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XXVIII CONFERENZA ITALIANA DI SCIENZE REGIONALI UNIVERSITÀ CONOSCENZA TERRITORIO: LA CAPACITÀ DI ATTRARRE STUDENTI Nicola Francesco DOTTI 1 1 Laureato in Pianificazione Urbana e Politiche Territoriali al Politecnico di Milano – Facoltà di Architettura e Società, Via Ampère 2, 20133 Milano. Relatori prof. Roberto Camagni e prof. Roberto Gambino (Politecnico di Torino). Attualmente, collaboratore di ricerca presso il Dipartimento di Ingegneria Gestionale del Politecnico di Milano, via G. Colombo 40, 20133 Milano SOMMARIO Il lavoro di tesi parte da due fenomeni empirici: il crescente ruolo della conoscenza nelle dinamiche economiche e la recente diffusione delle sedi universitarie in Italia. L’obiettivo è quello di indagare il ruolo che le università hanno nel territorio. Partendo dallo studio della teoria dell’economia della conoscenza (Foray, in particolare), attraverso una rilettura alla luce del contributo di Karl Polanyi, si arriverà ad una ricostruzione sia in chiave storica università sia del dibattito contemporaneo per definire il ruolo che le università possono svolgere per lo sviluppo del territorio. La seconda parte della ricerca si concentrerà sulla ricostruzione del processo di diffusione delle sedi universitarie e sull’analisi della loro capacità di attrarre studenti. Gli studenti universitari costituiscono una risorsa importante per il territorio (“la migliore delle immigrazioni possibili”) 1

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XXVIII CONFERENZA ITALIANA DI SCIENZE REGIONALI

UNIVERSITÀ CONOSCENZA TERRITORIO: LA CAPACITÀ DI ATTRARRE STUDENTI

Nicola Francesco DOTTI1

1 Laureato in Pianificazione Urbana e Politiche Territoriali al Politecnico di Milano – Facoltà di Architettura e Società, Via Ampère 2, 20133 Milano. Relatori prof. Roberto Camagni e prof. Roberto Gambino (Politecnico di Torino).Attualmente, collaboratore di ricerca presso il Dipartimento di Ingegneria Gestionale del Politecnico di Milano, via G. Colombo 40, 20133 Milano

SOMMARIO

Il lavoro di tesi parte da due fenomeni empirici: il crescente ruolo della conoscenza nelle dinamiche economiche e la recente diffusione delle sedi universitarie in Italia. L’obiettivo è quello di indagare il ruolo che le università hanno nel territorio.Partendo dallo studio della teoria dell’economia della conoscenza (Foray, in particolare), attraverso una rilettura alla luce del contributo di Karl Polanyi, si arriverà ad una ricostruzione sia in chiave storica università sia del dibattito contemporaneo per definire il ruolo che le università possono svolgere per lo sviluppo del territorio. La seconda parte della ricerca si concentrerà sulla ricostruzione del processo di diffusione delle sedi universitarie e sull’analisi della loro capacità di attrarre studenti. Gli studenti universitari costituiscono una risorsa importante per il territorio (“la migliore delle immigrazioni possibili”) perché, una volta laureati, possono mettere le conoscenze acquisite all’università al servizio delle imprese in un rapporto reciprocamente virtuoso. Si applicherà un modello econometrico per individuare le regolarità del sistema ed eventuali surplus o deficit di performance delle singole sedi universitarie. In questo modo, sarà possibile stilare delle graduatorie ed evidenziare i casi di successo e di fallimento.

Approccio prevalente: metodologico.

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1 INTRODUZIONE

La ricerca parte da due fatti empirici. Da un lato, l’emergere dell’economia della conoscenza è una tendenza ormai riconosciuta sia a livello scientifico sia a livello di dibattito politico. Dall’altra parte, negli ultimi anni si è assistito ad un incredibile proliferare del numero di sedi universitarie in Italia, suscitando un intenso dibattito pubblico. Dal punto di vista scientifico, l’indagine sul ruolo delle università per lo sviluppo territoriale si è concentrata prevalentemente sugli aspetti legati al mondo della ricerca e del trasferimento tecnologico (su tutti, vd. Jaffé, 1989), lasciando in secondo piano quelli legati alla didattica. L’obiettivo di questo lavoro è di analizzare il ruolo che le università possono svolgere per lo sviluppo territoriale anche sul lato della didattica.

Nella prima parte, verranno tracciati i profili fondamentali dell’economia della conoscenza e, poi, le principali sfide che le università sono chiamate ad affrontare in questo contesto, anche alla luce della loro evoluzione storica. Nella seconda parte, verrà presentato il modello di valutazione della capacità di attrarre gli studenti delle sedi universitarie italiane.

2 IL QUADRO TEORICO DI RIFERIMENTO

2.1 La conoscenza come bene economico.

La conoscenza è la risorsa che, progressivamente, sta assumendo un ruolo sempre più centrale nell’economia: si tratta di un mutamento del paradigma di produzione della ricchezza che si è affermato assieme alla globalizzazione. La conoscenza non è una nuova risorsa economica, ma una risorsa da sempre presente: la teoria disciplinare che ha guidato lo sviluppo industriale tendeva a metterla in secondo piano, relegandole un ruolo marginale, ma stiamo assistendo ad un vero e proprio mutamento dell’apparato teorico-concettuale, secondo i principi identificati da Kuhn (1978). Seguendo gli studi dell’OCSE, in particolare la sintesi proposta da Foray (2006), si può ricostruire sia l’evoluzione del contesto economico mondiale sia, soprattutto, il quadro teorico-concettuale, che ha ormai raggiunto un ragionevole grado di condivisione (in Italia un riferimento valido e completo è Rullani, 2004).L’economia della conoscenza si distingue da quella industriale perché il fattore decisivo non dipende più dall’energia e dall’efficienza delle trasformazioni materiali. “La conoscenza – come ha spiegato Foray (2006) – è la capacità di agire, fisicamente o intellettualmente,

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trattando, interpretando ed elaborando dei dati e delle informazioni al fine di perseguire degli scopi”. Questa definizione, che guida l’intero lavoro di ricerca, identifica la “conoscenza” come la capacità di generare valore economico. Si tratta di una definizione importante perché non limita l’economia della conoscenza ad alcuni settori produttivi, i cosiddetti settori “knowledge intensive”, anche se sicuramente questi settori hanno contribuito in maniera determinante all’affermarsi di questo nuovo paradigma economico.

Questa definizione permette di distinguere tra la conoscenza e l’innovazione, quest’ultima da considerarsi, secondo l’accezione schumpeteriana, come un evento puntuale ed eccezionale. La conoscenza non è neanche riducibile alle risorse del capitale umano come dimostra la differenziazione tra lavoro qualificato (sempre più richiesto in quanto dotato di conoscenza) e non qualificato (dove, invece, aumenta la disoccupazione).La conoscenza, come bene economico, ha le seguenti caratteristiche._ Un investimento in conoscenza può essere nullo, ma mai in perdita (la conoscenza non progredisce, ma non viene dissipata a causa di un investimento sbagliato)._ La conoscenza ha valore solo se mantiene un suo criterio di validità indipendente ed autonomo basato sul principio di Verità._ La conoscenza è un bene non rivale, solo parzialmente escludibile (es. brevetti, diritti d’autore) e quasi sempre cumulativo (una conoscenza nuova si appoggia su quelle pregresse)._ La conoscenza è un bene spesso circostanziale (“hic et nunc”).Una volta definita la conoscenza, possiamo distinguerla in diverse categorie.

