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Seconda sessione – lezione 3

L’ARTICOLAZIONE SUSSIDIARIA DEL POTERE POLITICO

LA COMUNITA’ POLITICA PRECEDE LO STATO E LEGITTIMA IL POTERE POLITICO. LA COMUNITA’ POLITICA HA UNA BASE ETICA E SI FONDA SULLA CONDIVISIONE DI FINI. IL POTERE POLITICO DELLO STATO E’ AD ESSA STRUMENTALE.

OGGI LA COMUNITA’ POLITICARO’ DETERMINATA DAL COLLANTE MORALE E DLLA CONDIVISIONE DEI FINI CHE OGGI NON CI SONO PIU’ MENTRE LO STATO E’ SCAVALCATO DAI POTERI SOVRANAZIONALI SENZA CHE CI SIA UNA COMUNITA’ POLITICA SOVRANAZIONALE.

TESI DA DIMOSTRARE: OGGI BISOGNA RIPARTIRE DAL BASSO, LO ESIGE LA SUSSIDIARIETA’ MA LO ESIGE ANCHE IL MOMENTO STORICO ATTUALE.

Comunità politica e potere politico

Il potere politico è a servizio della comunità politica, per condurla al bene comune. In questo senso il potere politico può anche essere detto autorità politica. La differenza tra potere e autorità è che il primo indica la pura e semplice forza coattiva, la seconda indica la forza sottoposta alla legge, non solo alla legge giuridica, che è fatta dal potere stesso, ma dalla legge morale e divina. L’autorità politica non può non avere anche il potere politico, il potere politico non guidato dall’autorità è pericoloso e dannoso.

In ogni caso la comunità politica precede il potere (o autorità): non è il potere che costituisce la comunità politica. Su questo punto la Dottrina sociale della Chiesa è contraria all’impostazione moderna del problema politico. Per la modernità, la società nasce da un contratto fatto dai cittadini per raggiungere una loro certa utilità (su questo concordano Spinoza, Rousseau, Hobbes … e tutti gli altri) che può essere la pace oppure la sicurezza oppure altro La società è quindi artificiale e non naturale. Gli uomini non stanno naturalmente insieme, ma devono essere tenuti insieme e la forza che li tiene insieme è il potere. Essi lo accettano fintanto che ne hanno una utilità, ma appena possono raggiungerne una maggiore senza essere visti o appena il potere allenta la sua presa, i cittadini ritornano allo stato pre-sociale, di puri individui isolati ed egoisti. La comunità fondata sul potere è sempre precaria e se la socialità non c’è fin dall’inizio non ci sarà poi mai più.

La Dottrina sociale della Chiesa pensa invece, recuperando in ciò il pensiero classico, che la comunità politica preceda il potere politico e che essa sia qualcosa di fondante rispetto, per esempio, allo Stato. La comunità politica, come insieme di famiglie e come realtà di popolo, è resa tale da un legame etico, prima che giuridico e politico, da una amicizia civica che consiste nel condividere gli stessi fini. Per questo la comunità politica non viene costituita dal potere, ma si costituisce nella storia, in riferimento alla forza unitiva della morale e della religione, che danno alla società appunto i fini. Anche le Costituzioni dovrebbero avere questa origine.

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Con la modernità, lo Stato si è sovrapposto alla comunità politica assorbendola in sé e distruggendo con le sue politiche i legami morali e religiosi che fornivano alla comunità i fini e quindi il collante. Lo Stato non poteva però fondarsi sul puro potere, e allora ha elaborato una religione civile che tenesse uniti i cittadini anche dal di dentro oltre che dal di fuori. Da qui autoritarismi e totalitarismi.

La democrazia non evade da quanto detto finora. Nemmeno il potere democratico è il fondamento della comunità politica. La democrazia, infatti, dal punto di vista del potere è pura forza. Ma la forza non legittima mai nessun potere, lo attesta solo di fatto. Anche la democrazia può costruire un potere politico che opprime la comunità politica perché si concepisce come sua origine e fondamento. Anche la democrazia deve rispettare la comunità politica che la precede e la fonda.

