XI SEMINARIO INTERNAZIONALE INTERCULTURALE CVM ... · quinquennio 2008-2012, e in Perù le...
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XI SEMINARIO INTERNAZIONALE INTERCULTURALE
CVM
SOSTENIBILITA’ E SVILUPPO UMANO Nuovi curricoli per il cittadino globale del XXI secolo
Liceo scientifico statale “E. Medi” – Viale 4 Novembre
Senigallia, 8-9 settembre 2017
Esiste una politica della sostenibilità?
Massimo Scalia – “La Sapienza” Roma, Presidente Comitato Scientifico CNES-UNESCO
PREMESSA
“Occorre quindi rivedere i paradigmi mentali con i quali ci si approccia ai saperi disciplinari
per favorire la cultura della relazione...” “La costruzione delle competenze del cittadino
cosmopolita deve caratterizzare la nuova mission della scuola e incidere sulla deontologia del
docente..” Ho voluto fare riferimento a queste due indicazioni, che Giovanna Cipollari ha fornito
per l’XI Seminario Internazionale della CVM, perché mi sembrano particolarmente illuminanti
per molti passaggi della mia relazione. Che di luce, e di pazienza, avranno sicuramente bisogno
perché, nonostante il decennio per l’Educazione allo Sviluppo Sostenibile UNESCO 2005-2014,
il cui comitato scientifico ho presieduto, le mie capacità “pedagogiche” sono fortemente
condizionate, anche per deformazione professionale, dal modello “lezione frontale” che si fa
all’Università. Me ne scuso, ben sapendo che colleghi più aggiornati, e giovani, di me sapranno
cogliere alcuni spunti importanti e ‘trasformarli’ in quella Global Citizens Education, che è parte
fondamentale della mission della CVM.
INTRODUZIONE
Le due attuali crisi globali, ambientale ed economica, sono profondamente correlate e molti
autori affermano che la radice comune è l'attuale modello di crescita economica: la spoliazione e
il saccheggio delle risorse naturali, caratteristici della modalità capitalistica di produzione e
consumo, ancor più devastante nella sua attuale fase di “neoliberismo” e peggiorata da un mondo
finanziario completamente fuori controllo. Mentre i danni sociali della crisi economica sono
evidenti all'opinione pubblica mondiale, le conseguenze sconvolgenti della crisi ambientale
faticano a diventare parte importante della conoscenza e della consapevolezza sia degli individui
che della società umana nel suo complesso (vedi [1], [2a), 2b)]).
I dati globali mostrano la gravità della crisi ambientale [1]: dal land grabbing (accaparramento di
territori), che riguarda anche le risorse idriche ([3 a), b)]), alla diffusione della siccità in aree
sempre più ampie [4], al degrado della barriera corallina ([5 a), b)]). E, soprattutto, quella che è
stata chiamata “la più grande minaccia di questo secolo”, il cambiamento climatico, o meglio, la
già avvenuta transizione all'instabilità climatica ([6], [7a], b)]). E potrà essere utile allora un
modello “semplice”, esplicativo di quest'ultimo fenomeno, ricorrendo, in termini puramente
divulgativi, alla della teoria della stabilità per i sistemi dinamici non lineari ([7 b)]).
Purtroppo la quasi totalità degli economisti che orientano le scelte dei grandi decisori politici e la
stessa opinione pubblica sembrano ignorare la crisi dell'ambiente che è, è bene ricordarlo, crisi
dell'umanità; basti pensare al dramma dei migranti che in numero crescente sono spinti a fuggire
dalle loro terre proprio per motivi ambientali – siccità, scarsità di risorse – più ancora che per
guerre e motivi politici. E questa sordità sembra perdurare, nonostante l'instabilità climatica e le
sue conseguenze drammatiche siano lo scenario dei prossimi decenni, non più un'emergenza
quindi, ma un contesto nel quale devono essere valutate le politiche economiche. Come ammonì
oltre dieci anni fa il rapporto Stern ([8]), quantificando l’impatto economico-sociale ove i
cambiamenti climatici fossero stati affrontati con politiche “business as usual”1, che cioè non ne
tenessero conto com’era sostanzialmente accaduto fino all’entrata in vigore del Protocollo di
Kyoto (16 febbraio 2005).
In realtà, seppure con ritardo, delle grandi decisioni politiche sono state prese, che intrecciano
economia ed ecologia, e hanno orientato mercato e consumi in modo tale che, pur nel
drammatico quadro cui si è accennato, non è un esercizio disperato quello di cercare di
configurare, e perseguire, politiche della sostenibilità. Una per tutte, i tre 20% decisi dal
Consiglio dell’Unione Europea nel 2007 come obiettivi al 2020: riduzione del 20 %, rispetto al
livello 1990, delle emissioni di CO2; riduzione del 20% dei consumi totali d’energia e copertura
dei restanti consumi – un po’ più del 60% – con il 20% di fonti energetiche rinnovabili.
I tre 20% sono stati in questi anni il punto di riferimento per l’Accordo di Parigi (12 dicembre
2015); e i risultati già ottenuti verso una società low carbon sono la base di una rivoluzione
energetica che si sta realizzando in tutto il mondo e che è il cardine della “Green economy”.
Ma non avrebbe senso formulare ricette per le politiche della sostenibilità se non si capisse
prima, da un lato la natura e il quadro dello sconvolgimento climatico in atto e che ci
accompagnerà per le prossime decadi, dall’altro le difficoltà, lo ripetiamo, a fare breccia nel
pensiero economico dominante, che, mentre sembra sostanzialmente sordo ai fragori della crisi
ambientale, si è anche dimostrato incapace di gestire la crisi economica. Di più, non è chiara agli
economisti la peculiarità di questa crisi di sovrapproduzione, per la quale non solo il ripristino
dei maggiori indicatori economici al livello 2007 sta avvenendo lentamente e con grande fatica
ma non è neanche dato capire se e come se ne possa uscire. A meno di non cambiare
completamente rotta.
Due aspetti cruciali quindi – la crisi ambientale e la crisi economica – che necessitano di una
vera e propria rivoluzione culturale, e quindi di un’azione di education in profondo dei cittadini,
che parta già dai programmi scolastici della scuola primaria e investa poi la società in tutti i suoi
momenti e in tutte le sue articolazioni. Mutuando dal famoso saggio di Charles Snow sulle due
culture è ora che l’economia e i modelli sociali delle politiche economiche si incontrino con le
scienze della natura e dell’ambiente e il loro linguaggio.
Da oltre trent’anni i movimenti ambientalisti di tutto il mondo stanno proponendo soluzioni
sostenibili che possono essere riunite, e sono state riunite, nel tema generale della “riconversione
ecologica dell’economia e della società”. E non è azzardato rilevare che, oltre al suo alto valore
spirituale e morale, la “Laudato sì” di Papa Francesco indichi questa direzione per quel che
riguarda le scelte fattuali da operare.
1 Una caduta media del 5% all’anno del PIL (Prodotto Interno Lordo) mondiale – una caduta di gran lunga superiore
a quella dell’attuale crisi economica – con un’accurata descrizione degli esiti negativi nei vari settori di produzione e
consumo, sulla base dei modelli più aggiornati usati dai ricercatori che avevano cooperato alla stesura del rapporto.
Muoversi verso quell’obiettivo è l’arduo compito che possiamo assumere non solo per far fronte
alla gravità della crisi ambientale ma anche come impegno professionale di educatori o come
semplici cittadini che vogliono bene a quest’unica Terra che abbiamo: è, mi sia consentito, la
morale da proporre per il XXI° secolo.
ALCUNI DATI DELLA CRISI AMBIENTALE
Il consumo delle risorse e il “land grabbing”
Un’era nuova sembrava aprirsi all’inizio degli anni 90, quando la Conferenza di Rio de Janeiro
svincolava dal recinto dell’ambientalismo per proiettarli all’attenzione dei governi di tutto il
mondo i grandi temi della crisi ambientale, segnalando con particolare forza la questione dei
cambiamenti climatici.
La risposta dei fatti si è purtroppo mossa largamente in altra direzione. Il consumo delle risorse
naturali è proceduto al di fuori di ogni razionalità, con un saccheggio sistematico che riduce
costantemente la diversità biologica, le grandi foreste – a un ritmo di decine di migliaia di km
quadrati all’anno –, mentre si estendono le aree desertiche, cresce la siccità, si spostano più a Nord
le isoterme nell’emisfero più popolato. Il saccheggio sistematico di tutti i materiali del sottosuolo
aveva già portato, secondo il rapporto “Opening Pandora’s box” della Gaia Foundation (2012) nei
soli dieci anni precedenti, a un incremento del 180% della produzione dei minerali di ferro, del
165% di cobalto, del 125% di litio; l’industria mineraria in Cina era aumentata di un terzo nel
quinquennio 2008-2012, e in Perù le esportazioni minerarie aumentavano di un terzo nel solo
2011.
Qualsiasi entità fisica, compresa la popolazione umana, le sue automobili, i suoi edifici, le sue
ciminiere, non può continuare a crescere per sempre. L’economia e la popolazione umana
dipendono da flussi costanti di aria, acqua, alimenti, materie prime e combustibili fossili
provenienti dalla terra; alla terra esse costantemente rimandano rifiuti e inquinamento. I limiti
della crescita sono i limiti della capacità delle sorgenti del pianeta di fornire quei flussi di materiali
ed energia, e i limiti della capacità dei pozzi del pianeta di assorbire i rifiuti e l’inquinamento. Ai
regimi attuali, i flussi che reggono l’economia umana non possono essere mantenuti
indefinitamente, e nemmeno per molto tempo, perché molte sorgenti di importanza cruciale vanno
degradandosi ed esaurendosi.
Le prospezioni per gli idrocarburi continuano a crescere in modo esponenziale, forti della libertà
di concessione. La caccia ai minerali rari preziosi per l’innovazione tecnologica non ha quartiere,
mentre le miniere all’aperto trasformano i territori in enormi aree industriali dismesse, le cime
delle montagne vengono rimosse, le terre divorate. In America Latina, Asia e Africa sempre più
terre comunitarie, bacini fluviali e interi ecosistemi vengono spogliati e le comunità sfollate; ed è
proprio di questi giorni la volontà espressa dal Presidente del Brasile di voler cedere 47.000 km2 di
foresta amazzonica alle compagnie minerarie per la ricerca dell’oro e di altri minerali preziosi.