Conoscenza

IndividualeConoscenza di nozioni (cosa fare, “know what”)Conoscenza di procedure (come fare, “know how”)Conoscenza relazionale (con chi fare, “know who”)

OrganizzativaConoscenza dei prodotti (cosa fare “know what”)Conoscenza dei processi (come fare, “know how”)Conoscenza gestionale (con chi fare, “know who”)

Diffusa

In particolare, sono le conoscenze relazionali e quelle gestionali che possono trovare maggiore interesse nel territorio come base per la costruzione di legami sociali basati sulla prossimità.

Per produrre nuova conoscenza bisogna passare attraverso processi di apprendimento e ricerca esplicitamente staccati dalla produzione (e dal consumo). Questi processi, generalmente consumatori di tempo, si distinguono in “espliciti e volontari” oppure “impliciti ed involontari”. Per farlo, le persone devono essere messe in grado di affrontare problemi nuovi

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e di sperimentare metodi nuovi per risolverli. Questi processi, soprattutto quelli espliciti, richiedono pratiche di socializzazione delle conoscenze: la produzione e la codificazione delle conoscenze può avvenire attraverso processi formali ed istituzionali, ma anche attraverso reti informali e spontanee (su base professionale, territoriale, …). La formazione universitaria è, per definizione, il processo formativo “principe” per acquisire conoscenze, ovvero per acquisire la “capacità” di generare valore economico.È opportuno evidenziare come, dal punto di vista economico, produrre conoscenza significa produrre (anche) un’esternalità positiva perché non è possibile che chi paga l’investimento possa “catturare” interamente i benefici prodotti dalla nuova conoscenza, anche perché la cumulatività della conoscenza fa sì che, all’aumentare della diffusione, aumentino i benefici indotti dall’investimento (i brevetti sono la risposta più nota per queste problematiche).Al fine della diffusione, la conoscenza può essere tacita o codificata: la prima è legata esclusivamente a chi la detiene e può essere trasmessa solo per contatto diretto (es. relazioni allievo - maestro); la seconda permette l’esternalizzazione e la diffusione su vasta scala nonché la commercializzazione, ma richiede tempi più lunghi.L’assetto giuridico della conoscenza è l’esito di un accordo sociale che regola questa filiera. Il mix di conoscenza aperta (pubblica o, meglio, non esclusiva) e chiusa (privata ovvero con accessibilità esclusiva) è determinante per valutare gli incentivi alla produzione ed i meccanismi di diffusione della conoscenza. La conoscenza è necessaria per gestire i processi di innovazione che le imprese devono mettere in atto per non perdere la competitività sul mercato.

2.2 La rilettura della teoria dell’economia della conoscenza: reciprocità, scambio e redistribuzione

Il quadro teorico dell’economia della conoscenza rappresenta una novità significativa nell’evoluzione del pensiero economico.Riprendendo il contributo fondamentale di Karl Polanyi ed applicandolo alle dinamiche della conoscenza, possiamo individuare tre forme fondamentali di relazione sociale.La prima è la reciprocità, il cui riferimento archetipico può essere ravvisato nella relazione genitori-figli. La cura con cui madre e padre si occupano di un figlio (un servizio, in questo caso) non ha forme di ritorno immediate se non il legame di reciprocità familiare, anche se – ovviamente - la definizione di reciprocità non deve essere limitata ai soli legami familiari diretti, ma anche a quelli amicali o di altra natura. La seconda forma fondamentale di relazione sociale è lo scambio. È l’idea archetipica di commercio, il baratto, il do ut des da intendersi anche in senso non-commerciale. A differenza della reciprocità, lo scambio è immediato e concreto: “so quello che do e so quello che ricevo”. L’ultima forma è la redistribuzione. Si tratta di una forma di produzione ed allocazione che prevede la presenza di

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un’istituzione che faccia da tramite. L’esempio classico ed a tutti noto è il meccanismo fiscale su cui si basano tutti gli Stati: tasse in cambio di beni e servizi (es. la difesa militare). Ma le forme redistributive sono proprie anche di istituzioni non statali, come la Chiesa o la Mafia per prendere due esempi estremi che siano esemplificativi.Queste tre forme di scambio si basano su tre diversi principi relazionali. La reciprocità si basa sulla fiducia: si fa un favore ad un amico perché ci si fida di lui (si sa che un domani si potrà contare su di lui); lo scambio è invece regolato dal principio di utilità (si compra una merce perché la si ritiene più utile del denaro con la quale la si paga, e viceversa); la redistribuzione si basa invece su principi di equità del meccanismo distributivo e sul grado di cogenza dell’istituzione che la realizza.Questi principi relazionali determinano diverse forme di organizzazione sociale con diverse istituzioni sociali di riferimento. Da fiducia e reciprocità derivano organizzazioni solidaristiche il cui riferimento è la famiglia o, meglio, la comunità; dallo scambio si affermerà un’organizzazione basata sull’utilitarismo che si espleta prevalentemente nel mercato; la redistribuzione implicherà un’organizzazione autoritaria con istituzioni statali (o para-statali). Questo ragionamento è riassunto in figura 1.

Fig. 1 - Schema interprativo delle categorie proposte da Polanyi

Le tre filiere concettuali devono essere intese come estremizzazioni astratte ed ideali. È chiaro che in ogni realtà sociale esse coesistono contemporaneamente e che non esiste un confine netto fra scambio, reciprocità e redistribuzione.

Queste tre “filiere” concettuali della sociologia economica possono ben essere applicate all’economia della conoscenza, in particolare ai processi di produzione e diffusione di questo bene. Tutti i finanziamenti pubblici che uno Stato destina alla ricerca (sia direttamente alle

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imprese sia tramite università e centri di ricerca sia tramite la ricerca militare) appartengono alla categoria della “redistribuzione”, così come la spesa pubblica per l’istruzione (in realtà le famiglie compartecipano alla spesa, ma in Italia il loro contributo è decisamente minoritario, soprattutto a livello di alta formazione universitaria). Questa funzione “statale” viene svolta anche da soggetti non strettamente legati ad istituzioni pubbliche come, per esempio, le fondazioni scientifiche e culturali che, nella pratica, agiscono spesso senza che gli investimenti siano direttamente correlati a dei ritorni economici. Per quel che riguarda lo scambio, è nota l’esistenza di un vero e proprio mercato della ricerca e di un mercato dell’istruzione. Come testimonia la nascita di scuole, università e centri di ricerca privati ed il fatto che sia gli investimenti in ricerca e sviluppo sia i portafogli di brevetti sono considerati sempre più fattori discriminanti per la valutazione delle imprese e degli investimenti finanziari. L’ultimo contesto, la reciprocità, è quello dove sono più evidenti le zone d’ombra. Questo tipo di relazione è particolarmente sviluppato data la natura non rivale della conoscenza che può diffondersi attraverso reti sociali di professionisti o attraverso realtà come i distretti industriali o in istituzioni “libere” come le università (relazioni “studente – studente” o “studente – docente”).

Questo ultimo elemento merita di essere approfondito richiamando le teorie del capitale sociale (in particolare, vd. Portes, 2000, e Woolcock, 1996). L’intensità dei legami basati su fiducia e senso di appartenenza hanno diverse dimensioni spaziali e temporali. La prossimità facilita i contatti diretti e l’appartenenza ad una stessa comunità stimola il senso di identità ed il reciproco riconoscimento creando il cosiddetto capitale sociale. Una buona dotazione di questa risorsa può permettere una maggiore diffusione della conoscenza, proprio per la sua natura non rivale, la difficile escludibilità ed i vantaggi che derivano dalla cumulatività. Oltretutto, il capitale sociale, come la conoscenza, è incardinato sulle persone che ne sono portatori.

