DIECI e VENTICINQUE, un anno dopo

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Numero 11 dicembre 2012 (DIECIeVENTICINQUE un anno dopo)

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La redazione:

[email protected]

http://www.diecieventicinque.it/ 1968

Pag. 10 Lettera aperta al Ministro Corrado Passera

Pag. 9 Bologna: tra ma!e e Antima!a di Salvo Ognibene

Pag. 7 2012: La !ne del Mondo? Parte Dall’Italia. di Sara Spartà

Pag. 3 DIECIeVENTICINQUE

Pag. 8 Nostalgia you are funny di Diego Ottaviano

Pag. 4 - 5 Siciliani giovani, a che punto siamo di Riccardo Orioles Pag. 6 “Non ho niente da dirti” di Laura Pergolizzi

Pag. 11 Perchè l'unione Europea! di Federico Ticchi Pag. 12 Impressioni post gay pride di Beniamino Piscopo

Pag. 14 - 15 Dove eravamo?....adesso siamo qui di Valeria Grimaldi

Pag. 18 - 19 Sosteniamo I Siciliani giovani di Salvo Ognibene

Pag. 13 Quella tomba non più anonima di Giulia Silvestri

Pag. 16 - 17 Pane e ammoniaca di Novella Rosania

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Piazza Fontana, Portella della Ginestra,

Piazza della Loggia. Siamo tutti ragazzi

che non hanno vissuto quei momenti ma

che sentono una responsabilità ed una

memoria storica su quanto accaduto che

non può e non deve essere dimenticata. E

probabilmente siamo consapevoli che si

tratta di una memoria volutamente e

dolosamente, dimenticata: perché

ricordare non può che far risalire a galla

la verità e questa fa paura. L'Italia è un

paese con la fobia per la verità e tenta in

tutti i modi di ostacolarla perché è cruda,

è violenta, è disumana. E in questo modo

si ostacola anche chi, con quei pochi

strumenti che ha a disposizione, tenta di

imprimerla con l'inchiostro. Una giustizia

che arranca ma riesce sempre ad

avanzare, nella stanza della verità. "Si è

costruita una verità non vera per una

giustizia non giusta. E quando si è

costretti ad aggiungere aggettivi alle

parole verità e giustizia, vuol dire che c'è

qualcosa che non funziona".

L'ingranaggio scricchiola, stride. Si sente

che è arrugginito, e non si riesce a

smuoverlo perché i pezzi non riescono a

combaciare tra loro. Noi non abbiamo

paura di rimettere in moto questo

meccanismo. Siamo guidati dal trinomio

indissolubile di verità, giustizia e libertà:

se viene a mancare uno degli elementi

non si può parlare di democrazia. E

l'Italia è una giovane democrazia, che noi

di Dieci e Venticinque, vogliamo

contribuire a maturare.

DIECIeVENTICINQUE è un simbolo, è

un orologio interrotto con quelle ferme

lancette che stiamo provando a rimettere

in moto. Quell'orologio è l’immagine di

una Storia, che ci fonde e che da nord a

sud ci rende uguali, facendo rete. Fare

rete, insieme, in questo cammino fatto di

etica e verità così che quelle lancette

possano ricominciare a girare.

Vogliamo essere militanti, attori non

spettatori.

[email protected]

come centro culturale di dibattito

socio-politico alimentato da studenti quali

noi siamo. Vogliamo dare voce e

diffondere notizie su uno snodo cruciale

della nostra nazione che ancora oggi

fatica nel rendersi conto che la mafia c'è,

esiste anche qui. Una mafia di appalti e

cemento, una mafia di soldi e non di

lupare; silenzi e connivenze che

rimbalzano sui muri delle imprese e non

in casolari sperduti delle campagne

corleonesi.

Il nostro obiettivo è quello di informare o

semplicemente offrire spunti di riflessione

a chi ci legge, ma a sua volta chi ci legge

può offrire suggerimenti collaborando

con noi, o richiedendo di approfondire

delle tematiche e analizzarle da un punto

di vista diverso.

La nostra prima casa è ovviamente

Bologna, la città che ci ha accolto nel

nostro percorso universitario e di vita, e

per questo vogliamo difenderla, aiutarla,

creando una realtà che possa giovare a

tutti: una realtà dove chiunque può

inserirsi per dare il suo contributo.

La nostra casa madre sono I Siciliani

Giovani; un'altra casa è Telejato.

L’appoggio e il sostegno di professionisti

e maestri come Riccardo Orioles e Pino

Maniaci. Due uomini che nel loro piccolo

hanno dato vita ad un microcosmo

incontaminato dai grandi interessi e la

grande informazione (spesso più nociva

che utile), con il solo scopo di fare vera

informazione, di parlare con i lettori e i

telespettatori senza mezzi termini, con la

sola forza della verità che è l'arma più

potente e dissacrante che possa esistere.

Per questo minacciati o ostacolati nel

loro lavoro perché puro e schietto: per

invidia nel voler essere come loro, e per

paura di non essere all'altezza di farlo.

Una lancetta sul 10, una sul 25. La strage

di Bologna del 2 Agosto 1980 è il punto

d'inizio di un disegno che ci apprestiamo

a compiere. Troppe lancette si sono

fermate, troppe sono ancora ferme: un

boato, un colpo di pistola, un esplosione.

Luoghi, giorni, minuti che hanno segnato

l'intera storia del nostro Paese. Le 17:58

di Capaci, le 16:58 di Via D'Amelio,

'DIECIeVENTICINQUE' nasce dalla

necessità di fare un giornalismo diverso.

Un giornalismo che sia una missione e

un’eredità.

Lo spirito che contraddistingue questo

progetto è la volontà di costruire una

palestra di idee che abbia come strumento

principale l’informazione e come

obiettivo ultimo l’informazione stessa.

Il 31 marzo 1962 la parola mafia entra

per la prima volta nelle case degli italiani

attraverso la televisione. Per la prima

volta i nomi di Riina, Liggio, Provenzano

diventano nomi di cosa nostra, diventano

un problema di tutti. Tutto questo grazie a

Enzo Biagi. Singolare che un giornalista

bolognese si interessi così tanto di mafia

in una terra, l'Emilia, che è così lontana

dalla assolata Sicilia, dalla mafia

siciliana. Invece Biagi, forse, aveva già

capito quello che noi cinquant'anni dopo

ci ritroviamo davanti ai nostri occhi.

Noi di Diecieventicinque abbiamo

provato ad assorbire l'eredità lasciataci

da Enzo Biagi. Come abbiamo provato a

fare nostro l'insegnamento e la storia di

Giuseppe Fava. Bologna come Palermo.

Palermo come Bologna. Pezzi dello Stato

che segnano la storia, negativamente, tra

depistaggi, servizi segreti e piani oscuri.

DIECIeVENTICINQUE sulle orme de “I

Siciliani giovani”. Un popolo, un paese,

da sud a nord che lotta insieme

ricercando sempre la pubblica verità. Il

Nord come il Sud. La mafia. Una. In tutta

Italia.

Siamo nati il 7 dicembre del 2011, pochi

giorni prima dei nostri "Siciliani

giovani", giorno dell’arresto di Michele

Zagaria, ex primula rossa dei casalesi che

comandava la rete degli affari relativi al

cemento in Emilia-Romagna

egemonizzando anche le varie 'ndrine

locali presenti sul territorio.

Nati in una data casuale e felice che

segna in pieno il nostro cammino.

RETE Antimafia e impegno civile a

Bologna. Qui giù al nord dove la mafia

esiste e ancora non per tutti.

Arriviamo da realtà diverse, regioni

diverse, storie diverse, e focalizziamo i

tanti aspetti che ci accomunano nel

grande bacino che è Bologna. Bologna

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DIECIeVENTICINQUE

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trent’anni, di varie città d’Italia. Essi furono subito il cuore del giornale. In realtà, ciascuno di loro faceva già altri giornali (su carta o in rete) e aveva una sua storia precisissima alle spalle.Così fu naturale, già alle prime battute, vivere quest’avventura come una rete. Non era più un vascello, quel che prendeva il mare, ma una flottiglia di navi, barche e barchette. Non più “I Siciliani” ma un bel “Siciliani Giovani” che univa felicemente il passato e il futuro.

* * *Io sono vanitoso, e ne trassi vanto. Ma la verità è che questa bellissima idea non fu mia, ma mi piombò addosso per “colpa” dei ragazzi, ed io ebbi semplicemente il buon senso di lasciarmi portare.È vero che questo miscuglio di professionisti e di giovani, di veterani e di apprendisti, era nella nostra storia (Siciliani giovani degli anni ’80, Avvenimenti, l’Alba) e mia in particolare. Ma è anche vero che in ciascuno di questi casi l’idea non era mai di noi “vecchi” (e neanche mia) ma nasceva spontaneamente dai ragazzi.Essere qualcosa più di un giornale, dare fiducia ai giovani, unire “regolari” e garibaldini:questo da molti anni è il Dna dei Siciliani.Noi stessi, in origine, eravamo i “carusi di Fava”. E adesso che ho sessant’anni capisco quanta grandezza c’era, professionale e umana, in questo puntare spavaldamente su noi ragazzi.

