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CLINICA E TEORIA DELLA CLINICA VARIE FORME DI GRUPPO CON PAZIENTI RICOVERATI O RESIDENTI NELLE ISTITUZIONI “IN-PATIENT” UN GRUPPO PSICOTERAPEUTICO IN UNA COMUNITA’. LEZIONE 13 – 14/11/2012 Con la partecipazione di: Ivana Mazzotti, Marta Scandurra. PUNTI CHIAVE Modello della comunità inglese: sorge come tentativo di curare le nevrosi di guerra. Queste comunità rappresentano il primo esperimento di gruppalità: 1° esperimento di Northfield (BION e RICKMAN) : il gruppo funziona come unità che si articola su due livelli: .1. gruppo di lavoro: ancorato alla realtà; .2. gruppo basico: ancorato al livello primitivo; 2° esperimento di Northfield (FOULKES) : .3. gruppo come strumento terapeutico; .4. matrice personale (stato individuale) e matrice dinamica (stato di gruppo); MAIN e il CASSEL HOSPITAL : piena partecipazione di tutti i membri nella vita quotidiana: .5. spazio individuale della psicoterapia (mondo interno); .6. accudimento psicosociale (mondo esterno); MAXWELL JONES e l’HENDERSON HOSPITAL , stampo psicosociale:

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CLINICA E TEORIA DELLA CLINICA

VARIE FORME DI GRUPPO CON PAZIENTI RICOVERATI O RESIDENTI NELLE ISTITUZIONI “IN-PATIENT”

UN GRUPPO PSICOTERAPEUTICO IN UNA COMUNITA’.

LEZIONE 13 – 14/11/2012

Con la partecipazione di: Ivana Mazzotti, Marta Scandurra.

PUNTI CHIAVE

Modello della comunità inglese: sorge come tentativo di curare le nevrosi di guerra. Queste comunità rappresentano il primo esperimento di gruppalità:

1° esperimento di Northfield (BION e RICKMAN) : il gruppo funziona come unità che si articola su due livelli:

.1. gruppo di lavoro: ancorato alla realtà;

.2. gruppo basico: ancorato al livello primitivo;

2° esperimento di Northfield (FOULKES) :

.3. gruppo come strumento terapeutico;

.4. matrice personale (stato individuale) e matrice dinamica (stato di gruppo);

MAIN e il CASSEL HOSPITAL : piena partecipazione di tutti i membri nella vita quotidiana:

.5. spazio individuale della psicoterapia (mondo interno);

.6. accudimento psicosociale (mondo esterno);

MAXWELL JONES e l’HENDERSON HOSPITAL , stampo psicosociale:

.7. obiettivo: inserimento nell’ambiente sociale e lavorativo.

Modello della comunità statunitense:

trattamento intensivo dei pazienti gravi ; approccio integrato con le psicoterapie; introduzione di un osservatore partecipe .

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Modello della comunità francese:

RACAMIER : creazione di un “campo somato-psico-sociale” (spazio intermedio o transizionale);

SASSOLAS : luoghi diversi per rispondere alla complessità dei bisogni dei pazienti.

Struttura residenziale terapeutico-riabilitativa:

Per trattamento comunitario intensivo (durata di novanta giorni):

recupero funzionale; oscillazione tra dimensione individuale e dimensione di gruppo; rivolto a pazienti con psicosi, patologia borderline e crisi adolescenziali; spazio fisico e mentale, e luogo d’incontro; fasi del trattamento: motivazione, accoglimento, trattamento, autonomia e separazione.

Per trattamento comunitario estensivo (durata di circa due anni).

Le comunità terapeutiche

Una comunità terapeutica non è solo una struttura architettonica, ma è un’organizzazione di persone che stanno molto tempo insieme e fanno cose insieme.