2.3 L’inquadramento storico e le sfide contemporanee

Con la fine dell’età industriale, la città ed il territorio sono stati interessati dal passaggio verso l’età della globalizzazione. La parola chiave è passata da efficienza a competitività (Veltz, 2001). Le città ed i territori sono immersi in un clima di accresciuta competizione derivante dai noti fenomeni di globalizzazione: la loro sfida è “competere” per attirare i flussi della globalizzazione.

La storia delle università è plurisecolare (quasi millenaria, nel caso di Bologna). La ricostruzione storica, in particolare del caso italiano, ma non solo, permette di evidenziare tre tappe fondamentali (Etkowitz, 1990). La prima, che va dalle origini medievali delle università

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fino all’età industriale del XIX secolo, vede assegnare alle università il ruolo sociale di alta formazione della classe dirigente statale e delle libere professioni. L’attività di ricerca, pur presente embrionalmente in precedenza, viene istituzionalizzata solo a partire dal XIX secoli, in precedenza sono luoghi dedicati alla trasmissione ed al consolidamento del sapere. È contestualmente all’industrializzazione che si sviluppa nelle università la funzione di ricerca, anche grazie alla realizzazione delle prime politiche pubbliche in materia. Questo passaggio rappresenta una vera e propria rivoluzione per le università che diventano istituzioni di “formazione & ricerca”.Etkowitz (1990) ha individuato anche una “seconda rivoluzione accademica” partita negli anni ’50 negli USA ed arrivata negli anni ’80 anche in Europa. Il carattere saliente di questa rivoluzione nasce dalla consapevolezza dell’accresciuto valore economico dell’attività di ricerca. La valenza economica di questa attività cresce portando le università ad essere (anche) soggetti attivi e determinanti nello sviluppo industriale e tecnologico, superando l’idea di una ricerca pura, di base, libera e totalmente indipendente dagli interessi economici (come, invece, era l’ideale romantico ottocentesco).Queste nuove relazioni hanno portato all’affermarsi del modello della cosiddetta “Tripla elica” (vd. Etkowitz, 1990, Etkowitz e Leydesdorff, 2000). È un modello relazionale evidenziato empiricamente dall’emergere di soggetti quali i parchi scientifici e tecnologici, gli incubatori universitari d’impresa, i consorzi misti università-impresa, gli uffici per il trasferimento tecnologico… È importante sottolineare come il modello della Tripla elica debba essere concepito in chiave culturale: non come qualcosa di spontaneo, ma che richiede un ruolo attivo dei soggetti che ne fanno parte. Università, imprese e Stato sono chiamati ad attivarsi per “mettere in moto l’elica” ed avviare il processo virtuoso.

Parallelamente al modello della Tripla Elica, si inserisce il Manifesto di Oviedo (Rodriguez e Villeneuve, 2000) meno noto, ma comunque di grande interesse. Nel dibattito sulle università, questo Manifesto teorizza la funzione di cooperazione allo sviluppo territoriale, evidenziandone il ruolo per e con il territorio che le ospita. Il carattere globale della conoscenza deve cioè essere coniugato ad un livello territoriale affinché le università promuovano percorsi di formazione e di trasferimento tecnologico in relazione con i soggetti del territorio. La funzione “critica” dell’università rappresenta così un valore aggiunto per la competitività del territorio: la conoscenza non ha qui un’accezione meramente economica, ma deve essere interpretata come un prevalere del principio di “utilità sociale” su quello di “utilità economica”. Utilizzando i termini impiegati precedentemente, si può esprimere il concetto come prevalere del “principio di verità” (fondamento della conoscenza) su quello di “utilità”.È un passaggio importante perché sancisce una distinzione netta tra il mondo dell’impresa (basata sull’obiettivo di creare ricchezza e profitto) e quello dell’università (istituzione

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“critica” guidata dal principio di verità). È una distinzione che pone le università al di fuori di un sistema competitivo di mercato (dinamiche concorrenziali possono essere attivate seguendo altri principi). Nel Manifesto si fa più volte riferimento a buone pratiche di “cooperazione università - territorio”, ma anche alla mancanza di un corpus teorico solido. Nonostante siano passati alcuni anni (il Manifesto è del 2000), non si rilevano significativi progressi nella teoria in questo campo ed in maniera un po’ generica, il tema rientra nelle politiche di sviluppo territoriale (in Italia, contributi non banali sono raccolti dall’AISLo). È importante anche sottolineare la tensione tra locale e globale in cui le università sono inserite. Se il sapere è astratto e generale (diremmo “globale”), il ruolo delle università è quello di renderlo “locale” applicandolo, coniugandolo nelle diverse specificità locali. Il ruolo di competizione glocale viene coniugato da questo Manifesto specificatamente per le università con il loro ruolo nelle reti globali di ricerca e di cooperazione per lo sviluppo territoriale locale.

Nell’evoluzione della concezione di università, due tappe più “istituzionali” sono fondamentali e rappresentano dei veri spartiacque. La Magna Charta Universitatum (1988) e la Dichiarazione di Bologna (1999) rappresentano i due passaggi più alti nella recente storia universitaria europea ed internazionale. Questi due passaggi rientrano in un percorso più ampio, detto Processo di Bologna, di armonizzazione delle università (prevalentemente quelle europee) tesa a promuovere il coordinamento e la cooperazione sia per la formazione (che in Italia ha significato l’introduzione del cosiddetto “3 più 2”) sia per la ricerca. In particolare, su questo secondo aspetto il Processo di Bologna si interseca con la Strategia di Lisbona (2000), attraverso la quale l’Europa vuole diventare l’economia più competitiva al mondo basata sulla conoscenza. A Lisbona e Bologna sono dunque associate una strategia generale di sviluppo basata sulla conoscenza con un preciso ruolo assegnato alle università che di questo sviluppo devono essere motori.

Non è la sede per entrare nei temi giuridico-istituzionali delle università (in Mastropasqua e Tigre, 2006, si trova uno dei riferimenti più aggiornati) né sul complesso sistema di diritto allo studio universitario (Biggeri e Catalano, 2006), è opportuno però richiamare due aspetti importanti. L’autonomia statutaria delle università rispetto alle altre pubbliche amministrazioni garantisce una certa libertà di azione pur in un regime di formale statalizzazione; dall’altra parte le politiche per il DSU affrontano un tema socialmente molto rilevante, ma di difficile implementazione. Nel complesso, tuttavia, segnaliamo come l’Italia sconti un ritardo in materia di politiche per il DSU il cui simbolo è la scarsissima dotazione di alloggi convenzionati per studenti.

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2.4 Un modello di concezione dell’università

Al termine di questa ricostruzione storica e teorica sulle università e sul ruolo che hanno (o, meglio, che possono avere) nel territorio, si è cercata una sintesi dei molti contributi.

L’università è una funzione complessa che si è evoluta e che è ancora oggi sottoposta a importanti e determinanti stimoli dall’esterno. Attraverso i secoli è rimasta salda la funzione di alta formazione, nonostante il mutare dei secoli. La prima rivoluzione accademica ha introdotto e sancito il ruolo della ricerca come motore fondamentale delle università. Il sodalizio “formazione & ricerca” è ancora oggi il riferimento più forte nella concezione di università in tutto il mondo occidentale. La funzione di trasferimento tecnologico (TT) si sta sviluppando sempre più anche nei paesi di più antica tradizione universitaria come l’Italia. Infine, il Manifesto di Oviedo ha permesso di evidenziare la funzione di cooperazione allo sviluppo territoriale.È bene premettere che il modello qui proposto ha una natura istituzional-descrittiva a proposito delle funzioni svolte dall’università e dalle relazioni con i vari soggetti, interni ed esterni, fondamentali per la sua missione sociale.