Ma oggi c’è ancora una comunità politica che preceda e fondi il potere politico? Oppure la secolarizzazione è stata talmente lacerante da distruggerla? In questo caso il potere politico non avrebbe più limiti perché una comunità politica debole non sarebbe più in grado di fornirgli i fini. Questo è oggi il problema politico principale.

Potere politico e sussidiarietà

Se il potere politico non è a servizio della comunità politica diventa pericoloso e dannoso. Per questo la Dottrina sociale della Chiesa propone di organizzarlo in modo sussidiario, ossia articolato a partire dal basso.

L’organizzazione sussidiaria del potere politico comporta:

- Il potere viene generato dal basso in modo organico;- Man mano che si sale il potere politico sarà: meno di contenuti e più di forma, meno

diretto e più indiretto, meno in prima linea e più in retrovia, meno erogatore e più organizzatore, meno che fa e più che fa fare; più di supplenza che di sostituzione.

- Il momento del passaggio al livello superiore viene deciso dal livello inferiore e non dal superiore; la delega è dal basso e devono esserci meccanismi di controllo dal basso;

- Io controllo politico dal basso deve prevalere sull’autonomia dei tecnici e dei burocrati.

Un esempio storico di organizzazione sussidiaria del potere politico era quello medioevale. L’impero, i feudi, i comuni, le diocesi, le università, gli ordini religioni, le confraternite, le comunità di quartiere, le corporazioni: la società era una comunità di comunità e tutte avevano la loro autonomia politica, organizzativa, legislativa e di solidarietà.

Oggi si parla di una sussidiarietà verticale: le circoscrizioni, i comuni, le province (o le UTI) e, sopra allo Stato, gli organismi sovra-statali.

La sussidiarietà verticale non si forma per devoluzione di poteri da parte dello Stato alle realtà politiche sottostanti. Essa dovrebbe formarsi piuttosto in senso contrario, dal basso, in modo che si stabilisca prima cosa può fare quel determinato livello prima di passare al successivo. Ma dopo secoli di Stato accentrato, sul piano storico si deve percorrere il percorso opposto. In

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questo modo però si possono compiere anche molti errori. Devolvere cose da fare senza prima essersi accertati che ce ne siano le condizioni; devolvere in apparenza ma mantenere un controllo nella sostanza da parte dell’organo che devolve; devolvere solo aspetti marginali; devolvere solo le responsabilità e non l’autonomia oppure solo l’autonomia e non la responsabilità. Nella scala dall’alto al basso è possibile che si mantengano ai diversi livelli forme di accentramento intermedio che si pensavano appartenere solo ai livelli superiori dello Stato. Può anche essere che la devoluzione dei poteri sia eccessiva e che indebolisca troppo lo stesso ente che devolvere. In certi Paesi lo Stato non c’è nemmeno e non si può pretendere che devolva ciò che invece dovrebbe fare se fosse in buono stato.

Non va dimenticato che l’applicazione del principio di sussidiarietà dopo secoli di accentramento è un fatto doloroso, perché significa ripensare chi fa cosa.

Da un certo tempo si parla poi di sussidiarietà orizzontale. Ossia la devoluzione di funzioni fino ad allora in capo allo Stato o agli enti locali, alle famiglie e agli organismi della società civile. Anche in questo caso si è spesso incorsi in gravi errori di impostazione. Per esempio si è preteso di scaricare sulle famiglie compiti di cura senza verificare se fossero in grado di portarli. Il cosiddetto terzo settore, in particolare la cooperazione sociale, non è mai stato veramente reso protagonista, ma ma ntenuto in dipendenzadalle istituzioni statali e quindi impedito a crescere in acquisizione di responsabilità. Spesso le cooperative sociali sono diventate fonte di finanziamento per le strutture pubbliche (perché vengono pagate anche ad un anno) e strumento di flessibilità nei rapporti di lavoro (se si deve licenziare lo fa la cooperativa, se si cambia appaltatrice c’è l’obbligo di assumere i soci lavoratori della precedente cooperativa). Si è quindi creato un connubio spurio tra pubblico e terzo settore che impedisce la crescita sia dell’uno che dell’altro. Purtroppo a questi meccanismi si prestano anche le strutture cooperative che fanno capo alla Chiesa.