Modello della comunità inglese: le comunità terapeutiche nascono in Inghilterra. I primi esperimenti di lavoro terapeutico in gruppo risalgono a Bion e Rickman. Durante uno studio, conosciuto come “esperimento di Nortfield”, Bion e Rickman osservarono delle dinamiche di gruppo nel tentativo di curare le “nevrosi di guerra” di cui erano affetti i soldati. Questi soldati erano demotivati, sporchi, nonostante le disposizioni “dall’alto” e, l’ipotesi di Bion fu di lasciar fare, senza considerare le disposizioni del terapeuta. Per la prima volta non si prestò attenzione esclusivamente alla persona e al suo sintomo, bensì al gruppo e alle sue dinamiche. In una prima fase di trattamento nel gruppo ci fu una situazione caotica, ma in un successivo momento i partecipanti, che erano pazienti nevrotici, iniziarono a organizzarsi autonomamente e a darsi delle regole. Da queste osservazioni nacquero delle valutazioni sul funzionamento del gruppo, che è possibile generalizzare a tutti i tipi di gruppo terapeutico. Il gruppo funziona come un’unità su due livelli:- il gruppo di lavoro: il suo obiettivo è orientato alla realtà, c’è un gruppo se c’è un obiettivo; - il gruppo in assunto di base: al suo interno ci si muove attraverso livelli primitivi, regressivi, fantasmatici. Vi sono, oltre a Bion e Rickman, altri pionieri della comunità terapeutica. Foulkes e Main furono chiamati a continuare il lavoro di Bion e Rickman, esaminado ciò che aveva funzionato e ciò che bisognava correggere.Foulkes in qualche modo, continuò a indagare cosa succede nel gruppo, includendo il conduttore come parte interna ad esso. Questo permise di immaginare che un individuo fosse inserito all’interno del gruppo e si portasse dietro non solo il gruppo attuale, ma anche il gruppo come eredità sociale (per esempio, la famiglia). Egli inoltre introdusse i concetti di matrice personale (sedimentazione di tutte le varie interrelazioni personali, legate alla propria storia) e matrice dinamica (che si forma all’interno del lavoro di gruppo, legata alle dinamiche personali di ognuno dei componenti).

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Main lavorò all’interno del Cassel Hospital, partendo dall’idea di organizzare un trattamento all’interno di un’istituzione, definendola a priori comunità terapeutica. Cercando di operare diversamente dai suoi colleghi, egli notò che era molto importante il coinvolgimento di tutti i partecipanti dell’istituzione, poiché altrimenti si sarebbero creati dei conflitti che, se non sanati, avrebbero minato l’efficacia terapeutica, e il sistema nella sua interezza. Egli definì come necessario uno spazio psicoterapeutico individuale, sostenuto dall’intera comunità, che svolgeva un ruolo di “accudimento psicosociale”, ossia di un’attenzione psicoterapeutica per ogni evento riguardante le dinamiche di gruppo e non solo quelle personali. Tramite questo coinvolgimento si andava a creare una connessione tra mondo interno e mondo esterno. Un altro cardine della sua teoria era lavorare con il paziente piuttosto che per il paziente, operando come sostegno all’Io del soggetto, attivamente e con una presenza fisica, oltre che professionale. Un altro pioniere della comunità terapeutica fu Maxwell Jones. Lo stampo del suo lavoro fu di tipo “psicosociale”, con un assetto egualitario e democratico. Ciò risentì probabilmente del tempo in cui Maxwell visse: alcune battaglie politiche e sociali vennero, infatti, riportate anche nella terapia. L’obiettivo della cura non è quello di andare a indagare l’assetto interno dell’individuo, ma piuttosto quello di re-inserire il soggetto all’interno del contesto sociale di cui fa parte. Si parla di eventi che accadono nel qui ed ora. Un altro concetto importante nella teoria di Maxwell fu quello del living learning, che consiste nel parlare con tutti gli operatori di ogni aspetto della terapia. Se il paziente ha una crisi, il problema è portato nel gruppo di operatori; in pratica, è condiviso tutto.