* * *Così si arrivò alle scadenze successive.Ci fu una riunione (con l’avvocata Enza

www.isiciliani.it

di Riccardo Orioles

È un anno da quando è cominciata (o

sono trenta?) questa impresa. Dove siamo

arrivati, cosa resta da fare.

Il diavolo, come sapete, fa le pentole ma non i coperchi. La pentola che volevo fare io era di rifare senz’altro il nostro vecchio giornale, il nostro gloriosissimo Siciliani, coi compagni di allora e facendoci dare una mano da qualche ragazzo volenteroso. L’idea era completamente sballata (non si “rifà” mai qualcosa) ma, come vedremo, “ù signuruzzu aiuta i matti e i picciriddi”.Il giro dei vecchi amici - Vent’anni dopo – è stato emozionante. “Veramente sto facendo altre cose – ha detto D’Artagnan – Il re, la Fronda, il cardinale… Sapete, amico mio, che ora son capitano dei moschettieri, e spero di diventare maresciallo di Francia”. “Eh – ha sospirato Aramis – sarebbe bello sì. Fossimo come allora!”. “Voi al solito correte troppo – disse gravemente Porthos – Con chi vorreste fare una cosa del genere, con quali mezzi? Farete una cosa stentata, e la cattiva figura ricadrà sulla bandiera”.Non c’era alcunché da rispondere, a tali obiezioni sensate. Purtroppo la voce era già circolata (“Tornano i Siciliani!”) e tornare indietro avrebbe significato rischiare il linciaggio.

* * *L’idea dei Siciliani, in realtà, era nata in un piccolo studio catanese, quello dove il giudice Scidà, immobilizzato a letto ma tutt’altro che domo, conduceva con pochi

amici le sue battaglie (per cui lo aggrediscono ancora, anche ora che è morto). Fra una chiacchiera sulla Procura di Catania e una sul Mediterraneo di Braudel, non ricordo come buttò lì l’idea dei Siciliani: “Ma perché non li rifate?”. Non era il primo a chiederlo. Ma detto da lui era un’ altra cosa. Non fu difficile convincermi, su tale argomento.Si riparlò dei Siciliani un paio di mesi dopo, alla mensa di Libera all’assemblea di Firenze. Una gran sala piena di ragazzi: il nostro tavolo – con dalla Chiesa e Caselli, e accanto quello di don Ciotti – era fra i pochi di gente adulta e posata.Beh, forse posata non tanto, visto che l’idea dei Siciliani fu accolta come ovvia e giusta e con entusiasmo. Così, avevamo un gruppo dirigente (con Caselli, dalla Chiesa e Scidà c’era Giovanni Caruso, un “vecchio” del Giornale del Sud e poi del Gapa di Catania), il meglio dell’antimafia.Ma, e il giornale?

* * *Il giornale fu messo in piedi con un giro di telefonate ai vecchi amici cronisti (Mazzeo, Giacalone, Mirone, Orsatti, Finocchiaro, Baldo, Giustolisi…) che risposero subito e costituirono il “nucleo duro”. Dei veterani vennero pure Gubitosa, Feola, Fabio D’Urso, Jack Daniel, Biani;oltre a quelli che erano già al lavoro nella progettazione del giornale e del sito (Luca Salici e Max Guglielmino), senza cui tutta la baracca non sarebbe sopravvissuta un momento. E siamo partiti.Già dal numero zero, tuttavia, senza che io l’avessi veramente previsto, si unì una decina di giovani giornalisti, fra i venti e i

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Siciliani giovani, a che punto siamo

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Vogliamo una rete vera, utile, lenta da costruire, faticosa, concreta. Non un altro centro di potere o una nicchia. Ci si può arrivare (e comprenderla) solo a poco a poco, coi tempi di ciascuno, senza fretta.

* * *Vi chiederemo dei soldi, tanto per essere chiari, da qui a poche settimane. Non saranno le centinaia di milioni di Santoro (qui basta molto meno) ma resteranno soldi vostri. Noi non daremo via la baracca, terminati i proclami, a La7 o a qualcun altro.

Non siamo i migliori o i più infallibili, certamente. Ma i più liberi sì. L’andiamo dimostrando da trent’anni.

* * *‘Sta storia dei trent’anni, che camurria. Non per voi, certamente, che siete giovani e pensate ai trent’anni davanti. Quelli vecchi per voi sono solo una bella storia. Per me sono amici, passaggi, persone care col maledetto vizio di non esserci più. Certo: alla fine s’è vinto, ci siamo ancora. Ma è quell’ alla fine, l’amaro, pur nella felicità che (essendoci voi) non sia finita.

“Trent’anni fa, proprio di ‘sti giorni, mi

ricordo stavamo laavorando al primo

nuumero dei Siciliani. Eh, mica c’erano i

computer, a quei teempi. A maacchina da

scriivere, s’andava avanti…”.

Va bene, nonno Simpson, va bene…

leopardo (ancora in alcuni luoghi manchiamo), niente urla, nessuna distinzione fra sud e nord, indipendenza assoluta, scrittura buona, organizzazione faticosa ma tutto sommato (per ora) sufficiente.

Sì, ma come vanno le cose dietro le quinte? Davvero siete questa banda di puri e duri che vi vantate di essere?

No, niente affatto. La rete è un concetto molto difficile da digerire. In ogni momento c’è qualche nodo che sta funzionando e qualcun altro no. E fra quelli che funzionano, la maggior parte di solito pensa molto più ai problemi immediati propri che a quelli più generali della rete.

* * *Questo è assolutamente normale, non c’è da rimproverare nessuno, anche se con quel che accade in Italia, e quel che ancora deve accadere, di rete ci sarebbe bisogno più del pane. Difficilmente possiamo aspettarcela da leader e prime-donne vecchie e nuove. Nessuno sta puntando sui giovani, in realtà, né su qualche politica differente. È bipartisan, il precariato.

La rete, nel suo significato profondo, è una cosa nuovissima e ancora niente affatto “naturale”. Per rete finora s’intende un leader, alcune dichiarazioni “anti” e una folla di seguaci via facebook; e dei canali mediatici magari tecnicamente “alternativi” ma gestiti dall’alto.Non è quel che vogliamo.

Rando, di Libera) da Scidà, uno Scidà allegrissimo e scintillante. Ed esattamente un anno fa, al festival del Clandestino, fu diramata al mondo la lieta novella.A dicembre è uscito il numero zero, buono ma con una brutta copertina (mia); la seconda, di Luca Salici, era già migliore. Ma l’immagine definitiva, “moderna”, del giornale è stata raggiunta solo al terzo numero, con le copertine di Biani.Da allora il giornale è uscito regolarmente, da marzo sono arrivati i primi ebook (per noi tanto importanti quanto il giornale). Invece siamo rimasti indietro nell’edizione su carta (la società editrice restò impantanata negli innumerevoli impegni, da noi non ben valutati, dei nostri amici) e il primo numero in edicola arriverà solo fra un mese e mezzo, a settembre inoltrato.Abbiamo messo in piedi una prima struttura editoriale (provvisoria, per gestire le urgenze), e durante l’autunno definiremo la struttura definitiva, in cui dovranno essere rappresentati tutti i nodi locali (gruppi, giornali e siti) dei nostri amici.Sarà una struttura di rete, “federativa”, sia sul piano d’azienda che su quello redazionale.Non avrà, neanche stavolta, dei padroni alle spalle ma conterà sulla solidarietà delle persone civili. E questo, come capite bene, è già un pre-appello.