E’ il land grabbing ([3 a), b)]), i cui dati sono schematicamente rappresentati in Fig.1, Fig.2 e
Fig.3; così la stampa più critica ha battezzato il fenomeno dell’intensificarsi delle acquisizioni
transnazionali a basso prezzo di terreni silvo-forestali, agricoli o potenzialmente tali – ad esempio,
dopo una deforestazione – in Paesi esteri, operato da Stati e da multinazionali, che ha avuto un
incremento senza precedenti nel quinquennio 2005 – 2009. Al land grabbing è associata
l’appropriazione di acque dolci, in misura che solo di recente comincia a essere valutata [3 b)].
L’appropriazione di terre e acque dolci sta procedendo a ritmi preoccupanti in tutti i continenti con
eccezione dell’Antartide, ed è addirittura possibile seguire da un “osservatorio” online tutte le
trattative concluse o in corso [9]. Nel 2011, a Tirana, la Conferenza della International Land
Coalition ha definito il land grabbing come “acquisizioni di terre in violazione dei diritti umani, in
assenza del consenso di chi le usava in precedenza e con nessuna considerazione degli impatti
sociali e ambientali.” [10].
Fig. 1 Mappa globale della rete di land-grabbing: i Paesi oggetto di land-grabbing (dischi verdi) sono
connessi ai loro “accaparratori” (triangoli rossi) con una linea della rete. Vengono considerate solo i 24
Paesi più spoliati; nel grafico vengono mostrati solo le connessioni relative a un land grabbing eccedente
100,000 ha [9].
Fig. 2 Distribuzione per continenti delle terre (A) e delle acque(B) “accaparrate” [3 a)].
Fig. 3 Sottrazione di acqua dolce: potabile (verde) e per l’irrigazione (blu) nei 24 Paesi più espropriati delle
loro terre. Valori massimi (2012) [3 b)].
Una nuova forma di colonialismo, insomma, nel contesto generale della predazione delle risorse
della natura che richiamavamo, che ha assunto, nella sostanziale ignoranza dell’opinione pubblica
e col compiacente silenzio dei governi, dimensioni tali da rendere sempre più attuale la richiesta di
un impegno etico nei confronti di tutta la biosfera, avanzata trent’anni fa dal filosofo Hans Jonas,
[11]. Le conseguenze che una tale depredazione comporta sulla salute di chi ci lavora e delle
popolazioni così colpite si leggono nei bollettini sanitari dei Paesi coinvolti e nelle statistiche del
WHO (World Health Organization).
Già nel 2011 l’United Nation Environment Programme (UNEP), l’Agenzia di Protezione
ambientale delle Nazioni Unite, aveva lanciato in un rapporto l’allarme, prevedendo per il 2050 un
consumo di 140 miliardi di tonnellate all’anno di risorse naturali – minerali, filoni di minerali,
combustibili fossili, biomasse – quasi una triplicazione rispetto al dato del 2000, nel permanere di
enormi disuguaglianze, con punte di 40 t/anno pro capite nei Paesi ricchi a fronte delle 4t/anno in
India; e quello attuale dell’India è un consumo complessivo di poco inferiore a quello mondiale
all’inizio del XX secolo [12].
Il rapporto richiamava quindi i governi, soprattutto quelli dei Paesi ricchi, a perseguire
politiche di “disaccoppiamento” tra crescita economica e consumo di risorse, perché “il
consumo globale di risorse sta esplodendo” e “la prospettiva di molto più alti livelli di consumo
di risorse è assai al di là di ciò che è verosimilmente sostenibile”. E ricordava che: “Bisogna
rendersi conto che prosperità e benessere non dipendono dal consumare quantitativi sempre
maggiori di risorse” e che “disaccoppiamento non vuol dire uno stop alla crescita, ma fare di
più con meno” [12].
L’erosione della barriera corallina e l’ampliarsi delle aree di siccità
L’accaparramento, sfrenato e senza limiti, di risorse naturali ha poi conseguenze indirette che non
vengono percepite, né dai governi né dalla pubblica opinione, come collegate a quel
dapauperamento. Un solo, ma gigantesco esempio; e, per non parlare dei tanti problemi connessi
al ciclo agrolimentare, che hanno avuto il loro riflettore in occasione di EXPO 2015, guardiamo
agli oceani, al rapido e allarmante decadimento del sistema corallino, oggetto ormai di studi per
supportarne la resilienza [13 a), b)].
Il quotidiano “The Guardian” riportava, il 12-4-2015, che la Grande Barriera Corallina australiana,
il sistema più grande del mondo e una delle sue più grandi meraviglie con i suoi circa tremila km
di estensione, era all’ordine del giorno dell’Unesco per la lista dei siti in “pericolo”. Le barriere
coralline sono uno dei più importanti vivai della vita marina, e proprio per questo sono da tempo
assediate dalle flotte di pesca industriale. Su oltre 800 barriere esaminate in 64 siti diversi nel
mondo, l’83% di esse aveva perso più della metà del pesce, la maggior parte già a partire dagli
anni ’70, con conseguenze assai pericolose per la sopravvivenza delle barriere stesse, private dei
pesci che ripuliscono la barriera dagli invertebrati e dalle alghe “coral killer” [13 a), b)]. Anche in
presenza di misure protettive per controllare e limitare la pesca, il tempo di recupero può
ascendere fino 60 anni; un punto incoraggiante, in questo non roseo scenario, è la sopravvivenza
di pesce e corallo quando quelle misure vengano prese [14], come quelle cui si impegnò, con una
previsione di spesa di miliardi di dollari, il primo ministro australiano,Tony Abbott, per evitare
l’inclusione nella lista Unesco.
Un altro fenomeno, magari evocato sotto l’azione di “Lucifero” che ha imperversato quest’anno
per settimane nel Sud Europa e soprattutto in Italia, ma meno conosciuto forse perché sembra un
po’ più “lontano”, è l’espandersi del processo di aridificazione di aree sempre più ampie collegato
all’espandersi della siccità. La National Oceanic and Atmospheric Administration (NOAA),
Agenzia Federale degli U.S.A., mette online un portale interattivo, il Global Drought Portal Data,
che registra mese per mese i dati sulla siccità nelle varie aree geografiche del mondo, dal quale
riportiamo le Fig. 4, 5 [4]; le diverse colorazioni delle aree si spiegano da sole.
Fig. 4 Umidità del suolo relativa allo strato superiore [4]
Fig. 5 VHI, Vegetal Health Index [4]
- In Asia la siccità continua ad essere concentrata nel sud-est e intorno al Mar Caspio.
- In Africa la siccità si è intensificata e ampliata nella regione equatoriale e nel Nord, ma anche nel
Sud Africa dove la riduzione della produzione di mais ha superato il 30%.
- Nel Nord America la siccità si è intensificata nel nord-ovest del continente; negli Stati Uniti si è
estesa a macchia d'olio, bruciando nel 2015 quasi 5,5 milioni di acri, rispetto alla media di 3,5
milioni.
- In Sud America, la siccità radicata in Brasile e nelle Ande del Sud, si è intensificata in molte città:
San Paolo ha dovuto ricorrere alle riserve idriche d’emergenza.
- In Australia, gli indicatori registrano un leggero miglioramento delle condizioni nel Nord mentre
nel Sud la siccità è in espansione; le condizioni di asciutto portano a una grande liquidazione del
patrimonio bovino.
IL GLOBAL WARMING E L’INSTABILITA’ CLIMATICA
The threat has never been greater
Si vanno sempre più riducendo le masse ghiacciate dei grandi ghiacciai del Quaternario; è da più
di dieci anni che si è spaccata la calotta artica (2006), aprendo la lotta tra i Paesi che già cercano di
intestarsi il prezioso bottino di giacimenti di petrolio, gas e minerali divenuti così accessibili. Una
lotta che non è stata ancora regolata da una convenzione internazionale tipo quella sull’Antartide.
Già, dai bordi di quell’enorme continente ghiacciato si è staccato il 12 luglio scorso un “iceberg”
più grande della Liguria (5800 km2): Larsen C.
Foto da: http://edition.cnn.com/2017/07/12/world/larsen-c-antarctica/index.html
Avanza poi la preoccupazione di un temuto feed-back positivo: lo scioglimento del permafrost –
quello siberiano e, ancor di più, dell’Antartide – che liberi dal ghiaccio colossali quantitativi di
metano, uno dei principali “gas serra”.
L’intensificarsi degli eventi meteorologici estremi diventa tanto ripetuto, e in varie parti del
mondo, da far quasi dimenticare l’uragano Katrina e la distruzione di New Orleans, che nel 2005
segnalarono con grande evidenza il significato di evento meteorologico estremo.
Le “bombe d’acqua” sono ormai diventate un esercizio giornalistico, con il loro drammatico
corredo di vittime, di allagamenti e smottamenti che in Italia evidenziano la fragilità del nostro
territorio e il carattere criminale dell’inosservanza delle leggi sulla difesa del suolo. La
“tropicalizzazione del clima” – lo spostarsi verso Nord delle isoterme, l’innalzarsi dello zero
termico oltre i 4000 metri, la presenza in terra e in mare di specie e colture che hanno il loro
habitat originale molto più a sud – risuona anche nelle spiagge nostrane per bocca di bonari
capofamiglia. In Europa le condizioni di siccità si sono intensificate nella maggior parte del
continente, in particolare in tutto il Mediterraneo.
Il moltiplicarsi e l’aggravarsi di questi fenomeni è stato da tempo ricondotto alle crescenti
emissioni di CO2 in atmosfera dovute alla combustione dei fossili, che a tutt’oggi rappresentano
l’80% delle fonti di primarie d’energia che alimentano le attività umane sul Pianeta [15].
L’effetto “serra”, che intrappola la CO2 e altri gas serra – metano (CH4), Ozono, protossido di
Azoto (N2O) e i gas prodotti artificialmente come i clorofluorocarburi (CFC) –, provoca un
riscaldamento su tutta la Terra, proprio come accade in piccolo nelle serre: il global warming.
