolare” ) l ’uno nell’altro». La prospet­tiva è insomma un sistema relazionale omologo a una data concezione del mondo; e ancora una volta è il discorso com­plessivo a qualificare le parti, che in sé non avrebbero un va­lore preciso: «nel sistema dell’arte antica il principio della correlazione tra immagine e realtà non sta nella correlazione dei singoli oggetti, ma nella correlazione di tutto il mondo raffigurato. In correlazione non sono un frammento del qua­dro e il corrispondente oggetto della realtà, ma l ’intero mon­do della raffigurazione e il mondo reale» (Uspenskij 1973, p.349)· .. .

Son consapevole di forzare il pensiero di Uspenskij : egli parla, come si noterà, di «arte antica», e allude alla cosiddet­ta «prospettiva rovesciata» (umgekehrte Perspektive, inver- ted perspective), che contrappone alla «prospettiva diretta», in cui ogni immagine sarebbe «correlata direttamente al raf­figurato», talché «il tutto può qui formarsi dalle parti» (ibid.). Credo che in Uspenskij agisca ancora la convinzione «rinascimentale» dell’assoluta veridicità della prospettiva; nonostante il fatto che poi l ’arte moderna abbia nuovamente istituito tipi diversi di prospettiva non illusionistica, eppure

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i 3 8 PARTE SECONDA

altrettanto reale. Per questo, generalizzando, considero la prospettiva illusionistica come rappresentante di una sola, e non privilegiata «concezione del mondo». A conferma potrei addurre l ’individuazione, da parte dello stesso Uspenskij, di una doppia sintassi, geometrica e semantica, alPinterno del­la prospettiva (il sistema semantico è quello che, per es., con­ferisce maggiori misure a un personaggio non perché descrit­to come più vicino al fruitore, ma perché più importante) : in­fatti «lo spazio reale e quello convenzionale simbolico pos­sono utilizzare gli stessi procedimenti formali» (Uspenskij 1973, p. 359). Accade pure, e per lo stesso motivo, che «la parte semanticamente importante dell’oggetto raffigurato è rivolta verso lo spettatore, mentre la parte semanticamen­te non importante è soggetta a deviazioni prospettiche» (Uspenskij 1973, p. 360), o che «la figura semanticamente più importante viene rappresentata di solito nell’icona re­lativamente più immobile, mentre le figure meno importanti possono essere date in movimento» {ibid.).

La combinazione di prospettiva geometrica e prospettiva semantica istituisce un «sistema-chiave di orientamento», insomma una sintassi, nell’equilibrio dei punti di vista del­l ’emittente e del ricevente: nella prospettiva geometrica è primariamente attivo l ’artista, che connette secondo proce­dimenti precisi gli oggetti raffigurati, mentre nella prospet­tiva semantica è affidato allo spettatore il compito di riordina­re gli oggetti e ricostituire i rapporti reali: come si può con­statare, macroscopicamente, in dipinti prerinascimentali che rappresentano davanti a un edificio quello che avviene al suo interno, o rivolgono verso lo spettatore sguardi e gesti che dovrebbero esser diretti verso personaggi della rappresenta­zione (Uspenskij 1973, pp. 362-63).

E nella prospettiva semantica può rientrare (forzo anche qui il pensiero di Uspenskij ) la diversità di trattamento fra primo piano e sfondo: diversità che Uspenskij inserisce in un’opposizione convenzionale/naturale, e pone a base di una completa semiotica dell’arte (Uspenskij 1962).

Prospettiva e iconologia possono dunque esser considera­te come due momenti complementari nella scoperta della sin­tassi visiva. La prospettiva indica le relazioni spaziali e se­mantiche tra i personaggi (e gli oggetti), determinando anche il tipo di approccio dello spettatore alla rappresentazione;

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LA DESCRIZIONE AL FUTURO: LEONARDO DA VINCI 139

l’iconologia opera sulla scala generico-specifico, dando alle figure, sulla base dei loro rapporti reciproci, statuto di nomi propri o comuni e precisi valori simbolici. L ’eventuale svi­luppo narrativo collega la successione (o la compresenza) di rappresentazioni, fondando una storia.

1.5. Verso una semiotica dell'arte. A l centro del proble­ma sta la definizione del contenuto comunicativo. Tra infor­mazione e comunicazione c’è una gamma che comprende tut­te le forme d’arte: se le arti verbali conservano, del linguag­gio e dei suoi sostituti (gesti, segnali ecc.), le attitudini infor­mative, e se la musica è esclusivamente comunicativa, la pit­tura sta in mezzo, per quel tanto di realtà a cui si riferisce, non con segni ma con simulacri, a volte elaborando anche messaggi di carattere temporale (narrativi). Mentre l ’arte informale ha portato la pittura verso il livello della musica — accostamento di forme e colori analogo all’accostamento di accordi e note - , l ’arte figurativa medievale e quella del Ri­nascimento e del Barocco hanno valorizzato di più, almeno come supporto, gli elementi informativi.

Do ai termini informazione/comunicazione, arte figurati­va / arte astratta non il valore di opposizioni ma di polarità. Ed è solo con schemi polari che si possono superare le im pas- ses in cui sembra bloccata la semiotica dell’arte (e con questa, forse, la possibilità di una semiotica delle arti). Cosi - rifacen­dosi alle enunciazioni di Benveniste ( 1.1 ) — si scoprirà il pon­te tra i sistemi a significanza «indotta» e quelli a significanza codificata, cosi verranno individuati gli elementi comuni fra sistemi interpretanti e sistemi interpretati. La semiotica del­l’arte è un campo promettente, proprio perché riguarda si­mulacri, figure, imitazioni, cioè qualcosa che non ha uno sta­tuto di segno, ma che richiama, in modo riconoscibile, un re­ferente. Embrioni di segni, il cui potenziale suggestivo si ca­rica nello spazio tra imitazione del reale e convenzionalità, tra riproduzione e idealizzazione. Se l ’arte, come insistono i se­miotici sovietici, celebfa il riordinamento in modelli di un caos originario, nella pittura si assiste, forse, al confluire del caos in modelli.

Il salto di qualità procurato dai sistemi di modellizzazione consiste nella possibilità di riportare i vari sistemi semiotici presenti nell’opera figurativa non a un sistema eterogeneo,

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140 PARTE SECONDA

come il linguaggio, ma ad un sistema omogeneo, come il mo­dello, che è per definizione semiotico. Se il modello è for­mulato con la necessaria complessità (in teoria, questa com­plessità non ha limite), esso può esaurire tutti gli aspetti in­formativi del prodotto; evita pertanto il modo di procedere settoriale, se non atomistico, a cui si è costretti se si parte da­gli elementi più informativi per discendere via via a quelli meno o non informativi.

Abbiamo visto (1.4) che Uspenskij considera la prospetti­va come la messa a contatto di due mondi, quello del reale e quello del quadro, secondo i parametri di una data concezio­ne della realtà. Questa formula implica e risolve i problemi della rappresentazione figurativa: che è sempre, ma in pro­porzioni variabilissime, veristica e idealizzata nel contempo. Implica pure (e qui serve, nelle affermazioni di Uspenskij, l ’alternanza della parola mondo fra i sintagmi «mondo della realtà» e «concezione del mondo») la possibilità di veicolare dei messaggi entro una rappresentazione, cioè di trasmettere, attraverso uno stato possibile della realtà, un giudizio sulla realtà stessa. È poi naturale che la prospettiva presenti aspet­ti epocali ed aspetti personali (potremmo dire: linguistici e stilistici); e che quelli personali, stilistici vengano a identifi­carsi col punto di vista dell’artista, tanto nel senso fisico (ot­tico) quanto in quello di relazione col mondo descritto.

Da notare che questa convergenza, che noi cerchiamo di analizzare nell’opera, in realtà si attua prima, nella rappre­sentazione mentale, proprio in senso leibniziano. Perché le immagini che fanno da tramite, per l ’artista, fra percezioni e realizzazioni pittoriche (riproduzione diretta della realtà non si può dare), sono già parti di una sintesi del mondo operata dalla sua soggettività: sintesi che dunque trascende i dati concettuali alPinterno di un’esperienza totale. Nella rappre­sentazione si rivela il modello del mondo proprio dell’ar­tista.

È nello schema sopra accennato che si sistema l ’elemento, per cosi dire, materico. Il quale del resto si conforma, sulla superficie del quadro, a categorie comuni alla percezione di ogni operatore e fruitore di pittura. Può valere come esem­pio, anche se è legata a una particolare concezione della visi­bilità, la tavola proposta da Panofsky 1925, in cui tra l ’anti­tesi ontologica plenum/ίοττηζ e l ’antitesi metodologica tem­

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Ι,Α DESCRIZIONE AL FUTURO: LEONARDO DA VINCI 141

po/spazio si pongono le tre opposizioni di valori elementari ( valori ottici / valori «aprici»), di valori della figurazione (va­lori di profondità / valori della superficie) e di valori del­la composizione (valori della compenetrazione / valori della contiguità): opposizioni che non si riscontrano nella realtà artistica come tale, ma « tra le quali la realtà artistica realizza un incontro comunque articolato» (p. 176).

Nel combinarsi dei valori di questa tavola vengono realiz­zate le prospettive di Uspenskij, con tutte le loro implicazio­ni (del resto, proprio Panofsky parla della prospettiva come «forma simbolica»); si vengono incontro lo spazio come illu­sione e lo spazio come significazione, la bidimensionalità che sviluppa una terza dimensione, e la tridimensionalità che rie­sce a esprimersi su due dimensioni. Ci si rivelano già forse, e quasi a specchio, il modello del quadro come sistema di possi­bilità visive e il modello del quadro come rappresentazione (parziale) del mondo.

Gli aspetti iconici, iconologici e narrativi pertengono ap­punto al contenuto della rappresentazione: costituiscono gli oggetti dell’atto di rappresentare. Sono, in apparenza, gli ele­menti più vicini al linguaggio, perché «traducibili» in paro­le e in frasi. Si tratta di una referenzialità comune, che lin­guaggio verbale e linguaggio pittorico realizzano con i propri mezzi (cfr. 1.3, per i rapporti fra énonciation verbale 1 ed énonciation verbale 2).

Se si accetta questo abbozzo di sistemazione, il ricorso generalizzato al linguaggio, proposto da Benveniste, Schefer, Marin ecc., come tramite di semioticità, va sostituito da una doppia serie d’impieghi, che ha come elemento discriminante la funzione referenziale del quadro. Quando e nella misura in cui il quadro riproduce la realtà, la formulazione linguistica è la «traduzione» dal sistema figurativo a quello verbale. Non vi sono sistemi interpretato e interpretante, perché (cfr.1.3, alla fine) esiste reversibilità («traduzione» in pittura di una descrizione o narrazione). Il linguaggio assume inve­ce una funzione intersistemica quando esso esprime, con ap­prossimazioni o metafore, le leggi formali immanenti nel qua­dro, o le informazioni sulla «concezione del mondo». Non è comunque la verbalizzazione a istituire la semioticità della pittura: il linguaggio è soltanto il mezzo privilegiato (in pra­tica, l ’unico; ma in parte si potrebbe ricorrere al gesto) per

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142 PARTE SECONDA

comunicare osservazioni e deduzioni sui sistemi modelliz- zanti.

2.1. Tipologia della descrizione. N ell’ambito di questa rimeditazione dei rapporti fra linguaggio e pittura, non in­tendo soffermarmi sui problemi narratologici. Mi pare infatti che, se si ammette l ’ipotesi di una «traducibilità» tra espres­sioni pittorica e verbale di uno stesso nucleo narrativo, i procedimenti messi a punto dalla narratologia letteraria de­vono esser sostanzialmente validi anche per la narratologia pittorica. Il fatto che una successione (o sovrapposizione) di momenti dell’azione metta in rilievo i dati pertinenti rispet­to a quelli accessori mi pare evidente.

Qui mi occuperò di qualcosa di meno vistoso, e più ade­rente alle riflessioni esposte sopra. Spazio come illusione e spazio come significazione, referenzialità e prospettiva, sono distinti soltanto a scopo teorico: essi si fondono nell’unità della rappresentazione. Per questo, quando si descrive un quadro, gli enunciati descrittivi e quelli intersistemici si me­scolano inestricabilmente. Si presenta, pure qui, una polarità, che potrebbe avere come criterio di misura la equiparabilità delle verbalizzazioni. Equiparabilità massima per i contenuti narrativi, minima per i valori visivi. Salvo che, appunto per l ’intersecarsi delle due serie di valori, la prima verbalizzabili- tà può estendersi sulla seconda, regolarla, in un ordine con­notativo. L ’enunciazione di contenuti può trascinare con sé quella delle forme: perché i simulacri vengono inevitabil­mente individuati entro una rete di rapporti prodotti da espe­dienti cromatici, prospettici, ecc. È la visione che trascina la concettualità, non viceversa.

Inoltre, la verbalizzazione enuncia, e denuncia, fenomeni che nel quadro hanno si evidenza, ma basata sulla logica delle implicazioni. I gesti che accompagnano un grido possono es­ser verbalizzati come grida (attraverso l ’esperienza della real­tà e la conoscenza delle convenzioni pittoriche), nello stesso modo che le finalità di un movimento sono ben deducibili da una fase intermedia o terminale, e divenire oggetto di enun­ciazione. Cosi il linguaggio rende esplicite le suggestioni del­la pittura in ambiti da cui è esclusa (quello fonico, per es.) o in dimensioni temporali che essa può parzialmente condensa­re nella sua fissità.

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LA D E S C R IZ IO N E A L FUTURO: LEONARDO DA VINCI 1 4 3

Poi, v ’è il problema dell’ordine della descrizione. Il qua­dro rappresenta persone, animali, oggetti, ecc. : essi sono po­sti in una gerarchia prospettica, che può parzialmente, ma so­lo parzialmente indicarne le connessioni. Descrivere è sceglie­re una data relazionalità (spaziale, causale, ecc.), forse ripor­tabile a una tipologia; è, dunque, individuare il contenuto im­mediato dell’informazione. Ma i nessi che collegano persone, animali, oggetti, ecc. sono molto vari: oltre alle azioni, con loro soggetti e oggetti, vi sono cause dirette e indirette, con­comitanze, compresenze, ecc. G li enunciati con cui descrivia­mo una scena sono anche dei tentativi di esplicazione (il mi­gliore è il più esauriente). Questi tentativi investono le con­cezioni stesse del mondo, dato che su esse si fondano: ogni descrizione è rivelatrice di teoria.