Modello della comunità statunitense (Chestnut Lodge Hospital): furono applicati i principi della teoria freudiana all’interno di un istituto privato. Era un laboratorio di ricerca che prevedeva un trattamento intensivo di pazienti gravi (psicotici). Si organizzavano colloqui e sedute cliniche quattro volte la settimana, con una particolare attenzione anche ai trattamenti di gruppo e alla farmacoterapia. In questo progetto di ricerca si riscontrarono delle difficoltà, pertanto si decise di introdurre la funzione di “osservatore partecipe”, ossia quelli che ora sono definiti i supervisori. Questa introduzione venne fatta poiché diverse ricerche confermarono che il paziente grave proietta varie parti di sé nell’ambiente, pertanto può apparire diverso secondo l’operatore che lo sta trattando. Il supervisore permise di eliminare il conflitto tra i diversi operatori, poiché “unisce” le diverse parti e le diverse sfaccettature del paziente in una rappresentazione integrata e completa. Iniziarono a essere coinvolti anche i familiari, secondo l’approccio integrato che prevede riunioni con il paziente, il personale e le famiglie.

Modello della comunità francese: Un altro presupposto teorico che ha favorito il sorgere e il continuare della cultura della terapia comunitaria deriva dalla Francia. All’interno di quest’organizzazione Racamier contestò il trattamento dei disturbi gravi all’interno di un setting psicodinamico, così come l’utilizzo di un modello psicoanalitico tradizionale, proponendo l’utilizzo di strumenti differenti, in altre parole la creazione di uno spazio intermedio, un’area transizionale all’interno della quale avviene la realizzazione di assetti interni diversi. [Esempio: Racamier contestò il progetto americano nel libro “Lo psicoanalista senza divano”, la critica fu al setting utilizzato, giacché il modello americano cercava di riportare un trattamento psicoanalitico tradizionale]. Sassolas continuò sulla linea del suo maestro Racamier, ma aggiunse un’articolazione dei luoghi: ci devono essere luoghi diversificati per rispondere meglio alla complessità dei bisogni dei pazienti. Egli pose l’accento sulla necessità che il paziente fosse accolto in strutture specifiche secondo la fase di malattia che stava attraversando e del livello di gravità della stessa.

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Strutture Residenziali Terapeutico –Riabilitative

Esistono due tipi di trattamento:

- Trattamenti comunitari intensivi (permanenza di novanta giorni);

- Trattamenti comunitari estensivi, comunità a lungo termine (permanenza di due anni).

Ripa Grande: Struttura residenziale ad alta intensità terapeutica che si caratterizza come luogo terapeutico riabilitativo per trattamenti comunitari intensivi con interventi relazionali, farmacologici e psicoterapeutici, per soggetti di età compresa tra i 18 e i 30 anni. La differenziazione avviene secondo l’età, ma non per patologia, per intervenire nel momento in cui avviene la prima esplosione sintomatologica. L’idea di intervenire in questa fascia d’età giovane è legata al fatto che possano ancora esserci delle potenzialità, dei blocchi superabili, degli assetti modificabili.

Come si lavora nella struttura: Sono presenti sia degli spazi individuali sia delle dimensioni di gruppo. [Esempio: Recentemente abbiano fatto una supervisione di un ospite che era ancora in una fase bloccata e quindi poteva partecipare alla vita degli altri ma non essere partecipe del proprio flusso vitale e questo la comunità lo permette, almeno in una prima fase di assumere questa posizione tra limitazione e dissociazione in uno spazio intermedio (a casa invece questo non sarebbe possibile)].

Durante i colloqui individuali si lavora su aspetti del Sé.

Nei momenti dedicati al gruppo, invece, si svolgono attività di laboratorio, si lavora con un altro-diverso-da-Sé per favorire il confronto. Il paziente è messo anche nella posizione di ascoltatore estraneo, partecipe alle “vite degli altri”, in modo da apprendere “tra imitazione e dissociazione”.

L’idea è che l’ospite possa arrivare in un posto dove non è conosciuto e, per la prima volta, fare cose diverse, proporsi come una persona diversa, libero dalle risposte solitamente messe in atto negli ambienti quotidiani (ES: ambiente familiare). In questo modo si può entrare in contatto con delle parti sconosciute di sé.

I pazienti trattati sono persone con esordi psicotici. L’obiettivo è di intervenire sui primi sintomi psicopatologici per scoraggiare l’insorgenza della prima crisi e impedire che si cristallizzi l’assetto interno; in questo modo, inoltre, è sospesa la relazione con il mondo esterno.

