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Il riformismo dopo dieci anni di PD Dopo dieci anni di iscrizione al PCI nel 1980 ero convinto di essere parte di una esperienza destinata all’insuccesso, ero insomma molto più pessimista e deluso di quanto non sia oggi del PD. Oggi mi chiedo ma la fondazione del partito democratico è stato un errore? Le ragioni che spinsero alla sua nascita sono ancora valide? Cosa c’è da aggiornare o cambiare? A mio parere ci sono almeno tre tipi di ragioni valide allora e valide ancor oggi la crisi istituzionale data soprattutto dalla insufficienza di quella che siamo soliti definire prima Repubblica una crisi delle forme della rappresentanza politica (chi vive di politica) diciamo dei partiti, della loro capacità di tenere insieme società e funzionamento delle istituzioni una terza crisi che potremmo dire legata ai grandi cambiamenti sociali, culturali e tecnologici che possono essere inclusi in un ventaglio di esperienze che vanno dalla secolarizzazione alla digitalizzazione della società, dall’avvento della cosiddetta democrazia del pubblico alla società dell’auto comunicazione di massa. A queste tre crisi i fondatori (o meglio il complicato processo che portò alla sua fondazione) risposero con tre obiettivi qualificanti riforma costituzionale in senso maggioritario con un’attenzione data più sul governare che sul rappresentare (questione ancora del tutta aperta dopo il referendum del 2016 e oggi attualissima a livello della governance europea) rilegittimazione dei rappresentanti politici e riconoscimento del ruolo del leader (segretario e candidato premier) attraverso forme di coinvolgimenti degli elettori (quello che abbiamo chiamato forse impropriamente primarie) la cosiddetta vocazione maggioritaria: una strategia politico-elettorale coerente con i primi due obiettivi.

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Il riformismo dopo dieci anni di PD

Dopo dieci anni di iscrizione al PCI nel 1980 ero convinto di essere parte di una esperienza destinata all’insuccesso, ero insomma molto più pessimista e deluso di quanto non sia oggi del PD.

Oggi mi chiedo ma la fondazione del partito democratico è stato un errore? Le ragioni che spinsero alla sua nascita sono ancora valide? Cosa c’è da aggiornare o cambiare?

A mio parere ci sono almeno tre tipi di ragioni valide allora e valide ancor oggi

la crisi istituzionale data soprattutto dalla insufficienza di quella che siamo soliti definire prima Repubblica

una crisi delle forme della rappresentanza politica (chi vive di politica) diciamo dei partiti, della loro capacità di tenere insieme società e funzionamento delle istituzioni

una terza crisi che potremmo dire legata ai grandi cambiamenti sociali, culturali e tecnologici che possono essere inclusi in un ventaglio di esperienze che vanno dalla secolarizzazione alla digitalizzazione della società, dall’avvento della cosiddetta democrazia del pubblico alla società dell’auto comunicazione di massa.

A queste tre crisi i fondatori (o meglio il complicato processo che portò alla sua fondazione) risposero con tre obiettivi qualificanti

riforma costituzionale in senso maggioritario con un’attenzione data più sul governare che sul rappresentare (questione ancora del tutta aperta dopo il referendum del 2016 e oggi attualissima a livello della governance europea)

rilegittimazione dei rappresentanti politici e riconoscimento del ruolo del leader (segretario e candidato premier) attraverso forme di coinvolgimenti degli elettori (quello che abbiamo chiamato forse impropriamente primarie)

la cosiddetta vocazione maggioritaria: una strategia politico-elettorale coerente con i primi due obiettivi.

Bisogna però aggiungere un evento che ha fortemente condizionato primi dieci anni del PD cioè la crisi economico finanziaria che ha travolto la società occidentale proprio negli stessi anni.

Ma la crisi non ha reso meno attuali le ragioni di fondative: governabilità, alternanza competitiva, nel sistema politico e leadership (leader/premier) contendibile, primarie e vocazione maggioritaria nel partito.

È indiscutibile, però, che proprio l’obiettivo più ambizioso che il PD si proponeva quello della riforma delle regole del gioco (riforma costituzionale e legge elettorale) non è stato raggiunto. Perché è successo?

