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1 INDICE Introduzione pag. 7 Avvertenza 1 Il Karate-do, origini leggendarie e origini storiche pag. 11 La leggenda La storia: Okinawa e le Riokyu I Satsuma 2 Nascita del Karate pag. 16 L’influenza Cinese L’elaborazione del Karate ad Okinawa e la diversa influenza di Cina e Giappone I primi maestri: Kanga Sakugawa e Sokon Matsumura 3 L’emergere del Karate moderno pag. 20 Okinawa all’inizio dell’era moderna Il Karate entra nelle scuole 4 La scuola Shotokan pag. 23 Gichin Funakoshi Dalla “Mano di Cina” alla “Mano Vuota” alle arti del Budo La sconfitta del Giappone Le correnti dello Shotokan 5 Shigeru Egami pag. 29 L’efficacia La via di Heiho Il misticismo di Egami La malattia e la morte Il Toate 6 La diffusione del Karate nel mondo pag. 35 Giapponesi ed Americani L’Imperatore La diffusione in America La diffusione in Europa

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INDICE

Introduzione pag. 7

Avvertenza

1 Il Karate-do, origini leggendarie e origini storiche pag. 11

La leggenda

La storia: Okinawa e le Riokyu

I Satsuma

2 Nascita del Karate pag. 16

L’influenza Cinese

L’elaborazione del Karate ad Okinawa e la diversa influenza di Cina

e Giappone

I primi maestri: Kanga Sakugawa e Sokon Matsumura

3 L’emergere del Karate moderno pag. 20

Okinawa all’inizio dell’era moderna

Il Karate entra nelle scuole

4 La scuola Shotokan pag. 23

Gichin Funakoshi

Dalla “Mano di Cina” alla “Mano Vuota” alle arti del Budo

La sconfitta del Giappone

Le correnti dello Shotokan

5 Shigeru Egami pag. 29

L’efficacia

La via di Heiho

Il misticismo di Egami

La malattia e la morte

Il Toate

6 La diffusione del Karate nel mondo pag. 35

Giapponesi ed Americani

L’Imperatore

La diffusione in America

La diffusione in Europa

2

Tetsuji Murakami e lo Shotokai

La diffusione in Italia

7 Zen e arti marziali pag. 43

Il Medioevo Giapponese

Lo Zen che può essere descritto non è lo Zen

La meditazione Zazen

Dal Canone Pali discorso numero 10

La Vacuità

Divergenze

Il Karate come mezzo di realizzazione di sè

L’autodisciplina

Una diversa concezione

Tecniche di potenza e tecniche di saggezza

Muga ovvero il vuoto

La perfezione qui ed ora

8 Il Kata pag. 57

I Kata del Karate

Il Do o la via

Il Sakoku o il grande isolamento

Il Giappone fino al Sakoku

Esiti e fine del Sakoku

9 Il Budo pag. 67

Il Ki

L’Hara

Il successo delle discipline interiori e l’approccio scientifico

Cinema ed Arti Marziali

Per finire

Bibliografia pag. 80

Allegato A pag. 84

Allegato B pag. 89

3

Allegato C pag. 93

Allegato D pag. 95

Allegato E pag. 101

Allegato F pag. 104

Allegato G pag. 106

Allegato H pag. 108

4

5

“Nulla che valga la pena di imparare può essere insegnato” Josè Ortega y Gasset

6

7

Introduzione:

Il Karate è un arte marziale tradizionale giapponese, esso trae le

sue radici dalle più antiche arti marziali cinesi.

Questa arte è stata formalizzata e codificata nella prima metà del

ventesimo secolo, nel secondo dopoguerra si è affermata nel mondo,

esportata inizialmente dai soldati delle truppe di occupazione americane.

Il karate è così divenuto una delle arti orientali maggiormente diffuse, e

conta milioni di praticanti nel mondo.

Esistono oggi decine di diverse accezioni di Karate a seconda dello

stile, della tecnica, del maestro. Occorre prima di tutto fare una

importante distinzione, tra quello che viene definito Karate tradizionale e

il karate sportivo.

Il karate sportivo, essendo stato strutturato in modo da poter essere

valutato da arbitri e in maniera da non causare a chi lo pratica traumi o

lesioni pericolose, ha perso in parte o del tutto il significato iniziale

dell’insegnamento.

Diversamente il karate tradizionale è basato sul “colpo definitivo”

ovvero quello che mette fuori combattimento l’avversario nel più breve

tempo possibile.

Nel karate sportivo, la massima enfasi viene messa

nell’insegnamento di tecniche e colpi che possano essere facilmente

riconosciuti ed assegnati come punti dagli arbitri, per questo motivo la

tattica di un combattimento vincente potrebbe anche essere, quella di

subire diversi colpi, a patto di segnarne uno in più dell’avversario.

Una situazione del genere non è prefigurabile nel karate tradizionale,

questa infatti è un arte di difesa e contrattacco (e mai di attacco) nella quale

si è addestrati ad immaginare di lottare per la vita, subire un colpo potrebbe

essere enormemente penalizzante o mortale, il colpo che si attua deve

risultare altrettanto pericoloso per l’avversario, l’unica valutazione possibile

è l’efficacia, non possono evidentemente esistere gare di combattimento in

questa visione.

8

La differenza più evidente tra le due accezioni è quella che

intercorre nel progresso tecnico, infatti si può osservare che, mentre il

karate tradizionale consente al praticante una crescita armonica e lineare,

nel karate sportivo la crescita è parabolica e legata, come in ogni altro

sport, all’ età, allo stato fisico e all’allenamento dell’atleta.

Proprio questa differenza è centrale nell’osservazione del karate

tradizionale (non ci occuperemo se non marginalmente di quello

sportivo) da una prospettiva sociale, per effettuare questa osservazione si

sono identificati nella pratica delle arti marziali tradizionali, alcuni

concetti, intimamente legati alla cultura giapponese e alla storia del

Giappone, e si cercherà di compararli con concetti occidentali. In breve,

gli elementi identificati sono i seguenti:

KI – genericamente “spirito”, ma in una accezione molto più

complessa ed avvolgente della nostra (due giapponesi si saluteranno non

chiedendosi “come stai?” ma “com’è lo stato del tuo ki?” o faranno

osservazioni non sul tempo atmosferico ma sul ki del tempo

atmosferico)

DO – genericamente “via”, ma in una accezione di crescita

spirituale, essere nel DO per la cultura giapponese significa essere in

quello stato quasi mistico in cui un artista compie la sua opera o un atleta

ha una grande performance, lo stato psicofisico del danzatore mentre

danza è molto adatto per definire questo concetto, una meditazione in

movimento.

KATA – genericamente “forma” intesa come cerimonia per la

trasmissione di una conoscenza, sono kata ad esempio le forme perfette

ed immutabili della cerimonia del te. Secondo la definizione del

sociologo e maestro di karate Kenji Tokitsu: “Il kata implica un quadro

rigido, che definisce quello che si ricerca, il mondo interiore ed esterno

e, perciò stesso, il posto che si occupa in relazione agli altri”

9

BUDO o BUSHI-DO – genericamente la “via del guerriero”.

Secondo la definizione del sociologo e maestro di karate Kenji Tokitsu:

“un fenomeno culturale dato da un espressione fisica legata ad un

determinato stato d’animo e prodotto dalla cultura tradizionale

giapponese”. Comprende l’insieme delle arti marziali tradizionali.

HARA – Dan tien per i cinesi, si intende con questo termine il

“centro vitale” luogo dove risiede il KI, posto anatomicamente circa tre

dita sotto l’ombelico, dove dovrebbero acquietarsi le sensazioni,

spegnersi le ansie.

Dopo aver collegato il karate come arte marziale interna al Budo e alla

società che lo ha prodotto, cercherò di analizzare i motivi della la sua

espansione e del suo successo in occidente, particolarmente in

considerazione del fatto che oggi sono proprio le pratiche tradizionali

non competitive e meditative ad essere ricercate dal maggior numero di

persone, anche e soprattutto qui, dove la pratica sportiva è stata

maggiormente associata alla competizione

10

Avvertenza:

1. Vista la rilevante presenza di parole di origine straniera nel testo, si è

deciso di non applicare la codifica standard che le vorrebbe scritte in

corsivo, per salvaguardare la leggibilità del testo.

2. Non è stato possibile reperire una bibliografia strettamente

sociologica, l’argomento non è stato probabilmente trattato diffusamente

in sociologia, pure, molti dei testi presi in considerazione hanno un

taglio decisamente sociologico, come spero emergerà dalla mia

trattazione.

11

---------------------------------------------------------------------------------------

O Shariputra, la forma è vuoto / il vuoto è forma. / La forma altro non è

che vuoto, / il vuoto altro non è che forma." / "O Shariputra, tutto ciò che

esiste / è espressione del vuoto …

(Sutra del cuore, tradizione Zen Soto)

---------------------------------------------------------------------------------------

Il Karate-Do

1- Origini leggendarie e origini storiche

La leggenda:

Uno dei “koan1” del buddismo zen recita: “qual è il

motivo per cui il Primo Patriarca è venuto dall’ occidente?”.

Questo “koan” è da migliaia di anni fonte di speculazione

intellettuale e portatore di illuminazione agli adepti dello

Zen. Secondo una certa tradizione relativa alla genesi delle

arti marziali tradizionali giapponesi alcune cose sono

successe in oriente in seguito alla venuta in Cina del Primo

Patriarca2.

Quando si parla di Primo Patriarca nell’ottica del buddismo zen

(Ch’an3 in cinese) si intende la figura di Bodhidharma4. Bodhidharma

era un monaco, principe, appartenente alla casta guerriera degli Ksatriya,

originario di Sry Lanka, giunto in Cina intorno al ‘520 per diffondervi il

buddismo, come molti suoi correligionari in quel periodo.

1 frasi su cui meditare assegnate dal maestro all’ allievo nell’insegnamento dello Zen 2 E’ tipico della cultura giapponese cercare una genesi nel divino per ogni tipo di attività, non a caso i giapponesi chiamano il loro paese “casa degli dei” e considerano divine le origini della famiglia imperiale. 3 Si traduce come “meditazione” 4 Damo in cinese, Daruma in giapponese

12

A quel tempo l’imperatore era Liang Wu (501-557) della dinastia

Liang. Bodhidharma giunse in un primo tempo a Canton, dove Shaou

Yon, il governatore della città, che lo apprezzava, consigliò

all’imperatore i suoi insegnamenti. Sull’incontro tra Bodhidharma e

l’imperatore sono raccontati vari aneddoti, di fatto pare che il figlio del

cielo non gradisse la mancanza di rispetto e la durezza dei modi di

Bodhidharma e così, per toglierselo di torno, lo inviasse come priore al

tempio di Shaolin.

Arrivato a Shaolin, Bodhidharma impose una nuova regola, egli

trovava che i monaci, stremati dai digiuni e infiacchiti dalle lunghe ore

di immobilità dovute alla meditazione, non

avessero possibilità di raggiungere l’essenza

della dottrina del Budda, la “via di mezzo”.

La dottrina che Bodhidharma introdusse

a Shaolin comprendeva un addestramento

fisico improntato sulla respirazione. Lo scopo

era acquisire una buona forma fisica e

raggiungere l’unione di spirito e corpo. L’

Ekkinkyo, come si chiamò il metodo messo a

punto da Bodhidharma era basato sullo yoga, sull’osservazione degli

animali, e sulle arti di combattimento indiane e cinesi preesistenti, nelle

quali era stato educato in gioventù.

Per la prima volta le arti marziali venivano utilizzate allo scopo di

perseguire uno stato spirituale, fu il punto di partenza della dottrina Zen.

L’ Ekkinkyo conobbe da subito un ampia diffusione in Cina, in

seguito Shaolin fu distrutto e rifondato più volte, i monaci si dispersero e

l’aspetto marziale dell’ Ekkinkyo si accentuò per adeguarsi alla durezza

dei tempi. Dalla base dell’ Ekkinkyo si sviluppò il “Sao lin su kempo5”

una tecnica di combattimento a mani nude che si diffuse fino all’isola di

Okinawa, dando origine alle tecniche che sarebbero state formalizzate

nel Karate. Più tardi in Giappone, la pratica delle arti marziali come via

5 noto oggi con il nome di “Kung Fu”

13

al perfezionamento spirituale fu intrapresa dai ceti guerrieri dell’età

Tokugawa (1603-1868).

Non deve stupire questo accostamento tra religione e arti marziali,

esso è comune in Cina anche al taoismo e inoltre non mancano nella

storia dell’ occidente esempi di ordini monastici combattenti.

Fin qui l’incrocio di storia e leggenda che vuole dare alle arti

marziali tradizionali ed al Karate un impronta mitologica e intimamente

legata alla religione buddista e allo Zen in particolare.

La storia: Okinawa e le Ryukyu

Il Karate nasce ad Okinawa, la maggiore tra le isole dell’

arcipelago delle Ryukyu, dalla elaborazione di tecniche cinesi di lotta a

mani nude6.

Le isole giapponesi si popolarono nella preistoria attraverso il

passaggio delle migrazioni delle genti di cultura melanesiana che

partendo dall’Indonesia e passando per le Filippine, raggiunsero prima

Okinawa e poi il Giappone7.

Durante l’ epoca Yahoi (dal terzo secolo a.c. al terzo secolo d.c.) il

Giappone si evolve enormemente grazie all’influenza della Cina che lo

trascina nell’era del ferro, mentre Okinawa resta isolata, si formano così

due culture diverse, che marceranno a diversa velocità. Il Giappone

costituisce da subito uno stato feudale basato sul modello cinese mentre

l’evoluzione della società di Okinawa resta lenta e chiusa fino al secolo

nono, in questo periodo, con l’introduzione degli utensili in ferro dal

Giappone e una conseguente maggiore redditività dell’agricoltura, alcuni

capotribù si affermano in tre diverse regioni dell’isola, comincia il

periodo detto “delle tre montagne”.

6 Kenji Tokitsu – Storia del Karate – Oriental Press Milano 2005 7 E’ indubbio che il ceppo sia comune tra le genti delle isole Ryokyu e quelle delle isole maggiori del Giappone, inoltre la lingua di Okinawa è considerata dai linguisti nipponici come un dialetto del giapponese, formatosi dalla scissione della lingua comune avvenuta tra il terzo e quarto secolo. Cfr Tokitsu – Storia del Karate – Oriental press 2005

14

Attraverso gli scambi commerciali col Giappone l’isola comincia

ad evolversi culturalmente, viene introdotta la scrittura e si diffonde la

religione buddista. Nel quattordicesimo secolo cominciano gli scambi

con la Cina, nella seconda metà del milletrecento i capi dei tre regni in

cui Okinawa risultava divisa8 cercano di stabilire dei contatti con la

dinastia Ming. I rapporti commerciali vengono presto trasformati in

vassallaggio e dal 1372, a conferire il titolo ai re di Ryukyu è

l’imperatore cinese attraverso una ambasceria che si compone di

funzionari civili e militari, una tradizione che durerà ininterrottamente

fino al 1866.

Questa stretta relazione con la Cina sarà fondamentale per

l’apprendimento e la diffusione delle tecniche di lotta dalle quali si

svilupperà il Karate, si può supporre che l’ambasceria abbia avuto un

ruolo importante nella trasmissione dalla Cina dell’arte del

combattimento.

All’inizio del quindicesimo secolo Okinawa viene unificata sotto

un unico Re, inizia il dominio del clan Shò. Nel 1509 Shò Shin

organizza un potente stato centralizzato, insedia il governo nella città di

Shuri, dove costruisce il suo castello, ed estende il suo dominio alle isole

vicine.

In un iscrizione dell’edificio centrale del castello di Shuri, un

decalogo inciso nella pietra, afferma al punto 4: “il re si è fatto vestire di

magnifica seta, ha fatto decorare oggetti con oro e argento e ha raccolto

le armi per proteggere il proprio paese…”9.

Una testimonianza storica, tratta da un documento scritto da

naufraghi coreani che si intrattennero un anno nell’arcipelago, ci dice

come attorno al 1477 in Okinawa fosse un esercito numeroso e bene

armato che disponeva anche di qualche cannone in grado di lanciare

8 periodo detto delle tre montagne 9 Questo scioglie un dilemma: si riteneva infatti che il divieto di porto d’armi in Okinawa fosse stato disposto dopo l’invasione giapponese del 1609, ma l’iscrizione lascia intendere che sia antecedente di cento anni e imposto dal legittimo re. Cfr Tokitsu – Storia del Karate – Oriental press 2005

15

pietre, frutto del commercio con la Cina, mentre in Giappone polvere da

sparo e armi da fuoco arrivarono solo 70 anni più tardi introdotte dai

portoghesi.

Nel 1509 con l’ascesa al trono di Shò shin l’ isola e l’arcipelago

erano pacificati, l’esercito serviva a difendere la popolazione dalle

incursioni peraltro ormai sempre più rare dei Wakò, i pirati originari del

sud del Giappone che devastavano le coste Coreane e Cinesi arrivando a

volte fino a Ryukyu.

I Satsuma

Quando nel 1609 la signoria Giapponese dei Satsuma invade

Ryukyu l’esercito locale è quasi inesistente, il governo dell’isola non si

basa più sulle armi ma su di un dominio carismatico. Le cronache

dell’invasione riportano dati di una vittoria militare schiacciante. A

fronte di 531 morti tra gli isolani, solo 57 furono le perdite dei Satsuma.

I giapponesi, armati anche con fucili (sconosciuti o quasi ad Okinawa) si

trovarono di fronte un popolo disarmato e una nobiltà male armata e

disorganizzata.

Una certa tradizione vuole che gli abitanti si difendessero

valorosamente utilizzando il karate contro i giapponesi ma, una

immagine eroica del genere è lontana dalla realtà10.

Fino alla fine del diciannovesimo secolo Okinawa fu tenuta sotto

la doppia dominazione Cino Giapponese, i Satsuma lasciavano

mantenere il vassallaggio con la Cina per approfittare così di scambi

commerciali indiretti con il celeste impero, scambi che erano vietati

rigorosamente dallo Shogunato11.

10 in primo luogo perché il “Te” o “Okinawa-te” (ancora non veniva denominato Karate) non era all’epoca diffusamente praticato, ad eccezione che tra la nobiltà ed in segreto, in secondo luogo perché la dimensione di questo scontro fu tale che l’efficacia del Karate non avrebbe potuto svolgervi un ruolo importante. Cfr K. Tokitsu – Storia del Karate – Oriental Press Milano 2005 11 Vedi il paragrafo dedicato al Sakoku.

16

2 – Nascita del Karate

L’influenza cinese

Il Karate si vorrebbe nato dall’inventiva dei contadini per

difendersi a mani nude dagli oppressori armati, questa immagine però

non risulta avere un fondamento storico.

E’ nell’ analisi dell’ influenza della cultura cinese sull’isola che va

cercato il cuore della trasmissione delle tecniche attorno alle quali verrà

creato il karate durante la dominazione giapponese.

Secondo una tradizione comune a tutte le culture, le arti marziali

vengono trasmesse in modo esoterico, infatti la superiorità di una tecnica

era legata proprio alla sua segretezza, inoltre i praticanti in questo modo

erano protetti dall’ anonimato.

Secondo Kenji Tokitsu12 la cultura, anche quella marziale, non si

era sviluppata abbastanza a Ryukyu prima dei contatti con la Cina, le

prime forme di lotta a mano nuda si diffondono quindi a Okinawa

attraverso tre canali di contatto tra la società locale e i cinesi: I

viaggiatori venuti dalla Cina, i cinesi residenti nell’isola, gli abitanti di

Okinawa che fecero il viaggio in Cina e riportarono ciò che ivi avevano

appreso.

L’ambasceria che dal 1372 al 1866 si recò 23 volte in Okinawa per

la consacrazione dei Re locali fu certo uno dei canali maggiori, era

composta da personale civile e militare, si tratteneva diversi mesi

sull’isola ed era formata da diverse centinaia di persone, certamente si

occupava anche della divulgazione della cultura civile e marziale cinese

in Okinawa13.

Nel 1392 su richiesta del re Satto di Okinawa, i cinesi realizzarono

un insediamento stabile, fu fondato il villaggio di Kume, nella regione di

12 Kenji Tokitsu - storia del Karate - Oriental Press Milano 2005 13 il fatto che un kata praticato in alcuni stili di karate porti ancora oggi il nome di un noto capo delegazione, sembra avvalorare questa ipotesi. Cfr Tokitsu – Storia del Karate – Oriental press 2005

17

Naha, nel quale prese alloggio un gruppo di cinesi detto “le trentasei

famiglie”.

Questo gruppo, legato alle credenze confuciane e taoiste costituiva

una cerchia chiusa ma, essendo i suoi membri incaricati di redigere gli

scritti ufficiali e di favorire il processo di centralizzazione del potere,

aveva contatti continui ed intensi con la nobiltà di Okinawa.

Si ritiene che questi residenti coltivassero un arte di

combattimento, essa fu tramandata ad alcune famiglie nobili locali, la

cosa apparve evidente quando, la chiusura verso l’esterno di Kume e

delle trentasei famiglie si attenuò negli anni precedenti la “guerra

dell’oppio”14. E’ in questo periodo che l’arte di combattimento di kume

si rende palese, sotto il nome di Naha-te, l’appalesamento si fa completo

quando nel 1879 Okinawa viene integrata nello stato giapponese

moderno e una parte degli abitanti di Kume, che non rientra in Cina, si

integra con la popolazione locale.

Erano molti gli abitanti di Okinawa che facevano il viaggio in Cina

e vi risiedevano per qualche anno, certo è anche che alcuni di loro

furono addestrati militarmente, non vi è traccia però di una scuola di “te”

ad Okinawa prima di quella di Sokon Matsumura nata all’inizio del

diciannovesimo secolo, questo induce a pensare che i “viaggiatori”

abbiano rappresentato un canale secondario o comunque non immediato

nella elaborazione e divulgazione del karate.

L’ elaborazione del karate ad Okinawa e la diversa influenza di Cina e

Giappone

Le influenze successive di Cina e Giappone hanno avuto diverse

ripercussioni sulla formazione del karate ad Okinawa. La dominazione

cinese, cercata e voluta dai regnanti dell’isola per assicurarsi la

possibilità di sviluppare la cultura ed il commercio, portò in effetti un 14 Battaglia navale del 1841 con la quale la flotta di Lord Palmerston annesse Hong Kong alla corona britannica dando inizio alla decadenza del celeste impero. cfr. Cambridge university press - Storia del mondo moderno – Garzanti 1972

18

beneficio evidente, inoltre permise l’arrivo e la diffusione delle arti di

combattimento anche se in forma esoterica e non diffusa.

Diverso fu per la dominazione giapponese, essa fu instaurata con

la violenza e in breve spazzò via il preesistente ordine sociale per

riorganizzare la vita nell’isola secondo le esigenze dei Satsuma. Le

famiglie degli antichi nobili e dei vassalli dovettero fondersi negli altri

strati sociali e nel giro di poche generazioni divennero commercianti,

artigiani, contadini o pescatori, la diffusione dell’arte di combattimento

degli antichi vassalli quindi fu probabilmente il prodotto della mobilità

sociale di Okinawa seguito alla dominazione giapponese15.

