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1 White powder gold Per chi non ne avesse mai sentito parlare, cominciamo col dire cos’è la white powder gold. Si tratta, come appunto risulta chiaro dalla semplice traduzione dall’inglese, di una bianca polvere d’oro. Essa è stata associata ad un elemento imprescindibile per la vita degli annunaki (abitanti del pianeta Nibiru, da cui deriverebbe la Terra), al pane bianco (o di luce) egizio, alla manna biblica, alla Sacra Arca dell’Alleanza, alla pietra filosofale degli alchimisti, alla panacea di tutti i mali, all’oro monoatomico, ad un superconduttore capace di ripristinare il DNA umano, alla materia capace di rendere invisibili, onniscienti, immortali, e capace di piegare lo spazio-tempo. Roba da niente insomma. Ma andiamo per gradi. Secondo un’opinione abbastanza diffusa tra gli alchimisti, la polvere bianca d’oro avrebbe origini antichissime. Immagine: Wikipedia Si ritiene che le antiche popolazioni della Mesopotamia, in particolare i sumeri, fossero giunti a produrre ed utilizzare il platino o metalli pregiati affini. Negli antichi reperti sumeri (c.d. Old sumerian records), stando a certe interpretazioni e traduzioni della loro scrittura cuneiforme, vi sarebbe menzione di una “highward fire stone of white gold”, da cui si fa desumere che i sumeri avessero nelle loro disponibilità una particolare “pietra di fuoco, d’oro bianco” e avessero sviluppato una avanzata conoscenza della metallurgia.

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White powder gold

Per chi non ne avesse mai sentito parlare, cominciamo col

dire cos’è la white powder gold. Si tratta, come appunto risulta

chiaro dalla semplice traduzione dall’inglese, di una bianca

polvere d’oro. Essa è stata associata ad un elemento

imprescindibile per la vita degli annunaki (abitanti del pianeta

Nibiru, da cui deriverebbe la Terra), al pane bianco (o di luce)

egizio, alla manna biblica, alla Sacra Arca dell’Alleanza, alla pietra

filosofale degli alchimisti, alla panacea di tutti i mali, all’oro

monoatomico, ad un superconduttore capace di ripristinare il

DNA umano, alla materia capace di rendere invisibili, onniscienti,

immortali, e capace di piegare lo spazio-tempo. Roba da niente

insomma. Ma andiamo per gradi.

Secondo un’opinione abbastanza diffusa tra gli alchimisti, la

polvere bianca d’oro avrebbe origini antichissime.

Immagine: Wikipedia

Si ritiene che le antiche popolazioni della Mesopotamia, in particolare i sumeri, fossero giunti a produrre ed utilizzare il platino o metalli pregiati affini. Negli antichi reperti sumeri (c.d. Old sumerian records), stando a certe interpretazioni e traduzioni della loro scrittura cuneiforme, vi sarebbe menzione di una “highward fire stone of white gold”, da cui si fa desumere che i sumeri avessero nelle loro disponibilità una particolare “pietra di fuoco, d’oro bianco” e avessero sviluppato una avanzata conoscenza della metallurgia.

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Gudea, sovrano della città di Lagash, con ampi poteri di fatto in tutta la Mesopotamia centro-meridionale dal 2144 al 2124 a.C., fece costruire il tempio del dio Ningirsu, nel quale ci sono molte iscrizioni, alcune delle quali confermerebbero questa ipotesi:

“Il pastore costruisce il tempio con metallo prezioso... Egli costruisce l'Eninnu con pietre preziose...”

Altre fonti (Reverend James Baikie) riferiscono però, più

precisamente, di polvere d’oro procurata presso la montagna di

Khakku, e altre ancora (John M. Lundquist) di argento e oro in

polvere estratti dalla montagna di Kimash, o di una pietra rossa

(“fire stone”) che si trovava a Melluha .

Questa enigmatica polvere bianca sembra fosse in uso anche

presso i babilonesi, che la chiamavano “an-na”, cioè “pietra di

fuoco”. Quando questa pietra veniva lavorata in pani conici

(“shem”) assumeva una forma conica, e quindi il nome di “shem-

an-na”.

Anche gli antichi egizi erano a conoscenza di questa polvere

mistica. Loro la chiamavano MFKZT. Lo sappiamo grazie alla

spedizione dell’egittologo e archeologo inglese Sir William

Matthew Flinders Petrie (1853–1942).

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Sir Flinders Petrie

by Philip Alexius de László

Questi, nel 1904, era in esplorazione

presso l’altipiano del Sinai, sul monte

Horeb, cioè il monte in cui – secondo la

Bibbia – Dio diede i dieci comandamenti a

Mosè. Oggi il monte è conosciuto col nome

di Serabit El Khadim. Fu qui che egli

ritrovò i resti di un antico tempio egizio

dedicato alla dea Hator, risalente

probabilmente al 2.600 a.C. circa.

In alcune zone del tempio (correlate soprattutto alla

dodicesima dinastia dei faraoni), e di fronte alla Grotta-Santuario

di Hathor appunto, Flinders Petrie trovò una grande quantità

(diverse tonnellate) di polvere/cenere bianca purissima, priva di

residui di carbone o di brace, che non si riuscì a identificare con

certezza.

Un’ipotesi era che si trattasse della suddetta “shem-an-na.

Ciò trovava riscontro in alcune incisioni e geroglifici rinvenuti

nel tempio stesso: un personaggio alle spalle di Thutmosi IV e la

Dea Hator che espone degli oggetti conici descritti come “pane

bianco”; il tesoriere Sobekhotep che porge la Shem-an-na di

forma conica al faraone Amenhotep III; Thutmosi III e

Amenonhotep III che presentano il cono del pane bianco agli Dei.

Altre iscrizioni indicavano tale polvere raggruppata in coni

indicati come "pane bianco” o “pane di luce". Facevano

riferimento probabilmente proprio a tale sostanza, chiamandola

“mfkzt” Alcuni studiosi hanno suggerito, in modo forse

fantasioso, che questa parola dovrebbe pronunciarsi "mufkuzt",

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ed è possibile che il suono di questa parola ricordi il rumore

generato dal metallo nobile quando viene trasformato in polvere.

Accanto a un corpo fisico, gli Egizi credevano che gli uomini

possedessero un "corpo di luce" (chiamato ka), che si credeva

rimanesse in vita nell' aldilà, ma che doveva anch’esso essere

nutrito per svilupparsi e prosperare. Il cibo del ka era la luce, e la

sostanza che generava la luce era la “mfkzt”, o polvere bianca

ricavata dall'oro.

Queste scritte comunque suggerivano che sul monte Serabit,

probabilmente, si produceva questa polvere bianca.

Non è neppure un caso che questo ritrovamento si ebbe sul

monte Serabit, dove Dio diede i dieci comandamenti a Mosè.

Infatti questa polvere viene nominata proprio nell'Esodo, come

cibo del popolo d'Israele, dopo la fuga dall'Egitto: è la “manna”

(vocabolo molto simile a “shem-an-na”).

Popolo d'Israele

raccoglie la manna

Immagine: Wikipedia.

“ […] evaporato lo strato di rugiada, apparì sulla

superficie del deserto qualcosa di minuto, di

granuloso, fine come brina gelata in terra. A tal

vista i figli d'Israele si chiesero l'un l'altro: «Che

cos'è questo?» perché non sapevano che cosa fosse.

E Mosè disse loro: «Questo è il pane che il Signore vi

ha dato per cibo. Ecco ciò che ha prescritto in

proposito il Signore: ne raccolga ognuno secondo le

proprie necessità, un omer a testa, altrettanto

ciascuno secondo il numero delle persone coabitanti

nella tenda stessa così ne prenderete».

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Così fecero i figli d'Israele e ne raccolsero chi più chi meno.

Misurarono poi il recipiente del contenuto di un'omer; ora colui

che ne aveva molto non ne ebbe in superfluo e colui che ne aveva

raccolto in quantità minima non ne ebbe in penuria; ciascuno

insomma aveva raccolto in proporzione delle proprie necessità”

Nel Nuovo Testamento è anche scritto:

“A colui che prevarrà, Io darò in cibo la manna segreta. E gli

darò una pietra bianca”.

La Bibbia ci dice anche che la manna è contenuta anche

nell’Arca dell’Alleanza, che Dio commissionò a Mosè.

Immagine: Wikipedia

L'Arca è descritta nell'Esodo (25, 10-21; 37, 1-9) come una cassa di legno di acacia rivestita d'oro , al cui interno erano conservati un vaso d'oro contenente, un omer [unità di misura] di manna, la verga fiorita di Aronne e le Tavole della Legge. (Ebrei 9:4;).