La principale difficoltà in ambedue le forme di sussidiarietà consiste in questo. Lo Stato accentrato ha distrutto i presupposti morali e religiosi che permetterebbero, se ancora esistenti, di trasferire competenze e responsabilità in basso, sia negli enti locali che nella società civile. Per usare la nota frase del giurista Boekenforde, esso ha bisogno di presupposti che non riesce a ricostituire una volta perduti. Il presupposto è una comunità politica sottostante viva, coesa e con forti finalità da raggiungere. Oggi invece abbiamo una società molle e liquida, frammentata e quasi polverizzata. Non può essere lo Stato, la democrazia, il potere politico a tenere unità una società, ad animarla e dargli dei fini. Nemmeno nella forma della retorica democratica o costituzionale, forme indebolite di versioni trascorse di religione civile.

Si è creato un circolo vizioso: il centralismo statale ha indebolito la comunità politica ed a questa non è possibile trasferire competenze ora che lo Stato vorrebbe o è costretto a farlo. Del resto la comunità politica indebolita non riesce a condizionare il centralismo statale e a premere per avere titolarità politica in vari campi.

Domanda: è preferibile oggi cominciare dal basso o dall’alto? La via da seguire è quella dell’impegno nella società civile, tramite l’associazionismo familiare o sociale dal basso,

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oppure tramite i comuni, soprattutto quelli piccoli, per aprire e rivendicare spazi di libertà moralmente qualificata. E dal basso ricostituire una rete di fini e valori morali.

Così facendo si possono gradualmente chiedere e ottenere spazi di autonomia sussidiaria di vario genere:

- Sussidiarietà educativa;- Sussidiarietà fiscale;- Sussidiarietà sociale;- Sussidiarietà imprenditoriale;- Sussidiarietà legislativa;- Sussidiarietà delle nazioni.

Il potere oggi si esercita anche al di sopra dello Stato. Nella comunità internazionale si sono costituiti centri di potere istituzionale a cui gli Stati hanno ceduto parte della propria sovranità. Pensiamo per esempio alla Comunità economica europea o ai vari organismi sovranazionali che fanno capo ad accordi tra Stati oppure alle corti di giustizia internazionali.

Su questo la Dottrina sociale della Chiesa ha sempre detto con chiarezza che la dimensione sovranazionale ha anche una propria dimensione del bene comune, esiste un bene comune mondiale. Quindi bisogna pensare ad qualche forma di autorità politica mondiale che lo persegua. Ma questa autorità non deve essere qualcosa di accentrato, un super Stato, ma deve rispettare il principio di sussidiarietà. Ciò vale non solo per questa ipotetica autorità mondiale ma per ogni livello di potere superiore agli Stati.

Nell’Unione Europea ci sono continue invasioni di campo dell’Unione rispetto ai singoli Stati, nei settori etici della vita e della famiglia ma anche in quello delle migrazioni. L’accesso all’Unione è subordinato ad adottare alcune legislazioni legate ai diritti umani. Le corti internazionali di giustizia premono perché gli Stati adottino alcune legislazioni. Il processo di unificazione europea non può proseguire su questa strada, ossia sacrificando i popoli, le nazioni, gli Stati membri.

APPENDICE

I doveri sussidiari dello Stato

La socialità dell'uomo non si esaurisce nello Stato, ma si realizza in diversi gruppi intermedi, cominciando dalla famiglia fino ai gruppi economici, sociali, politici e culturali che, provenienti dalla stessa natura umana, hanno — sempre dentro il bene comune — la loro propria autonomia. È quello che ho chiamato la «soggettività» della società che, insieme alla soggettività dell'individuo, è stata annullata dal «socialismo reale».