Fig. 2 - Le quattro missioni sociali dell’università

La figura 2 contiene uno schema abbastanza complesso e ricco di elementi. Sicuramente, alla base dell’università troviamo quella relazione “ricerca & formazione” basata sul rapporto docenti - studenti. È una relazione ancora mono-direzionale. Permane forte l’idea della ricerca come motore e origine del ciclo di funzionamento dell’università, ma il fine dell’intera istituzione è la formazione, cioè gli studenti. Questo livello attiene alla funzione “culturale” dell’università dove il principio fondante è il principio di Verità.

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I due ambiti hanno poi un loro percorso che li porta verso l’esterno: la ricerca verso il TT rivolto alle imprese, mentre la formazione è il primo canale attraverso cui le università cooperano allo sviluppo, due ambiti in relazione tra di loro. I percorsi obliqui sono assenti in quanto risultano mediati: la ricerca partecipa allo sviluppo solo se ci sono meccanismi di TT o se, dall’altra parte, qualifica la formazione. Dall’altra parte, la formazione costituisce una dinamica di TT, ma non in senso stretto: la qualificazione formativa universitaria permette, in primo luogo, un guadagno sociale che premia i costi sostenuti per la formazione e garantisce una distribuzione del reddito. Cooperazione allo sviluppo e TT sono funzioni di natura sociale: il principio guida è quello dell’utilità sociale. Questa concezione va oltre a quella della tripla elica perché le istituzioni diventano anche un fine della missione delle università attraverso la partecipazione diretta ai processi di sviluppo, non solo come trasferimento tecnologico (per i quali c’è un interesse diretto ed abbastanza esplicito delle imprese).

3 LA CAPACITÀ DELLE UNIVERSITÀ DI ATTRARRE STUDENTI

3.1 L’analisi della capacità di attrarre studenti

Riconosciuto il ruolo economico della conoscenza, si vuole di analizzare il ruolo territoriale delle università. Delle due modalità individuate, si è scelto di analizzare la capacità di attrazione degli studenti nell’ottica di una qualificazione del capitale umano locale, tralasciando invece i processi di trasferimento tecnologico.Uno degli assunti con cui verrà studiata è che la formazione universitaria (e con essa la scelta di quale percorso intraprendere) non dipenda esclusivamente dall’istituzione erogatrice, ma anche dal territorio che la ospita. Attirare studenti presso una propria sede universitaria permette di attivare processi di produzione e di diffusione della conoscenza non solo autoritari (il finanziamento pubblico alle università) o di scambio (il mercato dell’alta formazione), ma anche con relazioni di reciprocità basate sulla fiducia e sul capitale sociale (la comunità accademica). Questi due elementi possono essere generati grazie alla comune esperienza universitaria che le persone, su cui è incardinato il bene conoscenza, maturano durante la formazione universitaria. Si tratta di un valore aggiunto che permette di valorizzare la conoscenza. In particolare, la condivisione dell’esperienza universitaria permette di sviluppare quelle conoscenze relazionali (il “know who”, sia nell’accezione individuale sia in quella

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organizzativa) che sono fondamentali per gestire una risorsa economica con queste caratteristiche. Le conoscenze relazionali necessitano di fiducia e capitale sociale per poter essere attivate. Per delle imprese, assumere laureati con queste conoscenze sviluppate in contesti aperti e ricchi è sicuramente un valore aggiunto.Si aggiunga, infine, che la mobilità delle persone è uno dei fattori più critici della globalizzazione in quanto rappresenta la “meno mobile” tra le risorse economiche “mobili”. Per un territorio attrarre lavoratori, oltretutto già qualificati, è più difficile che attrarre giovani studenti i quali, da secoli, sono disposti a muoversi per ottenere una formazione universitaria. Oltretutto, per un territorio significa immettere una nuova popolazione giovane e dinamica, ovvero attrarre una risorsa aggiuntiva per le imprese di quel territorio.Attrarre studenti è un indicatore di qualità nella misura in cui, se uno studente si sposta cercherà la migliore delle soluzioni possibili sotto il vincolo delle proprie disponibilità materiali. La mobilità studentesca è quindi da considerarsi come una preferenza rivelata.In sintesi, è corretto affermare che “attrarre studenti universitari significa attrarre la migliore delle immigrazioni possibili”.

3.2 La mobilità degli studenti e la diffusione delle sedi universitarie in Italia

Grazie all’Anagrafe degli Studenti promossa dal Ministero dell’Università, è possibile evidenziare come in Italia ci sia, da un lato, un sistema di mobilità studentesca sostanzialmente chiuso a livello nazionale, per lo più con spostamenti interprovinciali: in media, il 60% degli studenti viene dalla stessa provincia sede del corso, mentre solo il 20% si trasferisce in province non confinanti con quella di origine. Si consideri inoltre che all’anno accademico 2005-06 praticamente tutte le province italiane hanno almeno una sede universitaria, comprese le quattro neo-istituite province sarde di Carbonia - Iglesias, Medio Campidano, Ogliastra ed Olbia - Tempio ed escluse le sole province di Sondrio e Vibo Valentia. Nella storia recente, sono due le fasi fondamentali nell’evoluzione delle sedi universitarie italiane.

1990-91 1999-00 2005-06N. Università 55 70 79Studenti iscritti 1.337.496 1.569.826 1.302.724*N. sedi 62 89 342Media studenti/sedi 24.318 22.426 16.490*Media sedi/università 1,13 1,27 4,33

Stud. in sedi centrali 1.293.357 97%1.154.507* 89% 1.483.948 95%

Stud. in sedi secondarie 44.139 3% 148.217* 11% 85.878 5%

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1990-91 1999-00 2005-06Atenei monosede 49 89% 26 33% 53 76%

Atenei plurisede 6 11% 53 67% 17 24%

Tab. 1 - Evoluzione del sistema universitario italiano 1990-2005 (dati ISTAT, tranne * dati Min. Università)

Gli anni ’90 sono stati caratterizzati da un processo di decongestionamento dei principali atenei italiani (i cosiddetti “Mega-Atenei”) che si è sviluppato su due direzioni fondamentali: un processo di “gemmazione” di nuove università scorporando alcune facoltà e rendendole autonome o una ri-articolazione su più sedi delle università più grandi. Il 1999-2001 è un biennio spartiacque per l’Università italiana per tre ragioni principali: a. entra in vigore il cosiddetto Nuovissimo Ordinamento degli Studi con il DM 509/99 (comunemente noto come “3+2”) che riforma i cicli formativi universitari;b. nel 2001 l’UE adotta l’Agenda di Lisbona a favore dell’economia della conoscenza ed ispiratrice di maggiori investimenti a favore dell’università;c. sempre nel 2001 sale al governo Silvio Berlusconi ed all’Università viene nominata ministro Letizia Moratti.Questi tre eventi spingono ad una nuova stagione di crescita dell’università italiana. Nel lustro seguente continua il processo di creazione di atenei con altre 10 nuove università, ma il dato più sorprendente è che il numero di sedi universitarie passa da 89 a 342 con un (incredibile) incremento di quasi 4 volte. Le università, che prima avevano in media 1,27 sedi (solo una su quattro era policentrica) ora hanno 4,33 sedi ciascuna in quanto due atenei su tre hanno ormai assunto un’organizzazione policentrica. Se si considerano solo gli atenei policentrici, il numero medio di sedi passa da 2,12 a 5,96 con un incremento di quasi tre volte tanto.Appare così chiara una cesura nel rapporto tra università e territorio: se gli anni ’90 erano stati caratterizzati da processi di “decongestionamento” abbastanza sistematici e mirati (gemmazione di nuovi atenei o bi-polarizzazione di quelli più grandi), nella prima metà del decennio seguente si assiste ad una vera e propria frammentazione e dispersione sul territorio.