Replica of the Ark of the Covenant in the Royal Arch Room of the George Washington Masonic National Memorial. Photo by Ben Schumin on December 27, 2006.

Leggenda vuole che l'Arca fosse in grado di adornarsi di un

alone di luce, e che da essa potessero scaturire lampi e fulmini

(vedremo più avanti come questo aspetto sarà funzionale ad

alcune teorie “moderne”).

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Queste testimonianze sono tutte accomunate dal fatto che

tale polvere sembra essere commestibile, ed avere proprietà

misteriose, forse medicamentose. Forse si trattava di una sorta

di elisir di lunga vita. La manna era il cibo del Signore, la shem-

an-na e l’mfkzt erano pane bianco, ingerito da antichi popoli

mesopotamici e da faraoni.

Tutto ciò ha certamente dei punti di contatto con l’alchimia.

Il termine alchimia deriva dall'arabo, al (articolo) e

kimiyà (pietra filosofale). Quest’ultima parola discenderebbe dal

termine greco khymeia (fondere, colare insieme) a sua volta

derivato da khumatos (lingotto). Un'altra etimologia vuole che

questo termini derivi invece dall’egizio Al Kemi (l’arte egizia:

gli antichi egizi chiamavano la loro terra Kemi, e nel mondo

antico erano considerati potenti maghi). Il vocabolo potrebbe

infine derivare dal termine cinese kim-iya (succo per fare l'oro).

Le autentiche origini dell’alchimia sono ancora controverse,

ma è opinione comune che si possa distinguere un’alchimia

occidentale - derivata dall’antico Egitto, attraverso i greci, gli

antichi romani, il mondo islamico e l’Europa - e un’alchimia

orientale, connessa al taoismo cinese. La prima, secondo la

leggenda, risalirebbe al dio Thot, chiamato Ermes-Thoth o Ermes

il “tre volte grande”, meglio noto col nome greco di Ermes

Trismegistus. Egli avrebbe scritto i quarantadue libri della

conoscenza, che avrebbero coperto tutti i campi dello scibile, fra

cui anche l'alchimia. La Tavola di Smeraldo di Ermes

Trismegistus è generalmente considerata la base per la pratica e

la filosofia alchemica occidentale.

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La seconda alchimia (quella orientale) deriva probabilmente dal

Ts'an T'ung Ch'i ( 142 a.C.). Si tratta di un commentario al Libro

delle Mutazioni, in cui l'autore (Wei Po-Yang) afferma che i

contenuti del libro stesso, delle dottrine taoiste e dei

procedimenti alchemici, siano variazioni di un'unica materia con

nomi diversi.

Va accennato che altri studiosi fanno risalire a periodi e

circostanze diverse le origini dell’alchimia, sulla cui discussione

non possiamo tuttavia dilungarci in questa sede.

È comunque oggetto di disputa se questi due filoni

(occidentale e orientale) abbiano avuto una comune origine, e/o

si siano vicendevolmente influenzati.

Mentre l’alchimia occidentale era più incentrata sulla

trasmutazione dei metalli (pietra filosofale), quella orientale era

maggiormente connessa con la medicina (immortalità - elisir di

lunga vita). Questi due filoni, con i relativi interessi, possono

comunque essere considerati in un unicum, per cui la pietra

filosofale era spesso equiparata all'elisir di lunga vita, e

viceversa.

I grandi obiettivi dell’alchimia erano comunque tre:

conquistare l’onniscienza; trasmutare i metalli vili in oro; creare

la panacea universale.

Il fine ultimo di ogni alchimista era la creazione di una sostanza (che poteva essere una polvere, una pietra, o un liquido) che permetteva la realizzazione dei tre grandi obiettivi alchemici. Questa sostanza è nota con il nome di “pietra filosofale”.

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L’alchimia è, secondo una definizione di H. Sheppard: "l'arte

di liberare parti del Cosmo dall'esistenza temporale e di

raggiungere la perfezione che per i metalli è l'oro, per l'uomo la

longevità, poi l'immortalità e infine la redenzione".

Nel Medioevo l'alchimia sviluppò molteplici aspetti che nella

sua tradizione occidentale tuttora la caratterizzano. Essa si

strutturò in tre principali settori: l’alchimia metallurgica (basata

sulla perfezione dei metalli), l’alchimia farmacologica (basata sul

corpo umano e sull’elisir di lunga vita) e l’alchimia spirituale

(basata sulla incorruttibilità e sulla salvezza spirituale dell’essere

umano). Tutti comunque accomunati dall'idea di perfezione

materiale, raggiunta tramite il ritorno allo stato di materia prima.

La lettura dell'alchimia come arte della trasmutazione di

metalli in oro era comprensibilmente oggetto di interesse per le

corti e i sovrani, avidamente interessati all’aspetto

materiale. Anche la curia papale si interessò di alchimia, per le

medesime ragioni veniali ma anche nella misura in cui veicolava

l'idea di un prezioso elixir, oro potabile, o quintessenza, capace di

donare l'incorruttibilità.

Come ha scritto Serge Hutin:

“Il processo alchemico produce la perfezione della materia

attraverso una serie di operazioni che mirano alla creazione di un

medio capace di unire stabilmente il corpo (cioè la solidità propria

della materia) e l'anima (cioè il carattere di incorruttibilità

proprio della sostanza spirituale). Il medio, per essere tale, deve

unire in sé gli opposti: l'oro opera questa congiunzione a livello dei

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metalli, ed è dunque il prodotto ricercato da quanti considerano

l'alchimia una pratica a livello puramente metallurgico; l'elixir

come agente materiale della perfezione di tutte le cose congiunge

in sé il carattere immutabile della pietra con quello generativo

della vita; la quintessenza appare come la manifestazione del

principio unitivo vero e proprio, materia prima da cui tutta la

realtà ha origine, ma raffinata e purificata in modo tale da

manifestare il suo carattere di spirito; e l'oro potabile costituisce il

farmaco sovrano, che unisce l'incorruttibilità del metallo e

l'assimilabilità del nutrimento”.

Già Teofilo (monaco del XII secolo) aveva parlato dell’oro

spagnolo, ottenibile a partire dal rame, pur senza alcun accenno

alla commestibilità di quest’ultimo né a presunti elisir. Per la

creazione dell’oro spagnolo necessitavano ingredienti quali rame

rosso, sangue umano, aceto, e polvere di basilisco:

“[…] con la polvere macinata dei basilischi, unita a un terzo di

sangue essiccato e macinato di uomo dai capelli rossi, e temprata

con aceto molto forte in un recipiente pulito si può trasformare il

rame in oro. Prese sottili foglie di rame rosso purissimo, si

ricoprono del preparato e si mettono sul fuoco, quindi si tolgono

quando sono diventate bianche dal calore e dopo averle di nuovo

immerse nel composto si lavano e si ripete l'operazione finché il

composto non ha "mangiato" tutto il rame. Così si ottiene oro

adatto a qualsiasi opera”.

Le virtù medicinali dell'oro erano tramandate da una

tradizione antichissima, e sembravano trovare conferma in

alcuni scritti del XIII secolo, dove l’oro è di nuovo menzionato

come elemento commestibile e dalle proprietà guaritrici.

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Immagine:

Wikimedia Commons

Ne parlò già verso la metà del 1200 Avicenna, il

“principe dei medici”, il cui Canone costituì per

decenni un autorevole testo di riferimento per la

medicina.

L' idea che oltre ai quattro elementi che compongono la

materia (terra, acqua, aria, fuoco) esistesse una quinta sostanza

incorruttibile (quintessenza), era già nota nel Medioevo. La

quintessenza poteva esprimere in sé tutte le proprietà e le

qualità dei quattro elementi della materia, anche se

contraddittorie tra loro: ad un tempo bruciare ed essere liquida

(fuoco e acqua). E il prodotto della distillazione del vino, che

dalla metà del duecento aveva interessato gli ambienti medici

occidentali, era proprio acqua ardente.

Così, quando iniziarono a diffondersi i vini medicinali (vino

infuso in sostanze medicamentose) si iniziò a proporre anche

una nuova ricetta: il vino “aurificato”, nel quale cioè era stato

tenuto l’oro in infusione (sotto forma di barretta, lingotto, foglia,

limatura ecc).

Ne parlò certamente già Arnaldo da Villanova (ca.1240-

1311), medico presso la corte spagnola nonché presso il

pontefice Bonifacio VIII. Egli era interessato a rendere più

efficace la pratica della medicina (fu autore di opere mediche) e a

tale scopo non disdegnava di ricorrere ad un approccio

alchemico. Si occupò anche di distillazione.

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Immagine Wikimedia

In una lettera sull'alchimia scritta al Re di

Napoli, ecco come egli si esprimeva:

“Sappi, o Re, che i sapienti misero nelle loro opere molte cose e

molti modi di procedere, come ad esempio: il dissolvere, il

coagulare e molti vasi e pesi; ciò fecero, per accecare gli ignoranti

e per dichiarare solo agli intelligenti il loro Opus.