L’energia, quanta e come la consumiamo, si è insomma posta come tema cruciale e
ineludibile, fissando inoltre un termine alle grandi strategie industriali, alle decisioni politiche e
ai destini del mondo globalizzato: il termine imposto dal tentativo di fronteggiare per tempo, se è
possibile, gli effetti dei cambiamenti climatici. E un’attenzione crescente è stata dedicata ai rischi
di quegli effetti quando, dopo l’allarme lanciato negli anni ’90 dai rapporti dell’IPCC
(Intergovernmental Panel on Climate Change), che portò al Protocollo di Kyoto e alla sua
ratifica (16 febbraio 2005), ma a interventi del tutto inadeguati, la comunità scientifica
internazionale si è direttamente rivolta ai G8 di Gleneagles (2005) e S. Pietroburgo (2006) [16 a),
b)]. Le Accademie delle Scienze dei Paesi riuniti nei due summit, più quelle di Cina, India,
Brasile e Sud Africa, sottolineavano in quei due assessment che il riscaldamento globale era
principalmente dovuto alle emissioni carboniose connesse alle attività umane (“causa
antropica”); raccomandavano un’attenzione prioritaria al collegamento energia-cambiamenti
climatici, richiamando infine i più potenti decisori politici del mondo perché si desse il via a una
“prompt action” [16 a)] per combattere il global warming.
Quegli appelli registrarono una risposta immediata da parte del Consiglio d’Europa, che nel
marzo 2007 lanciava I suoi “tre 20%” come obiettivi da conseguire entro il 2020 (- 20% di
emissioni di anidride carbonica, CO2, rispetto al livello 1990; 20% di riduzione dei consumi
energetici totali con le tecnologie di risparmio e 20% dei consumi totali coperti dalle fonti
rinnovabili).
A rendere così decisa la comunità scientifica internazionale nei suoi appelli ai due citati G8 fu
anche un cambiamento fondamentale di prospettiva nella scienza del clima. Il rapporto “Abrupt
Climate Change”, pubblicato nel 2002 dal National Research Council (NRC) della National
Academy of Sciences degli Usa dopo un decennio di studi e di ricerche sul campo, disegna la
storia del clima come fatta di bruschi cambiamenti e afferma, in contrasto col punto di vista
fino allora dominante, che l’atmosfera è uno dei fattori di modificazione del clima [6].
Questo nuovo paradigma scientifico spiega il perché vi sia stata per molti anni una risoluta
opposizione al ruolo dei gas “serra”. Essi vivono infatti in atmosfera, la parte più bassa, ma se il
punto di vista dominante tra i climatologi individua in altri fattori la causa fondamentale dei
cambiamenti climatici, negando ogni effetto all’azione dell’atmosfera, come possono essere
climateranti i gas “serra” che in essa risiedono? La maggior parte dei climatologi riteneva infatti
che i due principali attori delle modificazioni climatiche, scontando il ruolo delle variazioni
astronomiche (i moti della Terra: rotazione, rivoluzione, precessione e loro fluttuazioni), fossero
le correnti oceaniche – il variare della loro salinità – e il bilancio nel tempo delle grandi masse
ghiacciate.
L’esempio più convincente alla base di questo punto di vista era il Dryas recente, la “piccola”
glaciazione – circa 1200 anni – che poco meno di 14mila fa anni era seguita al bloccarsi della
corrente del Golfo nella parte nordatlantica e al suo effetto di riscaldamento. Quest’esempio, se
mostra in positivo il ruolo di quei due fattori, non comporta però che altre spiegazioni non siano
possibili. Il rapporto del NRC sostiene infatti che l’atmosfera, sovrastando tutta la superficie
terrestre, “cuce insieme” le masse oceaniche e quelle ghiacciate e, agile e leggera, può indurre
cambiamenti repentini del clima mentre quelle due componenti, molto più lente in quanto assai
più massive, presiedono ai cambiamenti climatici su tempi molto più lunghi.
La domanda che sorge ora dal rapporto NRC è del tutto differente: l’atmosfera è un importante
fattore del cambiamento climatico, ma può innescarne uno repentino (“abrupt climate change”)?
L’aumento della concentrazione dei gas “serra” in atmosfera agisce come una “azione forzante”:
ci sarà un valore dell’intensità di questa azione, in corrispondenza al quale ha luogo un
improvviso cambiamento del clima? In termini tecnici si parla di “effetto soglia” e “valore di
soglia” quando a una variazione continua di un parametro che controlla un sistema si ha, per un
certo valore del parametro – il “valore di soglia” – , una discontinuità nel comportamento del
sistema. Cerchiamo di capirlo meglio sulla base di un modello “semplice” tratto da [6].
Un modello “semplice” per l’instabilità climatica
La freccia rossa è l’azione forzante dovuta al riscaldamento globale. La pallina è il clima
(l’insieme dei cicli climatici). Finché l’azione forzante si mantiene entro una certa intensità,
l’unico effetto è di far oscillare la pallina intorno al fondo della “buca”: il clima è in equilibrio,
può variare attorno a una posizione stabile. Quando però l’azione forzante ha intensità sufficiente
a fargli raggiungere il “picco” tra le due buche, il clima non è più in equilibrio stabile, è
diventato instabile (basta una piccola spinta per rimuoverlo dal picco). A una variazione
continua e graduale dell’azione forzante, corrisponde, per una valore critico di quell’azione – la
“soglia” – una discontinuità nel comportamento del sistema: il repentino passaggio dalla
stabilità all’instabilità.
Tale passaggio non dipende dal tempo, com’è evidente se l’azione forzante rimane per tutto il
tempo al di sotto del valore di soglia: niente valore di soglia, nessun cambiamento brusco. Al di
là di essa l’equilibrio si rompe; il clima e i suoi cicli cambiano bruscamente.
Chi ci dice che l’intensità dell’azione forzante del global warming ha raggiunto il valore di
soglia, mandando all’aria la stabilità del clima? Poiché questa rottura dipende dall’aumento in
atmosfera della concentrazione di CO2, il gas “serra” maggioritario, viene naturale chiedersi: ma
come, la CO2 ha svolto un ruolo fondamentale per l’evoluzione della vita sulla Terra garantendo
e regolando il bilancio termico globale, cos’è allora che va storto? Non è tanto il fatto che la
concentrazione in atmosfera di CO2, che negli ultimi 650.000 anni fino a prima dell’era
industriale non aveva mai superato le 290 parti per milione (p.p.m.), si sia oggi attestata a livello
410 p.p.m,. quanto il fatto che l’incremento della concentrazione negli ultimi cinquant’anni è
stato uguale a quello che nella storia del clima richiedeva circa 5000 anni! Questa contrazione
nel tempo di circa cento volte è una misura certa dell’azione forzante, che conduce dalla
stabilità all’instabilità climatica. E’ il passaggio che stiamo già vivendo, molto numerose le
prove, alcune delle quali sono state già citate.
Sull’apparente “semplicità” del modello. In realtà esso rappresenta il clima, in termini di modello fisico-
matematico, come un pendolo sottoposto oltre che all’azione della gravità anche a quella di un’altra forza: l’azione
forzante. La rappresentazione delle orbite di questo sistema nello spazio delle fasi è un modo per “geometrizzare”
l’evoluzione del sistema, cioè farne il “ritratto” tramite il diagramma dei più rilevanti aspetti qualitativi, secondo le
teoria della stabilità di Henry Poincaré e Aleksandr Lyapunov. Questo ritratto mostra che esistono zone di stabilità e
zone di caoticità. L’insorgenza di una dinamica caotica è determinata dall’assunzione di certi valori “critici” del
parametro che regola l’intensità dell’azione forzante. La complicazione di questa dinamica è ben rappresentata, nelle
figure che seguono (Fig.4,5,6), dall’andamento delle curve “separatrici” – la “varietà” stabile (in verde) e la
“varietà” instabile (in rosso) – nello spazio delle fasi; e dalla suddivisione, sempre nello spazio delle fasi, in “isole”
di stabilità e regioni caotiche (Fig. 7).
Fig. 4 Fig.5
Fig. 6 Fig. 7
Le Fig. 4 - 7 sono tratte da Introduzione ai Sistemi Dinamici di Andrea Milani Comparetti, Università di Pisa, 2002, htpp://copernico.dm.unipi.it/~milani/
Per maggior precisione, le figure si riferiscono alla cosiddetta mappa “standard” del pendolo, che fornisce un
esempio “semplice” di dinamica caotica. In Fig.7 è la grafica stessa a suggerire le “isole di stabilità” (intorno al
punto fisso ellittico) e le regioni di caoticità (intorno al punto iperbolico). Vale la pena di annotare che una
situazione analoga a quella raffigurata in Fig. 5 era stata prevista da Henry Poincaré nello studio, in Meccanica
Celeste, del problema dei tre corpi: “…colpirà la complessità di questa figura, che non tento neanche di disegnare”
(1899). Il problema dei tre corpi presenta difficoltà diverse, ma l’ “universalità” del caos, nella descrizione dei
sistemi dinamici non integrabili, rende lecito il confronto con una mappa a due dimensioni (quella “standard”).
Poincaré, che insieme a Aleksandr Lyapunov pose alla fine dell’800 i fondamenti per l’analisi qualitativa dei sistemi
dinamici, cioè la Teoria della Stabilità, ha “inventato” il caos. Parola che solo in tempi più recenti, dagli anni ’60, ha
trovato cittadinanza e maggior interesse di ricerca; a partire dal modello di Edward Lorenz, quello, per capirci, del
“battito delle ali di una farfalla a Pechino che può causare un tornado in Texas” (una frase che è entrata anche nelle
sceneggiature cinematografiche). In realtà il modello di Lorenz ha a che vedere con il clima solo per gli aspetti
meteorologici, ma esibisce una dinamica complessa con il suo “strano attrattore” famoso per gli addetti ai lavori. E
la frase citata esprime, in modo suggestivamente fortunato, la forte sensitività del modello rispetto a perturbazioni
anche piccole dello stato iniziale del sistema: che è però solo uno dei requisiti per delineare il quadro del caos, la cui
definizione rigorosa esula da queste note.