La patologia borderline è quella che desta maggiori problemi. Il clima d’instabilità proprio di questa patologia va a contrastare con la stabilità e la continuità della comunità; così come la crisi adolescenziale. In questo caso, l’idea della comunità è di proporre un percorso, ossia un tempo necessario, che favorisca dei processi di maturazione volti a facilitare la costruzione dell’identità. La comunità fornisce uno spazio fisico e mentale, dove poter riflettere su accadimenti anche drammatici e angoscianti, per trovare insieme soluzioni possibili e integrate. La comunità, infatti, non opera da sola, ma in collaborazione con altri enti, quali ASL, SPDC ecc. La comunità è anche un luogo d’incontro per i vari referenti territoriali con variegate funzioni istituzionali e multiformi identità professionali.

Fasi del trattamento:

1) Motivazione: in comunità ci si sta volontariamente, quindi si deve arrivare ad avere una motivazione spontanea (si può lavorare con l’inviante per costruirla.) Spesso si va incontro a delle resistenze.

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2) Accoglienza e ambientamento: sono organizzate delle giornate-guida, in cui si esplora la comunità, gli ospiti, le varie attività, sempre per lavorare sulla motivazione. Ci si confronta con le regole, i programmi e si cerca di superare le angosce di separazione da casa (lutto preliminare). Ciò permette di strutturare un setting comunitario, con l’organizzazione delle attività quotidiane (colloqui, cura della persona, orari dei pasti ecc). La definizione di regole e orari rassicura l’ospite. 3) Trattamento costituito da: colloqui individuali, gruppo multifamiliare, gruppo psicoterapeutico ecc..4) Autonomia: si vuole verificare il funzionamento della persona anche al di fuori della comunità, si aiuta la persona a riprogettarsi ai fini di un re-inserimento nella società. Ciò comporta un sostegno, per esempio, nella ricerca di un lavoro, un accompagnamento ecc .. 5)Separazione: l’uscita dalla comunità concordata con l’ospite e con i terapeuti che continueranno a essere i riferimenti successivi (CSM, comunità estensiva, referenti privati,..)

Equipe: Due psichiatri; Un tecnico della riabilitazione; Un caposala; Sei infermieri; Quattro OSS (operatori sociosanitari); Manca la figura dello psicologo.

Invianti: Servizi di diagnosi e cura; Servizi territoriali; Specialisti privati.

[Esperienza clinica: Il luogo dove stavamo (nuovo regina margherita a Trastevere) è stato chiuso e, non potendo essere più SPDC (reparto di alta intensità), nel 2007- 2008 ci siamo spostati e, poiché lavoravamo insieme già da anni, abbiamo costituito una comunità. Nei primi due anni abbiamo risentito del fatto che noi non eravamo abituati a lavorare come comunità. Anche il professor Neri, quando venne a trovarci aveva notato le difficoltà iniziali, la comunità era perfetta, sicuramente tutti avevamo collaborato, ma la sostanza vera era che il gruppo dei pazienti non si era ancora formato. Noi siamo stati un esperimento e questo ha i suoi pregi ma anche i suoi difetti. All’’inizio siamo partiti con un programma breve (due mesi), quindi facevano anche fatica i pazienti per il tempo limitato a fare gruppo e a raccontarsi agli altri e abbiamo pensato che due mesi erano troppo pochi. Ora, infatti, il tempo di permanenza in comunità è di almeno di tre o quattro mesi, e ci rendiamo conto che il primo mese è più di assestamento. Quando i tempi di permanenza sono diventati più lunghi e i pazienti trascorrevano molto tempo insieme, la loro conoscenza reciproca si è arricchita, ma nonostante ciò mancava la concezione di gruppo terapeutico rispetto a oggi. Prima se un paziente aveva una crisi veniva mandato in terapia individuale. E’ sorto quindi l’obiettivo di creare un gruppo, idea maturata nel 2010. Nei primi due anni (dal 2008 al 2010), c’eravamo concentrati più sul contesto, adesso potevamo diventare “comunità”. Ci abbiamo messo quasi cinque mesi per organizzare il gruppo terapeutico, perché noi avevamo ormai raggiunto un certo equilibrio basato su una certa organizzazione e inserire il gruppo terapeutico in un contesto così strutturato non poteva essere così immediato. Abbiamo iniziato a porci una serie di problemi e formulavamo ipotesi per la risoluzione di ogni singolo problema, che poi erano riportate nelle riunioni settimanali cui partecipavano tutti gli operatori. In questo modo nessuno si sarebbe sentito escluso, anche se eravamo noi due psichiatre, in particolare, a occuparci del gruppo. Abbiamo immaginato diversi modi per coinvolgere le nostre colleghe, quindi abbiamo chiesto loro ai primi incontri di partecipare come supervisori, in realtà non hanno partecipato per mancanza di tempo, ma è stato importante per impedire che boicottassero la nostra iniziativa. Nonostante noi fossimo due psichiatre, volevamo coinvolgere anche le altre figure professionali, almeno a turno, poiché in maniera costante era un po’ complicato. Dei due operatori (ogni volta diversi perché si alternano), uno partecipa al gruppo fisicamente insieme con noi, l’altro sta fuori nel caso in cui qualche paziente esca dal gruppo. Un primo problema da affrontare è stato il decidere chi far partecipare al gruppo, poiché i pazienti all’inizio non hanno una stabilità sintomatologica e poi essi cambiano con il tempo, ma alla fine abbiamo deciso che partecipavano tutti (anche chi non fa parte o non sceglie poi di far parte della