E nota, o Re, che i sapienti hanno rivelata l’Opera con poche

parole, sebbene ve ne abbiano aggiunte molte altre, affinché

fossero compresi se non dai sapienti. Ed i sapienti, in verità, dissero

che la pietra è una sola, ed è composta da quattro nature; queste

quattro nature sono: il fuoco, l’aria, l’acqua e la terra.

E questa pietra, è simile alla pietra all’apparenza e al

tatto, ma non nella sua natura; ed è chiamata pietra, come una

cosa composta.

Questo composto, se è condotto per via retta, è ciò che si

cerca; in lui non vi è nulla di superfluo o di mancante, anzi: tutto

quello che è nella pietra è a lei necessario e non ha bisogno di

nient’altro. E detto composto, ovvero pietra, è di una sola natura,

ed una sola cosa; la qual cosa, nella decozione del fuco, assume

diversi colori prima di diventare il lapis bianco e perfetto.

E nota, o Re, che più l’anzidetta pietra sta nel fuoco,

tanto più aumenta la sua qualità: il che non avviene per tutte le

altre cose, le quali, nel fuoco bruciano e perdono l’umidità radicale.

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La suddetta pietra, tutta sola nel fuoco, sempre migliora e accresce

la sua qualità; e il fuoco è il suo nutrimento. Questo, è uno dei segni

evidenti per riconoscere il lapis stesso, e ciò intendi bene”.

La ricerca farmacologica passava così attraverso il

miglioramento dell’abilità di preparazione dell’oro medicinale. E

proprio la distillazione rappresenta il passo successivo in questa

ricerca. Fu Giovanni da Rupescissa a scrivere, nel 1351-52, il

Liber de consideratione quintae essentiae, nel quale unificava

pratica alchemica e tecnica distillatoria del vino.

Immagine: www.abc.net.au/radionational/programs/artworks/john-of-rupescissa/3287210

Attraverso il surriscaldamento dell’oro (o la calcinazione

della sua polvere), la sua infusione nel vino, e successive

distillazioni, si otteneva la quintessenza, il principio occulto nei

corpi materiali, l’unitarietà che si cela dietro l’apparente

dualismo spirito-materia. Di fatto una panacea, una medicina

universale, un elisir di eterna giovinezza. Il c.d. “oro potabile”,

qualcosa di simile al farmaco taoista che avrebbe garantito

l’immortalità.

Si affermava sostanzialmente l’idea di una quintessenza

dell’oro.

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Prima ancora era stato Ruggero Bacone (1214 circa –1294)

a parlare dell'oro alchemico come inesauribile fonte di ricchezza

per la cristianità, ma anche come medicinale capace di

prolungare la vita.

Il filosofo e missionario catalano Raimondo Lullo (1235 – 1316) si dice che abbia invece trasmutato oro e argento in rame e ferro, praticando cioè una trasmutazione inversa, salvo poi praticare quella “giusta”, più redditizia, per il re Edoardo III d’Inghilterra. Si racconta che Edoardo avesse predisposto per Lullo un laboratorio all’interno della torre di Londra. Grazie alle sue trasmutazioni vennero così forgiate delle monete d’oro soprannominate “raimondini”: i “Rose Nobles”.

Immagine Wikimedia

Pare che Edoardo III si fosse impegnato a

non usare le monete d’oro contro i cristiani,

bensì soltanto per la preparazione di una

crociata contro i Turchi. Invece si servì di

quest’oro per invadere la Francia nel 1337.

Raimondo Lullo si sarebbe allora rifiutato di

compiere altre trasmutazioni, e per questo

venne rinchiuso prigioniero nella stessa torre,

dalla quale riuscì comunque ad evadere per

tornare a Maiorca.

Elias Ashmole, nel suo Theatrum Chemicum Britannicum,

scrisse che:

“Secondo una verità non scritta, dell’oro sarebbe stato fatto

per proiezione o moltiplicazione alchemica da Raimondo Lullo,

nella torre di Londra. Questi pezzi d’oro, secondo questa

tradizione, ne recano la prova scritta. Sul diritto vi si vede incisa

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l’immagine di un re su una nave, per indicare che era il signore dei

mari, ed al rovescio si vede una croce fiorita con leoncelli su cui sta

scritto: Iesus autem transiens per medium eorum ibat. Ovvero:

così come Gesù passava invisibile e nel modo più segreto in mezzo

ai Farisei, così quest’oro è stato fatto per mezzo di un’arte segreta

ed invisibile in mezzo agli ignoranti”.

Immagine Wikimedia

Michael Maier (1568 – 1622) medico e

alchimista che fu alla corte di Rodolfo II,

avrebbe confermato questa tesi nel suo Symbola

aureae mensae, nel quale c’è un passo dove è

scritto che Raimondo, nella Torre [di Londra],

ha fatto dell’oro puro, successivamente

chiamato “i nobles di Raimondo”, di cui Maier

stesso avrebbe visto alcuni esemplari.

Spostiamoci ora al XV secolo, durante il quale visse un noto

alchimista francese dal nome di Nicolas Flamel.

Egli stesso disse che, nel XIV secolo, venne in possesso del

“Libro di Abramo l’Ebreo”, che lo avrebbe ispirato ad

intraprendere la sua ricerca sui segreti dell’alchimia. Grazie

all’aiuto di tal Maestro Chances, di Lione (morto poco dopo), egli

sarebbe presto giunto a comprendere i segreti di quel libro. La

legenda vuole che Flamel riuscì nella trasmutazione

del piombo in argento nel gennaio del 1382, e poco dopo in

quella del piombo in oro. Analoga trasmutazione sarebbe poi

riuscito a compierla con la sua anima. Non si conosce con

certezza la data né la circostanza della morte di Flamel, e si crede

infatti che egli avesse per primo raggiunto il massimo obiettivo

dell’alchimia: creare la pietra filosofale, che dona l’immortalità.

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Nicolas Flamel, immagine wikipedia.

Amans-Alexis Monteil (1769 - 1850), storico francese, scrisse

che Flamel era stato visto, vivo e vegeto insieme a sua moglie

Perenelle, circa quattrocento anni dopo la sua morte. È un fatto

che la sua tomba venne ritrovata vuota.

L’archeologo Paul Lucas, testimoniò nel libro Voyage dans la

Turquie (1719), che durante una spedizione a Bursa per conto

del re Luigi XIV aveva avuto notizie di Flamel da un filosofo

appartenente ad un gruppo di Sette Saggi. Uno dei sette era

Flamel, e possedeva la Pietra Filosofale. Il saggio gli rivelò che

Flamel e Perenelle erano vivi, e si trovavano in India.

In quello che si ritiene essere il testamento di Flamel, scritto

in linguaggio criptato per su nipote, egli spiega diverse

procedure alchemiche e vi si legge che :

“quando il più nobile metallo [oro] era essiccato e fissato, dava

come risultato una polvere fine [polvere d’oro], e questa polvere

era la Pietra Filosofale”.

Anche l’alchimista Eirenaeus Philalethes si era riferito alla

pietra filosofale sotto forma di polvere d’oro. Scriveva nel suo

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Introitus apertus ad occlusum regis palatium (Amsterdam, 1667)

che:

“La nostra pietra non è altro che oro assimilato al più alto

grado di purezza e sottile fissazione […] Il nostro oro, non più

volgare, è lo scopo ultimo della Natura”.

Oro purissimo dunque, che però è polvere [sottile] e si

chiama pietra in quanto è fissa, stabile, capace di resistere

all’azione del fuoco.

John Dee, Imm Wikimedia

Presso la corte dell'imperatore Rodolfo II,

Imperatore del Sacro Romano Impero dal 1576

al 1612, il geniale John Dee (1527–1608) si

narra che compì una trasmutazione del piombo

in oro, davanti a testimoni.

Il fisico tedesco Johann Frederick Schweitzer (1625-1709)

detto Helvetius (forse già medico del principe D’Orange),

racconta nel suo libro The Golden Calf, che nel 1666 ebbe un

incontro fatidico con uno sconosciuto alchimista che gli avrebbe

lasciato in dono una polvere metallica custodita in una scatola

d’avorio, con la quale – gli disse - avrebbe potuto tramutare in

oro un’oncia e mezzo di piombo.

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Helvetius, Imm. Wikimedia

Johann Helvetius tentò l’esperimento

davanti alla moglie e ai figli, seguendo le

istruzioni dello sconosciuto alchimista. Riuscì a

produrre oro autentico. L’ispettore della zecca

olandese Porelius fece valutare l’oro dal

gioielliere Brechtel, il quale dichiarò che l’oro in

questione aveva una caratura perfino maggiore

dell’oro naturale.

