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DISPENSA RELATIVA A: - TRACCIA CIVILE 1 (obbligazioni pecuniarie) - QUESITI A LATERE - TRACCIA assegnata lo scorso anno in sede di esame con schema di soluzione - TRACCIA CIVILE 2 (parere e atto di citazione) - Materiale relativo alle tematiche poste dalla traccia di civile 1 SCHEMA DI SVOLGIMENTO CIVILE 1 Questioni: se possa assumere rilevanza l'usura c.d. sopravvenuta, locuzione con la quale si indica che gli interessi pattuiti, originariamente conformi al tasso previsto dalla legge, in via sopravvenuta superano il tasso soglia Parte teorica (max 1, 5 pagine): obbligazioni pecuniarie, nozione, principio nominalistico (distinzione tra debiti di valuta e di valore), principio di naturale fecondità del denaro, interessi (corrispettivi, moratori, compensativi), 1182 comma III c.c. e collegamento con mora ex re (1219 n.3) e con 20 c.p.c. Nozione di obbligazioni pecuniarie (v. 1224 c.c.) e importanza dell'istituto Principi nominalistico (differenza tra debiti di valuta e di valore), liberatorio 1277 c.c., e di naturale fecondità del denaro Interessi corrispettivi (1282), moratori (1224) e compensativi (1499). accenno ad anatocismo (1283 c.c.). N.B. non soffermarsi su – ma accennare soltanto - ciò che si tratterà dopo (quindi con riferimento alla usura sopravvenuta "come si vedrà successivamente")

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DISPENSA RELATIVA A:

- TRACCIA CIVILE 1 (obbligazioni pecuniarie)- QUESITI A LATERE- TRACCIA assegnata lo scorso anno in sede di esame con schema di soluzione- TRACCIA CIVILE 2 (parere e atto di citazione)- Materiale relativo alle tematiche poste dalla traccia di civile 1

SCHEMA DI SVOLGIMENTO CIVILE 1

Questioni:

se possa assumere rilevanza l'usura c.d. sopravvenuta, locuzione con la quale si indica che gli interessi pattuiti, originariamente conformi al tasso previsto dalla legge, in via sopravvenuta superano il tasso soglia

Parte teorica (max 1, 5 pagine):

obbligazioni pecuniarie, nozione, principio nominalistico (distinzione tra debiti di valuta e di valore), principio di naturale fecondità del denaro, interessi (corrispettivi, moratori, compensativi), 1182 comma III c.c. e collegamento con mora ex re (1219 n.3) e con 20 c.p.c.

Nozione di obbligazioni pecuniarie (v. 1224 c.c.) e importanza dell'istituto

Principi nominalistico (differenza tra debiti di valuta e di valore), liberatorio 1277 c.c., e di naturale fecondità del denaro

Interessi corrispettivi (1282), moratori (1224) e compensativi (1499). accenno ad anatocismo (1283 c.c.). N.B. non soffermarsi su – ma accennare soltanto - ciò che si tratterà dopo (quindi con riferimento alla usura sopravvenuta "come si vedrà successivamente")

Luogo di adempimento (1182) e rilevanza dello stesso ai fini del 20 cpc e 1219 c.c. su mora ex re

SOLUZIONE

Analisi del dato normativo rilevante (artt. 644 c.p., 1815 c.c., legge 108 del 1996)

1 sull'usura sopravvenuta chiarire che il fenomeno si può verificare sia con riferimento ai contratti stipulati prima della legge del '96 che ha mutato il criterio di determinazione dell'usura sia con riferimento ai contratti successivi dal momento che il tasso soglia è mobile

analizzare e argomentare in relazione alle sezioni unite 2017

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- Una argomentazione è quella relativa alla certezza del diritto: pacta sunt servanda (art. 1372 c.c.)

- Un’altra è quella relativa alla ratio dell’usura: punire la pattuizione di interessi usurari ma qui gli interessi pattuiti non sono usurari

- Una ulteriore possibile è quella desumibile dal tenore letterale della legge n. 24 del 2001 art. 1 comma I (lo trovate sotto il 1815 c.c. anche nel codice non commentato).

Breve conclusione:

Pertanto, secondo questo indirizzo, il sopravvenuto mutamento del tasso soglia risulta del tutto irrilevante nel caso concreto.

2 Per completezza espositiva, si dà conto che sulla questione, prima dell’intervento della pronuncia a Sezioni Unite sopra richiamata, si registravano indirizzi favorevoli a dare rilevanza al fenomeno. Qui fare riferimento (in base alla giurisprudenza che trovate nel codice commentato) a: nullità sopravvenuta/inefficacia sopravvenuta oppure al principio di buona fede per il quale il mutuante avrebbe un obbligo di rinegoziazione e, in mancanza, la sua pretesa potrebbe essere paralizzata con una exceptio doli.

N.B. avreste potuto articolare la parte risolutiva in questo modo alternativo: dopo l’analisi della normativa rilevante, ricostruzione del contrasto interpretativo, soluzione delle Sezioni Unite, argomentazioni.

Conclusioni analitiche: irrilevanza dell’usura sopravvenuta quindi la banca non dovrà rivedere il tasso concordato. Inoltre, qualora il cliente rifiutasse il pagamento delle successive rate, la banca potrebbe ottenere decreto ingiuntivo per soddisfare coattivamente il relativo credito, previa prova dello stesso.

ERRORI PIU’ FREQUENTI

ps per cancellare dovete inquadrare non coprire!)

- cercare di riempire le caselle Nozione, ratio, disciplina applicabile

- evitare di creare sovrapposizioni con la successiva parte argomentativa

- se è vincolata come in questo caso allora non sul mutuo ma su...!

- occorre argomentare altrimenti non è un parere!

- si scrive dal primo rigo!):

QUESITI A LATERE (ESERCIZIO PER CASA)

- Cosa sarebbe accaduto se il tasso stabilito in contratto avesse superato originariamente – cioè al momento della conclusione del contratto – quello fissato per legge ai fini dell’usura con riferimento agli interessi corrispettivi?

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analisi artt. 644 c.p. e 1815 c.c. Nullità (pena privata cioè sanzione civilistica a fronte dello squilibrio contrattuale originario):

Pertanto, ne conseguirebbe:

a) l’obbligo di restituzione di quanto indebitamente pagatob) la conversione del mutuo in contratto gratuito

- Per valutare se il tasso previsto nel contratto ai fini dell’usura occorre far riferimento agli interessi corrispettivi sommati a quelli moratori o soltanto ai primi?

Si vedano la lezione e la giurisprudenza che trovate sotto

- Se il cliente avesse fatto presente che gli interessi moratori (e non corrispettivi) risultavano – considerati isolatamente - sproporzionati perché eccessivi avreste prospettato qualche rimedio e quale?

Analisi art. 1284 c.c.: si tratta di una clausola penale quindi riducibile d’ufficio se manifestamente eccessiva o nullità della clausola ai sensi degli artt. 33 lett. F e 36 cod. cons.

Per altro indirizzo si potrebbe applicare anche qui il 1815 c.c. facendo riferimento ad un altro tasso soglia cioè a quello aumentato del tasso medio degli interessi moratori previsto per categorie di operazioni creditizie.

Ancora per un terzo indirizzo accolto di recente dalla Corte di Cassazione (ordinanza III sezione relatore Rossetti) la clausola che prevede interesse moratori in misura superiore al tasso soglia sarebbe nulla ma non si applicherebbe l’art. 1815 comma II c.c. e sarebbero dovuti gli interessi nella misura legale.

- Se in un contratto di mutuo si pattuiscono oralmente degli interessi in misura ultralegale (ma al di sotto del limite previsto per l’usura) il mutuante che li paga potrà ripeterli o meno? E se invece la banca li preleva in automatico?

Analisi art. 1284 comma III c.c. e 2034 c.c.

- Se il tasso del mutuo fosse stato inizialmente usurario e se successivamente per prevenire la controversia tra le parti avente ad oggetto la restituzione di quanto pagato le parti avessero concluso una transazione questo negozio risulterebbe valido?

La transazione sarebbe nulla ex art. art. 1972 comma I dal momento che in tal caso il contratto è illecito non è semplicemente nullo. Potrebbe ritenersi diversamente se si desse una interpretazione restrittiva dell’art. 1972 comma I c.c.: se è la singola clausola (come nel caso del 1815 comma II c.c.) ad essere illecita e questa illiceità non si estende all’intero contratto (argomento ex artt. 1419 comma II e 1815 comma II c.c.) allora non sarebbe illecito l’intero contratto ai sensi dell’art. 1972 comma I c.c.

Il secondo ragionamento è quello che fa la giurisprudenza (trovate nel codice commentato una pronuncia in tal senso) in relazione alle clausole anatocistiche (non usurarie però).

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Se all’esame uscisse una questione simile dovreste capire cosa effettivamente voleva chi ha scritto la traccia e comprendere la soluzione da dare alla luce dell’eventuale pronunica risolutiva sul codice commentato. IN ogni caso sarebbe fondamentale ragionare sulla nozione di illiceità come fatto a lezione (ex artt. 1343 ss. c.c.).

N.B. La transazione mi sembra un tema molto caldo ai fini dell’esame quindi vedetela bene sul Torrente. In ogni caso ci torneremo.

TRACCIA SCORSO ANNO obbligazioni naturali

Tizio gioca una partita a poker con quattro sconosciuti, nel corso della quale viene bevuta datutti una consistente quantità di whisky.All’esito della mano finale Tizio perde l’importo di euro 1.000 in favore di Caio. Non avendocon sé tale importo, chiede e ottiene 24 ore di tempo per saldare il debito, ma non riesce aprocurarsi la somma necessaria. Pertanto, dietro pressioni di Caio e degli amici di quest’ultimoche avevano partecipato alla partita, sottoscrive una dichiarazione con la quale prometteil pagamento della vincita a Caio entro le successive 48 ore.Dopo aver pagato la somma, però, Tizio si rivolge al proprio legale rappresentando che gli altrigiocatori avevano barato al gioco e che la promessa di pagamento gli era stata estortadietro minacce di gravi ripercussioni alla propria integrità fisica.Il candidato, assunte le vesti del legale di Tizio, rediga motivato parere esaminando le questionisottese al caso e individuando le varie possibilità di tutela offerte dall’ordinamento.

PROBLEMA: può ripetere la somma pagata?

Rapporti tra debito di gioco e obbligazione naturale

In relazione al debito di gioco si distingue tra proibiti (qui non c’è soluti retentio), tollerati (cui fa riferimento il 1933 c.c.), autorizzati (qui c’è azione).

A noi interessano i secondi che costituiscono una ipotesi di obbligazione naturale tipica (art. 2034 comma II c.c. “ogni altro”): non c’è azione ci dice il 1933 ma c’è soluti retentio se: il pagamento sia stato spontaneo; in assenza di frode; se il perdente non era incapace.

In relazione all’incapacità (per la quale va detto che si ritiene rilevi non solo quella di agire ma anche quella naturale) non dovete farvi trarre in inganno dalla traccia: Tizio potrebbe risultare incapace di intendere e di volere (almeno questo sembra desumersi dalla traccia dove fa riferimento all’alcool) al momento del gioco ma non al momento del pagamento. Invece ai fini della ripetizione

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rileva l’incapacità al momento del pagamento non del gioco. Quindi il pagamento non può essere ripetuto a causa dell’incapacità di Tizio.

In relazione alla frode: se c’è frode nel senso che il gioco non è stato ad armi pari allora non c’è soluti retentio ma è possibile ripetere ex art. 2033 c.c. Si ritiene (anche se ci sono diverse ricostruzioni in dottrina) che possa ripetersi la somma anche se il perdente fosse a conoscenza della frode al momento del pagamento: almeno questo ritiene chi inquadra l’istituto tra le pene private.

In relazione alla promessa di pagamento e alla spontaneità del pagamento:

nel nostro ordinamento, restio ai negozi astratti, la promessa comporta solo una presunzione di esistenza del rapporto fondamentale quindi avendo lui promesso ha dato luogo ad una presunzione di esistenza del debito perciò dovremmo dire che la stessa risulta qui irrilevante dal momento che qui non viene in rilievo il problema relativo alla prova del rapporto fondamentale. Inoltre va considerato che per il 1933 c.c. e il 2034 c.c. il dovere morale o sociale produce solo la soluti retentio e non effetti ulteriori.

Per mera completezza espositiva se pure si ritenesse che la promessa abbia trasformato in giuridica l’obbligazione naturale, riconoscendo alla promessa natura negoziale potremmo affermare ex art. 1324 c.c. l’impugnabilità della stessa per violenza (dal momento che era stata estorta con minacce) e, per l’effetto, del pagamento posto in essere in adempimento della stessa.

Il pagamento, che per alcuni ha natura non negoziale, per altri invece ha natura negoziale, può essere impugnato perché posto in essere in esecuzione di una promessa ottenuta con minacce quindi esso stesso è stato ottenuto con minacce perciò non può dirsi spontaneo. Se affermiamo che è atto in senso stretto è inefficace; se diciamo negozio è annullabile per violenza ex artt. 1324 e 1434 c.c.

In conclusione:

1 la somma è ripetibile perché vi è stata frode (hanno barato) e il pagamento non è stato spontaneo

2 sembrano ravvisabili gli estremi dell’estorsione (fate il collegamento interdisciplinare) 629 c.p.

Per completezza: il minacciato potrebbe agire ex art. 2043 c.c. anche verso gli altri che lo hanno costretto a pagare ottenendo il risarcimento del danno subito (che però dovrebbe essere pari a zero in caso di ripetizione della somma).

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NOTA BENE: trovate caricati gli elaborati realmente svolti in sede di esame da due nostre studentesse che hanno superato lo scritto (Vanna Mirra e Vincenzina Dima): leggeteli. P.S. i segni fatti sul compito sono miei non dei commissari.

TRACCIA DI DIRITTO CIVILE 2016 (atto giudiziario): non è tra gli audio caricati. È stata spiegata insieme a Cristina Caldarella a Roma. Trovate di seguito la traccia.

Con accordo di separazione coniugale omologato nel marzo 2016, Caio, sul presupposto che il

reddito familiare prima della separazione ammontasse ad euro 5.000,00 mensili e che quello suo

personale ad euro 3.200,00 mensili, si è impegnato a corrispondere a Sempronia un assegno mensile

di euro 1.600,00 per il mantenimento del figlio della coppia Caietto, nonché a trasferire a

quest’ultimo, senza ricevere alcun corrispettivo, la piena ed intera proprietà dell’unico immobile di

cui è proprietario. 

L’accordo tra i coniugi prevede, inoltre, che Caietto continui a vivere insieme alla madre presso

altro appartamento di proprietà di quest’ultima che fino alla data della separazione aveva costituito

l’abitazione coniugale. 

Tizio, che vanta nei confronti di Caio un ingente credito in forza di rapporti commerciali intercorsi

con il predetto nell’anno 2015, venuto a conoscenza di tale trasferimento di proprietà avvenuto nel

settembre del 2016 e, ritenendo che lo stesso possa pregiudicarlo, si reca dal proprio legale di

fiducia per conoscere se sono concretamente esperibili delle azioni a tutela del proprio credito.

Il candidato, assunte le vesti del legale di Tizio, rediga l’atto giudiziario ritenuto più utile alla difesa

degli interessi del proprio assistito.

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ALLEGATI ALLA DISPENSA: per chi sia interessato ad approfondire in relazione alle obbligazioni pecuniarie, allego la dispensa che diamo per Magistratura sullo stesso argomento. N.B. si tratta di materiale che sconsigliamo di studiare a chi ha poco tempo per esercitarsi e per studiare il manuale. E’ solo per chi si dedica esclusivamente allo studio. Trovate anche tra gli allegati il tema sull’usura di un nostro bravissimo ex studente ora magistrato (Marco Mazzacco).

1 Cassazione Sezioni Unite Compensazione 2016 n. 23225

2 Cassazione Sezioni Unite 2016 n. 17989 Liquidità ex art. 1182 comma III c.c., 20 c.p.c., 1219 c.c.

3 Cassazione Sezioni Unite 2007 n. 26617 Pagamento con mezzi diversi dal denaro

4 Cassazione Sezioni Unite 2010 n. 13658 Compensazione Pagamento con mezzi diversi dal denaro

5 Cassazione Sezioni Unite 2017 n. 24675 Usura sopravvenuta

6 Usura Tema svolto su Rilievi civilistici dell'usura

7 Cassazione 1995 n. 1559 risoluzione per eccessiva onerosità sopravvenuta svalutazione monetaria

8 Tribunale Milano 2017 Interessi moratori

9 Cassazione ordinanza n. 27442 del 30/10/2018 (relatore Rossetti) a favore della rilevanza degli interessi moratori

10 Tribunale Milano n. 12425 del 20/12/2018 successivo alla ordinanza della Corte di Cassazione di segno contrario alla stessa

* per i più curiosi: trovate caricato il Tema di Marco Mazzocco sull’usura sopravvenuta: nostro studente, eccezionale giurista, è risultato uno dei primi all’ultimo concorso per magistratura.