Se un modello così “semplice” dell’evoluzione climatica ci fa immediatamente imbattere nel
caos, è ragionevole supporre che quando si tratti di tentare la sfida con rappresentazioni più
realistiche, inevitabilmente più sofisticate, ci troveremo di fronte a descrizioni di almeno ugual
complessità, come peraltro risulta dalla modellistica degli ultimi anni. Ecco perché nel testo del
NRC si trova, netta, l’affermazione dell’essere il sistema climatico della Terra un sistema
caotico: “...in a chaotic system, such as the earth’s climate, an abrupt climate change always
could occur. However, existence of a forcing greatly increases the number of possibile
mechanisms.”
A causa della durata del ciclo della CO2 in atmosfera gli effetti dei cambiamenti climatici
accompagneranno tutta l'umanità nei prossimi decenni, anche ove venisse intrapresa una forte
azione generale di mitigazione in conseguenza dell'accordo di Parigi (12 dicembre 2015): quegli
effetti e le condizioni conseguenti non potranno più essere considerati come un'emergenza.
Questo contesto richiede una dimensione adeguata degli interventi, sia nelle politiche nazionali
che internazionali, una sensibilità generale, una consapevolezza pubblica e misure innovative in
materia di istruzione e formazione.
Nel suo numero di apertura del 2012, la rivista Nature si rivolgeva agli scienziati di tutto il
mondo perché, a fronte di un calo di interesse dell’opinione pubblica, promuovessero la
conoscenza del cambiamento climatico con tutti i mezzi messi a disposizione dalla tecnologia
mediatica attuale, in quanto “the threat has never been greater”. L’intonazione drammatica
richiama quella del rapporto NRC, che se ha influenzato le dichiarazioni delle Accademie [16 a),
b)] è stato un po’ meno ascoltato dall'IPCC, che tuttavia nel suo V° rapporto ha anticipato il
“punto di svolta”, quello dal quale è difficile se non impossibile tornare indietro, di venti anni,
cioè dal 2050 al 2030 [17].
L’inizio della fine dell’era dei combustibili fossili
Gli obiettivi UE per la mitigazione degli effetti del global warming sono divenuti il centro del
dibattito e un punto di riferimento per i Governi di tutto il mondo, e sono approdati alla
Conferenza delle Parti di Parigi (CoP 21) dove sono stati confermati come punto di riferimento
per il già citato Accordo (12 dicembre 2015), ratificato poi dai capi di governo, sempre a Parigi,
il 22 aprile 2016.
Certo, le decisioni comportano una trasformazione energetica, economica e sociale che ha di
fronte a sé la massiva inerzia (interessi industriali, economici e finanziari; colossali
infrastrutture; centinaia di milioni di occupati o dipendenti ecc.) di giganteschi sistemi energetici
– petrolio, carbone e gas. E i fondamentali passi di cambiamento richiesti hanno tempi
incredibilmente stretti in rapporto alle dimensioni fattuali e sociali degli attuali sistemi
energetici, più ancora in rapporto all’incalzare dello sconvolgimento climatico.
La speranza però si alimenta dei buoni risultati già ottenuti dalla UE rispetto ai tre 20%, degli
accordi bilaterali – fra Stati Uniti e Cina, fra Russia e Cina – che sono proceduti in questi anni e
dell’impegno assunto dall’amministrazione Obama di ridurre del 32% le emissioni carboniose
entro il 2030, anche se solo rispetto al 2005. E non sarà facile per Trump recedere dall’Accordo,
non solo per i tempi lunghi e le difficoltà politiche di un simile passo, ma perché agenzie ed enti
di controllo degli USA hanno adottato fin dal 2008, in forza di una sentenza di un tribunale
federale, procedure e modelli di stima per valutare nel bilancio costi-benefici l’onere
dell’aumento di ogni tonnellata di CO2 emessa. Secondo queste stime, che hanno un valore
regolatorio, alla riduzione di un milione di tonnellate di CO2 entro il 2020 corrisponde un costo
sociale evitato di 42 milioni di dollari; e gli Stati Uniti sono il secondo emettitore mondiale con
oltre 5000 milioni di tonnellate.
Non è né compito né intenzione di questa relazione stilare un’analisi di un Accordo complesso,
oltre tutto di carattere legale, come quello di Parigi, del quale vale la pena rilevare la fortissima
legittimazione derivata dalla folta presenza di capi di Stato e di governo che seguirono la fase
finale che portò all’Accordo. Il mio punto di vista è del tutto analogo a quello espresso in merito
dal direttore esecutivo di Greenpeace International, Kumi Naidoo, e da Nicholas Stern,
consigliere economico del governo inglese per i cambiamenti climatici e lo Sviluppo; e che, con
parole mie, suona così: “Indipendentemente da valutazioni di merito sui singoli aspetti, il più
importante effetto dell’Accordo di Parigi è quello di segnare l’inizio della fine dell’era dei
combustibili fossili.”
Ne fanno in qualche modo già fede gli impegni assunti a Parigi da 180 Paesi, che rappresentano
il 95% delle emissioni globali, mentre i Paesi impegnati al momento dell’entrata in vigore del
Protocollo di Kyoto, il 16 febbraio del 2005, rappresentavano poco più del 55% delle emissioni.
L’Europa sta già discutendo di come ripartire l’obiettivo del 40% di riduzione al 2030; e il 100%
di copertura dei consumi elettrici al 2050 con fonti rinnovabili, stimato dal rapporto Mc Kinsey
[18] *, sembra un obiettivo del tutto ragionevole.
Queste considerazioni non alterano gli aspetti fondamentali del quadro che abbiamo finora
tracciato. Da un lato, sulla scorta di “Abrupt Climate Change”, possiamo affermare con la forza
della ragione scientifica che, per dirla volgarmente, “i buoi sono già scappati dalla stalla”:
l’instabilità climatica sarà lo scenario delle prossime decadi, con le conseguenze che già
sperimentiamo e la necessità, lo ribadiamo, di un’education volta a superare atteggiamenti
emergenziali. Dall’altro, un percorso difficile e faticoso, di fronte alle massive inerzie e ai
formidabili interessi consolidati dei giganteschi sistemi energetici fossili, alla necessità di
riorientare produzione e consumo all’insegna della “rivoluzione energetica” e, più in generale,
verso un nuovo modello socio-economico sostenibile. Questo percorso avrà luogo nel perdurare
delle due crisi, quella ambientale e quella economica.
La riconversione ecologica dell’economia e della società si troverà poi di fronte flussi
d’immigrazione di “rifugiati ambientali”, crescenti nei prossimi decenni rispetto a quelli che già
hanno determinato una grave crisi della UE con la sostanziale rimessa in discussione della libera
circolazione delle persone stabilita dalla convenzione di Schengen. Questo fenomeno, oggi in
gran parte celato e sovrapposto all’immigrazione causata dalle guerre e dalla preoccupazione
generale per il terrorismo jihadista, ha già prodotto in tutto il mondo, si stima, circa 50 milioni di
rifugiati; una cifra che, secondo varie organizzazioni internazionali di settore, si allargherà alle
centinaia di milioni entro il 2050. E’ il tema dell’ “adattamento”, evidenziato con enfasi
crescente nelle ultime COP.
* Lo studio, realizzato da una società specializza nelle inchieste di mercato, si rivolse a numerose grandi compagnie
elettriche e ad altre organizzazioni economiche.
LA CRISI ECONOMICA
Nel mondo l’attenzione e il dibattito sulla crisi dell’impianto economico e produttivo si sono
concentrati soprattutto sugli aspetti finanziari della crisi, in particolare per quanto riguarda i
possibili interventi per uscire dalla crisi e ridare stabilità all’impianto, salvo poi indicare nel
rilancio della crescita una condizione necessaria. Alquanto difficile da realizzarsi, come vediamo,
giorno dopo giorno.
Sulla crisi della strumentazione finanziaria, sulla mutazione dal capitalismo industriale al
capitalismo finanziario sono stati prodotti, ormai da anni, analisi interessanti, sforzi di scientificità
e proposte utili sulle transazioni finanziarie, sulla necessità di misurare il potere delle agenzie di
rating, sul ruolo di governo che dovrebbe essere assunto, in particolare, da appropriate istituzioni
europee. Proposte certo da avanzare ma che non rappresentano una terapia stabile alla
vulnerabilità del bilancio aggredito dal debito e, si aggiunge, se non si rilancia la crescita. Anzi,
perseguire il pareggio di bilancio senza una prospettiva seria di crescita – si sostiene ormai da più
parti – porta diritti verso la deflazione o nella recessione, come è accaduto non solo in Italia.
E però un rilancio della crescita appare difficile nella situazione data. Dovrebbe sorgere il
sospetto che è sbagliato tenere separati, o relegare nella politica dei “due tempi”, i diversi aspetti
della crisi, quello finanziario ed economico-produttivo e quello delle risorse naturali,
dell’ambiente, dei cambiamenti climatici. Ed è ormai consuetudine che anche nei grandi convegni
internazionali sull’economia, sulle politiche economiche, risuoni qualche voce autorevole a
sottolineare questa esigenza. “After no more heard” direbbe il grande bardo.
Nel dibattito internazionale è entrata, è vero, la tematica della Green Economy, ma essa ha presto
assunto, anche per gli economisti più sensibili come Amartya Sen, non la prospettiva di elemento
sostanziale per modificare a fondo un modello di crescita rovinoso, quanto quella di un filone
aggiuntivo che poteva essere considerato, accanto agli altri, nell’usuale valutazione del ritorno
degli investimenti (e dunque presto messo in crisi dalla difficile reperibilità, appunto, degli
investimenti). Oppure si è guardato alla green economy, piuttosto, come ideologia di progresso:
our common future, Obama (di parecchio tempo fa), o il Decennio Unesco per l’Educazione allo
Sviluppo Sostenibile. In realtà, come è stato a ragione sottolineato con ironia “un tema
domenicale, un tema precipuo delle omelie”.
Riteniamo che alla base di questa considerazione di scarsa rilevanza che nel mondo economico e
politico viene attribuita ad un’eventuale riconversione ecologica dell’economia, ci sia una
sostanziale incomprensione di ambedue i termini del binomio “crisi economica – crisi ecologica”,
dovuta anche ad una diffusa incapacità ad interessarsi in modo appropriato delle questioni
scientifiche da parte della cultura economica e della cultura politica.