Recentemente poi, la stessa sorte di Flamel sembra essere

toccata a Fulcanelli, pseudonimo di un autore di libri

di alchimia del XX secolo, la cui identità non è nota. Menzionato

anche ne L’alchimista di Paulo Coelho, Frank Zappa gli ha

dedicato una canzone intitolata But who was Fulcanelli?.

Le sue opere furono pubblicate in Francia dal suo fedele

discepolo Eugene Canseliet, che ne preserverà l’anonimato, tanto

da venire sospettato di essere lui il vero Fulcanelli. Anche Julien

Champagne , il suo illustratore morto nel 1932, non rivelò mai

l’identità di Fulcanelli, così anch’egli fu sospettato insieme a

Canseliet. Da dichiarazioni di quest’ultimo sappiamo che

Fulcanelli aveva “completato l’Opera” (probabilmente nel 1926),

aveva cioè ottenuto la pietra filosofale, e si era reso irreperibile,

forse invisibile. Canseliet lo avrebbe rincontrato nel 1952 a

Siviglia, in un castello. Secondo le sue parole, Fulcanelli aveva

113 anni ma ne dimostrava quanti lui (cioè 53).

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Secondo un’altra leggenda Fulcanelli sarebbe l’attuale nome

assunto da Flamel stesso, evidentemente ancora vivo.

Il vero merito di Fulcanelli è comunque quello di essere stato

un autentico alchimista dei tempi moderni, anzi l’ultimo

alchimista. Come scrisse Paolo Lucarelli, egli fu:

"alchimista operativo nel senso più antico del termine

ricostruiva, partendo dal simbolismo ermetico, i punti principali

della Grande Opera illustrandone i principi teorici e la prassi

sperimentale con un dettaglio e una precisione mai visti prima"

E Fulcanelli nei suo scritti accenna all’oro potabile come

anima del mondo, spirito universale, sperma della natura e

principio di fertilità, moltiplicazione e prosperità di tutto il

mondo.

Un suo terzo libro, mai dato alle stampe, il Finis Gloriae

Mundi, sarebbe un’opera conclusiva che rivelerebbe alcune

inquietanti scoperte che legano il mondo degli antichi alchimisti

a quello dei fisici nucleari.

E con la fisica nucleare moderna – come vedremo più avanti

– la nostra polvere d’oro sembra avere un qualche legame.

La questione dell’oro in polvere torna prepotentemente alla

ribalta nel 1995 quando, al Forum on New Science a Fort Collins

(Colorado), si parla di Orbitally Rearranged Monoatomic

Elements (ORMEs), ovvero di oro monoatomico, e delle sue

immense potenzialità. Qualche mese dopo (già 1996) “Nexus

Magazine” pubblicava un articolo in cui si raccontava come David

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Radius Hudson aveva fortunosamente scoperto questa polvere

nel suo appezzamento di terra. Si trattava di un super-

conduttore capace di interagire con il DNA umano, migliorandolo.

Vi si legge: “questa sostanza elusiva [sfuggente, inafferrabile]

non solo ha proprietà di super-conduttore che trascendono il

tempo e lo spazio, ma è in grado di elevare la coscienza umana e

ripristinare un perfetto stato di salute”.

Nel 2002 venne ritrovata una sostanza polverosa bianca

all’interno di un cerchio nel grano, a Sompting, che fece molto

scalpore. Alcuni ritennero che si potesse trattare della polvere

d’oro alchemica. Si determinò poi che quella polvere conteneva

biossido di silicio, e quell’episodio venne collegato allora con il

cerchio nel grano di Chilbolton (2001), che si riteneva fosse una

risposta aliena ad un messaggio invitato nello spazio dal SETI.

Conteneva infatti, stilizzate nel grano, le stesse informazioni di

quel messaggio, con l’aggiunta dell’indicazione del silicio nel DNA

umano.

Nel 2004 accadono due eventi che portano nuovamente alla

ribalta questa tematica.

1) Laurence Gardner (1943 - 2010), saggista e docente

di revisionismo storico britannico, da alle stampe uno dei

suoi tanti libri controversi: "Le misteriose origini dei Re del

Graal”. In questo libro si parla, tra le altre cose, della nostra

white powder gold, ripercorrendone le presunte origini e

magnificandone le proprietà, accennando anche a possibili

futuri utilizzi in campo medico e ingegneristico.

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2) Il 9 maggio a Torino si tiene un molto pubblicizzato seminario

di Alchimia e Spagyria, in gran parte incentrato proprio

sull’oro monoatomico e sulle sue incredibili proprietà.

In breve, tra il 1996 e il 2004 si diffonde l’idea che questa

misteriosa polvere magica abbia le seguenti proprietà:

antigravitazionalità, cura del cancro, superconduttività, capacità

di piegatura dello spazio-tempo, capacità di trasformazione dei

fenomeni biologici, fisiologici e psicologici verso “livelli

vibrazionali” più alti.

Gardner sosterrà poi che l’Arca di Mosè (nella quale come

abbiamo detto è contenuto 1 omer di manna) si trova ancora nel

luogo in cui venne nascosta originariamente nel 1307, cioè

sospesa sopra il labirinto di Chartres. Ma grazie a questa polvere

d’oro è invisibile, perché proiettata in una dimensione parallela.

Sitchin, Imm. Wikimedia

Infine è opportuno un accenno alla teoria di Zecharia Sitchin (1922 – 2010), scrittore contemporaneo atzero con passaporto statunitense, che ci riporta all’inizio del nostro articolo, cioè ai Sumeri. A lui fa capo infatti la c.d. “teoria dell’antico astronauta”, secondo la quale la creazione dell'antica cultura sumera è dovuta alla razza aliena dei Nephilim (in ebraico) o Annunaki (in sumero), proveniente dal pianeta Nibiru, un pianeta del sistema solare non più esistente, ma già presente nella mitologia babilonese.

Secondo Sitchin la Terra si sarebbe originata da un catastrofico impatto tra Nibiru ed un altro pianeta che si trovava tra Marte e Giove: Tiamat. Nibiru sarebbe stata popolata da una

21

razza tecnologicamente avanzata e simile a quella umana, gli Anunnaki (che compaiono nella Bibbia col nome di Nephilim ed Elohim). Secondo Sitchin gli Annunaki sarebbero arrivati sulla terra circa 450mila anni fa, alla ricerca di minerali e in particolare d'oro, il quale era necessario per riparare la loro atmosfera rarefatta.

Sitchin ha congetturato infatti che su Niburu fossero presenti

finissime polveri d'oro, capaci di stabilizzarne l’atmosfera.

Successive speculazioni hanno voluto vedere nel fenomeno delle

scie chimiche un piano di modificazione della biosfera terrestre,

allo scopo di renderla adatta ad esseri con un metabolismo ed un

genotipo diversi da quello umano: gli Annunaki appunto.

Oggi la white powder gold si vende in pastiglie, polvere e

fialette, anche su vari siti internet.

Se state però pensando di acquistarla, vi consigliamo prima

di ultimare la lettura di questo articolo.

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La fantastica e affascinante storia fin qui esposta potrebbe

essere raccontata da un differente punto di vista, se solo ci

proponessimo di mettere sotto la lente di ingrandimento ciò che

sembra non quadrare.

Ufficialmente la scoperta del platino è datata ai primi anni

del 1800. L’ipotesi secondo cui gli antichi sumeri fossero già in

grado di produrlo, o di farne uso, si fonda su basi precarie e

sembra azzardata. Ciò che sappiamo con certezza è che i sumeri

per costruire e adornarne utilizzavano vari materiali, tra cui –

nonostante la mancanza di pietre della regione mesopotamica -

alcune pietre come la diorite (di grande uso anche presso gli

egizi). Assunto che il concetto di “prezioso” è relativo al tempo e

al contesto nel quale viene utilizzato, non c’è ragione per ritenere

che le “pietre preziose” dei popoli mesopotamici debbano

riferirsi proprio al platino.

La “Sham-an-na” dei babilonesi e degli egizi sembra invece

essere più un contenitore (una pietra focale di forma conica) che

non un contenuto, a meno che non si voglia applicare un

processo interpretativo secondo il quale la riduzione in polvere

di questa pietra focale costituisca la shem-an-na stessa, e che

questa sia proprio la polvere bianca qui presa in esame.

E cos’era veramente la polvere ritrovata nel 1904 dalla

spedizione di Petrie?