I primi maestri: Kanga Sakugawa e Sokon Matsumura

Kanga Sakugawa è forse il più antico maestro di karate la cui

esistenza sia attestata, nato nel 1782, ci sono incertezze sull’anno della

morte, la sua esistenza è tramandata attraverso racconti leggendari che lo

dipingono come una persona dalla grande forza fisica, grande rettitudine

morale, e una buona dote di intelligenza pratica.

Sembra che la prima scuola di karate la cui trasmissione sia stata

organizzata con un metodo sistematico sia quella di Sokon Matsumura

(1809-1899) il quale ricevette probabilmente l’insegnamento di

Sakugawa e di un cinese chiamato Iwa. Matsumura apportò nuovo

slancio al karate di Okinawa introducendo elementi di provenienza varia,

anche sulla sua vita vengono raccontati aneddoti leggendari, uno dei

quali ci dice qualcosa sulla sua indole, pare infatti che egli avesse saputo

dominare un toro solo con la forza del suo sguardo16.

15 Possedere la pratica di questa arte fu a lungo per le famiglie di Okinawa il segno di antica nobiltà e fierezza, e questo forse fu il motivo del carattere clandestino ed esoterico della pratica e della trasmissione del karate antico. Cfr Tokitsu – Storia del Karate – Oriental press 2005 16 e la storia è parzialmente vera, in realtà Matsumura ricorse a quella che forse fu la prima applicazione del principio di Pavlov picchiando ferocemente per giorni il toro sul muso mentre questo era legato, finché al solo suo avvicinarsi esso fuggiva atterrito, solo allora lo affrontò libero ed in pubblico, questo gli valse grande considerazione anche quando, poco tempo dopo, egli svelò il suo segreto. Cfr Tokitsu – Storia del Karate – Oriental press 2005

19

Di Matsumura è il primo documento scritto a Okinawa

sull’addestramento alle arti marziali, una lettera autografa al suo allievo

Ryosei Kuwae dove il maestro espone il suo pensiero, dal testo si evince

che la base delle sue convinzioni e della sua morale era il

confucianesimo e che la sua pratica nel Budo ne era l’espressione.

Matsumura formò molti allievi, uno di questi Anko Itosu (1830-1915) ha

avuto forse un ruolo fondamentale per la diffusione del karate.

20

3 L’emergere del karate moderno

Okinawa all’inizio dell’era moderna

Il Giappone esce dal feudalesimo nel 1867, con la fine della

dominazione dello Shogun e il ritorno al potere imperiale, comincia uno

sforzo gigantesco per la modernizzazione e l’industrializzazione, nonché

per la costruzione di un moderno apparato militare di stampo

occidentale. Nel 1879 i feudatari perdono i loro privilegi compresa la

famiglia reale di Ryukyu, l’isola e l’arcipelago diventano da ora il

distretto di Okinawa.

Lo sforzo dei giapponesi in pochi anni da risultati sorprendenti, nel

1894 il potente e moderno esercito giapponese sconfigge la Cina17 il

paese dove si è originata la cultura giapponese e con il quale Okinawa ha

legami ancora più stretti, ma la corsa giapponese è appena iniziata, nel

1904-5 esso sconfigge anche la Russia attaccando a sorpresa la flotta

russa a Port Arthur18.

Il paese è ormai dotato di infrastrutture, di un sistema educativo e

di un amministrazione moderni e fortemente centralizzati. Per questo

motivo questa epoca segna per gli abitanti di Okinawa un periodo di

ridefinizione segnato dalla volontà di affermare la propria appartenenza

al Giappone prendendo le distanze dalla cultura cinese fino ad allora

predominante.

In questo periodo anche il Te di Okinawa cerca una sua

definizione nella cultura giapponese, definizione che nel tempo verrà,

con l’accettazione del karate tra le arti del Budo.

17 Dopo una breve e vittoriosa guerra il Giappone con il trattato di Shimonoseki dell’aprile del 1895 costringe la Cina a cedere Formosa e la penisola di Liaotung con Port Arthur, che poi cederà momentaneamente alla Russia, e a riconoscere inoltre l’indipendenza della Corea. cfr. Cambridge university press - Storia del mondo moderno – Garzanti 1972 18 In quindici mesi i giapponesi battono l’esercito e la flotta russa in tutti gli scontri e mettendo in rilievo l’inconsistenza dell’immenso impero dello Zar spalancano le porte alla prima rivoluzione russa del 1905. cfr. Cambridge university press - Storia del mondo moderno – Garzanti 1972

21

Il karate entra nelle scuole

Nel 1901 il maestro Anko Itosu riesce a fare adottare il karate

come disciplina insegnata alle scuole elementari di Okinawa, tre anni

dopo il Giappone si impegnerà nella guerra contro la Russia, siamo nel

pieno di uno sforzo eccezionale volto all’industrializzazione e al

rafforzamento militare, si pensa così di iniziare a forgiare fin

dall’infanzia lo spirito combattivo dei giapponesi, nel 1905 il karate

entra anche al liceo e all’istituto magistrale di Okinawa. Il karate che

entra a scuola è stato modificato da Itosu per poter essere insegnato da

una sola persona a gruppi numerosi, la tecnica allora adottata, così

diversa dall’insegnamento dell’epoca precedente, esoterico e

personalizzato, è ripresa dalle tecniche di addestramento degli eserciti

occidentali19.

In un testo del 1908 Itosu lascia il proprio decalogo per gli

istruttori di karate nelle scuole, lasciando intendere chiaramente cosa lo

spinga a diffondere la sua arte: “… se insegneremo il karate all’istituto

magistrale seguendo queste dieci istruzioni formeremo degli istruttori

che insegneranno in seguito nelle scuole delle diverse regioni … penso

che il risultato sarà evidente da qui ad una decina di anni non solo nella

nostra provincia ma in tutto il paese e che saremo così utili alla società

militare del nostro paese.”

L’entrata del karate nella scuola segna anche l’irrigidimento e la

formalizzazione di un arte che fino ad ora era stata in continua

evoluzione, ora la cosa più importante appariva il rispetto della

tradizione acquisita, a partire dagli anni venti il Karate sarà presentato

come arte marziale di Okinawa nelle isole principali del Giappone.

Tra i seguaci di Itosu, Gichin Funakoshi e Kenwa Mabuni, sono

coloro che porteranno il karate in Giappone, Funakoshi in particolare

raggiungerà una fama tale da essere considerato a tutt’oggi il padre del

Karate in tutto il mondo. 19 Dove un maestro grida un comando che viene eseguito da tutti gli allievi, è il metodo di insegnamento usato tuttora.

22

Il karate non è solo lo Shotokan del maestro Funakoshi ma per

focalizzare il nostro percorso ci occuperemo prima dello shotokan e poi

dello shotokai dove termineremo la parte storica.

23

4 La scuola Shotokan

Gichin Funakoshi

G. Funakoshi è considerato da molti il creatore del karate

moderno, in realtà in questi termini si deve molto di più al suo maestro

A. Itosu, i meriti di Funakoshi sono invece legati alla diffusione di

questa arte nelle isole maggiori del Giappone da cui si è poi diffusa nel

mondo. Funakoshi comincia la pratica del

karate a 12 anni con il maestro Anko

Asato, allievo di Matsumura, nato a

Okinawa nel 1868, primo anno dell’era

della modernizzazione Meiji, appartiene ad

una famiglia di funzionari molto

tradizionalista20.

Funakoshi studia duramente il karate

sotto Asato, di notte, all’aperto, nelle sue

memorie descrive allenamenti massacranti , il suo maestro come

inflessibile.

A 21 anni Funakoshi diviene insegnante elementare a Naha, questo

sarà un tratto peculiare per lui, in quanto spesso sarà per i suoi allievi un

maestro di vita oltre che di arti marziali. All’inizio della sua carriera di

insegnante elementare Funakoshi conosce Itosu e seguendo il consiglio

del suo maestro comincia a praticare anche con lui, soprattutto per

apprendere la sua tecnica di divulgazione.

E’ nel 1921 che avviene la svolta per l’arte di Okinawa, in

occasione di una visita del principe imperiale in viaggio verso l’Europa

viene organizzata una dimostrazione di karate, Funakoshi è incaricato di

dirigere gli allievi, un anno dopo egli viene inviato a Tokyo per dare

20 Al punto (su insistenza di suo padre) da rinunciare agli studi di medicina per il rifiuto di tagliare l’ acconciatura a crocchia distintiva della classe dei samurai. Cfr G. Funakoshi “Karate do, il mio stile di vita” Mediterranee Roma 2002.

24

dimostrazione all’interno dell’esposizione nazionale di educazione

fisica.

Dopo la dimostrazione Funakoshi vorrebbe tornare ad Okinawa

ma J. Kano, lo storico fondatore del Judo lo convince a restare per

diffondere la sua arte a “Hondo”21. Kano in Giappone è considerato

all’epoca un dio delle arti marziali, la fondazione del Judo in

contrapposizione al preesistente jujitsu, sarà il tema del primo splendido

film di Akira Kurosawa “Sugata Sanshiro” realizzato tra il quarantatrè

ed il quarantacinque22.

L’invito di Kano, che ricopre un ruolo di funzionario al ministero

dell’istruzione, non può essere rifiutato e così Funakoshi si trasferisce a

Tokyo dove, con grandi sacrifici trova un posto da portinaio in uno

studentato e si dedica all’insegnamento del karate, per i primi anni il suo

sforzo non sembra dare frutti. Il cambiamento avviene con l’apertura dei

primi club di Karate nelle università, e proprio il sistema gerarchico

tipico degli studenti universitari23 diventerà caratteristico del karate.

Dalla “mano di Cina” alla “mano vuota” alle arti del budo

Tra il ‘22 e il ’24 Funakoshi scrive due libri: “Ryukyu Kempo

Karate” ovvero “il karate, pugilato di Ryukyu” e “Rentan goshin Karate

jutsu” ovvero “Tecnica del Karate, rafforzamento energetico e

autodifesa”. In quest’epoca kara-te significa “mano di Cina” infatti Kara

si scrive con l’ideogramma che significa Cina, verso il 1930, con il

montare del nazionalismo Funakoshi capisce che questo nome è un

ostacolo comincia a scrivere Kara con l’ideogramma usato per vuoto,

21 Nome giapponese dell’isola maggiore. 22 Questo film tratta i temi del passaggio delle arti marziali tradizionali da semplici tecniche di

combattimento a sistema di crescita interiore, dove lo spirito dell’adepto, attraverso

l’apprendimento della compassione e l’abbandono dell’ego trascende la forza e la tecnica

realizzando se stesso 23 E comune in Giappone nei rapporti sociali. Cfr Tokitsu – Storia del Karate – Oriental press 2005

25

giustificherà questa scelta con un passo del sutra del cuore, tipico

dell’insegnamento buddista zen soto:

Shiki soku ze ku

ku soku ze shiki

ovvero: “ … tutto ciò che esiste è espressione del vuoto … ”. Ed in

effetti lo stato di vuoto è quello ricercato dalle arti marziali del budo,

Karate per Funakoshi non vuole significare tanto “lotta a mani nude”

quanto “tecnica del vuoto”, anche in considerazione del significato

dell’ideogramma “te” che oltre che per “mano” può essere usato anche

per “tecnica”. Dopo di ciò Funakoshi aggiunge alla parola Karate il

suffisso “do” inteso come via, nella stessa accezione delle altre

discipline tradizionali del Budo, per significare la volontà di integrare la

cultura del Budo in modo da innalzare la qualità del Karate24.

Questa la descrizione di “Kara” per Funakoshi: “Come la levigata

superficie di uno specchio riflette qualunque cosa le stia di fronte e una

quieta valle riecheggia anche i più piccoli suoni, allo stesso modo il

praticante di Karate deve rendere vuota la sua mente di egoismo e

debolezza, nello sforzo di reagire adeguatamente in qualunque

circostanza.” Per queste sue scelte egli riceve critiche durissime, specie

dai vecchi praticanti di Okinawa, ma in capo a pochi anni il significato

imposto da Funakoshi è universalmente accettato.

Nel 1935 Funakoshi scrive “Karate-do Kyohan” (testo di

insegnamento del Karate-do) e tutto sembra andare per il meglio, nel

1938 i suoi allievi cominciano la costruzione del primo Dojo che

chiameranno Shotokan25. Shotokan sarà da allora il nome designato

anche per identificare la scuola del maestro Funakoshi, a questo punto

della sua vita egli ha 70 anni, stabilisce un sistema di Dan e Kyu per

24 Cfr Tokitsu – Storia del Karate – Oriental press 2005 25 “La casa nel fruscio della pineta” utilizzando lo pseudonimo di poeta e calligrafo di Funakoshi – Shoto – ovvero il fruscio dei pini.

26

designare i gradi degli allievi26 e struttura i corsi e l’insegnamento nelle

università mentre delega la responsabilità del dojo Shotokan al terzo

figlio, Yoshitaka. Yoshitaka prende l’iniziativa di introdurre nella pratica

l’esercizio del combattimento libero, cosa che il padre non accetta di

buon grado, tra i due si accentua il divario sull’interpretazione del Karate

sia dal punto di vista tecnico che da quello morale.

Gichin Funakoshi viene ricordato come una persona estremamente

mite e riflessiva, sulla sua mitezza sono raccontati diversi aneddoti che

ci dicono come egli intendesse l’arte del Karate, uno dei suoi detti più

famosi è altrettanto illuminante “Karate ni sente nashi” ovvero “il karate

non comincia mai con un attacco27” è il secondo dei venti punti sul

Karate lasciati da Funakoshi. Egli è contrario anche all’aspetto sportivo

del karate, temendo che questo possa trascinare l’adepto fuori strada,

dice: “nel Karate come budo il combattimento significa combattimento a

morte, la boxe ad esempio è stata elaborata come sport, eliminando le

tecniche pericolose … fare il karate come competizione sportiva vi farà

deviare dalla via”.

La sconfitta del Giappone

E’ il 1945, il dojo Shotokan brucia assieme al Giappone sotto i

bombardamenti americani, Funakoshi lascia Tokyo per raggiungere la

moglie rifugiata nell’isola di Oità, Yoshitaka si ammala gravemente, due

anni dopo sia la moglie che il figlio muoiono, tutto sembra finito.

Funakoshi a 80 anni ricomincia da capo, torna a Tokyo per

rifondare la scuola Shotokan, attorno a lui si riuniscono gli antichi allievi

sopravvissuti alla guerra, viene costituita la J.K.A. Japan Karate

Association, Funakoshi tiene le redini ferme sul modo e sul significato

della pratica ma alla sua morte a 89 anni nel 1957 le contraddizioni

esplodono.

26 Mutuandolo per la verità dal Judo. 27 O anche secondo altri “il pugno che non colpisce per primo” cfr. Shigeru Egami “La via del Karate” Oriental Press Milano 2005

27

Le correnti dello Shotokan

Dopo la morte del Maestro Funakoshi la J.K.A. si scinde in tre

gruppi, uno mantiene la denominazione JKA, un altro prenderà il nome

di Shotokai28, il terzo è il gruppo universitario. La divisione

apparentemente avviene per dissidi nati nell’organizzazione dei funerali

del maestro ma in realtà dietro c’è la diversa visione del karate da parte

dei leader di questi gruppi.

La JKA

La JKA è diretta da ex allievi dell’università Takushoku29, è la

corrente dello Shotokan più conosciuta al di fuori del Giappone, ha

sviluppato uno stile unificato con competizioni di kata e di

combattimento libero.

I gruppi universitari

Esistono varie correnti interne ai gruppi universitari giapponesi,

l’insegnamento impartito qui è quello più simile allo shotokan del

Maestro Funakoshi con l’inserimento però del combattimento libero stile

JKA.

Lo Shotokai

Oggi shotokai è considerato uno stile indipendente dallo shotokan

ma in passato era l’associazione degli adepti dello shotokan, dopo la

divisione lo shotokai è diretto da Shigeru Egami, il migliore tra gli

allievi di G. Funakoshi. Egami, pur rispettando le idee di Funakoshi, ha

trasformato il suo karate in maniera considerevole, la sua ricerca, ha

28 Associazione dello shoto 29 Di cui si conosceva la tendenza nazionalista e di estrema destra cfr. Tokitsu – Storia del Karate – Oriental Press Milano 2005

28

fatto si che oggi egli sia considerato il capostipite dello stile di karate

Shotokai.

Da questo momento abbandoniamo ogni altra scuola e corrente di

karate per concentrarci sullo sviluppo e sulla diffusione dello shotokai in

Europa e in Italia, per far questo occorre analizzare la figura del Maestro

Shigeru Egami.

29

5 Shigeru Egami

Shigeru Egami nasce a Kyushu nel 1912,

inizia la sua attività di karateka dopo il suo arrivo

a Tokyo, dove frequenta i corsi di commercio

all’università Waseda, proprio qui conosce

Funakoshi, del quale sarà il miglior allievo e al

quale resterà fedele tutta la vita, tanto che, dopo la

morte di Funakoshi, la responsabilità del dojo

Shotokan sarà sua con il benestare della famiglia. Dopo la morte di

Funakoshi, Egami approfondisce con passione il Karate che egli gli ha

insegnato, nel corso della sua ricerca dapprima mette in discussione

l’efficacia delle tecniche, quella dell’efficacia diviene presto un

ossessione.

L’efficacia

Egami si getta in uno studio comparato sull’efficacia dello “tzuki”

il pugno, nelle varie arti marziali e sportive, la sua osservazione del fatto

che in generale le persone che non sono state addestrate in nessuna arte

di combattimento hanno un pugno molto penetrante lo costringe a

riflettere. Questa riflessione, unita anche al ricordo del Karate di

Funakoshi (quello che possedeva più ancora che quello che insegnava)

lo portano a ridefinire tutto, ora il Karate di Egami, lo Shotokai, diviene

fluido e decontratto, e queste resteranno fino a oggi le peculiarità di

questo stile.

La via di Heiho

Anche da un punto di vista filosofico Egami si impegna a fondo

per dare una definizione della sua disciplina, la via del karate di Egami

sfocia in un “metodo di pace” detto “Heiho” che affonda le proprie

30

radici nella cultura giapponese antica. Il Heiho, come il Budo, non è una

semplice arte di combattimento, entrambe mirano alla formazione

dell’uomo partendo da una pratica di tipo marziale. La nozione di Heiho

è precedente a quella di Budo, mentre il Budo nell’accezione di cui

sopra è un concetto relativo alle arti marziali moderne, Heiho è un

concetto antico, esso non viene sviluppato nell’antichità perché viene

considerato solo come una possibilità, una sublimazione delle arti

guerriere in arti di pace e destinato a pochi30.

Occorre un esempio: Miyamoto Musashi31, uno dei più grandi

maestri di spada del XVII secolo, nella prima parte della sua vita uccise

circa sessanta persone in duello, ma poi, evolvendo sempre più nella sua

arte riusciva a dominare i suoi avversari senza colpirli, spesso senza

muoversi, la perfezione della postura della sua guardia e la saldezza del

suo spirito inducevano nell’avversario una seria riflessione sulla propria

tecnica e sul proprio essere e lo costringevano alla resa.

Si tratta di una scoperta importante nell’arte della scherma perché

anziché uccidere, la spada poteva condurre l’uomo alla ricerca del

significato della propria vita, questa idea è presente nella nozione di

Heiho e impregna profondamente la concezione delle arti marziali dei

guerrieri giapponesi del periodo Edo.

Il misticismo di Egami

Nella ultima parte della sua vita Egami si orienta verso la ricerca

energetica e la comunicazione interpersonale e orienta il proprio karate

verso il misticismo. Due personalità del mondo delle arti marziali sono

molto importanti e lo influenzeranno nella sua ricerca, Moriei Ueshiba, il

fondatore dell’ Aikido e Shoyo Inoue, fondatore del Shinwa–taido. 30 cfr. Tokitsu – Storia del Karate – Oriental Press Milano 2005 31 Musashi è considerato il più grande schermitore di tutti i tempi, personaggio molto particolare, descritto come un disadattato e che noi oggi definiremmo un assassino psicopatico, pure alla fine della sua vita eccelleva in tutte le arti, e particolarmente nella pittura e nella poesia. Fondò una sua scuola di scherma in cui si utilizzano contemporaneamente due spade, soleva dire infatti che è inutile morire con una spada ancora nel fodero. Ha lasciato un trattato di arte della spada: Miyamoto Musashi - il Libro dei cinque anelli – Mondatori Milano 2004, poi si è ritirato in un monastero, finendo i suoi giorni da monaco Zen.

31

Anche essi danno alle loro arti marziali un impronta mistica, Ueshiba

dice “il fondamento dell’ Aikido è l’amore” e Inoue avverte che, nella

pratica, “occorre captare l’energia unificante dell’universo”.

Due affermazioni che nell’accezione in cui sono fatte hanno

praticamente lo stesso significato, lo stesso della pratica di Heiho per

Egami.

La malattia e la morte

Dopo i quarant’anni, lo stato di salute di Egami si aggrava, egli

nonostante un fisico solidissimo non ha mai avuto buona salute essendo

malato di tubercolosi dall’età di 20 anni, dopo il 1956 subisce alcuni

interventi chirurgici per l’asportazione dello stomaco, ha serie difficoltà

a nutrirsi, si riduce a soli 37 chili, rischia di non poter mai più dirigere

gli allenamenti, comincia ad interrogarsi sul significato di questo,

scrive32: “… come potrò essere un maestro di arti

marziali senza potermi muovere? Ma allora

ricordai le altre parole del Maestro Funakoshi:

“l'allenamento nel Karate deve essere quello

praticabile da tutti, dai vecchi come dai giovani,

dalle donne, dai bambini e dagli uomini”. Con

queste parole in mente presi la decisione di

vedere se mi fosse possibile praticare anche se mi

trovavo in pessime condizioni fisiche. I risultati furono rassicuranti e

trovai che mi era possibile praticare grazie all'oculata scelta di certi

metodi. Avendo successo decisi di votare il resto della mia vita alla

pratica del Karate”.

Queste esperienze creano in lui un attitudine all’introspezione e

orientano l’ultima parte della sua ricerca nel karate, particolarmente

dopo un arresto cardiaco che lo fa “morire” per qualche secondo.

32 cfr. Shigeru Egami “La via del Karate” Oriental Press Milano 2005

32

Di questo scrive: “Una volta sono morto. Sono già trascorsi più di

tre anni da allora. Si è trattato di un attimo, forse di una decina di

secondi. Ciò che ho capito in seguito è che si è trattato di una specie di

attacco cardiaco.

In quel fuggevole istante ho fatto un'esperienza straordinaria e

preziosa. Le condizioni erano quelle di un uomo di fronte alla morte.

Indicibile dolore, sofferenza, malinconia … e poi afflizione, paura e

angoscia messe insieme sì da diventare una cosa acuta, penetrante.

La partecipazione emotiva fu pressoché assoluta, io che avevo

sempre ostentato un abituale stato di calma. Anche la gioia di quando

ritornai alla vita fu straordinaria: vedevo tutto splendere, fu

un'impressione reale, fu la felicità di sentire la vita. Fu l'acme del

piacere, tanto che era come se avessi dovuto parlarne con tutti. È

probabile che estasi sia il termine più adeguato per questa esperienza che

mi fu dato di fare nell'arco di dieci o venti minuti, poiché ho provato di

persona la dignità nonché la gioia di vivere.