C’è da sperare che il “riflettore” acceso a livello mondiale dall’enciclica Laudato si’ di Papa
Francesco, e le ovazioni tributategli, ormai due anni fa, nelle sue visite nell’autunno del 2015, sia
dal Congresso degli Stati Uniti che dall’Assemblea delle Nazioni Unite affollata dai capi di
governo di oltre cento Paesi, abbiano concorso a dare finalmente al tema della riconversione
ecologica un’efficace risonanza, e un’ulteriore spinta al fattivo intensificarsi e velocizzarsi delle
azioni necessarie. La Laudato si’ infatti, oltre alla sua valenza generale può ‘sbloccare’ la cultura
cattolica, e più ampiamente quella cristiana, dalle posizioni ancora maggioritarie che già mezzo
secolo fa si attiravano le critiche di chi sosteneva che la religione cristiana è la principale
responsabile della distruzione ambientale [19] o di chi indicava un futuro caratterizzato dalle lotte
per le risorse in esaurimento, causate dai valori giudaico-cristiani che limitano il principio di
responsabilità ai soli interessi umani [20]. La Laudato si’, pur indagando il tema delle “due crisi”
e usando analisi e accenti di denuncia che mai si erano levati così alti nel mondo cattolico, disegna
eminentemente un percorso di grande interesse spirituale e non affronta – del resto non era suo
compito – un nodo economico e sociale che è alla base dell’impasse generale: la contraddizione
essenziale tra innovazione tecnologica e globalizzazione.
Il dibattito economico nella “voliera”
Ci sono nuove idee economiche per gestire le due crisi? Il panorama delle proposte di politica
economica, “vola”, è il caso di dirlo, tra “falchi” – i sostenitori dell’austerity a tutti costi –;
“colombe”, che militano a favore della spesa pubblica per risollevare l’economia ma temono che
il deficit possa comportare rischi di medio termine e “gufi”, per i quali invece il deficit pubblico
è un aspetto naturale della crescita, al più un “sintomo” e non la malattia.
Di conseguenza, in brutale sintesi, per i “falchi” l’imperativo è quello di ridurre sempre, e al più
presto, il deficit; è stato il timone che ha diretto in tutti questi anni di crisi la politica economica
europea con i risultati negativi che conosciamo, resi un po’ meno gravi dal “quantitative easing”
praticato negli ultimi anni dalla Banca Centrale Europea (BCE)1.
Per “le colombe”, che vorrebbero finanziare la crescita economica con investimenti pubblici,
cioè a spese del disavanzo statale, il problema è l’esistenza di rischi per il debito che così si viene
a cumulare – il debito “sovrano” – che resta esposto alla speculazione finanziaria internazionale,
con conseguenze così serie da giustificare in parte le misure di restrizione predicate dai “falchi”.
Insomma, la minaccia di un carico finanziario insopportabile che verrebbe a gravare su figli e
nipoti, e, in tempi più ravvicinati, di una bancarotta alla greca rende più timida e debole la loro
strategia.
I “gufi”, che hanno sostanzialmente rispolverato la vecchia MMT (Modern Monetary Theory),
per la quale uno Stato che può stampare la sua carta moneta non fallisce – da qui il nome di
“cartalismo” che viene dato alla MMT – , vedono nell’aumento del disavanzo statale a favore di
investimenti pubblici una sorta di cornucopia, a patto che le banche centrali, come la BCE o la
FED, finanzino il deficit comprando senza limiti i titoli emessi dai governi. Questa leva
monetaria andrebbe usata in modo audace e innovativo, ma è orfana di risultati significativi.
Sono stati recentemente proposti modelli tipo “previsioni meteo” dall'Istituto per la Complessità
economica (IEC) del Consiglio Nazionale delle Ricerche (CNR), sostanzialmente come ramo
dell’Institute for New Economic Thinking (INET)2. Molto innovativi nella loro critica al pensiero
1 La politica monetaria “quantitativa” della BCE di acquisire con una certa ampiezza titoli di stato per alleggerire la
pressione del debito pubblico sugli istituti finanziari, più liberi così di dare spazio al credito necessario per gli
investimenti. 2 Poiché dopo la crisi del 2007 è apparso chiaro a molti che le teorie economiche dominati non erano in grado di
affrontare la sfida dell’attuale mondo fortemente globalizzato, INET – un’organizzazione culturale no-profit per la
ricerca economica fondata nel 2009 dal noto e discutibile finanziere George Soros – si è data lo scopo di costruire
una comunità globale di “nuovo pensiero economico”, impegnata nel cruciale lavoro di creare nuove idee guida per
il nostro futuro economico. A questo fine INET riunisce dai centri di ricerca di tutti i Paesi centinaia di economisti,
tra i quali molti premi Nobel come Krugman, Stiglitz e Sen.
economico dominante e nella costruzione di due strumenti di indagine, non monetaristici e non
basati sul PIL (Prodotto Interno Lordo)1, anche i “Meteorologisti” però ignorano sostanzialmente
la crisi ambientale e gli effetti che può avere sull’economia [2 b)].
Insomma, nel pensiero economico, pur nei forti contrasti di approccio, non appare alcuna
preoccupazione per l’“altra” crisi, alcun riferimento alla “biofisica planetaria” o a quella
termodinamica che regola i processi naturali e i cicli climatici e che, alla fine degli anni 70,
Nicholas Georgescu-Rögen e Herman Daly avevano tentato di porre alla base di un nuovo punto
di vista economico, lo “stato stazionario”, contro il paradigma della crescita illimitata.
Viene allora naturale chiedere radicali cambiamenti non solo alle politiche economiche, come si
sta facendo peraltro da decenni indicando al contempo su quale strada procedere – l’ “economia
circolare” – ma anche al pensiero economico, ai suoi modelli e alle sue teorie per fornire risposte
adeguate alla doppia crisi che stiamo vivendo: quella dell’ambiente e quella economica, tout
court del capitalismo. Sul piano della teoria economica si potrà forse affrontare più
efficacemente l’austerity, ancora dominante nelle scelte fondamentali europee, se in essa si
lascerà filtrare un po’ di “biofisca planetaria”, se si comincerà a pensare a modelli costruiti
accoppiando variabili economiche e variabili ecologiche, e non solo modelli a colpi di Pil o di
fitness [2 b)]; se un nuovo pensiero economico indagherà e produrrà risposte scientificamente
credibili per il raggiungimento di uno “stato stazionario” globale [2 b)], quell’ipotesi socio-
economica sostenibile che non ha mai avuto udienza, pur tra i loro profondi contrasti, nella
voliera di “falchi”, “colombe” e “gufi”.
La contraddizione essenziale: innovazione tecnologica e globalizzazione. Una crisi
di sovrapproduzione
Alcune analisi hanno indicato un ruolo centrale dell’innovazione tecnologica nella vicenda del
mondo globalizzato, sempre di più teatro di una competizione feroce tra le economie e,
ovviamente, tra le imprese. L’innovazione tecnologica vi ha giuocato un ruolo fondamentale, da
una parte suscitando innovazione di prodotti per una domanda sostenuta da bisogni individuali
indotti nel consumatore e, dall’altra, mirando a ridurre, nella composizione dei costi di
produzione, la voce più significativa: il costo del lavoro, in particolare con il continuo, accelerato
aumento della produttività e conseguente riduzione degli occupati.
1 La definizione storica del PIL è: il valore totale di mercato di tutti i beni finali e dei sevizi prodotti in un Paese in
un determinato periodo. Poiché ogni Paese rendiconta questi dati nella sua valuta, per poter fare un confronto i
valori determinati dalle statistiche di ogni Paese devono essere convertiti in una valuta comune. I due metodi più
comuni per convertire il PIL in una valuta comune sono quello “nominale” e quello a “parità del potere d’acquisto”
(PPP). Col metodo nominale si usano per la conversione i tassi di scambio delle monete, di solito il valore del
dollaro riferito a un preciso anno. Ovviamente in questo modo non si può tenere conto delle fluttuazioni dei tassi di
scambio, che possono essere rilevanti anche se non avvertiti dalle singole popolazioni. Il PPP è invece utile nel
confrontare le differenze degli standard di vita tra le Nazioni. Un taglio di capelli a New York è più caro che a Lima;
il prezzo di una corsa in taxi per un’ugual distanza è più elevato a Parigi che a Tunisi; e un biglietto per una partita a
cricket costa più a Londra che a Lahore. In definitiva il PPP è il tasso di scambio al quale viene convertita la valuta
di un Paese in quella di un altro per comprare la stessa quantità di beni e servizi: se un hamburger è venduto a
Londra per £2 e a New York per $4, questo implica che il tasso di scambio PPP è 1 sterlina a 2 dollari U.S. I tassi di
scambio PPP sono relativamente stabili nel tempo, ma il PPP è più difficile da misurare del PIL “nominale”.
Si è pervenuti così ad un divario crescente tra la velocità con cui aumenta la massa dei beni
prodotti rovesciati sul mercato e la velocità con cui aumenta la “spendibilità”, cioè la capacità
del mercato di assorbire quella quantità crescente di beni.
Questo ruolo dell’innovazione tecnologica non ci pare che sia stato considerato in modo adeguato
dalla riflessione degli economisti. Non si tratta, va sottolineato, di saturazione del mercato: milioni
di donne e di uomini non hanno mai visto un tablet, ma troppo lenta è la velocità con cui essi
entrano nella disponibilità del denaro per acquistarlo!
Crisi di sovrapproduzione dunque: rispetto alla capacità di acquisto non rispetto ai bisogni. Nulla
di nuovo, si dirà: sono ben note nel mercato capitalistico le crisi di sovrapproduzione e, almeno in
teoria, gli strumenti per tentare di riassorbirle. Oggi bisogna però guardare alle conseguenze
quantitative del carattere globale del mercato e all’espansione a ritmo di progressione geometrica
che esso ha assunto, a partire dal XX° secolo, con la tumultuosa innovazione delle tecnologie di
conservazione e trasporto delle merci, le quali hanno potuto fruire di vettori sempre più capaci e
veloci o, addirittura, immateriali tramite internet.