Inoltre, per chi volesse restare aggiornato e approfondire la materia, sulla rivista di diritto bancario online (gratuita) si trovano articoli anche relativi ai profili civilistici

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http://www.dirittobancario.it/info-rivista-di-diritto-bancario

1 Cassazione sezioni unite 15/11/2016 n. 23225

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO 1.- Il Tribunale di Venezia, con sentenza n. 1160 in data 27 aprile 2009, accolse l'opposizione della società Ai Mori al decreto ingiuntivo ottenuto dalla società GE.F.IM. e condannò quest'ultima al pagamento delle spese di giudizio (Euro 2.240,29).La società ai Mori, con atto notificato l'11 febbraio 2010, intimò alla società GE.F.IM. precetto per il pagamento, oltre le spese. L'intimata si oppose all'esecuzione dinanzi al giudice di Pace di Venezia contestando alcuni diritti di procuratore richiesti ed eccependo la compensazione legale del debito, fino alla concorrenza, con un credito di minor importo ex altera causa, ma omogeneo - condanna della società ai Mori a rimborsarle le spese giudiziali, emessa con sentenza n. 16 del Tribunale di Venezia il 5 gennaio 2010 - e chiese di accertare l'inefficacia o la nullità del precetto per le somme non dovute, con vittoria di spese, quantificando il residuo credito della società ai Mori in Euro 1.640,35.La società Ai Mori eccepì la cessazione della materia del contendere perchè il 15 marzo 2010 la GE.F.IM. aveva pagato all'ufficiale giudiziario senza riserve l'importo intimato. Si oppose alla compensazione perchè il controcredito - spese giudiziali - non era certo in quanto la sentenza del Tribunale n. 16 del 5 gennaio 2010 non era passata in giudicato, e contestò la voce "spese per registrazione sentenza".2.- Con sentenza del 16 luglio 2010 il Giudice di Pace accolse l'opposizione poichè a decorrere dalla pubblicazione della sentenza a favore della GE.FI.M. - 5 gennaio 2010 - era venuto a coesistenza il credito, liquido ed esigibile, di detta società; dichiarò perciò l'estinzione dei crediti, fino alla concorrenza, accertò il residuo credito della società ai Mori (Euro 1.140) e dichiarò la nullità del precetto per l'eccedenza. Poichè la società GE.F.IM. aveva pagato all'ufficiale giudiziario la somma intimata, condannò la società Ai Mori a restituire alla società GE.F.IM. la somma di Euro 2.183,33 oltre agli interessi dal giorno del pagamento all'ufficiale giudiziario.La società Ai Mori propose appello per erronea applicazione dell'art. 1243 c.c., perchè il credito opposto in compensazione dalla GE.F.IM. non era certo sì che il giudice dell'opposizione all'esecuzione non poteva dichiarare l'estinzione di ogni reciproca ragione fino alla concorrenza, travalicando l'ambito del relativo giudizio, e sconfinando nella potestas iudicandi del giudice dell'impugnazione.3.- Con sentenza del 19 giugno 2012 il Tribunale di Venezia ha respinto l'appello della s.n.c. Ai Mori nei confronti della GE.F.IM. s.a.s..Ha proposto ricorso per cassazione la società Ai Mori, con atto del 25 ottobre 2012. Ha proposto controricorso la s.r.l. GEFIM RE, già GEFIM Immobiliare s.a.s. per atto di scissione del 2 maggio 2011, già GE.F.IM. s.a.s. per atto di scissione dell'11 marzo 2010.

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La ricorrente ha depositato memoria.4.- La Terza Sezione Civile di questa Corte, con ordinanza n. 18001 del 2015, ritenuta l'ammissibilità del ricorso notificato alla s.a.s. GE.F.IM., società scissa e perciò non estinta, e la facoltà della s.r.l. GEFIM RE di intervenire nel giudizio a norma dell'art. 111 cod. proc. civ., allegando i presupposti della sua legittimazione, rilevava il contrasto tra l'orientamento di legittimità, secondo il quale se il credito opposto in compensazione non è certo, e cioè se il titolo giudiziale non è definitivo, non opera la compensazione, e la sentenza n. 23573 del 2013, secondo cui tale circostanza non è di ostacolo alla possibilità di opporre il controcredito in compensazione, e rimetteva la relativa questione al Primo Presidente per l'eventuale assegnazione alle Sezioni Unite.Fissata l'udienza dinanzi alle Sezioni Unite, la ricorrente ha depositato altra memoria.5.- Il P.M., ritenuta l'ammissibilità del ricorso, ha pregiudizialmente rilevato l'estraneità al thema decidendum della questione di contrasto perchè si è formato il giudicato interno sulla premessa giuridica della sentenza impugnata secondo cui possono essere compensati esclusivamente i crediti certi, che, se contestati in giudizio, divengono tali solo a seguito del passaggio in cosa giudicata della sentenza che ne riconosca l'an e il quantum. Da questa premessa, costituente autonoma ratio decidendi, non impugnata, il Tribunale ha però addossato al creditore, che contesti il controcredito, l'onere probatorio del mancato passaggio in giudicato della sentenza che lo accerta, e questa statuizione è stata impugnata dalla società Ai Mori sul presupposto che alla data del 5 gennaio 2010 non era ancora infruttuosamente elasso il termine per impugnare la sentenza che l'aveva condannata a pagare le spese giudiziali alla società GE.F.IM. Perciò, essendosi formato il giudicato interno sulla non deducibilità in compensazione di un credito litigioso, la questione in contrasto - ossia la opponibilità o meno in compensazione di un credito contestato - non può esser rimessa in discussione sollevandola ex officio.In subordine, il P.M. ha concluso per la riaffermazione dei principi di diritto consolidati di questa Corte, argomentandone le ragioni. Diritto MOTIVI DELLA DECISIONE 1.- Va pregiudizialmente disatteso il rilievo della società GEFIM RE s.r.l. di inammissibilità del ricorso della società Ai Mori s.n.c. in quanto proposto nei confronti della società GE.FIM. s.a.s. anzichè della GEFIM RE s.r.l., nuovo soggetto risultante dalla scissione del 2 maggio 2011 della società GEFIM Immobiliare s.a.s., già GE.F.IM. s.a.s. per scissione dell'11 marzo 2010.Ed invero, la scissione, disciplinata dagli artt. 2506 e segg. a decorrere dal 1 gennaio 2004 per effetto dal D.Lgs. 17 gennaio 2003, n. 6, consistente nel trasferimento del patrimonio a una o più società, preesistenti o di nuova costituzione, contro l'assegnazione delle azioni o delle quote di queste ultime ai soci della società scissa, si traduce in una fattispecie traslativa, che, sul piano processuale, non determina l'estinzione della società scissa ed il subingresso di quella risultante dalla scissione nella totalità dei rapporti giuridici della prima, ma si configura come una successione a titolo particolare nel diritto controverso, che, ove intervenga nel corso del giudizio, comporta l'applicabilità della disciplina di cui all'art. 111 cod. proc. civ.(Cass. 30246 del 2011); con la conseguenza che il processo prosegue fra le parti originarie (Cass. 6471 del 2012), con facoltà per il successore di resistere con controricorso all'impugnazione "ex adverso" proposta davanti alla Corte di Cassazione nei confronti del suo dante causa, pur non avendo partecipato al processo nei precedenti gradi di

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giudizio (tra le altre, Cass. 11757 del 2006, 10902 del 2004, 2889 del 2002, 5822 del 1999, 4742 del 1998).2.- Con il primo motivo di ricorso la società Ai Mori lamenta: "Art. 360 c.p.c., n. 3. Violazione dell'art. 1243 c.c., per difetto di presupposto della compensazione legale".3.- Con il secondo motivo lamenta: "Art. 360 c.p.c., n. 3, - Violazione dell'art. 2697 c.c., per errata attribuzione di un onere probatorio inesistente".4.- Con il terzo motivo la medesima deduce: "Art. 360 c.p.c., n. 3. Violazione e falsa applicazione dell'art. 615 c.p.c.", per avere il Giudice di Pace non soltanto pronunciato la compensazione legale tra contrapposti crediti non ancora certi, ma altresì accertato il residuo credito della società Ai Mori di Euro 1.140, così incidendo sui titoli costitutivi giudiziali e modificandone il decisum.5.- Con il quarto motivo censura: "Art. 360 c.p.c., n. 3 - Violazione della norma di diritto di cui all'art. 112 c.p.c.", per avere il giudice dell'opposizione illegittimamente rilevato eccezioni di ufficio.6.- Con il quinto motivo si duole: "Art. 360 c.p.c., n. 5, in relazione all'art. 494 c.p.c.. Motivazione insufficiente sulla mancata declaratoria di cessazione della materia del contendere conseguente all'avvenuto pagamento del debito della società GE.F.IM. eseguito a mani dell'ufficiale giudiziario senza riserva di ripetizione".7.- I motivi, congiunti, sono inammissibili per carenza di interesse non essendovi più controversia tra le parti sulla certezza dei reciproci crediti.Ed infatti la controricorrente rileva che la sentenza n. 16 del 2010 - titolo costitutivo del suo credito opposto in compensazione - era passata in giudicato il 21 giugno 2010 in quanto notificata ai sensi degli artt. 170 e 285 c.p.c., il 21 maggio 2010 e quindi prima della notifica del 26 ottobre 2010 dell'appello della società Ai Mori, così come era divenuto incontrovertibile il credito di quest'ultima società, fondato sulla sentenza n. 1160 del 2009, notificata il 19 novembre 2009 e non impugnata dalla GE.F.IM.. E la ricorrente - in specie nella memoria del 27 gennaio 2015 - è d'accordo sulla circostanza che i rispettivi titoli costitutivi - sentenze di condanna al rimborso delle spese giudiziali - sono divenuti incontrovertibili prima della sentenza di primo grado del 16 luglio 2010 che ha definito il giudizio di opposizione all'esecuzione, dichiarando l'avvenuta estinzione per compensazione del credito della società Ai Mori dalla coesistenza, e fino alla concorrenza, del controcredito della GE.F.IM. Perciò è ormai venuto meno l'interesse della ricorrente alla decisione delle censure proposte.8.- Tuttavia le Sezioni Unite ritengono di comporre il contrasto originato dalla sentenza 23573/2013 della Terza Sezione Civile ai sensi dell'art. 363 c.p.c., comma 3, ribadendo i consolidati principi di diritto.8.1 - La compensazione è disciplinata dal libro quarto, capo 4^ - Dei modi di estinzione delle obbligazioni diversi dalli adempimento - Sezione III del codice civile (dopo la novazione e la remissione).L'art. 1241 - Estinzione per compensazione - dispone: "Quando due persone sono obbligate l'una verso l'altra, i due debiti si estinguono per le quantità corrispondenti, secondo le norme degli articoli che seguono.". L'art. 1242, comma 1, prosegue: "La compensazione estingue i due debiti dal giorno della loro coesistenza. Il giudice non può rilevarla d' ufficio." L'art. 1243 - Compensazione legale e giudiziale - continua: "La compensazione si verifica solo tra due debiti che hanno per oggetto una somma di danaro o una quantità di cose fungibili dello stesso genere e che sono ugualmente liquidi ed esigibili". Il secondo comma stabilisce: "Se il debito opposto in compensazione non è liquido ma è di facile e pronta liquidazione, il

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giudice può dichiarare la compensazione per la parte del debito che riconosce esistente, e può anche sospendere la condanna per il credito fino all'accertamento del credito opposto in compensazione".Per credito liquido - espressione letterale dell'art. 1243 c.c., comma 1, che si attaglia alle obbligazioni pecuniarie o omogenee e fungibili deve intendersi il credito determinato nell'ammontare in base al titolo, come si desume anche dall'identica espressione contenuta in altre norme: l'art. 1208 c.c., n. 3, sui requisiti di validità dell'offerta reale dell'obbligazione prevede una somma per le spese "liquide" e un'altra somma per quelle "non liquide"; l'art. 1282 c.c., stabilisce che i crediti liquidi (ed esigibili) producono interessi; l'art. 633 c.p.c., stabilisce come condizione di ammissibilità del provvedimento monitorio un credito di una somma liquida di danaro.L'ulteriore requisito della certezza sull'esistenza del credito non si desume dalla formulazione dell'art. 1243 c.c., comma 1, perchè la liquidità attiene all'oggetto della prestazione, mentre la certezza attiene all'esistenza dell'obbligazione, e quindi al titolo costitutivo del credito. Perciò la contestazione del titolo non è in sè contestazione sull'ammontare del credito, come determinato in base al titolo, ma se questo è controverso la liquidità e l'esigibilità sono temporanee e a rischio del creditore. E allora, attesa la finalità dell'istituto della compensazione - estinzione satisfattoria reciproca (il che peraltro postula che anche il credito principale sia certo, liquido ed esigibile), che non può verificarsi se la coesistenza del controcredito è provvisoria, la giurisprudenza, da tempo risalente (Cass. n. 620 del 1970) ha affermato che non ricorre il requisito della liquidità del credito non solo quando esso non sia certo nel suo ammontare, ma anche quando ne sia contestata l'esistenza. Da qui l'ormai consolidato principio che per l'operatività della compensazione legale il titolo del credito deve essere incontrovertibile, ossia non essere più soggetto a modificazioni a seguito di impugnazione (Cass. 6820 del 2002, 8338 del 2011) non solo nella sua esattezza, ma anche nella sua esistenza (credito certus nell'an, quid, quale, quantum debeatur).Perciò accanto ad una nozione di liquidità sostanziale del credito in base al titolo, si è aggiunta una nozione di "liquidità" processuale stabilizzata che non sussiste se il creditore principale contesta, non pretestuosamente, nell'an e/o nel quantum, il titolo che accerta il controcredito o potrebbe contestarlo (credito litigioso).La locuzione contenuta nell'art. 1243 c.c., comma 2, - "Se il debito opposto in compensazione.. è di facile e pronta liquidazione.." - è stata interpretata dalla prevalente giurisprudenza di legittimità nel senso che soltanto l'"accertamento" - nel senso di determinabilità - pronto, ossia in tempo processuale breve, e facile, ossia metodicamente semplice (es. mediante calcolo degli interessi), del controcredito - e per questo riservato dalla norma al giudice dinanzi al quale il processo deve proseguire - può giustificare il ritardo della decisione sul credito principale - certo, liquido ed esigibile - onde dichiarare estinti entrambi i rispettivi crediti per compensazione, secondo la ratio dell'istituto: il vantaggio delle parti di risolvere celermente in unica soluzione le reciproche pretese salvaguardando una ragione di equità, perchè non è giusto che sia condannato all'adempimento chi a sua volta ha un concorrente credito.Questa Corte, con orientamento pressochè unanime, ha enunciato i seguenti principi:1) la compensazione legale opera di diritto, su eccezione di parte, e per avere efficacia estintiva "satisfattoria" deve avere ad oggetto due contrapposti crediti certi, liquidi, ossia determinati nella consistenza ed ammontare, omogenei ed esigibili (requisiti desumibili dai rispettivi titoli costitutivi: Cass. 22 ottobre 2014, n. 22324; Cass. 11 gennaio 2006, n. 260);

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2) se il requisito della liquidità del controcredito opposto in compensazione manca, ma il giudice dinanzi al quale è formulata l'eccezione ne ritiene la facile e pronta liquidabilità - giudizio di fatto, insindacabile in cassazione può dichiarare la compensazione fino alla concorrenza per la parte del controcredito che riconosce esistente, e può anche sospendere cautelativamente la condanna per il credito principale fino all'accertamento - id est liquidazione - del controcredito;3) la provvisorietà dell'accertamento del controcredito in separato giudizio non può provocare l'effetto dell'estinzione del credito principale, la quale investe - elidendola irrimediabilmente - la stessa sussistenza, ontologicamente considerata, della ragione di credito e non soltanto la sua tutela esecutiva;4) l'eseguibilità del titolo giudiziale che accerta il credito non attiene alla certezza, ma solo alla tutela anticipata del medesimo, mediante la sua immediata azionabilità (Cass. 8338 del 2011);5) la compensazione legale si distingue da quella giudiziale perchè per la ricorrenza della prima i due crediti contrapposti devono essere certi, liquidi ed esigibili anteriormente al giudizio, mentre per la seconda il credito opposto in compensazione non è liquido, ma viene liquidato dal giudice nel processo, purchè reputato di "pronta e facile liquidazione";6) se l'accertamento del credito opposto in compensazione pende dinanzi ad altro giudice, è questi che deve liquidarlo (Cass. 1695 del 2015, 9608 del 19 aprile 2013);7) in quest'ultimo caso il giudice dell'eccezione di compensazione non può sospendere il giudizio sul credito principale ai sensi dell'art. 295 c.p.c., o art. 337 c.p.c., comma 2, qualora nel giudizio avente ad oggetto il credito eccepito in compensazione sia stata emessa sentenza non passata in giudicato (Cass. n. 325 del 1992), ma, non potendo realizzarsi la condizione prevista dall'art. 1243 c.c., comma 2, - che costituisce disciplina processuale speciale ai fini della reciproca elisione dei crediti nel processo instaurato dal creditore principale - (il giudice) deve dichiarare l'insussistenza dei presupposti per elidere il credito agito e rigettare l'eccezione di compensazione;8) se la certezza del controcredito - il cui onere della prova spetta all'eccipiente (Cass. 5444/2001) - si matura nel corso del giudizio sul credito principale, anche in appello, gli effetti estintivi della compensazione legale decorrono dalla coesistenza dei crediti;9) l'eccezione di compensazione non configura un presupposto di natura logico-giuridica sui requisiti del credito principale il cui accertamento giustifichi il sacrificio delle ragioni di tutela di questo oltre i limiti previsti dalla stessa norma - ossia la possibilità di procrastinare, cautelativamente (Cass. 5319 del 09/08/1983), la condanna ad adempiere del debitore fino alla pronta e facile liquidazione, nel medesimo processo, del credito opposto in compensazione - consentendo di sospendere la decisione sulla causa principale fino al passaggio in giudicato del giudizio sul controcredito come se questo pregiudicasse, in tutto o in parte, l'esito della causa sul credito principale (Cass., 3 ottobre 2012, n. 16844, Cass., 4 dicembre 2010, n. 25272).9.- La Terza Sezione civile, con sentenza n. 23573 del 2013, si è consapevolmente discostata da questi principi collegando la disciplina sostanziale dell'eccezione di compensazione con quella processuale ed in particolare:art. 35 - "Eccezione di compensazione" -: "Quando è opposto in compensazione un credito che è contestato ed eccede la competenza per valore del giudice adito, questi, se la domanda è fondata su un titolo non controverso o facilmente accertabile, può decidere su di essa e rimettere le parti al giudice competente per la decisione relativa all'eccezione di

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compensazione, subordinando, quando occorre, l'esecuzione della sentenza alla prestazione di una cauzione; altrimenti provvede a norma dell'articolo precedente";art. 34 - Accertamenti incidentali -: "Il giudice se per legge o per esplicita domanda di una delle parti è necessario decidere con efficacia di giudicato una questione pregiudiziale che appartiene per materia o per valore alla competenza di un giudice superiore, rimette tutta la causa a quest'ultimo, assegnando alle parti un termine perentorio per la riassunzione della causa dinanzi a lui";art. 40 c.p.c. - Connessione -: "Se sono proposte dinanzi a giudici diversi più cause le quali, per ragioni di connessione, possono essere decise in un solo processo..; Nei casi previsti dagli artt. 34, 35 e 36, le cause cumulativamente proposte o successivamente riunite debbono essere trattate con il rito ordinario..".art. 295 c.p.c. - sospensione necessaria -: "Il giudice dispone che il processo sia sospeso in ogni caso in cui egli stesso o altro giudice deve risolvere una controversia dalla cui definizione dipende la decisione della causa";art. 337 c.p.c., comma 2 - Sospensione dell'esecuzione e dei processi -: "Quando l'autorità di una sentenza è invocata in un diverso processo questo può esser sospeso se tale sentenza è impugnata".9.1 - L'applicabilità delle suddette norme processuali alle innanzi richiamate norme sostanziali non è condivisibile.Muovendo dalla considerazione contenuta nella sentenza n. 23573 del 2013, secondo cui, se l'art. 35 c.p.c., disciplina la competenza a decidere il controcredito eccepito nel giudizio sul credito principale, la stessa norma deve applicarsi allorchè il controcredito è già sub judice poichè eccepito ai sensi dell'art. 1243 c.c., comma 2, emerge che i piani tra le norme sulla competenza, a cui appartiene il sucitato art. 35, e la disciplina sostanziale sulla compensazione - art. 1241 c.c. e segg. - non si intersecano.Ed invero, pacifico per giurisprudenza e dottrina che i requisiti prescritti dall'art. 1243 c.c., comma 1, per la compensazione legale, e cioè l'omogeneità dei debiti, la liquidità, l'esigibilità e la certezza, devono sussistere necessariamente anche per la compensazione giudiziale, il secondo comma di detta norma si limita a consentire al giudice del credito principale di liquidare il controcredito opposto in compensazione soltanto se il suo ammontare è facilmente e prontamente liquidabile in base al titolo. Ma per esercitare questo potere discrezionale - esclusivo e specifico (Cass., 3 ottobre 2012, n. 16844, Cass., 4 dicembre 2010, n. 25272) - al fine di dichiarare la compensazione giudiziale, il controcredito deve essere certo nella sua esistenza e cioè non controverso.Se il controcredito è contestato, come prevede l'art. 35 c.p.c., allora non è certo, e quindi non è idoneo ad operare come compensativo sul piano sostanziale, e l'eccezione di compensazione va respinta.L'ambito di contestazione del controcredito opposto in compensazione secondo l'art. 1243 c.c., secondo comma, è infatti limitato alla liquidità del credito, mentre la contestazione sulla sua esistenza - a meno che essa sia prima facie pretestuosa e infondata (Cass. 6237 del 1991) - lo espunge dalla compensazione giudiziale (Cass. 10352 del 1993). Soltanto la contestazione sulla liquidità del credito opposto in compensazione consente al giudice del credito principale - con accertamento discrezionale di merito, che presuppone la sua competenza, ed incensurabile in Cassazione - di determinarne l'ammontare se è facile e pronto, sopperendo alla mancanza di questo requisito mediante un'attività ricognitiva - attuativa del titolo, funzionale all'eccezione di compensazione.