Torniamo a quella decina di minuti. L'amicizia delle persone

intorno, i mutamenti dello spirito e poi il prodigio dello scambio tra gli

esseri, tra gli animi, tra i corpi: non sono sicuro di essere in grado di

raccontare quel che mi fu concesso di apprendere.

L'uomo non è fatto per vivere da solo; sostenuto da molti,

similmente alla maglia di una fitta rete vive in relazione agli altri,

attraverso lo scambio con gli altri. Ecco ciò che compresi”.

Dopo di questo Egami vive per altri 15 anni, poi, durante una

sessione di allenamento per istruttori il suo stato si aggrava, morirà nel

1981 all’età di 68 anni.

Il “Toate”

Shigeru Egami è divenuto famoso anche per una particolarità, pare

fosse in grado di praticare il Toate ovvero il colpo a distanza, con il

quale era in grado di proiettare un avversario senza toccarlo.

33

L’esecuzione di questo colpo da parte del maestro è stata osservata e

descritta da diverse persone. Restando ferma l’impossibilità di accettare

un evento del genere dal punto di vista scientifico, pure si tenta di

descriverlo seguendo le osservazioni di Kenji Tokitsu al riguardo33.

Tokitsu si chiede il primo luogo in che misura la tecnica di Toate è

efficace, ma chiude subito l’argomento in quanto Egami, l’unico

considerato in grado di praticarla, è morto.

Tokitsu passa allora a descrivere la cosa che più si avvicina al

toate del maestro Egami, ovvero l’allenamento che si pratica nello

Shintaido34. La pratica del Toate nello Shintaido avviene attraverso la

ripetizione fino allo sfinimento di movimenti e cadenze semplici e

perfettamente memorizzate, questi esercizi mirano a sopprimere

temporaneamente i comandi volontari, le percezioni e le reazioni del

corpo, un esaurimento della parte cosciente causato dallo sfinimento

fisico, aumentano così le capacità intuitive e la sensibilità agli stimoli

ricevuti dagli altri. A questo punto si praticano esercizi di coppia in cui

si cerca di fondersi con il partner, con la sua fisicità, con la sua volontà,

è a questo punto che il corpo reagisce automaticamente alla minima

intenzione dell’altro.Quando i due partner sono lontani di qualche metro,

se l’uno fa un movimento, con il pensiero di fondersi con l’altro,

effettuando un’estensione volontaria e spontanea del proprio corpo nel

suo spirito, l’altro, come colpito da un energia invisibile sarà proiettato

indietro, non sentirà il dolore che avrebbe se fosse colpito da un pugno

ma la soddisfacente e benefica sensazione di effettuare un incontro e una

fusione energetica con il partner.

Tokitsu riporta solo una descrizione di queste tecniche ma, alla

fine, non considera questa pratica dello Shintaido completamente affine

con il Toate di Egami35, in effetti egli non effettuava preparazione e

utilizzava il Toate in situazioni di combattimento.

33 Tokitsu – Storia del karate – Oriental Press Milano 2005 34 Corrente dello Shotokai che segue l’aspetto mistico del karate di Egami. 35 Riguardo alle pratiche dello Shintaido Tokitsu (pur non considerando lo Shintaido una setta) osserva che esso utilizza alcune tecniche tipiche anche delle sette, che potrebbero far perdere al praticante la distanza critica rispetto a quello che fa.

34

Non resta molto da dire, che il Toate di Egami fosse o no un fatto

reale il suo segreto riposa con lui e nessuno dei suoi discepoli sembra

poterlo riprodurre.

35

6 La diffusione del Karate nel Mondo

Dopo il 1945 il Giappone è occupato dall’esercito Americano, la

pratica delle arti marziali viene vietata per 2 anni, poi lentamente prima

il karate e il Judo, per la loro somiglianza con il pugilato e la lotta libera,

e poi anche le altre discipline, vengono reintrodotte. I più grandi

estimatori del Karate, nonché coloro che contribuiranno maggiormente

in un primo tempo a diffonderlo nel mondo saranno proprio i soldati

americani delle truppe di occupazione.

Molti maestri di karate ebbero contatti con le truppe di

occupazione americane ed accettarono di insegnare loro la propria arte,

lo stesso Gichin Funakoshi racconta le proprie esperienze al riguardo

nella sua biografia36:

“… con la fine della guerra venne l’occupazione, ed allora un certo

numero di soldati americani cominciò a farmi visita ed a chiedermi di

impartire loro lezioni di karate … un giorno fui portato … all’ hotel

Imperial per incontrare un editore americano … il mio principale ricordo

… fu la meraviglia di quell’americano per la mia età piuttosto avanzata

… mi disse … che in America il karate-do sarebbe stato apprezzato

come una chiave per la longevità. In seguito mi fu chiesto di insegnare

karate agli ufficiali incaricati all’educazione fisica nella base della US

air Force di Tachikawa, e un po’ più tardi mi fu chiesto di dimostrare un

kata per il comandante della base di Kisarazu, nella prefettura di Chiba.

Dopo che fu firmato il trattato di pace tra il Giappone e gli Stati Uniti, il

Karate si fece pacificamente strada nel continente americano. Ciò

accadde quando mi fu chiesto da un alto ufficiale americano di fare un

viaggio di tre mesi nelle basi continentali, dimostrando il karate-do agli

aviatori americani … invece di dimostrare dinanzi a piccoli gruppi di

spettatori, ora eseguivamo i nostri kata di fronte a folte platee di

interessati aviatori americani … così il karate-do che nella mia

fanciullezza fu, per Okinawa un attività clandestina a carattere locale,

36 Gichin Funakoshi “Karate do, il mio stile di vita” Mediterranee, Roma 2002

36

era divenuto finalmente un arte marziale tradizionale giapponese, ed ora

aveva messo le ali e volava in America … ed è conosciuto in tutto il

mondo. Mentre scrivo queste note37, sto ricevendo richieste di

informazioni, ed anche per tenere lezioni, in ogni parte del mondo.

Ancora sbalordito del numero di persone che hanno sentito parlare del

Karate, mi accorgo ora che una volta che questo libro sarà pronto dovrò

iniziare un altro progetto38, quello di mandare esperti di karate

giapponesi all’estero.39”

Non ne avrà il tempo, morirà pochi mesi dopo aver dato alle

stampe questo libro.

Giapponesi ed Americani

Quello che può apparire strano è che questi maestri, spesso

samurai, spesso nazionalisti, a volte reduci, accettino di avere a che fare

con l’occupante americano, non dimentichiamo infatti che la guerra

contro gli americani era stata terribile40 e si era poi conclusa con uno

degli eventi più spaventosi che l’umanità abbia conosciuto, le esplosioni

nucleari su Hiroshima e Nagasaki.

Per spiegare questo, ricorro alle considerazioni di Ruth Benedict

sulla resa giapponese, fatte nel suo famoso studio antropologico “Il

crisantemo e la spada”41 commissionato dall’alto comando militare

americano come manuale per le truppe di occupazione.

37 settembre 1956 38 ha ora 89 anni 39 G. Funakoshi “Karate do, il mio stile di vita” Mediterranee Roma 2002 40 Tra l’altro durante lo sbarco americano ad Okinawa, patria del karate, la popolazione civile, convinta che gli invasori non avrebbero avuto pietà, dette il via ad un incredibile suicidio di massa nel quale circa duemila persone si tolsero la vita, perlopiù gettandosi dalle alte scogliere 41 Ruth Benedict, Il crisantemo e la spada Dedalo Bari 1968

37

L’Imperatore

La chiave della resa nipponica per la Benedict, è incentrata sulla

particolare e complessa struttura sociale del Giappone, ed in specie, sul

ruolo in essa giocato dall’Imperatore.

A lungo, durante i piani per l’occupazione si era discusso tra gli

americani come trattare la figura dell’imperatore.

Inizialmente prevaleva chi chiedeva un processo e una

conseguente condanna a morte per i crimini commessi in suo nome

dall’esercito Giapponese, anche in considerazione del fatto che

l’imperatore era in quegli ambienti considerato come un bamboccio in

mano alle alte sfere dell’esercito42. Poi, anche grazie agli studi della

Benedict, si capì che, benché nella sfera decisionale l’imperatore fosse

probabilmente in mano ad una oligarchia militare, pure l’esercito e la

popolazione avrebbero obbedito ciecamente ad ogni suo comando,

avrebbero lottato con sole canne di bambù contro i mitra e allo stesso

modo si sarebbero arresi come un sol uomo se l’imperatore l’avesse

chiesto loro, occorreva allora rispettare Hiro Ito, il beneficio sarebbe

stato immenso.

Illuminante al proposito il ricordo del grande regista Akira

Kurosawa (esperto di Kendo, la via della spada giapponese), nella sua

biografia “l’ultimo samurai”:

“Il 15 agosto del 1945 fummo tutti convocati nello studio per

ascoltare una dichiarazione capitale alla radio:

l’imperatore in persona doveva parlare via

etere all’intera nazione. Non dimenticherò mai

la scena che vidi quel giorno, camminando per

le strade. Sul tragitto da Soshigaya agli studi,

a Minuta, la gente per le strade sembrava già

42 così come la storia aveva insegnato fossero stati per centinaia di anni gli imperatori giapponesi nelle mani dello Shogun

38

pronta per la cosiddetta “onorata morte dei cento milioni43” c’era un

atmosfera di tensione e panico. Alcuni negozianti avevano tolto dal

fodero le loro spade giapponesi e stavano seduti a fissarne la lama.

Quando rifeci la stessa strada per tornare a casa dopo il proclama,

la scena era però completamente diversa. Nelle strade commerciali la

gente era tornata allegramente al lavoro, come se si preparasse alla

vigilia di una festa popolare.

Non so se questo comportamento sia rappresentativo della capacità

di adattamento del popolo giapponese o della sua imbecillità. In ogni

caso devo riconoscere che nella personalità giapponese esistono

entrambe le sfaccettature. Esistono anche nella mia. Se l’imperatore non

avesse pronunciato il discorso nel quale ordinava ai giapponesi di cedere

le armi, se in quel discorso avesse fatto appello alla cosiddetta “onorata

morte dei cento milioni” la gente di quella strada probabilmente avrebbe

fatto come le si diceva, si sarebbe suicidata. E probabilmente io avrei

fatto lo stesso. Per i giapponesi l’affermazione di se è immorale, il

sacrificio della persona è la scelta più sensata che si possa fare nella vita.

Eravamo abituati a quell’insegnamento e non avevamo mai pensato a

metterlo in dubbio.”

Stupirà meno, alla luce di questo, il fatto che le strade del

Giappone fossero da subito un luogo sicuro per gli americani occupanti.

Sollevati di ogni obbligo morale alla vendetta, dall’ordine

dell’imperatore, i giapponesi non furono per gli americani fonte di

preoccupazione44 e in breve tempo, i rapporti tra occupanti ed occupati,

forse anche grazie alla politica rispettosa degli americani, fiorirono45.

43 Così era detta l’opzione di suicidio collettivo che a lungo i Giapponesi pensarono di praticare pur di non arrendersi 44 cfr Ruth Benedict – Il Crisantemo e la spada – Dedalo Bari 1968 pagg. 144-146 45 In un primo tempo, quando gli Americani imposero una costituzione tra le più democratiche del mondo, poi la politica degli Americani in Giappone cambiò e nel 60’ costrinse in Giappone ad accettare moltissime basi militari e missilistiche sul suo territorio, per le necessità della guerra fredda. L’iddilio ebbe termine.

39

La diffusione in America

Nell’America del dopoguerra non arriva solo il Karate, le filosofie

indiane e il buddismo zen si affacciano quasi contemporaneamente alle

arti marziali nel panorama dell’intellighenzia americana degli anni 50, in

questo periodo c’è grande entusiasmo per l’oriente e le sue arti.

I primi maestri di Karate ad arrivare in America sono: Oshima (che

apre un dojo a Los Angeles, California, nel 1955), Nishiyama, Okasaki,

Gosei Yamaguchi, in america il Karate si impone come uno sport di

combattimento e la AAKF (All American Karate Federation) comincia

da subito ad organizzare incontri e campionati di Karate sportivo.

La diffusione in Europa

La Francia, è la nazione che vanta in Europa la più antica

tradizione di Karate, nel 1957, a Parigi, Henry Plée contatta un giovane

maestro giapponese Tetsuji Murakami (Shizuoka 31 marzo 1927 - Parigi

24 gennaio 1987). Plée propone a Murakami di lanciare il Karate in

Europa, egli accetta e si trasferisce a Parigi nel Dojo di Plée, il loro

sodalizio durerà solo un anno ma Murakami resta in Europa e si dà da

fare.

Tetsuji Murakami e lo Shotokai

Anche senza il supporto di Plée Murakami si dedica alla diffusione

del Karate in Francia, Germania, Inghilterra, Portogallo, Svizzera,

Algeria, Marocco ed Italia, dove viene invitato dal

pioniere italiano del Karate e fondatore dell’AIK

(associazione Italiana Karate), Wladimiro Malatesti.

In seguito fu il maestro Pierluigi Campolmi a

mantenere costante il contatto con Murakami,

garantendo lo svolgimento di stage annuali fissi.

40

Murakami aveva fin da bambino praticato il Kendo (obbligatorio

nelle scuole giapponesi durante la guerra) e l’Aikido, in seguito iniziò a

venti anni la pratica del Karate Do con il maestro Yamagushi, un allievo

diretto di G. Funakoshi. Quando arriva in Europa Murakami pratica il

Karate stile Shotokan e comincia a diffonderlo ma, durante un viaggio in

Giappone nel 1967 egli viene in contatto con il maestro Egami e lo stile

Shotokai, ne resta fulminato, rinuncia al grado acquisito e comincia a

seguire le lezioni di Egami, poi, tornato in Europa, cerca di portare i suoi

allievi verso lo Shotokai.

Murakami trova difficoltà e resistenze, non tutti, soprattutto tra i

gradi elevati, sono disposti a rimettersi in gioco completamente, nel

1961 Murakami apre un suo Dojo a Parigi in rue Cambronne e diviene il

responsabile dello stile Shotokai in Europa. In Italia lo stile Shotokai si

impone prevalentemente in Toscana, in Emilia, e soprattutto in

Romagna.

Tra la fine degli anni 70 e l'inizio degli anni 80 per volere del

Maestro Tetsuji Murakami nasce La “Scuola Shotokai Italia”. Il Maestro

chiede infatti che il suo gruppo, che fino ad allora si era chiamato

"Murakami Kai" cambiasse denominazione in Shotokai d'Italia e poi

Scuola Shotokai Italia. La Scuola esiste ma non vi è nulla di

formalizzato fino al 1992 quando in seguito ad un'assemblea tenutasi a

Sportilia46, viene ricostituita la Scuola Shotokai Italia e ne vengono

formalizzati gli organi:

- Assemblea

- Consiglio Direttivo

- Responsabile Tecnico e Coordinatore tecnico (inizialmente nasce con

una Commissione tecnica ma poi i ruoli di guida tecnica vengono

accorpati e attribuiti a due persone, che Oggi sono il Maestro Maltoni di

Cesena e il Maestro Vacchi di Ravenna). Attualmente la SSI conta circa

300 iscritti tra Emilia Romagna e Toscana, la sede è a Cesena47. La SSI

46 Grosso centro polisportivo residenziale sito in località Spinello sull’appennino Forlivese. 47 Dati gentilmente forniti dal Dott. Marco Forti, segretario della Scuola Shotokai Italia

41

aderisce alla FIKTA48, una federazione nazionale che conta49 402

società, 789 tecnici, e circa diciannovemila iscritti tra atleti, bambini,

over sessanta e ufficiali di gara50

La diffusione in Italia

A Milano e da li al resto della Lombardia, il Karate si diffonde per

la passione di Roberto Fassi, uno studente milanese praticante di Judo e

assiduo partecipante agli stage di Plée in costa azzurra. Nel 1963,

divenuto primo kyu (cintura marrone) Fassi raccoglie attorno a se un

primo nucleo di praticanti ai quali impartisce lezioni bisettimanali51. Da

questo primo nucleo, il karate stile shotokan si diffonde anche in Liguria

e a Bologna, intanto nel Lazio si impone lo stile Wado Ryu importato da

Augusto Basile che lo aveva appreso a Parigi nel dojo di Hiroo

Mochizuchi.

Questi tre gruppi, Shotokan al nord, Shotokai al centro e Wado

Ryu al sud, daranno vita, a distinte associazioni, AIK (associazione

italiana karate) al nord, FIK (federazione italiana karate) al centro e

KIAI (Karate international accademy of Italy) al sud.

Nel 1967, dopo un fallito tentativo delle tre associazioni di fare

entrare il karate nel CONI, FIK e KIAI si fondono in un'unica

federazione che manterrà il nome FIK, in seguito la AIK si scioglie, una

parte dei suoi praticanti entra nella FIK, un'altra parte fonda una nuova

federazione, la FESIKA.

Nel 1973 un primo censimento indicava in circa trentamila i soli

praticanti di karate legati alla FIK . Dopo altre fusioni e scioglimenti si

arriverà ad una situazione stabile solo nel 1995 con l’esistenza di due

federazioni, la FIKTA e la FITA .

48 Federazione Italiana Karate Tradizionale e arti affini. 49 Dati forniti dalla gentilissima Linda, segretaria Fikta di Milano. 50 La SSI pratica solo gare di Kata, non di combattimento. 51 Ennio Falsoni “il Karate moderno Feltrinelli Milano 1974”

42

Oggi in Italia, i Praticanti di arti marziali Tradizionali o sportive

orientali tesserati nelle varie federazioni sono circa seicentomila52

52 cfr. “Arti d’Oriente – bimestrale di culture e tradizioni orientali” Oriental Press Milano Luglio-Agosto 2005

43

7 Zen e Arti Marziali

Il Medioevo Giapponese

Il buddismo zen53 nasce come abbiamo visto, nel quinto secolo, in

Cina, ad opera del monaco indiano Bodhidharma nel monastero di

Shaolin. Con la fine dell’era Heian (794 - 1185), in

Giappone termina il periodo classico, nel quale i

nobili, ritirati a Kyoto coltivano le lettere e le arti,

completamente scollegati dal popolo e dalla terra,

comincia il lungo medioevo Giapponese54 (1185

fine dell’era heian – 1868 inizio della restaurazione

Meiji). E’ nel periodo del medioevo che lo zen fa il suo ingresso in

Giappone e comincia a farsi strada tra i ceti guerrieri che combatteranno

quasi ininterrottamente per quattrocento anni. In seguito con il periodo

relativamente pacifico di Edo e il ridimensionamento dei privilegi dei

Samurai voluto dagli Shogun Tokugawa (1603 - 1868), il rapporto tra

Zen e arti marziali verrà ulteriormente approfondito.

La comparsa sulla scena giapponese di un nuovo sistema di

governo determina una liberazione sul piano spirituale e morale, questo

permette a nuove idee di farsi strada e alle religioni e filosofie di

evolversi e conquistare il popolo55. Particolarmente si fanno strada

l’Amidismo, con le sue teorie pietiste, l’intransigenza di Nichiren56 , lo

Zen e la sua pratica meditativa.

In precedenza, il buddismo del periodo Heian era essenzialmente

aristocratico, della religione il popolo conosceva solo aspetti semplici,

31 ch’an in cinese 54 Nel 1185 termina la lotta tra i due maggiori clan, i Taira vengono sconfitti dai Minamoto, Yoritomo Minamoto, che ha creato un governo militare a Kamakura (il Bakufu) viene insignito nel 1192 dall’imperatore del titolo di Seii Taishogun (generale in capo). Quasi sette secoli dopo il potere tornerà all’imperatore sancendo l’inizio della restaurazione Meiji (1868 - 1912) dove il Giappone comincia la sua modernizzazione. Cfr. L. Frédéric - La vita quotidiana in Giappone al tempo dei samurai - BUR Milano 1987 55 Cfr. L. Frédéric - La vita quotidiana in Giappone al tempo dei samurai - BUR Milano 1987 56 Una setta che oggi ha il nome di Sokka Gakkai, ed in Giappone è perfino rappresentata in parlamento attraverso un partito a lei collegato, dove sostiene il governo conservatore.

44

gli insegnamenti delle sette esoteriche erano compresi solo da pochi

iniziati e sfuggivano anche alla maggioranza dei monaci.

Lo Zen, figlio delle dottrine meditative della scuola indiana del

Dhyana, e che in Cina si chiamava Ch’an, prese piede con il ritorno dalla

Cina del monaco Eisai (1141 - 1215), che fondò la setta Rinzai. A Eisai

successe Dogen (1200 - 1253) il quale fondò nel 1244 un'altra setta Zen

chiamata Soto. La filosofia dello zen implicava lunghe sedute di

meditazione da praticare seduti e in silenzio, in grande concentrazione,

da raggiungersi attraverso un addestramento mentale piuttosto difficile,

aveva quindi poche possibilità di divenire popolare, eppure, il totale

distacco dall’io necessario per raggiungere la percezione intuitiva della

realtà ultima, interessò alcuni guerrieri di alto rango, i quali attinsero

dallo zen, un arte di battersi, vivere e morire, senza troppo curarsi delle

preoccupazioni di questo mondo. Il grande successo dello Zen in

Giappone si deve anche alla grandezza dei suoi interpreti, alcuni dei

quali furono consiglieri influenti degli Shogun.

Inoltre lo zen si fece carico di salvare le lettere e le arti sulle quali

ebbe, quindi, una forte influenza, si può anzi dire che esse non sarebbero

sopravvissute senza i monaci Zen, a quattro secoli di guerre civili. Lo

zen si fece carico anche del soccorso ai poveri, e della creazione di molte

scuole.

Lo Zen che può essere descritto non è lo Zen

Questa frase, parafrasi di un detto sul Tao attribuito al capostipite

del taoismo Lao Tzu, dovrebbe mettere in guardia chiunque si avventuri

nella lettura di testi sullo zen, eppure esiste su questo argomento, una

bibliografia sterminata. In realtà è inutile cercare di spiegare lo zen con

le parole, esso potrebbe forse essere descritto come una esperienza

psicofisica interiore, attraverso la quale si ricerca il congiungimento con

il tutto, queste parole possono però non significare nulla e sono, per

l’appunto, parole, contenitori che ognuno può riempire con la propria

45

esperienza diretta dello Zen, l’unica possibile, ovvero la pratica

meditativa.

La meditazione Zazen

Zazen è la meditazione seduta, pratica principale del buddismo

zen. Si vuole che la meditazione seduta fosse il metodo che permise al

Budda Gotama di ottenere la suprema illuminazione e raggiungere la

“buddità” nel giorno del suo quarantesimo compleanno, sotto la luna

piena di maggio, nella notte di wesak57 La tecnica di meditazione in

questione è descritta nel Discorso numero dieci del Canone Pali

Majjhima Nikaja, del quale trascrivo alcuni frammenti:

dal Canone Pali Majjhima Nikaja, Discorso numero dieci

L'applicazione dell'attenzione:

Così ho udito: Una volta il Signore Buddha si trovava nel paese

dei Kuru, in una città dei Kuru chiamata Kammassadhamma.

Mentre si trovava là, si rivolse ai monaci appellandoli: "O monaci". "Si,

o Signore" risposero i monaci ponendosi attenti.