La velocità con cui si propaga l’offerta di merci aumenta insomma a dismisura.
Il dispiego dell’innovazione tecnologica nel mercato globalizzato dà alla sovrapproduzione un
carattere quantitativo difficilmente recuperabile con la strumentazione tradizionale che viene
messa in atto: quale gigantesca redistribuzione del reddito sarebbe necessaria per rispondere
all’insufficienza di domanda effettiva che si è venuta determinando, insieme alla
disoccupazione crescente!
Quella evidenziata ci sembra una contraddizione fondamentale, senza affrontare la quale tutte le
strumentazioni di politica monetaria o economica, e gli interventi di carattere finanziario,
appaiono non cogliere il bersaglio. Davvero difficile, in particolare, ritenere che l’austerità possa
essere risposta efficace a una situazione che ha alla sua radice proprio l’inadeguatezza della
domanda.
Non pochi hanno ricordato che una “soluzione” alle crisi di sovrapproduzione è stata,
storicamente, il ricorso alla guerra; alla prima e alla seconda guerra mondiale. Addirittura,
proprio all’inizio della prima, fu papa Benedetto XV a chiedere ai governanti delle potenze
belligeranti un alt, una risposta per chiarire quale fosse il motivo reale della guerra. Risposta che,
ovviamente, non fu data. Ai giorni nostri è di nuovo un papa, Francesco, a osservare che è in corso
la “terza guerra” mondiale; la seconda non si è davvero mai conclusa e in questi settant’anni sono
proliferati centinaia di conflitti armati, che sono stati definiti “locali” da un’intramontabile e
diffuso tic colonialista.
C’è però da osservare che questo inverecondo “tessuto” di guerre, mentre rende ricchi il “mestiere
delle armi” e l’industria bellica – e una parte sempre più importante la svolgono le tecnologie
avanzate, elettroniche e di telecomunicazione – non ha però dimensioni sufficienti per rispondere
alla crisi di sovrapproduzione globale. E il ricorso a una guerra mondiale, alla quale
intensamente pensano vari circuiti militari e non, è raggelato, non è certo entusiasmante, dalla
deterrenza nucleare; pressoché dimenticata dagli attuali quarantenni, ma ancora operante.
Tornando a quella contraddizione, al ruolo della spesa pubblica e al prodursi delle bolle
finanziarie, mettiamo in colonna alcuni fatti degli ultimi decenni per vedere che risposta è stata
data. Nel Dopoguerra, la competizione internazionale tra le imprese da subito spinse a una
competizione tecnico-scientifica accelerata; si puntava a ridurre i costi – e perciò all’aumento
della produttività del lavoro – ma anche all’invenzione di nuovi prodotti per essere i primi ad
aprire nuovi settori di mercato. E si può mettere in evidenza come l’aumento della produttività
del lavoro non si traducesse in riduzione dell’orario, fino a quando cominciò ad essere evidente il
progressivo divario tra la velocità con cui aumentava la quantità dei beni prodotti immessi sul
mercato globale e la disponibilità di risorse finanziarie per sostenere una domanda adeguata.
Dunque, si venne profilando la crisi della domanda. E non si dica che non era chiaro il
meccanismo, così chiaro che, anche in Italia, per lasciare qualcosa in tasca ai lavoratori, lo Stato
generoso si assunse in modo crescente molti oneri di welfare – l’istruzione, l’assistenza sanitaria,
gli anziani – salvo grida preoccupate sull’aumento del disavanzo statale.
E questa vicenda divenne finanziarizzazione allorché, su un modello che veniva principalmente
dagli USA, si cominciò a rispondere con il mutuo – per la casa, per l’auto, per la salute – laddove
questa era la risorsa possibile per non lasciar deprimere la domanda: una domanda di consumi
individuali.
In fondo, si poteva comprendere che si stava costruendo un meccanismo rischioso, nelle sue
evidenti aleatorietà e instabilità: perché non lo si è bloccato o almeno corretto ricorrendo a norme,
a deterrenti internazionali? Al contrario, esso si è potuto sviluppare rapidamente in virtù di
sistematiche deregulation. Insomma, se è consentita ai “laici” una battuta di stampo economico, la
finanza mondiale si è attribuita, come “soggetto unitario” e a quel livello che la globalizzazione e
l’omogeneità dei suoi comportamenti di fondo le permettono, quel potere – la creazione illimitata
di liquidità – che la MMT attribuiva solo ai singoli stati nazionali. Una differenza non banale è
che, per la MMT, l’aumento della liquidità aveva come fine preminente il bene collettivo, e non
l’arricchimento incontrollato ed esoso di potenti pescecani.
Ma tutte queste considerazioni non spostano la natura essenziale del problema, un problema che,
va ribadito, ha un carattere globale: la compatibilità non governabile – nella realtà del mercato
globalizzato – tra dimensione dell’offerta e domanda di consumi individuali, corrispondenti
evidentemente ai vari livelli di distribuzione dei redditi.
LA RICONVERSIONE ECOLOGICA DI ECONOMIA E SOCIETA’
Dal “Libro Bianco” della UE alla Green Economy: un nuovo modello di sviluppo
Eppure c’erano settori che presentavano anch’essi domanda, ma certo non individuale:
efficienza energetica e ricorso alle fonti pulite e rinnovabili, rigenerazione urbana (restauro dei
centri storici e riqualificazione delle periferie, recupero e riuso del patrimonio abitativo
esistente), ristrutturazione dell’impianto industriale con uso più efficiente delle risorse fisiche e
abbattimento degli inquinanti, ristrutturazione delle reti di trasporto delle persone e delle merci,
mobilità sostenibile, trasformazione dei rifiuti in risorsa, difesa del suolo, agricoltura come
sicurezza alimentare ma anche come controllo della franosità, della sicurezza idraulica e
salvaguardia delle reti idrografiche minori, prevenzione sanitaria, restauro e valorizzazione dei
beni storici, culturali, ambientali, eccellenza delle produzioni artigianali o di nicchia.
Il processo che lega la crescita del debito e del ruolo della finanza al funzionamento
dell’impianto produttivo, come si è cercato di descriverlo – in particolare al ruolo della
innovazione tecnologica – appare già chiaramente leggibile nell’ultimo decennio del secolo
scorso, e porta il Presidente della Commissione UE, Jacques Delors, ad affermare nel Libro
Bianco della Ue (1993), che il rilancio dell’economia (e dell’occupazione) non sarebbe venuto
dai settori produttivi tradizionali, materiali e immateriali, «ma da un nuovo settore ove si
produce e si vende una nuova merce che si chiama qualità della vita» [21]. In una parola: ben
vivere per tutti. Come si vede era la proclamazione della Green Economy e si avvaleva di un
corredo di studi importanti.
A un impianto economico aggredito dalla crisi della domanda la Green Economy offriva una
alternativa razionale, privilegiando la domanda di consumi collettivi. Che, certo, comportava
qualche cambiamento, non certo indolore. In particolare, gli investimenti pubblici che potevano
farla decollare implicavano sensibili prelievi su quella distribuzione ineguale della ricchezza,
che, ad esempio in Italia, attribuisce a ben meno del 10% della popolazione circa il 50% della
ricchezza.
Già all’inizio di questo secolo la Green Economy, intesa come cambiamento della struttura della
domanda più che come sublime istanza ecologica, sembrerebbe una risposta “obbligata” alla crisi
degli equilibri ecologici – in primo luogo, i cambiamenti climatici – con conseguenze positive
sulla salute e sul ben vivere; ma essa appare una risposta razionale anche alla crisi dell’impianto
economico. E il tipo di interventi appena sopra elencati, mentre sono ad altissima intensità di
lavoro e quindi promotori di nuova occupazione, rappresentano anche il passaggio dalla cultura
produttiva della quantità alla cultura della qualità, con produzioni in prevalenza non
delocalizzabili e per le quali appare più difficile innescare processi di competizione tra le imprese
nel quadro dell’aumento esasperato della produttività del lavoro.
Per contro, il ritornello di rito di una ripresa fatta di un recupero delle produzioni in massa di case,
auto, elettrodomestici, gadget elettronici appare, alla luce delle contraddizioni sopra illustrate, una
ricetta vacua.
In Germania il lavoro “verde” ha attivato, a partire dal 2000, più di 1 milione di nuovi posti di
lavoro, con un numero di occupati pari a più di dieci volte quello della più grande industria
automobilistica europea, e tra le prime nel Mondo, la Volkswagen. In Italia, Unioncamere
registrava già nel 2011 circa 220 mila assunzioni solo in quell’anno e annunciava per gli anni
successivi un milione di posti di lavoro. Il “Piano di efficienza energetica 2010 – 2020”,
presentato da Confindustria nell’autunno 2010, mostrava come un investimento pubblico di 16,7
miliardi di euro sull’arco di dieci anni avrebbe potuto produrre nello stesso tempo un milione e
seicentomila unità lavorative annue – un quarto nel settore del risparmio energetico negli edifici –
oltre a conseguire i tre 20% della UE. Il piano, divenuto addirittura un “avviso comune” di
Confindustria, CGIL, CISL e UIL, sarebbe dovuto diventare una proposta per la crescita sulla
quale impegnare il governo. Non se ne è fatto nulla, sostanzialmente per scarsa fiducia del
padronato nei confronti del suo stesso progetto, ma periodicamente quel “Piano” sembra battere
qualche nuovo timido colpo.
Nel proporre l’obiettivo di sostituire, in dieci anni, quasi il 40% dei combustibili fossili con le
fonti rinnovabili e con l’abbattimento degli sprechi attraverso la riduzione dei consumi energetici,
la UE afferma che la sfida di un’energia e di uno sviluppo sostenibili può avere una risposta
positiva. Questo cambiamento pone grandi problemi di carattere ingegneristico, finanziario,
organizzativo e soprattutto culturale: nell’incalzare del cambiamento climatico e della crisi
dell’energia, ci sono i tempi per un cambiamento così rilevante?