* * *Il lavoro che abbiamo fatto l’avete visto; a me non sembra del tutto indegno dell’obiettivo (certo, l’asticella è posta molto in alto). Inchieste a macchia di

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Barcellona Pozzo di Gotto che mi avrebbe mostrato i danni dell’alluvione.Devo deluderli, non sono io la persona che cercano.Una donna mi dice di non aver niente da dire perché è stanca di protestare senza ottenere nulla, perché era dal ’92 che volevano levarli questi treni, da quando si era trasferita a lavorare a Milano. E suo marito mi conferma che non ha niente da dirmi perché era troppo occupato a pensare come organizzarsi i week end per andare a trovarla, la moglie.Un uomo, si scusa per non poter avere niente da dirmi. Ha il figlio che lavora in stazione, e non vuole creargli eventuali problemi.C’è chi nega che questa notizia sia vera , e chi mi ha ringraziato per quello che stavo facendo.Venti interviste una risposta. Non ho niente da dirti.E non si tratta di quell’apatia che alcuni ci addebitano. Non di quella rassegnazione con cui altri ci dipingono. C’è qualcosa di diverso in questi volti. C’è la certezza assoluta che la voce non ha più una forza sufficiente. Che è meglio sprecare il fiato per garantirci i servizi minimi essenziali, prima che ci tolgano anche quelli, piuttosto che per un treno necessario, ma non troppo.E’ la paura di restare delusi nel prendere parte ad una battaglia a perdere.Ci fanno quello che vogliono, questo ripetono. E se ieri si chiamava Ponte sullo Stretto oggi si chiama treno notte, e domani?

di Laura Pergolizzi

Messina. Stazione Centrale, ore 19 e 10. Il treno 1930 partirà tra 20 minuti. Parte dei vagoni arrivano da Palermo, gli altri da Siracusa. Qui vengono agganciati. Insieme salperanno per lo stivale attraversando lo Stretto di Messina. Arrivati a Villa S.Giovanni, saluteranno Gioia Tauro, Rosarno, Vibo Valentia, Lamezia Terme, Paola, Sapri, Firenze Campo di Marte, Bologna Centrale, Ferrara, Rovigo, Terme euganee- Abano Montegrotto, Padova, Venezia Mestre, Venezia Santa Lucia, semivuoti, come non lo erano mai stati in tutti questi anni di corse all’ultimo biglietto.Molti vagoni sono spenti, alcuni chiusi. Le lenzuola che serviranno per preparare i letti della notte sono sistemati in una cabina perché non c’è nessuno a poterli distribuire. La maggior parte degli addetti è a Roma a chiedere il perché di una decisione dannosa tanto per loro quanto per i passeggeri di tutta l’Italia. Levano i treni…L’hanno detto tante volte. Oggi forse è vero.Senza alcuna telecamera, ma con un foglio strappato dal quaderno in mano, una penna, e la faccia da ventenne alle prime armi, mi avvicino alle persone. “Scusi?Lo sa che dall’undici dicembre ci saranno degli importanti tagli ai trasporti notturni?”Un uomo sulla cinquantina mi chiede per quale giornale lavorassi, perché se fossi stata di una testata nazionale aveva da dirmi che a maggior ragione non aveva niente da dirmi, perché “noi” li avevamo semplicemente abbandonati.Un altro, pensando io sia una de le Iene mi invita ad andare a casa sua a

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“Non ho niente da dirti”Intervista senza voce

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è inaccettabile, che è sconcertante e che riguarda tutte le testate giornalistiche nazionali con e senza finanziamenti pubblici che tace. Tace spudoratamente. Una classe dirigente assente, intellettuali piegati al potere, il potere piegato alla politica, la politica piegata, e basta. So bene che è rischioso, poco opportuno e poco diplomatico lanciare questa mozione di sfiducia generale. Ma io lo faccio lo stesso, alla Pasolini maniera, è chiaro. La lancio contro tutti quelli che rappresentano il potere, o una fetta piccola di questo, anche in quei un paesi che sembrano dimenticati dal mondo e che invece spiccano nelle mappe d’oltreoceano. La lancio contro quelli che hanno appena intascato la mazzetta, a chi lo farà a breve, e a chi non lo ha mai fatto ma lo ha visto fare. La lancio a quelli che fanno le campagne antimafia e per la legalità, le marce per la pace e contro la violenza sui popoli e sui territori. La lancio a tutti personalmente, ai compari e a chi ne fa le veci. Bene. “Sono pronto a ritirare la mia mozione di sfiducia (anzi non aspetto altro che questo) solo quando un uomo politico - non per opportunità, cioè non perché sia venuto il momento, ma piuttosto per creare la possibilità di tale momento” - deciderà di rendere pubblici gli accordi presi, di fare i nomi di questo scempio, di rendere noto fino a che punto è illegale questo progetto, e se vuole, dire anche per quale cifra ha venduto la propria vita, quella di sua figlia e quella di milioni di altri siciliani, e magari, segreto di Stato permettendo, quanto hanno messo dentro la giarrettiera dell’Italia.

Orientale i lavori delle tre antenne stanno per essere completati asoli 7km dal centro abitato, oltretutto in un SIC (Sito di interesse Comunitario, una Riserva naturale) ; altri tre i siti di MUOS al mondo: Norfolk, Hawaii e Geraldton, zone per lo più isolate. Le onde emanate sono dannosissime per la salute umana, significano tumori, malformazioni ma non solo, in caso di puntamento errato del fascio anche una esposizione di soli 6 min provocherebbe danni irreparabili alla salute. Le frequenze sono altissime: raggiungono valori compresi tra i 244 e i 380 MHz. Talmente alte da poter essere connesse per analogia a quelle del c.d. HAARP, in Alaska, un programma supersegreto che sta eludendo qualsiasi controllo internazionale per la scoperta e la costruzione di armi geofisiche capaci di danneggiare satelliti e apparecchiature missilistiche nemiche nonché di produrre modificazioni ambientali (siccità, uragani, terremoti..). Una vera e propria arma di distruzione di massa che riceve segnali direttamente da casa nostra.*No, non è un episodio di guerre stellari, ma è qualcosa di maledettamente reale. Reale come la lotta, anonima e ostacolata, che si combatte in quel posto. Reale come la gente sfiduciata e ridotta alla sopravvi-venza che abbassa la testa. Reale come la classe politica corrotta e bigotta che ha reso possibile tutto questo e che coerente-mente al proprio ruolo non si scomoda e sta a guardare senza muovere un dito, da Roma passando per Palermo fino a Niscemi. Tutti voti andati nella spazzatura, appunto. Reale come il vuoto di cronaca e di informazione in Italia che

di Sara Spartà

È l’inizio di un nuovo anno. Uno di quelli però, che la bottiglia stenta ancora a stapparsi. La nostra Italia si prepara alle danze col proprio abito migliore ma lo strascico stavolta è più pesante e più logoro del solito. La crisi prospera e le famiglie si impoveriscono, più gente costretta a dormire per le strade per colpa dei soliti che dormono in Parlamento, meno iscritti nelle Università Pubbliche perché le tasse aumentano e le borse di studio diminuiscono, braccia forti e titoli di studio scappano oltre frontiera e ad entrare sono solo tonnellate di sporchi soldi pronti per essere ripuliti. Cosa c’è di nuovo in tutto questo, verrebbe da chiedersi. Il tanfo asfissiante di questo squallore è diventato talmente normale che ci ha completamente assuefatti. Doppiamente squallido. Eppure qualcosa di nuovo c’è in questo 2012, qualcosa che viene attentamente e scrupolosamente CENSURATO! Tra qualche mese dovrebbe entrare in funzione il Muos (Mobile User Objective System) un potentissimo ecomostro di antenne radar che la Marina Militare Statunitense, sotto le mentite spoglie di un sistema di telecomunicazioni satellitari, utilizzerà per ridisegnare i nuovi scenari di guerra mondiale. A Niscemi, nella Sicilia Sud

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2012: La fine del Mondo?Parte Dall’Italia.Ve la racconto io, in una parola: M U O S.

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Ebano d’Aprile senza bicicletta. Bologna ricorda un acquario affollato di pressioni, affollato di labirinti, affollato di gente che va, gente che viene, gente che alle 10 e 25 ancora osserva l’orologio con la probabilità negli occhi.

I treni in constante ritardo. I capelli da punk. I graffiti da cinema in lingua originale. Bologna è il respiro di chi ha imparato che vita e morte non sono la stessa cosa. Bologna è stato il mio walzer per quattro lunghi anni.

Lei mi ha reso l’attore principale della mia vita; mi ha trasformato in cantante d’ideologie; mi ha regalato maratone di portici e politica.

Bologna mi ha servito il coraggio per fotografare ricordi. Per incorniciare momenti. Questa vecchia signora mi ha portato una battuta olandese che da tre anni vive al mio fianco.

“Bologna ombelico di tutto, mi spingi a un singhiozzo e ad un rutto, rimorso per quel che m' hai dato, che è quasi ricordo, e in odor di passato...”

Bologna vita d’amore e killer di maschere, perchè in fondo come disse Mr. Mystery quando devi uccidere un uomo non ti costa nulla farlo educatamente.

Qualcuno aveva ragione:nostalgia you are funny.

di Diego Ottaviano

Non sentirsi attore. Non sentirsi cantante. Non correre alla maratona di New York. Non sparare a brucia pelo. Non sentirsi politico. Non esser in grado di cucinare. Non esser pittore. Non esser fotografo. Non essere meteora. Non consumarsi in borsa. Non consumare in borsa. Non portare la camicia. Non investire in trepidazioni. Non lasciarsi andare. Non cadere.