Molti ritengono si trattasse di turchese polverizzato (la zona

era infatti ricca di miniere per l’estrazione del turchese, già

utilizzate con certezza durante l’epoca faraonica). Ma il turchese

23

è verde. Quindi altri ritengono si trattasse di residui di fusione

del rame, che però producono un materiale scuro. Improbabile

sembrò anche l’ipotesi che potesse trattarsi di scorie

dell'estrazione del manganese delle adiacenti miniere di Umm

Bughma, o di residui di combustioni di ossa (per assenza di

residui biologici all'interno di queste ceneri bianche) come pure

di vegetali o di alcali. Poteva forse trattarsi di ceneri derivate

dall’uso di fuochi a scopo religioso, ma le fumigazioni erano una

pratica più diffusa tra i semiti che non tra gli egizi.

Allora cosa?

Si tratta del contenuto della pietra focale conica? Si tratta di

un altro nome per indicare la stessa cosa (la “Shem-an-na”)? O di

altro ancora? Difficile dirlo. Forse per nostra ignoranza, ma non

siamo a conoscenza di analisi chimiche e scientifiche svolte su

questa polvere, che certamente potrebbero diramare molti

dubbi.

Tuttavia è bene sapere che durante l’ottava dinastia la regina

Hat-Shep-Sut restaurò il tempio di Hathor e fece costruire nelle

immediate vicinanze un santuario per il Dio “Sopdu”. Questa

divinità, tra le principali adorate nella zona di Serabit, è

conosciuta anche con il nome di Horus di Shesmet, il cui nome

compare infatti negli antichissimi testi delle piramidi . Negli

stessi testi compare anche il nome della "Dea Shesmet.t",

variante rituale della Dea Hathor, e compagna di Horus. Il fatto

interessante è però che lo "Shesmet" è anche un minerale (la

formula 1784-1785 di Faulkner così recita: "Il Faraone è legato a

questo suo seggio fatto di Shesmet”) che si estraeva, molto

probabilmente, proprio nella zona Serabit e che dava il nome ad

24

una sorta di cintura (“shesmet-girdle”) che il Dio "Sopdu"

indossava abitualmente. Egli era infatti ritenuto

un guerriero asiatico, raffigurato con una cintura e una lunga

ascia, e si ritiene fosse considerato anche il protettore

delle miniere della zona del Sinai.

Immagine: mysteriousworld.com

Questo minerale riporta quindi abbastanza esplicitamente

alla strana polvere bianca ritrovata nella spedizione di Petrie.

Cosa dire della “manna” citata nell’Esodo?

Che è citata come pane del Signore. Non come polvere d’oro.

Del resto nella Torah, la manna è paragonata ad una pietra di

cristallo, e in altri casi al Coriandrum sativum, pianta dai fiori

bianchi con frutti aromatici che in antichità trovò impiego come

pianta medicinale, ed è stata anche raffigurata in alcune tombe

egizie come offerta rituale.

Se poi la Bibbia dice che la manna era contenuta nell’Arca della Sacra Alleanza, è pur vero che al momento dell'inaugurazione del Tempio di Salomone essa conteneva

25

soltanto le Tavole della Legge (Deuteronomio 10, 1-5; 1 Re 8, 9; 2 Cronache 5, 2-10).

Anche qui l’interpretazione “mistico-alchemica” che se ne vuole dare sembra unidirezionale e forzata, come pure precario appare il nesso di diretta derivazione con i precedenti sumeri, mesopotamici o egizi.

Veniamo a Teofilo, di cui desta sorpresa l’inaspettata

concessione al mondo della superstizione, del folclore e della

magia, allorché egli descrive la sua ricetta su come creare l'oro

spagnolo. Ma si trattava di una ricetta per ottenere oro “adatto a

qualsiasi opera”, non essendoci alcun riferimento alla

commestibilità, né ad elisir di lunga vita, o a particolari proprietà

mistiche.

Come è scritto su Wikipedia:

“Non è possibile dare una spiegazione razionale secondo la nostra mentalità a questa ricetta, ma in fondo non è neanche necessario volerla ridurre ai nostri schemi mentali, piuttosto è più interessante valutare quali conoscenze e quale humus culturale avevano portato a rendere plausibile una credenza del genere ai tempi di Teofilo.

[…]

In definitiva quindi Teofilo in questa ricetta avrebbe incorporato

inconsapevolmente un brano alchemico alla deriva nel sapere

europeo medievale, e lo avrebbe collocato in un contesto

completamente estraneo all'alchimia, arricchito però da rimandi a

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una fitta rete di suggestioni del sapere tradizionale di stampo

orale”.

Inoltre Teofilo descrive un processo di trasformazione, non

di trasmutazione (che è invece un processo tipicamente

alchemico). La differenza è sostanziale perché quest’ultima

implica un totale e perfetto mutamento della sostanza, attraverso

l’operato di un alchimista che, in primis, riporti il metallo vile allo

stato liquido per poi riequilibrarlo con esalazioni di zolfo e

mercurio, per poi ri-solidificarlo in oro (l’alchimista"solve et

coagula"). Evidente che questo non sia il caso di Teofilo.

Non ci sembra partecipe di questa storia neppure Avicenna.

Personaggio controverso e indubbiamente geniale, filosofo,

medico, matematico di grande valore. Autore del “Canone della

medicina”, un testo che sarà di riferimento per tutta la medicina

fino al 1700. Ciò che lo rese invece una autorità tra gli alchimisti

fu il “De anima in arte alchemiae”, che tuttavia è da ritenersi

quasi certamente apocrifo. Egli era anche sperimentatore, ma

sembra certo che fosse un nemico dell’alchimia, e che la

osteggiasse apertamente. Nel suo “De congelatione et

conglutinatione lapidum” era contenuta una critica radicale alla

possibilità della trasmutazione. Se anche avesse mostrato

interesse per l’alchimia, o se avesse parlato di un elisir di lunga

vita, non per questo egli ci sembra parte in causa della storia che

qui stiamo raccontando.

Diverso forse il caso di Arnaldo da Villanova, sicuramente

molto addentrato nel mondo alchemico, e i cui testi sembrano

avere un richiamo più esplicito alla polvere bianca di cui stiamo

qui discorrendo. Tuttavia il “Lapis” di cui egli parla nella lettera

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al Re di Napoli, è verosimilmente da intendersi più su un piano

allegorico - metaforico che non concreto: la pietra è la nostra

natura (di zolfo,mercurio e sale) e l’iniziatico è come una pietra

grezza e nera (alla stregua del piombo di Saturno). Questa pietra

va estratta dalla miniera (l’uomo sociale, collettivo) e separato

dal mercurio (isolato dalle influenze esterne, finché soffrendo

non liberi il suo spirito). Al termine di questo processo si ottiene

il lapis (la pietra, la natura umana) bianco, puro, purificato…

Ma quand’anche non volessimo convenire su una interpretazione allegorica, sarà bene tenere nella dovuta considerazione il fatto che l’alchimia - oggi considerata più come una sorta di proto-chimica e di proto-medicina – nel Medioevo era ritenuta una vera e propria scienza, ed era largamente praticata. In essa la componente scientifica era fortemente mescolata a quella “magica”.

Immagine: www.summagallicana.it/lessico/a/alchimia.htm

28

Citando Enrico Galavotti:

“Nel medioevo fu molto sviluppata l'alchimia, perché si

credeva, a torto, di poter ottenere l'oro fondendo lo zolfo col

mercurio”

Così, non è difficile trovare alchimisti che discorrevano (non necessariamente con riscontri pratici o efficaci) su tematiche come la conversione del metallo in oro, o la quintessenza, o la panacea, piuttosto che l’onniscienza. Diverso (e ben più complesso ed aleatorio) è unificare tutte queste voci in un’unica nomenclatura (“white powder gold”), da intendersi come elemento presente in modo inequivocabile e costante dai sumeri ai nostri giorni, e come sostanza dalle proprietà onnicomprensive.

Chiarito questo equivoco, occupiamoci brevemente anche di

Raimondo Lullo.

A Lullo furono attribuite dai suoi seguaci (ad esempio Tommaso de Myésier, nel testo Electorium Remundi) numerose opere a carattere alchemico, ma i più illustri esperti sono d’accordo nel ritenerle quasi certamente tutte apocrife. Ad esempio il libro De Secretis Naturae, pubblicato nel 1541 a nome di “R. Lullo”, era probabilmente la copia del De Secretis Naturae fatto bruciare da papa Gregorio XI nel 1372. L’autore era tal Raimundo de Terraga, un ebreo convertito dedito alle scienze occulte, che visse “por los anos 1370, esto es en siglo en que muriò Ramon Lull”. Chi volesse approfondire questi aspetti troverà abbondante materiale negli scritti dello storico spagnolo J.R. de Luanco, e nel “Biblioteca Chimica”, di J. Ferguson.