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La disciplina contenuta nell'art. 1243 c.c., comma 2, consiste nell'inoperatività dell'eccezione di compensazione, sia legale che giudiziale, se è controverso l'an del controcredito, analogamente al caso in cui il credito opposto in compensazione non è di pronta e facile liquidazione (Cass. 10352/1993, cit.). Il giudice del credito principale ha o la possibilità di dichiarare la compensazione per la parte di controcredito già liquida, o di sospendere, eccezionalmente, la condanna del credito principale fino alla liquidazione di tutto il credito opposto in compensazione, ma non di ritardare la decisione sul credito principale fino all'accertamento, da parte di egli stesso o di altro giudice, dell'esistenza certa di quello opposto in compensazione; altrimenti sarebbe pleonastico il sintagma "di pronta e facile liquidazione" richiesto dalla norma. Nè d' altro canto a tal fine può applicarsi analogicamente la disciplina dell'art. 35 c.p.c., non potendosi ravvisare il canone interpretativo dell'eadem ratio.9.2- Peraltro, neanche le norme sulla modificazione della competenza per ragioni di connessione, contenute nel libro Primo, Sezione IV, del codice di rito legittimano il meccanismo processuale della condanna con riserva e della sospensione del giudizio sulla compensazione che la sentenza n. 23573/2013 ritiene applicabile onde consentire di poter sempre opporre, davanti al giudice investito del credito principale, la compensazione con un credito la cui esistenza sia in corso di accertamento in separato giudizio, in modo da garantire comunque l'operatività della compensazione pur se al momento della relativa eccezione il credito opposto non era ancora accertato con provvedimento giudiziale definitivo, e così impedire che il passaggio in cosa giudicata del titolo giudiziale definitivo sull'esistenza del credito opposto in compensazione intervenga in un momento in cui non sia più possibile farlo valere, a quel titolo e a quei fini, per essere stato definitivamente esitato il giudizio promosso dal creditore-debitore contrapposto.9.2.1 Da un lato, è principio immanente, innucleato nell'art. 1243 c.c., comma 2, che la compensazione giudiziale è processualmente rilevante soltanto quando il giudice del credito principale sia competente anche per il credito opposto in compensazione, con conseguente esclusione dell'eccezione di compensazione fondata su un credito la cui certezza dipenda dall'esito di un separato giudizio in corso. Non solo la disciplina speciale contenuta nell'art. 1243 c.c., consente la sospensione cautelativa della decisione sul credito principale soltanto se il credito opposto in compensazione è di facile e pronta liquidazione, ma sia il conferimento di questo potere al giudice del credito principale, sia la finalità con esso perseguita, postulano che il giudizio prosegua dinanzi al giudice del credito principale per consentirgli di effettuare la valutazione e la liquidazione del controcredito prevista dalla norma. E quindi, come nel caso in cui l'accertamento del credito opposto in compensazione non sia facile e pronto il giudice del credito principale, per espressa previsione normativa, non ha il potere di sospendere la decisione su quest'ultimo, ma deve immediatamente decidere su di esso, così a maggior ragione non può sospenderne la decisione a norma dell'art. 295 c.p.c., o art. 337 c.p.c., comma 2, che certamente gli precludono qualsiasi valutazione di pronta o facile liquidazione del controcredito in quanto spettante al giudice competente.9.2.2- Dall'altro, l'interpretazione dell'art. 1243 c.c., comma 2, non solo non collide con la disposizione contenuta nell'art. 35 c.p.c., ma ne costituisce conferma. Detta norma processuale prevede che se il giudice non è competente sull'eccepito controcredito contestato ed il credito principale è fondato su titolo non controverso o facilmente accertabile, decide prontamente su di esso - (conformemente all'esigenza desumibile anche dall'art. 1243 c.c., comma 2, di decidere il più rapidamente possibile sul credito, se del caso

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subordinando la condanna ad una cauzione, analogamente alla sospensione cautelativa dell'art. 1243 c.c., comma 2) - e quindi non ne sospende la decisione, nè ai sensi dell'art. 295, nè ai sensi dell'art. 337 c.p.c., comma 2, e rimette la decisione sull'eccezione al giudice competente. Se invece il credito principale non è fondato su titolo non controverso o facilmente accertabile, rimette la decisione su entrambi i crediti al giudice competente sul credito opposto in compensazione, a norma dell'art. 34 c.p.c., a cui rinvia l'art. 35 c.p.c., u.c., - che così assume la configurazione di eccezione riconvenzionale di compensazione.Riassumendo, sia l'art. 1243 c.c., comma 2, sia l'art. 35 c.p.c., prevedono che a decidere i contrapposti crediti sia il giudice dinanzi al quale essi sono contemporaneamente dedotti, mentre il meccanismo previsto dall'art. 35 c.p.c., è attivabile nel solo caso in cui il giudice del credito principale non possa conoscere di quello opposto in compensazione.Pertanto, alla luce dell'esaminata disciplina, cade anche l'argomento contenuto nella sentenza n. 23573 del 2013 della disparità di trattamento tra credito opposto contestato nel giudizio sul credito principale e credito opposto già contestato in giudizio pendente davanti ad altro giudice. La disparità di trattamento non attiene a fattispecie identiche sul piano processuale; sussisterebbe laddove vi fossero norme che, contraddittoriamente, prevedessero la possibilità di dedurre un credito in compensazione non contestato e altre norme che escludessero tale possibilità per un credito contestato giudizialmente davanti ad un giudice competente per vagliare entrambe le posizioni.Nè infine alcuna norma di quelle scrutinate dalla sentenza n. 23573/2013 prevede, in via analogica, che la causa in cui sia pronunciata condanna con riserva venga rimessa sul ruolo - il che presuppone sempre la competenza del giudice che ha deciso con riserva - per verificare l'esistenza delle condizioni della compensazione e poi sospendere la decisione ai sensi dell'art. 295 c.p.c., o art. 377 c.p.c., comma 2, in attesa della decisione incontrovertibile di altro giudice sul controcredito. Senza sottacere che, poichè anche il credito accertato definitivamente potrebbe essere contestato dal creditore principale per fatti sopravvenuti, l'attività del giudice potrebbe nuovamente paralizzarsi se non competente a verificare la fondatezza del fatto sopravvenuto ed egli dovrebbe nuovamente sospendere il processo in attesa della decisione definitiva sul controcredito. E poichè nell'attuale regime processuale - art. 42 c.p.c. - non vi è più spazio per una discrezionale, e non sindacabile, facoltà di sospensione del processo, esercitabile dal giudice al di fuori dei casi tassativi di sospensione legale, che, ove ammessa, si porrebbe in insanabile contrasto sia con il principio di eguaglianza e della tutela giurisdizionale sia con il canone della durata ragionevole, che la legge deve assicurare nel quadro del giusto processo (S.U. 14670 del 2003, 23906/2010 22324/2014), deve ritenersi preclusa la configurazione di una nuova ipotesi di sospensione del processo non prevista espressamente da una norma del rito civile, nemmeno in via di analogia, come invece ritiene la decisione n. 23573/2013.10.- Si deve quindi concludere che le norme di cui agli artt. 34, 35, 36, 40, 295 e 337 c.p.c., sia che la controversia sull'esistenza del controcredito sorga nel giudizio sul credito principale, sia che già penda dinanzi ad un giudice di pari grado o superiore, non rilevano sulla speciale disciplina delineata dall'art. 1243 c.c., comma 2, perchè le norme sulla competenza per accertare l'esistenza del controcredito sono estranee alla compensazione giudiziale, come da tempo risalente avvertito da questa Corte.Con la decisione n. 4129 del 1956 si rilevò infatti che: "Se il convenuto chiede non soltanto il rigetto della domanda dell'attore per compensazione con un suo credito di ammontare superiore, ma anche la condanna dell'attore a pagargli la differenza, ricorre l'ipotesi dell'art. 36 c.p.c., di domanda riconvenzionale che dipende dal titolo che già appartiene alla causa

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come mezzo di eccezione. In tal caso, poichè la compensazione giudiziale prevista dal secondo comma dell'art. 1243 c.c., è ammessa solo se sussiste la facile e pronta liquidazione del credito opposto, egli, coordinando gli artt. 35, 36 e 112 c.p.c., deve emettere condanna per il credito principale certo e liquido, rigettare l'eccezione di compensazione giudiziale, ed iniziare l'istruttoria per il controcredito, ove competente, ovvero rimettere la causa su di esso al giudice competente non potendo allo stato il controcredito operare come compensativo, avendo il convenuto chiesto per esso la condanna dell'attore. Quindi il giudice, operata la valutazione insindacabile e discrezionale di non liquidabilità facile e pronta del controcredito, e per tale ragione respinta l'eccezione di compensazione, deve provvedere sulla domanda riconvenzionale di condanna per il controcredito".11.- Queste Sezioni Unite, confermano, in conformità alle conclusioni del P.M., il consolidato orientamento di legittimità e ai sensi dell'art. 363 c.p.c., comma 3, affermano i seguenti principi di diritto:A) "Le norme del codice civile sulla compensazione stabiliscono i presupposti sostanziali, oggettivi, del credito opposto in compensazione: liquidità - che include il requisito della certezza - ed esigibilità. Verificata la ricorrenza dei predetti requisiti, il giudice dichiara l'estinzione del credito principale per compensazione - legale - a decorrere dalla coesistenza con il controcredito e, accogliendo la relativa eccezione, rigetta la domanda.B) Se il credito opposto in compensazione è certo, ma non liquido, nel senso di non determinato, in tutto o in parte, nel suo ammontare, il giudice può provvedere alla relativa liquidazione se è facile e pronta; quindi, o può dichiarare estinto il credito principale per compensazione giudiziale fino alla concorrenza con la parte di controcredito liquido, o può sospendere cautelativamente la condanna del debitore fino alla liquidazione del controcredito eccepito in compensazione.C) Se è controversa, nel medesimo giudizio instaurato dal creditore principale, o in altro giudizio già pendente, l'esistenza del controcredito opposto in compensazione (art. 35 c.p.c.) il giudice non può pronunciare la compensazione, nè legale nè giudiziale.D) La compensazione giudiziale, di cui all'art. 1243 c.c., comma 2, presuppone l'accertamento del controcredito da parte del giudice dinanzi al quale la medesima compensazione è fatta valere, mentre non può fondarsi su un credito la cui esistenza dipenda dall'esito di un separato giudizio in corso e prima che il relativo accertamento sia divenuto definitivo. In tale ipotesi, pertanto, resta esclusa la possibilità di disporre la sospensione della decisione sul credito oggetto della domanda principale, e va parimenti esclusa l'invocabilità della sospensione contemplata in via generale dall'art. 295 c.p.c., o dall'art. 337 c.p.c., comma 2, in considerazione della prevalenza della disciplina speciale del citato art. 1243 c.c.".12.- Sussistono ragioni per compensare le spese del giudizio di cassazione. PQM P.Q.M. Le Sezioni Unite dichiarano inammissibile il ricorso.Ai sensi dell'art. 363 c.p.c., comma 3, affermano i seguenti principi di diritto:A) "Le norme del codice civile sulla compensazione stabiliscono i presupposti sostanziali, oggettivi, del credito opposto in compensazione: liquidità - che include il requisito della certezza - ed esigibilità. Verificata la ricorrenza dei predetti requisiti, il giudice dichiara l'estinzione del credito principale per compensazione - legale - a decorrere dalla coesistenza con il controcredito e, accogliendo la relativa eccezione, rigetta la domanda.

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B) Se il credito opposto in compensazione è certo, ma non liquido, nel senso di non determinato, in tutto o in parte, nel suo ammontare, il giudice può provvedere alla relativa liquidazione se è facile e pronta; quindi, o può dichiarare estinto il credito principale per compensazione giudiziale fino alla concorrenza con la parte di controcredito liquido, o può sospendere cautelativamente la condanna del debitore fino alla liquidazione del controcredito eccepito in compensazione.C) Se è controversa, nel medesimo giudizio instaurato dal creditore principale, o in altro giudizio già pendente, l'esistenza del controcredito opposto in compensazione (art. 35 cod. proc. civ.) il giudice non può pronunciare la compensazione, nè legale nè giudiziale.D) La compensazione giudiziale, di cui all'art. 1243 c.c., comma 2, presuppone l'accertamento del controcredito da parte del giudice dinanzi al quale la medesima compensazione è fatta valere, mentre non può fondarsi su un credito la cui esistenza dipenda dall'esito di un separato giudizio in corso e prima che il relativo accertamento sia divenuto definitivo. In tale ipotesi, pertanto, resta esclusa la possibilità di disporre la sospensione della decisione sul credito oggetto della domanda principale, e va parimenti esclusa l'invocabilità della sospensione contemplata in via generale dall'art. 295 c.p.c., o dall'art. 337 c.p.c., comma 2, in considerazione della prevalenza della disciplina speciale del citato art. 1243 c.c.".

2 Cassazione Sezioni Unite 13/09/2016 n. 17989

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO Il Calzaturificio Due Elle spa, con sede in (OMISSIS), convenne davanti al Tribunale di Firenze (nel cui circondario rientra Fucecchio) la Trading Post s.r.l. di (OMISSIS) per il pagamento di 9.000 Euro più IVA quale corrispettivo di un servizio (studio e sviluppo di due linee di calzature) reso alla convenuta.Accogliendo l'eccezione di quest'ultima il giudice adito si è dichiarato incompetente in favore del Tribunale di Macerata, individuato sia quale foro del convenuto, sia quale foro in cui era sorta l'obbligazione, sia quale foro del pagamento della somma di danaro oggetto della causa. In particolare, quanto a quest'ultimo criterio di collegamento (i primi due pacificamente radicando presso il tribunale marchigiano la competenza sulla domanda della società attrice), ha osservato che le obbligazioni pecuniarie si identificano - anche ai fini di cui all'art. 1182 c.c., comma 3, che ne prevede l'adempimento al domicilio del creditore - esclusivamente in quelle sorte originariamente come tali, ossia aventi ad oggetto sin dalla loro costituzione la prestazione di una determinata somma di denaro; con la conseguenza che nella specie non può farsi applicazione della predetta norma, non essendo indicato nel contratto l'importo del corrispettivo spettante all'attrice, onde il luogo di adempimento dell'obbligazione, rilevante agli effetti della determinazione del giudice competente ai sensi dell'art. 20 c.p.c., ult. parte, si identifica, ai sensi del richiamato art. 1182, comma 4, nel domicilio della società debitrice.Il Calzaturificio Due Elle ha proposto ricorso per regolamento di competenza, cui non ha resistito l'intimata Trading Post.La Sesta Sezione ha promosso l'assegnazione del ricorso alle Sezioni Unite avendo rilevato l'esistenza di un contrasto nella giurisprudenza di legittimità sulla questione "se sia