Del dibattito svoltosi nell’opinione pubblica, vale la pena riprendere un elemento: “portare l’università sotto casa” è stata una scelta giustificata dalla volontà di “garantire l’accesso ad un’istruzione universitaria anche a chi non ha i soldi per poter trasferirsi nei grandi (e costosi) centri universitari”. Le nuove sedi sono state accolte come il riconoscimento del diritto allo studio universitario anche per le aree del paese più arretrate.Questa argomentazione nasconde una diversa ripartizione dei costi del diritto allo studio universitario: le università possono crescere aprendo nuove sedi fornendo un servizio a quello che finora era un “non-pubblico” di studenti, si avvicinano ai “privi di mezzi”, impossibilitati a trasferirsi nei grandi centri. Inoltre, le università incrementano il finanziamento ricevuto dallo Stato al fine di sostenere le nuove sedi. A causa delle mancate economie di scala e della

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necessità di dovervi trasferire dei docenti, oltre ai costi fissi legati alla dimensione, il costo per studente in una sede decentrata è maggiore di quello in una sede centrale (si stima che uno studente in sede decentrata costi dalle due alle cinque volte quelli di un sede centrale); mentre le Regioni, a cui spetta il DSU, hanno minori spese in quanto non devono più sostenere il trasferimento degli studenti verso i centri maggiori (oltretutto più costosi delle città minori). Infine, agli studenti viene riconosciuto (legalmente) il diritto ad una formazione universitaria.La maggiore perplessità è legata alla qualità dei percorsi formativi e, più in generale, dell’esperienza formativa universitaria. Oltretutto, i processi di ri-localizzazione delle università sono particolarmente ben accetti dalle istituzioni locali in quanto si tratta di un risultato visibile in tempi relativamente brevi e giudicato qualificante dall’opinione pubblica perché, è opinione diffusa in questi centri, ri-animerebbero il contesto culturale locale “sprovincializzandolo”. Con il cambio di governo nel 2006, il neo Ministro Mussi ha deciso di bloccare, per quanto possibile, questo fenomeno di proliferazione delle sedi universitarie.

Evoluzione del sistema di sedi universitarie in Italia

a.a 1990/91 a.a. 1999/00 a.a 2005/06

Da questo fenomeno di proliferazione delle sedi universitarie, la domanda di ricerca posta è come valutarne la qualità? L’attrazione di studenti di lungo raggio rappresenta un indicatore di qualità sia della “sede universitaria” (università + territorio) sia della formazione offerta in quella sede perché, se un giovane deve sostenere le spese di trasferimento, cercherà di scegliere la migliore soluzione possibile.

Il tema che si vuole dimostrare è se e come ci sia un’alleanza università - territorio e come questa influenzi la capacità di attrarre studenti attraverso un’analisi delle preferenze rivelate da parte degli studenti che si spostano.

3.3 I dati, le ipotesi e le variabili

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Il modello è stato elaborato attraverso regressioni lineari multivariate realizzate su un database costruito ad hoc. Ad ogni sede universitaria (distinte su base comunale), sono state associate le caratteristiche territoriali del Comune o della Provincia in cui è localizzata utilizzando le principali basi statistiche disponibili (in particolare, ISTAT e Atlante della competitività delle province italiane di Unioncamere). Il campione di riferimento è stato limitato alle sedi con oltre 1.000 studenti perché quelle con un numero inferiore risultavano outlayer.Nel complesso, sono così considerate 95 sedi universitarie per 695.392 studenti (per l’anno accademico 2004/05, l’Anagrafe degli Studenti registra gli iscritti ai corsi di laurea triennale o al primo anno di laurea specialistica). Gli studenti sono stati distinti anche nelle 4 aree definite dal Ministero (per le definizioni vd. Sito Ministero): sanitaria, scientifica, sociale ed umanistica.

Al fine di analizzare le sedi universitarie sono state selezionate tre variabili dipendenti, da considerarsi come indicatori della capacità di attrarre studenti._ Studenti fuori provincia (Fprov). È il valore percentuale (indicato tra 0 e 1) di studenti provenienti da una provincia diversa da quella sede del corso._ Studenti fuori sede (Fsede). È il valore percentuale (tra 0 e 1) di studenti fuori sede provenienti da province non confinanti con quella sede del corso._ Indicatore di Attrattività Studentesca (Ias). È un valore composito (sempre tra 0 e 1) che somma Fsede più gli studenti delle province limitrofe ponderati ad 1/3, ottenendo un indicatore misto capace di valutare il peso degli studenti provenienti dalle province limitrofe (pendolari).

Questi indicatori serviranno per verificare alcune ipotesi di ricerca, in particolare:_ Il “servizio” universitario è un bene di lusso (con funzione di domanda crescente)?_ Esiste una dimensione ottima delle università?_ La specializzazione di un centro universitario su uno specifico campo (sanitario, scientifico, sociale, umanistico) è fattore di attrattività?_ La maggiore disponibilità di borse di studio è un fattore di attrattività?Oltre a questa famiglia di ipotesi di ricerca, legate direttamente alle università, formuliamo alcuni ipotesi rispetto ai fattori di attrattività dipendenti dalle caratteristiche territoriali extra-universitarie._ Esiste una dimensione ottimale delle città universitarie? Ovvero, sono più attraenti i grandi centri per le maggiori opportunità (lavorative, culturali, …), i piccoli centri dove il costo della vita è minore o le città medie dove i due effetti si bilanciano?_ Quanto incidono i valori del mercato immobiliare sull’attrattività studentesca?

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_ Un forte dinamismo del mercato del lavoro locale è fattore di attrattività? O forse risultano più attraenti i territori con maggiori dotazioni di infrastrutture culturali e/o ambientali? O entrambi?

3.4 Il modello di attrazione degli studenti universitari

Il lavoro di analisi multivariata ha portato all’elaborazione di cinque modelli diversi di attrattività delle sedi universitarie italiane. In questa sede verrà analizzato solo il modello di attrattività generale, rinviando al testo completo della tesi per i modelli relativi specificatamente alle sedi universitarie sanitarie, scientifiche, sociali ed umanistiche. Vale la pena sottolineare come, degli altri quattro modelli elaborati, non siano state rilevate significative differenze tra le sedi sanitarie, scientifiche, sociali, mentre quelle umanistiche hanno alcune limitate differenziazioni (in particolare, la mobilità degli studenti risente più di altri degli indicatori di sicurezza e criminalità, un effetto legato alla maggior presenza di studentesse in queste discipline).