E il Signore Buddha disse: "Vi è una sola Via o monaci per

purificare gli esseri, per vincere le inquietudini, e le sofferenze, per

eliminare i dolori e le miserie, per entrare nel giusto Cammino e

realizzare il Nibbana e questa Via consiste nelle quattro applicazioni

dell'attenzione.

Quali quattro? Un monaco si applica alla contemplazione del

corpo come corpo, con ardore, chiaramente consapevole e attento, così

da controllare le bramosie e gli inganni causati dai sensi; ...omissis: la

stessa formula, oltre che per la contemplazione del corpo come corpo

viene ripetuta per le sensazioni, la mente, le formazioni mentali.

57 Quaranta anni più tardi, all’età di ottant’anni, morirà sempre sotto la luna piena di maggio, dando così origine alla festa buddista di Wesak che, paragonata al cristianesimo, è una somma di natale e pasqua.

46

E come può un monaco applicarsi a contemplare il corpo come

corpo? Esso dopo essersi ritirato in una foresta, oppure ai piedi di un

albero o anche in un luogo isolato, si siede con le gambe incrociate, con

la schiena eretta, ponendo la sua attenzione di fronte a sé. Attento egli

inspira e attento egli espira. Se sta facendo una inspirazione lunga è

consapevole: "Sto facendo una inspirazione lunga"; oppure se sta

facendo una espirazione lunga è consapevole: "Sto facendo una

espirazione lunga"; idem per inspirazione ed espirazione corta. Egli si

allena così pensando: "Inspirerò esperimentando ogni parte del corpo

(del respiro)"; oppure si allena pensando: "Espirerò esperimentando ogni

parte del corpo (del respiro)". O anche si allena pensando: "Inspirerò

tranquillizzando le attività del corpo (del respiro)"; oppure si allena

pensando: "Espirerò tranquillizzando le attività del corpo (del respiro)".

O monaci, così come un abile tornitore o un apprendista tornitore

quando fa una passata lunga pensa: "Sto facendo una passata lunga" o

quando fa una passata corta pensa: "Ora sto facendo una passata corta",

nella stessa maniera un monaco che sta inspirando o espirando un

respiro lungo o corto è consapevole di inspirare o espirare un respiro

lungo o corto e si allena sperimentando inspirazione e espirazione lunga

o corta su tutte le parti del corpo (del respiro) tranquillizzando in tal

modo le sue attività corporali.

Così un monaco si applica alla contemplazione del corpo come

corpo sia dall' interno che dall' esterno, oppure contemplandolo

alternativamente dall' interno e dall' esterno. O anche dimora

contemplando nel corpo il sorgere delle cose e il dissolversi delle cose.

Oppure anche pensando: "Questo è il corpo", egli fissa l' attenzione

appena il tempo necessario per una chiara comprensione e una

appropriata attenzione di questo, ma resta indipendente e senza

attaccamento verso alcuna cosa del mondo.

E' così anche o monaci che un monaco si applica alla

contemplazione del corpo come corpo. E ancora o monaci, un monaco

quando cammina è consapevole "Sto camminando"; oppure quando è in

47

piedi fermo, è consapevole: "Sto in piedi fermo"; quando è seduto, è

consapevole "Sto seduto"; oppure quando è sdraiato, è consapevole: "Sto

sdraiato". Così, in qualunque posizione sia il suo corpo, egli ne è

consapevole.

In tal modo si applica contemplando il suo corpo sia dall' interno

che dall' esterno, contemplando il sorgere e il dissolversi delle cose nel

corpo oppure anche pensando: "Questo è il corpo" fissa la sua attenzione

appena il tempo necessario per una chiara comprensione ed una

appropriata attenzione di questo senza però attaccarsi ad alcunché del

corpo.

Ed è così anche che un monaco contempla il corpo come corpo.

... omissis: segue la descrizione del corpo come involucro, della sua

caducità; seguono, con lo stesso metodo appena descritto per la

contemplazione del corpo come corpo, quella delle sensazioni come

sensazioni, della mente come mente, delle formazioni mentali come

formazioni mentali.

Chiunque, o monaci, svilupperà queste quattro applicazioni

dell'attenzione per sette anni, ne avrà come risultato o il raggiungimento

della perfetta conoscenza qui ed ora oppure restando alcun residuo

(karmico), uno stato futuro senza ritorno in questo mondo.

Ma non occorrono sette anni. Chiunque, o monaci, svilupperà

queste quattro applicazioni dell' attenzione per sei anni, cinque anni,

quattro anni, tre anni, due anni, un solo anno, otterrà sempre uno di

questi due frutti: o la perfetta saggezza qui e ora oppure, restando un

residuo (karmico), uno stato senza ritorno in questo mondo. Ma o

monaci, neppure un anno è necessario. Chiunque svilupperà queste

quattro applicazioni dell'attenzione per sette mesi, sei mesi, cinque mesi,

quattro mesi, tre mesi, due mesi, un solo mese o anche mezzo mese o

sette giorni soltanto avrà come risultato uno dei due frutti: o la perfetta

saggezza qui e ora oppure, restando un residuo karmico, la condizione di

un essere che non tornerà più in questo mondo.

48

Quanto detto chiarisce la mia dichiarazione: "Vi è una sola via o

monaci per la purificazione degli esseri, per vincere la sofferenza e l'

insoddisfazione, per eliminare il dolore e le miserie, per guadagnare il

giusto Cammino, per realizzare il Nibbana, ed è quella delle quattro

applicazioni dell' attenzione".

Così parlò il Signore Buddha. Contenti i monaci si rallegrarono per

quanto il Signore Buddha aveva detto58.

La vacuità

Detto in cosa consiste la pratica dello Zen, resta da capire in che

modo esso possa dare ad un guerriero maggiori capacità, la risposta è

probabilmente nello stato di vacuità che Zen e arti marziali perseguono,

l’uno alla ricerca della comprensione del tutto, le altre alla ricerca

dell’azione che sorge dall’inconscio.

Molto interessanti a questo riguardo le considerazioni di Daisetz T.

Suzuki nell’introduzione al libro di Eugen Herrigel “Lo Zen e il tiro con

l’arco59”: Suzuki scrive: “Uno degli esercizi essenziali nell’esercizio del

tiro con l’arco e delle altre arti che vengono praticate in Giappone … è

il fatto che esse non perseguono alcun fine pratico e neppure si

propongono un piacere puramente estetico, ma rappresentano un

tirocinio della coscienza e devono servire ad avvicinare alla realtà

ultima. Così il tiro con l’arco non viene esercitato soltanto per colpire il

bersaglio, la spada non si impugna per abbattere l’avversario, il

danzatore non danza solo per eseguire certi movimenti ritmici del corpo,

ma anzitutto perché la coscienza si accordi armoniosamente

all’inconscio.

Per essere veramente maestro nel tiro con l’arco la conoscenza

tecnica non basta. La tecnica va superata così che l’appreso diventi un

arte inappresa che sorge dall’inconscio. Nel caso del tiro con l’arco

58 Cfr. a cura di Pio Fillipani Ronconi “Buddha, aforismi e discorsi” Tascabili economici Newton Roma 1994 59 Cfr. Eugen Herrigel – Lo Zen e il tiro con l’arco – Adelphi Milano 1991

49

questo significa che il tiratore e il bersaglio (il karateka e il suo

oppositore ndr.) non sono più due cose contrapposte ma una sola realtà.

L’arciere non è più consapevole di dover colpire il bersaglio davanti a

lui.

Ma questa condizione di inconsapevolezza egli la raggiunge solo

se è perfettamente libero e distaccato da sé, se è tutt’uno con la

perfezione della sua abilità tecnica. E’ una cosa diversa da ogni

progresso che potrebbe essere raggiunto nell’arte del tiro con l’arco.

Questa cosa viene chiamata Satori “intuizione” che però differisce dal

concetto occidentale. E’ una intuizione Prajna ovvero una saggezza

trascendentale … una intuizione che afferra immediatamente la totalità

assieme all’individualità, di tutte le cose … e questo non si intende in

senso simbolico o matematico, ma è un esperienza per percezione

diretta. Perciò Satori in termini psicologici è un “oltre i confini dell’IO”.

Da un punto di vista logico è scorgere dell’affermazione e della

negazione, in termini metafisici è affermare intuitivamente che l’essere è

il divenire e il divenire l’essere.

… Qui tocchiamo il rapporto tra lo Zen e le arti marziali o le altre

cerimonie tradizionali. Lo zen è la coscienza quotidiana (consapevolezza

di sé ndr.) è mangiare quando si ha fame, dormire quando si ha sonno.

Non appena noi consideriamo, riflettiamo e formiamo concetti,

l’inconsapevolezza originaria va perduta e sorge un pensiero … la

freccia non va più dritta al bersaglio e anche il bersaglio non è la dove

dovrebbe stare.

… L’uomo è un essere pensante eppure le sue più grandi opere

vengono compiute quando non calcola e non pensa. Dobbiamo

ridiventare bambini attraverso lunghi anni di esercizio nell’arte di

dimenticare se stessi. Quando questo è raggiunto l’uomo pensa eppure

non pensa …”

Suzuki continua dicendo che l’uomo che trascenda completamente

il pensiero di sé diviene un maestro Zen, il quale non avrà più necessità,

per esprimersi, degli strumenti dell’arte che ha scelto, non avrà più

50

bisogno dell’arco ne di freccia e bersaglio, egli comprende tutto in se. È

il concetto dell’arte senz’ arte.

Divergenze

Occorre però tenere presente che le arti marziali, e nel nostro

specifico il Karate, non possono confondersi completamente nella

dottrina o nella pratica Zen. Infatti anche se la meditazione seduta in

Zazen può essere per il Karateka di grande aiuto nella sua pratica, così

come un Kata di karate può essere per un monaco fonte di illuminazione,

pure le arti marziali sono qualcosa di diverso dallo Zen, si prefiggono

uno scopo preciso e dei fini che in fondo, non paiono conciliabili con

l’etica buddista.

Nel libro intervista “l’arte del combattere60” Kenji Tokitsu riporta

alcune considerazioni del maestro Hakuin, figura centrale della storia

dello Zen in Giappone. A chi gli chiedeva se un guerriero dovesse

studiare lo Zen per perfezionare la sua arte Hakuin diceva che secondo

lui era il monaco Zen a dover studiare i fondamenti della vita del

guerriero, il Budo.

Secondo Hakuin “se i cattivi samurai facessero Zazen come fanno

le arti marziali potrebbero avanzare verso l’essenziale dello zen in un

mese tanto quanto un monaco in un anno”

Tokitsu spiega così le parole di Hakuin: “il maestro intende che

troppo spesso si pratica lo Zen come uno svago e che se lo si praticasse

nella maniera del guerriero, che investe la sua vita, i risultati sarebbero

molto più rapidi. Inoltre con le arti marziali ci si cala direttamente nella

questione della vita e della morte.”

Secondo Tokitsu comunque, questo non è un elogio per i samurai

quanto, una doppia critica ironica per loro e per i monaci, Hakuin dice ai

monaci che manca loro il dinamismo e la forza di decisione dei Samurai,

ai Samurai egli dice che con le possibilità che hanno è un peccato che

60 Kenji Tokitsu “ l’arte del combattere” Oriental Press Milano 2003

51

non aprano gli occhi ad un mondo molto più vasto di quello che essi

intendono.

Ancora Tokitsu, in “Lo Zen e la via del Karate61” indica dove,

secondo lui le due arti divergono, scrive: “Il Karate è una tecnica di

combattimento a mano nuda mediante la quale si cerca di ottenere la

massima efficacia possibile, che tuttavia non può essere raggiunta con

un esercizio che sia solo fisico. Se si ricerca la massima efficacia,

inevitabilmente si penetra nella sfera psichica, dal momento che si tratta

di combattere con altri uomini … Spesso si dice che lo scopo del karate

è quello di vincere se stessi, ma io non sono dello stesso avviso … Se lo

scopo è di vincere se stessi allora è meglio praticare la meditazione Zen.

Non è possibile assimilare la ricerca del Karate ad un procedimento

religioso, poiché si tratta di combattere, si tratta di vita o di morte. Nello

Zen, questo è un problema superato, poiché vita e morte non sono

separate in quanto tali ma tra l’una e l’altra c’è continuità e la morte del

corpo non significa la morte vera e propria”.

Il Karate come mezzo di realizzazione di sé

Nel karate si parte da concreti movimenti corporei e non si potrà

mai raggiungere uno scopo che sia troppo astratto. Il risveglio va di pari

passo con la pratica; in questo il karate si collega alla meditazione Zen.

Secondo Tokitsu infatti realizzare il massimo dell’efficacia nel

karate significa realizzarsi pienamente come uomo, e le due cose non

possono andare che di pari passo. Questo stato varia qualitativamente a

seconda dell’età e non è lo stesso a venti o a quaranta o a ottanta anni,

l’efficacia sarebbe composta da due componenti, capacità tecnica e stato

psichico. Con questo presupposto la ricerca dell’efficacia nel Karate

corrisponde alla ricerca della completa realizzazione come essere umano

e si ottiene con una pratica che dura tutta una vita, proprio come la

ricerca che si fa con lo Zen attraverso la pratica seduta di Zazen.

61 Kenji Tokitsu “Lo zen e la via del Karate” Sugarco edizioni Varese 1992

52

L’autodisciplina

Si potrebbe obiettare, con una buona dose di ironia, che se in

oriente Zen e arti marziali sono un buon metodo per ottenere la

realizzazione di sé come persona pienamente efficace nella società,

allora forse, in occidente, potrebbe essere altrettanto valida l’ accoppiata

“gioco del calcio e cattolicesimo” secondo la formula a noi ben nota e

culturalmente affine del “mens sana in corpore sano”. Ed in effetti la

cultura sportiva occidentale possiede una indubbia valenza educativa,

così come, la religione può certamente dare all’individuo gli elementi di

compassione, condivisione, rispetto, che gli servono per trovare il suo

posto nella società.

La differenza sostanziale rispetto alla visione orientale e

particolarmente a quella Giapponese, risiede nel concetto di

autodisciplina, per descriverlo mi servo nuovamente del libro della

Benedict62.

Una diversa concezione

La Benedict parte confrontando le tecniche di autodisciplina

presenti nella cultura Giapponese e in quella Americana e analizzando i

diversi scopi per i quali esse vengono utilizzate. Osserva che negli Stati

Uniti è relativamente poco sviluppata una tradizione di tecniche di

autodisciplina, esse vengono si messe in opera da un individuo che

persegua il successo in un determinato campo, ma non ci si aspetta che i

componenti della società siano in possesso di tecniche, ne che queste

siano organizzate in un metodo di insegnamento.

Per i giapponesi le cose stanno diversamente, ogni ragazzo che si

accinga a superare gli esami di scuola media deve conoscere le tecniche

di autodisciplina, indipendentemente dalle altre materie di insegnamento

così come è tenuto a conoscerle ogni membro della società.

62 Ruth Benedict “Il crisantemo e la spada” Edizioni Dedalo Bari 1993

53

Tecniche di potenza e tecniche di saggezza

La Benedict ci dice che i Giapponesi dividono schematicamente

in due gruppi le tecniche di autodisciplina, un primo gruppo tende a far

acquisire un certo tipo di capacità o competenza, l’altro tende a dare

qualcosa di più, qualcosa definito “conoscenza” o “saggezza”. Le

tecniche del primo tipo, si basano sul dominio della volontà sul corpo,

esso deve considerarsi sempre suscettibile di ulteriori miglioramenti.

Quando sono in gioco i valori più importanti della vita, le esigenze del

corpo devono essere drasticamente accantonate senza badare a possibili

conseguenze per la salute.

Mentre in occidente, la ferrea disciplina a cui ci si sottopone, ad

esempio per affermarsi nello sport, è vista generalmente come un

sacrificio che darà i suoi frutti, la mentalità Giapponese esula da questa

visione. Per quanto duro possa essere l’allenamento, esso non verrà

percepito, ne vissuto come un sacrificio ma come un fatto

indispensabile, assolutamente necessario, L’autodisciplina, la Shuyo,

diviene lo strumento per assaporare appieno il gusto della vita.

L’autodisciplina, per dirla come la direbbe un giapponese “da lo

stomaco all’uomo63“. Secondo un espressione tipica in Giappone “lo

shuyo fa sparire la ruggine dal corpo e fa di un uomo una spada lucente e

affilata”.

La Benedict passa poi a descrivere le forme di autodisciplina che

danno la saggezza. Secondo l’autrice lo studio delle motivazioni che

spingono i Giapponesi a mettere in pratica queste tecniche è un valido

aiuto per intendere le caratteristiche fondamentali della mentalità

Giapponese.

Nella lingua giapponese esistono molti termini per descrivere lo

stato mentale che può essere raggiunto da chi diviene esperto in queste

forme di autodisciplina, siano essi attori, schermitori, religiosi, oratori,

pittori, o maestri della cerimonia del tè, la Benedict riassume tutti questi 63 ovvero l’hara, la zona corrispondente circa all’ ombelico, dove per gli orientali hanno sede le capacità di autocontrollo.

54

termini con la parola Giapponese Muga64, che è il termine in uso presso

gli adepti dello Zen.

Muga ovvero il vuoto

Muga viene descritto65 come uno stato d’animo caratteristico di

quelle esperienze mondane o religiose, durante le quali “non vi è la

minima frattura, non vi è lo spessore di un capello tra la volontà di un

individuo e la sua azione”. Diversamente, per chi non ha raggiunto la

conoscenza, esiste una sorta schermo isolante che si frappone tra la

volontà e l’azione.

I Giapponesi chiamano questo schermo “l’io che osserva” o ”l’io

che interferisce”. Solo quando esso è stato rimosso, mediante un

allenamento condotto secondo speciali tecniche, l’individuo, divenuto

esperto, potrà perdere quel senso di consapevolezza66 che normalmente

accompagna le sue azioni, allora il circuito sarà libero, l’azione si attuerà

senza sforzo, dirigendosi direttamente ed inequivocabilmente a

realizzare il suo scopo, e risulterà un espressione completa e fedele

dell’immagine che colui che agisce si era mentalmente prefigurata.

Benedict osserva che in Giappone, anche le persone più comuni

cercano di acquisire questo tipo di conoscenza o saggezza, i Giapponesi

infatti collegano l’opportunità di un allenamento mentale diretto ad

avere uno stato d’animo calmo ed equilibrato con un esame, o con la

pronuncia di un discorso o con la carriera di un uomo politico, essi

ritengono che le tecniche atte a rendere univoca ed infallibile l’azione,

rappresentano un vantaggio in quasi tutte le attività umane.

64 Che possiamo tradurre con “senza ego ne sostanza” dove sostanza ha il senso di “noumeno” 65 Ruth Benedict “Il crisantemo e la spada” Edizioni Dedalo Bari 1993 66 Per lo zen si tratta di una falsa consapevolezza, la vera consapevolezza è “essere parte dei mille e dei diecimila fenomeni” nello stesso attimo, ovvero essere confusi con il tutto

55

La perfezione qui ed ora

Ancora, Benedict osserva che pur essendo molte le culture che

hanno elaborato tecniche di questo genere, tuttavia in questo campo la

cultura Giapponese presenta oggi caratteristiche piuttosto autonome

anche se le tecniche in questione traggono la loro origine dall’India dove

sono note con il nome di Yoga, i Giapponesi le hanno adattate alle loro

finalità svuotandole dalla carica di severo ascetismo e mortificazione di

se che le caratterizzava in origine.

Effettivamente lo stesso culto Zen prescrive di evitare

l’insufficienza nelle tre cose primarie e cioè nel vestiario, nel cibo, nel

sonno.

Benedict scrive67: “Con un vitale amore per il finito che ricorda

quello degli antichi greci, il Giappone intende le tecniche dello Yoga

come un mezzo per auto addestrarsi alla perfezione, come uno strumento

mediante il quale l’uomo può acquisire quella conoscenza, per cui non vi

è lo spessore di un capello tra la volontà e l’azione, come un

addestramento all’efficienza, alla fiducia in se stessi. I frutti si

raccolgono in questa vita, dato che il risultato cui si aspira è quello di

porre l’uomo in grado di affrontare qualsiasi situazione con l’esatta

quantità di energia che serve, ne troppa ne troppo poca, offrendogli al

tempo stesso la possibilità di controllare la propria mente.”

Ancora sullo stretto rapporto tra Zen e arti marziali Benedict

scrive: “Un addestramento psichico di questo genere può ovviamente

essere prezioso tanto per un guerriero che per un sacerdote, in effetti

furono proprio i guerrieri giapponesi i primi a far proprio il culto Zen.

Oltre al Giappone non sarebbe facile indicare altri paesi dove le

tecniche proprie del misticismo vengano praticate senza la contropartita

delle supreme esperienze mistiche e dove siano stati proprio i guerrieri i

primi a metterle in pratica e a servirsene per i combattimenti corpo a

67 Ruth Benedict “Il crisantemo e la spada” Edizioni Dedalo Bari 1993

56

corpo. In realtà ad ogni modo furono proprio queste le forme con cui, sin

dai primi inizi, il culto zen esercita la propria influenza in Giappone.

Il grande libro di Eisai, il fondatore dello Zen in Giappone nel

dodicesimo secolo, portava il titolo “La protezione dello stato mediante

la diffusione dello Zen.

Da allora in poi lo zen ha addestrato guerrieri, statisti,

schermidori e studenti a raggiungere finalità assolutamente mondane”.

E per concludere: “Si sarebbe portati a supporre che questa

dottrina mistica e contemplativa, che fonda la propria verità non su di un

testo scritto ma su un immediata esperienza della mente umana, dovesse

fiorire in un periodo così turbolento come quello compreso tra il

dodicesimo ed il tredicesimo secolo, nel tranquillo rifugio della vita

monastica, tra coloro che avevano abbandonato le tempeste del mondo, e

non già che venisse recepita con tanto favore dalla classe militare per

farne la propria norma di vita. Ma in realtà proprio questa fu la sorte

dello Zen in Giappone”.

57

8 Il Kata

I Kata del Karate

Il Kata è una delle principali pratiche di insegnamento del Karate

tradizionale, letteralmente può venire tradotto come “forma”. Il kata, nel

Karate e nelle altre arti nel quale viene utilizzato, è composto da un certo

numero di movimenti concatenati, codificati e finiti, che mimano un

combattimento contro più avversari.

Ogni stile di Karate ha scelto nel tempo un certo numero di Kata

tra quelli che maggiormente ne rispecchiano l’anima. Per fare un

esempio, la scuola Shotokai Italia oggi insegna 16 kata, selezionati dal

Maestro Egami tra quelli che venivano praticati nel Dojo Shotokan del

Maestro Funakoshi.

Ma il Kata non è solo un metodo di insegnamento del Karate o

delle arti marziali o delle arti tradizionali in genere, esso è un veicolo di

trasmissione culturale fondante della cultura Giapponese, che trova

spiegazione nella peculiarità della storia di questo paese e di questo

popolo.

Per Kenji Tokitsu68, “il Kata implica un quadro rigido che

definisce quello che si ricerca, il mondo esteriore ed interno e, perciò

stesso, il posto che si occupa in relazione agli altri”.