Esser scrittore. Scrivere di racconti, di esperienze, di balconi, di colli, di lune piene e sigarette che si spengono nell’abbraccio dell’aria. Sentirsi umano. Ricco di sbagli, ricco di parole. Vivere la propria moralità. Sfogliare le pagine di un libro. Pretendere che nelle sue pagine vi sia il saggio momento del proprio masticare. Giocare con le proprie emozioni. Incartare quelle degli altri. Scavalcare specchi. Ritrovarsi davanti ad un titolo e non sapere da dove iniziare. Il mio titolo si chiama Bologna. Il vostro titolo si chiamerà con il nome immaginato dai vostri occhi.

Bologna, dove l’anonimo danzare delle Torri degli Asinelli sposa un puzzle fatto di ombre e di portici. Dove il tempo sembra essersi fermato al ritmo di

Bregovich, al vociare del Professore ed al poetare di Fabrizio, unico modello di chi con napoletano ‘festeggiava’ la dura realtà di camorra e omertà italiana. L’unico che voltando una carta riempiva il cielo e le nuvole dei sogni di chi nella “Rossa Fetale” ha mosso i primi passi.

Bologna. Amica di persuasioni e di pioggia. Una paese ombrello. Un paese infossato nell’estremo amore di politiche latenti. Un giro di osterie e di mistici rulli di tamburi da Par Tot. Un punto croce di culture e violenze intellettuali.

Il tempo è volato, e mentre giro le spalle, mentre osservo una comitiva di studenti su ponti e canali, mentre palpeggio il suono dello spoglio di sentimenti e pensieri, il cuore si apre, si distende. Il mio ‘ego’ sorride. E’ credendo nel mito di Ray Charles scaldando il proliferare di archeologie che si ricordano pizze. Oggi è l’ingrassare di una valigia che ti riporta al soprano rumore di cani che abbaiano, di odori da circo e di sguardi aperti alla ricchezza. Bologna, dove la musica ha meritato il maturo teatro in un museo dell’opera d’arte, è vita a San Lazzaro, è silenzio di neve a Pianoro. Bologna è cuore.

Il vino rosso ancora riscalda il caffè alle scuderie dopo quell’esame passato con la lacrima tra le mani che dipinge il sapere di un prossimo lasciare. Bologna colei che mi ha reso studente di curiosità, mi ha regalato Amsterdam. Bologna, mai dimenticata, è oggi come un paio di scarpette appese al chiodo.

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Nostalgia you are funny

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Così a Giurisprudenza, nell’Università più vecchia d’Europa è nato un corso vero e proprio, “mafie e Antimafia”, della Prof.ssa Stefania Pellegrini. Un insegna-mento a scelta dello studente, un corso di 48 h diviso in due parti. Nella prima parte viene affrontato il fenomeno dal punto di vista storico, nella seconda gli studenti incontrano testimoni illustri della lotta alla criminalità organizzata, giudiziaria e sociale.Per tutta la durata del corso l’aula straripa di studenti che seguono con un’attenzione altissima.

In questo percorso ci siamo inseriti anche noi con DIECIeVENTICINQUE, un giornale on-line che prova a raccontare la realtà avendo come strumento principale l’informazione e come obiettivo ultimo l’informazione stessa.Tra le diverse e belle realtà presenti sul territorio si distingue l’associazione “Rete NoName - Antimafia in movimento”, nata quattro anni fa qui a Bologna e che, in collaborazione con la cattedra di “mafie e Antimafia” , studenti e personalità varie sta lavorando ad un nuovo dossier sulle mafie in Regione che sarà presentato il 9 maggio, giorno del 34esimo anniversario della morte di Peppino Impastato.Una rete, una piccola rete che crede fermamente che il cancro mafioso debba essere estirpato e non gli si debba concedere la possibilità di crescere ancora, soprattutto con le nuove gener-azioni.

Cari bolognesi, aprite gli occhi che di guai ne abbiamo fin troppi.

Casalesi, ‘ndranghetisti, russi, cinesi, rumeni, albanesi, nigeriani e chi più ne ha più ne metta.Bologna oramai da diversi anni ospita le diverse mafie “nostrane”, quelle con la Doc Italia e le molteplici mafie straniere, almeno 7. E’ passato più di mezzo secolo da quando la mafia entrò in questa regione, in punta di piedi, da “sorvegliata speciale”. Mafia che è cambiata, mafia che si è adattata alla pelle di questa città.Poco rumore, ma non troppo, e tanti affari. Le diverse mafie presenti sul territorio hanno raggiunto degli accordi tali da spartirsi affari e territorio senza pestarsi i piedi. In uno degli ultimi rapporti di Sos-Impresa Confesercenti emerge che il 5% dei Commercianti bolognesi è sottoposto a pizzo, non mancano le intimidazioni e gli attentati incendiari che per molti si chiamano autocombustione. Abbiamo assistito nell’ultimo anno a diversi arresti ed a molteplici operazioni delle Forze dell’Ordine.La regione ha varato un paio di leggi in materia ed il Comune lavora alla costituzione di un Osservatorio.20 beni e 18 aziende confiscate.“La lotta alla mafia dev'essere innanzi-tutto un movimento culturale” diceva Paolo Borsellino, l’antimafia giudiziaria allora non basta per contrastare il fenom-eno criminale, è necessaria un’antimafia sociale anche a Bologna, dove le mafie sono d’importazione. Parafrasando potremmo dire che le mafie si contrastano nelle “aule”, da quelle bunker e quelle universitarie, anche a Bologna.

di Salvo Ognibene

“Forse tutta l'Italia va diventando

Sicilia... A me è venuta una fantasia,

leggendo sui giornali gli scandali di quel

governo regionale: gli scienziati dicono

che la linea della palma, cioè il clima che

è propizio alla vegetazione della palma,

viene su, verso il nord, di cinquecento

metri, mi pare, ogni anno... La linea della

palma... Io invece dico: la linea del caffè

ristretto, del caffè concentrato... E sale

come l'ago di mercurio di un termometro,

questa linea della palma, del caffè forte,

degli scandali: su su per l'Italia, ed è già,

oltre Roma... “.

Così scriveva Leonardo Sciascia durante il 1961 nel “Il giorno della civetta”.

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Ph Salvo Ognibene

Bologna: tra mafie e Antimafia

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Al Ministro dello Sviluppo Economico e delle Infrastrutture e Trasporti Corrado Passera

Tra pochi giorni, il 9 maggio, ricorrerà il trentaquattresimo anniversario dell’uccisione mafiosa del giornalista Peppino Impastato. L’Italia intera si appresta a commemorare il coraggio di un giovane che, insieme ai suoi compagni, dai microfoni di “Radio Aut” denunciava senza paura gli interessi mafiosi, a Cinisi e oltreoceano, del boss Badalamenti. Senza omissioni o connivenze, con la sola arma della libertà e dell’ironia. Pagando la sua dedizione e il suo coraggio, con la vita. Oggi, a trentaquattro anni da quel 9 maggio 1978, molti altri cronisti e operatori dell’informazione seguono il suo esempio rischiando ogni giorno per poter svolgere a testa alta e schiena dritta il lavoro di giornalisti. Tra questi: Giuseppe Maniaci e la sua redazione di Telejato, emittente televisiva con sede a Partinico.

Ad oggi, Telejato rischia ogni giorno di essere spenta definitivamente dallo Stato. Sembra paradossale, ma una legge

della Repubblica porterebbe a quello che l’organizzazione criminale Cosa Nostra non è riuscita a fare. Da anni, infatti, la “televisione più piccola del mondo” trasmette “il tg più lungo del mondo” in una zona ad alta densità mafiosa (Alcamo, Partinico, Castellammare del Golfo, San Giuseppe Jato, Corleone, Cinisi, Montelepre) raggiungendo 22 comuni della Sicilia orientale, facendo informazione libera e denunciando il malaffare senza nascondersi. Proprio quest’attività sociale di denuncia è valsa al suo

volto e alla redazione, svariate querele, intimidazioni (le ultime, pochi giorni fa), aggressioni e attentati. Telejato è una televisione locale comunitaria. In conformità con la Legge Mammì (n. 223 del 6 agosto 1990), quindi, ha uno statuto di Onlus e non quello di una Tv commerciale. Di qui, il limite agli spot pubblicitari: solo 3 minuti ogni ora di trasmissione. A mettere a rischio

l’esistenza stessa di Telejato e l’incolumità dei suoi artefici, oltre alla mafia anche lo switch-off, il passaggio cioè dall’analogico al digitale nel mese di giugno in Sicilia.