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applicabile l'art. 1182 c.c., comma 3, qualora nel contratto non risulti predeterminato l'importo del corrispettivo di una prestazione, ma tale importo venga autodeterminato dall'attore nell'atto con cui fa valere la propria pretesa creditoria". Diritto MOTIVI DELLA DECISIONE 1. - Davanti a queste Sezioni Unite il ricorso è stato discusso in pubblica udienza ancorchè, trattandosi di regolamento di competenza, sarebbe stata più corretta la trattazione in camera di consiglio. Tale irregolarità, tuttavia, non ha conseguenze sulla validità degli atti poichè la pubblica udienza assicura alle parti garanzie non certo minori del procedimento camerale.2. - Secondo l'ordinanza di rimessione della Sesta Sezione, il contrasto di giurisprudenza da dirimere attiene al concetto di obbligazione pecuniaria rilevante ai sensi dell'art. 1182 c.p.c., comma 3, e sussiste tra:a) un primo orientamento (per il quale l'ordinanza menziona Cass. 22326/2007) secondo cui, ove la somma di danaro oggetto dell'obbligazione debba essere ancora determinata dalle pani o, in loro sostituzione, liquidata dal giudice mediante indagini ed operazioni diverse dal semplice calcolo aritmetico, trova applicazione l'art. 1182, comma 4, secondo cui l'obbligazione deve essere adempiuta al domicilio che il debitore ha al tempo della scadenza;b) un secondo orientamento (al quale vengono ricondotte Cass. 7674/2005, 12455/2010, 10837/2011, richiamate nel ricorso per regolamento e nella requisitoria scritta del P.M.) secondo cui il forum destinatae solutionis previsto dall'art. 1182, comma 3, è applicabile in tutte le cause aventi ad oggetto una somma di denaro qualora l'attore abbia richiesto il pagamento di una somma determinata, non incidendo sulla individuazione della competenza territoriale la maggiore o minore complessità dell'indagine sull'ammontare effettivo del credito, che attiene esclusivamente alla successiva fase di merito.L'ordinanza evidenzia che, secondo quest'ultimo orientamento, è irrilevante che la prestazione richiesta non sia convenzionalmente prestabilita, essendo sufficiente che l'attore abbia agito per il pagamento di una somma da lui puntualmente indicata.Soggiunge che il contrasto ha talora trovato "una via di fuga" nel rilievo che ai fini della competenza occorre avere riguardo ai fatti per come prospettati dall'attore, prescindendo dalla fondatezza delle contestazioni sollevate del convenuto o comunque concernenti il merito della causa.3. - Può osservarsi anzitutto che il contrasto non riguarda la necessità del requisito della liquidità affinchè un'obbligazione pecuniaria debba essere adempiuta al domicilio del creditore (requisito in realtà non espressamente previsto dalla legge, tanto che in dottrina non è mancato chi ne ha ritenuto la natura puramente pretoria); riguarda piuttosto il modo di intendere tale requisito.In effetti nella giurisprudenza di legittimità non è stato mai messo in discussione che obbligazioni pecuniarie "portabili", ai sensi dell'art. 1182 c.c., comma 3, sono soltanto quelle liquide, essendo assolutamente consolidato il principio che detta disposizione si riferisce alle sole obbligazioni pecuniarie derivanti da titolo convenzionale o giudiziale che ne abbia stabilito la misura, trovando altrimenti applicazione la regola di cui al quarto comma, per la quale la prestazione va eseguita al domicilio del debitore (i precedenti sono numerosissimi, ci si limita a segnalarne alcuni: Cass. 391/1966, 3422/1972, 2591/1997, 21000/2011), precisandosi che la liquidità sussiste anche nel caso in cui l'ammontare del credito può essere determinato con un semplice calcolo aritmetico e senza indagini od operazioni ulteriori (a Cass. 22326/2007, già richiamata nell'ordinanza di rimessione, si

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aggiungano, tra le altre, Cass. 3422/1971, 3538/1995, 3808/1999, 4511/2001, 10226/2001, 7021/2002, 9092/2004, 22306/2007) in base a quanto risulta dal titolo.Si è altresì precisato che sulla determinazione del forum destinatae solutionis a norma dell'art. 1182 c.c., comma 3, e art. 20 c.p.c., seconda parte, non può influire l'eccezione del convenuto che neghi l'esistenza dell'obbligazione, perchè il principio stabilito dall'art. 10 c.p.c., per la determinazione della competenza per valore - secondo il quale il collegamento tra il giudice e la controversia è determinato in base alla domanda - è una regola di portata generale e quindi applicabile anche ai criteri stabiliti per determinare la competenza territoriale per le cause relative a diritti di obbligazione, ai sensi dell'art. 20 c.p.c., sui quali perciò non influisce la fondatezza o meno della domanda (Cass. 789/1998, 1877/1999, 8121/2003, 20177/2004, 8359/2005, 11400/2006); mentre l'unico limite alla rilevanza dei fatti allegati dall'attore ai fini della determinazione della competenza è l'eventuale prospettazione artificiosa, finalizzata a sottrarre la controversia al giudice precostituito per legge (Cass. 10226/2001, 8189/2012).Anche queste Sezioni Unite, allorchè sono state chiamate a pronunciarsi sull'applicabilità del terzo ovvero del quarto comma dell'art. 1182 c.c., al fine di individuare il forum destinatae solutionis quale criterio speciale di competenza giurisdizionale in materia contrattuale, a norma dell'art. 5, n. 1, della Convenzione di Bruxelles del 27 settembre 1968 e dell'art. 5, n. 1, del Regolamento (CE) n. 44/2001 del 22 dicembre 2000, hanno confermato la necessità del requisito della liquidità delle obbligazioni pecuniarie (v. sentenze 9214/1987, 5899/1997), nonchè l'indifferenza delle contestazioni del convenuto circa la sussistenza dell'obbligazione dedotta in giudizio dall'attore, poichè anche la giurisdizione nei confronti dello straniero deve essere riscontrata in base alla domanda, indipendentemente da ogni questione circa il suo fondamento nel merito, non operando tale principio solo nel caso in cui la prospettazione della domanda sia artificiosamente finalizzata a sottrarre la controversia al giudice precostituito per legge (ordinanza 6217/2006, sentenza 13900/2013).Proprio la necessità di fare riferimento alla domanda, secondo la regola dettata dall'art. 10 c.p.c., è alla base dell'orientamento, richiamato dalla ricorrente e dal P.M., che considera sufficiente a integrare il requisito della liquidità dell'obbligazione, al fine di rendere quest'ultima "portabile" ai sensi dell'art. 1182 c.c., comma 3, la quantificazione della propria pretesa da parte dell'attore.Si legge in Cass. 7674/2005, che ha introdotto tale orientamento, cui si sono poi uniformare Cass. 12455/2010 e 10837/2011, citt.: "Occorre ricordare che, a norma dell'art. 10 c.p.c., il valore della causa, ai fini della competenza, si determina dalla domanda, e, più precisamente, per l'art. 14 comma 1, nelle cause relative a somme di danaro (...) il valore si determina in base alla somma indicata (...) dall'attore. Per esigenze di armonia ed omogeneità del sistema, la stessa regola deve valere, nei limiti del possibile, anche ai fini della competenza per territorio, nel senso che anche per questa dovrà tenersi conto non dell'effettiva realtà sostanziale sottostante alla domanda, ma del tenore di quest'ultima, indipendentemente dal suo maggiore o minore fondamento. E pertanto, nelle obbligazioni, come quella dedotta in giudizio, aventi ad oggetto una somma di denaro determinata, n'entrano nella previsione dell'art. 1182 c.c., comma 3, quelle che siano come tali indicate dall'attore, mentre il diverso e successivo problema della effettiva sussistenza di esse attiene al merito (vedansi, sul punto, Cass. 27 gennaio 1998 n. 789; 5 marzo 1999 n. 1877). Nella specie il giudice a quo (...) avrebbe dovuto pertanto rivolgere la propria attenzione al contenuto dell'atto di citazione, e, poichè esso indicava, quale credito dell'attrice, una

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specifica somma di denaro asseritamente dovuta per effetto del rapporto contrattuale tra le parti (...), avrebbe dovuto riconoscere che trattavasi di una somma di ammontare già determinato e trarne le debite conseguenze in termini di competenza". Con il che la mera quantificazione della pretesa da parte dell'attore fa premio sull'intrinseca liquidità della stessa, la prospettazione della domanda nel processo prevale sulle caratteristiche sostanziali del diritto azionato.4. - Ritengono queste Sezioni Unite che il contrasto così determinatosi rispetto all'orientamento, in precedenza costante, che richiedeva la effettiva liquidità dell'obbligazione, in base al titolo, ai fini della qualificazione dell'obbligazione stessa come portabile, per gli effetti di cui al combinato disposto dell'art. 1182 c.c., comma 3, e art. 20 c.p.c., vada risolto confermando l'orientamento tradizionale.4.1. - Tra le obbligazioni pecuniarie, invero, quelle illiquide hanno una particolarità: ai fini dell'adempimento del debitore è necessario un passaggio ulteriore, è necessario cioè un ulteriore titolo, convenzionale o giudiziale.Questa particolarità non è indifferente rispetto alla disciplina di tale categoria di obbligazioni.Si consideri che la nozione di obbligazione portabile, di cui all'art. 1182 c.c., comma 3, rileva non soltanto ai fini dell'individuazione del forum destinatae solulionis contemplato dall'art. 20 c.p.c., seconda parte, ma anche ai fini del prodursi della mora ex re ai sensi dell'art. 1219 c.c., comma 2, n. 3, che esclude la necessità della costituzione in mora "quando è scaduto il termine, se la prestazione deve essere eseguita al domicilio del creditore", come appunto stabilito per le obbligazioni pecuniarie dall'art. 1182, comma 3, cit..La giurisprudenza di questa Corte nega che la mora ex re si verifichi anche per le obbligazioni pecuniarie illiquide (Cass. 535/1999, 9092/2004). Se tra le obbligazioni pecuniarie "portabili" contemplate da tale disposizione rientrassero quelle illiquide, la mora - e con essa la responsabilità ai sensi dell'art. 1224 c.c. - scatterebbe automaticamente anche a carico del debitore la cui prestazione non sia in concreto possibile perchè l'ammontare della sua prestazione è ancora incerto: il che sarebbe ingiustificato, nonchè contrario al sistema, il quale esclude la responsabilità del debitore la cui prestazione sia impossibile per causa a lui non imputabile (art. 1218 c.c.). L'interpretazione restrittiva della nozione di obbligazione portabile è inoltre coerente anche con il favor debaoris che ispira la regola generale di cui all'art. 1182, comma 2, n. 4 cit..Le indicate esigenze di protezione del debitore, che sono a fondamento dell'interpretazione restrittiva dell'art. 1182 c.c., comma 3, richiedono evidentemente che la liquidità del credito sia ancorata a dati oggettivi, mentre sarebbero frustrate se essa si facesse coincidere con la pura e semplice precisazione, da parte dell'attore, della somma di denaro dedotta in giudizio, pur in mancanza di indicazioni nel titolo, come sostenuto da Cass. 7674/2005, cit., e dagli altri precedenti che vi si richiamano discostandosi dall'orientamento tradizionale. In tal modo, infatti, non il dato oggettivo della liquidità del credito radicherebbe la controversia presso il forum creditoris, bensì il mero arbitrio del creditore stesso, il quale scelga di indicare una determinata somma come oggetto della sua domanda giudiziale, con conseguente lesione anche del principio costituzionale del giudice naturale.Va dunque ribadito che rientrano nella previsione di cui all'art. 1182 c.c., comma 3, esclusivamente le obbligazioni pecuniarie liquide, il cui ammontare, cioè, sia determinato direttamente dal titolo ovvero possa essere determinato in base ad esso con un semplice calcolo aritmetico.

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4.2. - Peraltro il riferimento di alcuni precedenti di legittimità (sopra richiamati al capoverso del p.3) alla non necessità di indagini ulteriori ai fini della liquidazione del credito, quale requisito di liquidità dello stesso, ha determinato il prodursi di qualche equivoco, di cui vi è traccia nella requisitoria scritta del P.M. davanti alla Sesta Sezione, nella quale non a caso viene sottolineata l'irrilevanza, ai fini della determinazione della competenza territoriale ai sensi dell'art. 20 c.p.c., ultima parte, della "maggiore o minore complessità dell'indagine sull'ammontare effettivo del credito, la quale attiene esclusivamente alla successiva fase di merito".Si impone, pertanto, una puntualizzazione.Liquidità, come si è visto, significa che la somma dovuta risulta dal titolo e dunque non è necessario, per determinarla, un ulteriore titolo negoziale o giudiziale. L'ammontare della somma dovuta potrà risultare direttamente dal titolo originario, che la precisi, oppure solo indirettamente dallo stesso, allorchè questo indichi il criterio o i criteri applicando i quali tale somma va determinata (cfr. Cass. 19958/2005). Deve trattarsi, però, di criteri stringenti, tali, cioè, che la somma risultante dalla loro applicazione sia necessariamente una ed una soltanto: questo è ciò che si intende affermare, nella giurisprudenza di questa Corte, allorchè si ammette una liquidità scaturente da semplici operazioni aritmetiche. Se, infatti, il risultato dell'applicazione dei predetti criteri non fosse obbligato, residuando un margine di scelta discrezionale, il credito non potrebbe dirsi liquido, perchè quel margine di discrezionalità non potrebbe essere superato se non mediante un ulteriore titolo (convenzionale o giudiziale).Dovendo, inoltre, la liquidità del credito essere effettiva, il principio che la competenza va determinata in base alla domanda non può essere esteso sino al punto di consentire all'attore di dare dei fatti una qualificazione giuridica diversa da quella prevista dalla legge, o di allegare fatti (ad esempio un contratto che indichi l'ammontare del credito) privi di riscontro probatorio. Resta fermo, ovviamente, che tali fatti sono accertati dal giudice, ai soli fini della competenza, allo stato degli atti secondo la regola di cui all'art. 38 c.p.c., u.c..4.3. - Può in conclusione enunciarsi il seguente principio di diritto: "Le obbligazioni pecuniarie da adempiersi al domicilio del creditore, secondo il disposto dell'art. 1182 c.c., comma 3, sono - agli effetti sia della mora ex n ai sensi dell'art. 1219 c.c., comma 2, n. 3, sia della determinazione del forum destinatae solutionis ai sensi dell'art. 20 c.p.c., ultima parte, - esclusivamente quelle liquide, delle quali, cioè, il titolo determini l'ammontare, oppure indichi i criteri per determinarlo senza lasciare alcun margine di scelta discrezionale, e i presupposti della liquidità sono accertati dal giudice, ai fini della competenza, allo stato degli atti secondo quanto dispone l'art. 38 c.p.c., u.c. ".5. - Tanto premesso, l'istanza di regolamento deve essere respinta, atteso che dalla ricorrente non viene neppure dedotto che nel contratto fosse indicato l'ammontare del credito dell'attrice o i criteri per determinarlo.In mancanza di attività difensiva della parte intimata non occorre provvedere sulle spese processuali. PQM P.Q.M. La Corte rigetta il ricorso.Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, dichiara la sussistenza dei presupposti dell'obbligo di versamento, a carico della parte ricorrente, dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

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Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione, il 3 maggio 2016.Depositato in Cancelleria il 13 settembre 2016

3 Cassazione civile sez. un. 18/12/2007 n. 26617

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO C.A.M. proponeva opposizione all'esecuzione immobiliare promossa da G.L. e C.L. in base a sentenza di condanna.Il tribunale di Prato rigettava l'opposizione; la corte di appello di Firenze confermava il rigetto con sentenza pubblicata il 12.3.2002.La corte riteneva che l'offerta della somma dovuta con assegno circolare rifiutata dai creditori non aveva estinto l'obbligazione, per cui il titolo esecutivo aveva conservato la propria efficacia.La C. ha proposto ricorso per cassazione, deducendo due motivi; gli intimati non hanno svolto attività difensiva.Il ricorso, assegnato alla terza sezione civile, è stato rimesso alle Sezioni Unite per la risoluzione del contrasto di giurisprudenza circa l'efficacia estintiva del pagamento dei debiti pecuniari mediante assegno circolare.Diritto MOTIVI DELLA DECISIONE 1. Con il primo motivo la ricorrente, denunciando violazione e falsa applicazione degli artt. 1210, 2910 c.c., comma 1, art. 615 c.p.c. in relazione all'art. 360 c.p.c., n. 3, sostiene che il giudice del merito avrebbe dovuto dichiarare estinta l'obbligazione ed accogliere l'opposizione dal momento che, come è pacifico, essa ha offerto con assegno circolare la somma indicata nel precetto e le spese della procedura esecutiva; richiama il principio affermato da Cass. 10.2.1998, n. 1351, secondo cui la consegna di assegni circolari, pur non equivalendo al pagamento effettuato con somme di denaro, estingue l'obbligazione quando il rifiuto del creditore appare contrario alle regole di correttezza che a norma dell'art. 1175 c.c. gli impongono di prestare la sua collaborazione all'adempimento dell'obbligazione.2. Il motivo pone la questione se nelle obbligazioni pecuniarie abbia efficacia estintiva solo il pagamento in moneta contante oppure anche mediante consegna di assegni circolari.La questione si risolve in quella se il creditore possa rifiutare senza giustificato motivo il pagamento che il debitore intenda effettuare con assegni circolari e pretendere che avvenga con la corresponsione di denaro contante, pena l'inadempimento e gli effetti conseguenti di "mora debendi".Il tema dell'indagine è quindi il carattere obbligatorio della modalità del pagamento con dazione di moneta avente corso legale e correlativamente la rifiutabilità di mezzi alternativi di pagamento.La soluzione presenta notevole interesse, considerato che nell'esperienza pratica ed ancor più nel mondo degli affari l'estinzione della maggior parte delle obbligazioni pecuniarie e della quasi totalità di quelle di importo rilevante avviene con assegni circolari o mezzi alternativi di pagamento.3. Secondo l'orientamento largamente prevalente nella giurisprudenza di questa Corte l'invio di assegni circolari o bancari da parte del debitore obbligato al pagamento di somme di