(Centesimus annus, n. 14)

Lo Stato ha il compito di sovraintendere al bene comune e di curare che ogni settore della vita sociale, non escluso quello economico, contribuisca a promuoverlo, pur nel rispetto della giusta autonomia di ciascuno di essi. Ciò, però, non deve far pensare che per Papa Leone ogni soluzione della

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questione sociale debba venire dallo Stato. Al contrario, egli insiste più volte sui necessari limiti dell'intervento dello Stato e sul suo carattere strumentale, giacché l'individuo, la famiglia e la società gli sono anteriori ed esso esiste per tutelare i diritti dell'uno e delle altre, e non già per soffocarli

(Centesimus annus, n. 11)

Ha il compito di determinare la cornice giuridica, al cui interno si svolgono i rapporti economici, e di salvaguardare in tal modo le condizioni prime di un'economia libera, che presuppone una certa eguaglianza tra le parti, tale che una di esse non sia tanto più potente dell'altra da poterla ridurre praticamente in schiavitù.

(Centesimus annus, n. 15)

La società e lo Stato devono assicurare livelli salariali adeguati al mantenimento del lavoratore e della sua famiglia, inclusa una certa capacità di risparmio . Ciò richiede sforzi per dare ai lavoratori cognizioni e attitudini sempre migliori e tali da rendere il loro lavoro più qualificato e produttivo; ma richiede anche un'assidua sorveglianza ed adeguate misure legislative per stroncare fenomeni vergognosi di sfruttamento, soprattutto a danno dei lavoratori più deboli, immigrati o marginali. (Centesimus annus, n. 15)

Esse implicano un'assunzione di responsabilità da parte della società e dello Stato, diretta soprattutto a difendere il lavoratore contro l'incubo della disoccupazione. Ciò storicamente si è verificato in due modi convergenti: o con politiche economiche, volte ad assicurare la crescita equilibrata e la condizione di piena occupazione; o con le assicurazioni contro la disoccupazione e con politiche di riqualificazione professionale, capaci di facilitare il passaggio dei lavoratori da settori in crisi ad altri in sviluppo.

(Centesimus annus, n. 15)

È compito dello Stato provvedere alla difesa e alla tutela di quei beni collettivi, come l'ambiente naturale e l'ambiente umano, la cui salvaguardia non può essere assicurata dai semplici meccanismi di mercato. Come ai tempi del vecchio capitalismo lo Stato aveva il dovere di difendere i diritti fondamentali del lavoro, così ora col nuovo capitalismo esso e l'intera società hanno il dovere di difendere i beni collettivi che, tra l'altro, costituiscono la cornice al cui interno soltanto è possibile per ciascuno conseguire legittimamente i suoi fini individuali.

(Centesimus annus, n. 40)

Altro compito dello Stato è quello di sorvegliare e guidare l'esercizio dei diritti umani nel settore economico; ma in questo campo la prima responsabilità non è dello Stato, bensì dei singoli e dei diversi gruppi e associazioni in cui si articola la società. Non potrebbe lo Stato assicurare direttamente il diritto al lavoro di tutti i cittadini senza irreggimentare l'intera vita economica e mortificare la libera iniziativa dei singoli. Ciò, tuttavia, non significa che esso non abbia alcuna competenza in questo ambito.

(Centesimus annus, n. 48)

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Lo Stato, ancora, ha il diritto di intervenire quando situazioni particolari di monopolio creino remore o ostacoli per lo sviluppo. Ma, oltre a questi compiti di armonizzazione e di guida dello sviluppo, esso può svolgere funzioni di supplenza in situazioni eccezionali, quando settori sociali o sistemi di imprese, troppo deboli o in via di formazione, sono inadeguati al loro compito. Simili interventi di supplenza, giustificati da urgenti ragioni attinenti al bene comune, devono essere, per quanto possibile, limitati nel tempo, per non sottrarre stabilmente a detti settori e sistemi di imprese le competenze che sono loro proprie e per non dilatare eccessivamente l'ambito dell'intervento statale in modo pregiudizievole per la libertà sia economica che civile.