Questa la definizione di partenza: “Sequenza composta di gesti

formalizzati e codificati sottesa da uno stato di spirito orientato verso la

realizzazione della via (il Do)”. Nella cultura Giapponese realizzare la

via è raggiungere la tecnica perfetta, che è il mezzo attraverso il quale si

esprime l’uomo perfetto.

Un Kata non è opera di una sola persona ma il depositato di un

sapere tradizionale che si sedimenta su di esso, generazione dopo

generazione. Nell’allenamento al Kata, essendo specchio a se stessi, ci si

da risposta alle domande che si è in grado di porsi.

68 Kenji Tokitsu – Kata – Oriental Press 2004

58

Watsuji Tetsuro scrive69 che esiste nella società Giapponese una

“tendenza etnica ad accordare fiducia solo ai fatti colti intuitivamente e a

trascurare l’apprendimento attraverso la riflessione logica”.

Ed infatti secondo noi il Kata rappresenta un modo per coltivare

e rafforzare il pensiero intuitivo.

Il Do o la Via

La perfezione tecnica nella realizzazione del Kata implica che chi

lo esegue sia immerso nel Do, nella via. Tokitsu descrive il do come

“una via che conduce verso uno stato di spirito che

libera le facoltà umane nei diversi campi delle arti”,

questo stato spirituale può essere attinto mediante

l’approfondimento di una disciplina e il rispetto dei

precetti che regolano l’universo quindi la società. Il

processo di perfezionamento è quello della realizzazione della

personalità per intero ed in armonia con gli uomini e con la natura.

Secondo Tokitsu, l’immagine riflette una sensibilità collettiva e

trasmessa prestissimo dall’educazione familiare. Essendo la

formalizzazione stessa di questa sensibilità collettiva, il Kata,

contribuisce quindi a conservarla. Per mantenersi in equilibrio questo

rapporto necessita di un gruppo sociale omogeneo in cui la

comunicazione è largamente implicita, equilibrio che si rompe

immediatamente in un ambito sociale eterogeneo.

Il Kata si inquadra in profondità nella tradizione Giapponese e

non può essere concepito senza riferimenti storici culturali e sociali.

Il Sakoku o il grande isolamento

E’ detto Sakoku, il grande isolamento al quale fu costretto il

Giappone, dall’inizio del diciassettesimo secolo, fino al 1868, dagli 69 Watsuji Tetsuro „Sakoku“ Chikuma 1964 il testo non tradotto dal giapponese è citato da Tokitsu nel libro KATA

59

Shogun Tokugawa, decisione, presa al fine di preservare la

stabilizzazione del paese, mantenendolo in un universo chiuso e molto

gerarchizzato.

Tokitsu ritiene70 che un processo di interiorizzazione e

rivolgimento su se stesso abbia pervaso tutta la società Giapponese

durante il Sakoku e che questa sia stata la chiave per la stabilizzazione

del modello del Kata.

Il Giappone fino al Sakoku

La prima forma stato appare in Giappone nel III° secolo, alla fine

del IV° esso si espande fino alla Corea, da questo momento la cultura

comincia ad essere fortemente influenzata da quella Cinese, prima con

l’introduzione della scrittura ideogrammatica, poi con l’ingresso del

Confucianesimo e del Buddismo ed infine della forma stato di tipo

feudale. Fino a questo momento non esisteva proprietà fondiaria, terre e

contadini dipendevano dall’Imperatore, i nobili erano funzionari

imperiali dotati di poteri militari.

Sfruttando le possibilità concesse dall’editto imperiale del ‘743

che concedeva loro le terre appena dissodate e quelle sottratte alle

popolazioni dei “barbari” Ainu nel nord del paese, i funzionari

cominciano ad acquisire consistenza terriera e ad organizzarsi in clan.

Essendo gravate da imposte molto più basse che quelle imperiali, queste

terre attirano in massa i contadini. I clan accrescono la loro potenza,

l’apogeo è a metà del IX secolo quando la famiglia Fujiwara accede al

potere. Lo manterrà per tre secoli.

I tre secoli di dominazione dei Fujiwara corrispondono all’incirca

all’età dell’oro della cultura Giapponese, in concomitanza con quella

cinese sotto la dinastia T’Ang (608 - 907). Il potere dei guerrieri stava

però per affermarsi, i clan si organizzano in forze militari, nel 1192

viene costituito il primo governo militare (Bakufu).

70 Kenji Tokitsu – Kata – Oriental Press 2004

60

E’con l’inizio del medioevo che anche la religione viene

riformata e che il culto zen si diffonde tra i guerrieri71. Alla fine del XIII

secolo un colpo di scena incide nell’immaginario dei Giapponesi al

punto di fargli vedere, per la prima volta, il loro paese come uno, in

contrapposizione a ciò che veniva da fuori. Questo evento è il doppio

tentativo di invasione dei Mongoli, tentativo che viene sventato più per

l’aiuto provvidenziale della natura, sottoforma di tifone che distrugge le

navi di Gengis Kan72, che non per la grande mobilitazione di guerrieri da

tutto il paese voluta dallo Shogun.

I primi contatti con gli occidentali avvengono quando gli ex pirati

Wako, ormai divenuti commercianti, organizzano un importante

commercio di import export con la Cina e il sud est asiatico. Verso la

metà del XV secolo, sulle loro tracce arrivano in Giappone, i Portoghesi

prima e i Gesuiti poi, con San Francesco Saverio. In questo periodo lo

Shogun Oda Nobunaga Comincia a stabilire la sua egemonia sul

Giappone, la sua missione verrà completata dal successore Toyotomi

Hideyoshi, sotto la sua guida il Giappone verrà unificato.

Nel tentativo di amministrare la pace, finalmente ritrovata dopo

lunghi secoli di guerre intestine, Ideyoshi emana l’editto “Katana Gari”,

con il quale vieta il porto della spada a chiunque non faccia parte della

classe dei guerrieri, contestualmente instaura la responsabilità collettiva

penale per indebolire i clan. Il successore di Ideyoshi, Tokugawa,

prosegue il cammino dell’irrigidimento della società, l’ultimo e

fondamentale atto è il decreto di “Sokoku” ovvero chiusura del

Giappone, secondo il quale:

“Nessun Giapponese, nessuna nave Giapponese possono andare

all’estero e nessun Giapponese che sia andato all’estero può tornare. I

meticci saranno cacciati. La corrispondenza con l’estero è proibita. Ogni

mancanza sarà punita con la morte”.

Al Sakoku si unì una divisione in classi alla quale non erano

ammesse deroghe. Al vertice della piramide erano i Nobili, ma essi 71 - Vita quotidiana in Giappone ai tempi dei samurai – BUR Milano 1987 72 Chiamato da allora Kami-Kaze ovvero vento divino

61

rappresentavano un gruppo a parte, escluso dal potere e costretto in una

cerchia chiusa su se stessa. I guerrieri erano i veri detentori del potere,

beneficiari della rendita fondiaria, erano organizzati in un ulteriore

sistema piramidale di tipo feudale. Venivano poi i contadini, che erano

stati legati alla terra senza diritto di spostamento. In fondo alla gerarchia

vi erano artigiani e commercianti ma esisteva anche un gruppo di esseri

subumani, incaricati dei compiti più ingrati73

Esiti e fine del Sakoku

Durante il Sakoku il limite del mondo venne fissato per i

Giapponesi alla linea dell’orizzonte, questo comportò una regressione a

livello sociale, l’energia accumulata, venne rivolta progressivamente

verso l’interiorità. Secondo Tokitsu L’irrazionalità della lingua

giapponese non è priva di relazioni con questo lungo esilio, messo in

atto proprio mentre il mondo e la cultura occidentali entravano in un

periodo di razionalismo universalistico e lo esportavano nel mondo. La

cultura Giapponese diviene sempre più autoreferenziale, rigida, essa

avviluppa l’individuo in una fitta rete di obblighi mutuati dal culto

Scintoista, dall’ etica del Confucianesimo, dall’estetica e dalla

spiritualità dello Zen74.

Il modello di trasmissione culturale diviene (anche se non sempre

in modo consapevole) il Kata, fondamentale è la capacità di

comprensione intuitiva e riferita ad un ambito culturale fortemente

interiorizzato e condiviso.

In modo abbastanza improvviso, intorno al 1868, l’imperatore

torna in possesso del potere, rovesciando lo Shogunato75. Vengono

aboliti gli ordini feudali e i privilegi dei guerrieri, viene istituita una

“uguaglianza istituzionalizzata”. La proprietà privata succede a quella 73 Benché si cerchi di negarlo questo gruppo sociale esiste anche oggi. 74 Kenji Tokitsu – Kata – Oriental Press 2004 75 In realtà, caduto lo Shogun, una sollevazione di Samurai avviene dopo la promulgazione dell’ Hattorei, l’editto che vieta il porto della Katana (la spada samurai). Nella battaglia di Satsuma 30.000 Guerrieri ribelli vengono sconfitti dal moderno esercito imperiale. I superstiti della battaglia faranno tutti Seppuku. Cfr. “Arti d’oriente” Oriental Press, luglio agosto 2005 pag. 13

62

feudale, i guerrieri vengono indennizzati con un prestito dello stato,

detentori di capitale i guerrieri potrebbero divenire gli interpreti di un

nuovo ceto commerciale ed imprenditoriale ma l’abitudine

all’obbedienza incondizionata ad un signore e il disprezzo per i beni

materiali non si coniugano con il successo in questo campo, i guerrieri

avranno maggior efficacia nella burocrazia, nell’esercito, nella polizia,

nell’insegnamento.

Soprattutto però si riapre l’orizzonte, la circolazione delle

persone diviene libera e le frontiere si aprono, chiuso in se stesso per

duecento anni, il Giappone parte alla conquista del mondo rafforzando

l’esercito e sviluppando l’industria. In questo campo soprattutto il

successo del Giappone fu rapido e brillante, proprio grazie alle

peculiarità del paese e della sua gente.

Dall’inizio della restaurazione Meiji alla resa del Giappone nella

seconda guerra mondiale avvenuto il 14 agosto 1945 la politica del

Giappone fu sempre improntata a un militarismo espansionista. Più che

aprirsi all’occidente il Giappone si aprì alla tecnologia occidentale e si

dette l’obiettivo di inglobare nell’impero il più vasto spazio possibile,

cosa che nel corso del 1943 toccò un livello impensabile. I confini

dell’impero andavano dalla

Manciuria alla Cina, alla Corea,

all’Indocina, alle isole Marianne,

alle Filippine, un Impero enorme,

impossibile da gestire per un

popolo così poco numeroso,

anche se dotato di un esercito

efficientissimo, potente e

potentemente armato.

La fine di questo

atteggiamento espansionista arriva con la resa militare del 1945, ma a

cambiare è solo il modo in cui il Giappone esercita la ricerca del

63

“proprio ruolo nel mondo”76, l’espansionismo militarista viene

trasformato in pochi decenni in un espansionismo basato sul predominio

economico tecnologico ed industriale.

Il Karate come lo conosciamo viene formalizzato proprio in

questo periodo storico che va dalla restaurazione Meiji alla fine della

seconda guerra mondiale, un arte marziale figlia della più antica

tradizione si sviluppa nell’era della modernizzazione forzata, il

cortocircuito insito in questo fenomeno è paradigmatico della società

Giapponese. Il passaggio dal medioevo alla modernità per il Giappone

non avviene nel tempo ne attraverso mediatori culturali o storici, esso

avviene per decreto. Come un sol uomo la società giapponese obbedisce

al volere dell’imperatore, così come è abituata a fare. L’industria,

l’apparato burocratico, la scuola il sistema delle infrastrutture si

adeguano sotto la spinta dell’efficienza del sistema, ma nella società

avviene una frattura, tutta una generazione di individui cresciuti nella

famiglia tradizionale e nelle relazioni sociali improntate sulla tradizione,

si trova proiettata in un sistema scolastico e produttivo con obiettivi e

modelli diversi da quelli precedentemente introiettati.

Il cortocircuito culturale rimarrà a lungo latente, ingabbiato tra le

maglie delle complesse relazioni sociali cui i Giapponesi continuano a

costringersi, ma, in determinate occasioni, emergerà violentemente,

ponendo l’accento sulla differenza tra i valori ancestrali del Giappone e

le necessità della marcia forzata verso la modernizzazione. Kenji

Tokitsu77 cita a questo titolo, l’esempio di due casi di Seppuku78

realizzati in era moderna, quello del generale Nogi nel 1912 in

76 Cfr. Ruth Benedict – Il Crisantemo e la spada – Dedalo Milano 1968; Il Giappone aveva preteso che nell’atto che formalizzava l’asse Roma Tokyo Berlino, venisse inserita l’affermazione che le tre potenze si impegnavano a far si che ogni nazione trovasse il proprio posto nella gerarchia delle nazioni del mondo. 77 Kenji Tokitsu – Kata – Oriental Press 2004 78 Il suicidio tradizionale Giapponese codificato in un Kata noto anche come Harakiri, letteralmente tagliare, kiri il ventre, hara.

64

concomitanza con la morte dell’imperatore Meiji79 e quello dello

scrittore ed artista Iukio Mishima all’eta di 45 anni nel 1970.

Il Generale Nogi era uno dei massimi vertici dello stato, del

nuovo stato Giapponese moderno che aveva cancellato il feudalesimo e

il vassallaggio e che aveva imposto la fine della disuguaglianza sociale.

Ora Nogi, alla morte del suo imperatore, affermava la propria superiorità

di casta e la propria visione tradizionale eseguendo il Kata del Seppuku,

il Kata fondamentale della casta dei guerrieri, a cui l’educazione

tradizionale educava il bambino fin dalla più tenera età.

Il Seppuku di Mishima invece si svolge in un mondo

profondamente mutato e dopo essere stato più volte annunciato. Nel

1970 si temeva che il rinnovo del trattato di sicurezza Nippo Americano

avrebbe dato luogo, come dieci anni prima a violenti scontri e proteste in

tutto il paese. Mishima approfitta di questo clima per inscenare il più

spettacolare dei suicidi, dopo aver rapito un alto Generale dell’esercito,

costringe le truppe ad ascoltare un suo discorso prima di compiere il

suicidio rituale80 di fronte al generale stesso. Questo suicidio fu uno

shock per tutta una generazione di studenti.

Tokitsu scrive: “Per le persone della mia generazione, che

cercavano un senso alla vita, il passaggio attraverso Mishima era

inevitabile. La trasformazione brutale dei valori che

Mishima, più vecchio di me di venti anni, aveva

vissuto alla fine della guerra, quando ci si preparava

a morire a vent’anni, noi le sperimentavamo nella

sfasatura tra noi stessi e i nostri genitori. … Il suo

discorso ci colpiva con il radicalismo dell’azione che

va sempre verso la morte81, poiché, nell’esperienza

79 Era normale nel medioevo Giapponese che il vassallo seguisse il proprio signore nella morte dopo avergliene chiesto il consenso, al punto che quando questo non avveniva il vassallo veniva fatto oggetto del più profondo disprezzo. 80 Anche il vice comandante della milizia privata di Mishima lo seguirà allo stesso modo nella morte. 81 Mishima era ossessionato dall’Hagakure, il “codice d’onore” dei samurai: “Ho scoperto che la via del Samurai è la morte. Quando sovviene una crisi, davanti al dilemma tra vita e morte è necessario scegliere subito la seconda … L’essenza del Bushido è prepararsi alla morte, mattina e sera, in ogni momento della giornata. Quando un Samurai è sempre pronto a morire,

65

della mia generazione, il luogo della morte e quello dell’azione erano

opposti. Dopo la guerra l’educazione si era

messa a sostenere il contrario di quella

precedente, e noi sentivamo una sfasatura tra i

valori che trasparivano dai nostri genitori e quelli

che ci venivano insegnati”.

Nel Karate, i Kata vengono studiati in

gruppo ed eseguiti in contemporanea con tutti gli altri praticanti, in certi

momenti uno degli aspetti fondamentali diviene la sincronia del gruppo,

la capacità di percepire contemporaneamente il ritmo e il movimento

degli altri, alla ricerca di una fusione anche di tipo spirituale. In effetti

alcuni aspetti della pratica82 tendono a far si che il livello della

comunicazione analogica e della percezione dell’altro si affinino

notevolmente e dopo poco, il livello di coesione del gruppo dei praticanti

diviene notevole. Spesso si può notare come il rapporto tra i praticanti

sia improntato a franchezza e cordialità. Può sembrare strano che in una

disciplina dove si insegna il combattimento si ottenga un effetto di

questo genere ma ci sono alcuni aspetti che vanno presi in

considerazione. In primo luogo la pratica del combattimento viene

condotta a viso aperto e nella certezza delle intenzioni dell’altro, Uke e

Tori83 non vivono un conflitto ma una pratica di accrescimento comune,

colui che attacca lo fa con la massima sincerità e determinazione, nella

consapevolezza che chi si difende possa in quel modo prepararsi a

fronteggiare attacchi portati con violenza da un avversario che abbia

intenzione di ferirlo. Il difensore allora, oltre che migliorare la propria

tecnica attraverso la ripetizione del movimento, apprende anche a reagire

con la giusta dose di forza e senza l’aggressività che di solito viene

scatenata dalla paura.

padroneggia la Via” [Hagakure I,2] cfr Yamamoto Tsunetomo “Hagakure” Mondatori Milano 2004 82 Particolarmente alcuni aspetti del Kumite, il combattimento ritualizzato che si esegue durante gli allenamenti e nel quale ai praticanti si chiede di guardarsi negli occhi senza mai distogliere lo sguardo 83 Colui che attacca e colui che si difende o, più precisamente, colui che subisce la tecnica (tori) e colui che la applica (uke)

66

In questo modo, assieme, si imparano e si perfezionano le

tecniche di lotta e la padronanza di se, ma scatta anche una

comprensione più profonda della natura dell’altro, una compassione.

Quando poi si pratica il Kata in gruppo, la ricerca del ritmo comune si

può immaginare non solo come la ricerca della sincronia dei movimenti

ma come la ricerca di una maniera comune di affrontare la complessità

della vita e la difficoltà di gestire i rapporti umani. Imparando a

fronteggiare l’altro con compassione si impara ad affrontare se stessi e la

propria tendenza alla aggressività e alla scompostezza di fronte a

situazioni ambigue o ad ambiti sociali non strettamente codificati.

Eseguendo lo stesso Kata allo stesso momento degli altri, confermo la

mia disponibilità a seguire un determinato modello relazionale,

condiviso dal gruppo dei praticanti, e più in generale da tutti i praticanti

in tutti i tempi. Così, se torniamo alla definizione di Tokitsu, secondo cui

per mantenersi in equilibrio il modello sociale basato sul Kata: “…

necessita di un gruppo sociale omogeneo in cui la comunicazione è

largamente implicita”, vediamo che è la pratica stessa dell’allenamento

anche attraverso il kata, che contribuisce a creare l’omogeneità nel

gruppo dei praticanti.

67

9 Il Budo

Il termine Budo, viene spesso tradotto in Occidente come

sinonimo di “Arti Marziali” ma l’idea che si ha in Oriente delle arti della

guerra non è la stessa che se ne ha in occidente. A dimostrazione di

questo possiamo citare due classici84, “Sulla Guerra85” del Barone von

Clausewitz e “L’arte della guerra86” di Sun Tzu. Appare evidente nei due

testi una prima differenza, Clausewitz parla della guerra come battaglia,

egli si trova immerso in una situazione

belligerante, nella creazione della quale non ha

alcuna parte, la sua è una teoria del conflitto

quando questo è ormai giunto sul piano fisico.

Diversa è l’ottica di Sun Tzu, “Combattere e

vincere cento battaglie non è prova di suprema

eccellenza. La suprema abilità consiste nel piegare la resistenza

(volontà) del nemico senza combattere87”. Insomma la massima virtù

risiede nella capacità di sospendere il conflitto, nell’oggettivare le forze

in campo senza impegnarle.

Questa stessa impostazione la troviamo intrinsecamente legata al

concetto di Budo. La parola Budo in Giapponese è composta dai due

ideogrammi Bu e Do. Conosciamo già il significato di Do, inteso come

via dell’accrescimento spirituale che passa attraverso la perfezione

nell’arte. Soffermiamoci un attimo sull’ideogramma Bu, esso è

composto da due parti distinte, a destra il simbolo della lancia, a

simboleggiare il conflitto, a sinistra la forma a tre tratti orizzontali

paralleli, che si utilizza per indicare la sospensione. Perciò una

traduzione verosimile del termine Budo potrebbe essere: “La via delle

arti marziali attraverso cui il guerriero apprende a sospendere il

conflitto”.

84 Occorre precisare però che il testo cinese viene fatto risalire a circa 2500 anni fa, mentre il testo Austriaco è dei primi anni dell’800 85 K. VON CLAUSEWITZ “Della guerra” Mondadori, Milano 1970 86 Sun Tzu “L’arte della guerra” Guida, Napoli 1988 87 Cfr. [III, 2] Sun Tzu “L’arte della guerra” Guida, Napoli 1988

68

In effetti, il Budo come lo intendiamo oggi nasce dopo la

pacificazione ottenuta nell’era Tokugawa, quando Il Giappone si pone il

problema di “ricondizionare” decine di migliaia di

guerrieri, pronti a morire ad una sola parola del

proprio signore. Prima di allora è più giusto parlare

di Bujutsu ovvero di tecniche di guerra, che hanno il

fine di preparare un guerriero ad uccidere in maniera veloce ed

efficiente. Il passaggio ad un etica di pace è anche accompagnato ad uno

spostamento dai valori di consapevolezza della transitorietà, espressi dal

Buddismo Zen, a quelli di fondamentalità della regola, espressi dal

Confucianesimo88.

Per essere precisi occorre dire che Budo non è un luogo, ne un

elenco di discipline89, Budo è uno stato cui si perviene quando la propria

pratica delle arti marziali raggiunge una certa qualità. Scrive Tokitsu:

“Quando, in questo lasso di tempo che è la vita, si associa alla pratica

delle arti marziali, una tensione verso il miglioramento di se stessi, cioè

della persona nella sua totalità, nasce l’idea di Budo, quale che sia la

propria cultura di origine … Il Budo non costituisce dunque un genere

tra le discipline del combattimento, ma consiste nel modo in cui vi

impegnate in una disciplina dell’arte del combattimento, ricercando

l’efficacia90“.

Sempre secondo Tokitsu, la tensione verso la realizzazione del sé

non è un concetto astratto ma poggia su di una concreta sensazione

corporea comune a tutti gli esseri umani. Questa sensazione corrisponde

alla nozione di Ki: “una certezza interiore, estremamente difficile da

spiegare con le parole, ma comunicabile con il corpo91”.

88 Cfr. G.L. Buffo “Aikido, una via dello spirito” Xenia, Milano 1998 89 Anche se molto spesso è ridotto a somma delle discipline che portano il suffisso Do. 90 Cfr. K. Tokitsu “Il Ki e il senso del combattimento” Oriental Press, Milano 2002 91 Cfr. K. Tokitsu “Il Ki e il senso del combattimento” Oriental Press, Milano 2002

69

Il Ki

A complicare una spiegazione del concetto relativo alla parola Ki

è persino l’ideogramma che viene utilizzato per indicarla. La struttura di

questo ideogramma è rappresentata da tre concetti correlati. Il primo,

nella parte inferiore, composto da una riga verticale

traversata da tratti orizzontali, raffigura una sostanza

eterea, sottile o intangibile, mobile ed indefinita92. La

parte mediana rappresenta qualcosa che chiude e

nasconde, i tre tratti della parte superiore indicano il

concetto di non dire e di frenare il dire. Il senso generala di questo

ideogramma è quindi “Energia nascosta di cui non si può dire con le

parole93”. In India corrisponde al Prana, in occidente è stato spesso

tradotto come Pneuma, nell’accezione greca di “soffio vitale”.