Ho dunque voluto compiere una prima ricognizione dei rapporti fra discorso e immagine, all’interno di un program­ma che non demandi al linguaggio tutte le responsabilità se­miotiche, ma anzi lo usi come rivelatore e mediatore di se­mioticità. M i è parso utile usare come materiale alcune «in­venzioni» di Leonardo1, proprio perché la mancanza (quasi sempre) di una realizzazione pittorica dà al discorso un’evi­denza incontrastata sul piano espressivo segnando nello stes­so tempo la sua funzionalità e soggezione al fantasma di un’immagine.

Se alle «invenzioni» noi potessimo confrontare delle rea­lizzazioni concrete, si porrebbe il problema della corrispon­denza tra descrizione verbale e pittorica, con l ’eventuale ne­cessità di descrizioni integrative. Le «invenzioni» invece, proposte che possono concretarsi o meno in rappresentazioni figurative, valgono per noi soprattutto come esempi di di­scorsività pittorica: sono materiali per quella tipologia del­la descrizione che può avere come verifica, si è visto, la misu­ra di sovrapponibilità fra le verbalizzazioni. Una verifica che

1 Utilizzo quelle riunite da PAO LA b a r o c c h i , Scritti d’arte del Cinque­cento, 3 tomi, Milano-Napoli 1971-77, tomo III, pp. 2403-14; i numeri ro­mani (da I a X) sono quelli della Barocchi; col η. XI rinvio a una descrizio­ne che si trova nel tomo II, p. 1293. Anche le altre citazioni da Leonardo nono tratte dall’ampia raccolta della Barocchi. Per una possibile estensione della ricerca è di prammatica il rinvio a j. p. r i c h t e r , The Literary Works of Leonardo da Vinci, London 1953; c. p e d r e t t i , Leonardo da Vinci on Paint- ing. A Lost Book (Libro A), Berkeley and Los Angeles 1964.

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144 PARTE SECONDA

non è da attuare con espedienti di carattere «sperimentale», ma risalendo a un modello profondo della descrizione. In­somma, il fitto spiegamento di significati operato da Leonar­do è interessante per noi proprio perché questi significati rin­viano ad un modello, non a pitture concrete che ci calamite­rebbero sulla loro oggettualità. Se nello schema

significante visivo

significati

lo sforzo del semiotico è quello di verbalizzare il significante globale individuandone i significati, nelle «invenzioni» ab­biamo, oltre alla cancellazione del significante visivo, la ver­balizzazione diretta non solo dei significati, ma delle possibi­lità di significarli visivamente. Abbiamo insomma dei signifi­canti discorsivi che significano i significati già abbozzando l ’assetto da essi assumibile con la trasformazione in signifi­canti visivi. Più che in altri casi, la discorsività combina as­sieme significati e significazione.

Adottando, per l ’assieme dei significati e dei significanti visivi, il termine rappresentazione (nel senso indicato pri­ma), l ’esercizio qui attuato sarebbe sintetizzabile a partire da questa formula:

<verbalizzazione i

rappresentazione 2 -»verbalizzazione 2

dove la rappresentazione 1 è l ’idea, il fantasma di pittura presente nella mente del pittore, la rappresentazione 2 la sua realizzazione. Tra rappresentazione 1 e verbalizzazione 1, tra rappresentazione 1 e rappresentazione 2, il rapporto non è univoco, perché l ’idea può esser continuamente mutata du­rante la realizzazione verbale o pittorica, talché la rappre­sentazione 1 è portata solo alla fine a identificarsi con la rap­presentazione 2. Viceversa è univoco il rapporto fra rappre­sentazione 2, realtà fisica di un testo pittorico, e la sua, anzi le sue verbalizzazioni, sia pure inevitabilmente approssimate e «tentative». Qui cerco di abbozzare una fenomenologia delle verbalizzazioni basandomi sulla verbalizzazione 1 , e perciò aggirando gli sforzi di approssimazione rispetto alla presenza imperiosa della rappresentazione 2 attuati nella ver­balizzazione 2.

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LA DESCRIZIONE AL FUTURO: LEONARDO DA VINCI 145

Può risultare macchinosa la ricerca di norme di verbaliz- zazione entro testi cosi elaborati stilisticamente. Si vedrà che i ricorsi stilistici sono in Leonardo elementi focalizzanti, per­ciò non estranei alla ricerca. Comunque, gli eventuali abban­doni alle emozioni del rappresentato sono compensati dal­l ’eccezionale sforzo intellettuale, che rivela i legami più pro­fondi tra le leggi della natura e quelle della pittura. Pittore­scienziato, Leonardo ci dà un contributo di conoscenza che chiede soltanto di essere raccolto. Basti, qui, un paio di cita­zioni:

la pittura... è prima nella mente del suo specculatore e non po per­venire alla sua perfezzione senza la manuale operazione. Della qual pittura li suoi scientifici e veri principii, prima ponendo che cosa è corpo ombroso, e che cosa è ombra primitiva ed ombra derivativa, e che cosa è lume, cioè tenebre, luce, colore, corpo, figura, sito, re­mozione, propinquità, moto e quiete, le quali solo con la mente si comprendono senza opera manuale; e questa fia la scienzia della pittura, che resta nella mente de’ suoi contemplanti, della quale nasce puoi l ’operazione, assai più degna della predetta contempla­zione o scienza '.

Se tu dirai: «Le scienzie non meccaniche sono le mentali», io ti dirò che la pittura è mentale e ch’ella, si come la musica e geo­metria considera le proporzioni delle quantità continue, e l ’aritme­tica delle discontinue, questa considera tutte le quantità continue, e le qualità delle proporzioni d ’ombre e lumi e distanzie nella sua prospettiva2.

Anzi si potrebbe costruire, sugli appunti di Leonardo, una teoria dei valori pittorici tutt’altro che embrionale. Si veda­no per es. le coppie oppositive dei dieci «discorsi» della pit­tura:

Il pittore ha dieci varii discorsi, con li quali esso conduce al fine le sue opere, cioè luce, tenebre, colore, corpo, figura, sito, remo­zione, propinquità, moto e quiete3 (477),

anche se esse risalgono, ma con mutamenti sostanziali, ad Aristotele *; esse sono poi ripresentate in una tassonomia sca­lare: prima figura e colore, poi i dieci «discorsi», in corri­spondenza con i dieci «ofizi dell’ochio», poi cinque parti, tra cui la prospettiva geometrica e quella cromatica, infine due

1 In Scritti d’arte cit., tomo I, pp. 72-73.2 Ibid., p. 249.1 Ibid., p. 477 (vedi pure la nota ivi citata del Richter, e cfr. con le pp.

734, 738).* Cfr. r i c h t e r , The Literary Works cit., I, p. 25, citato dalla Barocchi.

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parti «principali», costituenti l ’opposizione figura/color e, o, in altre fórmulazioni, lineamenti!ombra *.

2.2. Relazioni tra i personaggi e moduli spaziali. L ’«in­venzione» X è un progetto di «Ultima cena», e ha corrispon­denze con la pittura di Santa Maria delle Grazie a Milano. Il primo fatto sorprendente è l ’anonimia dei personaggi, indi­cati come uno, un altro, l ’altro: il soggetto secondario (cfr.1.3) traluce da quello primario solo perché il numero dei per­sonaggi descritti sembra ammontare a dodici. Siamo al nome comune, non ancora al nome proprio: gli apostoli, nemmeno definiti come tali, sono intercambiabili.

Predominano gli schemi relazionali: i personaggi sono vi­sti a coppie (a differenza della pittura, dove si colgono quat­tro gruppi di tre apostoli). Però sussiste anche una più com­plessa relazione, tra i personaggi e «il proponitore», che co­stituisce un riferimento esterno in contrapposizione ai riferi­menti tra i membri delle coppie. Tutte le posizioni rientrano dunque in due possibilità complessive: personaggio a per­sonaggio; personaggio a «proponitore». É nel rapporto fra i componenti di ogni coppia o fra personaggi e «proponitore» che s’ingenera il senso della temporalità (volse la testa, si vol­se, alza le-sspalli, ecc.) e la suggestione fonica (parla nell’ore- chio... quello che l ’ascolta). Il raggruppamento suggerisce in qualche caso una serie complessa di motivazioni e movimen­ti, insomma una sintassi a più proposizioni:

Un altro parla nell’orechio all’altro, e'cquello che l ’ascolta si torceinverso lui e gli porcie li orechi, tenendo un coltello ne l ’una manoe nell’altra il pane mezo diviso da tal coltello;

cosi si condensa, anche, una più spessa temporalità. Il gesto viene colto in un termine mediano tra un movimento da e un movimento verso. Tipico un nesso come «uno che beveva e-llasciò la zaina [bicchiere] nel suo sito, e volse la testa in­verso il proponitore», dove le azioni condensate sono: 1) be­re; 2) atto del proponitore; 3) cessare di bere; 4) lasciare la zaina; 5) volgere la testa; anche se è evidente che 1 ,2 ,3 sono semplici implicazioni, e che di 4 è colto solo il risultato, «la zaina nel suo sito». La fissità diventa dinamismo. Lo schema

1 4 6 PARTE SECONDA

1 In Scritti d'arte cit., tomo I, pp. 734-35.

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LA DESCRIZIONE A L FUTURO: LEONARDO DA VINCI 147

relazionale riesce infine a istituire uno spazio, e a disporvi i personaggi in una prospettiva:

L ’altro si tira inderieto à-cquel che-ssi china, e vede il proponito­re infra ’l muro e ’l chinato

L ’«invenzione» X presenta dunque: a) relazioni posizio­nali tra i personaggi, tra personaggi e oggetti, e gesti, impli­canti segmenti narrativi (azioni e reazioni); b) un modulo spaziale, ottenuto attraverso il rapporto trigonometrico fra tre personaggi; c) suggestioni foniche; d) suggestioni dina­miche.

2.3. Suggestioni dinamiche e foniche. Suggestioni dina­miche e foniche sono ancor più particolareggiate nell’ «inven­zione» V II. Qui sono assai curate le indicazioni di durata, con l ’aiuto della polvere sollevata dalla battaglia, che funge da condensatore temporale:

E-sse farai cavalli corenti fori della turba, fa-ili nuboletti di polve­re distanti l ’uno dall’altro quanto può essere lo intervallo de’ salti fatti dal cavallo; e quello nuvolo ch’è più lontano da detto cavalo, men si vega, anzi sia alto, sparso e raro, e ’l più presso sia più evi­dente e minore e più denso;e-sse-fiarai alcuna caduta, faraili segno dello isdruciolare su per la polvere condotta in sanguinoso fango, e dintorno a la mediocre li- quideza della tera farai vedere isstampite le pedate degli omini e cavalli di li passati;Farai alcuno cavallo stracinare morto il suo signore e dirieto a'c- quello lasciare per la polvere e'ffango il segno dello strascinato cor­po; la polvere che· ssi mischia coll’uscito sangue convertirsi in rosso fango, e vedere il sangue del suo colore core [re] con torto corso dal corpo alla polvere.

E non mancano le indicazioni di sonorità, ottenute con mezzi espressivi (facciali)1 :

le labra arcate scoprano i denti di sopra, i denti spartiti i ’ modo di gridare con lamento;altri farai gridanti colla boca isbarata e -fluggiente.

Su questa base si comprendono meglio altre indicazioni fo­niche di Leonardo, per es. nell’«invenzione» V I. Certi parti­colari, come:

1 Sulle suggestioni auditive della pittura cfr., anche per l ’accostamento alla poesia, il brano riportato in Scritti d’arte cit., p. 237, e le note.

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148 PARTE SECONDA

O quanti aresti veduti colle propie mani chiudersi li orecchi per isschifare l ’immensi romori, fatti per la tenebrosa aria dal furore de’ venti misti con pioggia, tuoni cielesti e-ffurore di saette!

appartengono senza dubbio alla serie precedente, e giustifi­cano che abbandonatosi ormai aH’immaginazione, Leonardo proceda con:

O quanti romori spaventevoli si sentivan per l ’aria scura, percossa dal furore de’ tuoni e delle fulgore da quelli scacciate [...]O quanti lamentìi O quanti spaventati si gittavon delli scoglie! [...]O quante madri [...] con vocie, composte di diversi urlamenti, ri- prendevan l ’ira delli dèi.

Del resto, se fosse nostro intento analizzare stilisticamente questi brani di Leonardo, ci sarebbe facile notare come l ’in­tensità visionaria (il modulo vedeasi, si vedea, vede si, aresti potuto vedere, ecc., ripetuto otto volte, sorregge gran parte della descrizione) diventi, al centro di questo testo, vera con­cretizzazione di una scena tragica, su cui lo scrittore si soffer­ma partecipe, come indica la serie di esclamazioni con prono­me quantitativo:

O quanti aresti veduti...! O quanti lamenti! O quanti spaventati si gittavon delli scoglie!... Quante eran le barche... O quante madri...

Ma in ogni caso non ci si può sottrarre a un’altra suggestione, stilistica, relativa a una più lunga durata: una temporalità che non appartiene alla successione immediata dei gesti, ma all’implicazione di precedenti narrativi deducibili dallo stato di cose rappresentato. Questa implicazione ad ampia gittata è attuata da Leonardo iterando l ’avverbio già·.

E già li uccielli si posavan sopra li omini e altri animali, non tro­vando più terra scoperta, che non fussi ocupata da viventi; già la fame, minisstra della morte, avea tolto la vita a gran parte delH ani­mali ecc.

Abbiamo insomma due modi di rappresentare la tempora­lità: 1) cogliere la fase intermedia di un movimento, il cui andamento complessivo è facilmente intuibile, anche attra­verso eventuali indici (le nuvolette di polvere, le tracce, ecc.);2) rappresentare il risultato di un’azione, e perciò implicarelo sviluppo precorso dell’azione stessa.

2.4. La temporalità compressa. Le ultime osservazioni ci hanno già portati a una temporalità di durata alquanto am­

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LA DESCRIZIONE AL FUTURO: LEONARDO DA VINCI 149

pia. Ma al pittore si concede (e Leonardo concede a se stesso) vere e proprie sovrapposizioni temporali. L ’esempio più chia­ro è nell’«invenzione» V II. La battaglia è rappresentata nel suo pieno, tanto che l ’aria è attraversata da nuvole di frecce; ma si accennano movimenti che preannunciano fasi succes­sive, tanto che vi sono i vincitori e i vinti, e che tra i primi si possono vedere alcuni «lasciare il combattere e uscire della moltitudine»; non solo, ma sembra imminente una fase ul­teriore, quella dell’arrivo dei soccorsi:

vederesti le squadre de’ socorsi stare pien di speranza e sospetto co le ciglia aguzze, facendo axquelle ombra co le mani, e riguardare, infra la folta e confusa caligine, dell’essere attenti al comandamen­to del capitano; e simile il capitano, col bastone levato e corente in­verso il soccorso, mostrare a-cquelli la parte dov’è di loro care­stia.