Su Lullo non c’è comunque alcun riferimento esplicito a nulla che possa somigliare alla polvere d’oro bianca, mentre numerosi

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sono i nessi con il tema della semplice trasmutazione di metallo vile in oro. Ai nostri fini quindi, ci interessa marginalmente.

Le monete d’oro di cui si narra egli fosse l’artefice (le “Rose Noble”) furono in commercio per molto poco tempo, poiché venivano esportate in Europa (dove valevano di più) a scopo di lucro. Questo poco tempo corrisponde a pochissimi anni durante il regno di Edoardo IV, tra il 1464 e il 1470. All’epoca Lullo era morto da tempo.

Si è ritenuto allora che le monete furono sì coniate sotto Edoardo IV, ma con l’oro che Lullo aveva trasmutato durante il regno di Edoardo III. Si ritiene, come detto, che Lullo smise poi di trasmutare oro per Edoardo III quando questi ne fece uso per attaccare la Francia. Allora Lullo fuggì dall’Inghilterra – dove il Re lo aveva fatto imprigionare perché egli si rifiutava di trasmutare altro oro. La dimostrazione di ciò sarebbe la frase incisa sul retro delle “Rose Noble”:

Iesus autem transiens per medium eorum ibat.

Immagine: wikipedia

Cioè: ma Gesù passando in mezzo a loro se ne andò.

Questa frase secondo alcuni doveva riferirsi a Lullo, che come Gesù in mezzo ai farisei, lasciò l’Inghilterra in mezzo agli inglesi, senza essere notato. O secondo altri doveva significare che quella moneta era stata creata tramite un’arte invisibile in mezzo agli ignoranti come invisibile fu Gesù in mezzo ai farisei.

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Interpretazioni legittime ma opinabili, che non costituiscono affatto prova. Leggende più che altro. Come quella secondo la quale l’oro di queste monete dovesse essere necessariamente trasmutato.

Giovanni da Rupescissa fu invece, tra le altre cose, autentico

alchimista, e come tale interessato a trasmutare i metalli in oro

(tema affrontato nel suo Liber Lucis) e a creare la panacea

universale (tema affrontato nel suo De quinta essentia). Non

sembra tuttavia che questi due interessi (comuni del resto a tutti

gli alchimisti) trovino una sintesi in nulla che somigli ad una

commestibile polvere d’oro. Nel primo caso, la trasformazione

dei metalli in oro, rappresenta per Rupescissa una risorsa

materiale per soccorrere i poveri. Nel secondo caso, alla

quintessenza “che possa conservare dalla putrefazione il corpo

umano, soggetto a corruzione”, si giungerebbe attraverso la

teoria umorale (di Ippocrate di Coo), medicamenti a base di

alcool, e ripetute distillazioni di sostanze organiche.

Nulla di strano se – citando Paravicini Bagliani – l’oro

potabile era uno strumento alchimistico “destinato a radicarsi

con forza nella coscienza culturale europea fino a diventare

l' elixir per eccellenza, il principale veicolo sul quale si

concentrarono per secoli e fino al XVIII sec. le aspirazioni

occidentali ad un'estensione della propria vita e ad un

ringiovanimento del corpo”.

In termini sintetici e brutali: la presenza dell’oro tra i

materiali con cui ottenere la quintessenza, faceva di Rupescissa

31

un alchimista, in un’epoca in cui si andava affermando tra gli

alchimisti l’idea di una quintessenza dell’oro. Sic et simpliciter.

Semmai proprio queste presunte (e mai realizzate) proprietà

dell’oro, e la convinzione che questo si potesse ottenere in via

alchemica, spiegano perché i regni barbarici europei del basso

medioevo furono – a differenza di altre civiltà incentrate sulle

attività mercantili – pessimi ricercatori ed estrattori d’oro (ad

eccezione di quello prelevato nei saccheggi o nelle crociate).

Nicolas Flamel invece, trascorse verosimilmente l’ultimo

periodo della sua vita scrivendo libri di alchimia, e

predisponendo la sua inumazione, che avvenne – per suo stesso

volere - nella navata di Saint Jacques la Boucherie. La chiesa fu

abbattuta durante la Rivoluzione, e adibita a deposito di armi e

munizioni. Della originaria chiesa rimase ben poco, e così pure

della tomba di Flamel, che del resto era stata probabilmente già

depredata in precedenza dalle guardie francesi inviate da Luigi

XIII e da Richeliueu. La “scomparsa” di Flamel è così divenuta

leggenda, e come tale non ci sono testimonianze “storiche”

(leggasi attendibili) né elementi concreti – evidentemente! – a

sostengo dell’ipotesi di una sua immortalità. Tra l’altro il libro da

cui Flamel disse di aver estrapolato i saperi per creare la pietra

filosofale, sarebbe – a suo stesso dire – imputabile ad “Abramo

l’ebreo”. La ricostruzione più verosimile che possa dirci chi fosse

quest’uomo (che sembra abbia influenzato in qualche modo

anche Aleister Crowley) ne data la nascita al 1362. Alquanto

curioso se, come vuole la leggenda, Flamel aveva già per le mani

il libro nel 1357. Di questo libro infine, non c’è alcuna traccia, se

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non alcune copie verosimilmente non autentiche (l’unico

presunto autentico è il manoscritto Figures Hieroglyphiques

d’Abrahm Juif, conservato nella Biblioteca Nazionale di Parigi, ma

differisce in molte parti dal testo raccontato da Flamel). Non è da

escludere che l'intera vicenda del libro, altro non sia che una

mera metafora del percorso iniziatico di Flamel.

Anche il suo testamento, stampato a Londra nel 1806 da J. e E. Hodson, è probabilmente un'invenzione successiva, scritta sul finire del 1700 in Francia in seguito ad un risorgere dell'interesse verso Flamel. Dell’autentico testamento, menzionato da Borel tra i testi alchemici, non v‘è traccia.

Nulla sappiamo invece su Eirenaeus Philalethes, se non che

fu un alchimista del XVII secolo sotto falso nome (alcuni

avanzano l’ipotesi che potesse trattarsi dell’americano George

Starkey). La sua opera pare abbia influenzato successivi scritti di

Newton, Leibniz, e Locke, e si narra che anch’egli riuscì a

compiere l’opera, a realizzare la pietra filosofale.

Cherry Gilchrist, recensendo nel 1996 su “Gnosis Magazine”

gli “Alchemical Works” di Philaletes, scrisse che:

“Anonimato e paranoia erano caratteristiche tradizionali della

visione del mondo alchemico […] Questi scritti furono prodotti

in un tempo in cui un fermento nobile ribolliva in un mondo che

iniziava ad aprirsi alla scienza. Fu un periodo strano, paradossale,

quello in cui la pratica dell'alchimia ispirò la scienza ... Le opere

di Filalete sono state utilizzate da Newton nei suoi esperimenti ...

33

Filalete dovrebbe essere letto come un serio contributo

alla alchimia occidentale”.

Secondo alcuni alchimisti egli avrebbe seguito le orme di

Flamel, ed i suoi stessi metodi. Altri ritengono invece che

Philaletes fosse un seguace di Artephius (alchimista andaluso

vissuto nel XII secolo, a sua volta influenzato da un alchimista

chiamato Adfar), particolarmente interessato all’ossido di

mercurio e all’utilizzo del bagnomaria sullo zolfo.

Per il resto, come crediamo di aver chiarito in precedenza, di

disquisizioni su preparati contenenti zolfo e mercurio, come

pure di allusioni all’oro, in un libro di un alchimista, sarebbe

strano non trovarne.

Che dire riguardo John Dee? Personaggio certamente

intrigante e geniale, è stato regolarmente e ripetutamente

catapultato dalla letteratura all’interno di qualsiasi mistero.

Inevitabile per un personaggio come lui, geografo, matematico

ma anche alchimista presso la corte della regina Elisabetta I, con

importanti entrature in mezza Europa, dedito all'occultismo,

alla divinazione e alla filosofia ermetica, e in combutta con

l’enigmatico mascalzone Edward Kelley. Pertanto Dee sarebbe

l’autore del misterioso manoscritto Voynich, forse anche del

Necronomicon, e avrebbe trasmutato piombo in oro presso la

corte di Rodolfo II. Quale luogo migliore della corte di Rodolfo II,

anch’essa sempre al centro di innumerevoli racconti mistici,

occulti, esoterici (dei “cortigiani” in questo caso faceva parte

anche il già menzionato Michael Maier, che – ricorderete - si

espresse in favore della attribuzione dei “Rose Noble” all’opera

di trasmutazione di Raimondo Lullo). Resta da chiarire – se non

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altro - come mai Rodolfo II, dopo questo incontro col genio

londinese, lo bandì dalle sue terre, manco disdegnasse l’oro.