Il governo Monti, nelle scorse settimane, ha messo fine alla beffa del “beauty contest” stabilendo il ricorso ad un’asta. Telejato, così come le altre 200 televisioni comunitarie, però, proprio per il suo status di televisione comunitaria e di onlus è priva

di un bilancio adeguato a partecipare all’asta, vedendo così inesorabilmente cancellata la sua possibilità di trasmissione. Noi ci chiediamo e Le chiediamo: il legislatore ha riflettuto sulle conseguenze dello spegnimento di Telejato? Telejato deve essere considerato un bene culturale, al pari di ogni altro monumento artistico italiano: se l’arte rinnova i popoli, anche la

controinformazione di Telejato in Sicilia può farlo. L’informazione può aiutare giovani e meno giovani a prendere coscienza

di quello che li circonda e a scegliere. La scelta contribuirà a migliorare una delle regioni d’Italia, da qui anche la nostra

Repubblica lo sarà.

Quello che in questa sede, come cittadini di uno Stato che dalla sua fondazione si ritiene uno stato democratico, vogliamo

portare alla Sua attenzione è il grave danno che sarà apportato al sistema informativo e al diritto alla libera informazione

dei cittadini.

Provvedere alla tutela delle televisioni comunitarie e locali affinché possano continuare a trasmettere e conservare il loro ruolo di strumento informativo locale. Bisogna assolutamente evitare che cali il silenzio e l’indifferenza sull’informazione

antimafia. Sarebbe un atto concreto importante delle istituzioni nella lotta alla criminalità e per la tutela della democrazia

del nostro Paese. In ultimo, vogliamo porre alla Sua attenzione un aspetto umano drammatico, crudo, scevro da retorica: la mafia uccide. La mafia non dimentica. La mafia colpisce più facilmente quando cala il silenzio e l’opinione pubblica si

distrae. L’informazione rappresenta il sistema immunitario dell’opinione pubblica: se calano le difese immunitarie è più

attaccabile. Ad essere uccisi sarebbero molte coscienze, ma prima d’ogni altro lo Stato italiano deve avere a cuore le sorti

dell’uomo e cittadino Pino Maniaci e dei suoi familiari.

Certi della Sua attenzione, rimaniamo in attesa di un Suo riscontro.

DIECIeVENTICINQUE I Siciliani Giovani Associazione Antimafie Rita Atria Cosimo Cristina (1960) Mauro De Mauro (1970) Giovanni Spampinato (1972) Peppino Impastato (1978) Mario Francese (1979) Giuseppe Fava (1984) Giancarlo Siani (1985) Mauro Rostagno (1988) Beppe Alfano (1993)

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Lettera aperta al Ministro Corrado Passera

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“Capire il presente per conoscere il

passato”. Questa era una delle frasi preferite del portoghese Josè Saramago, premio nobel per la letteratura nel 1998. “Il presente non è altro che il buco nero che, nel vortice in costante accelerazione di bisogni e preoccupazioni fittizie cui siamo costretti, risucchia inesorabile e impietoso il nostro vissuto, e di conseguenza le nostre basi per costruire un futuro stabile e dignitoso”.Quindi, per comprendere le dinamiche odierne, e per costruire un oggi stabile e dignitoso, è necessario catapultarsi nel passato, e capire come e soprattutto perché si è giunti all’oggi.

di Federico Ticchi

Lo stesso percorso va fatto per comprendere la natura dell’Unione Europea: come siamo giunti all’Unione Europea? E soprattutto, perché è stata creata l’Unione Europea?L’idea di Comunità Europea nasce a seguito della conclusione del secondo conflitto mondiale. Nel giro di trent’anni, il continente europeo ha visto consumarsi sul suo territorio ben due conflitti che ne hanno decimata la popolazione e distrutto interi territori. Crimini inspiegabili ed incomprensibili sono stati commessi, un odio inconcepibile aveva preso il sopravvento nel clima europeo. Era chiaro che dalle ceneri della seconda guerra mondiale non si sarebbe potuto risorgere attuando un’antitesi Vincitori vs Vinti, nella quale i primi avrebbero umiliato i secondi: atteggiamento già stato adottato al termine delle prima guerra mondiale, e tutti avevano ben evidente quale ne era stato il frutto. Affinché si potesse realizzare la “pace” nel nostro continente, bisognava creare una comunità che unisse i diversi popoli europei, che cancellasse gli odi e gli egoismi nazionali. L’idea dei padri fondatori era addirittura più progressista: la pace non solo in Europa, ma anche nel mondo, non poteva più reggersi sugli Stati nazionali, che

europei che avrebbero dovuto portare a termine. Numerose riforme in senso democratico sarebbero già dovuto essere state approvate. Oggi giorno, si sta confondendo il fine del disegno europeo. A causa dei disastri economici dei quali i nostri governanti sono stati complici, ci si dimentica del principio della solidarietà europea e tutto viene sottomesso al tema dell’economia. Numerosi Stati hanno chiesto l’ingresso nell’UE non perché ne condividono i fini politici, i valori fondanti dell’Unione, il raggiungimento dell’”Europa”, ma solo perché un’ eventuale adesione potrebbe portare numerosi vantaggi economici (questo prima della crisi). Ed è proprio per questo motivo, per questa mancanza di visione unitaria e solidale, che nell’attuale momento di grande crisi economica si prende in considerazione la possibilità di sciogliere l’UE, di svincolarsi dai limiti imposti dall’Unione, di espellere Stati membri dell’UE. Poiché i nostri governi non hanno insegnato ne insegnano una politica europea, oggigiorno non ci sentiamo europei, ed ognuno si fa i fatti suoi, come nelle peggiori ideologie individualiste. Sta alla nostra generazione rimettere in moto il motore dell’Unione Europea.

“La battaglia che dobbiamo fare è una battaglia di impegno perché ci sia un’Europa vera, un’Europa della democrazia, un’Europa del popolo.”

Altiero Spinelli,Manifesto di Ventotene.

venivano invece additati come i massimi responsabili del doppio conflitto mondiale.Monnet, Spinelli, Adenauer, De Gasperi, Spaak, Schuman : questi sono i nomi dei Padri Fondatori dell’Europa. Personalità politiche importantissime e decisive del secondo dopoguerra, che avevano ben chiaro come le sfide future, e la ricostruzione dei propri Stati, non potesse scindersi da una ricostruzione europea, da una visione unitaria ed unita del nuovo mondo in fieri. Questi erano i politici di sessant’anni fa, calo un velo pietoso sull’inettitudine nei nostri leaders attuali. Queste persone, che avevano vissuto sulla

propria pelle gli orrori di due guerre, avevano ben chiaro non solo l’obiettivo, ma anche come raggiungerlo. Consideravano impossibile partire da un’unione politica, perché la memoria delle guerre fra gli europei era troppo recente e i rancori, le diffidenze e gli odi erano ancora accesi. “L’Europa non verrà fatta in una volta sola, ne potrà essere costruita tutta insieme. Essa vedrà la luce attraverso realizzazioni concrete che permettano di creare innanzitutto una solidarietà di fatto.” Questo afferma Robert Schuman nella celebreDichiarazione del 9 maggio 1950. Dichiarazione che è considerata il documento fondativo dell’Unione Europea, tanto che il 9 maggio di ogni anno si festa il compleanno dell’Europa.Quindi, non potendosi partire dalla politica, si decise di partire dall’economia. Ma il fine ultimo del disegno europeo non era una mera unione economica, ma un’unione di popoli. L’unione economica sarebbe dovuta essere solo un mezzo per il raggiungimento dei un’Unione Europea basata sulla solidarietà e sull’integrazione delle popolazioni europee. Il problema è che i padri fondatori fecero troppo affidamento sui loro diretti discendenti: credettero che i futuri governanti degli Stati europei sarebbero stati al loro livello, ed avrebbero proseguito e concluso il disegno di un’Europa unica ed unita. Si sbagliarono di grosso: i governanti attuali, quelli che ci tocca sopportare, vogliono difendere solo il proprio orticello, peccando di lungimiranza, e venendo meno ai compiti

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Perchè l'unione Europea!