Cosi, attraverso uno scorcio temporale, anche una rappresen­tazione unitaria può coinvolgere, con la durata, un racconto.

2.5. Ordine di lettura e raggruppamento degli oggetti. Uno degli schemi distribuzionali più usati è quello fornito de­gli elementi della fisica presocratica: aria acqua terra fuoco (quest’ultimo omesso, trattandosi di pitture di esterni, o rap­presentato da folgori e saette). Gli elementi coincidono con gli aspetti concreti della natura, e vengono avvivati da pre­senze vegetali e animali, da strumenti umani, ecc. In III, so­no esplicitamente citate «la superfizie del mare e della tera», e subito dopo l ’«aria». Nell’aria le nubi, sulla terra alberi ed erbe, nonché uomini, sul mare navi. Analogamente, nel pri­mo periodo di IV , vengono nominati nell’ordine l ’aria, il ma­re e la terra; sulla terra, piante e animali. La priorità dell’aria è un’indicazione precisa della partenza del percorso visivo.

Se la tassonomia non viene realizzata rigidamente, se l ’a­ria, in III, riappare nella parte finale dopo aver occupato quella iniziale, se in IV , quasi con uno zigzag, si osserva il passaggio aria-terra-cielo (aria)-terra-aria-animali (terra)-nu- vole (aria), occorre riflettere: a) che, trattandosi di fortune ('tempeste’), l ’epicentro dei movimenti è nell’aria, ove si ge­nera il vento; b) che la visione, e perciò la sua enunciazione, deve collegare più volte il basso e l ’alto della pittura, per co­glierne i rapporti, quasi la lotta.

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PARTE SECONDA

In sostanza, abbiamo un compromesso tra lettura tasso­nomica e lettura interpretativa (di forze e di tensioni); usata come traguardo di partenza e d’arrivo, l ’aria viene posta nel­l ’alto di una partizione verticale (mentre quella inferiore con­tiene terra e acqua/mare) rispetto alla quale i movimenti mi­mano una lettura ad andamento ellittico (III) e una ad anda­mento sinusoidale (IV).

Anche piti interessante, in questa serie, 1’«invenzione» V (Diluvio). Essa realizza, nelle grandi linee, uno schema ter­ra-acqua-aria, ma in un momento in cui la terra è già coperta dalle acque, e perciò rappresentata principalmente dai rilievi montuosi (monte, montagnie). Cosi la base del quadro, inve­ce di dividersi tra terra e acqua, è tutta coperta dalle acque (fiume, mare). In più, vi sono acque di due origini, quelle della normale idrografia, e quelle che scendono disastrosa­mente dal cielo. La descrizione è dominata dalla verticalità (quella delle montagne, quella della pioggia), ed è proprio negli angoli tra le verticali delle montagne e l ’orizzontalità delle acque che si ammassano, precipitando dall’alto, le deie­zioni (fango radici rami), o salendo verso l ’alto gli uomini.

Sulla verticalità si sviluppano movimenti: dal basso ver­so l ’alto (la polvere), dall’alto verso il basso (la pioggia):

E-lle mine delli alti edilìzi della predetta città levino gran polvere; la qua [le] si levi in alto in forma di fumo o di raviluppati nuvoli si movino contro alla dissciendente pioggia;Ma-Ila pioggia nel dissiendere de’ sua nuvoli è del medesimo color d ’essi nuvoli, cioè della sua parte ombrosa, ecc.

Questa volta però non sembra che si suggerisca una lettura sinusoidale, ma piuttosto una lettura carica della tensione dei due movimenti, verso l ’alto e verso il basso:

levarsi dissciendalevino dissciesesi levi minandorisaltando precipitatirefrettere ricadendorisaliano cadendorisalta sommerse

Alto e basso sono gli estremi dei due movimenti, la cui zona mediana è il centro della pittura.

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LA DESCRIZIONE A L FUTURO: LEONARDO DA VINCI

Come nella III, anche nell’«invenzione» V I s’incontra uno schema ellittico, con l ’aria all’inizio e alla fine della de­scrizione. Il centro è però bipartito: prima terra e acqua, in- tersecantisi in seguito al cataclisma, e con animali e uomini immersi nella furia degli elementi; poi l ’attenzione si ferma su umani e animali, colti nei loro gesti supremi. La biparti­zione chiastica è sottolineata da un parallelismo:

E tutte l ’onde, percuotimele lor liti, combattevan quelli colle va­rie percussioni di diversi corpi annegati ecc.; li corpi morti già levificati si levavano dal fondo delle profonde ac­que e [...] come palle piene di vento risaltavan indireto dal sito del­la lor percussione;

essa può riferirsi a due zone della pittura o, più probabilmen­te, allo sfondo e al primo piano. Per approfondire i propositi pittorici di questa «invenzione» si dovrà tener conto delle Divisioni che Leonardo ha aggiunto in alto, nella pagina del cod. della Royal Library (Windsor) che la contiene; esse cor­rispondono, nella loro sommarietà, ai contenuti qui descritti.

Nell’«invenzione» V II l ’ordine di lettura sembra essere contemporaneamente centrifugo e «narrativo»: le varie fasi del combattimento che, come si è visto (2.4), coesistono, si distribuiscono di certo ai lati della battaglia rappresentata, che fornisce il tempo-base.

2.6. La lettura causale. Le « invenzioni» di Leonardo so­no rette quasi sempre da un’osservazione scientifica. Se, per ciò che riguarda Leonardo stesso, questo fatto esalta l ’uni­tà conoscitiva della ricerca sperimentale e della pittura, in termini più generali esso ci conduce alla funzione dominan­te che può avere, nel discorso sotteso alla figurazione, la cau­salità, anzi una causalità. Un buon esempio è III, dove si pre­cisa fin da principio (« Se tu vói figurare una fortuna, consi­dera e poni bene i sua effetti...») come l ’astratto fortuna ('tempesta’) si materializzi attraverso i suoi effetti. Qui do­mina il vento (nominato otto volte), concretizzato nella sua forza trascinante in opera sugli oggetti mobili (polvere, ra­mi, foglie, nuvole), su quelli flessibili (alberi, erbe), su quelli liquidi (mare), su quelli con forza propria (gli uomini, che cercano di non esser travolti). Le indicazioni di carattere cau­sale abbondano:

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PARTE SECONDA

i sua effetti-, per lo corso del vento; per la potenzia del furore del vento; per la polvere chinati; cacciati da l ’impetuosi venti; per le iscure tenebre.

Il soffio del vento produce uno scompiglio nelle leggi che go­vernano di solito la mobilità degli oggetti: si producono mo­vimenti verso l ’alto («dirizzarsi per lo corso del vento», «le­vata da’ liti marini»; «levati per la potenzia» ecc.; «le levate onde » ; « e ’l vento levato » ecc. ) e verso il basso ( « piegate a : t- tera», «caduti», «chinati a'ttera», «alcuni alberi rotti cadu­ti» ecc.).

Entro l ’elemento unificatore della visione (il vento), gli oggetti della sua aggressione sono elencati con una tassono­mia affine a quella appena studiata (2.5): prima i vegetali ( « li alberi e l ’erbe»), poi «gli omini», quindi il mare, con «li na- vili», infine il cielo, con «li nuvoli». Rigorosamente, l ’occhio dell’immaginazione si solleva insieme col vento, all’inizio mentre soffia «sopra la superfizie del mare e della tera», e alla fine quando soffia verso «l’alte cime delle montagne». È attraverso il muoversi dello sguardo che si colgono, entro la tassonomia cosmografica, i turbamenti prodotti dal vento, lo spezzarsi di elementi rigidi {rotto, rotti cinque volte), il tra­sferirsi degli oggetti a sfere incongrue («fori del naturale cor­so»): o per il movimento che trascina oggetti di solito fermi,o per il mescolarsi del terreno (polvere) e dell’equoreo (schiu­ma) col celeste (nuvole).

Ciò che dice della fortuna in III, Leonardo lo ripete e pre­cisa a proposito del vento in V I :

E ti parrà forse potermi riprendere dell’avere io figurato le vie fat­te per l ’aria dal moto del vento, con ciò sia che ’l vento per sé non si vede infra-ll’aria. A-cquesta parte si rissponde che non il moto del vento, ma il moto delle cose da-llui portate è sol quel che per l ’aria si vede.

Ma qui non si tratta di dare corpo a un astratto, bensì di ren­dere visibile (perciò pittorico) l ’invisibile, di rappresentare ciò che, per il suo movimento e la sua trasparenza, parrebbe irrappresentabile. In una descrizione di particolare intensità visionaria viene ancora ribadita la possibilità di fissare il mo­vimento e il suono.

Queste descrizioni apocalittiche si affacciano più volte, si tratti di tempeste o senz’altro del diluvio (IV , V , V I); e la dinamica delle forze naturali è formalizzata col ribadito per-

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enotere, percussione, ecc.: percussioni, percossi, percotano, percussioni (IV); percutino, percussione, percossa, percus­sion, ripercotano, percoleranno, percussione, percossa, per- cote (V); percuotitricie, percussioni, percussione, percossa, percussione (VI). Ma a questo punto Leonardo mette in atto tutte le sue conoscenze scientifiche, fa confluire nella sua fan­tasia gli elementi di un trattato di aerodinamica e idrodina­mica. Principi descrittivi e principi scientifici s’identificano. Raccolgo gli enunciati più significativi:

[le onde] tanto più cresscano in circuito, quanto più acquistano di moto; el qual moto le fa tanto più basse quanto ell’acquistano più larga basa;Ma-sse l ’onde ripercotano in vari obbietti, allora elle risaltano in- dirieto sopra l ’avenimento dell’altre onde, osservando l ’acressci- mento della medesima curvità ch-ell’arebbe acquistato nell’osser­vazione del già principiato moto;E-sse-lli gran pesi delle massime ruine delli gran monti o d’altri magni edifizi ne’ lor ruine percoleranno li gran pelaghi dell’acque, allora risalterà gran quantità d’acqua infra-U’aria, el moto della quale sarà fatto per contrario asspecto a-cquello che-fiecie il moto del percussore dell’acque, cioè l ’angolo della refression fia simile all’angolo della incidenzia. Delle cose portate del corso delle acque quella si discossterà più delle oposite rive che-ffia più grave over di maggior quantità. Li retrosi delle acque, quello è più velocie nel­le sue parte, tanto più velocie quanto elle son più vicine al suo den­tro (V).

Atteggiamento, questo, che non ha nulla di eccezionale in Leonardo: tant’è vero che Gombrich (Gombrich 1969) ha potuto far convergere, appunto in uno studio sui movimenti dell’acqua e dell’aria, osservazioni scientifiche, disegni di vor­tici e cadute d’acqua e brani del cosiddetto Trattaio della pit­tura. Basti questa citazione (dal ms F, fol. 2or), analoga per­sino nel linguaggio alle altre che ho riportato sopra:

Qui l ’acqua vicina alla superfitie fa l'ufficio che vedi, risaltano in alto e indietro nel suo percotersi, e l ’acqua che risalta indietro e ca­de sopra l ’angolo della corrente, va sotto e fa come vedi di sopra in a, b, c, d, e, f (Gombrich 1969, p. 177);

essa accompagna degli schizzi, dove le varie curve delle cor­renti sono appunto indicate con a, b, c, d, e, f. E Gombrich segnala anche, opportunamente, che Leonardo si fornisce persino un repertorio verbale, raccogliendo nel ms I, ff. -]ir, 7 iv una lista «incredible» di parole utilizzabili nel descrive­

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re movimenti delle acque (una settantina, se ho contato be­ne): risaltazione, circolazione, revoluzione, ravvoltamelo, raggiramento, sommergimento, surgimento, declinazione, elevazione, cavamente, consumamento, percussione, ruina- mento, ecc. ecc. (Gombrich 1969, p. 178, n. 18).

Dal ms A , f. 6$v, Gombrich riporta un brano che corri­sponde da vicino all’ultimo da me citato, oltre che a quello di p. 151:

Si vede chiaramente e si conoscie che le acque che percuotano l ’ar­gine de’ fiumi, fanno a similitudine delle balle percosse ne’ muri, le quali si partano da quelli per angoli simili a quelli della percus­sione e vanno a battere le contraposte pariete de’ muri (Gombrich 1969, p. 182, n. 28),

e mette in relazione gli schizzi di diluvio con questi rilievi (e questi disegni) scientifici.

Il nesso tra visività e scientificità è assai stretto nelle «in­venzioni» : le deviazioni e i rimbalzi studiati dall’idraulica di­ventano anche concrete immagini di forme e andamenti cur­vilinei. Nella breve «invenzione» IV incontriamo:

serpeggiamenti delli tortuosi corsi delle minacciami folgori celesti; piante piegate a terra cole aroversiate foglie; li revertiginosi corsi della turbulenta polvere; grupolenti globosità [della polvere]; glu- bulose nuvole;

e nella V , anche se con minore ossessività:

. raviluppati nuvoli; ringorgata acqua; ritrosi revertiginosi; onde cir- culari; accresscimento della medesima curvità; raviluppato fumo e revoluzion di nuvoli.

2.7. Scienze naturali e pittura. Sarebbe facile raccoglie­re dichiarazioni di Leonardo sul necessario appropriamento delle scienze da parte del pittore; anzi, sull’identità di pittura e scienza. Certo, quando un’osservazione scientifica interes­sa direttamente il modo di dipingere, essa può costituire il supporto di un’«invenzione». Si prenda l ’inizio dell’«inven­zione» II (Del modo del figurare una notte)·.

Quella cosa che è privata interamente di luce, è-ttutta tenebre; es­sendo la notte in simile condizione, se-ttu vi vogli figurare una sto­ria, farai che, sendovi uno grande foco, che quella cosa ch’è più propinquo a detto foco, più si tinga nel suo colore, perché quella cosa ch’è più visina all’obietto, più partecipa della sua natura.