Campeggia allora la domanda: ma è davvero necessaria tutta questa energia che consumiamo? È
insomma la domanda se basti cambiare la fiamma da porre sotto la pentola, o si debba dare uno
sguardo anche a quello che si vuol cuocere dentro la pentola. Ancora, dunque, la riflessione: dalla
quantità alla qualità. In generale, si tratta di realizzare un modello di sviluppo radicalmente
alternativo a quello neoliberista, di fatto responsabile della situazione attuale di crisi. Un quadro
razionale, quello offerto dalla economia della sostenibilità, che tuttavia non è riuscito, sin qui, ad
ottenere attenzione efficace dalla politica e, soprattutto, come già abbiamo lamentato, dal versante
della dottrina economica.
La rivoluzione energetica.
Siamo quindi presi tra due fuochi. Da un lato l’irrazionalità di un modello economico e dei suoi
“cicli” che, irretito dalla moneta e dalla finanza, non vede l’esaustione sistematica delle risorse
fisiche operata dalla spoliazione capitalistica della Natura e le pensa, come ai tempi della critica a
Malthus, indefinitamente riproducibili. Dall’altro la crisi ecologica: non soltanto i rovinosi effetti
sull’ambiente e sull’uomo di quella spoliazione che l’Economia ignora, ma il galoppo di carica del
drammatico passaggio all’instabilità climatica.
La riconversione ecologica dell’economia e della società, proposta già da decenni per correggere
l’irrazionalità rovinosa del modello economico dominante, trova due nuovi elementi a favore e
cogenti. Poco più di quarant’anni fa si era agli inizi di quel processo politico-economico che non
abbiamo esitato a chiamare la “sanguinosa geopolitica dell’energia” ([1], [2 a), b)]) – le tre guerre
che nel Medio Oriente si sono succedute a partire dal 1973 hanno avuto sempre tra i moventi
principali il controllo dei flussi e dei prezzi dell’energia –; oggi è maturata la possibilità, anche
tecnologica, di cambiare lo scenario delle fonti energetiche; ed è da meno di vent’anni che i
cambiamenti climatici hanno acquisito quel carattere di perentoria urgenza che abbiamo cercato
di descrivere.
Alla luce di questi due nuovi elementi, la riconversione ecologica dell’economia appare allora una
scelta obbligata, necessaria ma possibile, e non solo una pura esigenza di razionalità globale:
questo è il fatto nuovo.
Il modo di fare questa riconversione ha caratteristiche “universali”, che sono state scandite nel
tempo dalle strategie e dalle azioni che si riferiscono all’ “economia circolare”: una visione per
la quale i flussi di produzione e consumo delle risorse diano luogo a dei circuiti chiusi, come già
proponeva Kenneth Boulding cinquant’anni fa con la sua “Spaceship Earth”, all’insaputa di quelli
che oggi stanno facendo dell’economia circolare una sorta di mantra [22].
Negli anni si è poi aggiunta una metafora, non nuova ma di successo, che propone all’economia in
generale, e ai processi industriali in particolare, di ispirarsi al comportamento degli ecosistemi, se
non addirittura di mutuarlo: i rifiuti di una specie possono essere risorse per un’altra specie,
generando grandi cicli trofici sostanzialmente chiusi.
La Commissione Ue ha pubblicato alla fine del 2012, probabilmente stimolata da un rapporto
commissionato dalla Ellen McArthur Foundation alla McKinsey & Company e uscito pochi mesi
prima, un documento dove si affermava che: “In a world with growing pressures on resources
and the environment, the Eu has no choice but to go for the transition to a resource-efficient and
ultimately regenerative circular economy» [23]. A tutt’oggi però l’attenzione della Commissione
è focalizzata sulla seconda parte del ciclo di vita dei materiali, la gestione delle scorie, e non
sulla prima, cioè sulla progettazione ecologica dei prodotti.
Nonostante le esitazioni e i ritardi della UE, l’economia circolare – tracimata dai circoli
ambientalisti e divenuta ormai una sorta di “must” buono per convegni sia accademici che
imprenditoriali – ha collezionato indubbi successi. E il successo forse più importante è stato
quello di una cultura che è riuscita, in casi significativi per la loro incidenza, a proporre ed anche
a ottenere, almeno in parte, che venissero applicate le strategie e le azioni che propone.
Se non già nella sua teorizzazione, l’economia circolare è poi sempre stata abbinata
all’abbandono dei combustibili fossili e a un ricorso sempre più marcato all’uso efficiente
dell’energia e alle energie rinnovabili. In tal senso l’economia circolare è sostanzialmente
indistinguibile, dal punto di vista degli effetti pratici, da quella che abbiamo finora chiamato
Green Economy che, a sua volta, trova nella “rivoluzione energetica”, come abbiamo già
accennato e meglio adesso vedremo, un elemento fondamentale per la sua realizzazione.
Vale allora la pena valutare quali passi sono stati fatti lungo quel difficile e faticoso percorso.
Secondo i dati forniti da “Renewables 2015 – Global Status Report” (GSR), le fonti rinnovabili
coprivano a fine 2013 già oltre il 19% dei consumi finali mondiali d’energia [24], e non dei soli
elettrici, che rappresentano su scala mondo meno di un quinto della domanda. In altre parole, a
livello mondiale, si era già quattro anni fa a un passo, molto piccolo, da quel che la UE si è data
come obiettivo al 2020!
Questo eccezionale risultato è stato reso possibile da un incremento degli investimenti sulle
rinnovabili che in soli dieci anni sono passati, nonostante la crisi economica, da 40 a 270 miliardi
di dollari; con Asia e Oceania, escluse la Cina e l’India, che nel 2014 con 48,7 mld di dollari
hanno fatto di più degli Stati Uniti (38,3 mld); e con l’insieme dei Paesi in Via di Sviluppo che nel
2014 hanno superato nel settore eolico i Paesi sviluppati: 58 mld di dollari a fronte di 41. Ai primi
del 2015 risulta che 164 Paesi si sono dati obiettivi nel campo delle rinnovabili e 145, rispetto ai
15 del 2005, hanno fatto corrispondere agli obiettivi politiche e stanziamenti per conseguire gli
obiettivi [24].
Conseguenza di questo trend sono i circa 8 milioni di posti di lavori censiti nel 2014 nei vari
settori delle rinnovabili, poco meno della metà dei quali nelle applicazioni dell’energia solare [24].
L’innovazione tecnologica è tradizionalmente “labour saving”, non così è stato per le fonti
rinnovabili, la cui ricaduta occupazionale non ha precedenti di ugual intensità nella storia del
lavoro contemporanea.
Per l’Italia le rinnovabili rappresentavano già nel 2013 il 17% dei consumi finali, cioè l’obiettivo
fissato per il Paese al 2020; e il 31% dei soli consumi elettrici, più del 26% fissato per l’Italia al
2020. Ma, sottolinea il GSR nell’Executive Summary: “Sebbene l’Europa rimanga un mercato
importante e un centro di innovazione, l’attività continua a spostarsi verso altre regioni. Nel 2014
la Cina ha di nuovo occupato il primo posto nel mondo per l’installazione di nuova potenza
rinnovabile e Brasile, India, e Sud Africa hanno inciso per una gran parte della capacità aggiuntiva
nelle rispettive regioni. Un crescente numero di Paesi in via di sviluppo, attraverso Asia, Africa e
America Latina, sono divenuti importanti produttori e installatori di tecnologie per l’utilizzo
dell’energia rinnovabile.”[24].
Questi dati sembrano mostrare, al di là di ogni ragionevole dubbio, il carattere globale della
rivoluzione energetica in atto. E che una governance “debole”, come quella esercitata dalle
Nazioni Unite tramite l’IPCC e le Conferenze delle Parti, intrecciata con i moniti scientifici [18 a),
b)] e con l’iniziativa UE dei tre 20% al 2020, è stata però in grado di mobilitare opzioni sociali e
di orientare il mercato e le preferenze dei consumatori in modo assai significativo; recependo, val
la pena di sottolinearlo, la costante pressione degli “stakeholders”, cioè dei cittadini del pianeta
più motivati che, attraverso ampie mobilitazioni, efficaci azioni di lobbying e, soprattutto, con
un attivismo quotidiano esercitato su tutti i livelli di governo – locale, nazionale, mondiale –,
sono riusciti a contaminare con la loro cultura e le loro richieste le decisioni politiche.
APPUNTI PER UN’ECONOMIA E UNA SOCIETA’ DELLA SOSTENIBILITA’
“Ma – obietta qualcuno – questa rivoluzione energetica e la green economy sono un fatto
secondario, nel quale il capitalismo si può permettere di esibire il volto umano. Il vero volto resta
quello grifagno e irresponsabile della crisi economica scatenata da una finanza omicida.” Il
capitalismo è storicamente capace di cambiare pelle e innovare o adattarsi; queste sue prerogative
sono la garanzia di una longevità che, sull’arco di esperienze le più diverse e pur nella critica
impietosamente ma giustamente severa, richiama l’ironia un po’ amara di Giorgio Ruffolo: “Il
capitalismo ha i secoli contati” [25].
Ai giorni nostri il capitalismo è oggetto di una profonda trasformazione, che negli ultimi trent’anni
sta portando le società più “avanzate” – India e Cina incluse – dall’era dell’ “industrialismo” a
quella dell’ “informazionalismo”, come è stata definita da vari studiosi questa nostra epoca: il
passaggio dalla società delle macchine e delle fabbriche a quella dell’informatica e del web (cfr.
[26]). Il percorso di questa trasformazione è lungi dall’essere concluso ed è tutt’altro che scontato,
ma sarebbe sbagliato farsi sviare, non riconoscere questo trend, a causa della gravità dell’attuale
crisi economica.
La rivoluzione energetica è molto omogenea e incrociata con la tendenza cui abbiamo ora
accennato. Non fu la “dematerializzazione” delle produzioni (rapporto “Saint Geours” delle CEE,
1979) a intuire e anticipare, proprio dall’angolo visuale dell’energia, quello che si sta sempre più
affermando come l’orizzonte di questo secolo? Perché, proprio guardando alle cifre dei consumi
energetici e al modificarsi della richiesta nei settori di impiego, era legittimo attendersi nei Paesi
industrializzati un “alleggerimento” delle produzioni, un progressivo affermarsi delle “reti”
rispetto ai “blocchi”, un’innovazione tecnologica che a macchine, motori e sferraglianti processi
industriali avrebbe teso a sostituire silenziosi bit.