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civili, matrimoni tra persone dello stesso sesso. Ma non è questo quello che mi ha lasciato la giornata di ieri. Mentre scrivo la mia mente torna a quella musica, a quei colori, alla felicità di accettarsi e farsi accettare. Sono tante le cose che hanno catturato la mia attenzione, tante connessioni di immagini, troppe solo per elencarle tutte. Ma è la serenità con cui tanti individui riescono a vivere la propria natura, la gioia di essere se stessi e gridarla al mondo, è questo ciò che mi ha colpito più di tutto, e che in fondo racchiude anche tutto il resto.Ecco allora che tutto torna. Nei cortei di una fabbrica in cassa integrazione c’è rabbia, paura, frustrazione per un diritto che ti sta venendo tolto. Urli per non soffocare, gridi fino a farti gonfiare le vene del collo per poter ancora sperare di respirare.Ieri non c’era un diritto da difendere, c’era solo un diritto da festeggiare. Tra tutti i diritti, quello più importante, il più sacro perché il più umano, il diritto ad amare.Questo ti raccontavano ieri le vie di Bologna, tra porta Saragozza e piazza Maggiore.È bello amare. È bello scegliere chi amare e come farlo. È bello esserne consapevoli, è bello esserne consapevoli insieme. È bello e basta. È quello che pensavo sorridendo ieri sera mentre tornavo a casa. E mi veniva in mente un’altra frase che ho sempre considerato retorica, e che mai come oggi mi è sembrata così vera. Quella che pensandoci, ripetono anche in un film che adoro. La felicità è reale solo quando è condivisa.

di Beniamino Piscopo

I cortei, quelli che siamo abituati a vedere per le piazze delle nostre città, o all’ora di cena nei telegiornali, sono cortei arrabbiati. Si vedono tante persone rancorose, tutte insieme. Un rancore molto spesso legittimo, soprattutto di questi tempi. In fondo i sentimenti del singolo vengono moltiplicati dalla massa, è questa la logica delle occupazioni, degli scioperi, dei cortei. Far arrivare un segnale di protesta usando la piazza come megafono, come cassa acustica del messaggio. È questa la prima cosa che noti al gay pride di Bologna, non c’è rabbia. Nessun viso con il grugno da anarchico incazzato, niente slogan feroci contro Stato o politici o imprenditori. C’è gioia, la vedi, ti arriva addosso come un’onda californiana di colori, bandiere e arcobaleni. Credo di non aver mai visto in vita mia tanto buon umore, tutto insieme. Credo forse non ce ne sia stato mai così bisogno. Un buon umore contagioso, che spinge le vecchiette più bigotte ad affacciarsi alla finestra di casa per guardare divertite lo spettacolo, o il celerino più duro e macho, tra quelli che fanno di scorta al corteo, sorridere davanti a due ragazze che si baciano. Non è retorica, è tutto vero, e per questo è straordinario. E non è retorica nemmeno dire che il gay pride non è come le altre manifestazioni di protesta, frase che ho sentito ripetermi spesso. Perché il gay pride non è una protesta di piazza, è una festa. Il Carnevale più incredibile, creativo e stimolante che possiate immaginare.A questo punto dovrei scrivere di diritti civili, omofobia, coppie di fatto, unioni

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Impressioni post gay pride

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ha ripudiato la figlia, è colei che ha distrutto la tomba della figlia a martellate.Quella tomba, distrutta poco dopo la sepoltura nel 1992, è rimasta così per 20 anni: senza nome e senza volto. Ci sono voluti 20 anni perché la lapide venisse sostituita. Una tomba con il volto di un ragazzo o di una ragazza giovane, è una delle cose più amareggianti che si possano vedere; una tomba con un volto giovane fa venire rabbia. Quando poi sai che quel giovane è stato ucciso, che sia stato ucciso da un pirata della strada, da una pallottola o da un coltello, allora rabbia e amarezza si fondono e l’unico nome che puoi dare a quella sensazione è ingiustizia.Non so se sia stato questo uno dei sentimenti che ha attraversato Rita Atria dopo la morte di Paolo Borsellino, uno dei sentimenti che l’ha portata allo sconforto più completo, al pensare che tutto era finito, ma nulla cambia il fatto che in realtà Rita Atria è stata uccisa. Uccisa da un insieme di circostanze e di comporta-menti, di collusioni, di mancanze e di silenzi, che portano tutti noi ad essere colpevoli della sua morte.

Attendere chi. O cosa?

Forse una speranzal’illusione di cambiare ciò che ti circondatalmente complicato perché sai che mai

ciò che è stato rubatoti potrà essere restituito

puoi gridare, piangere, soffrire,ma nessuno ascolterà, nessuno ti capirà

anzi ti giudicherà.

Rita Atria

Sette giorni. Sette giorni sono passati dall’assassinio di Paolo Borsellino al suicidio di Rita Atria. È nata a Partanna, è sepolta a Partanna, è morta a Roma. È morta a Roma perché era sotto protezione, perché era diventata testimone di giusti-zia, sulla scia della scelta presa da Piera Aiello, sua cognata.Piera era la moglie di Nicola, fratello di Rita: suo marito è stato ucciso nel 1991 sotto i suoi occhi e lei, invece di farsi sopraffare dalla paura, l’ha presa con sé, insieme al suo coraggio, e non ha taciuto. Non ha accettato di alimentare l’omertà, non ha accettato il silenzio imposto dalla società in cui viveva, non ha accettato il ruolo della donna sempre obbediente e silenziosa. Prima di Nicola Atria era stato ucciso il padre Vito, quando Rita aveva 11 anni.Anche Rita, come Piera, ha capito che non era giusto stare in silenzio, voleva che gli assassini di suo fratello e di suo padre venissero puniti.È così che ha incontrato Paolo Borsellino, è a lui che ha raccontato tutto ciò che sapeva, perché lei sapeva; è a lui che ha fatto nomi e cognomi; è a lui che ha affidato se stessa nel momento stesso in cui ha deciso di parlare.Il coraggio di Rita, come quello di Piera, sta nell’aver perso tutto ciò che prima avevano costruito, per avere giustizia. Devi averne molta di forza di volontà, quando la tua famiglia non ti appoggia, quando la tua famiglia non crede in te e in ciò che hai deciso di fare.Rita e Piera: loro hanno fatto una scelta diversa da quella di Giovanna. Giovanna Cannova Atria è la madre Rita, è colei che

di Giulia Silvestri

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Quella tomba non più anonima

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venti anni". Sulla strage di Via D'Amelio non sappiamo ancora nulla, non riusciamo a distinguere "i buoni dai cattivi: anzi forse gli stessi che vanno a posare corone di fiori sono queli che hanno, o quantomeno erano vicini, a coloro che hanno posato le bombe". Mancano le chiavi di lettura dell'epoca, e finchè non riusciremo ad acquisirle non potremo mai fare un salto di qualità. Anche perchè la classe politica, la classe imprenditoriale, la classe degli intellettuali è rimasta la stessa di venti anni fa. E quindi si è creato uno stallo, nonostante le tante manifestazioni di memoria e ricordo sui due giudici: importanti, certo, ma non bastano. Non si può delegare alla sola magistratura il compito di accertare le responsabilità, non possiamo comportarci come quei politici che solo davanti ad un'azione concreta della giustizia, un rinvio a giudizio, un indagine, agiscono di conseguenza: c'è "un rinvio a giudizio morale" prima ancora di quello giuridico.

E di questo rinvio a giudizio dobbiamo farcene carico tutti, c'è bisogno soprattutto che nelle varie forme (teatro, libri, giornali) si estendano i processi alla responsabilità politica, alle responsabilità storiche che non possono essere ricomprese nell'ambito del penalmente rilevante ma che forse anche più di quello riescono a tracciare delle linee nette di storia e verità. L'ha spiegato bene Alessandro Gallo:

"nella mia esperienza, quando sono

andato nelle carceri a dire che avevamo

intenzione di fare antimafia attraverso i

di Valeria Grimaldi

...dove eravamo?

...voi dove eravate?

....io avevo 7 mesi a Capaci. E 9 in Via D'Amelio. Anche se avessi potuto sentire il boato di quelle bombe, il loro eco, non me ne ricorderei. Stasera invece ero alla presentazione di questo libro, sono praticamente appena tornata. Solitamente non riesco a scrivere di getto, ho bisogno di tempo per maturare i pensieri: ma quello di stasera è stato uno di quei momenti in cui ti prudono così tanto le mani, che non puoi fare a meno di lanciarti nei pensieri che si sono susseguiti mentre ascoltavi le parole di Massimiliano Perna, il curatore dell'antologia di racconti, Alessandro Gallo, uno dei fondatori della casa editrice Caracò che ha realizzato il libro, Giulio Cavalli, che ha partecipato scrivendo uno dei racconti.