Nella lingua Giapponese sono numerose le espressioni che

utilizzano la parola Ki, in molte altre essa viene presupposta. Negli

scritti di epoca medioevale, soprattutto, questo concetto viene utilizzato

come Medium espressivo per intendere l’esperienza implicita nel proprio

vissuto94. Tokitsu scrive: “Attraverso la sensazione del Ki, i Giapponesi

sembrano aver captato dei fenomeni naturali senza cercare di spiegarli.

Non hanno escluso dal campo del linguaggio le sensazioni più vaghe. …

Quando hanno avuto la necessità di verbalizzare il mediatore, il medium,

che corrispondeva a certe sensazioni vaghe, i Giapponesi hanno

utilizzato la parola Ki. Di conseguenza, la sensazione del Ki sembra

situarsi più in profondità e più arcaicamente, di quelle che sono divenute

oggetti di sapere. Una delle particolarità della cultura e della società

Giapponese sembra essere quella di aver dato un posto importante a

questo tipo di percezione, pur sviluppando una logica moderna.95”

Sempre secondo Tokitsu, quello del Ki è un fenomeno

interculturale, una peculiarità della razza umana la cui interpretazione e 92 Cfr. G.L. Buffo “Aikido, una via dello spirito” Xenia, Milano 1998 93 Cfr. G.L. Buffo “Aikido, una via dello spirito” Xenia, Milano 1998 94 Cfr. K. Tokitsu “Il Ki e il senso del combattimento” Oriental Press, Milano 2002 95 Cfr. K. Tokitsu “Il Ki e il senso del combattimento” Oriental Press, Milano 2002

70

percezione si diversifica a seconda delle culture. In particolare lo

sviluppo in senso logico delle lingue e delle culture occidentali hanno

posto sempre più in profondità ed in secondo piano la sensibilità per

questo fenomeno. Per percepire il Ki, occorre mettere in secondo piano

il proprio Io davanti a ciò che ci circonda. Aiuterà a questo scopo

ricordare che nella lingua Giapponese non esisteva, prima dei contatti

con l’occidente, un termine per esprimere il concetto di natura, essendo

l’uomo Giapponese inserito in un contesto in cui si percepiva un tutt’uno

con la natura stessa.

Anche il concetto del Ki, come quasi tutti gli aspetti culturali del

Giappone classico è un concetto che arriva dalla Cina, dove è conosciuto

come Qi ed è scritto con lo stesso ideogramma usato dai Giapponesi per

Ki. Le discipline utilizzate per sviluppare la propria sensibilità al Ki

sono simili in Cina, dove prendono il nome di Qi Gong96 e in Giappone,

dove sono chiamate Kiko. Non a caso Taoisti e Buddisti ricercano uno

stato mentale distaccato dal sistema delle parole, essi cercano di captare

l’essenza delle cose, senza costringerla in un concetto statico. Essi

rifiutano di esprimere un sentimento con un nome, perché in questo

modo esso entrerebbe a far parte della concezione duale, che dimentica,

ad esempio con la concettualizzazione della parola amore, dell’odio, che

è parte integrante di questo. Distruggendo così il perfetto equilibrio

insito nella natura del Tao97.

Come approcciare in un ottica occidentale e scientifica un

concetto di questo tipo, per sua stessa natura e definizione avulso dalle

regole, e dalle concettualizzazioni che normalmente sorreggono le nostre

ipotesi?

Il concetto di Ki potrebbe di diritto iscriversi ad essere analizzato

dalla Metafisica, almeno nella concezione che, all’inizio del novecento,

le viene data da H. Bergson98. Se invece desideriamo (e lo desideriamo)

96 In Italiano tradotto con “Ci Kung”, all’incirca “lavoro lungo, energico e difficile sul Ci” 97 Che rappresenta il perfetto equilibrio insito nella natura non duale delle cose. 98 Egli individua infatti come organo della Metafisica, l’intuizione, la quale permetterebbe di cogliere l’interiorità e l’essenza del reale, cioè la vita e lo spirito, di contro all’intelletto, organo

71

restare nell’ottica scientifica, un Aiuto notevole ci viene dagli studi del

1968 sulla lateralizzazione del cervello umano, che hanno valso il

premio Nobel per la medicina nel 1981 allo scienziato Americano Roger

W. Sperry.

Sperry scopre, nei suoi studi, che il cervello umano ha due

diverse modalità di pensiero, una verbale, analitica e consequenziale,

riferita all’emisfero sinistro, un'altra visiva, percettiva e globale, con

sede nell’emisfero destro. Viene spontaneo considerare, senza alcuna

pretesa di generalizzazione, che forse il pensiero Occidentale ha

contribuito a predisporre la mente ad una prevalenza dell’emisfero

sinistro sul destro e viceversa in Oriente.

Non sono a conoscenza di discipline per lo sviluppo della

sensibilità al Ki di derivazione Occidentale, pure, posso portare un

esempio secondo me calzante. Alla fine degli anni settanta, un artista

americana insegnante di disegno, Betty Edwards, dopo aver scoperto gli

studi di Sperry sulla lateralizzazione, inventa un metodo99 basato su

tecniche realizzate per ingannare le funzioni peculiari dell’emisfero

sinistro e facilitare così l’apprendimento del disegno attraverso la

funzionalità del destro. Il metodo risulta straordinariamente efficace e il

libro100 che lo descrive, diviene un Best Sellers, tradotto in tutto il

mondo.

La Edwards, intuisce che le funzioni della parte destra del

cervello sono quelle primarie per la produzione artistica. L’istintività, la

confusione col tutto, la perdita del senso del tempo. In definitiva,

l’essere sensibili al Ki. Non si può non pensare alle parole di Suzuki, già

citate in questa tesi: “quello stato in cui non vi è la minima frattura, non

vi è lo spessore di un capello, tra la volontà di un individuo e la sua

azione …”. Ed ecco che si torna alle arti marziali, dove la parola Arte,

anteposta a marziale, acquisisce ora un diverso significato e un altro

spessore concettuale. delle scienze, che si limita a ciò che è spaziale e continuo Cfr. “Enciclopedia Garzanti di Filosofia” Garzanti,Milano 1993 99 Metodo apprezzato ed appoggiato dallo stesso Sperry. 100 B. Edwards “Disegnare con la parte destra del cervello” Longanesi, Milano 2002

72

“Non Colpire per vincere ma colpisci dopo avere vinto”. Questa

frase, che i maestri di arti marziali ripetono da sempre ai loro allievi,

vuole in questo caso significare che la concentrazione dell’adepto deve

essere totale e pronta a percepire un momento di rottura in quella

dell’avversario. Avendo percepito un incrinazione nella concentrazione,

o se vogliamo, nel Ki dell’avversario, o meglio ancora, se

metaforicamente, lo scorgiamo con i piedi fuori dalla via (Do), allora

possiamo colpire, avendo già vinto101. Ma la concentrazione da mettere

in ballo, è quella corrispondente alle prerogative dell’emisfero destro, la

capacità di astrarsi dal proprio Io e confondersi con la totalità, per

cogliere la minima modificazione dell’ambiente circostante, ambiente

che a questo punto contiene noi e il nostro avversario in maniera

inscindibile. Questa concentrazione verso il Ki, che in termini

occidentali potrebbe essere più concretamente chiamata distrazione dal

sé, è probabilmente quello che si intende quando si dice “essere nella

via”. Una poesia del famoso spadaccino Miamoto Musashi, del quale

abbiamo già detto che pervenne alla realizzazione in tutte le arti

perseverando nell’arte della spada fino ad ottenere la via, disegna

perfettamente lo stato dell’anima del combattente:

La corrente del fiume invernale

Riflette la luna

Sull’acqua trasparente come uno specchio102

L’Hara

La cultura orientale non divide, o meglio non differenzia,

l'energia fisica da quella mentale e psichica: l'energia è unica, mente e

corpo rappresentano un unico fenomeno che, coordinato, permette una

vita equilibrata. Il luogo in cui avviene questa coordinazione è 101 Un combattimento di questo livello si può avere tra maestri, non tra semplici praticanti, come ad esempio sono io. 102 La poesia in questione era probabilmente un Haiku, ovvero una composizione nel metro tradizionale di 5, 7, 5 ma la traduzione non ha evidentemente potuto essere rispettosa del metro.

73

individuato nell'Hara: esso è di fatto il "centro" di ogni individuo, a cui

tutte le culture attribuiscono grande importanza. Per quanto riguarda la

nostra cultura, basti pensare alla celebre figura dell’uomo di Leonardo

da Vinci.

Se accettiamo la raffigurazione di questo "centro" come

ricettacolo dell'energia, si comprende come la pratica nel Dojo consideri

sempre come indispensabile ed irrinunciabile far partire da questo

"punto" movimenti ed azioni.

In termini occidentali si può parlare di "baricentro" e di quanto

sia importante essere consapevoli della sua esistenza nel momento di

eseguire le tecniche, allo scopo di conservare l’ equilibrio fisico e

mentale a discapito di quello dell'avversario. L’idea di baricentro però è

statica, invece nella concezione orientale dall’Hara parte e si irradia

l’energia, il Ki. Un altra immagine dell’importanza dell’Hara l’ho

trovata leggendo un intervista ad un noto maestro di Capoeira103

Brasiliano, Djamir Pinatti, in un accezione culturale dunque, ne orientale

ne interamente occidentale. Alla domanda104 - Perché durante il Jogo105

la musica è imprescindibile? Il Maestro Pinatti risponde: “Il fatto che la

Roda sia avvolta dalla musica e dal canto ne rafforza il senso del rituale

all’interno di un percorso di iniziazione, di crescita personale, di sintonia

con le forze del cosmo, di autoconsapevolezza. In questo senso lo spazio

della Roda106 è un luogo sacro e, soprattutto con la Capoeira

tradizionale, Angola, che è più lenta, si ottiene di spezzare le tensioni

soggettive mediante il rallentamento del movimento, di favorire una

sorta di trascendenza, di elevazione spirituale. La circolarità, la musica,

la fluidità, inducono il praticante in uno stato di superiore attenzione nel

quale aumenta la capacità di percepire il proprio sé. Lo strumento a

corda di accompagnamento, il Berimbau, si appoggia con la cassa di

103 Arte marziale nata in brasile tra gli schiavi delle piantagioni e sincretizzata in danza per nasconderne la pratica ai sorveglianti. 104 Il Manifesto, sabato 11 giugno 2005, pag. 16 “Arte, sport e ribellione, il gioco della Capoeira” di Marco Perisse. 105 L’allenamento alla Capoeira è detto Jogo. 106 Roda è il cerchio dei praticanti dentro al quale si svolge il combattimento della Capoeira.

74

risonanza sotto lo stomaco, dove gli orientali collocano il Chakra del

basso ventre, lo Hara, fonte dell’energia …”

Il successo delle discipline interiori e l’approccio scientifico

Le arti marziali sono state considerate a lungo in occidente alla

stregua delle discipline sportive, l’aspetto esteriore dell’arte ha a lungo

prevalso su quello interiore. Dopo mezzo secolo si può dire che

l’approccio si sta invertendo107. Con grande fatica e molto sospetto si

comincia a familiarizzare con concetti come quelli di Ki o Hara e con

discipline come la meditazione, tanto comuni ed accettate in oriente

quanto ostiche per la mentalità scientifica e razionalista.

La prima delle scienze occidentali a percorrere le strade scivolose

del sapere tradizionale orientale è la psicologia108, e il primo pioniere in

questo senso è certo C. G. Jung. Egli dedicò approfonditi studi alle

culture e alle religioni orientali e trovò numerose analogie tra quelle e la

sua “Psicologia Analitica”109. Jung nel 1949 scrisse anche una famosa

prefazione all’edizione inglese de “I Ching110”, il libro del sapere

Taoista, noto anche come “il libro dei mutamenti”, tradotto dal famoso

sinologo Richard Wilhelm, del quale era amico personale. In questa

introduzione, celebre quasi quanto il libro stesso, Jung descrive

sommariamente le differenze che intercorrono tra mentalità Orientale ed

Occidentale, poi, nella parte più corposa di essa, chiede al libro stesso

cosa egli pensi della sua introduzione, e cosa egli pensi del fatto che i

107 Uno studio di Michel Calmet dell’Università di Montpellier, presentato al 3° International symposium on traditional, Karate, Budo, Arts and combat Sports. Milano 7-8 May 2005, mette a confronto le pubblicazioni relative a tre arti marziali: Tai Ci, Karate e Judo. Calmet osserva che il maggior interesse è suscitato dal Tai Chi, l’unica disciplina completamente non competitiva e dichiaratamente dedicata allo sviluppo interiore, al quale è dedicato circa il 50% delle pubblicazioni. 108 Oltre che le scienze però a certi aspetti della cultura orientale si era interessata la politica, è noto l’interesse del nazismo per il Buddismo Tibetano, dal quale venne mutuata la svastica, simbolo del Sole, che fu però invertita graficamente. E’ anche noto l’interesse per lo Zen Giapponese di un ideologo del razzismo come Julius Evola, che tradusse dall’inglese “Saggi sul buddismo zen” di D. T. Suzuki. 109 Psicologia e religione, 1940 – Psicologia ed alchimia, 1944 110 R. Wilhelm a cura di “I Ching” Adelphi, Milano 1995

75

loro nomi vengano legati111. Tralasciando le risposte del libro che, pure

se interessanti, non sono significative per questa trattazione, vorrei però

riportare alcune delle frasi relative alla prima parte dell’introduzione:

“… è curioso che un popolo dotato e intelligente come i cinesi non abbia

mai prodotto ciò che noi chiamiamo scienza. La nostra scienza però si

basa sul principio di causalità, e la causalità è considerata verità

assiomatica. Ma un grande cambiamento è ormai avviato. Ciò che la

critica della ragion pura di Kant non ha potuto fare, lo sta facendo la

fisica moderna. Gli assiomi della causalità sono scossi nelle loro

fondamenta: ora sappiamo che quelle che noi chiamiamo leggi di natura

non sono altro che verità statistiche, costrette perciò ad ammettere delle

eccezioni … La mentalità cinese, quale io la vedo all’opera nell’I Ching,

sembra preoccuparsi esclusivamente dell’aspetto accidentale degli

eventi. Ciò che noi chiamiamo coincidenza sembra essere la cosa della

quale questa peculiare mentalità112 s’interessa principalmente, mentre

ciò che noi adoriamo come causalità, passa quasi inosservato … Mentre

la mentalità occidentale pone ogni cura nel vagliare, pesare, scegliere,

classificare, isolare, l’immagine che il cinese si fa del momento,

racchiude ogni cosa fino al più minuto e assurdo particolare, perché

l’istante osservato è il totale di tutti gli ingredienti … L’antica mentalità

cinese contempla il cosmo in una maniera paragonabile a quella del

fisico moderno, il quale non può negare che il suo modello del mondo

sia una struttura decisamente psicofisica. L’evento microfisico include

l’osservatore esattamente come la realtà che forma il sostrato dell’I

Ching abbraccia le concezioni soggettive, ovvero psichiche, nella totalità

della situazione momentanea. Come la causalità descrive la sequenza

degli eventi, così per la mentalità Cinese la sincronicità considera la loro

coincidenza.” Jung non prende parte, egli osserva che l’ I Ching può

presentare qualche interesse per chi ami guardare il mondo dall’angolo

visuale da cui lo considerava l’antica Cina.

111 L’”I Ching” infatti è un libro utilizzato per realizzare divinazioni, un oracolo, potremmo dire. 112 Più avanti la chiamerà “sincronicità” in opposizione alla “causalità” madrina del pensiero occidentale.

76

Circa trenta anni dopo è il turno di un fisico, Fritjof Capra di

cercare di dimostrare la possibile armonia tra lo spirito della saggezza

orientale e le concezioni più recenti della scienza occidentale113. Ma la

testa di ponte che fa si che un numero sempre maggiore di persone si

interessi all’Oriente è il successo di alcune pratiche della medicina

tradizionale Cinese, come l’agopuntura o la riflessologia, che dal

secondo dopoguerra in poi vengono sempre più utilizzate in tutti i paesi

occidentali, queste discipline porteranno un numero sempre maggiore di

persone a dedicarsi all’approfondimento dei temi culturali connessi, e

dunque alla conoscenza sempre più profonda dalla concezione culturale

Orientale.

In tempi recenti ricerche psico sociali come quelle dello

psicologo Daniel Goleman sulla meccanica delle emozioni114, studi di

medicina, come quelli del medico Jon Kabat-zin115 sulle implicazioni

terapeutiche delle pratiche meditative, hanno aperto la strada a tutta una

serie di utilizzi pratici delle conoscenze orientali per agevolare la vita

nella nostra società, che vede un numero sempre maggiore di individui

border line.

Oggi le arti marziali vengono a volte consigliate dagli psicologi,

come percorso di guarigione per gli adulti116, o come percorso di crescita

psico fisica per bambini ed adolescenti. I motivi, che potrebbero

sembrare ovvi, appartengono ad una realtà dai contorni complessi e

sfumati. La pratica delle arti marziali potrebbe sottendere aspetti

sublimatori e ritualizzati dell’aggressività, di possibile significato

terapeutico. Inoltre nell’area delle differenze di genere la pratica

potrebbe essere vissuta come conferma di genere per gli uomini o come

113 F. Capra “Il Tao della Fisica” Adelphi, Milano 1989 114 D. Goleman “Intelligenza emotiva” Bur, Milano 2002 115 Direttore della clinica per la riduzione dello stress dell’università del Massachussets. 116 Uno tra tanti il notissimo psichiatra Giorgio Nardone, collaboratore di P. Watzlawick e co-fondatore della “Psicologia breve o strategica”. Cfr G. Nardone “Cavalcare la propria tigre” Ponte alle grazie, Milano 2003

77

ricerca di mascolinizzazione per le donne117. Il tutto al di la e al di fuori

della pratica agonistica.

Il Karate, e le arti marziali in genere, possono inoltre dare un

grosso contributo alla rottura degli schemi introiettati di produzione di

stress, ansia e panico. Su questo vorrei dare qualche spiegazione.

Di fronte ad una minaccia fisica o psicologica, il nostro essere

instaura una particolare reazione, proporzionata a quanto percepiamo

pericoloso l’evento. Di fronte ad una minaccia di notevole carica

emotiva, l’organismo mette in moto una reazione di allarme per

preparare una rapida azione difensiva o offensiva, quello che i fisiologi

chiamano “fight or flight reaction”118. Quasi istantaneamente si produce

una sovreccitazione caratterizzata da forti tensioni muscolari ed

emozioni intense, tramite segnali nervosi e liberazione di ormoni dello

stress quali soprattutto l’epinefrina119. Tutto ciò avviene tramite

l’attivazione di un particolare ramo del sistema nervoso autonomo: Il

sistema simpatico, che ha la funzione di accelerare i processi interni del

corpo, mentre il parasimpatico serve a rallentarli. L’Ipotalamo, regione

del sistema libico del nostro cervello120, è l’interruttore che controlla i

due rami, ed è collegato anche al sistema endocrino e muscolo

scheletrico. Senza entrare in ulteriori dettagli, si vede già come il nostro

organismo, come struttura psico fisica, si predisponga alla massima

efficienza di fronte a situazioni di difficoltà. Il problema nasce dal fatto

che, per un animale questo sistema è certamente funzionale e la coppia

di possibilità attacco o fuga è sufficiente per garantirgli la

sopravvivenza, invece, per un animale dal comportamento sociale

complesso come è quello dell’uomo, questo schema è quasi sempre

eccessivo. Non è affatto male disporre di questa capacità fondamentale

di difesa, ma i problemi nascono quando si perde la capacità di

117 Cfr. “Il Karate: Aspetti personologici e fantasie correlate. Considerazioni a margine di rilievi psicometrici e clinici” Relazione di un gruppo di lavoro della clinica psichiatrica dell’ Università degli studi di Genova, presentata al 3° International Symposium on traditional Karate, budo arts and combat sports, Milano 7-8 Maggio 2005 118 Combatti o scappa 119 Conosciuta meglio come Adrenalina. 120 Descritto in letteratura come centro delle emozioni, situato profondamente dentro il cervello.

78

servirsene costruttivamente e questa agisce in noi in modo incontrollato.

La reazione di fight or flight si scatena in noi ogni volta che ci sentiamo

minacciati, ma, quasi mai, è in gioco la nostra vita121. Di fronte ad un

evento particolarmente stressante (come ad esempio la discussione di

una tesi di laurea) le strategie di combatti o scappa messe in gioco dal

nostro sistema libico sono assolutamente inadeguate, la lotta va in questo

caso sublimata sul piano intellettuale ma è chiaro che non si è certo

facilitati dai meccanismi sopra descritti. Quando la sovreccitazione

caratteristica della reazione di stress diventa un modo di vita, la qualità

della vita si abbassa notevolmente, la cronicizzazione della reazione di

stress incontrollata può avere gravi conseguenze per la salute fisica e

psicologica122.

Le arti marziali, con la loro continua ricerca della consapevolezza

di sé e della giusta reazione di fronte agli stimoli esterni, possono

favorire la capacità di instaurare una risposta non inconsapevole, e

perciò adeguata, con grande risparmio di energie nervose e fisiche. In

generale tutte le discipline che mettono al centro la consapevolezza,

siano esse Yoga, pratiche meditative o altro, possono portare benefici di

questo genere, la peculiarità delle arti marziali è che esse portano anche

a conoscere e soprattutto a testare la propria forza fisica e psichica, cosa

che può portare un notevole aiuto al momento in cui la si debba

utilizzare.

Cinema e arti marziali

A metà degli anni 50 il Karate è arrivato in Occidente, la lunga

strada che ha percorso per arrivare a noi, si è oggi molto accorciata. A

metà degli anni settanta il grande successo dei film d’azione di Bruce

121 Questo stesso schema è colpevole della formazione degli attacchi di ansia o di panico. 122 Per tutto questo paragrafo Cfr. Jon Kabatt-Zinn “Vivere momento per momento” Corbaccio, Milano 2005

79

Lee ha fatto si che tutte le palestre si riempissero di corsi di Karate123.

Negli ultimi anni, il cinema, ha visto l’enorme successo dei film

cosiddetti di “cappa e spada” cinesi, in cui la violenza, (in primo piano e

molto esplicita nei film degli anni ‘70) lascia il posto a una visione

fortemente estetizzante del combattimento e dell’addestramento

marziale124.

Ma a rilanciare nell’immaginario collettivo le arti marziali è stata

probabilmente la trilogia di “Matrix” storia scritta da uno sceneggiatore

visionario e geniale, che mescola visioni buddiste e taoiste alla pratica

delle arti marziali, in un universo basato sulla programmazione

informatica, dove è impossibile distinguere tra mondi virtuali e mondi

concreti, con visioni filosofiche intelligenti ed inquietanti.