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denaro si configura come "datio in solutum" o più precisamente come proposta di "datio pro solvendo", la cui efficacia liberatoria dipende dal preventivo assenso del creditore (che può manifestarsi anche con comportamento concludente) ovvero dalla sua accettazione che è ravvisabile quando trattenga e riscuota l'assegno; in tale ipotesi la prestazione diversa da quella dovuta è da ritenere accettata con riserva, quanto al definitivo effetto liberatorio, dell'esito della condizione "salvo buon fine" o "salvo incasso" inerente all'accettazione di un credito anche cartolare, in pagamento dell'importo dovuto in numerario.3.1. L'orientamento risale alla sentenza 22.7.1973, n. 2200, ed è stato seguito dalle sentenze 14.4.1975, n. 1412; 3.7.1980, n. 4205; 5.1.1981, n. 24; 16.2.1982, n. 971; 8.1.1987, n. 17; 19.7.1993, n. 8013; 3.2.1995, n. 1326; 3.4.1998, n. 3427; 21.12.2002, n. 18240; 10.2.2003, n. 1939; 10.6.2005, n. 12324; 14.2.2007, n. 3254.La sua più completa espressione è nella sentenza 10.6.2005, n. 12324, il cui "iter" argomentativo si articola nelle seguenti proposizioni.Il dato letterale dell'art. 1277 c.c., comma 1 comporta che i debiti pecuniari si estinguono con moneta avente corso legale; sebbene l'assegno sia bancario che circolare costituisca, a differenza della cambiale, mezzo di pagamento, la consegna o trasmissione di esso, salva diversa volontà delle parti, si intende fatta "pro solvendo" e non "pro soluto" con esclusione dell'immediato effetto estintivo del debito; l'invio di assegno circolare in luogo della somma di denaro configura violazione sia degli artt. 1277 e 1197 c.c. (rappresentando una "datio pro solvendo" in assenza di consenso del creditore) che dell'art. 1182 c.c. (secondo il quale l'obbligazione avente ad oggetto denaro deve essere adempiuta al domicilio del creditore) in quanto comporta la sostituzione del domicilio del creditore con la sede dell'istituto bancario presso cui è riscuotibile l'assegno; l'art. 1277 c.c. è norma derogabile che cessa di operare, rendendo inapplicabile il principio secondo cui il creditore di somme di denaro non è tenuto ad accettare in pagamento titoli di credito anche se assistiti da particolari garanzie di solvibilità dell'emittente come gli assegni circolari, quando esista una manifestazione di volontà espressa o presunta del creditore in tale senso; non si può ritenere che la consegna di assegni circolari, pur non equivalendo al pagamento in contanti, estingue l'obbligazione quando il rifiuto del creditore appare contrario alle regole di correttezza che gli impongono di prestare la sua collaborazione ai sensi dell'art. 1175 c.c. in quanto la collaborazione è dovuta solo per ricevere l'oggetto della prestazione e non un oggetto diverso; i principi sopra esposti valgono se il debito pecuniarìo non supera l'importo di Euro 12.500; se lo supera vige una particolare disciplina (D.L. n. 143 del 1991 convertito in L. n. 197 del 1991) che conserva, tuttavia, piena valenza all'art. 1227 c.c..3.2. Il concetto fondamentale è che l'adempimento dell'obbligazione pecuniaria avviene attraverso il trasferimento della moneta contante attuato con la consegna materiale di pezzi monetari nelle mani del creditore.L'obbligazione pecuniaria è assimilata al debito di dare una quantità di cose fungibili (i pezzi monetari).La titolarità della disponibilità monetaria è collegata al possesso e la sua circolazione importa la dazione di pezzi monetari considerati quali cose da trasferire in proprietà al creditore.Come è stato osservato, l'adempimento con denaro contante realizza l'attribuzione della moneta al creditore con gli strumenti del terzo libro del codice civile attraverso le categorie del possesso e della proprietà.4. Secondo altro orientamento assolutamente minoritario nella giurisprudenza di questa Corte la consegna di assegni circolari, pur non equivalendo a pagamento a mezzo somme di

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denaro, estingue l'obbligazione quando il rifiuto del creditore appare contrario alle regole di correttezza che gli impongono di prestare collaborazione all'adempimento dell'obbligazione a norma dell'art. 1175 c.c..Sono espressive di questo orientamento le sentenze 16.2.1998, n. 1351; 7.7.2003, n. 10695.L'orientamento è motivato considerando che gli assegni circolari in ragione delle modalità di emissione assicurano al legittimo portatore il conseguimento della somma di denaro indicata. Sebbene essi non siano denaro nè possano svolgerne la funzione, la facilità della circolazione e la sicurezza della convertibilità in denaro possono rendere contrario a buona fede e quindi illegittimo il loro rifiuto da parte del creditore.Pertanto, se il creditore non ha un apprezzabile interesse a ricevere il denaro contante nè ha ragione di dubitare della regolarità ed autenticità degli assegni, la consegna di essi estingue l'obbligazione di pagamento sia pure con la clausola implicita del buon fine.L'obiezione che il creditore deve recarsi presso la banca per riscuotere l'assegno, mentre di regola ha diritto di ricevere la prestazione al suo domicilio, è superata con il riferimento alla crescente considerazione sociale degli assegni circolari e con il fatto che normalmente il creditore ha un conto bancario sul quale deposita denaro e titoli.4.1. La valutazione si sposta dal comportamento del debitore a quello del creditore ed ha come oggetto la verifica della legittimità del rifiuto del pagamento a mezzo assegno circolare alla luce del principio della correttezza e della buona fede oggettiva.Il principio, desunto dall'art. 1175 c.c. (che impone l'obbligo di comportarsi secondo le regole della correttezza) e dall'art. 1375 c.c. (che stabilisce che il contratto deve essere eseguito secondo buona fede), costituisce il limite oltre il quale il rifiuto del creditore diventa illegittimo ed il pagamento con assegno circolare spiega efficacia solutoria salvo buon fine.Con tale impostazione si introduce nel meccanismo estintivo dell'obbligazione pecuniaria il principio della correttezza e della buona fede nella prospettiva di adeguare il dato normativo alle esigenze della realtà concreta dove la circolazione del denaro a mezzo assegni circolari garantisce maggiore sicurezza e celerità, svincolandola da un aggancio a substrati fisici.4.2. In dottrina si è osservato che sulla base del criterio della correttezza dell'adempimento si possono raggiungere i medesimi risultati dell'ordinamento tedesco che al p.362 del BGB stabilisce il principio che il rapporto obbligatorio si estingue quando la prestazione dovuta ha efficacia per il creditore e, cioè, quando si è definitivamente consolidata nel patrimonio dello stesso; questo principio ha consentito alla giurisprudenza tedesca di affermare che il pagamento eseguito mediante mezzi alternativi (nel caso mediante bonifico bancario) diventa definitivamente efficace per il creditore quando la somma di denaro entra nella sua piena e libera disponibilità (BGH 28.10.1998 in Neue Juristiche Wochenschrift, 1999,210).4.3. Costituisce riflesso dell'orientamento minoritario l'affermazione contenuta nella sentenza di questa Corte 6.9.2004, n. 17961, secondo la quale l'assegno circolare è considerato a tutti gli effetti equivalente al denaro contante, per cui il pagamento effettuato tramite la consegna di tale assegno estingue immediatamente l'obbligazione.Si tratta, peraltro, di un "obiter" privo di supporto giustificativo.Contiene una chiara esposizione dell'orientamento la sentenza 19.5.2006, n. 11851, laddove rileva che questa Corte non ha affermato che l'assegno circolare costituisce un mezzo di pagamento, ma soltanto che il rifiuto di esso nei rapporti tra debitore e creditore può essere contrario al principio di buona fede, stante la sicurezza del buon fine ed il minimo aggravio per il creditore, pur senza prendere posizione sulla questione ed anzi confermando che

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l'assegno circolare rimane un titolo di credito con tutte le conseguenze che ne derivano in base alla legge sulla circolazione del titolo.Condivide l'orientamento minoritario la sentenza 19.12.2006, n. 27158, secondo la quale, se è vero che la consegna di un assegno circolare al creditore non equivale alla consegna di denaro contante, è altrettanto vero che, costituendo l'assegno circolare un mezzo di pagamento e non sussistendo alcun pericolo di mancanza della provvista presso la banca obbligata al pagamento, la "datio" di tale assegno secondo gli usi negoziali, come è prassi per i pagamenti delle società di assicurazione o, comunque, come accettata dal creditore, è sicuramente idonea ad estinguere l'obbligazione senza che occorra un preventivo accorcio delle parti in tale senso o il rilascio di una quietanza liberatoria.5. Nella dottrina più recente prevale la tesi che la regola, secondo la quale il denaro contante è l'unico mezzo legale di pagamento delle obbligazioni pecuniarie, va "scardinata" e va riconosciuta efficacia solutoria a mezzi alternativi di pagamento che eliminano il trasferimento materiale di moneta, come l'assegno circolare, dovendosi intendere per "somma di denaro" la funzione ideale del mezzo monetario.In questo ambito si distingue fra moneta scritturale incentrata sulle scritturazioni bancarie, che riposa in definitiva sulla garanzia che offrono le banche, ed altri sistemi di pagamento, come la cambiale, precisandosi che l'effetto satisfattorio si realizza con la creazione della disponibilità monetaria a favore del creditore.L'idea di fondo è la smaterializzazione del denaro con trasformazione del diritto reale sui pezzi monetari in diritto di credito ad una determinata somma di denaro.Nella prospettiva della smaterializzazione il principio nominalistico (in base al quale il debitore si libera dal proprio debito con una quantità di moneta corrispondente a quella "nominalmente" dovuta a prescindere dalle variazioni del suo potere di acquisto) riguarda la disciplina dei mezzi di pagamento e, cioè, la determinazione della quantità della somma da offrire in pagamento e non la qualità dei mezzi di pagamento.La linea di tendenza è verso l'eliminazione degli spostamenti di moneta contante, oltre che per esigenze di semplificazione della tecnica dei pagamenti (evitando l'impiego di notevoli quantità di numerario), perchè la custodia, la circolazione e lo scambio attraverso moneta contante sono valutati inefficienti ed insicuri specialmente per importi rilevanti.L'adempimento dell'obbligazione pecuniaria è inteso non come atto materiale di consegna della moneta contante, bensì come prestazione diretta all'estinzione del debito, nella quale le parti debbono collaborare osservando un comportamento da valutare per il creditore secondo la regola della correttezza e per il debitore secondo la regola della diligenza.Ove avvenga con mezzi diversi, l'adempimento si può considerare efficace e liberatorio solo quando realizza i medesimi effetti del pagamento per contanti e, cioè, quando pone il creditore nelle condizioni di disporre liberamente della somma di denaro, senza che rilevi se la disponibilità sia riconducibile ad un rapporto di credito verso una banca presso la quale la somma sia stata accreditata.Si è osservato che nell'ordinamento manca una regola di parificazione della moneta avente corso legale a quella scritturale;tale regola si può, però, desumere da un'abbondante legislazione speciale che si inserisce nella generale tendenza alla decodificazione caratteristica dell'epoca attuale.6.1. Nell'interpretazione della normativa codicistica sul sistema di pagamento dei debiti pecuniari non si può prescindere dai numerosi interventi legislativi infittitisi negli ultimi tempi che hanno introdotto sistemi alternativi, rendendoli frequentemente obbligatori.

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In questo ambito assumono particolare rilievo il D.L. 3 maggio 1991, n. 143, convertito con modificazioni in L. 5 luglio 1991, n. 197, che pone il divieto di effettuare pagamenti mediante trasferimento di denaro contante e titoli al portatore per somme superiori ad Euro 12.500, ed il D.L. 4 luglio 2006, n. 223, convertito con modificazioni in L. 4 agosto 2006, n. 248, secondo cui i compensi in denaro per l'esercizio di arti e professioni sono riscossi esclusivamente mediante assegni non trasferibili o bonifici o altre modalità di pagamento bancario o postale nonchè mediante sistemi di pagamento elettronici, salvo che per importi inferiori ad Euro 100,00.A seguito di questi interventi l'area di applicazione della normativa codicistica si è a tal punto ristretta che il sistema di pagamento da essa previsto è diventato addirittura marginale.Nè vale l'osservazione che siccome il D.L. n. 143 del 1991 conserva valenza all'art. 1277 c.c. il creditore ha il diritto di pretendere il pagamento in moneta avente corso legale, sia pure attraverso l'intermediario abilitato che subentra nella posizione del debitore (Cass. 10.6.2005, n. 12324), in quanto la convertibilità in denaro è tipica di qualsiasi sistema e alternativo di pagamento, con la precisazione che il rischio di convertibilità e, cioè, l'eventualità che la banca non sia in grado di garantire la conversione in moneta legale dipende in definitiva dal grado di affidabilità della banca.6.2. La disciplina del sistema codicistico di pagamento delle obbligazioni pecuniarie è contenuta negli artt. 1277, 1182, 1197 c.c..6.3. Come già detto, l'interpretazione dell'art. 1277 c.c. privilegiata dalla prevalente giurisprudenza di questa Corte è che i debiti pecuniari si estinguono con moneta avente corso legale nello Stato ed il creditore può rifiutare qualsiasi altro mezzo di pagamento, compreso l'assegno circolare che pure è assistito da una particolare affidabilità e sicurezza in relazione alle modalità di emissione.In dottrina si è osservato che l'art. 1277 c.c. non riguarda le modalità di pagamento, ma il sistema valutario nazionale e la necessità, quindi, che i mezzi monetar impiegati si riferiscano ad esso, evidenziando che secondo la concezione moderna il denaro è unità ideale di valore cui l'ordinamento attribuisce la funzione di unità di misura dei valori monetari o secondo una concezione più raffinata "ideal unit", astratta unità ideale monetaria creata dallo Stato.6.4. Considerato che nell'ambiente socio-economico l'assegno circolare e quello bancario costituiscono mezzi normali di pagamento;che la circolazione del denaro tende a realizzarsi con strumenti sempre più sofisticati affrancati dalla consegna materiale di numerario per ragioni di sicurezza e velocizzazione dei rapporti; che collateralmente alla disciplina codicistica è cresciuta una legislazione che ha introdotto sistemi alternativi di pagamento, rendendoli spesso obbligatori, si impone un'interpretazione evolutiva, costituzionalmente orientata, dell'art. 1277 c.c.che superi il dato letterale e, cogliendone l'autentico senso, lo adegui alla mutata realtà.6.5. Si ritiene, pertanto, che l'espressione "moneta avente corso legale nello Stato al momento del pagamento" significa che i mezzi monetar impiegati si debbono riferire al sistema valutario nazionale, senza che se ne possa indurre alcuna definizione della fattispecie del pagamento solutorio.Ed in altri termini la moneta avente corso legale non è l'oggetto del pagamento che è rappresentato dal valore monetario o quantità di denaro.6.6. Con questa interpretazione dell'art. 1277 c.c. risultano ammissibili altri sistemi di pagamento, purchè garantiscano al creditore il medesimo effetto del pagamento per contanti

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e, cioè, forniscano la disponibilità della somma di denaro dovuta. (jrfv Tale effetto sicuramente produce l'assegno circolare con il quale, stante la precostituzione della provvista, tramite l'intermediazione di una banca si realizza il trasferimento della somma di denaro con la messa a disposizione del creditore.Il rischio di convertibilità e, cioè, l'eventualità che per qualsiasi ragione la banca non sia in grado di assicurare la conversione dell'assegno in moneta legale rimane a carico del debitore, il quale si libera solo con il buon fine dell'operazione.6.7. Occorre precisare che lo schema della "datio pro solvendo" con l'applicazione della regola stabilita dall'art. 1197 c.c. rimane estraneo all'impiego del mezzo alternativo di adempimento in quanto la moneta avente corso legale non è l'oggetto del pagamento, costituito dal valore monetario o quantità di denaro, per cui tale mezzo non è niente altro che una diversa modalità di adempimento.Diversamente opinando, si perverrebbe alla inaccettabile conclusione che sistemi diversi di pagamento, imposti per somme superiori a 12.500 Euro, non siano ammessi per somme inferiori.6.8. La raggiunta conclusione non trova ostacolo nell'art. 1182 c.c. sul luogo dell'adempimento.Vale in proposito considerare che l'obbligazione pecuniaria non è assimilabile all'obbligazione di dare cose fungibili, sicchè non risulta perfettamente adattabile lo schema di tale tipo di obbligazione, mentre assume rilevanza l'interesse del creditore alla giuridica disponibilità della somma invece che al possesso dei pezzi monetari.In questa prospettiva il concetto di domicilio del creditore non coincide con il suo domicilio anagrafico soggettivamente riconducìbile alla persona fisica, ma deve essere oggettivizzato e può individuarsi nella sede (filiale, agenzia o altro) della banca presso la quale il creditore ha un conto.6.9. Mentre se il debitore paga in moneta avente corso legale il debito pecuniario di importo inferiore ad Euro 12.500 o per il quale non sia imposta una diversa modalità di pagamento, il creditore non può rifiutare il pagamento e l'effetto liberatorio si verifica al momento della consegna della somma di denaro, se il debitore paga con assegno circolare o con altro sistema che assicuri ugualmente la disponibilità della somma dovuta, il creditore può rifiutare il pagamento solo per giustificato motivo che deve allegare ed all'occorrenza anche provare; in questo caso l'effetto liberatorio si verifica quando il creditore acquista la concreta disponibilità della somma.La valutazione del comportamento del creditore va fatta in base alla regola della correttezza e della buona fede oggettiva.7. Il contrasto va, pertanto, risolto nel senso che "nelle obbligazioni pecuniarie, il cui importo sia inferiore a 12.500 Euro o per le quali non sia imposta per legge una diversa modalità di pagamento, il debitore ha facoltà di pagare, a sua scelta, in moneta avente corso legale nello Stato o mediante consegna di assegno circolare; nel primo caso il creditore non può rifiutare il pagamento, come, invece, può nel secondo solo per giustificato motivo da valutare secondo la regola della correttezza e della buona fede oggettiva; l'estinzione dell'obbligazione con l'effetto liberatorio del debitore si verifica nel primo caso con la consegna della moneta e nel secondo quando il creditore acquista concretamente la disponibilità giuridica della somma di denaro, ricadendo sul debitore il rischio dell'inconvertibilità dell'assegno".