Sarebbero tante le cose da dire: praticamente non ho fatto altro che annuire tutto il tempo per le riflessioni e i termini precisi che sono stati usati. Il momento che mi ha introdotto nell'anticamera della discussione è stato ancor prima che l'incontro cominciasse: vedere entrare nel cortile della propria

facoltà un'auto blindata e due omoni scendere mentre scrutano l'ambiente è una di quelle scene per cui dici "soltanto nei film". Giulio Cavalli è sotto scorta dal 2006, per il lavoro che ha fatto e fa tutt'ora si è ritrovato catapultato dentro ad una realtà nella quale agli inizi non trovava interlocutori: lui stesso lo racconta, anche se sono stati rari i momenti in cui ha accennato alla sua condizione (se così vogliamo definirla) o usando le sue parole "quello che mi è successo". Dice Cavalli che due sono i tipi di uomini che si ritrovano a dover combattere e a doversi vedere proteggere ogni secondo della propria vita dalla minaccia mafiosa: i primi sono quelli che l'avevano scritto nel destino, e i più alti esempi di questa categoria non possono che essere Falcone e Borsellino; i secondi sono quelli che ci si sono trovati per caso, all'improvviso. E lui nella sua Milano, nella realtà lombarda, non riusciva a raccontare la sua esperienza perchè all'esterno non trovava una preparazione adeguata, di mafia non se ne parlava.

"Fino a cinque anni fa a Milano, come

qui a Bologna, non si sarebbe potuto

organizzare un dibattito se si sapeva che

si sarebbe toccato il tasto della

criminalità organizzata, dell'influenza che

ha sul territorio" dice.

La parabola del suo ragionamento è partita dal basso, in un ottica di pessimismo, per arrivare in alto ad una visione futura positiva: alla domanda "Che cosa è cambiato in questi venti anni?" ha risposto "siamo più vecchi di

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Dove eravamo?....adesso siamo qui

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libri, ci guardavano storto. E io chiesi

'Perchè storcete il naso?' 'Un conto è

parlare di mafia sui giornali, quelli il

giorno dopo li butti via: ma con un libro è

diverso.".

"Parlando con Antonio (Ingroia ndr) e con Salvatore Borsellino, ci siamo chiesti una cosa: se non abbiamo sbagliato, se non stiamo usando le figure di Falcone e Borsellino nel modo in cui proprio loro ci avevano detto di non farlo" ammette Giulio Cavalli. Di fronte a questa affermazione non ho potuto che farmi anche io la stessa domanda: sto facendo del mio meglio, è giusto lo strumento che sto utilizzando, basterà scrivere o leggere solamente di mafia, basterà ricordare?La risposta può essere soltanto una: si può fare sempre di meglio. Tutti noi possiamo. E questo libro ne è la dimostrazione: "non sono storie bibliografiche di ciò che è successo", afferma Massimiliano Perna, il curatore dell'antologia, ma una riflessione, uno squarcio sui pensieri che ricorrono costanemente quando si pensa ai due giudici palermitani. "Con questa antologia ho pensato soprattutto ai ragazzi di 20 anni, 18 anni, che oggi pensano alle figure di Falcone e Borsellino come due grandi uomini che anche in vita erano supportati: invece è stato tutto il contrario, soprattutto Falcone. E' stato quello più colpito dalla vigliaccheria, dall'isolamento degli ambienti più vicini a lui. Era attaccato perchè considerato troppo esposto, una prima donna!" dice sempre Massimiliano.

"Una cosa che mi ha colpito di tutti gli incontri che ho fatto per realizzare questa

stiamo facendo per oggi, ma per il futuro. E, giusto per fare un attimo di pubblicità ma nei loro confronti la credo doverosa, sostenete questa piccola casa editrice Caracò, termine napoletano che signidica chiocciola: come spiegato sempre da Alessandro, "la chiocciola è testarda, va piano ma arriva fino in fondo al suo obiettivo".

Sia chiaro, io il libro ancora non l'ho letto. Mi ero già convinta di farlo, e adesso lo sono ancora di più.

Una parola usata da Giulio Cavalli mi ha colpito molto: la parola lutto. "Il lutto è già passato" riferendosi alle stragi. Ho sentito un bruciore al cuore, la rabbia che saliva: forse perchè ho vent'anni, forse per un rimorso non dipeso da me ma solo dal tempo, perchè non ho un ricordo personale di Giovanni Falcone e di Paolo Borsellino. Perchè non sono potuta essere lì a sostenerli quando ancora erano in vita.

Il mio lutto non è passato, credo non passerà mai: ogni giorno saranno il 23 maggio e il 19 luglio. Ogni giorno mi farò la stessa domanda: dove sono?

A combattere. Per loro, per me, per tutti.

antologia, è stato il fatto che nessuno si aspettava che un mese e mezzo dopo l'uccisione di Falcone sarebbe stato ucciso anche Borsellino. Si pensava, dopo quello che era successo, che sarebbe stato protetto!". E così invece non è stato.

Un accento di ottimistmo c'è, come dicevo. Tutti erano concordi sul fatto che il processo sulla trattativa stato-mafia non avrebbe portato a grossi risultati, ma che la verità sta comunque venendo a galla. Al momento delle domande è intervenuto un solo ragazzo chiedendo se c'è una via d'uscita, un mezzo efficace per contrastare la "merda che è la mafia". Alessandro ha risposto che non è nemmeno esatto parlare di merda perchè "al suo odore ormai ci siamo abituati, quindi bisogna cercare un odore diverso"; Giulio Cavalli ha parlato della sua esperienza, di quello che vede a Milano, del processo sull'uccisione di Lea Garofalo che ha visto una grande partecipazione civile, impensabile fino a poco tempo fa; e ha parlato dei suoi figli, che non hanno scelto di trovarsi nella situazione in cui si trova il padre, ai quali ha promesso che quando loro si troveranno nella condizione di poter capire fino in fondo, parleranno di qualcosa di già superato, un tunnel dal quale siamo già usciti. "Credo sia difficile in tempo così ristretti, ma sono sicuro che ad un certo punto ce la faremo".

Questi piccoli racconti sono delle ammissioni, interrogarsi su se stessi, vedere se si può fare di più, se ognuno di noi può fare di più. Come ha detto ad un certo punto Alessandro Gallo: noi non lo

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Questa storia inizia con un uomo e, come in ogni storia, c'è un cattivo, un buono e una morale. Il protagonista, o meglio uno dei, è Nicola Lovecchio. Egli morì il 9 aprile del 1997, all’età di 49 anni. Ventinove anni prima, l'azienda petrolchimica ENI colloca un impianto di produzione di urea, da cui far derivare ammoniaca da vendere sul mercato, in una piccola e, ritenuta tale, accondiscendente cittadina garganica: Manfredonia. La zona di Manfredonia, Mattinata e Monte S. Angelo (n.b. ora Città patrimonio dell'Unesco) era stata segnalata come area a rilevante sviluppo turistico. Nonostante l'approvazione ottenuta dal Comitato interministeriale per la programmazione economica, molti membri esprimono le loro perplessità quali: la considerevole offerta di urea già presente sul mercato, il costo più basso al quale si poteva produrre il fertilizzante in uno degli stabilimenti già attivi dell'ENI, la scelta della zona, destinata allo sviluppo turistico, in contraddizione con il programma economico del governo, gli alti costi che lo Stato e la Cassa per il Mezzogiorno avrebbero dovuto sostenere per costruire le infrastrutture necessarie alla realizzazione del progetto. Gli organi pubblici e la stessa popolazione locale, ammaliata dalla possibilità di nuovi posti di lavoro in una terra di per sé molto povera, soprassiedono sulle titubanze mostrate. Il 26 Settembre del 1976, nell'impianto di produzione di ammoniaca, la colonna di lavaggio dell’anidride carbonica scoppia. L'esplosione sprigiona nell’atmosfera 32 tonnellate di arsenico. Una fanghiglia

di Novella Rosania

Le informazioni sono tratte da“1976-2006: trent’anni di arsenico all’Enichem di

Manfredonia” di Francesco Tomaiulo. Si ringrazia per il contributo.

Da «L’Espresso» del 3 dicembre del 1967 “ENI A MANFREDONIA: UNA

GHIGLIOTTINA PER IL GARGANO”di Bruno Zevi

Se l'on. Aldo Moro non interviene

immediatamente per bloccare l'iniziativa

efferata, sono facilmente prevedibili queste

conseguenze:

1. Sarà distrutta ogni possibilità di

valorizzare in senso turistico il

comprensorio garganico, l'unico in Italia

miracolosamente integro nello splendore

dei paesaggi rocciosi e delle fasce costiere.

2. Manfredonia col suo abitato compatto,

cinto dalle mura aragonesi, Siponto con la

cattedrale romanica, e i sui siti

archeologici, il convento di San Leonardo,

Monte Sant'Angelo con il suo santuario, il

castello federiciano, il borgo medievale e

le catene dei preziosi insediamenti che

sorgono lungo la Via Sacra

Longobardorum animando le pendici del

Gargano, non avranno più alcuna

prospettiva di sviluppo

3. Quanto al decantato "coordinamento

degli intervento pubblici" nel

Mezzogiorno, assisteremo ad un clamoroso

paradosso: piani contro piani, la Cassa

riconosce la vocazione turistica del

territorio e lo vincola, L'Eni subito

l'oltraggia con un enorme impianto

industriale.