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comunità e magari ci passa soltanto una giornata), quindi il gruppo cambia in continuazione sia a causa dei pazienti sia degli operatori (tranne noi due). Le persone escono dal gruppo quando escono dalla comunità, anche se magari il loro percorso nel gruppo non sarebbe terminato, perché il gruppo è una funzione propria della comunità. L’altro problema è stato decidere quando e dove far incontrare il gruppo. Per il quando si è deciso per il mercoledì mattina poiché ci piaceva l’idea che fosse in mezzo alla settimana, e questo ha permesso al gruppo di assumere una posizione centrale all’interno della nostra comunità.

Abbiamo iniziato a lavorare con il gruppo nel novembre 2010 e abbiamo condiviso il progetto anche con i pazienti già presenti in comunità, esponendo settimane prima qual era il nostro obiettivo e cosa immaginavamo potesse portare il gruppo in più alle varie attività già svolte insieme.

Rispetto al luogo, inizialmente noi avevamo proposto luogo d’incontro una sala comune, ma i pazienti erano tutti d’accordo di non far incontrare lì il gruppo e abbiamo individuato una sala al secondo piano un po’ più piccola, dove i pazienti andavano poco, ed è stato come se il gruppo avesse trovato un proprio spazio protetto e diverso dagli altri ambienti, poiché in questa sala non si fanno altre attività cliniche. La scelta della stanza ha permesso che si instaurasse una ritualità: ci si è dovuti organizzare insieme per rendere il luogo accessibile, per esempio con i riscaldamenti e con la richiesta di permesso per utilizzare la stanza. Questa preparazione di cinque mesi ha fatto sì che si potesse iniziare a pensare al gruppo prima dell’inizio degli incontri veri e propri. Infatti, ad esempio, la settimana prima dell’inizio c’è stata una lite furibonda tra due pazienti, cosa mai successa prima (complice anche il fatto che c’erano molte persone con disturbi di personalità borderline che complica sempre la situazione). Abbiamo scelto per la prima volta, rispetto alle abituali modalità con cui affrontavamo prima un episodio del genere (parlare singolarmente con ciascun paziente), di discuterne tutti insieme (operatori e pazienti), con l’idea che si stesse già formando questo gruppo, e questo ha preservato il fatto che non ci fossero sospensioni o esclusioni dalla comunità.