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È l ’enunciazione di una vera e propria prospettiva della lu­ce: alla luminosità per vicinanza, e oscurità per distanza (op­posizione chiarezza-oscurità), si aggiungono la luminosità e l ’oscurità dovute alla collocazione degli oggetti tra la fonte di luce e il punto di vista di chi guarda. Questa prospettiva si realizza pure come opposizione cromatica (rosso/nero) e come molla gestuale, in conseguenza di due sollecitazioni fisi­che: calore e abbagliamento. Riporto il seguito dell’«inven­zione», sottolineando i termini-chiave:

e-fiaciendo il foco pendere in color rosso, farai tutte le cose alumi­nate da’cquello ancora loro rosse giare; exquelle che· ssono più lon­tane a detto foco, più sien tinti del colore nero della notte; le figure che·ssono tratte al foco aparisc[h]ino scuri nella cbiareza d’esso foco, perché quella parte d ’essa cosa che vedi, è-ttinta dalla oscurità della notte e non dalla cbiareza del foco; e quelli che·ssi trovano dai lati, sieno mezi osscuri e mezi rosseggiaci; e-cquelli che si pos­sano vedere dopo e ’ termini delle fiamme, sarano tutti aluminati di rosseggiante lume in campo nero. In quanto a li atti, farai quelli e’ li sono presso farsi scudo colle mani e co’ mantegli a riparo del su- perchio calore, e torti col volto in contraria parte, mostrare fugire; queli più lontani farai gran parte di loro farsi cole mani a li oc[c]hi offesi dal superchio splendore.

La generalità della norma è indicata dall’uso di indicazioni posizionali (più lontane / tratte·, dai lati / dopo·, presso / più lontani), dalla correlazione di pronomi dimostrativi (quelli... quelli), dall’uso di cose, a indicare oggetti non ancora specifi­cati. A questa generalità incominciano a sottrarsi le persone, già caratterizzate dai gesti. Questa rassegna di contenuti ge­nerici in base ai rapporti con la luce istituisce una vera nar- ratività ottica, anzi uno schema narrativo vuoto, che poi l ’at­to pittorico concreterà («Se-ttu vi vogli figurare una sto­ria...»)

L ’opposizione rosso/nero non va del resto presa come pura cromaticità, ma in funzione della prospettiva di luce. Leonar­do avverte infatti che la gamma dei colori è condizionata, e in complesso ridotta, dall’ombra e dalla distanza:

Li colori posti nell’onbre mostreranno infra'lloro tanta minor va­rietà, quanto l ’onbre che e’ ve son situate fieno più oscure, e di que­sto è testimonio queli che delle piazze riguardano dentro alle por­te delli tempi onbrosi, dove le pitture vestite di vari colori apari- scan tutte vestite di tenebre. Adunque in lunga distanzia tutte l ’on- bre delli vari colori apariscan d ’una medesima oscurità. Delli corpi

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156 PARTE SECONDA

vestiti d ’onbra d iu rn e la parte luminosa mostra il suo vero colo­re

come detto anche, apoditticamente, in questa sentenza, dove luce e tenebre precedono i colori:

La pittura è composizione di luce e di tenebre, insieme mista co le diverse qualità di tutti i colori, semplici e composti2;

insomma, per Leonardo «Yombra supera non solo Ì linea­menti, ma anche il colore, che non può essere apprezzato nel­la sua materia, ma deve subordinarsi, appunto, ai lum i»1.

La prospettiva di luce è uno schema ben presente, sempre, a Leonardo. Essa è ripresa in termini analoghi nell’«inten­zione» V II (e accentuata dalla correlazione quanto più... più):

Farai rosseggiare i volti e-lle persone e lor aria e-lli scoppettieri in­sieme co’ vicini; e detto rossore, quanto più si parte della sua ca­gione, più si perde, e le figure che·ssono infra te e ’l lume, essendo lontane, parranno scure in campo chiaro...

Salvo che nell’«invenzione» V II c’è anche un altro ordine di osservazioni: sulla trasparenza dell’aria, resa più variabile da due agenti, la polvere e il fumo, di cui pure sono descritte le particolarità fisiche, i movimenti, i cromatismi:

la polvere, perché è cosa terestre, è ponderosa, e benché per la sua sottilità facilmente si levi e mischi infra l ’aria, nientedimeno vo­lentieri ritorna in baso, il suo sommo montare è fatto da la parte più sottile; adunque li meno fia veduta e parrà quasi di colore d ’a­ria. Il fumo che-ssi mischia infra l ’aria impolverata, quanto più s’alza a certa alteza, parirà oscura nuvola, vederasi ne le sommità più espeditamente il fumo che la polvere; il fumo penderà in colo­re alquanto azzuro e-lla polvere trarà al suo colore.

Cosi 1’«invenzione» integra elementi spaziali (andamento verticale del fumo e della polvere sollevata e ricadente; indi­cazione sull’orizzontalità ' dei movimenti di scena) e cromati­ci (azzurro del fum os; colore della polvere; rosso della luce

1 In Scritti d'arte cit., tomo I, p. 738, n. 2.2 Ibid., p. 740.3 b a r o c c h i , Scritti d’arte cit., p. 737, n. 1.4 Alla verticalità fluttuante del fumo e della polvere, corrisponde una

orizzontalità volutamente incrinata: «E non fare nessun loco piano, se non le pedate ripiene di sangue».

5 Sulle varie colorazioni assunte dall’aria per il contatto con fumo, umi­dità, ecc., cfr. il brano bellissimo: «Ancora per esemplo del colore dell’aria

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sugli oggetti, ma anche del sangue; infine, il colore zero: co­lore d ’aria), entro una grande opposizione lucido/opaco («Dalla parte che viene il lume, parà questa mistione d’aria, fumo e polvere molto più lucida che dall’oposita parte. I combattitori, quanto più fieno infra detta turbulenzia, meno si vederan e meno differenzia fia dai lor lumi alle loro om­bre») ‘.

Cogliamo qui, nel loro intreccio più complesso, discorsi descrittivi che si ripresentano in proporzioni e rapporti muta­ti. Nell’«invenzione» IV , per es., l ’andamento serpentino, effetto di forze centrifughe, già citato (2.6), s’integra con cop­pie luce/ombra, rosso/cenere, non localizzate prospettica­mente perché la luce non ha una sorgente ferma, trattandosi di lampi:

aria tinta d’oscura nuvolosità [...] l ’oscuro orizonte del cielo [...] nuvoli, li quali, percossi dalli solari razi penetrati per le oposite rot­ture de’ nuvoli, percotano la terra, quella aluminando [...] li venti persecutori della polvere, quella con grupolenti globosità levano a balzo infra l ’aria con colore cineruleo mista con li rosseg­giami razi solari [...] saette, la luce delle quali alumina Vombrose campagne.

Viceversa 1’«invenzione» V , che non sviluppa osservazioni cromatiche, approfondisce gli effetti di trasparenza e opacità della pioggia diluviante:

Ma-Ila pioggia nel dissiendere de’ sua nuvoli è del medesimo color d’essi nuvoli, cioè della sua parte ombrosa, se-ggià li razzi solari non li penetrassi, il che se cosi fussi, la pioggia si dimossterrebbe di minore osscurità che esso nuvolo;Ma-Ila pioggia, che discende infra 'lParia, nell’essere combattuta e percossa dal corso de’ venti si fa rara e-ddensa, secondo la rarità o-ddensità d’essi venti; e per quessto si gienera infra-U’aria una in-

allegheremo il fumo nato di legne seche e vechie, le quale uscendo de’ ca­mini pare fotte azuregiare quando si trova infra l’ochio e ’l loco oscuro, ma-cquando monta in alto e s’interpone infra l’ochio e'il’aria alluminata, in­mediate si dimostra di colore cenerognolo, exquesto acade perché non à più oscurità dopo sé, ma in loco di quella è aria luminosa. E se tal fumo sa­rà di legne verdi e giovani, alora non penderà in azzuro, perché, non sendo trasparente e pien di superchia umidità, esso fa ufizio di condensata nuvola che piglia in sé lumi e ombre terminate, come se solido corpo fussi » ecc., in Scritti d’arte cit., tomo I, p. 740, nota; cfr. pure tomo II, pp. 2134, n. 2.

1 La stessa integrazione si riscontra in XI, dove lo schema è costituito dall’obliquità della pioggia attraversata dal vento, e le luci hanno la sorgen­te nelle folgori che fendono cielo e nuvole e illuminano la terra.

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PARTE SECONDA

nondazione di trasparenti, fatti dal disscienso della pioggia, che èvicina all’ochio che la vede.

Dove il riferimento alYochio che la vede rivela l ’esistenza di una, per cosi dire, prospettiva di penetrazione, cioè di una prospettiva accentuata dallo sforzo di scorgere dietro le cor­tine più o meno opache.

3. Conclusioni. I procedimenti adottati qui potrebbe­ro esser visti come un esempio di quella entropia del discor­so che ossessiona molti operatori semiotici. Sono discorsi le «invenzioni» di Leonardo e discorsi le nostre interpretazio­ni, sarebbero discorsi quelli che cercassero di descrivere le pitture, qualora realizzate, e discorsi quelli che s’impegnas­sero a coglierne i significati; saranno discorsi quelli di chi giu­dicherà queste mie pagine, e cosi via. Invece, come si è visto in particolare a 1.5, questi discorsi non si pongono su una li­nea retta rivolta all’infinito, ma piuttosto su una serie di cer­chi che hanno al centro il nucleo semiotico dell’opera, esisten­te o progettata.

Non dunque dispersione entropica né sviluppo di entità discorsive autonome, ma progressiva adeguazione al nucleo semiotico, mediante la formulazione di modelli. Lo stesso ac­cade in fondo (e il fatto è ancora più singolare) per i testi let­terari, il cui nucleo semiotico, non linguistico, non solo è rea­lizzato linguisticamente (discorsivamente), tra i due fuochi del testo e delle sue letture-interpretazioni, che continuamen­te lo attivano e rivelano, ma può esser formulato solo per mezzo della lingua, penetrante e approssimativa nel contem­po. Il fascino della nostra sorte di esseri parlanti è che dob­biamo continuare a verbalizzare qualunque nostra esperien­za: come il cogito, anche lo stesso atto di parlare può diven­tare un meccanismo che gira a vuoto, se non viene costante­mente riferito e messo in contatto con la res. Tra l ’opera d ’ar­te, figurativa o musicale o letteraria, e il nostro impegno in­terpretativo si sviluppa una tensione che produce ogni tanto lampi rivelatori. Importante è sforzarsi di stringere la res, senza lasciarsi incantare dalle parole, nostre o altrui.

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LA DESCRIZIONE AL FUTURO: LEONARDO DA VINCI 1 5 9

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Il sogno del sogno in una poesia di Pessoa *

II.

i . Riporto qui sotto la composizione, ortonima e senza titolo, fornendo di numeri romani le strofe e, entro ognuna di esse, di numeri arabi i versi:

I i Ó naus felizes, que do mar vago2 Volveis enfim ao silèncio do porto3 Depois de tanto nocturno mal -4 Meu cora?ao é um morto lago,5 E à margem triste do lago morto6 Sonha um castelo medieval...

II i E nesse, onde sonha, castelo triste,2 Nem sabe saber a, de mäos formosas3 Sem gesto ou cor, triste castelä4 Que um porto além rumoroso existe,5 Donde as naus negras e silenciosas6 Se partem quando é no mar manhä...

I l i X Nem sequer sabe que hä o, onde sonha,2 Castelo triste... Seu spirito monge3 Para nada externo é perto e reai...4 E enquanto eia assim se esquece, tristonha, j Regressam, velas no mar ao longe,6 As naus ao porto medieval...

I. O navi felici, che dal mare vago tornate infine al silenzio del porto dopo tanto notturno male - il mio cuore è un morto lago, e sulla sponda triste del lago morto sogna un castello me­dievale...II. E in questo, dove sogna, castello triste, neppur sa sapere la, dalle mani belle senza gesto o colore, triste castellana che un porto di là rumoroso esiste, donde le navi nere e silenziose si partono quando è sul mare mattina...III. Nemmeno sa che c’è il, dove sogna, castello triste... Il suo spirito monaco a nulla di esterno è vicino e reale... E men­tre ella cosi malinconica si oblia, ritornano, vele sul mare in lontananza, le navi al porto medievale...

* Già pubblicato in «Quaderni Portoghesi», i , 1977, pp. 45-54·

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τ6ζ PARTE SECONDA

2. La composizione è formata di tre strofe (sextilhas) di decasillabi-endecasillabi a rima ABCABC. Le rime cambiano a ogni strofa, tranne la rima C, uguale nella prima e terza strofa (-al). Dividendo ogni strofa in due «terzine», si nota una chiara ricorrenza verbale:

I i° nausi, mari, porter2° sonha«, casteloé, tristes

II i° sonhai, casteloi (casteläj), tristei 2° nauss, marò, porto«

III i° sonhai, castek>2, triste2 2° nausé, mars, portoe.

Le parole ricorrenti uniscono dunque le tre strofe; il loro raggruppamento lega poi le strofe II e III, dove la serie so- nha, castelo, triste precede la serie naus, mar, porto, contro la strofa I, con l ’ordine inverso. I primi e gli ultimi due versi della poesia la incorniciano, dandole un aspetto speculare con la ripresa delle parole naus, mar, porto.

3. La prima strofa offre subito le basi per un’interpreta­zione semiotica della poesia. Se il lago (con adiacente castelo) è metafora del coragao del poeta \ dunque delPinteriorità, le naus e il mar saranno metafora di qualcosa di esterno. Avre­mo perciò:

I 1° esteriore2° interiore

II i° interiore20 esteriore

III i° interiore2° esteriore.

Le strofe dedicate all’«esteriore» alternano movimenti da fuori a dentro e da dentro a fuori: Volveis (I, 2); Se partem (II, 6); Regressam (III, 5), sottolineati dagli avverbi di luo­go: além (II, 4); ao longe (III, 5). Pertanto lo schema pre-

1 L ’espressione è di origine dantesca: «il lago | del cor» [Donne, ϊ non so, vv. 8-9); «nel lago del cor», Inf. 1, 20: qui si parla di «paura» dopo una notte passata «con tanta pietà», e si fa il confronto con «quei che con lena affannata, | uscito fuor del pelago a la riva, | si volge a l’acqua perigliosa e guata», 22-24. Cfr. R. m e r c u r i , II «lago del cor» e i segni anatomici nel canto I dell’inferno, in «Annali dell’istituto di Filologia Moderna dell’Uni­versità di Roma», 1977, PP- χ-12· Non escluderei un rapporto diretto tra Pessoa e Dante.