4. Infine, la gente sussurrerà che, per caso,

i trenta miliardi sono stati spesi in una

zona compresa nel collegio elettorale

dell'on. Moro, e in quello dell'o. Vincenzo

Russo, esponente dc ed insieme alto

funzionario dell'Eni. Malignità,

naturalmente; ma la coincidenza è

singolare e tale da poter generare sospetti.

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Pane e ammoniaca

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giallastra cosparge, nel raggio di 30 Km, l'intera città, i campi coltivati, gli animali, i bambini e i loro genitori. “Gli ortaggi sono simili a foglie di tabacco secco; tutti gli oggetti esistenti sono punteggiati di una sostanza di colore bronzeo.” Mentre i piccoli giocano con la “sabbia speciale”, i loro padri la raccolgono con le mani in tutto l'impianto, senza alcun tipo di protezione o accortezza. “A terra in fabbrica c’era un tappeto di un centimetro di polvere gialla e nessuno ci pensava più di tanto. Ricordo che mangiavamo il panino tra la polvere senza alcuna misura di sicurezza”, afferma un operaio. Quando si iniziano a scoprire i primi animali morti, i contaminati sono centinaia. Il sindaco Magno divide le zone pericolose in due aree, disponendo l’abbattimento di tutti gli animali da cortile presenti nella zona B (circa 1000) e il loro trasporto all’interno dello stabilimento, dove vengono interrati e sigillati in una vasca di cemento armato. Viene ordinato anche il divieto di pesca entro un miglio dalla costa. I giorni seguenti le strade, le case, i balconi della città vengono lavati con ipoclorito di calce e solfato di ferro, per ottenere l’ossidazione e l’insolubilizzazione dell’arsenico, unico modo per evitare l'ulteriore contaminazione delle falde acquifere. Il panico dilaga, gli abitanti in allarme richiedono immediatamente le analisi delle urine: si raccolgono centinaia di campioni “che verranno nella maggior parte versati nei gabinetti”, come affermerà Magno in un convegno tenutosi l’anno seguente all’università di Bari, “per mancanza di idonee attrezzature.”

avesse avvisato del pericolo.” Nicola muore 6 anni dopo la diagnosi.Nel 1998 la Corte Europea si pronuncia sull'accaduto: 10 anni prima, 40 donne dell'associazione “Bianca lancia” avevano proposto un esposto per i danni subiti. Riescono ad ottenere 10 milioni di lire per danni morali. Sconcertante è la diversità di visioni con la Corte di Cassazione italiana: il 17 Marzo del 2012 assolve i dieci ex dirigenti dello stabilimento e due esperti di medicina del lavoro accusati, a vario titolo, di disastro colposo, 17 omicidi colposi, 5 casi di lesioni colpose e omissioni di controllo. La società succeduta all’Enichem, la Syndial, alla fine del 2005 ha avviato una transazione con le parti civili, per ottenere l’uscita dal processo in cambio di denaro. E' stato fissato un tariffario: 70.000 euro alle mogli, 35.000 euro ai genitori e 20.000 euro ai fratelli e ai figli delle vittime. Un atto “solidaristico che la società sente di attivare non per avere riconosciuto la responsabilità penale di alcuno degli imputati, ma per venire incontro alle esigenze famigliari delle parti coinvolte a vario titolo, come persone offese.”Ciò che rimane a queste famiglie, come possiamo vedere, sono solo numeri: numeri di tonnellate di arsenico sprigionate nell'aria, numeri di neoplasie polmonari, numeri di morti di cancro, numeri per il risarcimento dei danni, numeri di legali. Ma nessun numero potrà mai rappresentare l'ingiustizia subita, la perdita dell'uomo che si è amato, della famiglia che si è faticosamente costruito, del diritto di NON SCEGLIERE MAI FRA SALUTE O LAVORO.

Gli esami avrebbero segnalato concentrazioni di arsenico comprese tra 2000 e 5000 gamma/litro, contro un limite di tollerabilità fissato in 100 gamma/litro. Il 60 % della produzione agricola e il 30 % di quella zootecnica viene distrutta. I braccianti perdono dalle 10.000 alle 12.000 giornate lavorative, mentre il pesce del golfo per intere settimane è respinto dai mercati.Nicola Lovecchio, capoturno del Magazzino Insacco dello stabilimento Enichem, ha 44 anni quando scopre una neoplasia polmonare. La giovane età, la vita regolare senza eccessi, l'essere non fumatore insospettisce il medico, Lorenzo Portaluri. Da quel momento in poi una questione di salute diventa una battaglia politica e ideologica: i due iniziano insieme ad analizzare i cicli di produzione dell’Enichem; stilano un elenco delle sostanze tossiche con cui i lavoratori entravano in contatto: ad ogni mansione corrisponde una diversa intensità di esposizione. Coinvolgono i compagni di lavoro: numerose sono le cartelle cliniche di operai malati o già deceduti. In seguito si interessano delle vicende aziendali: incidenti, controlli medici periodici, misure di protezione personali. Pretendono dall’azienda le vecchie radiografie di Nicola. Essa cerca di negarle, ma sotto minaccia di un'ingiunzione legale, le ottengono. Si scopre così che la lesione polmonare era già presente nel 1991 e i medici dell’istituto di medicina del lavoro l’avevano diagnosticata. “Quel maledetto giorno facevo il turno 14-22. Entrammo nello stabilimento senza che nessuno ci

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I Siciliani giovani dallo scorso dicembre hanno faticato e lavorato, e quello che abbiamo fatto l’avete visto, ci siamo anche beccati le denunce e le intimidazioni. Siamo nati perché Giambattista Scidà ci ha ridato l'idea, perchè Giancarlo Caselli e Nando Dalla Chiesa si sono imbarcati con noi, su questa barca che vuole attraversare e raccontare la Sicilia e l'Italia, insieme, facendo rete, perseverando quella pubblica verità che ci ha insegnato il Direttore de “I Siciliani”, Pippo Fava.

I Siciliani giovani però si fa anche con tutti voi.Usciremo, probabilmente, in edicola, come mensile, dal 22 novembre, esattamente dopo trent'anni dai "vecchi Siciliani". Noi ci stiamo provando a fare tutto ciò ma abbiamo bisogno di voi. Tanti piccoli aiuti fanno un grande aiuto. Adesso vi chiediamo un contributo per sostenerci promettendovi che come sempre andremo avanti, navigando, su questo mare in tempesta, rimanendo liberi, senza padroni alle spalle e di certo non daremo via la baracca come qualcuno, passando a La7.

Per la sottoscrizione abbiamo aperto un conto presso la Banca Etica, l'unica di cui ci fidiamo.

L'IBAN del conto è: IT 28 B 05018 04600 000000148119

"A che serve essere vivi, se non c'è

il coraggio di lottare?"

di Salvo Ognibene

Vi ricordate l’anno scorso quando Santoro vi chiese i soldi per il suo “servizio pubblico”?10 euro per sostenere il progetto. In 100.000 risposero, una grande dimostrazione di affetto e di sostegno sicuramente. Lo sapevate che dal prossimo 25 ottobre Servizio Pubblico andrà in onda su La7? E i soldi che avevate dato per creare quel progetto autonomo? Vi sono stati restituiti?Noi adesso vi chiediamo di sostenerci, promettendo di non passare a La7.

E’ passato un anno da quando, il nostro Direttore Riccardo Orioles, dal Festival del Clandestino, annunciava ai microfoni di Telejato la rinascita de I Siciliani. Non abbiamo più rifatto un giornale, abbiamo fatto I Siciliani giovani, che, poi, forse, lo eravamo già.

I siciliani sono un gruppo, sparso per l'Italia, DIECIeVENTICINQUE a Bologna, Stampo antimafioso a Milano, Telejato, Il Clandestino, Napoli Monitor e potrei continuare. I Siciliani sono un patrimonio comune, sono ragazzi e ragazze sparsi un po' in tutta Italia, sono anche professionisti e giornalisti come Mazzeo, Capezzuto, Finocchiaro, Salvo Vitale, Pino Maniaci.I Siciliani siamo noi giovani, che almeno qui non rappresentiamo il futuro, siamo il presente e lo viviamo da protagonisti con a fianco degli ottimi maestri. Abbiamo provato a mettere insieme il vecchio e il nuovo, passato e futuro, vivendo insieme in questo presente.

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Sosteniamo I Siciliani giovani

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"A CHE SERVE ESSERE VIVI, SE NON C'E' IL CORAGGIO DI LOTTARE?"

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Stazione Bologna Centrale

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