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Una delle critiche (quella sulla quale mi interesse riflettere) è di non essere stato in grado di produrre una cultura politica e un gruppo dirigente che sapessi portare avanti.

Insomma, i limiti dello amalgama sarebbero soprattutto sul versante della elaborazione “culturale”, tornano così termini come “battaglia delle idee” o, addirittura, egemonia.

Solo di passaggio diciamo che è interessante il fatto che per questi limiti si critichino gli ultimi tre anni o quattro piuttosto che i primi sei o sette.

La critica maggiore che viene fatta quindi è che Matteo Renzi (segretario e premier) non abbia saputo attrezzare il partito democratico con una cultura politica appropriata da qui la mancanza o debolezza dei gruppi dirigenti a tutti livelli anche locale.

In questa visione la forza di un’organizzazione la sua capacità di raggiungere consapevolmente gli obiettivi che si propone viene legata alla cultura che essa incarna, cioè a quel modo di vedere e di sentire le cose che permette di agire in maniera efficace. In questa visione cultura e organizzazione sono un tutt’uno. Senza una cultura appropriata non sarebbe quindi possibile un’azione efficace. Quindi l’attività del governo non sarebbe stata accompagnata o sostenuta dalla costruzione di un adeguato supporto culturale. Qui starebbe la debolezza del processo riformatore, le cosiddette riforme dall’alto o non sostenute dal popolo!

Ci sarebbe da chiedersi se un obiettivo del genere sia realistico se non vi sia ancora una forte permanenza del ruolo prometeico del partito, cioè di quella forma di rappresentanza la cui insufficienza era stata riconosciuta dai fondatori stessi del PD.

Ma è poi realistico proporre che un partito che voglia raccogliere un consenso ampio possa, nel nostro tempo, elaborare una weltanshaung, un’ideologia condivisa? Questo non è in contrasto proprio con il riconoscimento della necessità del leader come semplificatore di complessità e unificatore di diverse visioni? Della scelta a favore di un partito post o pluri ideologico, centrato sulle policies invece che sulla politics?

Ciò detto, questi 10 anni hanno portato dei benefici o no? La mia risposta è decisamente favorevole.

Sono convinto che Matteo Renzi (forse anche suo malgrado o sviluppando un diverso percorso politico culturale) abbia permesso alla minoranza riformista “di governo” presente nella sinistra italiana di svolgere un ruolo che mai aveva potuto svolgere. La domanda che mi pongo è se che questa area, che è presente da prima della affermazione di Renzi e che lo sarà probabilmente in seguito, ha preso consapevolezza di ciò, si è data una cultura e una organizzazione conseguenti. I democratici si stanno attrezzando alla fase successiva alla ascesa di Renzi cioè all'istituzionalizzazione, si stanno attrezzando a consolidare la cultura "democratica"?

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Bisogna riconoscere che l’esito del referendum del 4 dicembre 2016 ha però avviato una oscillazione negativa (per ricordare l’insegnamento di A.O. Hirshmann). Il pendolo sta tornando indietro su alcuni punti qualificanti che potevano sembrare acquisiti con la costruzione del PD.

Per esempio non pare che l’idea di un partito aperto che trova le proprie forme di legittimazione dei gruppi dirigenti nella partecipazione degli elettori sia una strada che si voglia ancora perseguire e proseguire con l’entusiasmo e la convinzione iniziali. Capisco i limiti e alcuni fallimenti ma non mi paiono tali da rimettere tutto in discussione e rilanciare l’idea di un partito di militanti (come pare vogliano fare gli animatori della scissione e della nascita di MDP). Ad esempio, se la selezione dei candidati al Parlamento si dovrà o vorrà fare senza coinvolgere gli elettori la procedura non dovrà lasciare spazio alla messa in discussione della legittimazione “primaria” del segretario-candidato premier.

La rilegittimazione delle rappresentanze politiche non solo non è ancora avvenuta ma non mi pare nemmeno iniziata. E credo che far apparire le decisioni relative alle liste come frutto della elaborazione di un gruppo ristretto sia rischiosa.