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8. La sentenza non è in linea con l'enunciato principio e va, pertanto, cassata con rinvio ad altra sezione della corte di appello di Firenze affinchè vi si adegui, pronunciando altresì sulle spese del giudizio di cassazione.9. Il secondo motivo, con il quale la ricorrente lamenta violazione e falsa applicazione degli artt. 345, 474, 112, 113 c.p.c. in relazione all'art. 360 c.p.c., n. 3 rimane assorbito.PQM P.Q.M. la Corte, a Sezioni Unite, accoglie il primo motivo del ricorso;assorbito il secondo; cassa in relazione la sentenza impugnata e rinvia, anche per le spese, ad altra sezione della corte di appello di Firenze.Così deciso in Roma, il 6 novembre 2007.Depositato in Cancelleria il 18 dicembre 2007

4 Cassazione Sezioni Unite 2010 n. 13658

Con ricorso notificato alla s.p.a. UNI ONE Ass.ni, l'avv. T. Gina - premesso che detta società, deducendo di avere "onorato la propria obbligazione tempestivamente" ("tramite l'invio, in data 31 maggio 2004, di un assegno bancario" che essa "creditrice aveva trattenuto" pur avendo "poi intrapreso ... procedura esecutiva"), aveva proposto "opposizione alla procedura esecutiva" da lei intrapresa contro la medesima società "in forza della sentenza del GdP di Roma n. 42445/2003" -, in forza di due motivi, chiedeva di cassare la sentenza n. 21124/07 depositata il 29 ottobre 2007 con la quale il Tribunale di Roma aveva accolto ("nei limiti ... esposti" nella motivazione) l'opposizione proposta, ai sensi dell'art. 615 c.p.c., dalla debitrice.Nel proprio controricorso la Duomo-Unione Assicurazione (già s.p.a.UNI ONE) instava per il rigetto del ricorso avverso.Diritto MOTIVI DELLA DECISIONE 1. Con la sentenza gravata, il Tribunale di Roma - riprodotte le seguenti "conclusioni": "per l'opponente: "dichiarare interamente estinta, per compensazione, la obbligazione e pertanto soddisfatta la creditrice procedente e, per l'effetto, dichiarare nulli il precetto e tutti gli atti conseguenti; in subordine, nell'ipotesi di rigetto della eccezione di compensazione, dichiarare non dovute alcune voci di precetto ..."; per l'opposto: "respingere l'opposizione perchè infondata"" -, respinta "l'eccezione di compensazione sollevata dall'opponente" ("in quanto non è stata fornita la prova del passaggio in giudicato del titolo ... solo provvisoriamente eseguibile e quindi non certo"), ha accolto ("nei limiti ... esposti" nella motivazione) l'opposizione ex art. 615 c.p.c. proposta dalla società di assicurazione osservando:- "merita accoglimento la doglianza sulla illegittimità di alcune voci di precetto (ad es. consultazione col cliente, corrispondenza informativa, delega ed autentica, fascicolazione ed indice) e di tale eccezione, si osserva incidentalmente, dovrà tener conto il GE nella eventuale assegnazione del credito";- sul "motivo principale di opposizione" (da accogliere "nei limiti che seguono"): "l'assegno inviato alla creditrice prima della notifica del precetto aveva ad oggetto un importo

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corrispondente alle somme capitali e ai relativi interessi come dovute all'epoca del pagamento"; "secondo la più recente giurisprudenza di legittimità (Cass. Civ. n. 27158 del 19 dicembre 2006), nelle obbligazioni aventi ad oggetto somme di denaro, il pagamento effettuato mediante corresponsione di un assegno costituisce, secondo gli usi negoziali, idoneo modo di estinguere la obbligazione, senza che occorra un preventivo accordo tra le parti".Per il giudice a quo, infine, "è da considerare, altresì, il comportamento della creditrice certamente contrario ai principi di correttezza e buona fede, intesa senso oggettivo (Cass. 9 luglio 2002 n. 18240; Cass. 28 luglio 1997 n. 7051)": "il rifiuto della creditrice di ricevere l'assegno è stato oltremodo contrario a buona fede anche alla luce del motivo addotto a sostegno di tale rifiuto, vale a dire la non congruità dell'importo portato dal titolo".2. La ricorrente chiede di cassare tale decisione in forza di due motivi.A. Con il primo la T. - esposto che nel caso "l'assegno corrisposto dalla debitrice è consistito in un assegno bancario" - denunzia violazione e falsa applicazione degli artt. 1182 e 1217 cod. civ., nonchè dell'art. 112 c.p.c. (error in procedendo) adducendo che - avendo questa Corte affermato, "in numerosissime massime" ("comprese quelle richiamate nella sentenza gravata"), che "ai fini dell'estinzione dell'obbligazione pecuniaria sia necessaria la dazione di moneta contante avente corso legale ... ex art. 1277 c.c." ed esteso "solo recentemente" ("Cass. civ. sez. unite, 18 dicembre 2007 n. 26617") "tale potere estintivo esclusivamente all'assegno circolare anche se con determinate limitazioni" - l'assegno bancario non rientra "nell'ambito degli strumenti legali di estinzione delle obbligazioni pecuniarie" e conserva la "sua natura di datio pro solvendo e pertanto rifiutabile dal debitore" ("in tal senso ...Cass. 3^, 10 febbraio 2003 n. 1939").La ricorrente aggiunge che il "contrasto" del "rifiuto" del "titolo di credito" da parte del creditore con "l'art. 1175 c.c." è stato affermato da un "orientamento minoritario" di questa Corte "ma sempre con riguardo all'assegno circolare" per cui la decisione impugnata è illegittima "non solo per contrasto con gli artt. 1277 e 1182 c.c. ma soprattutto per omessa pronuncia su una specifica domanda di essa parte creditrice" ("nel caso ..., al contrario l'impresa assicuratrice ha versato un assegno bancario e pertanto nessun obbligo di restituzione grava in capo allo scrivente") "consistente" nella "carenza di efficacia solutoria del pagamento tramite assegno bancario in luogo della moneta contate o circolare" atteso che "il giudice si è limitato a pronunciarsi ... sull'efficacia solutoria dell'assegno circolare ma non su quella del titolo oggetto di causa" ("assegno bancario").A conclusione la T. chiede (quesito di diritto):- "se nella fattispecie in esame in cui parte debitrice aveva inviato, alla creditrice, ad estinzione del debito portato dalla sentenza del Giudice di Pace di Roma un semplice assegno bancario, poteva la parte creditrice rifiutare la forma di pagamento utilizzata dal debitore";- "se nella fattispecie in esame in cui parte debitrice aveva inviato alla creditrice, quale estinzione dell'obbligazione pecuniaria pendente, un assegno bancario poteva il giudice dell'opposizione equiparare il pagamento tramite assegno bancario a quello effettuato tramite assegno circolare e pertanto considerare il rifiuto del pagamento tramite assegno bancario contrario alle regole di correttezza e buona fede");- "se, nella fattispecie in esame, in cui parte debitrice aveva proposto opposizione ad atto di precetto deducendo l'avvenuta estinzione dell'obbligazione per avvenuto inoltro, alla creditrice, prima della notifica del precetto, di un assegno bancario di importo pari alle spese

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liquidate, poteva il giudice ritenere estinta l'obbligazione pecuniaria attribuendo all'assegno bancario efficacia di datio pro soluto".B. Con l'altro motivo la ricorrente - assunto aver "parte debitrice" richiesto, "nelle conclusioni dell'atto di opposizione", di "'condannarla a rimborsare alla Compagnia la somma di Euro 220,00 versata quale sostituto d'imposta ... (cfr. opposizione all'esecuzione)" - denunzia violazione o falsa applicazione dell'art. 37 c.p.c., addicendo dover "ritenersi che trattandosi di controversia fra sostituito e sostituto, relativa alla legittimità delle ritenute d' acconto operate dal secondo, anche nella ipotesi in cui la domanda del sostituito venga formulata nei confronti del sostituto invocando l'art. 2043 c.c., il ... giudice avrebbe dovuto primariamente dichiarare la sua incompetenza per materia, sulla questione, in favore delle commissioni tributarie (cfr. Cass. civ., sez. Unite, 24 ottobre 1997 n. 10456), con la conseguenza che l'omessa declaratoria di incompetenza, cui ha fatto seguito una pronuncia del seguente tenore accoglie l'opposizione ... (pag. 4 sentenza gravata) ha determinato una violazione dell'art. 37 c.p.c.".A conclusione la T. chiede (quesito di diritto) "se nell'ipotesi di specie in cui parte debitrice, nella propria opposizione all'esecuzione, aveva richiesto la restituzione, al sostituto d' imposta, della ritenuta di acconto versata, il giudice dell'opposizione avrebbe dovuto dichiarare la sua incompetenza sulla questione in favore delle Commissioni Tributarie".3. La società di assicurazioni - esposto essere "illuminante sul comportamento" della creditrice il fatto che la stessa, "pur iniziando una procedura esecutiva", abbia trattenuto "l'assegno inviatole a saldo delle sue spettanze" -, dal suo canto, oppone (in sintesi): - sul primo motivo dell'avverso ricorso, che "deve considerarsi altamente pregevole nell'ottica di uno sviluppo dei commerci e della effettiva rispondenza delle decisioni ai casi concreti, come il Tribunale abbia ritenuto certo il pagamento avvenuto a mezzo dell'assegno bancario ... come deve ritenersi ...logica e coerente la motivazione della corte di merito laddove afferma che il ^rifiuto della creditrice è stato contrario ai criteri di correttezza e buona fede";- quanto al secondo motivo del medesimo ricorso, che si tratta di una "questione ... secondaria ... trattata dal Tribunale solo per economia processuale e per una forma di attrazione da parte della questione principale".4. Il ricorso deve essere respinto perchè infondato.A. La sentenza impugnata - come si evince univocamente dalle riportate argomentazioni che la sorreggono - è fondata su due autonome rationes decidendi, ciascuna delle quali idonea, da sola, a sorreggere la statuizione adottata:- l'una (a conforto della quale il Tribunale richiama la "più recente giurisprudenza di legittimità":"Cass. ... n. 27158 del 19 dicembre 2006") affermativa della idoneità della "corresponsione di un assegno" ad "estinguere l'obbligazione" ("senza che occorra un preventivo accordo tra le parti");- l'altra fondata sulla contrarietà a "correttezza e buona fede" del "comportamento" tenuto nel caso dalla creditrice, il cui "rifiuto" è stato ritenuto (appunto) "oltremodo contrario a buona fede" perchè giustificato (unicamente) con l'asserita (ma, in realtà, infondata al momento dell'invio del titolo nè la T. ha in alcun modo censurato lo specifico accertamento fattuale del giudice del merito secondo cui "l'assegno inviato alla creditrice prima della notifica del precetto aveva ad oggetto un importo corrispondente alle somme capitali e ai relativi interessi come dovute all'epoca del pagamento") non congruità dell'importo portato dall'assegno bancario rimesso dalla debitrice.

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Tale ragione - diversamente da quanto sostenuto dalla ricorrente - non costituisce affatto espressione di un "orientamento minoritario" di questa Corte (nè, tampoco, relativo al solo "assegno circolare") perchè (Cass., un., 23 dicembre 2009 n. 27214, in materia non contrattuale) "l'obbligo di buona fede o correttezza costituisce, ex art. 2 Cost., un autonomo dovere giuridico, espressione di un generale principio di solidarietà sociale (cfr. Cass. 5 marzo 2009 n. 5349)", "applicabile in ambito contrattuale od extracontrattuale", che "impone di mantenere, nei rapporti della vita di relazione, un comportamento leale", comunque "volto alla salvaguardia dell'utilità altrui, nei limiti dell'apprezzabile sacrificio (in termini ..., Cass. 5 febbraio 2007 n. 3462)": "il principio di correttezza e buona fede, in particolare, deve improntare il rapporto tra le parti non solo durante l'esecuzione del contratto ma anche nell'eventuale fase dell'azione giudiziale per ottenere l'adempimento (Cass., sez. un., 15 novembre 2007 n. 23726; Cass. 11 giugno 2008 n. 15746)".La necessità (affermata nella stessa decisione) di osservare la "regola della correttezza e della buona fede oggettiva" nella "valutazione del comportamento del creditore", peraltro, costituisce l'imprescindibile fondamento logico anche della sentenza n. 26617 depositata il 18 dicembre 2007 da queste sezioni unite quando hanno affermato il principio secondo cui "nelle obbligazioni pecuniarie, il cui importo sia inferiore a 12.500,00 Euro o per le quali non sia imposta per legge una diversa modalità di pagamento, il debitore ha facoltà di pagare, a sua scelta, in moneta avente corso legale nello Stato o mediante consegna di assegno circolare; nel primo caso il creditore non può rifiutare il pagamento, come, invece, può nel secondo solo per giustificato motivo da valutare secondo la regola della correttezza e della buona fede oggettiva; l'estinzione dell'obbligazione con l'effetto liberatorio del debitore si verifica nel primo caso con la consegna della moneta e nel secondo quando il creditore acquista concretamente la disponibilità giuridica della somma di denaro, ricadendo sul debitore il rischio dell'inconvertibilità dell'assegno".Questa decisione, infatti, contiene ulteriori (pienamente condivisibili) considerazioni relative alla "valutazione del comportamento del creditore", particolarmente utili ai fini della presente controversia, laddove osserva che:- l'inciso "moneta avente corso legale nello Stato al tempo del pagamento" contenuto nell'art. 1277 cod. civ., comma 1, "significa che i mezzi monetar impiegati si debbono riferire al sistema valutario nazionale, senza che se ne possa indurre alcuna definizione della fattispecie del pagamento solutorio": "la moneta avente corso legale", infatti, "non è l'oggetto del pagamento" perchè questo "è rappresentato dal valore monetario o quantità di denaro";- "l'adempimento dell'obbligazione pecuniaria è inteso non come atto materiale di consegna della moneta contante, bensì come prestazione diretta all'estinzione del debito" ("nella quale le parti debbono collaborare osservando un comportamento da valutare per il creditore secondo la regola della correttezza e per il debitore secondo la regola della diligenza");- "nell'ambiente socio-economico l'assegno circolare e quello bancario costituiscono mezzi normali di pagamento".Nella medesima sentenza, poi, si è precisato che "il concetto di domicilio del creditore non coincide con il suo domicilio anagrafico soggettivamente riconducibile alla persona fisica, ma deve essere oggettivizzato e può individuarsi nella sede (filiale, agenzia o altro) della banca presso la quale il creditore ha un conto", con la conseguenza che "se il debitore paga con assegno circolare o con altro sistema che assicuri ugualmente la disponibilità della somma dovuta, il creditore può rifiutare il pagamento solo per giustificato motivo che j deve allegare ed all'occorrenza anche provare".

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Da tali principi discende che il solo fatto dell'adempimento, da parte del debitore, della propria obbligazione pecuniaria con un "altro sistema" di pagamento (ovverosia di messa a disposizione del "valore monetario" spettante) - "sistema" che, comunque, "assicuri ugualmente la disponibilità della somma dovuta" - non legittima affatto il creditore a rifiutare il pagamento stesso essendo all'uopo necessario che il rifiuto sia sorretto anche da un "giustificato motivo", che il creditore deve "allegare ed all'occorrenza anche provare". Nel caso la ricorrente non ha dedotto l'esistenza di nessun motivo a giustificazione del mancato incasso dell'assegno benchè l'avesse ricevuto (come accertato dal giudice a quo) oltre sei mesi prima di intraprendere l'azione esecutiva opposta dalla debitrice proprio per effetto di detto invio e tanto dimostra la effettiva contrarietà del suo "comportamento" ai "principi di correttezza e buona fede", come ritenuto dal giudice del merito.L'infondatezza della doglianza relativa al punto di censura esaminato, in una con la già evidenziata autonomia di questa ratio decidendi a sorreggere da sola la decisione impugnata, rende del tutto inutile l'esame della censura avente ad oggetto l'altra ragione della medesima decisione (capacità della "corresponsione di un assegno" di "estinguere l'obbligazione", "senza che occorra un preventivo accordo tra le parti") attesa la evidente inidoneità dell'eventuale fondatezza di quest' ultima a determinare, da sola, la cassazione della sentenza impugnata.B. Il secondo motivo - il cui quesito ex art. 366 bis c.p.c., risulta, peraltro, imperfettamente formulato laddove fa riferimento ad ipotesi "in cui parte debitrice ... aveva richiesto la restituzione, al sostituto d' imposta, della ritenuta di acconto versata" mentre il soggetto obbligato alla restituzione dovrebbe identificarsi nel "sostituito" (non nel "sostituto") - è inammissibile perchè (diversamente da quanto suppone anche la società che parla comunque di "questione ... trattata dal Tribunale") diretto a censurare una pronuncia inesistente: nella sentenza impugnata, infatti, non vi è traccia (nemmeno nelle "conclusioni" della detta "debi-trice" riportate nell'epigrafe) nè della proposizione di siffatta richiesta da parte della "debitrice" nè, soprattutto, di una qualche decisione sulla stessa adottata dal giudice a quo nella cui pronuncia di "accoglimento dell'opposizione" spiegata dalla debitrice non si rinviene alcuna condanna della odierna ricorrente a pagare alcunchè in favore di quella "debitrice".L'eventuale violazione dell'art. 112 c.p.c. - per omissione di pronuncia attinente detta richiesta - in cui potrebbe essere incorso il giudice a quo, comunque, non è stata denunziata dalla società, unica avente interesse (art. 100 c.p.c.), per cui la pretesa domanda di restituzione (se effettivamente prospettata) deve ritenersi definitivamente estranea al thema decidendi: va, quindi, rilevata la carenza di qualsiasi presupposto fattuale che possa involgere l'applicazione dell'art. 37 c.p.c. del quale la T. denunzia la violazione con il motivo in esame.4. Per la sua totale soccombenza la ricorrente, sensi dell'art. 91 c.p.c., deve essere condannata a rifondere alla società le spese processuali del giudizio di legittimità, liquidate (nella misura indicata in dispositivo) in base alle vigenti tariffe forensi, al valore della controversia ed all'attività difensiva svolta dalla parte vittoriosa (il cui controricorso deve ritenersi inammissibile perchè proposto oltre il termine di cui all'art. 370 c.p.c., comma 1).PQM P.Q.M. La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente a rifondere alla società le spese del giudizio di legittimità che liquida in complessivi Euro 920,00 (novecentoventi/00), di cui Euro 720,00 (settecentoventi/00) per onorario, oltre spese generali ed accessori di legge.

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Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 20 aprile 2010.