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IL SOGNO DEL SOGNO IN UNA PO ESIA DI PESSOA 163

cedente, se si sostituisce a «esteriore» il senso del movimen­to, può esser riformulato cosi:

I 1° fuori-» dentro2° interiore

II i° interiore20 dentro-» fuori

III 1° interiore20 fuori-» dentro.

Nelle strofe estreme (I, III) v ’è dunque un movimento dall’«esteriore» all’«interiore» - con inversione d ’ordine che rende le strofe speculari (completando i rilievi fatti in 2) — e in quella centrale (II) un movimento dall’«interiore» al- l ’«esteriore».

4. L ’aggettivo triste connota nelle tre strofe l ’interiorità: la margem del lago (1, 5), il castelo e la castelà (II, 1,3 ), anco­ra il castelo (III, 11). Viceversa le naus hanno, nelle prime due strofe, connotazioni antinomiche rispetto al porto : in I esse sono felizesi, mentre il porto è immerso nel siléncio2, in II esse sono negras e silenciosas5, mentre il porto è rumoro- jo4· C ’è una relazione col movimento, ma non nel senso che quello dal dentro al fuori, o l ’inverso, abbia un valore posi­tivo (euforico): è sempre il secondo termine ad essere negati­vo, il primo positivo. Insomma:

I i° fuori -> dentro = euforico -» disforicoII 20 dentro-»fuori = euforico -»disforico,

mentre nella strofa III il movimento non è connotato:III 20 fuori -»dentro = O.

5. Dal punto di vista sintattico, le tre strofe sono molto diverse. Le prime due sono costituite da un periodo unico, la terza da tre periodi (due nella prima «terzina», uno coin­cidente con la seconda). Se è vero che, almeno in una prima approssimazione, ogni «terzina» è dedicata, rispettivamen­te, a «interiore» ed «esteriore», nelle prime due strofe «in­teriore» ed «esteriore», in ordine invertito, coincidono esat­tamente con tre versi. Nella strofa I, l ’«esteriore» è conte­nuto in una apostrofe, mentre 1’« interiore» è in forma di pro­posizioni principali coordinate. Nella strofa II, 1’«interiore» regge, sintatticamente, l ’«esteriore», in forma dichiarativa.

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1 6 4 PARTE SECONDA

La strofa III pone ancora 1’«interiore» nella prima «ter­zina». Questa «terzina» può però restare irrelata nella secon­da perché 1’«interiore» vi appare ancora all’inizio, in forma di secondaria temporale («E enquanto eia assim se esquece, tristonha»4), portando con sé il suo connotatore costante, tri­ste, nella variante trìstonha. Questo prolungarsi dell’« inte­riore» nella seconda terzina fa da contrappeso all’inserto «Seu spirito monge J Para nada externo é perto e reai »2,3 nel­la prima terzina: un inserto che turba il rigore della divisio­ne 3 + 3 delle altre strofe, pertanto anche l ’attesa del lettore, sottolineando la sua funzione esplicativa, quasi di chiave del componimento.

Vedremo meglio come il coragao del poeta s’ipostatizzi nella triste castellana del castello triste (chiasmo fra II, 1 e 3, analogo a quello tra I, 4 e 5, morto lago, lago morto)·, ora si tratta dello spirito della castellana, con un altro passo verso Γ«interiore». Ebbene, questo spirito «para nada externo é perto e reai». Ciò sembra annullare l ’opposizione «esterio­re »/«interiore»; in verità la riporta nel cuore dell’« interio­re», dandogli una spazialità fantastica che implica i movi­menti, dunque sognati, tra «interiore» ed «esteriore». Il sen­so della poesia è qui.

Partiamo ancora dalla strofa I. Le due terzine sembrano dominate da immagini affini e opposte, quella del marx e quella del lagoi:S. L ’opposizione esplicita è presente anche sotto rivestimento paragrammatico: «à margtm triste do la­go» ( 1 ,5). Se il lago è il cuore del poeta, il mare parrebbe sim­boleggiare il mondo, la vita. Ma le altre strofe impongono un’interpretazione più sottile. Anzitutto il lago non appare più; appare bensì il castello che viene sognato1 dal cuore sul­la riva del lago stesso (I, 6), e che poi invece è il luogo del so­gno (II, 1; III, 1-2).

Complesso il gioco di rapporti fra il cuore, il castello e l ’«e- steriore» (navi e mare). In I l ’«esteriore» è quasi un postu­lato, mentre il cuore elabora (sonha6) un castello medievale: vita interiore qui, vita esteriore, ripeto postulata, là. In II il castello precedentemente elaborato è il luogo da cui ci si ab­

1 Sonha di I, 6 può essere intransitivo, con il castelo per soggetto, o transitivo, con il coragao soggetto e il castello oggetto. Preferisco la seconda interpretazione, che rende compatte le due proposizioni della «terzina» e permette di continuare col coragao soggetto (I> 4; I> 6; II, i).

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IL SOGNO DEL SOGNO IN UNA PO ESIA DI PE SSO A

bandona al sogno (sonhai è ora intransitivo), un sogno estra­neo ai fatti della vita (nem sabe saber2 reggente come dichia­rativa l ’«esteriore»). In III non solo se esquece4 P«esterio- re», ma si arriva a ignorare (Nem se quer sabei) il castello stes­so che è luogo del sogno.

La spiegazione di questi mutamenti è data dal passaggio di medieval da attributo di castelo ( 1 ,6) ad attributo di porto (III, 6): cioè dall’ambito del lago a quello del mar, ciò che spiega la ripresa della rime -al dalla strofa I alla III. Segno che tra lago e mar non c’è contrasto: sono, nella comunanza dell’elemento equoreo, due metafore che vengono progres­sivamente a sovrapporsi. La differenza verte su una parte sol­tanto degli elementi semici: piccolo vs grande, finito vs infi­nito, visti però come estremi di misurazioni che, essendo so­lo mentali, sono intercambiabili.

Il mar è un eteromorfo del lago perché «interiore» ed «e­steriore» non si oppongono come Io e mondo, ma come Io in­trospettivo e come fantasma, pensato, del mondo, come so­gno e come sogno del sogno. Allora i movimenti dentro-» fuori e f u o r i d e n t r o sono da intendere in rapporto all’io: fantasie di estroversione e ritorni all’introversione. Non si conclude con la vittoria di uno dei due elementi, ma con il loro concomitante annullarsi: lo spirito non sa nemmeno che c’è il castello da cui sogna ’, la castellana s’immerge nell’o­blio. Il sogno dell’io è ormai cosi totale, che nel sogno del sogno comunicano, quasi all’insaputa del pensiero, «esterio­re» (le navi, il mare) e «interiore» (il porto divenuto me­dievale, perciò subentrato al castello di cui lo spirito, pur so­gnando, non sa). Il sogno dell’io ha espunto l ’atto di pensa­re: ciò che è stato pensato non è pensato più. Idee già espres­se, molto meglio, da Pessoa stesso, alla fine di 'Qualquer ca- minho leva a toda parte’ :

Ah! os caminhos ’stäo todos em mim.Qualquer distènda ou direcgäo ou firnPertence-me, sou eu. O resto é a parteDe mim que chamo o mundo exterior.

1 Cfr.: «E eu sonho sem ver | Os sonhos que tenho», in 'Ao longe, ao luar’; «Confunde-se o que existe | Com o que durmo e sou», in 'Contem­plo o que näo vejo’; «Entre o sono e o sonho, | Entre mim e o que em mim | E o quem eu me suponho, | Corre um rio sem firn», in 'Entre o sono e o sonho’.

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1 66 PARTE SECONDA

A questo punto le connotazioni antinomiche di naus e por­to si rivelano risultati della lontananza dall’io: se il porto è immaginato vicino al coragao, esso è silenzioso, quasi ad in­cupire la felicità delle navi che giungono da lontano (do mar vago I, i) ; se è immaginato come lontano (além... existe II, 4), esso è animato da voci che contrastano col silenzio nero delle navi, attratte nella sfera di gravitazione dell’io . Vici­nanza e lontananza corrispondono dunque al diverso control­lo del pensiero sugli sforzi fantasmatici dell’anima: donde le due costruzioni, sempre in forma negativa, nem sabe saber (II, 2) e Nem sequer sabe (III, 1), da avvicinare al meno rile­vato se esquece (III, 4). Nella III strofa naus e porto non hanno più connotazioni valutative, perché non sono riferiti nemmeno al pensiero interiore (sogno del sogno), disattiva­to: tant’è vero che l ’attributo medieval, fattosi erratico, ine­risce non più al castello ma al porto.

6. È uno schema di movimenti centrifughi e centripeti. Sono sempre questi ultimi ad aver la meglio: sinché il pen­siero si fa pensiero di se stesso. Il movimento centripeto hail suo corrispettivo iconico negli enchassements sintattici, ot­tenuti con violenti iperbati:

nesse, onde sonha, castelo triste (II, 1) o, onde sonha, | Castelo triste (III, 1-2) a, de mäos formosas | Sem gesto ou cor, triste castelä (II, 2-3).

Si nota immediatamente (prime due citazioni) che nel nocciolo (il nocciolo dell’io come nocciolo del mondo) c’è proprio il verbo sonbar, e il direzionale onde. Inoltre lo sche­ma della prima citazione è ripetuto, eguale, nella seconda, di­sarticolato tra un verso e l ’altro, mediante un enjambement che esaspera ulteriormente l ’oltranza sintattica. La terza cita­zione va inserita nel contesto (dov’è immediatamente prece­duta dalla prima): allora s’individua il percorso, rotto e am­biguo, di negazioni ed esclusioni, che ha al centro sonha e la contorsione chiasmatica castelo triste... triste castelä:

E nesse, onde sonha, castelo triste,Nem sabe saber a, de mäos formosas Sem gesto ou cor, triste castelä,Que... (II, 1-4).

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IL SOGNO DEL SOGNO IN UNA PO ESIA DI PE SSO A 167

Ma c’è anche un movimento, segreto, di tipo centrifugo. Soggetto di sonha è il coragäo (I, 4); ma il cuore diventa una castelä (II, 3): è essa che sonha a III , 1, mentre chi sonha aII, 1 può essere sia il coragäo, sia la castelä·, a sua volta è lo spirito (III, 2) della castelä ad esser negato al reale (uno spi­rito di monaco, monge), ed è infine la castelä che se esquece (III, 4). Non stupisce, come armamentario figurativo, la pre­senza di un — postromantico - castello medievale (si pensi al­le poesie di Mario de Sa-Carneiro). Ma siamo ben fuori del luogo comune. L ’unico lavoro teatrale completo di Pessoa,O marinheiro (del 1913, dunque vicinissimo alla nostra com­posizione, del 1912 circa), si svolge proprio in un castello, do­ve tre dame descrivono viaggi non fatti, sognano un marinaio che sogna percorsi sul mare e una patria che non ha mai avu­to. La nave torna a prenderlo, ma il marinaio non esiste più ‘.

Molto più importante, qui, la femminilizzazione del poe­ta in veste di castelä (cfr. con 'Ùltimo sortilegio’), tanto più se inserita in questa serie di trasformazioni: maschile (cora­gäo), femminile [castelä), maschile {spirito), femminile (ca­stelä). Pare che in questo lavorio del sogno il poeta sperimen­ti alternativamente i due sessi, soffermandosi anche sulla vo­lontaria neutralità sessuale del monge2. Una specie di erma­froditismo diacronico, una partenogenesi che produce alter­nativamente il suo complementare. L ’anelito verso l ’interio­re è come bilanciato da questa fuga verso la differenza.

Cosi la bipartizione delle strofe in «esteriore» e «interio­re» scopre altre implicazioni. Le «terzine» dell’«esteriore» non esprimono soltanto un movimento locale ( fuori -» den­tro; dentro-»fuori), ma anche un movimento temporale. Le navi rientrano in porto «depois de tanto nocturno mal» (I,3), dunque verso la mattina; ed è di mattina che esse ne par­tono («quando é no mar manhä», II, 6), ancora «negras e si- lenciosas» (II, 5), come avvolte di notte rappresa. G li sposta­menti delle navi si pongono dunque dentro al ciclo notte-gior­no \ Nell’«interiore», il movimento è invece transessuale, at­

1 Cfr. pure la poesia 'O contra-simbolo’.1 Cfr.: «Tenho a alma feita para ser de um monge, | Mas nào me sinto

bem», im 'Montes, e a paz’.3 Sul cui rapporto con le vicende interiori cfr., nelle 'Quadras ao gosto

populär’: «Depois do dia vem noite, | Depois da noite vem dia | E depois de ter saudades | Vem as saudades que havia».

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ι68 PARTE SECONDA

tuato mediante alternanza tra i generi grammaticali. Forse nell’inconscio, forse alle soglie del conscio, come indica an­che l ’ambiguità delle azioni mentali: sognare transitivo e in­transitivo, sognare ignorando il sognato, non saper sapere ecc. Forse il dolore è soprattutto quello dell’indetermina­zione.

7. In effetti ci sono vari livelli di tristezza (mortale) nella poesia. Quello esplicito, lessicale: morto (I, 4); triste, morto (I, 5); triste (II, 1, 3; III, 2); tristonha (III, 4). Quello fo­nico, che va dal richiamo mar-mal (I, 1-3) agli anagrammi di morto e morte riscontrabili in numerosi versi (I, 2, 4, 5; II,3, 4 [due volte: «Que um porto além rumoroso exisie»], ecc.; ricorrenze maggiori se si ammette la metatesi), accanto a quelli di dor(1, 1 , 2 ,3 ,5 ; II, 1, 2 ,5 , 6; III, 3), meno signi­ficativi essendo la parola monosillaba, e di alma (1, 6 ; III , 5 ). Infine quello simbolico: le belle mani della castellana sono « sem gesto ou cor», mani di cadavere. La transessualità giun­ge alla realizzazione con la morte.

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La tradizione macaronica da Folengo a Gadda (e oltre) *

1 2 .

Svolgere questo tema equivale a percorrere lo spazio tra due pianeti, il pianeta Folengo e il pianeta Gadda. La loro ge- mellarità è stata più volte asserita: o parlando di macaronico a proposito di Gadda, o parlando di una funzione-Gadda a proposito dei precedenti di Gadda, sino a Folengo. Lungo la linea Folengo-Gadda sono stati posti, in particolare da Con­tini, che è il principale patrono di questa operazione descrit­tiva, tutti gli «irregolari» linguistici della letteratura italia­na '. Si tratta di un fenomeno tipico dell’Italia, conseguenza del contrasto fra una precoce unificazione della lingua lettera­ria e una tardiva unificazione politico-sociale; questo feno­meno è particolarmente vivace nel Settentrione padano, ri­luttante ad accettare una espressione forestiera per le sue ori­ginali elaborazioni. Insomma il toscano, fattosi avanti come candidato, presto vincente, a lingua nazionale, si trovò di fronte non solo i vari dialetti, ma le realtà locali che essi rap­presentavano.