Variabili dipendenti Studenti da fuori provincia

(Fprov)

Studenti fuorisede(Fsede)

Indicatore di Attrattività Studentesca

(Ias)n. osservazioni 95   95   95  Variabili indipendenti (X) coeff t stat coeff t stat coeff t stat 

cost -0,323 -2,033 -0,726 -3,527 -0,308 -2,341  

Retta universitaria media 0,000 3,275 0,000 3,085 Offerta formativa locale (N. classi di laurea in prov.) 0,003 4,146 0,002 3,852 0,002 4,624 Popolazione Provinciale -0,000 -4,612 -0,000 -3,940 -0,000 -5,025 Pop. Prov ^2 0,000 3,890 0,000 2,551 0,000 4,019 Tasso di occupazione 0,011 3,895 0,010 4,080 Densità imprenditoriale 0,039 3,069 0,021 1,996 Indice di benessere economico (Sole24Ore) 0,002 4,778 Indice di qualità della vita (ItaliaOggi) -0,000 -2,578 -0,000 -3,361 -0,000 -3,176 R2 0,527   0,559   0,580  R2

adj 0,495   0,529   0,546  Tab. 3 - Modello generale di attrazione degli studenti (tutti i valori arrotondati al millesimo).

Il modello identificato esprime una buona capacità di previsione arrivando a spiegare circa la metà del fenomeno che, data la grande differenziazione tra le sedi universitarie, è da ritenersi

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un valore soddisfacente. Inoltre, le variabili identificate sono sostanzialmente comuni a tutte e tre le variabili dipendenti selezionate segno di una sostanziale omogeneità nelle dinamiche di corto e lungo raggio.

Delle ipotesi di partenza, si è dimostrato innanzitutto che la formazione universitaria è un bene di lusso (ovvero con curva di domanda crescente). Questo elemento è di particolare interesse ed è solo parzialmente spiegabile con la natura mista pubblico-privata del sistema. Sono stati effettuati studi sul campione limitato alle sole sedi di università pubbliche, libere di variare l’importo della retta richiesta agli studenti (il “prezzo” del servizio) pur entro vincoli ministeriali, ma il risultato viene confermato (ovviamente con una variabilità limitata rispetto al sistema misto). Maggiori spese sostenute direttamente dallo studente (o, meglio, dalla sua famiglia) rappresentano un fattore di attrattività perché, evidentemente, viene percepito come un servizio che “vale”. Si noti, in particolare, come questa variabile non sia significativa sugli spostamenti di corto raggio (presente tra i Fsede, ma non tra i Fprov), segno che l’effetto di prezzo rientra tra i costi diretti, così come quelli per il trasferimento su lunghe distanze. Se il prezzo è indicatore di attrattività, significa che esiste una quota di studenti che, pur di non muoversi, sono indifferenti al prezzo, mentre chi sceglie di muoversi effettua un investimento maggiore.La seconda domanda di ricerca riguardava la dimensione ottima delle università, intesa come numero di iscritti, e questa variabile non è entrata nel modello. La chance di attrarre sono (potenzialmente) le stesse tra mega-Atenei e piccole sedi.La terza ipotesi che si voleva dimostrare è legata alla specializzazione delle sedi universitarie. L’indicatore scelto è il numero di classi di laurea che presentano almeno un corso di studi in quella provincia. In questo modo, l’ampiezza dell’offerta formativa può essere misurata sia in maniera quantitativa, sia qualitativa (tanti corsi nella stessa classe di laurea sono, difatti, da considerarsi sostanzialmente analoghi). Si può dedurre che un centro con un’offerta ampia e diversificata (non per forza legata alla stessa università) risulta più attrattivo di una sede universitaria fortemente specializzata in un campo.Il quarto quesito riguarda le politiche per il diritto allo studio universitario (DSU). Nessuna delle variabili prese in considerazione risulta significativa per l’attrattività. Questo risultato dimostra una sostanziale inefficacia degli attuali sistemi di welfare studentesco come fattore di attrattività, confermando un giudizio già espresso in letteratura (vd. Biggeri e Catalano, 2006).

Prima di passare all’analisi della seconda metà del modello, notiamo come le variabili universitarie considerate significative nel modello siano solo due su otto. L’attrattività dipende, quindi, solo in parte dalle caratteristiche dell’università, mentre è il territorio che svolge un ruolo maggiormente significativo.

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Tra le variabili territoriali, la più significativa è quella della popolazione. Innanzitutto, è bene ricordare che il modello sia basato su una scala di flussi sostanzialmente provinciali. Si nota come, le province meno popolose sono più attrattive. Questo fatto è da interpretare soprattutto alla luce del minor costo della vita per chi vive nei centri minori; molto interessante è il comportamento di questa variabile rispetto alla stessa elevata al quadrato (pop.prov.^2). In questo caso, il segno cambia (da negativo a positivo) evidenziando una maggiore attrattività dei centri maggiori dove, evidentemente, le opportunità (lavorative, formative, …) sono ritenute più che proporzionali ai costi sostenuti (un evidente effetto da economia di scala e di scopo).Le due variabili legate al mercato del lavoro (tasso di disoccupazione e densità imprenditoriale) si rilevano buone esplicatrici dell’attrattività. Se legate alle variabili precedentemente analizzate, si evidenzia come un contesto maggiormente popolato è più interessante soprattutto in funzione delle maggiori opportunità in ambito lavorativo, mentre le variabili legate all’offerta culturale sono assenti.Infine, sono stati individuati due indicatori di benessere economico e di qualità della vita. Il primo (preso dal Sole24Ore) offre una rappresentazione più completa della qualità del mercato del lavoro e delle potenzialità economiche del territorio, sostituendosi a indicatori più semplici. Il modello evidenzia come su spostamenti più lunghi si cerchi una qualità del mercato del lavoro in accezione più ampia, mentre per quelli di corto raggio bastano effetti più semplici. Un comportamento opposto ce l’hanno invece tutti gli indicatori di qualità della vita intesa in un’accezione non strettamente economica (in questo caso usiamo quello di ItaliaOggi). È un dato molto interessante perché anche indicatori di dotazione di infrastrutture culturali risultano negativi, così come quelli di qualità ambientale. La spiegazione è legata al fatto che maggiore qualità della vita implica maggior costo della vita. Si tratta di un costo che è ritenuto non necessario e quindi da evitare.L’ultimo interrogativo di ricerca era legato alle dinamiche del mercato immobiliare. Sono state inserite nel modello diverse valutazioni immobiliare ufficiali, in particolare quelle di Gambetti, e si è rilevato come queste non siano in alcun modo significativo. Questo fattore è da interpretarsi con una massiccia diffusione del mercato nero degli affitti agli studenti che rende irrilevante il riferimento ai prezzi ufficiali di mercato.

La ricerca ha così posto in evidenza l’influenza delle caratteristiche territoriali nell’attrazione degli studenti nelle sedi universitarie. Il clima competitivo tra università (reale, auspicato o, talvolta, temuto) risente in maniera imprescindibile dalle condizioni territoriali in cui si trovano ad agire; non è pensabile immaginare un sistema di competizione tra gli atenei che non consideri il ruolo dei territori in cui sono insediate, delle loro istituzioni e delle loro

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imprese. Per queste ragioni, non è possibile concepire una competizione atomistica tra sedi universitarie, le quali sono inscindibili dai territori che li ospitano.

La metodologia scelta permette di evidenziare almeno tre elementi fondamentali:_ È stato individuato e modellizzato il sistema dell’attrattività delle sedi universitarie tenendo conto anche dei fattori territoriali._ Il modello elaborato ha una buona capacità previsionale a fronte di una considerevole eterogeneità del contesto di analisi._ È possibile individuare singoli casi studio di eccellenze nella capacità di attrarre e di casi negativi (anche presso sedi “minori”).