5 Cassazione Sezioni Unite 19/10/2017 n. 24675

FATTI DI CAUSA 1. La Eurofinanziaria s.p.a. convenne in giudizio la Banca Monte dei Paschi di Siena s.p.a. chiedendo dichiararsi nulla la previsione del tasso d'interesse del 7,75 % fisso semestrale, contenuta nel mutuo decennale di 14 miliardi di lire concluso con la convenuta il 19 gennaio 1990, perchè detto tasso era superiore al tasso soglia determinato secondo le previsioni dalla L. 7 marzo 1996, n. 108, in materia di usura, entrata in vigore nel corso del rapporto. Chiese, conseguentemente, la condanna della convenuta al rimborso degli interessi già riscossi, dovendo il mutuo considerarsi gratuito, o comunque al rimborso della parte di tali interessi eccedente il tasso legale o quello ritenuto giusto, nonchè al risarcimento dei danni, anche morali, conseguenti al reato di usura commesso dalla banca, rifiutatasi di rinegoziare il tasso a seguito dell'entrata in vigore della Legge n. 108, cit..La convenuta resistette e il Tribunale di Milano accolse la domanda, condannando la banca al rimborso degli interessi riscossi per la parte eccedente il tasso soglia.2. La sentenza di primo grado è stata integralmente riformata dalla Corte d'appello su impugnazione della banca soccombente.Qualificato il rapporto come mutuo fondiario, la Corte ha ritenuto applicabile il D.P.R. 21 gennaio 1976, n. 7, sulla disciplina del credito fondiario; dal che deriva, a suo giudizio, la legittimità del contratto di mutuo, con la relativa determinazione del tasso d'interesse, e l'assorbimento di ogni altra questione.3. La Eurofinanziaria ha proposto ricorso per cassazione con quattro motivi.La Banca Monte dei Paschi di Siena s.p.a. si è difesa con controricorso.Il ricorso è stato assegnato alle Sezioni Unite a seguito dell'ordinanza interlocutoria 31 gennaio 2017, n. 2484 della Prima Sezione, con cui, premessa l'applicabilità della legge n. 108 del 1996 anche ai mutui fondiari, è stato rilevato un contrasto di giurisprudenza, all'interno di quella Sezione, sulla questione - qui rilevante in conseguenza della premessa appena indicata dell'incidenza del sistema normativo antiusura, introdotto dalla richiamata legge, sui contratti stipulati anteriormente alla sua entrata in vigore, anche alla luce della norma di interpretazione autentica di cui al D.L. 29 dicembre 2000, n. 394, art. 1, comma 1, conv. dalla Legge 28 febbraio 2001, n. 24.Le parti hanno anche presentato memorie. Diritto RAGIONI DELLA DECISIONE 1. Con il primo motivo di ricorso, denunciando vizio di motivazione e violazione di norme di diritto, si contesta la qualificazione del mutuo oggetto di causa come fondiario sulla base del solo richiamo, nel contratto, del D.P.R. n. 7 del 1976, cit., a prescindere dall'accertamento dei necessari requisiti oggettivi.2. Con il secondo motivo, denunciando violazione di norme di diritto e vizio di motivazione, si contesta che, comunque, la qualificazione del mutuo come fondiario comporti l'inapplicabilità delle disposizioni della L. n. 108 del 1996. In base a tali disposizioni si soggiunge - il tasso d'interesse che al momento della pattuizione non ecceda la soglia dell'usura determinata secondo il meccanismo previsto dalla medesima legge, ma che superi poi tale soglia nel corso del rapporto, è comunque illegittimo e comporta la nullità della

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relativa clausola contrattuale. Il che fa sorgere la necessità di individuare un tasso sostitutivo ai sensi degli artt. 1419 e 1339 c.c., non essendo invocabile la previsione di gratuità del mutuo di cui all'art. 1815, comma 2 - come modificato dalla stessa legge che è esclusa dall'interpretazione autentica di tale disposizione imposta dal D.L. n. 394 del 2000, art. 1, comma 1, cit. Il tasso sostitutivo va individuato - si conclude - quantomeno in quello meno favorevole al mutuatario, ossia il tasso soglia, come ritenuto dal giudice di primo grado.3. I due motivi, da esaminare congiuntamente data la loro connessione, non possono trovare accoglimento, anche se la motivazione della sentenza impugnata va corretta nei sensi che seguono (art. 384 c.p.c., u.c.).3.1. E' infatti privo di fondamento - come denunciato nella prima parte del secondo motivo di ricorso - l'assunto, da cui muove la Corte d'appello, che il carattere fondiario del mutuo dispensi dall'osservanza delle disposizioni della richiamata legge n. 108 sull'usura. Basterà osservare, in proposito, che nessuna disposizione o principio normativo (del resto non specificato nella sentenza impugnata) giustifica tale assunto e che non v'è, del resto, alcuna ragione per sottrarre l'importante settore del credito fondiario al divieto di usura e ai meccanismi approntati dalla legge per renderlo effettivo.3.2. Conseguentemente il primo motivo di ricorso, attinente alla qualificazione del mutuo come fondiario, è assorbito.3.3. Il fondamento, però, della prima parte del secondo motivo di ricorso non è sufficiente a far cadere la decisione impugnata, essendo infondata, invece, la seconda parte dello stesso motivo, avente ad oggetto la questione per la quale la Prima Sezione ha ritenuto necessario l'intervento di queste Sezioni Unite.Essa riguarda l'applicabilità o meno delle norme della Legge n. 108 del 1996, ai contratti di mutuo stipulati prima dell'entrata in vigore di quest'ultima e consiste, più precisamente, nel chiarire quale sia la sorte della pattuizione di un tasso d'interesse che, a seguito dell'operatività del meccanismo previsto dalla stessa legge per la determinazione della soglia oltre la quale un tasso è da qualificare usurario, si riveli superiore a detta soglia.Peraltro la questione della configurabilità di una "usura sopravvenuta" si pone non soltanto con riferimento ai contratti stipulati prima dell'entrata in vigore della legge n. 108 del 1996, come nel caso in esame, ma anche con riferimento a contratti successivi all'entrata in vigore della legge recanti tassi inferiori alla soglia dell'usura, superata poi nel corso del rapporto per effetto della caduta dei tassi medi di mercato, che sono alla base del meccanismo legale di determinazione dei tassi usurari: meccanismo basato, appunto, secondo la L. n. 108, art. 2, sulla rilevazione trimestrale dei tassi medi praticati per le varie categorie di operazioni creditizie, sui quali viene applicata una determinata maggiorazione. E si pone, in teoria, con riguardo sia ai tassi contrattuali fissi che a quelli variabili, anche se in pratica sono essenzialmente i primi a fornire la casistica sinora nota, dato che la variabilità consente normalmente di assorbire gli effetti del calo dei tassi medi di mercato. La questione sorse immediatamente all'indomani dell'entrata in vigore della L. n. 108. La giurisprudenza di legittimità iniziò ad orientarsi nel senso dell'applicabilità della legge ai rapporti pendenti alla data della sua entrata in vigore, con conseguenze sul tasso d'interesse contrattuale, sia pure riferite alla sola parte del rapporto successiva a tale data (cfr. Cass. Sez. 3^ 02/02/2000, n. 1126; Cass. Sez. 1^ 22/10/2000, n. 5286; Cass. Sez. 1^ 17/11/2000, n. 14899).Ciò indusse il legislatore ad intervenire appunto con la già richiamata norma d'interpretazione autentica di cui al D.L. n. 394 del 2000, art. 1, comma 1, che recita: "Ai fini dell'applicazione dell'art. 644 c.p., e dell'art. 1815 c.c., comma 2, si intendono usurari gli interessi che superano il limite stabilito dalla legge nel momento in cui essi sono promessi o

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comunque convenuti, a qualunque titolo, indipendentemente dal momento del loro pagamento".Si determinò, quindi, nella giurisprudenza delle sezioni semplici di questa Corte (quasi tutta riferita a contratti stipulati prima dell'entrata in vigore della L. n. 108 del 1996) il contrasto tra due orientamenti richiamato nell'ordinanza di rimessione.Un primo orientamento (cfr. Cass. Sez. 3^ 26/06/2001, n. 8742; Cass. Sez. 1^ 24/09/2002, n. 13868; Cass. Sez. 3^ 13/12/2002, n. 17813; Cass. Sez. 3^ 25/03/2003, n. 4380; Cass. Sez. 3^ 08/03/2005, n. 5004; Cass. Sez. 1^ 19/03/2007, n. 6514; Cass. Sez. 3^ 17/12/2009, n. 26499; Cass. Sez. 1^ 27/09/2013, n. 22204; Cass. Sez. 1^ 19/01/2016, n. 801) dà alla questione della configurabilità dell' usura sopravvenuta risposta negativa. Ciò in quanto la norma d'interpretazione autentica attribuisce rilevanza, ai fini della qualificazione del tasso convenzionale come usurario, al momento della pattuizione dello stesso e non al momento del pagamento degli interessi; cosicchè deve escludersi che il meccanismo dei tassi soglia previsto dalla legge n. 108 sia applicabile alle pattuizioni di interessi stipulate in data precedente la sua entrata in vigore, anche se riferite a rapporti ancora in corso a tale data (pacifico essendo, peraltro, nella giurisprudenza di legittimità, che la L. n. 108 del 1996, non può trovare applicazione quanto ai rapporti già esauritisi alla medesima data).In altre decisioni, al contrario, è stata affermata l'incidenza della nuova legge sui contratti in corso alla data della sua entrata in vigore, omettendo tuttavia di prendere in considerazione la norma d'interpretazione autentica di cui al D.L. n. 394 del 2000, cit.:- Cass. Sez. 3^ 13/06/2002, n. 8442; Cass. Sez. 3^ 05/08/2002, n. 11706 e Cass. Sez. 3^ 25/05/2004, n. 10032 si sono semplicemente richiamate alla giurisprudenza precedente al decreto legge;- Cass. Sez. 1^ 25/02/2005, n. 4092; Cass. Sez. 1^ 25/02/2005, n. 4093; Cass. Sez. 3^ 14/03/2013, n. 6550; Cass. Sez. 3^ 31/01/2006, n. 2149 e Cass. Sez. 3^ 22/08/2007, n. 17854 hanno precisato (le prime tre in obiter dicta) che la clausola contrattuale recante un tasso che poi superi il tasso soglia non diviene, in conseguenza di tale superamento, nulla, bensì inefficace ex nunc, e tale inefficacia non può essere rilevata d'ufficio;- Cass. Sez. 1^ 11/01/2013, n. 602 e n. 603 hanno affermato che nei casi di superamento della soglia del tasso usurario per effetto dell'entrata in vigore della L. n. 108, cit., opera la sostituzione automatica, ai sensi dell'art. 1319 c.c., e art. 1419 c.c., comma 2, del tasso soglia del tempo al tasso convenzionale;- Cass. Sez. 1^ 17/08/2016, n. 17150 sostiene la rilevabilità d'ufficio dell'inefficacia di cui sopra.Invece Cass. Sez. 1^ 12/04/2017, n. 9405, nell'affermare l'applicabilità del tasso soglia in sostituzione del tasso contrattuale che sia divenuto superiore ad esso, fa espresso riferimento alla richiamata norma d'interpretazione autentica, escludendone però la rilevanza in quanto essa non eliminerebbe l'illiceità della pretesa di un tasso d'interesse ormai eccedente la soglia dell'usura, ma si limiterebbe ad escludere l'applicazione delle sanzioni penali e civili di cui all'art. 644 c.p., e art. 1815 c.c., comma 2, ferme restando le altre sanzioni civili.Quest'ultima tesi riprende in sostanza i contributi di una parte della dottrina, secondo la quale, mentre sarebbe sanzionata penalmente - nonchè, nel mutuo, con la gratuità - la pattuizione di interessi che superino la soglia di legge alla data della pattuizione stessa, viceversa la pretesa di pagamento di interessi a un tasso non usurario alla data della pattuizione, ma divenuto tale nel corso del rapporto, sarebbe illecita solo civilmente. Le conseguenze di tale illiceità sono diversamente declinate (nullità, inefficacia ex nunc) nelle varie versioni della tesi in esame, ma comprendono in ogni caso la sostituzione automatica,

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ai sensi dell'art. 1339 c.c., del tasso contrattuale o con il tasso soglia (secondo una versione), o con il tasso legale (secondo un'altra versione).3.4. E' avviso di queste Sezioni Unite che debba darsi continuità al primo dei due orientamenti giurisprudenziali sopra richiamati, che nega la configurabilità dell'usura sopravvenuta, essendo il giudice vincolato all'interpretazione autentica dell'art. 644 c.p., e art. 1815 c.c., comma 2, come modificati dalla L. n. 108 del 1996, (rispettivamente all'art. 1 e all'art. 4), imposta dal D.L. n. 394 del 2000, art. 1, comma 1, cit.; interpretazione della quale la Corte costituzionale ha escluso la sospetta illegittimità, per violazione degli artt. 3,24,47 e 77 Cost., con la sentenza 25/02/2002, n. 29, e della quale non può negarsi la rilevanza per la soluzione della questione in esame.E' priva di fondamento, infatti, la tesi della illiceità della pretesa del pagamento di interessi a un tasso che, pur non essendo superiore, alla data della pattuizione (con il contratto o con patti successivi), alla soglia dell'usura definita con il procedimento previsto dalla L. n. 108, superi tuttavia tale soglia al momento della maturazione o del pagamento degli interessi stessi.3.4.1. La ragione della illiceità risiederebbe, come si è visto, nella violazione di un divieto imperativo di legge, il divieto dell'usura, e in particolare il divieto di pretendere un tasso d'interesse superiore alla soglia dell'usura come fissata in base alla legge.Sennonchè il divieto dell'usura è contenuto nell'art. 644 c.p.; le (altre) disposizioni della L. n. 108, cit., non formulano tale divieto, ma si limitano a prevedere (per quanto qui rileva) un meccanismo di determinazione del tasso oltre il quale gli interessi sono considerati sempre usurari a mente, appunto, dell'art. 644 c.p., comma 3, novellato (che recita: "La legge stabilisce il limite oltre il quale gli interessi sono sempre usurari"). La L. n. 108, art. 2, comma 4, cit. (che recita: "Il limite previsto dall'art. 644 c.p., comma 3, oltre il quale gli interessi sono sempre usurari, è stabilito nel tasso...") definisce, sì, il limite oltre il quale gli interessi sono sempre usurari, ma si tratta appunto del limite previsto dall'art. 644 c.p., comma 3, essendo la norma penale l'unica che contiene il divieto di farsi dare o promettere interessi o altri vantaggi usurari in corrispettivo di una prestazione di denaro o di altra utilità.Una sanzione (che implica il divieto) dell'usura è contenuta, per l'esattezza, anche nell'art. 1815 c.c., comma 2, - pure oggetto dell'interpretazione autentica di cui si discute - il quale però presuppone una nozione di interessi usurari definita altrove, ossia, di nuovo, nella norma penale integrata dal meccanismo previsto dalla L. n. 108.Sarebbe pertanto impossibile operare la qualificazione di un tasso come usurario senza fare applicazione dell'art. 644 c.p.; "ai fini dell'applicazione" del quale, però, non può farsi a meno perchè così impone la norma d'interpretazione autentica - di considerare il "momento in cui gli interessi sono convenuti, indipendentemente dal momento del loro pagamento".Non ha perciò fondamento la tesi che cerca di limitare l'efficacia della norma di interpretazione autentica alla sola sanzione penale e alla sanzione civile della gratuità del mutuo, perchè in tanto è configurabile un illecito civile, in quanto sia configurabile la violazione dell'art. 644 c.p., come interpretato dal D.L. n. 394 del 2000, art. 1, comma 1. E non è fuori luogo rammentare che anche la giurisprudenza penale di questa Corte nega la configurabilità dell'usura sopravvenuta (cfr. Cass. Sez. 5^ pen. 16/01/2013, n. 8353).Tale esegesi delle disposizioni della L. n. 108, non contrasta, inoltre, con la loro ratio.Una parte della dottrina attribuisce alla L. n. 108, una ratio calmieratrice del mercato del credito, che imporrebbe il rispetto in ogni caso del tasso soglia al momento del pagamento degli interessi.

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Va però osservato che la ratio delle nuove disposizioni sull'usura consiste invece nell'efficace contrasto di tale fenomeno, come si legge nella relazione illustrativa del disegno di legge e come ha affermato anche la Corte costituzionale nella sentenza sopra richiamata. Il meccanismo di definizione del tasso soglia è basato infatti - lo si è accennato più sopra - sulla rilevazione periodica dei tassi medi praticati dagli operatori, sicchè esso è configurato dalla legge come un effetto, non già una causa, dell'andamento del mercato.Con tale ratio è senz'altro coerente una disciplina che dà rilievo essenziale al momento della pattuizione degli interessi, valorizzando in tal modo il profilo della volontà e dunque della responsabilità dell'agente.Un ulteriore argomento utilizzato dei sostenitori della configurabilità dell'usura sopravvenuta e ripreso anche da Cass. Sez. 1^ 9405/2017, cit., è basato su un passaggio della motivazione della richiamata sentenza della Corte costituzionale n. 29 del 2002, in cui i giudici, dopo avere escluso l'irragionevolezza dell'interpretazione autentica e la sua incompatibilità con il dato testuale, osservano: "Restano, invece, evidentemente estranei all'ambito di applicazione della norma impugnata gli ulteriori istituti e strumenti di tutela del mutuatario, secondo la generale disciplina codicistica dei rapporti contrattuali". Poichè, si è osservato, tale affermazione non è un mero obiter dictum, bensì parte della ratio decidendi, essa è vincolante per l'interprete e impone di considerare illecita - ancorchè non penalmente, nè a pena della gratuità del contratto ai sensi dell'art. 1815 c.c., comma 2, - la pretesa del pagamento di interessi a un tasso convenzionale divenuto nel tempo superiore al tasso soglia.Non conta qui approfondire se il passaggio in questione rientri o meno nella ratio della decisione dalla Corte costituzionale. Basterà osservare che esso contiene un'affermazione indubbiamente esatta, ma non contrastante con le conclusioni sopra raggiunte circa la validità ed efficacia della previsione contrattuale di un tasso d'interesse che finisca poi col superare il tasso soglia nel corso del rapporto. E' evidente, infatti, che far salva la validità ed efficacia della clausola contrattuale non significa negare la praticabilità di altri strumenti di tutela del mutuatario previsti dalla legge, ove ne ricorrano gli specifici presupposti; significa soltanto negare che uno di tali strumenti sia costituito dalla invalidità o inefficacia della clausola in questione.Deve perciò concludersi che è impossibile affermare, sulla base delle disposizioni della L. n. 108 del 1996, diverse dall'art. 644 c.p., e art. 1815 c.c., comma 2, come da essa novellati, che il superamento del tasso soglia dell'usura al tempo del pagamento, da parte del tasso convenzionale inferiore a tale soglia al momento della pattuizione, comporti la nullità o l'inefficacia della corrispondente clausola contrattuale o comunque l'illiceità della pretesa del pagamento del creditore.3.4.2. L'illiceità della pretesa, tuttavia, è stata argomentata da una parte della dottrina anche su basi diverse, ossia valorizzando, piuttosto che il meccanismo della sostituzione automatica di clausole ai sensi dell'art. 1339 c.c., e art. 1419 c.c., comma 2, il principio di buona fede oggettiva nell'esecuzione dei contratti, di cui all'art. 1375 c.c., per il quale sarebbe scorretto pretendere il pagamento di interessi a un tasso divenuto superiore alla soglia dell'usura come determinata al momento del pagamento stesso, perchè in quel momento quel tasso non potrebbe essere promesso dal debitore e il denaro frutterebbe al creditore molto di più di quanto frutti agli altri creditori in genere.Benchè non sia questa la tesi sostenuta dalla ricorrente, di essa occorre tuttavia darsi carico per completezza.Neppure detta tesi persuade.