(Centesimus annus, n. 48)

L'attività economica, in particolare quella dell'economia di mercato, non può svolgersi in un vuoto istituzionale, giuridico e politico. Essa suppone, al contrario, sicurezza circa le garanzie della libertà individuale e della proprietà, oltre che una moneta stabile e servizi pubblici efficienti. Il principale compito dello Stato, pertanto, è quello di garantire questa sicurezza, di modo che chi lavora e produce possa godere i frutti del proprio lavoro e, quindi, si senta stimolato a compierlo con efficienza e onestà.

(Centesimus annus, n. 48)

Al conseguimento di questi fini lo Stato deve concorrere sia direttamente che indirettamente. Indirettamente e secondo il principio di sussidiarietà, creando le condizioni favorevoli al libero esercizio dell'attività economica, che porti ad una offerta abbondante di opportunità di lavoro e di fonti di ricchezza. Direttamente e secondo il principio di solidarietà, ponendo a difesa del più debole alcuni limiti all'autonomia delle parti, che decidono le condizioni di lavoro, ed assicurando in ogni caso un minimo vitale al lavoratore disoccupato.

(Centesimus annus, n. 15)

La sussidiarietà nel mondo dell’impresa

Nel contesto di questo discorso è utile osservare che l'imprenditorialità ha e deve sempre più assumere un significato plurivalente. La perdurante prevalenza del binomio mercato-Stato ci ha abituati a pensare esclusivamente all'imprenditore privato di tipo capitalistico da un lato e al dirigente statale dall'altro. In realtà, l'imprenditorialità va intesa in modo articolato. Ciò risulta da una serie di motivazioni meta-economiche. L'imprenditorialità, prima di avere un significato professionale, ne ha uno umano [98]. Essa è inscritta in ogni lavoro, visto come «actus personae», per cui è bene che a ogni lavoratore sia offerta la possibilità di dare il proprio apporto in modo che egli stesso «sappia di lavorare “in proprio”». Non a caso Paolo VI insegnava che «ogni lavoratore è un creatore». Proprio per rispondere alle esigenze e alla dignità di chi lavora, e ai bisogni della società, esistono vari tipi di imprese, ben oltre la sola distinzione tra «privato» e «pubblico». Ognuna richiede ed esprime una capacità imprenditoriale specifica. Al fine di realizzare un'economia che nel prossimo futuro sappia porsi al servizio del bene comune nazionale e mondiale, è opportuno tenere conto di questo significato esteso di imprenditorialità. Questa concezione più ampia favorisce lo scambio e la formazione reciproca tra le diverse tipologie di imprenditorialità, con travaso di competenze dal mondo non profit a quello profit e viceversa, da quello pubblico a quello proprio della società civile, da quello delle economie avanzate a quello dei Paesi in via di sviluppo.

(Caritas in veritate, n. 41).

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Considerando le tematiche relative al rapporto tra impresa ed etica, nonché l'evoluzione che il sistema produttivo sta compiendo, sembra che la distinzione finora invalsa tra imprese finalizzate al profitto (profit) e organizzazioni non finalizzate al profitto (non profit) non sia più in grado di dar conto completo della realtà, né di orientare efficacemente il futuro. In questi ultimi decenni è andata emergendo un'ampia area intermedia tra le due tipologie di imprese. Essa è costituita da imprese tradizionali, che però sottoscrivono dei patti di aiuto ai Paesi arretrati; da fondazioni che sono espressione di singole imprese; da gruppi di imprese aventi scopi di utilità sociale; dal variegato mondo dei soggetti della cosiddetta economia civile e di comunione. Non si tratta solo di un « terzo settore », ma di una nuova ampia realtà composita, che coinvolge il privato e il pubblico e che non esclude il profitto, ma lo considera strumento per realizzare finalità umane e sociali. Il fatto che queste imprese distribuiscano o meno gli utili oppure che assumano l'una o l'altra delle configurazioni previste dalle norme giuridiche diventa secondario rispetto alla loro disponibilità a concepire il profitto come uno strumento per raggiungere finalità di umanizzazione del mercato e della società. È auspicabile che queste nuove forme di impresa trovino in tutti i Paesi anche adeguata configurazione giuridica e fiscale. Esse, senza nulla togliere all'importanza e all'utilità economica e sociale delle forme tradizionali di impresa, fanno evolvere il sistema verso una più chiara e compiuta assunzione dei doveri da parte dei soggetti economici. Non solo. È la stessa pluralità delle forme istituzionali di impresa a generare un mercato più civile e al tempo stesso più competitivo.