E Johann Frederick Schweitzer, in arte Helvetius? La

leggenda secondo cui egli trasmutò piombo in oro seguendo le

indicazioni di un anonimo viandante presenta anche sul piano

narrativo degli elementi sospetti e delle lacune che la fanno

apparire poco credibile. Inoltre egli è la fonte di se stesso.

Porelius e Brechtel probabilmente valutarono un oro

presentatogli da Helvetius, ma è da chiarire come quest’ultimo lo

ottenne. Sul piano storico nulla è possibile dire con certezza: lo

storico dell’alchimia Hermann Kopp, studiando questo caso,

sospese il giudizio, non pronunciandosi né per la sua veridicità

ne per la sua mendacità.

Come abbiamo visto, la polvere d’oro richiamò fortemente

l’attenzione pubblica a cavallo dei due secoli, a partire dal 1995-

1996, grazie alle dichiarazioni di George Radius Hudson.

Chi è costui?

Una sua foto è visibile all’indirizzo: https://monatomic-gold.com/wp-content/uploads/2015/05/Hudson.jpg

Il “Phenix NewTimes” definiva David Radius Hudson: “un

enigmatico contadino, un guru New-Age, che sostiene di aver trovato nella sua terra una cura miracolosa per la riparazione del DNA, e ha intrapreso una campagna per la riproduzione in serie”.

Un contadino che, ironia della sorte, si ammalò proprio mentre stava commercializzando questa panacea. Del resto – dichiarò la

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Signora Hudson – suo marito la vendeva soltanto, ma non assumeva questa sostanza per sé (cosa per altro smentita da innumerevoli fonti e dichiarazioni dello stesso Sig. Hudson). Soltanto lui era in grado di trovarla e di riprodurla perché questi preziosi elementi che formano la polvere esisterebbero in una forma che non può essere rilevata dalla maggior parte dei metodi analitici. Hudson chiama questa forma "monoatomica", ed egli ha definito la sua scoperta "elementi monoatomici orbitalmente riarrangiati”, facendone il nome per una società di capitale con responsabilità limitata (ORMEs).

Hudson, leggendo libri di alchimia, era venuto a conoscenza di questa polvere d’oro, e si era convinto che la sua polvere fosse proprio la stessa, l’elisir di lunga vita raccontato nei testi alchemici. Aveva anche sottoposto questa polvere al chimico John Sickafoose, il quale tuttavia non fu in grado di identificarla con sicurezza. Ciò nonostante Hudson riuscì a convincere un medico, il dottor David Payne, che questa polvere avesse proprietà miracolose anche contro l’AIDS, e così questo misterioso ritrovato finì anche per essere sperimentato come medicina. Almeno finché il dottor Payne – a seguito della morte di una paziente – fu temporaneamente sospeso e indagato. Le autorità stabilirono che la morte fu causata da sciami di batteri nella sostanza che il medico gli aveva suggerito di assumere. Hudson perse una causa civile intentata dal marito e dalla madre della vittima. Da allora smise di fornire questa polvere ai malati, e invece iniziò ad offrire una iscrizione (per cinquecento dollari) alla “Fondazione Scienza dello Spirito”, che lavorava in parallelo con la ORMEs.

Oggi – come detto - questa polvere è ancora venduta in alcuni siti web, nei quali dopo averne magnificate le incredibili proprietà, nel disclaimer si declina ogni responsabilità, e si chiarisce – per fortuna – che questo prodotto non ha nulla a che fare con diagnosi, cure, prevenzione, trattamenti medici. Infine si

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consiglia il parere del medico prima di assumerlo anche solo come coadiuvante dietetico.

In una società meno moderna, come può essere quella

medievale, in cui non esiste l’Organizzazione Mondiale della

Sanità, né associazioni di consumatori, né NAS, né Guardia di

Finanza, difficile dire l’impatto che avrebbero avuto le

dichiarazioni di Hudson.

Ma c’è chi vi crede anche ai nostri giorni. Allora un ulteriore

chiarimento sull’oro monoatomico proviene da Silvano Fuso,

laureato in chimica (indirizzo chimico-fisico), Dottore di Ricerca

in Scienze Chimiche, ricercatore nel campo della spettroscopia

molecolare presso l'Università di Genova, coautore di diverse

pubblicazioni nel settore su riviste internazionali:

“Dal punto di vista scientifico si tratta di puri vaneggiamenti

privi di alcun senso. Quando poi si afferma che tale sostanza

potrebbe essere utilizzata nella cura del cancro è doveroso

cominciare a preoccuparsi. Già la denominazione "oro

monoatomico" desta non poche perplessità . L'aggettivo

monoatomico infatti si riferisce generalmente a un elemento che

abbia molecole costituite da un solo atomo. Ora questo è possibile

solamente se tra atomo e atomo non esiste alcune legame chimico

e quindi questa situazione si può verificare solamente in un gas (gli

unici elementi monoatomici sono infatti i cosiddetti gas nobili). L'

"oro monoatomico" che viene commercializzato è sotto forma di

polvere, si tratta quindi un solido e pertanto non può essere

monoatomico in questo senso. Se invece per monoatomico si

intende costituito da un solo tipo di atomi, questo vale per

qualsiasi elemento allo stato puro e non si capisce quindi in che

cosa consista l'eccezionalità del prodotto. Laurence Gardner e

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tutti coloro che decantano le proprietà dell'oro monoatomico si

rifanno alla tradizione alchemica utilizzando concetti e principi

che sono da tempo stati confutati dalla chimica moderna. In più

utilizzano in modo del tutto improprio termini e concetti scientifici

moderni. Anche l'idea secondo la quale l'oro monoatomico

entrerebbe in risonanza con il DNA non ha alcun senso dal punto

di vista scientifico”.

Già, Laurence Gardner.

All’interno di questa storia compare non prima del 2002, ma

assume gradualmente un ruolo predominante, tanto che l’intera

faccenda che vi stiamo raccontando si sviluppa in gran parte a

ritroso, a partire dalle sue dichiarazioni.

Nel 2002 fu lui infatti a suggerire al ricercatore di cerchi nel

grano Andy Thomas che la polvere ritrovata nel crop circle di

Sompting del 2001 potesse essere la famigerata white powder

gold, in uso presso gli alchimisti dai tempi dei tempi. Disse che,

se effettivamente si trattava di questa polvere, avrebbe

contenuto degli elementi di Platino, Palladio, Iridio, Rodio,

Rutenio o Osmio (come sostenuto da David Radius sul già

menzionato articolo in “Nexus Magazine”, 1996). In questa

polvere c’era invece presenza di Silicio, e da ciò prese corpo una

nuova complessa e artificiosa speculazione che voleva legare

questa polvere ad ET, ed al crop circle di Chilbolton (conosciuto

come “Arecibo Reply”) sempre del 2001.

Dissertando sulla “teoria dell'intelligenza di rete” di Grazyna Fosar e Franz Bludorf, sulla iper-comunicazione a livello di DNA, e sulla teoria del fisico Matti Pitkänen, relativa alla capacità di memoria dell’acido desossiribonucleico, si tentava di

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sostenere che la comunicazione tra Arecibo e gli alieni sarebbe potuta avvenire con tempistiche e modalità del tutto diverse ed inaspettate rispetto ai canoni della nostra scienza.

Una analisi più ponderata (di laboratorio) su questa

polvere fu invece svolta dall’investigatore Rodney Asby:

“La composizione elementare suggerisce che erano presenti solo ossidi o idrossidi […] il campione non era un minerale di composizione complessa, piuttosto una miscela di tre o più composti chimici di base, la più comune è la silice della sabbia (SiO 2), calce viva (CaO) e calce spenta (Ca (OH) 2 ). Collettivamente, questi sono indicativi di un materiale cementizio. Tale conclusione è corroborata anche dalla presenza di oligoelementi quali l’ alluminato di calcio (Ca 2 Al 2 O 5) e tracce di composti di alluminio e ferro del cemento di Portland […] il problema è semmai la consistenza della sabbia, non del tipo comunemente usato in edilizia. Invece, era di una granulometria più fine variabile da 100 micron a meno di 2 micron. Inoltre, i grani più piccoli erano delle forme più pure di silice. Tutti gli elementi di prova hanno suggerito che la sabbia proveniva da una fonte atipica ma naturale. Varie idee sono state considerate - sabbia destinata a sabbiatura o fusione di precisione, anche sabbia sahariana - ma nessuna ha fornito un riscontro convincente con queste. Nonostante questo, non sono riuscito a trovare alcuna prova del fatto che questo materiale non abbia avuto origine terrena”.