Per finire

Il Karate è a tutt’oggi la disciplina marziale più praticata in

occidente, non ostante stia riscontrando un calo di presenze in favore di

altre arti. Questa arte marziale ha colpito la fantasia di tanti. Inizialmente

la maggior parte delle persone vi si sono probabilmente avvicinate per

divenire forti, ma chi aveva questo unico scopo ha potuto apprendere

solo uno stile di lotta. Chi ha scorto, dietro alla facciata, l’esistenza di

una disciplina, di una cultura, di una filosofia, e di un modo altro di

concepire se stessi e il mondo, ha messo in gioco sé stesso per

comprendere, imparare, diffondere, un arte, che è prima di tutto uno stile

di vita125.

123 Bruce Lee non praticava Karate ma una variante di Kung Fu studiata da lui stesso, il Jet Kune Do, d’altra parte negli anni settanta, in Italia almeno, l’unica possibilità di praticare arti marziali di percussione era il Karate. 124 Per citare i più famosi degli ultimi anni: “La tigre e il dragone” “Hero” “La foresta dei pugnali volanti” alcuni dei quali sono stati diretti da grandi maestri del cinema, come Zang Jimou. Oppure il Giapponese “Zatoichi” diretto e interpretato da Takeshi Kitano, più crudo ma altrettanto curato. 125 Ho fatto questa riflessione appena appreso, proprio durante la redazione di questa tesi, che il mio Maestro, Augusto Versari, è stato insignito del quinto Dan, il massimo grado nel Karate stile Shotokai, che viene concessa non più ormai per merito tecnico, ma quando il maestro, dimostra di aver dedicato la sua vita alla diffusione del Karate do.

80

Bibliografia

Opere di Kenji Tokitsu:

Kenji Tokitsu “Lo Zen e la via del Karate” Sugarco, Milano 1992

Kenji Tokitsu “Storia del Karate, la via della mano vuota” Oriental

Press, Milano 2005

Kenji Tokitsu “L’arte del combattere” Oriental Press, Milano 2003

Kenji Tokitsu “Kata, forme tecniche e divenire della cultura

Giapponese” Oriental Press, Milano 2004

Kenji Tokitsu “Il Ki e il senso del combattimento” Oriental Press,

Milano 2002

Kenji Tokitsu “la ricerca del Ki” Oriental Press, Milano 2005

Opere dei Maestri del Karate

Gichin Funakoshi “Karate do, il mio stile di vita” Mediterranee, Roma

1987

Shigeru Egami “La via del Karate, passi su una via vivente” Oriental

Press, Milano 2005

Altri di arti marziali

Ennio Falsoni “Il Karate moderno” Feltrinelli, Milano 1974

Guido Luigi Buffo “Aikido, una via dello spirito” Xenia, Milano 1998

Yang jwing Ming “Chi Kung” Mediterranee, Roma 1990

Buddismo

Jorge Luis Borges “Cos’è il buddismo” Newton Compton, Roma 1995

Taisen Deshimaru “Lo zen e le arti marziali” SE, Milano 1995

Eugen Herrigel “Lo zen e il tiro con l’arco” Adelphi, Milano 1975

81

Nyogen Senzaki e Paul Reeps “101 Storie zen” Adelphi, Milano 1973

Alan W. Watts “Lo Zen, un modo di vita, lavoro e arte in estremo

oriente ” Bompiani, Milano 1993

Classici del pensiero orientale

A cura di R. Whilhelm, prefazione di C.G. Jung “I Ching, il libro dei

mutamenti” Adelphi, Milano 1995

Mumon “La porta senza porta” Adelphi, Milano 1987

Anonimo “I 36 Stratagemmi” Edizioni il punto d’incontro, Vicenza 2003

Yamamoto Tsunetomo “Hagakure” Mondadori, Milano 2002

Miyamoto Musashi “Il Libro dei cinque anelli” Mondadori, Milano 1998

Buddha “Aforismi e discorsi” Newton Compton, Roma 1994

Sun Tzu “L’arte della Guerra” Guida, Napoli 1991

Cultura Giapponese

Ruth Benedict “Il Crisantemo e la Spada, modelli di cultura

Giapponese” Dedalo, Bari 1968

L. Frederic “Vita quotidiana in Giappone ai tempi dei Samurai” Bur,

Milano 1987

Akira Kurosawa “L’ultimo Samurai” Baldini&Castoldi, Milano 1995

Angela Terzani Staude “Giorni Giapponesi” Tea, Milano 1997

Scienza e Psicologia

Fritjof Capra “Il Tao della Fisica” Adelphi, Milano 1989

Betty Edwards “il nuovo Disegnare con la parte destra del cervello”

Longanesi, Milano 2002

Jon Kabat-Zinn “Vivere Momento per momento” Corbaccio, Milano

2005

Jon Kabat-Zinn “Dovunque tu vada ci sei già” Tea, Milano 1999

82

Daniel Goleman “Intelligenza emotiva” Bur, Milano 1999

Giorgio Nardone “Cavalcare la propria tigre” Ponte alle grazie, Firenze

2003

G. Nardone, P. Watzlawick “L’arte del cambiamento” Ponte alle grazie,

Firenze 1990

Julian Jaines “Il crollo della mente bicamerale e l’origine della

coscienza” Adelphi, Milano 1996

Periodici

“Arti d’Oriente, bimestrale di culture e tradizioni orientali” Oriental

Press, Milano annate 2003, 2004, 2005

Siti tematici sul Web:

www.shotokai.net

www.karate-do-shotokai.org

www.scuolainteriore.it

www.meditare.it

www.vertici.com

www.cooperweb.it

www.fikta.it

www.irimi.it

Testi non pubblicati:

Marco Forti “Shotokai no Rekishi, excursus sulla storia del Karate do

del Maestro Shigeru Egami”, reperibile dalla sezione Download del sito

dell’associazione Shotokai Italia, www.shotokai.net , 2003

Keinosuke Kinoshita “Egami Karate do, Nippon Karate do Yutenkai”

distribuito su richiesta dall’associazione Shotokai Italia, 2000

83

Atti di convegni:

1° International Symposium on Traditional Karate and Budo Arts,

Bologna 15 October 2000

2° International Symposium on Traditional Karate, Budo Arts and

Combat Sports, Milano 9-10 November 2002

3° International Symposium on Traditional Karate, Budo Arts and

Combat Sports, Milano 7-8 May 2005

1° “International Shotokai meeting”, svoltosi ad Almada, Portogallo,

ottobre 2003

84

ALLEGATO A:

I CIRCUITI NEURALI DELLA PAURA126

Tratto da”Intelligenza Emotiva” di D. Goleman

L'amigdala ha una funzione centrale per la paura. Quando una

rara malattia cerebrale distrusse l'amigdala di S.M. (senza però

danneggiare le altre strutture cerebrali), la paura scomparve dal suo

repertorio mentale. La donna diventò incapace di identificare le

espressioni di paura sul volto degli altri e di esprimere paura

personalmente. Come afferma il suo neurologo, «se qualcuno puntasse

una pistola alla tempia di S.M., lei sarebbe conscia intellettualmente di

aver paura, ma non si sentirebbe impaurita come lo saremmo io, lei e

chiunque altro».

I neuroscienziati hanno esplorato i circuiti della paura nelle loro

più sottili diramazioni, benché allo stato attuale delle ricerche non siano

stati studiati con completezza i circuiti di alcuna emozione. La paura è

un caso che si presta assai bene per comprendere la dinamica neurale

delle emozioni. Nel processo evolutivo la paura riveste un'importanza

particolare, perché più di ogni altra emozione ha rilievo per la

sopravvivenza. Ovviamente nei tempi odierni le paure in-giustificate

sono la rovina della vita quotidiana e ci procurano sofferenze dovute a

una grande varietà di preoccupazioni, all'angoscia e, in casi patologici,

agli attacchi di panico, alle fobie o al disturbo ossessivo compulsivo.

Immaginate di essere soli a casa di notte e di stare leggendo un

libro, quando all'improvviso sentite un rumore in un'altra stanza. Ciò che

accade nel vostro cervello nei momenti successivi ci fa capire come

funzionano i circuiti neurali della paura e quale sia il ruolo dell'amigdala

come sistema di allarme. Il primo circuito cerebrale coinvolto si limita a

ricevere il suono nella sua natura fisica ondulatoria e lo trasforma nel

linguaggio del cervello per mettervi in allarme. Questo circuito va

dall'orecchio al tronco encefalico e poi al talamo. Di lì si dipartono due

vie nervose: una diramazione più piccola conduce all'amigdala e al

126 Cfr Daniel Golemann “Intelligenza Emotiva” Bur, Milano 2002

85

vicino ippocampo; l'altra, più grande, porta alla corteccia uditiva nel

lobo temporale, dove i suoni vengono classificati e compresi.

L'ippocampo, un magazzino fondamentale per la memoria, rapidamente

raffronta quel «rumore» ad altri suoni simili già uditi in passato, per

capire se è un suono conosciuto: è un rumore che voi immediatamente

riconoscete? Nel frattempo la corteccia uditiva sta svolgendo un'analisi

più sofisticata del suono per cercare di com-prenderne la fonte: forse il

gatto? Una persiana che il vento manda a sbattere contro la finestra? Un

ladro? La corteccia uditiva formula un messaggio - potrebbe essere il

gatto che ha fatto cadere una lampada dal tavolo, ma potrebbe anche

essere un ladro e lo invia all'amigdala e all'ippocampo, che rapidamente

lo paragonano a ricordi simili.

Se la conclusione è rassicurante (è soltanto la persiana che sbatte

a ogni raffica di vento), allora l'allarme generale non si innalza a un

livello più alto. Ma se siete ancora incerti, un altro circuito fra

l'amigdala, l'ippocampo e la corteccia prefrontale, accresce ulteriormente

l'incertezza e fissa la vostra attenzione, inducendovi a cercare di

identificare la fonte del suono con sempre maggior preoccupazione. Se

da questa ulteriore analisi non si ricava una risposta soddisfacente,

l'amigdala fa scattare un allarme e la sua area centrale attiva l'ipotalamo,

il tronco encefalico e il sistema neurovegetativo.

La meravigliosa architettura dell'amigdala come sistema

d'allarme centralizzato del cervello si rende evidente in questo momento

di apprensione e di ansia subliminale. Nell'amigdala ogni fascio di

neuroni ha diramazioni particolari con recettori predisposti per differenti

neurotrasmettitori, qualcosa di simile a quei sistemi di allarme nei quali

le singole abitazioni sono collegate con operatori pronti a chiamare i

vigili del fuoco, la polizia o un vicino di casa ogni volta che parte un

segnale d'allarme dagli impianti delle varie case.

Diverse partì dell'amigdala ricevono informazioni differenziate.

Al nucleo laterale dell'amigdala pervengono diramazioni dal talamo e

dalle cortecce uditiva e visiva. Gli odori, attraverso il bulbo olfatti-vo,

86

arrivano all'area corticomediale dell'amigdala, mentre i sapori e i segnali

viscerali finiscono nell'area centrale. Questi segnali in arrivo fanno sì

che l'amigdala sia come una sentinella sempre all'erta, che analizza ogni

esperienza sensoriale.

Dall'amigdala si dipartono diramazioni verso ogni area principa-

le del cervello. Dalle aree centrale e mediale un fascio va verso le aree

dell'ipotalamo che secernono l'ormone corticotropo (Crh), la sostan-za

con la quale l'organismo reagisce alle emergenze, attivando la reazione

di combattimento o fuga attraverso una serie di altri ormoni. L'area

basale dell'amigdala invia diramazioni al corpo striato, collegandosi così

al sistema cerebrale che regola il movimento. E, mediante il vicino

nucleo centrale, l'amigdala invia segnali al sistema neurovegetativo

attraverso il midollo spinale, attivando una vasta serie di reazioni a largo

respiro che riguardano il sistema cardiovascolare, i muscoli e l'intestino.

Dall'area basolaterale dell'amigdala si diramano fasci nervosi verso la

corteccia del cingolo e verso le fibre conosciute come «il grigio

centrale», struttura che regola la muscolatura scheletrica. Sono queste

cellule che fanno ringhiare il cane o inarcare il gatto per minacciare

l'intruso nel loro territorio. Negli uomini questi stessi circuiti tendono i

muscoli delle corde vocali e creano il tono alto di voce emessa quando si

ha paura.

Un altra via che si diparte dall'amigdala conduce al locus ceru-

leus, nel tronco cerebrale che, a sua volta, produce la noradrenaline la

diffonde nel cervello. L'effetto della noradrenalina è di aumentare la

reattività complessiva delle aree cerebrali che la ricevono, rendendo più

sensibili i circuiti sensoriali. La noradrenalina soffonde la corteccia, il

tronco encefalico e lo stesso sistema limbico, in sostanza mette in

tensione il cervello. Ora, perfino uno scricchiolio consueto in casa può

farvi provare un fremito di paura. Questi mutamenti in gran parte

sfuggono alla consapevolezza, cosicché voi non siete ancora coscienti di

aver paura.

87

Ma appena cominciate davvero a provar paura, cioè quando

l'ansia che è rimasta inconscia penetra nella coscienza, l'amigdala ordina

all'istante una reazione di vasta portata. Essa segnala alle cellule del

tronco encefalico di far assumere ai muscoli del viso un'espressione di

paura, di rendervi nervosi e allarmati, di bloccare i movimenti già in

corso non legati alla reazione, di accelerare il battito cardiaco, e alzare la

pressione sanguigna e rallentare la respirazione (vi sarete accorti che,

non appena provate paura, improvvisamente trattenete il respiro, ciò che

vi permette di udire più distintamente eventuali altri rumori provocati da

ciò che vi ha impaurito). Questa è solo parte di una serie di cambiamenti,

ampia e ben coordinata che l'amigdala e le aree a essa collegato

organizzano durante quelli che abbiamo definito «sequestri» neurali.

Nel frattempo l'amigdala, insieme all'ippocampo a essa collegato,

ordina alle cellule che inviano i neurotrasmettitori di provocare scariche,

ad esempio, di dopamina, che vi inducono a concentrare l'attenzione

sulla fonte della vostra paura, gli strani rumori che avete udito, e

predispongono i muscoli a reagire di conseguenza. Allo stesso tempo

l'amigdala comunica con le aree sensoriali della visione e dell'attenzione,

facendo in modo che gli occhi cerchino tutto ciò che è rilevante per

l'emergenza. Simultaneamente i sistemi mnemonici corticali vengono

riorganizzati in modo che le conoscenze e i ricordi più pertinenti alla

particolare urgenza emozionale possano essere prontamente rievocati,

avendo la precedenza su altre linee di pensie-ro meno pertinenti.

Una volta che questi segnali sono stati inviati, voi siete in preda

alla paura: diventate consapevoli della caratteristica tensione dello

stomaco e dell'intestino, del cuore che batte più in fretta, della tensione

dei muscoli del collo e delle spalle e del tremito delle membra; il corpo

si immobilizza, mentre vi sforzate di udire altri suoni e correte col

pensiero a identificare possibili pericoli in agguato e i modi per reagire.

L'intera sequenza dalla sorpresa all'incertezza, all'apprensione alla paura

può verificarsi in un secondo circa.

88

(Per maggiori informazioni, vedi Jerome Kagan, Galen's Prophecy, New

York, Basic Books, 1994.)

89

ALLEGATO B

L’INSEGNAMENTO DEL KARATE AI BAMBINI

<<Dagli Atti del primo “International Shotokai meeting”, svoltosi ad

Almada, Portogallo, ottobre 2003>>

L’insegnamento del Karate-do Shotokai ai bambini

La nostra esperienza ad Almada

Vorrei condividere con voi l’esperienza dell’Associação Shotokai de

Portugal nel campo dell’insegnamento del Karate-do Shotokai ai

bambini.Per prima cosa qualche notizia riguardo al Karate-do Shotokai

per bambini ad Almada (mi concentrerò su quest’area [potete comunque

dare un’occhiata alla distribuzione dei dojo dell’ASP in Portogallo a

questo indirizzo: http://www.cao.pt/shotokai/dojos.htm] perché è la mia

città e di conseguenza ne ho una conoscenza migliore rispetto a qualsiasi

altra area del Paese).

Almada è una città con una popolazione di 160.000 abitanti e

l’insegnamento riguarda circa 180 bambini (dai 4 ai 14 anni) che

praticano Karate-do Shotokai in 7 dojo sotto la guida di un direttore

tecnico (istruttore capo), 2 istruttori e 5 assistenti. Gli anni di esperienza

nell’insegnamento di questi tre istruttori sono, rispettivamente: 26, 15 e

8 anni.

Quando Murakami Sensei127 era vivo ed attivo nell’insegnamento, i

bambini sotto i 14 anni rappresentavano una piccola percentuale dei

praticanti, ma nelle ultime decadi le cose sono pian piano cambiate ed

ora, più del 50% dei nostri praticanti hanno un’età inferiore ai 14 anni.

Per questo motivo, nel corso del tempo abbiamo dovuto sviluppare un

tipo speciale di pratica adattata ai più piccoli. È stato un lungo lavoro,

durato più di vent’anni..Nel corso di questo tempo abbiamo fatto molte

ricerche, abbiamo partecipato e organizzato corsi federali e incontri

127 Sensei: Maestro in Giapponese

90

interni nonché altre azioni educative, con la partecipazione di psicologi,

pedagoghi e insegnanti di educazione fisica. Al momento stiamo

selezionando e condensando tutto il materiale raccolto in un “Manuale

per l’insegnamento del Karate-do Shotokai ai bambini” tascabile

(sfortunatamente questo materiale è presente solo in lingua portoghese,

ma una parte di esso è stato tradotto da bibliografia in inglese e francese;

penso sia possibile adattarlo in altre lingue in futuro qualora qualcuno ne

manifestasse interesse). Nelle classi di Shotokai riservate ai bambini la

varietà delle esperienze è massimizzata. La specializzazione viene

evitata. Usiamo anche qualche tecnica presa da altre Arti Marziali,

specialmente il Judo (in particolare cadute, proiezioni e prese) e

facciamo naturalmente molti giochi, la maggior parte dei quali sono

giochi tradizionali portoghesi (questo Paese, probabilmente grazie anche

alle condizioni climatiche eccellenti, ha una grande ricchezza di giochi

all’aria aperta). Al contrario di quello che si potrebbe pensare, la parte

comune nell’insegnamento agli adulti e ai bambini è proprio il

programma tecnico. Usiamo esattamente lo stesso programma tecnico (!)

per tutte le età dai 4 agli 84 anni. Allora, qual è il trucco? L’adattamento

alle esigenze. L’esigenza riguardo alla perfezione tecnica cresce con

l’età, dai 4 ai 14 anni, sempre tenendo in considerazione che lo sviluppo

di un bambino è sempre un fattore individuale e non può essere

completamente standardizzato in base all’età..I gradi ottenuti sono

universali. Voglio dire un 4° Kyu è un 4° Kyu indipendentemente

dall’età e deve essere in grado di eseguire tutte le tecniche richieste per

ottenere quel grado. Imponiamo comunque un’età minima per gli “alti”

gradi: 14 anni per il 2° Kyu, 16 anni per il 1° Kyu e 18 anni per il 1° Dan

(riteniamo che la maggiore età sia necessaria ad una persona per portare

la cintura nera). Così – vi potreste chiedere – come facciamo ad

incoraggiare un bambino a continuare la pratica per 10 anni (dai 4 ai 14

anni) con solo 4 passaggi di grado (da 6° a 2° Kyu). Bene, la risposta è

semplice. Per prima cosa non enfatizziamo il passaggio di grado, ma la

pratica in sé. Gli esami sono formali e ci sforziamo di essere giusti (i

91

bambini tendono ad essere ipersensibili alle ingiustizie) ma non

drammatizziamo..In secondo luogo dividiamo ciascun Kyu in tre livelli

(qualche dojo rende materiali questi passaggi intermedi con strisce

colorate sulle cinture dei bambini, altri no). In questo modo, nel caso

estremo che un bambino inizi ad allenarsi a 4 anni, abbiamo 12 passaggi

da distribuire per un periodo di 10 anni. Posso assicurarvi una cosa: il

sistema funziona molto bene! Nessun bambino che abbia frequentato

diligentemente un anno di pratica resta senza riconoscimenti e,

naturalmente, il riconoscimento è proporzionale allo sforzo e alla tecnica

dimostrata. Ora un altro punto prima di terminare questo piccolo

resoconto: - Non concordiamo sul fatto che i bambini, per avere uno

sviluppo bilanciato attraverso la pratica del Karate-do Shotokai, debbano

partecipare a competizioni sportive. La nostra esperienza dimostra che

questo è un altro mito. Certo, i piccoli hanno sicuramente bisogno di

giocare e giocare significa fare molte attività ludiche in cui si vince e si

perde. Ma questo non ha nulla a che vedere con la competizione

istituzionalizzata con regolamenti, arbitri, podio e medaglie. Sappiamo

quello che stiamo dicendo perché alcuni di noi hanno provato in passato

a fare questo tipo di competizione con i bambini. Qualcuno di noi

pensava (come forse pensano tuttora molti di voi) che i bambini avessero

un impulso alla competizione più forte rispetto agli adulti. Così abbiamo

fatto molta esperienza in quel campo: competizioni di Kata,

competizioni di Kumite, ecc... Dopo decenni di esperienza, siamo

arrivati alla conclusione che può sorprendere molti di voi: - i bambini

soffrono con questo tipo di competizione, e soffrono molto più degli

adulti. La competizione con arbitri e medaglie, anche se organizzata in

maniera amichevole, porta sempre lacrime su quei piccoli visi.

Semplicemente non possono capire perché solo uno o due di loro

possono salire su quel piedistallo o vincere la medaglia. Nei giochi

tradizionali ci sono molte varietà di ruoli e ogni bambino può avere

l’opportunità di vincere qualche volta, anche se la maggior parte delle

volte perde. Nella competizione istituzionalizzata, accade sempre il

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contrario: solo pochi possono vincere e normalmente sono sempre gli

stessi, gara dopo gara, perché il gioco (kumite o kata) è sempre lo stesso.

Così, anche per i bambini, siamo giunti alla conclusione che la

competizione istituzionalizzata porta più danni che benefici. Da allora

abbiamo semplicemente deciso di smettere. E, ci crediate o no, da quel

momento il numero totale dei bambini è cresciuto ed il numero di

bambini e genitori scontenti è diminuito! Allora cosa resta del mito che

vorrebbe la competizione quale strumento per portare più persone nei

dojo? Semplicemente, noi pensiamo che non sia così. Almada ha una

forte tradizione nelle Arti Marziali, vi si possono trovare arti quali la

Capoeira, il Kung-Fu, il Judo, il Taekwondo, l’Aikido, ecc...

Ciononostante, l’avreste mai detto? Il Karate-do Shotokai, una delle

poche Arti Marziali che non promuove la competizione istituzionalizzata

per i bambini, ha il più alto numero di giovani praticanti. Addirittura più

del Judo! Ed ora la domanda è talmente alta che il fattore limitante,

come forse ora potrete intuire, è rappresentato da noi. Nessuno di noi è

un professionista ed il tempo limitato che possiamo dedicare

all’insegnamento è completamente esaurito..Sono sicuro che molti altri

istruttori hanno differenti esperienze nell’insegnamento ai bambini.