La storia del macaronico (uso qui il termine nel significato

* Già pubblicato in e . b o n o r a e m . c h i e s a (a cura di), Cultura letteraria e tradizione popolare in Teofilo Folengo, Feltrinelli, Milano 1979, pp. 62-74.

1 Si veda almeno Primo approccio al «Castello di Udine» [1934], in Esercizi di lettura, Torino 1974, pp. 151-57; Carlo Emilio Gadda traduttore espressionista [1942], in Varianti e altra linguistica. Una raccolta di saggi (1938-68), Torino 1970, pp. 303-7; Pretesto novecentesco sull’ottocentista Giovanni Faldella [1947], ivi, pp. 567-86; Introduzione ai narratori della Scapigliatura piemontese [1947], ivi, pp. 533-66; Dialetto e poesia in Italia, in «L’Approdo», h i (1954), n. 2, pp. 10-13; i <.cappelli» ad Auliver e alla Danza mantovana in Poeti del Duecento, Milano-Napoli i960, I, pp. 507-8 e 785-86; Introduzione alla «Cognizione del dolore» [1963], in Varianti cit., pp. 601-19; La poesia rusticale come caso di bilinguismo, in «Atti del Convegno sul tema: La poesia rusticana nel Rinascimento», Accademia dei Lincei, Roma 1969, pp. 43-55.

7

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I / o PARTE SECONDA

più estensivo, riservandomi le rettifiche per dopo) si sviluppa dunque nelle intercapedini tra quella del toscano letterario e quella dei dialetti Le sue varie manifestazioni e fasi sono poi in rapporto con situazioni locali alle quali farò solo accenni, per limiti di spazio. Ecco intanto un sommario repertorio dei tipi e degli autori:

1. espressionismo dialetto + toscano: tipico del Veneto trecentesco (canzone di Auliver), si ripresenterà nella grande poesia dialettale tra Porta e Belli, anche con la variante dialetto + latino.

2. dialetto come genere o come registro: ancora nel Ve­neto, le poesie dialettali raccolte da Nicolò del Rosso e da Francesco di Vannozzo; poi i «mariazi». Sviluppi completi nel teatro in dialetto, da Alione e Ruzante a Goldoni.

3. inserti dialettali nel toscano, a scopo mimetico: le frasi dialettali citate nel Novellino, poi dal Boccaccio e dal Sacchetti, sino a Fogazzaro.

Specie nel Quattro e Cinquecento, il gioco diventa a tre elementi: latino, toscano e dialetti. Abbiamo cosi:

4. toscano letterario che s’impenna verso il latino: la gara col latino umanistico si avverte in quasi tutti gli autori del tempo (citerò l ’Alberti), ma specialmente nei pro­vinciali, per un noto fenomeno di sincretismo (per esempio il Vinciguerra). Caso limite il linguaggio di Francesco Colonna, dove morfologia e sintassi padane illustri accolgono un lessico latino o tardolatino, con molti neologismi ancora classicheggianti. La satira di questo ibridismo latino-volgare è fornita nei sonetti fi- denziani dello Scroffa e nelle parodie del linguaggio pe­dantesco frequenti nelle commedie.

5. latino che si «abbassa» verso il volgare: è il macaroni- co vero e proprio. Il fatto che il volgare, nella fattispe­cie, sia prevalentemente dialetto, si spiega con motivi storici (sviluppo padano di questo tipo linguistico), e con la necessità di estremizzare la «discesa» linguisti­

1 Ho abbozzato questa storia nel capitolo Polemica linguistica ed espres­sionismo dialettale nella letteratura italiana, in Lingua, stile e società, Mila­no 1963, pp. 383-414; 19763, pp. 397-426.

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LA TRADIZIONE MACARONICA

ca, verso il massimo della popolarità. Qui si allineanoil Nobile Vigonze opus, Tifi Odasi, l ’Alione, sino al cul­mine rappresentato da Folengo. Non mancano conti­nuatori, ma ormai il genere ha dato tutti i suoi frutti, contemporaneamente alla conclusione della lotta tra la­tino e volgare, con la vittoria di quest’ultimo.

6. lingua letteraria che si «abbassa» verso livelli inferio­ri. In un’epoca di ibridismo (koiné padana, koiné meri­dionale, ecc.) non era possibile a un non toscano gio­care con sicurezza sull’opposizione toscano letterario - lingua parlata. Quest’opposizione è perciò presente so­prattutto nei toscani, che ovviamente possono fondarsi su altre due opposizioni affini: quella tra lingua della tradizione letteraria e lingua parlata, e quella tra lingua e gergo, o varianti rustiche: si possono citare, col prece­dente del Sacchetti e poi dei testi nenciali, Burchiello, Berni, Doni, Aretino; ma soprattutto il Pulci, non per nulla tenuto a modello dal Folengo. Questo scavo nelle dimensioni linguistiche della Toscana sarà proseguito minuziosamente dai linguaioli, non senza esiti interes­santi, come in Michelangiolo Buonarroti il Giovane.

Dalla metà del Cinquecento inizia un periodo meno favo­revole a queste sperimentazioni. In un clima aristotelico e controriformistico, la distinzione di ruoli tra lingua e dialet­to è fissata e rispettata; e la letteratura dialettale, pur con grande varietà di adibizioni e di esiti, mantiene disciplinata­mente un ruolo subalterno rispetto alla letteratura «ufficia­le». In generale, i fenomeni di osmosi tra letteratura in lin­gua e in dialetto sono prudenti, mai traumatici.

Tutto cambia con l ’illuminismo. Il rinnovamento del pen­siero politico, morale, giuridico, scientifico, è anche rinnova­mento letterario e linguistico. È nell’ambito del Romantici­smo che poi la letteratura in dialetto rompe il suo stato di soggezione — anche collegandosi col magnifico esempio del Goldoni, e prima con il robusto precedente del Maggi. Però l ’elemento macaronico in Porta, come pure nei conterranei Balestrieri e Tanzi, e nell’originale seguace Belli, non è pre­sente se non con gli inserti in lingua o in latino, cui si è accen­nato. In complesso il dialetto rimane entità linguistica auto­noma con le proprie varianti tonali.

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1 / 2 PARTE SECONDA

Esperimenti macaronici si presentano intorno e dopo il Manzoni, in Piemonte e Lombardia, cosi come avevano vigo­reggiato nella Padania centro orientale contemporaneamente alla convergenza della koiné settentrionale col toscano lette­rario (cioè al passaggio daWOrlando innamorato al primo, secondo e terzo Furioso). G li «scapigliati» lombardo-pie­montesi (Faldella^ Cagna, Dossi, Linati ecc.) oppongono al monolinguismo manzoniano (lingua toscana viva) un pluri­linguismo che valorizza le stratificazioni storiche dell’italiano letterario, nonché i dialetti. Partito ben diverso scelse Verga (e, poi, Pavese e certo Fenoglio): quello di sciogliere il dia­letto nella lingua che ne eredita toni e movenze.

A questo punto è ormai realizzata l ’unità politica; e la lin­gua, anche se parlata da principio solo da minoranze, diven­ta più decisamente e velocemente lingua parlata, lingua del­l ’uso, acquistando la duttilità prima inesistente. Certo, è sem­pre una lingua che risente della protratta letterarietà, della scarsa popolarità: da cui il frequente ricorso, ancora, al dia­letto, ma con chiare motivazioni di rispecchiamento sociolo­gico: Pasolini, Mastronardi, il primo Testori, il Moravia dei racconti romani. (È un caso del tutto isolato l ’anglicismo di Fenoglio). Ma quest’ultima ondata dialettale è presto deflui­ta insieme alla moda che l ’aveva provocata.

Immune da questa moda (semmai suo involontario patro­no) Gadda, che si connette piuttosto alle esperienze di Dossi e compagni o, a distanza, a quelle del Folengo e di Rabelais. Le motivazioni di Gadda sono artistiche, non linguistiche: tant’è vero che gli ingredienti del suo macaronico presentano paradigmi diversissimi secondo epoche ed opere. Né Gadda è meno Gadda quando, specie agli inizi, usa un linguaggio qua­si senza trasgressioni.

È stato indubbiamente utile e corretto fornire agli scritto­ri della linea macaronica lo sfondo storico-linguistico che ho indicato in modo molto schematico. E chi dice storico-lingui­stico, dice anche sociologico, tanto netta fu, almeno sino a questo secolo, la diversità di estrazione tra quelli che sape­vano parlare (e scrivere) la lingua letteraria, e quelli che solo parlavano (e non scrivevano) il dialetto.

Occorre solo aggiungere che non vi fu quasi esperimento

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linguistico-stilistico in Italia non riconducibile in qualche modo al plurilinguismo dantesco - che è agli antipodi del mo- nolinguismo petrarchesco, come mostrò Contini. Inoltre, non sarà inutile sottolineare che nelle analisi del macaronico attuate negli anni Quaranta e Cinquanta critica e poetica s’i­dentificano, cosi come la voce di Gadda si mescola con quelle dei linguisti e filologi. Ora, forse, è possibile un maggior di­stacco.

A parte le differenze tra le varie linee di sviluppo accen­nate, bisogna infatti dire che anche la linea più rilevata, quel­la macaronica, è tutt’altro che unitaria. Non è un caso se i critici che se ne sono occupati, a partire da Contini, hanno pu­re parlato di pastiche e di pasticheurs, di espressionismo, ecc., col vantaggio di estendere i riferimenti oltre le Alpi (da Rabelais, del resto debitore del Folengo, a Céline, e magari a Joyce) e oltre lo stretto ambito letterario, essendo l ’espres­sionismo un’insegna prevalentemente pittorica; ma con l ’in­conveniente di procrastinare una definizione, o almeno una tipologia.

Occorrerà soffermarsi un momento sul termine macaroni­co. L ’uso, già affermatosi nel Cinquecento, di chiamare mac­cheronico un linguaggio misto di italiano e latino, o per gio­co o per imperizia, è da respingere. Testi che presentino que­sta mescolanza sono effettivamente numerosi in tutto il me­dioevo romanzo. E v ’è una linea che conduce assai vicino ai macaronici: quella delle farciture volgari in testi latini (Car­mina Burana), delle prediche bilingui sino a Bernardino da Feltre, ben studiata dalla Lazzerini1, del latino italianizza­to usato nelle lezioni universitarie del Quattro e Cinque­cento.

Ma il fenomeno del linguaggio macaronico è alquanto di­verso, come ha già rilevato Ivano Paccagnella2. Mentre nei testi appena ricordati c ’è soltanto mescolanza delle due lin­gue, con una distribuzione funzionale abbastanza chiara, nei macaronici si verifica una vera «interferenza»·, nel senso di

1 l u c i a l a z z e r i n i , «Per latinos grossos...» Studio sui sermoni mestichi­ti, in «Studi di filologia italiana», xxix (1971), pp. 219-339.

2 1. p a c c a g n e l l a , Mescidanza e macaronismo: dall’ibridismo delle predi­che all’interferenza delle macaronee, in «Giornale storico della letteratura italiana», c l (1973), n. 470-71, pp. 363-81.

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Uriel Weinreich si verifica cioè «il riordinamento dei mo­delli linguistici offerti dal latino, in seguito aU’introduzione di elementi ad esso estranei, nel campo della morfologia, ma soprattutto della sintassi e del lessico» \ Il contrasto tra un fondo lessicale dialettale e moduli e forme dell’esametro vir­giliano mirava a produrre nei lettori un effetto straniante e un risultato comico.

Sono pienamente d ’accordo nel separare i testi mescidati e quelli macaronici. E penso che siano possibili ulteriori preci­sazioni. Ricorrerò in partenza alla definizione di «diglossia» data dai sociolinguisti (Ferguson, Fishman ecc.)3. Si ha di­glossia quando una comunità ricorre, oltre al o ai linguaggi standard, a una lingua fortemente codificata, impiegandola solo per usi scritti o formali, mai per la conversazione ordina­ria. V ’è dunque una specializzazione dell’uso e una differen­ziazione di prestigio (maggiore per la lingua più codificata). Per l ’Italia dal Tre al Cinquecento, con il latino più codifica­to (gramatica, infatti) e più prestigioso, con il toscano lette­rario già divenuto paradigma e il dialetto locale, si potrebbe anzi parlare di triglossia. Una situazione abbastanza anoma­la, se si avverte che contro la lingua d’uso, il dialetto, stanno ben due lingue speciali della letteratura e della conversazio­ne colta: il latino e il toscano, quello più, questo meno auto­revole comunque, sino al finale rovesciamento delle posizio­ni a vantaggio del toscano.

Nella diglossia (o nella triglossia) avviene che i livelli e i registri alti siano coperti dalla lingua «superiore», i livelli e i registri «medi» e «bassi» da quella inferiore4. Come se lo

1 u . w e i n r e i c h , Lingue in contatto, Torino 1974 [1953].2 p a c c a g n e l l a , Mescidanza e macaronismo cit., p. 377.3 g . f e r g u s o n , Diglossia, in «Word», xv (1959), pp. 325-40; j. A. f i s h ­

m a n , La sociologia del linguaggio, Roma 1975 [1972], cap. vi.4 Difficile (forse impossibile) dare un canone dei livelli presenti in una

lingua. Il canone più ristretto è quello proposto da M . joos, The Isolation of Styles, in j. a . f i s h m a n (a cura di), Readings in thè Sociology of Langua- ge, The Hague 1970, pp. 185-91; esso comprende i registri frozen, formai, consultative, casual, intimate, resi in italiano da g . f r a n c e s c a n o , Registro, codice, livello, dialetto..., in a a .v v ., Italiano d’oggi. Lingua non letteraria e lingue speciali, Trieste 1974, pp. 211-24, con: rigido, formale, informativo, casuale, intimo. Altri elenchi di registri sono molto più abbondanti, come quello di G. b e r r u t o , La sociolinguistica, Bologna 1974, p. 72, che allinea: aulico, colto, formale, medio, colloquiale, informale, popolare, familiare, in­timo.