Abbiamo così la sgradevole sensazione che alla fine dei

conti si tratti soltanto di una manciata di materiale cementizio. Oppure del “coconino”, che è una polvere bianca del tutto analoga alla white powder gold, e che si trova in Arizona, sia a Coconino Peak sia all’interno e nei pressi del Meteor Crater (per

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una strana casualità, vicinissimi a dove viveva Hudson). Alcuni ritengono anche che queste particelle sferiche di biossido di silicio si formino dalla fusione della sabbia posata dal vento sugli steli prima dell’azione termica. Bisognerebbe solo scoprire come siano arrivate a Sompting.

Ma è nel 2004 che Gardner si impone definitivamente sulla

scena del mistero, pubblicando il libro "Le misteriose origini dei

Re del Graal”, di cui abbiamo già detto nella prima parte. È a

partire da questo libro che si impongono retroattivamente le

innumerevoli meraviglie attribuite alla famosa polvere bianca, da

un futuro ancora sconosciuto a ritroso fino ai Sumeri e oltre. Si

mette infatti in relazione tutto ciò non solo col lontano passato,

ma con recenti scoperte nel campo della fisica. Si iniziano così a

diffondere alcune idee, a nostro personale avviso fuori controllo

e forse perniciose.

Alcuni fisici nucleari scoprirono negli anni Ottanta che quando determinati atomi sono posti in uno stato di velocissima rotazione, le particelle elementari attorno al nucleo si riordinano e iniziano a roteare ad una velocità maggiore. Come risultato delle orbite riordinate, le emissioni elettromagnetiche degli elementi roteanti sono differenti rispetto al loro spettro ordinario. I fisici nucleari – si dice ancora - non hanno riportato alcun successo nel produrre questo processo attraverso il bombardamento ad alte energie. Tuttavia (ed ecco che l’elemento scientifico si mescola e cede il passo a quello fantascientifico) la natura ha i suo metodi a bassa tecnologia e bassa energia per produrre ciò all’interno delle viscere della Terra: la polvere d’oro bianca. Essa sarebbe presente ovunque nel suolo, soprattutto in terreni vulcanici. Non è stata mai trovata: perché? Semplice: nella sua forma monoatomica, non si

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manifesterebbe nello spettro visibile delle strumentazioni che abbiamo in uso. Così alcuni metalli preziosi vivrebbero in uno stato modificato, in cui non si visualizzano più le loro proprietà elettriche, spettroscopiche, chimiche o termiche.

Alcuni sedicenti o pseudo-ricercatori hanno sostenuto che gli effetti prodotti da questa panacea possono essere prodotti attraverso la bio-superconduttività che migliora il pieno potenziale del DNA. Questa polvere, quando ingerita, entrerebbe nel sangue per pervadere l’intero corpo. Come? Essendo chimicamente inerte, i suoi effetti non si esplicano per reazione chimica, ma in via energetica. Questi elementi si inoculano nelle cellule, e generano “essenza di vita”. Accrescendo l’essenza a livello cellulare, consentono lo sviluppo di una intelligenza più spirituale, e il raggiungimento di uno stato olistico funzionale.

Questo è sostanzialmente il tono ed il livello delle argomentazioni, che lasciamo giudicare al lettore.

In successivi libri Gardner non abbandonerà questo stile,

né questi temi. Si occuperà a lungo dell’Arca dell’Alleanza,

ritenendola capace di trasformare l'oro nella misteriosa sostanza

bianca, la quale avrebbe anche la facoltà di apparire e

scomparire durante il suo processo creativo, e grazie ai non

meglio definiti “campi di MFKTZ” potrebbe aprire una porta

interdimensionale fra due mondi. E qui siamo allo Stargate. La

Sacra Arca dell'Alleanza sarebbe stata costruita con un metallo

dalle proprietà magiche, la cui polvere permetterebbe di

proiettare la materia nello spazio-tempo. Tale materia sarebbe

un derivato del noto metallo conduttore detto "oro

monoatomico", che ad Alessandria di Egitto fu anticamente

identificato con la pietra filosofale. Ad esso sarebbero affidate le

speranze degli scienziati di tutto il mondo per la messa in opera

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del teletrasporto. E così via, parafrasando Silvano Fuso, di

vaneggiamento in vaneggiamento.

Nella convinzione che qualsiasi serio scienziato inorridisca di

fronte a simili congetture, ciò che dobbiamo aggiungere è

soltanto che Gardner non è un chimico, né uno scienziato,

neppure uno storico-scientifico, bensì un saggista, al più uno

storico alternativo. Non crediamo si offenderebbe se lo

paragonassimo a Dan Brown. Nei suoi libri si mescolano

sapientemente ed efficacemente elementi storici a speculazioni

fantasiose, prive però di ogni comprovabilità.

Secondo Wikipedia:

“Gardner viene talvolta chiamato "Chevalier Labhran de Saint Germain", "Addetto Presidenziale al Consiglio Europeo dei Principi" e "Priore delle Chiese Celtiche - Sacro Fratello di Sangue di San Colombano" . Egli afferma inoltre di essere Storiografo Reale Giacobita della Casa Reale degli Stewart. È un sostenitore di Michael Lafosse, in particolare delle affermazioni di quest'ultimo di discendere dalla Casa degli Stuart, che Gardner ritiene discenda direttamente da Gesù Cristo.

Alcuni storici affermano che egli sia un propugnatore della teoria del complotto implicando, con ciò, che le sue siano opere di pseudostoria, scarsamente documentate e non erudite”.

Non molto vogliamo dilungarci infine su Fulcanelli e sulla

teoria dell’antico astronauta di Sitchin, la cui attinenza stricto

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sensu con l’argomento qui preso in esame (la polvere bianca

degli alchimisti) è sostanzialmente a latere. Sul primo nulla c’è da

aggiungere al fatto che fosse un rispettabile alchimista. Non

sappiamo neppure chi si celi dietro questo pseudonimo, e

addurre ch’egli abbia raggiunto l’immortalità ci sembra

evidentemente opera di fede incondizionata nelle libere, gratuite

e inconfutabili (perché prive di ogni riscontro) dichiarazioni di

Eugene Canseliet e Julien Champagne.

La teoria dell’antico astronauta di Sitchin (nota anche come

teoria “Nibiru”, “Annunaki”, “Pianeta X”) presta invece il fianco a

numerose critiche, e si basa sostanzialmente su alcune personali

interpretazioni dell’autore non universalmente riconosciute, ed

anzi osteggiate dalla comunità scientifica e non solo da questa.

Ad esempio il famoso sigillo sumero, denominato VA 243

(reperto n. 243 presso il Vorderasiatische Museum di Berlino)

costituisce il fulcro delle ipotesi di Sitchin. In questo sigillo – dice

Sitchin – si vede il Sole attorniato da undici globi. Quindi,

considerando che gli antichi consideravano il Sole e la Luna come

pianeti, questo sigillo mostra dodici pianeti. Ne consegue che i

sumeri conoscevano un dodicesimo pianeta oltre Plutone: il

Pianeta X, Nibiru appunto.

Eppure è tutt’altro che dimostrato che quel sole raffiguri

proprio il nostro Sole (i sumeri non lo rappresentavano così), e

che gli undici globi rappresentino pianeti (più probabilmente si

tratta di stelle). Inoltre sono molteplici le incongruenze tra la

rappresentazione del sigillo e la reale struttura del nostro

sistema solare. Infine il sigillo – stanti al testo contenuto in esso –

non tratta affatto di astronomia. Senza considerare che nessun

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documento archeologico né astronomico abbia mai potuto

apportare sostegno, neppure indiretto, all’ipotesi ventilata da

Sitchin, il quale – dal canto suo – sembra incapace di rispondere

alle numerose obiezioni che gli sono state mosse.

Per finire non risparmiamo neppure a lui una citazione

wikipediana:

“Le controverse teorie di Sitchin, basate sulla sua personale

interpretazione dei testi sumeri, sono considerate pseudoscienza

dalla comunità scientifico-accademica, ma registrano un buon

seguito nell'ambito della letteratura popolare”.

Come per Gardner e Dan Brown, ci vien da dire che non

dovremmo lasciare che la storia venga scritta da autori fantasy o

di letteratura popolare, per quanto bravi possano essere.

Ci vien anche da dire, concludendo, che abbiamo la fastidiosa

sensazione che i tempi moderni stiano rischiando di trasformare

ciò che era una leggenda ed un’arte di antica tradizione e pratica

(l’alchimia con le sue vocazioni spirituali e filosofiche, ma anche

come contributo alla ricerca chimica, all’invenzione di

apparecchi da laboratorio, allo sviluppo delle tecniche di

sublimazione, distillazione, calcinazione ecc) nella burlesca

strumentalizzazione a sostegno di deliranti costrutti della

fantasia, o peggio nella grottesca commercializzazione di un

prodotto miracoloso degno di una Wanna Marchi.

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Di Leonardo Dragoni

Per “Cropfiles.it”

© 2012

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