Con questo modello econometrico è possibile per ogni singola sede universitaria confrontare le proprie performance, altrimenti incomparabili a causa delle diversità territoriali in cui si trovano ad operare. Si aggiunga il fatto che, in genere, si valuta l’attrattività attraverso il numero di studenti provenienti da fuori regione. Non c’è chi non veda come, in un contesto quale quello italiano, la scala regionale non abbia significato territoriale perché si metterebbero sullo stesso piano la Lombardia e la Valle d’Aosta o, peggio, si premiano le università localizzate sui confini regionali (si pensi a Piacenza che è geograficamente più vicina a Lodi e la Lombardia che alle corregionali città di Rimini, Forlì o Ravenna).

3.5 La capacità di attrazione delle sedi universitarie

Il modello così ottenuto permette di valutare ogni singola sede. Le specificità di contesto o le strategie delle singole sedi non sono state considerate: questo fatto permette di confrontare i valori attesi con quelli empirici rilevando surplus o deficit nelle performance delle diverse sedi universitarie. Ne sono state tratte numerose classificazioni comparative che evidenziano i diversi comportamenti di ogni singola sede: è così possibile fare valutazioni comparative tra sedi diverse della stessa università o della stessa città, per classi dimensionali o per area disciplinare (sanitaria, scientifica, sociale ed umanistica).Il modello ha permesso anche di stimare quanto la capacità attrattiva dipenda dall’università e quanto dal territorio: avendo solo due variabili dipendenti dall’università, se si calcola il valore atteso solo sulle variabili territoriali è possibile stimare la capacità teorica di attrazione del territorio “senza l’università” (il contesto).

Per fornire un esempio dei risultati, riportiamo la valutazione delle sedi universitarie con almeno 20.000 studenti (si ricorda, che si fa riferimento agli studenti che, nell’anno accademico 2004/05 erano iscritti all’ordinamento del DM 509/99).

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# COM. SEDE UNIV Stud. Tot. Fsede(ril)

Fsede (att)

Fsede (dif)

Fsede (terr)

Fsede (univ)

1 BOLOGNA AlmaMater 27.923 0,58 0,38 0,20 0,13 0,452 ROMA Sapienza 41.746 0,29 0,17 0,12 -0,13 0,423 NAPOLI Federico II 26.438 0,04 -0,01 0,06 -0,24 0,284 TORINO UniTo 25.016 0,18 0,15 0,03 -0,14 0,325 BARI UniBa 20.598 0,05 0,03 0,02 -0,17 0,226 PADOVA UniPd 25.734 0,23 0,22 0,00 -0,04 0,277 FIRENZE UniFi 20.295 0,28 0,30 -0,02 0,04 0,248 CATANIA UniCt 21.038 0,03 0,05 -0,02 -0,10 0,139 MILANO UniMi 28.162 0,16 0,24 -0,08 -0,05 0,21

Tab. 4 - Classificazione delle principali sedi universitarie italiane

Se prendiamo la sede bolognese dell’Alma Mater Studiorum si rileva un valore di studenti provenienti da province non limitrofe (Fsede_ril) del 58%, il più alto tra le grandi sedi, a fronte di un valore atteso (Fsede_att) del 38% con un differenziale (Fsede_dif) del +20%. In questo modo è possibile apprezzare la differenza di sedi come, in questo caso, Roma - Sapienza e Firenze - UniFi. I valori di Fsede_ril sono sostanzialmente analoghi (rispettivamente 29% e 28%), ma l’università capitolina aveva un valore atteso molto più basso (17%) dimostrando un surplus di attrazione molto apprezzabile (seconda tra le grandi sedi universitarie), mentre l’università del capoluogo toscano è sostanzialmente allineata alle previsioni del modello (un risultato non positivo, ma neanche negativo).Vale la pena sottolineare anche il caso di Napoli - Federico II che ha un valore rilevato molto basso (appena il 4%, il penultimo tra le grandi sedi), ma che riesce ad attrarre in un territorio difficile come il capoluogo campano (valore atteso addirittura negativo) facendo registrare un differenziale di +6% (il III migliore in questa classifica).In questo modo è possibile valutare comparativamente tutte le sedi italiane, con particolare attenzione alle sedi diverse dello stesso ateneo (se ovviamente la sede storica risulterà più forte, nelle università con tante sedi decentrate la valutazione non è scontata) oppure ad un confronto .

Secondo elemento importante è che l’analisi è stata svolta non per università, ma per sedi universitarie in modo da valutare le differenti performance delle sedi centrali e di quelle decentrate: si tratta di una componente fondamentale a fronte del proliferare di queste ultime. Una ricerca svolta con questa metodologia permette di comparare sedi dello stesso ateneo in territori diversi, considerando le differenze geografiche. Difatti, se guardiamo i dati riportati in tabella, si può apprezzare anche il fatto che attirare a Milano è relativamente più facile che attirare a Napoli perché, sebbene il costo della vita sia più elevato, nel capoluogo lombardo sono maggiori le opportunità lavorative a cui è possibile avere accesso e questo giustifica l’investimento sostenuto.

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La rappresentazione dell’Italia che emerge da questo lavoro di valutazione è un’immagine composita ed eterogenea. In genere si associa al Nord-Est-Centro (NEC) la maggiore attrattività grazie a sedi come Bologna e Padova e soprattutto alle università toscane, marchigiane, abruzzesi ed umbre (un centro Italia un po’ allargato, ma abbastanza ben identificabile). Tuttavia, si è dimostrato come la capacità attrattiva sia più composita ed eterogenea. In Lombardia, per esempio, Milano è una città poco attrattiva, ma con università eccellenti mentre Brescia appare molto meno performante. Al Sud troviamo sicuramente una situazione mediamente poco brillante, ma con alcuni casi di eccellenza significativi; il NEC comprende invece soggetti troppo eterogenei per poter essere accomunati.

3.6 I principali limiti della ricerca

Il primo limite di cui si è consapevoli è che per perseguire un modello di sviluppo territoriale basato sull’economia della conoscenza non basta attrarre gli studenti; tanto meno, la qualità di un’università può essere valutata esclusivamente sulla capacità di attrarre studenti, anche se questo è sicuramente un indicatore molto rilevante. Sul tema è attualmente in corso (2006-07) un dibattito pubblico legato all’istituzione di un’apposita agenzia fortemente voluta dal Ministro Mussi. Si segnala come, in tale dibattito, manchi una chiave di valutazione di natura “territoriale”.La riflessione svolta ha, da un lato, il merito di offrire una lettura territoriale in un ambito dove, solo di recente, inizia ad emergere questa sensibilità, dall’altro ha eluso tutti gli altri temi di valutazione della didattica e dell’attività di ricerca (sarebbe ovviamente necessario inserire nella valutazione delle università, per quanto possibile anche ricerca, trasferimento tecnologico e cooperazione allo sviluppo territoriale).Il limite più grande di questo modello è la sua staticità. Tutto il lavoro considera esclusivamente l’anno accademico 2004/05. Sarebbe di grandissimo interesse poter effettuare una lettura diacronica per evidenziare i mutamenti nel tempo della capacità di attrattività delle singole sedi universitarie, anche a fronte delle mutazioni dei contesti territoriali in cui si trovano ad operare. Questo esercizio servirebbe per valutare l’efficacia di eventuali strategie locali tese a migliorare l’attrattività degli studenti, ovviamente su un orizzonte temporale adeguato (per esempio: 3 o 5 anni). Per quel che riguarda le sedi minori (< 1.000 studenti) è opportuno attendere che entrino a regime (la quasi totalità delle sedi non considerate ha meno di cinque anni) e maturino una capacità di attrazione specifica. Nel complesso, dalle analisi preliminari svolte sono state rilevate dinamiche locali fortemente eterogenee che meriterebbero attenzioni ed analisi specifiche, fortemente dipendenti dai piani di apertura e sviluppo di quelle sedi.