In ogni caso non si può pensare che essa possa essere solo, o preminentemente, un fatto
tecnologico e di mercato. La rivoluzione energetica configura, e questo è forse il principale merito
dei tre 20% della UE, il passaggio dalle grande produzioni concentrate di energie – dominio di
potenti compagnie o dei governi centrali – all’utilizzo di energie diffuse sul territorio e più
direttamente controllabili o accessibili da parte degli utenti; fino all’autogestione energetica che,
già oggi, comincia a non essere solo un’esperienza esemplare.
Le azioni di risparmio energetico richiedono poi la capacità di intervenire su ogni momento di
trasformazione dell’energia, perciò un’organizzazione pubblica e privata più capillare ed esigente
e un’attenzione dei singoli cittadini più consapevole e informata, non avulsa dai processi
tecnologici che li riguardano.
Difficile, insomma, ritenere che una tale rivoluzione possa avvenire se non in un contesto di
sempre maggior protagonismo dei cittadini, di maggior diffusione dei saperi e di una generale
crescita culturale della società.
Dal punto di vista merceologico la Green Economy si fonda, ovunque, sul carattere
eminentemente locale dell’accesso alle risorse o della loro produzione, e su produzione e utilizzo
di beni durevoli sostenibili, in media meno onerosi di quelli tradizionali per chi acquista, e
divenuti sempre più “familiari” col sistema creditizio. Fa quindi fronte alla scarsa propensione dei
risparmiatori al consumo di tradizionali beni durevoli, quali il mattone e l’auto. La crisi economica
lascia, infatti, pochi soldi e molta giustificata paura nei confronti di una finanza spesso in mano ad
avidi malfattori.
Invece i beni durevoli sostenibili, coniugando l’utilità con la morale – basti pensare all’umile
pannello solare che sostituisce un combustibile fossile – possono motivare il consumatore, sempre
più sensibile alla crisi ambientale: una funzione “didattica” del consumo in una prospettiva di
evoluzione razionale della “preferenza”. E, di fatto, questo è già iniziato a accadere (cfr. [26], cap.
VII). Non c’è da stimolare e sostenere una domanda individuale, ma da destinare le risorse alla
necessità collettiva di ben vivere piuttosto che di ben avere.
Incentivi pubblici dovrebbero poi sostenere il passaggio delle imprese verso questo tipo di
impianto produttivo, anche se, per alcuni settori, l’evoluzione appare del tutto naturale: ad
esempio, il passaggio di produzioni dall’elettromeccanica pesante, dall’automobile, dall’edilizia a
nuove modalità produttive incentrate sulle nuove energie, la mobilità intermodale, la rigenerazione
urbana, la difesa del suolo e così via. E questo passaggio provoca effetti trasversali a tutta
l’economia: un’evoluzione accompagnata, in tutti i settori, dal pieno coinvolgimento delle sedi
della ricerca scientifica e tecnologica, inserita nella prospettiva della ristrutturazione dell’impianto
economico e produttivo [2 b),c)].
La prospettiva della riconversione ecologica fatica però ad assumere la necessaria priorità, nella
consapevolezza della più generale opinione pubblica, ad accreditarsi come alternativa
desiderabile. Non ci si chiede se questo passaggio debba avvenire con un’urgenza tale da evitare i
disastri ambientali, economici, politici ed umani dovuti all’insostenibilità e alla devastazione
dell’attuale modello di sviluppo.
Allora un decollo pieno della Green Economy necessita, e necessiterà ancora, di strategie
economiche che diano certezze a cittadini e a imprese, e di politiche mirate di investimenti
pubblici in alcuni settori, da ridurre man mano che quei beni si reggono da soli sul mercato. E di
una generale education sui processi produttivi, sulla loro qualità come su quella dei prodotti.
Vale la pena osservare a questo proposito che le ripetute campagne ambientaliste di questi
trent’anni sono riuscite, oltre a stimolare in generale l’attenzione alla salubrità dell’ambiente e
all’importanza di rispettarlo, a convincere i cittadini, ma anche molti amministratori eletti, a
guardare a tutta la filiera del prodotto e alla sua rintracciabilità, a privilegiare i prodotti con minor
carico inquinante e più facilmente riciclabili, a ritenere un requisito positivo il “km zero” o la
“filiera corta”. Al punto che molte di queste preferenze sono diventate normativa nazionale e
hanno ispirato direttive UE, che attuavano di fatto, anche se non in modo organico, il principio di
precauzione.
Accanto alla Green Economy c’è un’altra leva da considerare per la diffusione di un nuovo
modello di società e, quindi, per l’investimento pubblico: ampliare il “terzo mercato”, quello nel
quale il valore d’uso conta più del valore di scambio. Questo mercato è già popolato da una
miriade di associazioni senza fini di lucro e di soggetti per i quali servizi sociali, attività culturali,
produzione e commercio equo e solidale costituiscono occupazione e coesione sociale (cfr. [26],
cap. VII).
Si parla ormai da molto tempo di impresa sociale che, anche se non assume in toto l’impegno
ideale e valoriale tipico dei settori cui si è appena accennato, ne mutui le caratteristiche sociali –
rapporto con i lavoratori, ausili per le lavoratrici madri, welfare ecc. – e cominci a praticare come
elemento di competizione proprio la coesione sociale [27].
È difficile avere un quadro globale, ma la sensazione è che queste leve stanno permettendo di
muovere passi con un’orma sempre più ampia nel mondo. Anche in Italia ci vorrebbe un’azione
immediata di questo tipo che, se era certamente ortogonale al sentire dei Governi Berlusconi, non
sembra abbia guadagnato molti punti neanche con i premier che gli sono succeduti.
Green Economy e terzo mercato: una politica economica bottom-up che trova i suoi protagonisti
in grado di valorizzare le risorse e le reti locali.
L’effetto globale potrebbe comportare una correzione di alcuni colossali distorsioni del mercato, e
un’evoluzione del capitalismo verso un modello meno impattante sul piano sociale e ambientale; e
forse, su tempi più lunghi, un modello sociale ed economico nuovo e diverso (cfr. [26], cap. VII).
Di certo, e fin d’ora, questo mix produttivo comporta una più forte dematerializzazione delle
produzioni e, in particolare, una forte riduzione dei combustibili fossili. Il mondo, come abbiamo
visto dai numeri, è già più avanti di quanto si pensasse su questa strada. Se riduzione dei consumi
e tecnologie di risparmio avessero più peso nell’arco del prossimo decennio, se a livello mondiale
fossero assecondati gli obiettivi sempre più stringenti in discussione nella UE, i consumi globali di
combustibili fossili scenderebbero dagli attuali circa 10 Gtep a meno di 7 Gtep, con ricadute
occupazionali, di innovazione tecnologica, sociale e culturale difficili da quantificare nella loro
ampiezza.
Battere sul tasto del risparmio energetico, e realizzare le tecnologie migliori per le azioni di tal
tipo, è poi un rilevante contributo all’educazione alla sostenibilità, non solo al conseguimento
degli obiettivi o all’evitare di andare a riempire, con fonti diverse da quelle fossili, quel colabrodo
che è il sistema energetico mondiale. Alla base di ogni principio di sostenibilità c’è, infatti, l’uso
efficiente e appropriato di ogni tipo di risorsa, dove efficiente e appropriato fruiscono di rigorose
definizioni scientifiche, non solo ma soprattutto dalla Fisica.
Il mercato si è mosso diversamente, secondo la via più semplice che privilegia l’introduzione di
nuove tecnologie rispetto alle azioni, più complesse e che comportano maggiori capacità
organizzative e di sistema, mirate a ridurre gli sprechi generali e a ottimizzare i sistemi di
processamento dell’energia. E, infatti, anche in questo caso necessita l’intervento pubblico dei
singoli Paesi, il più possibile coordinato a un medesimo fine: “Global energy sustainability and
security will require many vigorous actions at national levels, and considerable international
cooperation. These actions and cooperative steps will need to be based on a widespread public
support, especially in exploring avenues for increased efficiency of energy use.” [16 b)].
Occorre una governance mondiale che orienti e indirizzi i processi; anche quella governance
“debole”, che abbiamo ricordato poco sopra. E non è senza fondamento la speranza che, proprio in
virtù delle ulteriori negoziazioni e verifiche che l’Accordo di Parigi comporta, quella governance
sia in grado di divenire più efficace e possa cominciare a estendersi a tutto l’utilizzo delle risorse
naturali del Pianeta.
Certo, rivoluzione energetica, green economy e terzo mercato non sono, da soli, una risposta
adeguata rispetto a quegli squilibri e a quelle disuguaglianze crescenti – tra Nord e Sud del
Mondo e all’interno degli stessi Paesi più forti – che sembrano costituire l’angoscioso tratto
dominante della nostra epoca. Sono però una condizione necessaria per affrontare con qualche
speranza quegli squilibri. E rispondono alla necessità di scongiurare al massimo le possibili
conseguenze catastrofiche dei cambiamenti climatici, di sostenere e promuovere prodotti
innovativi a basso impatto ambientale e ad elevata “desiderabilità sociale”, di mantenere viva una
prospettiva democratica di sviluppo della civiltà (cfr. [26], cap. VII).
Nei decenni di instabilità climatica che abbiamo di fronte massimo dovrà essere l’impegno per le
strategie e le politiche di mitigazione e di adattamento, da parte dei governi ad ogni livello –
locale, nazionale, globale – ma anche delle istituzioni, dei corpi sociali e, soprattutto, dei singoli
cittadini.
Un cambiamento sempre più radicato degli stili di vita individuali e collettivi, in una società più
giusta e più coesa, in grado di operare quel salto culturale dalla quantità alla qualità che è il
contrassegno della sostenibilità.
In definitiva la crisi ecologica rappresenta anche una straordinaria opportunità per una risposta
efficace alla crisi dell’impianto produttivo, al proclamato binomio crescita/stabilità, per
un’organizzazione economica e sociale e una cultura impegnate perché le opere dell’uomo si
inseriscano in modo non più distruttivo nei grandi cicli della natura.
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