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spettro delle tonalità fosse distribuito su due colonne prive una della parte inferiore, l ’altra di quella superiore. È in que­sta situazione che si spiegano i casi di mescidanza. Si inseri­scono cioè in un contesto di lingua superiore elementi di quel­la inferiore, quando la prima necessita di riferimenti a ogget­ti e situazioni propri della quotidianità. Ciò si verifica tutte le volte che i portatori della lingua «superiore» devono ave­re particolari relazioni comunicative con i portatori della lin­gua «inferiore» senza ricorrere a quest’ultima lingua: regi­strazione di testimonianze, atti notarili, prediche ecc.

Le cose si svolgono molto diversamente in letteratura. In linea di principio, ogni lingua letteraria dovrebbe già conte­nere i sottocodici realizzanti una maggiore o minore solenni­tà di dettato: quelli dello stile sublime, dello stile medio e dello stile umile. Cosi la lingua letteraria, posta al livello più alto delle varietà stilistiche di una lingua, riflette in sé, con mezzi propri, tutta la gamma stilistica della lingua stessa, coni suoi riferimenti ai contenuti, e perciò ai contesti. Quando vi sia una circolazione sociale e culturale perfetta, la lingua let­teraria continua ad assimilare e codificare nei suoi livelli in­terni le formazioni linguistiche dei vari livelli e registri del­l ’uso sociale, cosi come questi sono nutriti dalle elaborazioni della lingua letteraria.

A tali condizioni si avvicinava abbastanza la Toscana: e questo spiega le riuscite sperimentazioni di utilizzo dei livel­li inferiori (popolare, rusticano, gergale) nei testi letterari. Tant’è vero che, dopo l ’affermazione di tendenze formalisti­che ed edonistiche, sarà anche col ricorso ai livelli inferio­ri che si svolgeranno giochi linguistici brillanti. Saranno mo­tivi politici e culturali, più che linguistici, a interrompere la circolazione interstratica.

Nella Padania abbiamo: a) un toscano letterario accolto dall’esterno e con molti contrasti; un toscano che, assimilato imperfettamente, non consente un agevole ed efficace gioco

1 Mantenendo il canone ristretto di Joos-Francescato, si avrebbe:

Latino e italiano Dialettorigido -formale -- informativo- casuale- intimo

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1γ6 PARTE SECONDA

di registri, e rischia di restare bloccato ai livelli alti; b) una concorrenza latino-toscano per il predominio letterario mol­to più malcerta che in Toscana; c) la pressione di una cultura locale che ha il suo mezzo di espressione nel dialetto, già fio­rente in forma autonoma o emergente attraverso curiosi ibri­dismi, come il franco-veneto.

Il latino umahistico, molto più di quello medievale, ave­va ritrovato nei suoi modelli una certa gamma di varietà to­nali: escursioni minime, alludenti a realtà sociali di Roma an­tica più che del corposo presente. Ciò che hanno fatto i ma- caronici, senz’altro collegandosi ai precedenti prima ricorda­ti, è incastrare la colonna dei livelli superiori del latino con quella dei livelli inferiori, del dialetto, fondendo due estremi linguistici, storici, stilistici, funzionali. Si tratta infatti di due strutture linguistiche del tutto separate (a differenza di quel­le del toscano e del dialetto); appartenenti l ’una a quindici secoli prima (dato che il fondo è virgiliano), l ’altra alla con­temporaneità; la prima di stile sublime, l ’altra di stile basso; la prima esclusivamente scritta, la seconda esclusivamente parlata e informale, almeno nelle varianti usate.

Credo che qui il riferimento agli stili sia illuminante. Auer­bach ha mostrato che la storia della latinità cristiana e delle letterature romanze può essere interpretata come uno scon­volgimento dei rapporti stile-contenuto, e in sostanza come un incalzare di ondate del sermo humilis su tutti i gradini della gerarchia dei contenuti La successiva storia del «reali­smo» può esser intesa, con Auerbach, come successione di diverse valorizzazioni letterarie del livello umile2.

Appare allora che i macaronici hanno esattamente capo­volto l ’operazione attuata dal medioevo latino e volgare. In­vece di promuovere lo stile umile a rappresentativo di conte­nuti sublimi, essi hanno piegato lo stile sublime a rappresen­tare contenuti umili. Invece di conferire al sermo rusticus (nel nostro caso, il dialetto) la dignità delle alte espressioni letterarie, essi l ’hanno accolto tal quale, imponendogli trave­stimenti grammaticali dall’inevitabile effetto comico. La vio­lenza dello sconquasso stilistico si manifesta come rivoluzio­

1 e . a u e r b a c h , Lingua letteraria e pubblico nella tarda antichità latina e nel Medioevo, Milano i960 [1958].

2 i d ., Mimesis. Il realismo nella letteratura occidentale, Torino 1956 [1946].

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ne del linguaggio: lo scontro di toni come collisione di strut­ture linguistiche. Le spinte verso l ’alto e verso il basso coe­sistono anche nelle singole parole, realizzando le interferenze che sono le cellule costitutive del macaronico.

Questo mélange dev’essere comprensibile, godibile, effi­cace. Realizzano questi tre scopi le norme postesi dai macaro­nici nell’impiego dei loro materiali bilingui. Queste norme, già attentamente studiate ‘, sovrintendono all’amalgama del­le due lingue, dando in complesso al latino la funzione di con­tenente, al dialetto quella di contenuto. L ’aggiunta a termini volgari di particelle o di desinenze latine, la loro inserzione negli armoniosi moduli dell’esametro o del pentametro con­tinua a rinnovare la comicità del contrasto tra lingue, stili, ar­gomenti.

Hanno poi, ma ancora scherzosamente, una funzione me­talinguistica le glosse che i macaronici amano apporre ai loro elaborati (penso all’edizione toscolana del Baldus, ben valo­rizzata da Bonora\ ma penso anche a certe note filologiche di Gadda). Pure qui un abbassamento: la glossa erudita, lo sfog­gio culturale impiegati per un’ulteriore esibizione di materia­li dell’invenzione linguistica che le glosse, apparentemente, illustrano.

Questo tentativo di ridefinire i caratteri del macaronico, oltre a caratterizzare meglio la corrente fra tutte quelle che ricorrono alla mescolanza linguistica, enfatizza un elemento che credo costituzionale del macaronico, e cioè la concomi­tante spinta verso gli estremi della gamma stilistica. Certo i macaronici tendono a scegliere nel volgare e nei dialetti le pa­role più espressive. Ma spesso è sufficiente la natura netta­mente volgare di un termine perché esso «funzioni» nel con­testo. Insomma il dialetto è cosi chiaramente connotato nella sua totalità, che non occorre siano ugualmente connotati tut­ti i suoi termini. Perciò la ricerca di connotazione è maggiore

1 Rinvio soprattutto ad u. e . p a o l i , Il latino maccheronico, Firenze 1959 e a B . M i g l i o r i n i , Sul linguaggio maccheronico del Folengo [1968], in Lin­gua d’oggi e di ieri, Caltanissetta 1973, pp. 75-100. Inoltre: E . b o n o r a , Le Maccheronee di Teofilo Folengo, Venezia 1956; m . c h i e s a , La tradizione linguistica e letteraria cristiano-medievale nelle Maccheronee del Folengo, in «Giornale storico della letteratura italiana», c x l i x (1972), n. 465, pp. 48-86.

2 b o n o r a , Le Maccheronee cit., pp. 48 sgg.

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proprio nel latino, e in direzione diametralmente opposta, quella del sublime. Basti ricordare le allusioni virgiliane del Folengo. G li estremi stilistici sono poi anche estremi crono­logici, se è vero che il latino più volgareggiante del medioevo è stato respinto perché poco reattivo a un impegno espressio­nistico.

Credo che questo permetta di separare anche nella lette­ratura più recente un filone macaronico, sia pure in senso me­taforico, entro l ’assieme di testi misti di lingua e dialetto. Certo, tutta questa letteratura si rifà al Folengo, e magari al suo emulo Rabelais; e si verificano anche influssi a breve di­stanza, come quelli di Gadda su Pasolini ed altri. C ’è tuttavia una netta differenza tra gli scrittori della linea Dossi-Gadda e un Pasolini o un Arbasino (a parte la qualità). Solo la linea Dossi-Gadda mantiene la divaricazione di stili e di cronolo­gia: salvo che sostituisce al latino virgiliano l ’italiano tre o cinquecentesco, l ’ammiccamento cruschevole, la pompa ora­toria di un predicatore barocco. Nel Testori della trilogia tra­gica, v ’è l ’apporto del pavano e del lombardo antichi.

Gli scrittori della linea macaronica hanno spesso dichiara­to la loro apertura ai più eterogenei materiali linguistici. Si ricordi Faldella: «Vocaboli del trecento, del cinquecento, della parlata toscana e piemontesismi; sulle rive del patetico piantato uno sghignazzo da buffone: tormentato il diziona­rio come un cadavere, con la disperazione di dargli vita me­diante il canto, il pianoforte, la elettricità e il reobarbaro»E analogamente Gadda: «I doppioni li voglio, tutti, per ma­nia di possesso e per cupidigia di ricchezze: e voglio anche i triploni, e i quadruploni, sebbene il Re Cattolico non li ab­bia ancora monetati: e tutti i sinonimi, usati nelle loro varie­gate accezioni e sfumature, d’uso corrente, o d’uso raro raris­simo. Sicché dò palla nera alla proposta del sommo e venerato Alessandro, che vorrebbe nientedimeno potare, ecc. ecc. : per unificare e codificare: "d ’entro le leggi, trassi il troppo e ’l vano” . Non esistono il troppo né il vano, per una lingua»2.

Ma occorre interpretare questi proclami di ecumenismo linguistico. Quello che caratterizza i macaronici non è già l ’ac­

1 g . f a l d e l l a , A Vienna - Gita con il lapis, Torino 1874, p p . 251-52.2 c . e . g a d d a , Lingua letteraria e lingua dell’uso [1942], in I viaggi la

morte, Milano 1958, p p . 93-99, a p . 95.

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LA TRADIZIONE MACARONICA 179

costare due ο più strati linguistici (lingua, dialetto, ecc.), ma utilizzare i contrasti storici e tonali interni agli strati; man­tenere gli strati in una prospettiva diacronica, proiettando al loro interno il contrasto esterno fra gli strati; istituire un equilibrio perpetuamente instabile, anche se con regole per la sua instabilità; creare, spesso, neologismi, istituendo fitti­zie linee di sviluppo temporale e linguistico. La rivoluzione delle gerarchie tonali viene pertanto attuata concomitante­mente sulla polarità lingua-dialetto e sulla polarità lingua an­tica - lingua moderna, nonché su altre polarità meno macro­scopiche: dialetto - dialetto (di regioni diverse); lingua lette­raria-lingue speciali (scientifica, filosofica, ecc.) ecc. Tenuto conto delle motivazioni, e avendo presente il quadro più am­pio delle opposizioni in opera, si potranno annettere al ma­caronico anche varianti in cui qualcuna delle polarità non en­tri in gioco (lo stesso Gadda ricorre a tutte solo in certa par­te della sua produzione), o varianti ad escursione minima (credo che Landolfi abbia buoni titoli d ’ammissione); men­tre si potranno più facilmente spiegare l ’estraneità al maca­ronico di scritture pur linguisticamente elaboratissime come quelle di Pizzuto.

Con queste puntualizzazioni siamo più vicini al significato complessivo della letteratura macaronica. E non sopravvalu­teremo l ’elemento dialettale come segno di una posizione po­tenzialmente o effettivamente popolare degli scrittori. Il ri­corso al dialetto non è il dato qualificante della letteratura macaronica, e comunque si attua in testi generalmente in­comprensibili od ostici ai normali utenti del dialetto stesso. È in altre sedi che il dialetto può avere, e ha avuto, il valore di una scelta di campo, sentimentale o ideologica.

Certo, uno scrittore come Folengo, che mette al centro del suo orizzonte inventivo il mondo popolare, dà segno di una curiosità e di un’adesione ben più che folclorici. Ma curiosi­tà e adesione possono essere, scrittore per scrittore, diversa­mente motivate. Nel dialetto e nel mondo popolare si può ve­dere si una moralità più schietta, un’aspirazione indomita al­la libertà e alla giustizia, ma si può anche proiettare il mito del buon selvaggio, o dell’età dell’oro, i simboli dell’innocen­za e della felicità perdute, il rimpianto dell’infanzia.

È invece indubbio che il ricorso al macaronico (e perciò

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ι8ο PARTE SECONDA

anche, ma non solo, al dialetto) costituisce una forma di tra­sgressione. Trasgressione linguistica anzitutto, dato lo scon­quasso operato negli usi letterari e no. E trasgressione degli ordinamenti che la società riflette nelle gerarchie dei registri e degli usi linguistici. Una trasgressione «educata», lettera­ta, ma che può investire tutte le convenzioni di pensiero e di espressione. Accostando un codice all’altro nello stesso di­scorso, anzi nella stessa frase, lo scrittore macaronico conti­nua a mutare la messa a fuoco ideologica, a sorprendere ogni automatismo dell’attesa; e cosi smaschera l ’inconsistenza di qualunque opinione o concezione recepita. Ciò vale persino per i diasistemi da lui costituiti, tant’è vero che ogni diversa redazione e ogni diversa opera (si pensi ai quattro Baldus) realizzano diasistemi diversi.

Questa lotta contro l ’ordine costituito è motivata dall’ir- rompere di impulsi, oltre che di ragionamenti. È indubbio che gli abbandoni alla scatologia, alla coprolalia, ad immagini e parole sconvenienti obbedisce nel macaronico, come nei motti di spirito studiati da Freud, a un bisogno di liberare il rimosso e il represso, per un’istanza materialistica, che poi può presentarsi come polemica, o almeno come irrisione alla morale corrente. Si tratta quasi di una costante, già indivi­duata nelle dichiarazioni di Tifi Odasi:

Aspicies, lector, Prisciani vulnera mille gramaticamque novam quam nos docuere putane et versus quos nos fecimus post cena cantando.

Una ripresa, con ben altre forze, dello spirito goliardico.Ricchi e coloriti nella terminologia dell’osceno, i dialetti

permettono di offendere insieme la convenienza linguistica e quella del comportamento, di abbassare al massimo il livel­lo del contenuto e dell’espressione. Naturalmente si può pro­durre, in un orizzonte orgiastico, un sublime della volgarità, una trivialità grandiosa e persino sacrale. Lo spirito del satur­nale e del carnevale risorge sempre.