Alcuni sostengono che la competizione sia essenziale per i giovanissimi,

altri probabilmente no. Mi piacerebbe davvero conoscere l’opinione di

altri istruttori in merito alle loro esperienze in questo campo.

José Patrão

Associação Shotokai de Portugal

Copyright © 2003 - José Patrão

93

ALLEGATO C

DAL SITO DELLA SCUOLA SHOTOKAI ITALIA

IL KARATE E LE DONNE

Negli ultimi anni si sta verificando un'inversione di tendenza che,

finalmente, smentisce l'errata convinzione che il Karate sia una

disciplina riservata esclusivamente ad un pubblico maschile. Sempre più

donne di ogni età si avvicinano e si appassionano alla nostra disciplina,

ma nonostante questo sono ancora molte quelle che ne restano lontane

solo perché influenzate da pregiudizi e informazioni errate.

Nell'immaginario collettivo persiste ancora la convinzione che le Arti

Marziali siano esibizioni di forza bruta o, nella migliore delle ipotesi, se

ne evidenzia, in maniera estremamente riduttiva, il solo aspetto legato

alla difesa personale. Proviamo allora a fare chiarezza su cosa sia

realmente il Karate e prepariamoci a sfatare i falsi miti... Nel Karate

tradizionale e nello Shotokai in particolare la forza fisica non conta. Le

tecniche apprese insegnano a non opporre mai forza alla forza ma a

sfruttare l'attacco dell'avversario per neutralizzarne la pericolosità.

L'allenamento costante favorisce l'acquisizione di un corpo sano e

flessibile e accresce la fiducia in se stessi, conferendo calma e serenità e

rendendo così inutile ogni esibizione di forza. Non c'è mai brutalità né

violenza ma sincerità, rispetto, autocontrollo e continuo sforzo di

automiglioramento e crescita interiore. Il Karate non è solo pratica fisica,

è una disciplina attraverso la quale si prende coscienza dello stretto

legame tra corpo e psiche, si avverte il legame causale tra i movimenti

del corpo e la propria personalità ed è per tutti, uomini e donne,

un'occasione per iniziare un viaggio alla scoperta di se stessi.Praticare

Karate significa innanzitutto spogliarsi del vissuto quotidiano -

pregiudizi, maschere, paure, ansie - per migliorarsi e superare i propri

limiti, imparare a credere nelle proprie capacità, senza ostentazione, ed

avere in mente che il primo avversario è sempre e solo dentro di noi.Da

94

questa considerazione è facile comprendere che il Karate è adatto a tutti,

uomini, donne e bambini e che quello che conta è la disposizione

interiore. Durante l'allenamento non importa se di fronte si ha un uomo o

una donna e le donne non hanno indulgenze in considerazione della

propria natura. Nella pratica si annullano le differenze perché il fine è

comune: l'allenamento del corpo e della mente, il rispetto ed il progresso

comune. Uno dei falsi miti vuole le donne come fisicamente inadatte alla

pratica delle arti marziali.Se è vero che gli uomini sono per natura

fisicamente più forti, le donne sono in genere più veloci e più sciolte,

due caratteristiche che nel Karate sono a dir poco fondamentali e ben più

importanti della forza fisica. Per contestare poi l'errata convinzione che

la pratica del Karate possa compromettere la femminilità basterebbe

semplicemente osservare le ragazze che praticano da molti anni insieme

a noi per rendersi conto dell'assurdità di tale affermazione. Lasciamo

però che a sfatare questo falso mito siano le parole dell'endocrinologa

Maria Luisa Brandi, docente all'Università di Firenze e tra i massimi

esperti in materia di osteoporosi e di medicina sportiva in Italia. In un

suo intervento al secondo Congresso di Medicina dello Sport tenutosi lo

scorso luglio 2003 ad Uliveto Terme la professoressa ha affermato che le

Arti Marziali sono addirittura più utili alle donne della danza classica e

dell'equitazione...Citiamo dal suo intervento: «Qualcuno si arrabbierà

ma diciamo la verità: meno danza classica e più atletica, meno cavallo e

più Arti Marziali, meno sci e più nuoto. "Bambine, l'800 è finito, ditelo

ai vostri genitori. Per crescere bene occorrono una buona struttura

muscolo-scheletrica ed un fisico equilibrato"» «Per una ragazza è

essenziale imparare le Arti Marziali: oltre al fatto che servono

all'autodifesa di cui si può sempre aver bisogno, sono discipline

complete, danno una concentrazione straordinaria, fiducia in se stessi,

senso dell'equilibrio e concezione dello spazio che sono i requisiti primi

dell'eleganza del portamento...»

95

ALLEGATO D

Significato ed affinità dello Shiatsu

con il mondo delle Arti marziali.

Di Paolo Asirelli, 2005 (articolo pubblicato sulla rivista

elettronica: “IRIMI online” www.irimi.it)

È noto agli appassionati e studiosi delle Arti Marziali Tradizionali

Giapponesi, lo stretto legame con la dimensione Zen. Parlo in

termini di dimensione, poiché racchiude una vasta gamma di

manifestazioni.

Parte integrante di questa filosofia è l’essere umano, inteso

come entità indissolubilmente legata al tutto. Partendo dalla pura

meditazione, passando attraverso l’Arte della Scrittura, la

Cerimonia del Te, il Bu Do classico, ed altro ancora, l’approccio

pratico e diretto volge all’evoluzione in termini di consapevolezza

ed intuizione.

Al pari del Karate, lo Shiatsu attinge alla stessa fonte, ed

applica i medesimi principi anche se con meccaniche e finalità

solo apparentemente diversi. Un’altra analogia tra le due discipline

è individuabile nella biforcazione tra gli stili interni ed esterni.

Parliamo ora di due Scuole senza ombra di dubbio

identificabili tra gli stili “interni”.

La Scuola Shotokai del Karate Do e la scuola Meiso

Shiatsu nel campo dello Shiatsu. Assumiamo la traduzione del

Karate come “mano vuota”. Letteralmente, Shiatsu significa

“pressione delle dita”. Appare già evidente dal nome che in

96

entrambe l’attenzione è focalizzata sulla mano, e sulla sua capacità

di azione e interazione.

Sia nel Karate Do Shotokai che nel Meiso Shiatsu sono

fondamentali l’affinamento della sensibilità e della consapevolezza

nel rapporto con se stessi, con gli atri e l’ambiente circostante.

Analizzando di seguito i principi e le metodiche che

definiscono il percorso del praticante di Meiso Shiatsu,

appariranno ancora più chiaramente le affinità.

Nel Meiso Shiatsu la parte fondamentale della pratica è

rivolta alla preparazione del terapista. È necessario raggiungere la

migliore condizione di stabilità ed equilibrio, applicando l’uso del

respiro (respirazione Seichushin, pratica del Kiai), bilanciando il

tanden (con pratica Do Zen), in modo da pervenire ad un corretto

assetto posturale che consenta di applicare pressione ed energia in

modo naturale e senza tensioni.

Allo stesso tempo attraverso il pensiero positivo, l’immaginazione,

il ringraziamento (ben amalgamati nel saluto Gassho), si opera

un’armonizzazione interiore molto sottile ma non meno importante

per aprire i canali di comunicazione e sensibilità indispensabili al

terapista.

Da tempo sono ben noti agli esperti di arti marziali i ruoli

di Tori ed Uke. Si tratta di due praticanti che fronteggiandosi

riescono a rendere la massima espressione delle loro azioni quando

animati da pensiero sincero con volontà di interazione volta al

reciproco miglioramento più che all’esibizione di mera forza o alla

prevaricazione per il conseguimento di una effimera vittoria.

Nel Meiso Shiatsu Tori è assimilabile il terapista, ed Uke

alla persona trattata. La massima efficacia della terapia si otterrà

quando il terapista sarà in grado di applicare le tecniche

correttamente, e il paziente di rendersi disponibile a riceverle.

Perché ciò sia possibile, appare chiaro che solo attraverso l’unità di

97

intenti, la massima sincera disponibilità e il pensiero volto al

positivo, l’azione sarà efficace ed i sui effetti apprezzabili.

Attraverso l’uso dell’immaginazione, il terapista potrà

superare facilmente il limite della tecnica ed accedere al più

profondo scambio di forza vitale. Un chiaro esempio di

applicazione di questo principio (se pur con finalità leggermente

diverse), è rappresentato dall’Oitsuki del Karate Shotokai che

viene portato pensando di proiettarlo oltre il bersaglio.

Ovviamente tutta la pratica, sia individuale che di coppia,

richiede la massima concentrazione, sia per renderla efficace che

per rispetto verso se stessi, gli altri e la vita.

Parte fondamentale della preparazione del terapista è la

Pratica Do Zen

Si tratta di una serie di esercizi pratici e di meditazione in

movimento volti al rafforzamento del tandem.

I principi fondamentali sono:

- azione armonica alternata di massima contrazione seguita

da massima decontrazione ed ascolto consapevole degli

effetti

- movimento del corpo in relazione con l’hara alla ricerca

dell’equilibrio attivo

- movimento delle articolazioni in relazione con i meridiani

energetici per il loro bilanciamento

- posizioni di stiramento per la stimolazione dei meridiani e

l’apertura dei canali energetici

- azioni di potenziamento per le attivazioni dei flussi

sanguigni ed energetici

98

Nell’ambito della preparazione non meno rilevante è la

Respirazione Seichushin

È strettamente legata alla pratica Do Zen, in particolare per

l’elasticizzazione del diaframma ed attraverso questo la correzione

dell’asse posturale il massaggio agli organi interni. È uno

strumento importante per un corretto bilanciamento ed utilizzo

dell’energia.

- la tecnica principale consiste nella spinta verso il basso del

diaframma in fase di espirazione con un’azione molto

simile al Kimè del Karatè

- le tecniche di respirazione sono associate al controllo del

sincronismo con il battito cardiaco

L’importanza del

Kiai

È una tecnica ben nota ai praticanti di Arti Marziali.

Consiste in una emissione sonora profonda prodotta da una forte

contrazione diaframmatica verso il basso in fase espiratoria

esercitando la massima pressione sugli organi addominali con

forza nelle lombari e sotto all’ombelico. Nella preparazione, viene

accompagnata dalla percussione dell’hara in posizione Kiba Dacki

La parte applicativa

Se carente di consapevolezza, sensibilità, equilibrio, si

riduce ad una semplice azione meccanica che, per quanto valida,

rischia di non entrare in profondità. Nell’applicazione pratica dello

Shiatsu è necessario, prima di applicare qualsiasi tecnica, qualche

99

istante di ascolto del respiro del paziente in modo da sincronizzare

il proprio con esso. Questo tipo di concentrazione , deve essere

mantenuto per tutta la durata del trattamento.

I CARATTERI DELLA PRESSIONE NELLO SHIATSU

Semplicemente, possiamo definire che tutte le tecniche

fondamentali della pressione esercitata dal terapista rispettano i

seguenti parametri

CONCENTRATA

PERPENDICOLARE

COSTANTE

Questi principi devono essere applicati correttamente, sia che le

tecniche siano con i pollici, le mani, o con l’ausilio di gomiti,

piedi, ginocchia o nell’applicazione delle leve.

Gli stessi principi costituiscono i fondamentali del Kihon nel

Karate.

I KATA’

Nel Meiso Shiatsu sono codificati sette Katà, ognuno dedicato al

trattamento dell’essere umano per armonizzarlo, seguendo precisi

principi.

-Respiro

-Articolazioni

-Circolazione del sangue e linfa

-Pressione

-Regolazione dell’asse

-Organi

-Modi di trattamento

100

Nel Karate, ricercando le radici più profonde,se non limitiamo

l’interpretazione dei Katà al solo svolgersi delle tecniche,

troveremo Katà respiratori, di pressione, uso del respiro e del Kiai,

alternanze di massima tensione e decontrazione, simmetrie di

movimento e conseguente regolazione.

Concludo questa breve indagine con una domanda: Che

cosa è che trasforma una disciplina in un’arte ?

Forse un’alchimia di tecnica, passione, genialità, e

soprattutto la capacità dell’uomo di spendersi con tutto se stesso,

anima e corpo. L’arte è nell’uomo, non nel metodo.

Ritengo che per comprendere a fondo ed onorare lo spirito

dei grandi maestri che ci hanno lasciato queste affascinanti arti

dell’uomo, sia necessario praticare con, umiltà, non

dimenticandoci mai di mettere in gioco la nostra anima, come se

fosse serenamente questione di vita e di morte.

Paolo Asirelli – Praticante di Karate Do Shotokai & Meiso

Shiatsu

Note:

Alcuni elementi di questo testo fanno riferimento al libro ufficiale della Scuola

Meiso Shiatsu.

Yuji Yahiro

MEISO SHIATSU

Terapia e educazione per la salute e l’evoluzione umana.

Quarta edizione

Edizioni Cometa Roma, 2003

101

ALLEGATO E

La pratica del DO

Tratto da “Egami Karate-Do Nippon Karate-Do Yutenkai” di Keinosuke

Kinoshita

Poiché la pratica del Do è sufficientemente presente nelle nostre attività

quotidiane, non dobbiamo cercarla altrove. Leggete attentamente Karate

do dedicato ai professionisti del Maestro Egami. Tra diversi testi

disponibili come riferimento, quali gli aforismi di Confucio, credo che i

libri relativi al taoismo scritti da Lao-Tse siano i più utili.

Esprimo umilmente il mio desiderio che quanto presentato in

questo testo sia di aiuto a coloro che cercano una via per perseguire

l’esperienza del Do.

Lasciatemi ora introdurre il “Ni Nyu Yon Gyo Ron” (due vie per

entrare e quattro idee nell’allenamento). Lo scritto appare nel libro di

Keitoku Dento Roku ed afferma che vi sono due vie per raggiungere la

maestria nel Do; una è l’approccio teoretico, l’altra è l’approccio pratico

ed entrambi gli approcci sono volti a raggiungere lo stesso scopo.

Raccomanda inoltre che si tengano in mente quattro idee mentre si

eseguono gli esercizi. Queste quattro idee derivano dagli insegnamenti di

Daruma (Bodhidharma n.d.t.), fondatore del Buddismo Zen.

1. Houen Gyo: Allenarsi partendo dalle cose basilari, non farsi

depistare da dettagli triviali.

2. Zuien Gyo: Iniziare con qualcosa a noi familiare e continuare

nello sforzo di apprendere, non allenarsi semplicemente per

emulare vie ideali.

3. Mushogu Gyo: Allenarsi con una mente pura senza desiderare

risultati derivanti da motivazioni egoistiche.

4. Shoho Gyo: Allenarsi naturalmente accettando le regole della

natura.

102

Tra queste quattro idee io ritengo che la più importante sia Zuien

Gyo. Prendendo questa opportunità auspico il vostro continuo

allenamento.

Sono convinto che quello che potete apprendere praticando il Karate do

è essenzialmente qualcosa che conoscete già ora.

Qualcuno cerca di raggiungere il Do filosoficamente. Mentre

apprendono la teoria si ritiene che abbiano un opportunità di ricercare il

Do. Mentre seguono questa opportunità possono venire fortemente

impressionati dalla teoria stessa. Credo che l’impressione specifica sia la

cosa più importante e che Zuien Gyo debba essere studiato attraverso

continue impressioni. Noi abbiamo semplicemente la necessità di

seguire ogni impressione per raggiungere il Do. Ma dobbiamo altresì

essere cauti studiando una teoria perché tendiamo ad apprendere non

praticamente ma idealisticamente.

D'altro canto coloro che cercano di raggiungere il "Do"

praticando Egami Karate-do hanno già riconosciuto la teoria e stanno

percorrendo la strada che li porterà alla maestria del "Do". Anche se

all'inizio non capiscono il significato o la teoria, arriverà il giorno in cui

istantaneamente le comprenderanno entrambe come fossero una cosa

sola. Continuate a praticare Karate-do e quel giorno arriverà. Per

approfondire il "Do" ci sono diverse strade: lo Yoga, lo studio degli

scritti di Lao-Tse, Chuang-Tse, Confucio, lo Zen e l'antico Shintoismo.

Tutti sono interrelati e mentre tenteremo di raggiungere l'essenza di

queste dottrine arriveremo alla stessa comprensione. Lasciatemi ora

introdurre i nove gradi/livelli di competenza nel "Do" come descritti

nella parabola di Chuang-Tse. Essi sono: 1. Ya, 1. Jyu, 3. Tu, 4. Butsu,

5. Pai, 6. Kinyu, 7. Tensei, 8. Fuchishi Fuchisho, 9. Daimyo Qui

troviamo un elemento del Taoismo che è differente dallo Jyugyuzu dello

Zen. Quanto segue è una breve spiegazione dei nove gradi. Ya è

l'assenza di arte nel primo anno. Nel primo anno si è nello stato di

semplicità, immaturità ed ignoranza. Si può essere ancora semplici ed

innocenti alla fine del primo anno. Jyu è l'obbedienza nel secondo anno.

103

Si inizia a realizzare cosa siano la verità e la Via. Si inizia a prestare

attenzione alla verità o "Do". Si può dimostrare obbedienza verso gli

altri alla fine del secondo anno. Tu è ricettività e comunicazione nel

terzo anno. Si entra in uno stadio di sviluppo. Si è in grado di accettare

tutto senza pregiudizi. Butsu è genuinità nel quarto anno. Si può divenire

persone veramente genuine e raggiungere uno stato mentale privo di

egocentrismo alla fine del quarto anno. Pai ovvero tutto comincia a

tornare nel quinto anno. Quando si è in grado di accettare tutto con una

mente priva di egoismo, qualcosa di nuovo può ispirarci. Kinyu è oltre

l'abilità umana nel sesto anno. Si entra finalmente nel mondo spirituale.

Si può avvertire naturalmente ispirazione da fonti di cui prima non si era

consapevoli. Tensei è naturalezza nel settimo anno. Si entra nello stato

in cui si è raggiunto il regno del Cielo dal mondo delle cose umane. Si

ottengono le virtù scopo del Taoismo.

Fuchishi Fuchisho descrive l'ottavo anno in cui non si distingue la vita

dalla morte. Si entra nello stato di salita oltre il mondo. Ci si libera dal

tempo e dalle altre preoccupazioni di questo mondo. Daimyo è il

risveglio spirituale nel nono anno. Si raggiunge l'illuminazione.

Facciamo uno sforzo per raggiungere il quarto livello, butsu o essere

genuini, senza preoccuparci dei gradi superiori. Inoltre non fatevi

prendere troppo dalle descrizioni scritte sebbene sia meglio conoscerle

che esserne all'oscuro. È molto più importante studiare attraverso

l'allenamento. Continuate a praticare ogni giorno!

104

ALLEGATO F

Tratto da “Il Crisantemo e la Spada” di R. Benedict

Tavola schematica degli obblighi giapponesi e dei loro reciproci

1. On: obblighi contratti passivamente. Si « riceve un on »; si «

porta un on », ossia, gli on sono obblighi dal punto di vista di

chi ne è il soggetto passivo.

ko on. On ricevuto dall'Imperatore.

oya on. On ricevuto dai genitori.

mushi no on. On ricevuto dal proprio signore.

shi no on. On ricevuto dal proprio maestro.

on ricevuti in tutti i rapporti avuti nel corso della propria vita.

(N.B. Tutte queste persone da cui si riceve un on diven-gono il proprio

on jin, o « uomo dell'ora ».)

2. Reciproci dell'on. Si « pagano » questi debiti, si « ri-cambiano

questi obblighi » all'« uomo dell'on », ossia questo tipo di

obblighi è considerato dal punto di vi-sta del soggetto che li

ripaga.

A. Gimu. La forma di pagamento più completa, ma pur

sempre solo parziale, e illimitata nel tempo.

chu. Dovere verso l'Imperatore, la legge, la Patria.

ko. Dovere verso i genitori e gli antenati (e, per

implicazione, verso i discendenti).

nimmu. Dovere verso il proprio lavoro.

B. Giri. Questi debiti sono considerati tali da dover es-sere

ripagati con equivalenza matematica rispet-to al favore

ricevuto e sono limitati nel tempo.

105

1. Giri nei confronti del mondo.

Doveri verso il sovrano.

Doveri verso i parenti.

Doveri verso le persone non imparentate, a causa di un on

ricevuto, per esempio, per un dono in denaro, per un

favore, per un contributo in lavoro (come per un « lavoro di

gruppo »).

Doveri verso persone legate da parentela non abba-stanza

stretta (zie, zii, nipoti) per on ricevuti non da loro, ma da

antenati comuni.

3. Giri nei confronti del proprio nome. È questa la versione

giapponese del concetto tedesco di « onore » (die Ehre).

Dovere di cancellare il disonore per un'offesa o per

un'accusa di insuccesso, ossia, « dovere » di ostilità o di

vendetta. (N. B. Questo modo di regolare i conti non è

considerato aggressione.)

Dovere di non ammettere un insuccesso (professio-nale) o

la propria ignoranza.

Dovere di rispettare le regole di convenienza giappo-nesi;

per esempio: mantenere un comportamento de-coroso, non

vivere in maniera superiore alla propria condizione sociale,

dominare ogni segno di emozione nelle occasioni non

appropriate, ecc.

106

ALLEGATO G

ELENCO DEGLI SHOGUN, DEI REGGENTI E

DEI DITTATORI DAL 1185 AL 1603

Shogun del clan Minamoto

Yoritomo 1192

Yorije 1202

Sanetomo 1203 Tokimasa 1203

Shogun del clan Fujiwara

Yoritsune 1226 Yasutoki 1225

Tsunetoki 1242

Yoritsugu 1244 Tokiyori 1246

Shogun principi imperiali

Munetaka 1252 Nagatoki 1256

Masamura 1264

Koreyasu 1266 Tokimune 1268

Hisa-Hira 1289 Sadatoki 1284

Morikuni 1308 Morotoki 1300

Morinaga 1334 Takatoki 1315

Shogun del clan Ashikaga

Takauji 1336

Yoshiakira 1358

Yoshimitsu 1367

Yoshimochi 1395

107

Yoshikazu 1423

Yoshinori 1428

Yoshikatsu 1441

Yoshimasa 1449

Yoshitane 1490

Yoshizumi 1493

Yoshitane 1508

Yoshiharu 1521

Yoshiteru 1545

Yoshihide 1565

Yoshiaki 1568

Dittatori Amministratori

Oda Nobunaga 1573

Hideyoshi 1582

Hideyori 1598

Shogun del clan Tokugawa

Ieyasu 1603

Hidetada 1615

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ALLEGATO H

PERIODI STORICI DEL GIAPPONE

Preistoria e protostoria

Jomon verso il 7500 a. C., verso il 300 a. C.

Yayoi verso il 300 a. C. , verso il 300 d. C.

Kofun (tombe megalitiche) IV – VII secolo della nostra era

Storia

Periodo di Asuka 525-645

Periodo di Nara 645-794

Periodo di Heian 794-1185

Reggenti Fujiwara 890-1185

Periodo di Kamakura 1185-1333 (i reggenti Hojo)

Periodo di Muromachi 1333-1573 (gli Shogun Ashikaga)

Periodo di Momoyama 1573-1603 (i dittatori)

Periodo di Edo 1603-1868 (gli Shogun Tokugawa)

Periodo contemporaneo:

Era Meiji 1868-1912

Era Taisho 1913-1924

Era Showa 1924-