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4 CONCLUSIONI E POSSIBILI SVILUPPI DELLA RICERCA

A fronte della proliferazione di sedi universitarie è opportuno dotarsi di una metodologia adeguata che permetta di valutare i singoli casi senza una condanna aprioristica delle sedi decentrate. Certamente, il giudizio comune di condanna di queste sedi si è scontrato con una certa “disinvoltura” e “leggerezza” degli atenei: la discussione che ne è nata appare ideologica e debole nella rilevazione empirica e nella conseguente interpretazione del fenomeno, l’analisi svolta cerca di superare questi limiti. Tre ordini di problemi restano aperti al termine di questa ricerca.In primo luogo, per mancanza di dati sistematici a disposizione non è stato possibile analizzare l’esito degli studi: gli studenti che l’università attrae dove vanno a lavorare? In altri termini, le risorse catturate e qualificate dall’università vengono “trattenute” in loco dalle imprese del territorio? Il tema è interessante e non sono ancora disponibili lavori in questa direzione. Il tema andrebbe letto anche alla luce dei diversi percorsi formativi universitari. Se in questa ricerca sono state considerate solo lauree, lauree specialistiche e lauree a ciclo unico, sarebbe opportuno valutare anche master, dottorati di ricerca e formazione continua nel loro impatto sul territorio.Il secondo ordine di problemi che resta aperto è la ri-progettazione delle politiche regionali di DSU, giudicate inefficaci nel migliorare la capacità di attrarre studenti, ma che rappresentano una sfida fondamentale di equità socio-territoriale, soprattutto in un paese come l’Italia con forti squilibri inter-regionali. È un tema che potrebbe rivelarsi strategico, in particolare per lo sviluppo delle aree più arretrate del paese. La mobilità degli studenti dev’essere concepita sia dal punto di vista sociale che territoriale: l’accesso alla sempre più importante risorsa “conoscenza” può essere fondamentale per rilanciare le aree deboli valorizzando le risorse umane, spesso le uniche rimaste da decenni di politiche poco o nulla efficaci. Si potrebbe pensare anche a politiche specifiche di sviluppo dell’attrattività delle sedi universitarie del Mezzogiorno.L’ultimo tema aperto risente del clima del Processo di Bologna: “e l’Europa?”. Sarebbe interessante una valutazione comparativa tra paesi dell’UE al fine di indagare se e come funziona quello spazio continentale per l’alta formazione lanciato a Bologna. Attualmente, i sistemi sono ancora chiusi a livello “nazionale” e la mobilità studentesca, in Italia al più inter-provinciale, manca di una mappatura che possa permettere di individuare i casi di maggior successo. Poter applicare questa metodologia ad altri paesi europei e valutarne le differenze evolutive rappresenterebbe un grande contributo per l’operato di uno di quei settori in cui, per natura, l’Unione Europea può fare molto e bene.

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5 Riferimenti

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[4] C. Carrincazeaux, Y. Lung, A. Rallet, Proximity and localization of corporate R&D activities, Research Policy n. 30, 2001.

[5] G. Dematteis, Verso la città-rete del III millennio, Prolusione per l’inaugurazione dell’Anno Accademico 1996-1997 del Politecnico di Torino, Torino 1996.

[6] F. Rodríguez Gutiérrez, R. Villeneuve, Universitas et civitas: Universidad y desarrollo local, Eurexcter, Oviedo 2000.

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[8] ESPON, Project 3.3 Territorial dimension of the Lisbon/Gothenburg process, documenti pubblicati su www.espon.eu

[9] H. Etkowitz, The second academic revolution: the role of the research university in economic development in S. E. Cozzens, P. Healy, A. Rip e J. Ziman (a cura di), The research system in transition, Dordrecht Kluwer academic publishers, 1990.

[10] H. Etkowitz, L. Leydesdorff, The dynamics of innovation: from National Systems and “mode 2” to a Triple Helix of university-industry-government relations, in Research policy n. 29, 2000.

[11] D. Foray, L’economia della conoscenza, Il Mulino, Bologna 2006.[12] A. Jaffé, Real effects of academic research, in American Economic Review, n. 79,

1989.[13] T. Kuhn, La struttura delle rivoluzioni scientifiche, Einaudi, Torino 1978.[14] J. G. Lambooy, The transmission of knowledge, emerging networks, and the role of

universities: an evolutionary approach. European Planning Studies, vol. 12, Luglio 2004.

[15] S. Mastropasqua, R. Tigre, Compendio di Legislazione universitaria, Aracne, Roma 2006.

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[16] H. Mayer, A clarification of the role or the university in economic development, paper presentato alla conferenza congiunta di Association of Collegiate Schools of Planning (ACSP) e Association of European Schools of Planning (AESOP), tenutosi a Leuven (Belgio) 8-13 luglio 2003.

[17] R. Orsi, Gli studenti fuori sede dell’Università di Bologna: un’analisi quantitativa dell’impatto sull’economia locale, realizzato per l’Università di Bologna, Bologna 2001.

[18] A. Paletta, M. Zanigni, La città e i saperi: le università e le istituzioni dell’innovazione e della cultura per la città, atti del Convegno AISLo 2005.

[19] A. Portes, Social capital and community development, working paper #00-08, Princeton University, maggio 2000.

[20] E. Rullani, Economia della conoscenza, Carocci, Roma, 2004.[21] S. Sassen, The global city: New York, London, Tokyo, Princeton University Press,

Princeton (NJ) 1991.[22] Unione europea, Conclusioni della Presidenza – Consiglio europeo di Lisbona

2000. EU, Lisbona, 23-24marzo 2000.[23] Unione Europea – Commissione, Il ruolo delle università nell’Economia della

conoscenza, Comunicazione della Commissione (COM2003– 58), Bruxelles, 5febbraio 2003

[24] P. Veltz, Le città europee nell’economia mondiale, in A. Bagnasco e P. Le Galès (a cura di), Le città nell’Europa contemporanea, Liguori, Napoli 2001.

[25] M. Woolcock, Social capital and economic development: Toward a theoretical synthesis and policy framework, Kluwer academy, Danvers (USA) 1996.

5.2 Sitografia fondamentale

[1] AlmaLaureawww.almalaurea.it

[2] CISUI – Centro Interuniversitario per la Storia delle Università Italianehttp://www.cisui.unibo.it/home.htm

[3] CNVSU – Comitato Nazionale di Valutazione del Sistema Universitariowww.cnvsu.it

[4] CRUI - Conferenza dei Rettori delle Università Italianewww.crui.it

[5] Gabetti groupwww.gabetti.it

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[6] Ministero dell’Università e della Ricercawww.miur.it

[7] Ministero dell’Università e della Ricerca – Anagrafe degli studenti http://anagrafe.miur.it

[8] Ministero dell’Università e della Ricerca – Ufficio di statisticahttp://www.miur.it/scripts/p_prov06/default.asp

[9] Unioncamere - Atlante della Competitività delle Province italianehttp://www.unioncamere.it/atlante/

[10] Università degli Studi di Bologna – Magna Charta Universitatum http://www3.unibo.it/avl/charta/charta.htm

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