Infine, con la giustificazione del ritorno al proporzionale temo che si torni indietro anche su un nodo di cultura politica, la cosiddetta vocazione maggioritaria. Temo che si sia affievolita la spinta a parlare a tutti o almeno ai più. E dietro questo affievolimento vedo la maggiore timidezza nella difesa del termine democratico e una subalternità al termine sinistra.

Democratico è un insieme più ampio di sinistra. Democratico contiene e può contenere la sinistra ma non viceversa. Vorrei che i democratici si definissero orgogliosamente democratici e non sempre con formule da coda di paglia come centrosinistra. Non mi pare convincente o utile accogliere l’idea che “l’essere di sinistra” sia il metro della validità delle politiche che si mettono in atto.

Spesso a sostegno di questo atteggiamento c’è l’accettazione troppo passiva di un’interpretazione del voto e soprattutto dei sondaggi che sostiene che l’allargamento a 360° gradi del consenso non sia possibile mentre sarebbe possibile solo non perdere o recuperare elettori dall’astensione.

L’obiettivo di allargare i consensi oltre lo schieramento di chi ritiene importante definirsi di sinistra dovrebbe rimanere un caposaldo della nuova offerta politica rappresentata dal PD.

Quindi a mio parere non è stato ancora radicato a sufficienza nella cultura politica del PD un elemento fondamentale della vocazione maggioritaria cioè che è più forte una cultura politica (quindi un’organizzazione) che si propone di trovare al proprio interno le proposte di governo in grado di raggiungere la maggioranza dei cittadini elettori e sulle quali possono convergere le diverse visioni riformatrici.

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Va fino in fondo superata l’idea, proporzionalistica, di un partito che per avere più voti avanza proposte divisive a un insieme anche piccolo ma coeso di elettori che condividono una visione di per sé semplificata e semplificatrice della realtà. Va fino in fondo superata l’idea di un partito che fa proposte divisive agli elettori per ottenere voti che certo permetteranno di contrattare scelte di governo in parlamento ma saranno necessariamente soluzioni assai diverse da quelle sulle quali si sono chiesti i voti. E si continua a non capire che all’origine della disaffezione elettorale c’è assai probabilmente anche questa specificità dei sistemi elettorali proporzionali: per avere i voti si propone una cosa ma per governare se ne deve fare un’altra.

È chiaro che questa prospettiva è più aderente a regole elettorali di tipo proporzionale e potrebbe essere ritenuta più appropriata alla legge Rosato ma l’orizzonte maggioritario va difeso perché è una ragion d’essere del PD.

Il riportare sempre da parte di Matteo Renzi, in qualunque polemica, alla dimensione del governo, delle policie,s è uno degli elementi di forza della esperienza di questi anni. Ma questo modo di fare va sostenuto con un pensiero forte, non deve apparire la soluzione pratica di corto respiro ma il frutto di un ragionamento di lungo respiro. Un ragionamento che si basa su una scelta culturale forte che ha radici profonde nel pensiero politico liberaldemocratico e nel pragmatismo.

Cercare di raccogliere il maggior consenso possibile sulle policies e non sulla politics significa avere un pensiero forte non debole. Scegliere di non avere una sola ideologia significa costruire un’identità politica nuova e soprattutto più adatta alla complessità crescente della nostra società. Una posizione culturale che ha metabolizzato il ‘900 che riconosce che le “verità” nel campo politico e sociale sono tutte provvisorie e cangianti. E non sono tutte sempre attribuibili a una corrente di pensiero. Che non crede che ci sia una idea che spieghi tutto! E quindi non faccia ricorso all’evocazione di valori non negoziabili!

Vocazione maggioritaria era e dovrebbe rimanere l'ambizione di costruire un partito post ideologico, plurale o almeno non mono ideologico. Io preferisco non ideologico intendendo per ideologia quello che sosteneva Arendt (pensare che una sola idea basti a spiegare ogni cosa nello svolgimento dalla sua premessa e che nessuna esperienza possa insegnare alcunché dato che tutto è compreso in un processo coerente di deduzione logica). Un partito che ambendo a raccogliere i voti necessari per governare si propone di trovare al proprio interno le convergenze di visioni necessarie per quell’obiettivo, un partito che si rivolge ai più parlando delle questioni che oggi sono sul tavolo delle decisioni da prendere per rispondere alle aspettative delle persone.