La reazione contro il linguaggio «alto» è, in partenza, una forma di difesa, come avverti Gadda nell’incontro fra Renzo e don Abbondio. Col fastidio di Renzo per il latinorum, egli scriveva, «il diritto naturale anzi la vitalità naturale del gio­vine insorge contro le formulazioni del 'diritto’ impedimen- tario [gli "impedimenti dirimenti”]: l ’impeto vivo contro il

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LA TRADIZIONE MACARONICA 181

morto imbroglio: del quale è simbolo grottesco, in quel mo­mento, un ignorato latino». Acutamente aggiungeva Gadda: «Renzo è bell’e ricondotto al suo motivo elementare, nuclea­re, all’angoscia della castrazione (complesso di castrazione passivo) : da poi che il ritardo enigmaticamente frappostosi al­le nozze, aruspice il curato latinista, la equivaleva in facto» \

Non mi avventuro sulle sabbie mobili del concetto di ca­strazione. Occorrerebbe portarsi all’età in cui si scatena que­sta angoscia, che è alla fine, com’è noto, p<mra della morte \ Meglio restare in un ambito metaforico, e vedere nel linguag­gio codificato la legge, la costrizione, il padre come tiranno e impositore di limiti e divieti. Naturale che questa reazione si sia sviluppata in Italia, dove non c ’è mai stata sino ad oggi agevolezza di rapporti tra il parlante e il linguaggio lettera­rio: per i motivi cui abbiamo accennato.

Ma questo odio per il padre non è solo odio per il codice- lingua; è odio per qualunque codificazione delle forme espo­sitive. Tutta la letteratura si serve di stereotipi: i temi, i mo­tivi, i simboli, le metafore, le funzioni narrative sono degli stereotipi. Gli scrittori li accettano, passivamente od original­mente secondo le loro capacità. Le avanguardie moderne han­no provato a negarli in blocco, senza temere di varcare le frontiere dell’incomprensibile. Il linguista contempla serena­mente, forse troppo serenamente, la dialettica di nuovo e an­tico, di schemi e trasformazione degli schemi.

Lo scrittore macaronico invece mette in discussione, at­traverso l ’impugnazione del codice-lingua, tutti i codici espo­sitivi: deformandoli con accostamenti inauditi. I critici han­no spesso notato negli scrittori macaronici la scarsa tenuta delle loro costruzioni narrative. Si è detto che il Baldus è da leggere piuttosto come successione di episodi, o di scene, che come una storia compiuta. Si è parlato, per Faldella e per al­tri, di frammentismo. Si è rilevata l ’indifferenza con cui Gad­da isolava spezzoni di romanzi per farne racconti autonomi. È infine noto che la Cognizione del dolore, nonostante i com­plementi della seconda edizione, resta incompleta, come è in­

1 c . E . g a d d a , Fatto personale... o quasi [1947], in I viaggi la morte cit., pp. 101-7, a p. 107.

2 m e l a n i e k l e i n , A Contrihution to thè Theory of Anxiety and Guilt, in M. Klein, P. Heimann, S. Isaacs, J. Rivière, Developments in Psycho- Analysis, London 1952.

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182 PARTE SECONDA

completo lo pseudogiallo del Pasticciaccio, in cui pure è in at­to il maggiore impegno strutturale mai realizzato da Gadda.

Mi pare sintomatica questa frase del Racconto italiano del novecento riportata da Roscioni: «Bisogna vedere un po’ di avviare e legare la materia del romanzo. Legare i personaggi: per ora è questa per me la maggiore difficoltà: " l ’intreccio” dei vecchi romanzi, che i nuovi spesso disprezzano. Ma in realtà la vita è un "intreccio” e quale ingarbugliato intrec­cio! » '. Dove si posson vedere adombrate le tre posizioni in contrasto: l ’intreccio come sezione convenzionale della real­tà, la negazione dell’intreccio, l ’accettazione problematica di un intreccio compenetrato con l ’oscuro intreccio della vita.

L ’apparente incapacità costruttiva dipende dunque dal­l ’intensità dell’attenzione portata sulle fibre più intime del­l ’intreccio vitale: in ogni episodio l ’oscuro intreccio è portato alla luce, ogni spostamento o accostamento di registri è una breccia non solo nei luoghi comuni, ma nelle nostre più gene­rali modalità di percezione e di organizzazione razionale dei fatti. Le forze del reale sono diverse, spesso contrastanti ri­spetto alla logica della narrazione. Vorrei citare qualche affer­mazione di Gadda che esprime le premesse teoriche di questa diversa ottica, e che credo valga per quasi tutti i macaronici:

«Un lettore di Kant non può credere in una realtà obbiet- tivata, isolata, sospesa nel vuoto; ma della realtà, o piuttosto del fenomeno, ha il senso come di una parvenza caleidoscopi­ca dietro cui si nasconda un 'quid’ più vero, più sottilmente operante, come dietro il quadrante dell’orologio si nascondeil suo segreto macchinismo»2. Questo primo brano, che po­trebbe esser collegato a tanti paragrafi della Meditazione mi­lanese, va integrato con quest’altro: «L ’io rappresentatore- creatore veduto nella sua saldezza, e nella fissità centrica che è propria di quel cavicchio ch’egli è, circonfuso d’un tempo stolido e inerte, a versar luce nella tenebra come riflettore nelle paure della notte, è idolo tarmato, per me. Codesto bambolotto della credulità tolemaica, in ogni modo, non ha nulla di comune con la mia identità di ferito, di smarrito, di povero, di 'dissociato noètico’ . D ’intorno a me, d’intorno a

1 G. c. r o s c i o n i , La disarmonia prestabilita. Studio su Gadda, Torino 1969, p. 36, n. 4.

2 c . e . g a d d a , Un’opinione sul neorealismo [1950], in I viaggi la morte cit., pp. 251-52, a p. 252.

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LA TRADIZIONE MACARONICA 183

noi, il mareggiare degli eventi mortiferi, il dolore, il lento strazio degli anni. Il concetto di volere si abolisce, nel len­to impossibile. L ’oceano della stupidità»

Intrigo narrativo e linguaggio sono dunque sentiti, ai due estremi dell’attività espressiva, come repressione e castrazio­ne. A ll’orizzontalità del narrare si sostituisce la verticalità del descrivere; alla trama l ’episodio, o audaci raccourcis di sto­rie non raccontate. È intorno a questa verticalità che si svol­gono i continui salti di registro, i quali sorprendono nei loro movimenti le fibre del pasticciaccio. Anche l ’iperbole, esaspe­razione o minimizzazione, contrasta con acquiescenze simbo­liche o metaforiche: l ’iperbole gigantifica sul piano del di­scorso l ’impugnazione dei clichés attuata sul piano dello stile.

I macaronici, in genere, non sono rivoluzionari. La loro ot­tica è incompatibile con programmi di riordinamento del mondo. Se essi mettono in crisi le istituzioni attuali, è facile immaginare che metterebbero volentieri in crisi ogni istitu­zione alternativa. Possono avere qualche idolo polemico, e allora usano con temibile efficacia le armi delPirrisione, del paradosso, della caricatura; uccidono nel ridicolo. Ma la loro critica va ben al di là della politica, o della religione, o della morale: è una critica che investe le basi della nostra compren­sione e raffigurazione del mondo. Non rivoluzione, ma conte­stazione. Però, una contestazione permanente.

1 c. E . g a d d a , Come lavoro [1950], in I viaggi la morte cit., pp. 9-26, a p. 13.

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Indice dei nomi

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Acutis, C., 8 η.Agosti, S., 41.Alamanni, L., 117 η.Alberti, L. Β., 170.Alfonso I d’Este, duca di Ferrara,

Modena e Reggio, 125.Alione, G. G., 170-71.Andrea Cappellano, 16,87,94 n. Apuleio, 115 e n.Arbasino, A., 178.Aretino, P., 171.Ariosto, L., 117-30.Aristotele, 11,145.Auerbach, E., 176 e n.Auliver, 169 n, 170.Avalle, D. S., 53,55-56.

Balestrieri, D., 171.Bandello, M., 98.Barocchi, P., 143 n, 145 n, 146 n. Barthes, R., 18 n, 19 e n, 134.Bassy, A.-M., 159.Beccaria, G. L., 41.Bédier, J., 64,66-67.Beffa, B., 118 n.Belli, G. G., 170-71.Benivieni, G., 119.Bentivogli, E., 117 n.Benucci, A., 122,125,128. Benveniste, E., 119 e n, 131-33, 135­

136,139,141,159.Benvenuti Tissoni, A., 118 n. Bernardino daFeltre, 173.Berni, F., 171.Berruto, G., 174 n.Boccaccio, G., 87-96, 97-109, n o ,

126 n, 170.Boklund, K. M., 8 n.Bonora, E., 169 n, 177 e n.Borghini, V., 113.Bourland, C. B., 97 n.

Bousofio, C., 79.Branca, V., 87 n, 97 n.Bruerton, C., 97 n.Buonarroti, M., detto il Giovane,

171.Bueve de Hanstone, 13.Burchiello, D., 171.

Cagna, A. G., 172.Carmina Burana, 173..Carneiro, M. de Sa, 167.Cassirer, E., 76.Castia-gilos, 16.Celine, L.-F., 173.Chanson de Roland, 9,59-64. Chiesa, M., 169 n, 177 n.Chrétien de Troyes, 10,16,17. Cian, V., 118 n.Colonna, F., 170.Compilatio singularis exemplorum,

114 n.Conte, M. E., 23 n.Contini, G., 56,169,173.Correr, G., 118.Corti, M., 14 n.

Damisch, H., 159.Dante Alighieri, i n , 162 n. Debenedetti, S., 122 n.Della Torre, A., 117 n.Di Francia, L., 87 n.Disciplina Clericalis, 87.Doni, A. F., 171.Dossi, C., 172,178.Dressier, W. U., 23 η.

Elinando, 87-89.Este, Alfonso d’, vedi Alfonso I

d’Este.Este, Ippolito I, cardinale d’, 129.

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ι88 IN D ICE D EI N O M I

Faldella, G., 169 n, 172, 178 e n, 181.

Favati, G., i n n.Fenoglio, B., 172.Ferguson, G., 174 e n.Filelfo, F., 118.Finzi Ghisi, V., 71 n.Fishman, J. A., 174 e n.Flamenco, 16-ij.Fogazzaro, A., 170.Folengo, T., 169,171-73,178-79. Francescato, V., 58 n, 174 n, 175 n. Francesco di Vannozzo, 170. Freedman, A., 114 n, 115.Freud, S., 180.Froger, J., 53-56.Frye, N., 73 e n, 74.

Gadda, C. E., 169, 172, 173, 177-82, 183 n.

Garroni, E., 159.Gautier d’Arras, 12,13.Giacon, M., 87 n, 89 n.Giovanni Damasceno, 136 n. Giovenale, 118,119 e n.Goldoni, C., 170,171.Gombrich, E. H., 153-54, *59- Grabher, C., 87 n, 94 n.Grassi, C., 58 n.Greimas, A. J., 42.Gualteruzzi, C., 113.

Heilmann, L., 58 η.Heimann, P., 181 η.Hélinand de Froidmont, vedi Eli­

nando.Hjelmslev, L., 77.

Isaacs, S., 181 n.

Joos, M., 174 n, 175 n.Joyce, J., 173.Jung, C. G .,72 en , 73.

Kant, I., 182.Klein, M., 181 n.Klein, R., 136 n, 159.Kristeva, J., 41.

Lacan, J., 19.Lachmann, Κ., 64,6y, 68.Lai du Trot, 87.Landolfi, T., 179.Lazzerini, L., 173 e n.Leibniz, G. G., 140.Leonardo da Vinci, 131-58.

Leone X, papa, vedi Medici, Giovan­ni de’.

Lévi-Strauss, C., 42.Limentani, A., 16 n.Linati, C., 172.Lo Nigro, S., i n n.Lotman, Ju. M., 7-11, 20.

Machado, A., 57, 79 e n, 80-82, 84. Macri, O., 79 n, 80.Maggi, C. M., 171.Malaguzzi, A., 125.Manzoni, A., 172.Maria di Francia, 12,13.Marin, L., 133,141,159.Marti,M., i n η.Mastronardi, L., 172.Mauron, Ch., 78 e n.Medici, Giovanni de’, 123.Menéndez y Pelayo, M., 97 n. Mercuri, R., 162 n.Metford, J. C. J., 97 n, 98 n.Metz, C., 159.Migliorini, B., 177 n.Monteverdi, A., 87 n.Moravia, A., 172.Morley, S. G., 97 n.

Neilson, W. A., 87 n.Nelli, P., 117 n.Nicolò del Rosso, 170.Nobile Vigenze Opus, 171. Novellino, 110-13,170.

Odasi, Tifi, 171,180.Orazio, 118,119.

Paccagnella, I., 173 e n, 174 n. Panofsky, E., 75-77, 136, 140, 141,

159·Paoli, U.E., 177 n.Pasolini, P. P., 172,178.Passavanti, I., 87 e n.Pavese, C., 172.Pedretti, C., 143 n.Peirce, C. S., 45.Pessoa, F., 161-68.Petöfi, J. S., 23 η.Petrarca, F., n o .Pietro Alfonso, vedi Disciplina Cle-

ricalis.Pistofilo, B., 118.Porta, C., 170,171.

Rabelais, F., 172,173,178.Raimon Vidal, vedi Castia-gilos.

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Rambaldi, P. L., 117 n.Richter, J. P., 143 n, 145 n.Rivière, J., 181 n.Roscioni, G. C., 182 e n.Rousseau, J.-J., 46.Russo, L., 96 n.Ruzante, 170.

Sacchetti, F., 170-71.Sallenave, D., 159.Sansovino, F., 117-19.Saussure, F. de, 41,46.Scarano, N., 87 n.Schapiro, M., 159.Schefer, J.-L., 133 e n, 134,141,159.Scroffa, C., 170.Segre, C., n i n, 118 n, 122 n.Sessa, M., 113.Sklovskij, V., 96 n.Sommariva, G., 118-19.Sopetto, A., 118 n.Stegagno Picchio, L., 8 n.Strozzi, T. V., 118.

Tanzi, C. A., 171.Terracini, B., 42.Testori, G., 172,178.Trotti, A., 118.Trousson, R., 76 e n.

Uspenskij, B. A., 7 e n, 8 n, 11 n,136 n, 137-38,141,159.

Vega Carpio, Lope F. de, 97-115.Verdiglione, A., 45 n.Verga, G., 172.Vincenzo da Beauvais, 87.Vinciguerra, A., 117 e n, 119,170.Vogt, 66.

Weber, J. P., 78 e n.Weinreich, U., 58 e n, 174 e n.Wright, G. von, 92.

Zumthor, P., 75 e n, 77-78.

IN DICE D EI N OM I 189