Con la nascita del gruppo le relazioni tra pazienti e operatori sono cambiate e all’inizio questo ci è sembrato quasi un intervento miracoloso. C’è stata una paziente ad esempio, che portava sempre gli occhiali scuri per schermarsi completamente dall’ambiente esterno. In comunità aveva iniziato a stare meglio, aveva un forte rapporto con la sua referente, ma gli altri erano sempre fuori, non aveva mai parlato di sé. Quasi magicamente, dal primo incontro del gruppo, questa persona ha iniziato per la prima volta a raccontare la sua storia, a spiegare cosa sentiva e provava di tutto ciò, e anche cosa le facevano venire in mente le storie degli altri, come se il gruppo avesse aiutato lei a parlare di sé, e anche quando il gruppo è cambiato, lei ha raccontato com’era all’inizio in comunità, come se si fosse attivata in lei non solo una funzione narrativa ma anche riflessiva. Lei è stata un po’ il genius loci del gruppo. Era la persona che era diventata più motivata, iniziava da subito a parlare e faceva anche da raccordo quando il gruppo cambiava tra i vecchi e nuovi membri. Era in sincronia con i tempi, poco prima che il gruppo finisse, si preparava una specie di rituale che era quella di prendere una sigaretta tre minuti prima della fine, quando è andata via lei, questo rituale è stato ripreso da un altro ragazzo. Questo fa capire che il gruppo possiede un campo storico con caratteristiche che permangono, nonostante il cambiamento dei membri. Il gruppo ha resistito da subito ai vari cambiamenti e ha mosso molto la comunità a livello emotivo, ma ha anche cambiato la fisionomia della comunità, nel gruppo i pazienti possono dire quello che vogliono, anche se si tratta di critiche nei confronti degli operatori o degli altri pazienti. Questa possibilità è stata all’inizio sconvolgente per gli operatori, sia per il fatto di ricevere critiche anche negative da parte di pazienti, sia perché alcuni di loro non si erano mai misurati con un ambiente di tipo terapeutico. Un anno e mezzo dopo dall’inizio del gruppo, nel giugno 2012, abbiamo inserito il gruppo multifamiliare, utilizzando una stanza che è centrale alla comunità, perché c’era bisogno di molto spazio per il numero di famiglie. Il gruppo psicoterapeutico rispetto al gruppo

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multifamiliare ha assunto la funzione di essere un gruppo più intimo, dove i pazienti possono rielaborare emozioni forti, che invece sono solo espresse e vissute nel gruppo multifamiliare, ma non dotate di significato. È diventato quindi, il luogo dove tutto prende significato per le persone e per la propria storia. Inserire il gruppo multifamiliare è stato forse l’ultimo passo per la costituzione della comunità vera e propria, lavorando anche su ciò che è fuori al gruppo. Con molti pazienti si parla anche del gruppo anche al di fuori, non è un gruppo rigido perché il concetto di comunità non lo permetterebbe. Man mano all’interno della comunità si è affermata totalmente la mentalità del gruppo.]

DOMANDE

Ci sono casi in cui un paziente da una comunità terapeutica a trattamento intensivo viene inviato a comunità terapeutiche a lungo termine?Ovviamente sì, è possibile che persone siano inviate ad altre strutture, anche a lungo termine.

Come presentate il gruppo ai nuovi arrivati? Ai nuovi arrivati non spieghiamo il gruppo, perché lo trovano già e trovano anche qualcuno del gruppo che gli spiega come funziona, che dà indicazioni ai nuovi arrivati.

BIBLIOGRAFIA

Mazzotti, I.; Scandurra, M. European Journal of Psychotherapy, Counselling & Health, Volume 14, Number 2, 1 June 2012, pp. 181-188 (8), Routledge, part of the Taylor & Francis Group.

Carnevali, R; Tagliaferri, N. (2009). (a cura di) L’esordio psicotico. Milano. ARPANet.

Corino, U.; Sassolas, M. (2008). Cura psichica e comunità terapeutica: esperienze di supervisione. Rovereto: StellaEd.

Di Marco, G.; Nosè, F. (2010) La clinica istituzionale in Italia. Milano: Franco Angeli.

Ferruta, A.; Galli, T.; loiacono, N. (1994). (a cura di). Uno spazio condiviso. Roma: Borla, Roma, 1994.

Neri, C. (2005). Gruppo. Roma: Borla.

Sassolas, M. (2004). Terapia delle psicosi. Roma: Borla.

Vigorelli, M. (1994). (a cura di). Istituzione tra inerzia e cambiamento. Torino: Bollati Boringhieri Editore.