(Caritas in veritate, n. 46)

La sussidiarietà nelle politiche familiari

Il compito sociale delle famiglie è chiamato ad esprimersi anche in forma di intervento politico: le famiglie, cioè, devono per prime adoperarsi affinché le leggi e le istituzioni dello Stato non solo non offendano, ma sostengano e difendano positivamente i diritti e i doveri della famiglia. In tal senso le famiglie devono crescere nella coscienza di essere «protagoniste» della cosiddetta «politica familiare» ed assumersi la responsabilità di trasformare la società: diversamente le famiglie saranno le prime vittime di quei mali, che si sono limitate ad osservare con indifferenza.

(Familiaris consortio, n. 44)

Certamente la famiglia e la società hanno una funzione complementare nella difesa e nella promozione del bene di tutti gli uomini e di ogni uomo. Ma la società, e più specificamente lo Stato, devono riconoscere che la famiglia è «una società che gode di un diritto proprio e primordiale» (« Dignitatis Humanae», 5), e quindi nelle loro relazioni con la famiglia sono gravemente obbligati ad attenersi al principio di sussidiarietà.

In forza di tale principio lo Stato non può né deve sottrarre alle famiglie quei compiti che esse possono ugualmente svolgere bene da sole o liberamente associate, ma positivamente favorire e sollecitare al massimo l'iniziativa responsabile delle famiglie. Convinte che il bene della famiglia costituisce un valore indispensabile e irrinunciabile della comunità civile, le autorità pubbliche devono fare il possibile per assicurare alle famiglie tutti quegli aiuti - economici, sociali, educativi, politici, culturali - di cui hanno bisogno per far fronte in modo umano a tutte le loro responsabilità.

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(Familiaris consortio, n. 45).

La sussidiarietà del potere politico internazionale

Manifestazione particolare della carità e criterio guida per la collaborazione fraterna di credenti e non credenti è senz'altro il principio di sussidiarietà, espressione dell'inalienabile libertà umana. La sussidiarietà è prima di tutto un aiuto alla persona, attraverso l'autonomia dei corpi intermedi. Tale aiuto viene offerto quando la persona e i soggetti sociali non riescono a fare da sé e implica sempre finalità emancipatrici, perché favorisce la libertà e la partecipazione in quanto assunzione di responsabilità. La sussidiarietà rispetta la dignità della persona, nella quale vede un soggetto sempre capace di dare qualcosa agli altri. Riconoscendo nella reciprocità l'intima costituzione dell'essere umano, la sussidiarietà è l'antidoto più efficace contro ogni forma di assistenzialismo paternalista. Essa può dar conto sia della molteplice articolazione dei piani e quindi della pluralità dei soggetti, sia di un loro coordinamento. Si tratta quindi di un principio particolarmente adatto a governare la globalizzazione e a orientarla verso un vero sviluppo umano. Per non dar vita a un pericoloso potere universale di tipo monocratico, il governo della globalizzazione deve essere di tipo sussidiario, articolato su più livelli e su piani diversi, che collaborino reciprocamente. La globalizzazione ha certo bisogno di autorità, in quanto pone il problema di un bene comune globale da perseguire; tale autorità, però, dovrà essere organizzata in modo sussidiario e poliarchico , sia per non ledere la libertà sia per risultare concretamente efficace.

(Caritas in veritate, n. 57)

Per il governo dell'economia mondiale; per risanare le economie colpite dalla crisi, per prevenire peggioramenti della stessa e conseguenti maggiori squilibri; per realizzare un opportuno disarmo integrale, la sicurezza alimentare e la pace; per garantire la salvaguardia dell'ambiente e per regolamentare i flussi migratori, urge la presenza di una vera Autorità politica mondiale, quale è stata già tratteggiata dal mio Predecessore, il Beato Giovanni XXIII. Una simile Autorità dovrà essere regolata dal diritto, attenersi in modo coerente ai principi di sussidiarietà e di solidarietà, essere ordinata alla realizzazione del bene comune, impegnarsi nella realizzazione di un autentico sviluppo umano integrale ispirato ai valori della carità nella verità. Tale Autorità inoltre dovrà essere da tutti riconosciuta, godere di potere effettivo per garantire a ciascuno la sicurezza, l'osservanza della giustizia, il rispetto dei diritti. Ovviamente, essa deve godere della facoltà di far rispettare dalle parti le proprie decisioni, come pure le misure coordinate adottate nei vari fori internazionali. In mancanza di ciò, infatti, il diritto internazionale, nonostante i grandi progressi compiuti nei vari campi, rischierebbe di essere condizionato dagli equilibri di potere tra i più forti. Lo sviluppo integrale dei popoli e la collaborazione internazionale esigono che venga istituito un grado superiore di ordinamento internazionale di tipo sussidiario per il governo della globalizzazione e che si dia finalmente attuazione ad un ordine sociale conforme all'ordine morale e a quel raccordo tra sfera morale e sociale, tra politica e sfera economica e civile che è già prospettato nello Statuto delle Nazioni Unite.

(Caritas in veritate, n. 67)

L'aiuto internazionale proprio all'interno di un progetto solidaristico mirato alla soluzione degli attuali problemi economici dovrebbe piuttosto sostenere il consolidamento di sistemi costituzionali, giuridici, amministrativi nei Paesi che non godono ancora pienamente di questi beni. Accanto agli aiuti economici, devono esserci quelli volti a rafforzare le garanzie proprie dello Stato di diritto, un sistema di ordine pubblico e di carcerazione efficiente nel rispetto dei diritti umani, istituzioni veramente

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democratiche. Non è necessario che lo Stato abbia dappertutto le medesime caratteristiche: il sostegno ai sistemi costituzionali deboli affinché si rafforzino può benissimo accompagnarsi con lo sviluppo di altri soggetti politici, di natura culturale, sociale, territoriale o religiosa, accanto allo Stato. L'articolazione dell'autorità politica a livello locale, nazionale e internazionale è, tra l'altro, una delle vie maestre per arrivare ad essere in grado di orientare la globalizzazione economica. È anche il modo per evitare che essa mini di fatto i fondamenti della democrazia.

(Caritas in veritate, n. 41)

Gli stessi Organismi internazionali dovrebbero interrogarsi sulla reale efficacia dei loro apparati burocratici e amministrativi, spesso troppo costosi. Capita talvolta che chi è destinatario degli aiuti diventi funzionale a chi lo aiuta e che i poveri servano a mantenere in vita dispendiose organizzazioni burocratiche che riservano per la propria conservazione percentuali troppo elevate di quelle risorse che invece dovrebbero essere destinate allo sviluppo. In questa prospettiva, sarebbe auspicabile che tutti gli Organismi internazionali e le Organizzazioni non governative si impegnassero ad una piena trasparenza, informando i donatori e l'opinione pubblica circa la percentuale dei fondi ricevuti destinata ai programmi di cooperazione, circa il vero contenuto di tali programmi, e infine circa la composizione delle spese dell'istituzione stessa.

(Caritas in veritate, n. 46)