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Viene a suo sostegno richiamata la giurisprudenza di questa Corte, secondo cui il principio di correttezza e buona fede in senso oggettivo impone un dovere di solidarietà, fondato sull'art. 2 Cost., per il quale ciascuna delle parti del rapporto è tenuta ad agire in modo da preservare gli interessi dell'altra, a prescindere dall'esistenza di specifici obblighi contrattuali o da quanto stabilito da singole norme di legge (Cass. Sez. 3^ 30/07/2004, n. 14605; Cass. Sez. 1^ 06/08/2008, n. 21250; Cass. Sez. U. 25/11/2008, n. 28056; Cass. Sez. 1^ 22/01/2009, n. 1618; Cass. Sez. 3^ 10/11/2010, n. 22819).Va però osservato che la buona fede è criterio di integrazione del contenuto contrattuale rilevante ai fini dell'"esecuzione del contratto" stesso (art. 1375 c.c.), vale a dire della realizzazione dei diritti da esso scaturenti. La violazione del canone di buona fede non è riscontrabile nell'esercizio in sè considerato dei diritti scaturenti dal contratto, bensì nelle particolari modalità di tale esercizio in concreto, che siano appunto scorrette in relazione alle circostanze del caso. In questo senso può allora affermarsi che, in presenza di particolari modalità o circostanze, anche la pretesa di interessi divenuti superiori al tasso soglia in epoca successiva alla loro pattuizione potrebbe dirsi scorretta ai sensi dell'art. 1375 c.c.; ma va escluso che sia da qualificare scorretta la pretesa in sè di quegli interessi, corrispondente a un diritto validamente riconosciuto dal contratto.3.4.3. Va pertanto enunciato il seguente principio di diritto:"Allorchè il tasso degli interessi concordato tra mutuante e mutuatario superi, nel corso dello svolgimento del rapporto, la soglia dell'usura come determinata in base alle disposizioni della L. n. 108 del 1996, non si verifica la nullità o l'inefficacia della clausola contrattuale di determinazione del tasso degli interessi stipulata anteriormente all'entrata in vigore della predetta legge, o della clausola stipulata successivamente per un tasso non eccedente tale soglia quale risultante al momento della stipula; nè la pretesa del mutuante di riscuotere gli interessi secondo il tasso validamente concordato può essere qualificata, per il solo fatto del sopraggiunto superamento di tale soglia, contraria al dovere di buona fede nell'esecuzione del contratto".4. Con il terzo e il quarto motivo di ricorso viene censurata, rispettivamente sotto i profili del vizio di motivazione e della violazione di norme di diritto, la qualificazione data dalla Corte d'appello al mutuo per cui è causa come finanziamento agevolato.4.1. I motivi sono inammissibili. Tale qualificazione, infatti, non è di per sè rilevante ai fini della decisione sul carattere usurario degli interessi, nè sono indicate nel ricorso le ragioni della sua eventuale rilevanza.5. Il ricorso va in conclusione respinto.Le oscillazioni giurisprudenziali registrate a proposito della principale questione oggetto del ricorso stesso giustificano la compensazione tra le parti delle spese del giudizio di legittimità. PQM P.Q.M. La Corte rigetta il ricorso. Dichiara integralmente compensate tra le parti le spese del giudizio di legittimità.Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio, il 18 luglio 2017.Depositato in Cancelleria il 19 ottobre 2017

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8 Cassazione civile sez. II 1995 n. 1559

Svolgimento del processo Con scrittura privata 29 gennaio 1973, Rocco Sasso, imprenditore edile, promise di vendere a Angela Rosati un appartamento di 120 mq., in un edificio in corso di costruzione, al prezzo di lire 80.000 al mq., con obbligo di effettuare la consegna contemporaneamente al saldo del prezzo entro il febbraio del 1975. Nondimeno, con atto 9 gennaio 1975, il promittente venditore convenne, davanti al Tribunale di Brindisi, la promissoria per conseguire la risoluzione del contratto preliminare per eccessiva onerosità sopravvenuta. Angela Rosati si costituì e, in via riconvenzionale; chiese l'adempimento del contratto e la condanna dell'attore al risarcimento del danno, per la mancata consegna dell'immobile alla data pattuita. Con atto 15 gennaio 1975, la stessa Rosati convenne, a sua volta, davanti al Tribunale di Brindisi Rocco Sasso e domandò la convalida dell'offerta reale non accettata per la somma di lire 3.500.000. Riunite le cause, il Tribunale, con sentenza 2 giugno 1980, convalidò l'offerta reale; riconobbe la sopravvenuta eccessiva onerosità e, stante l'offerta di riduzione ad equità, rigettò la domanda di risoluzione e determinò in lire 13.500.000 il prezzo dell'appartamento; condannò l'attore al risarcimento del danno, liquidandolo in lire 3.000.000. Decidendo l'impugnazione principale proposta da Sasso e l'appello incidentale avanzato da Rosati, la Corte d'Appello di Lecce, con sentenza 4 maggio 1981, determinò in lire 6.250.000 il danno in favore della Rosati; confermò quanto al resto la sentenza impugnata. La Suprema Corte di Cassazione, con sentenza 15 dicembre 1984, n. 6574, cassò la sentenza della Corte d'Appello di Lecce e rinviò la causa alla Corte d'Appello di Bari per il compiuto riesame del merito. La Corte d'Appello di Bari, con la sentenza impugnata, condannò Angela Rosati al pagamento, in favore della controparte, della somma di lire 26.825.000, ed alla rifusione della metà di tutte le spese del procedimento. Osserva la Corte che l'inflazione verificatasi dal biennio Gennaio 1973 - Gennaio 1975, nella misura del 52,16%, doveva considerarsi come fenomeno del tutto imprevedibile, ragion per cui sussisteva la dedotta eccessiva onerosità sopravvenuta; d'altra parte, la promittente acquirente aveva offerto la riduzione ad equità, secondo la misura determinata dal consulente ovvero il prudente apprezzamento del giudice. Ricorre per cassazione Angela Rosati; resiste con controricorso Rocco Sasso. Diritto Motivi della decisione 1. - A fondamento del ricorso, la ricorrente deduce: 1.1 Violazione e falsa applicazione degli artt. 1467, 1472 e 2697 cod. civ., 115 cod. proc. civ.; omessa o insufficiente motivazione su punti decisivi della controversia (art. 360 nn. 3 e 5 cod. proc. civ.). Il giudice del rinvio non ha tenuto conto delle risultanze processuali, nè motivato congruamente sul punto, ma ha ritenuto assolta la prova incombente sul Sasso in ordine alla sussistenza delle condizioni di legge per invocare la disposizione di cui all'art. 1467 cod. civ., nonostante la presenza di decisivi elementi contrari. Per la verità, la Corte d'Appello di Bari non ha compiuto una seria indagine sul sinallagma contrattuale, non avendo prestato attenzione alla circostanza che, con le scadenze pattuite

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per il pagamento secondo date differite, le parti si erano premunite contro il sopravvenire dell'eventuale svalutazione. Allo stesso tempo, il giudice del rinvio ha omesso di considerare che, potendo il Sasso consegnare l'appartamento ben prima della data pattuita per la consegna, non assumeva rilevanza la svalutazione monetaria intervenuta. 1.2 Violazione e falsa applicazione dell'art. 91 cod. proc. civ.; omessa motivazione su punto decisivo della controversia (art. 360 n. 3 e 5 cod. proc. civ.). Era palesemente ingiusto il regolamento delle spese, operato senza alcuna motivazione, II 2.1 In tema di risoluzione dei contratti per eccessiva onerosità sopravvenuta, la Suprema Corte si è pronunziata più volte: ha definito, in generale, il carattere della straordinarietà e della imprevedibilità e, specificamente, con riferimento al contratto preliminare relativo ad un appartamento da costruire, ha segnato i termini della rilevanza della svalutazione monetaria. Premesso che, a norma dell'art. 1467 cod. civ., nei contratti sinallagmatici, l'eccessiva onerosità sopravvenuta della prestazione legittima la parte onerata a chiedere la risoluzione del contratto e l'altra parte, cui l'eccessiva onerosità sia stata opposta, a chiedere la riduzione ad equità: l'eccessiva onerosità è quella che comporta una notevole alterazione del rapporto originario tra le prestazioni, determinando una situazione di squilibrio dei rispettivi valori. Gli avvenimenti straordinari ed imprevedibili, dunque, determinano un aggravio patrimoniale, che altera l'originario rapporto di equivalenza e incidono sul valore di una prestazione rispetto all'altra (Cass., Sez. III, 16 marzo 1981, n. 1465). L'avvenimento imprevedibile e straordinario, che altera il rapporto di proporzionalità tra le reciproche prestazioni, deve risultare estraneo al regolamento contrattuale (Cass., Sez. III, 12 febbraio 1982, n. 854). La risoluzione del contratto con prestazioni corrispettive per eccessiva onerosità sopravvenuta è ipotizzabile anche quando il contratto sia stato stipulato allorché siano in atto l'inflazione e la svalutazione, poiché l'imprevedibilità dell'avvenimento può riguardare non solo l'evento fenomenico in se stesso, ma anche la sua entità. In tale caso, affinché possa portare alla risoluzione, è necessario che l'entità dell'evento abbia assunto una misura assolutamente straordinaria ed imprevedibile rispetto al momento in cui il contratto venne concluso (Cass., Sez. II, 16 novembre 1984, n. 5827). Perciò, con riguardo ad un preliminare di vendita di un fabbricato da costruire, ove la svalutazione - considerando la capacità di previsione di un uomo medio alla stregua della situazione in atto al momento del preliminare, nonché la sua incidenza sui costi di costruzione e sul guadagno ripromesso - presenti i connotati di un avvenimento straordinario ed imprevedibile, va riconosciuta al promittente venditore la possibilità di chiedere la risoluzione per eccessiva onerosità sopravvenuta in relazione alla svalutazione monetaria, determinatasi dopo la conclusione del contratto (Cass., Sez. II, 15 dicembre 1984, n. 6574). L'accertamento del giudice del merito circa la sussistenza o meno dei caratteri della imprevedibilità e straordinarietà è insindacabile in sede di legittimità, se sorretto da motivazione adeguata e immune da vizi (Cass., Sez. I, 9 aprile 1994, n. 3342; Cass., Sez. III, 12 febbraio 1982, n. 854). 2.2 Alla luce dei principi esposti, la sentenza impugnata si sottrae alle censure, siccome motivata in modo logicamente corretto e sufficiente. Appurato che il processo inflattivo verificatosi nel biennio dal gennaio del 1973 al gennaio del 1975 era pari al 52,16%, osserva il giudice del merito che tale percentuale, per la sua

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entità, doveva considerarsi del tutto straordinaria ed imprevedibile, anche perché un muta del valore della moneta di tele misura non poteva farsi rientrare nell'alea normale del contratto. Allo stesso tempo, aggiunge la Corte d'Appello, le modalità di pagamento non contenevano rimedi per adeguare il loro contenuto economico alle variazioni del valore monetario. Il primo versamento di lire 1.000.000, pari ad 1-9 del prezzo, era stato contestuale alla stipulazione del preliminare e quelli successivi, pari a lire 3.000.000 ciascuno, erano stati convenuti, con scadenze prossime alla fine del biennio, in misura definita e senza alcuna possibilità di adeguamento e di maggiorazione. 2.3 È risaputo che in sede di legittimità non è consentita la proposizione di nuove questioni di diritto, ancorché rilevabili d'ufficio in ogni stato e grado del processo, quando esse suppongano o comunque richiedano nuovi accertamenti o apprezzamenti di fatto preclusi alla Corte di Cassazione (Cass., Sez. II, 4 settembre 1991, n. 3958). Del tutto nuova, siccome proposta per la prima volta in Cassazione e come tale inammissibile, è la censura relativa alia rilevanza della possibilità, da parte del promittente venditore, di consegnare l'immobile prima della scadenza fissata nel contratto, perché suppone accertamenti o apprezzamenti di fatto sugli accordi stipulati dalle parti in materia e sul tempo, in cui la costruzione dell'edificio venne portata a compimento, che non sono consentiti in sede di legittimità. 2.4 Èincensurabile in cassazione la decisione del giudice del merito sulla ripartizione dell'onere delle spese giudiziali, a meno che non violi il criterio fondamentale della soccombenza, posto dall'art. 91 cod. proc. civ. Il che si verifica allorché le spese siano poste, sia pure per quota, a carico della parte totalmente vittoriosa. (Cass., Sez. II, 13 settembre 1991, n. 9578). Per questa ragione non può essere accolto neppure il secondo motivo, concernente la condanna alle spese, in quanto il giudice del merito non ha violato il criterio sopra esposto. III Disattesi entrambi i motivi, la Corte deve rigettare il ricorso e condannare la ricorrente alla rifusione delle spese. PQM p.q.m. La Corte: rigetta il ricorso e condanna la ricorrente alla rifusione delle spese, che liquida quanto alle spese vive in lire 102.650, oltre lire 1.500.000 per gli onorari. Roma, 20 ottobre 1994.

9 Tribunale Milano sez. VI 16/02/2017 n. 1906

CONCLUSIONI Per la ricorrente: NEL MERITO: In via principale: Accertare e dichiarare che il contratto di mutuo per cui è causaprevede che il tasso di mora non si sostituisce a quellocorrispettivo, ma decorre su un montante che comprende il capitale,gli interessi corrispettivi e le spese. Accertare e dichiarare la

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nullità del contratto di mutuo ipotecario per cui è causa o, insubordine, delle clausole di determinazione degli interessi perviolazione delle disposizioni normative in materia di usura comeevidenziate in narrativa. Accertare e dichiarare che il mutuo de quoè usurario, e pertanto gratuito ex art. 644 cod. pen. ed art. 1815/2°c. cod. civ., con conseguente obbligo per parte attrice di restituirecon le rate a scadere il solo capitale mutuato. Rideterminare sulla base di quanto esposto nella prodotta perizia lesomme effettivamente dovute da parte attrice alla banca convenuta e,per l'effetto, condannare la banca convenuta alla restituzione ditutte le somme indebitamente percepite quali corrispettivi del mutuofondiario, che si quantificano in Euro 75.586,92 ovvero nella maggioreo minore somma ritenuta di giustizia, oltre a rivalutazionemonetaria, interessi legali e maggior danno ex art. 1224 cod. civ.. Condannare la banca convenuta al risarcimento di tutti i dannipatrimoniali e non patrimoniali che sono la diretta conseguenzadell'applicazione ai rapporti in esame di interessi usurari e/oanatocistici, da quantificare secondo equità. Con vittoria delle spese di giudizio, da distrarsi in favoredell'Avv. Guglielmo Angioni che si dichiara antistatario ai sensi eper gli effetti dell'art. 93 cod. proc. civ.. In via istruttoria: la scrivente difesa chiede disporsi CTU contabileavente ad oggetto il seguente quesito: “Il C.T.U. esaminati gli atti ed i documenti di causa, dica se sulcontratto di mutuo indicato dalla parte attrice siano stati convenutio promessi interessi superiori a quelli dovuti, con riferimento adeventuali interessi anatocistici, commissioni, spese, assicurazionispecifiche, interessi ultralegali ed oneri aggiuntivi, ricalcolandola consistenza del debito o credito residuo relativo al contratto difinanziamento di cui in causa dalla data di stipula ad oggi. A talfine valuti: 1) (Verifica contratto): se nel contratto di finanziamento intercorsotra le parti le condizioni applicate siano state o meno pattuite periscritto dalle parti. In particolare a titolo meramenteesemplificativo verificare la pattuizione del tasso di interessenominale, tasso di mora, metodo di indicizzazione, eventuali clausolecap o floor, spese e commissioni incluse spese di istruttoria epolizze assicurative. In caso di irregolarità nella pattuizione o dimancanza del contratto il CTU provveda a stornare gli oneri einteressi relativi; 2) (Clausola degli interessi): se le clausole relative agli interessidebitori e agli interessi di mora presenti caratteristiche diindeterminatezza. In caso affermativo il CTU provveda a stornare gliinteressi applicati computandoli a capitale rimborsato. In caso in cuii pagamenti effettuati siano superiori al finanziamento concesso ilCTU determini il saldo a favore del cliente-mutuatario; 3) (Piano di ammortamento): se il piano di ammortamento a rate

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costanti (cd “alla francese”) presenti caratteristica diindeterminatezza relativamente al tasso effettivo convenuto. In casoaffermativo il CTU provveda a stornare gli interessi applicaticomputandoli a capitale rimborsato. In caso in cui i pagamenti effettuati siano superiori alfinanziamento concesso il CTU determini il saldo a favore delcliente-mutuatario; 4) (Usura): se vi sia stato il rispetto del tasso soglia al momentodella stipula del tasso originariamente convenuto o promesso ai sensidella sentenza n. 350/2013 della Corte di Cassazione e quindiincludendo nel calcolo sia il tasso nominale convenuto che il tassodi mora. Nel caso in cui il TAEG così determinato superi il tasso soglia,applichi la sanzione ex art 1815, comma 2 c.c. (“nessun interesse èdovuto”) determinando il saldo a favore del cliente-mutuatario se ipagamenti effettuati siano superiori al finanziamento concesso;ovvero la rideterminazione della nuova rata nel caso in cui ilfinanziamento concesso è superiore ai pagamenti effettuati. Inentrambi i casi il CTU, accertata l'usura contrattuale, computi gliinteressi pagati quale rimborso del capitale concesso convertendo ilfinanziamento in finanziamento gratuito; 5) (Usura soggettiva): se il tasso di interesse applicato dalla bancadebba ritenersi sproporzionato rispetto al tasso medio correntementepraticato dagli istituti di credito nella medesima area territoriale ein rapporto al tegm nazionale indicato da Banca d'Italia peroperazioni similari rispetto a quelle che hanno interessato ilrapporto contrattuale per cui è causa, valutando inoltre, se lasituazione del cliente mutuatario, sulla base di elementi obiettivisia riconducibile ad uno stato di difficoltà economica e/ofinanziaria. Nell'ipotesi di superamento del TEGM accompagnato dalprovato stato di difficoltà economica e/o finanziaria, nei casiaccertati, applichi la sanzione ex art 1815, comma 2 c.c. (“nessuninteresse è dovuto”), determinando il saldo a favore del cliente se ipagamenti effettuati siano superiori al finanziamento concesso;ovvero la rideterminazione della nuova rata nel caso in cui ilfinanziamento concesso è superiore ai pagamenti effettuati. Inentrambi i casi il CTU, accertata l'usura contrattuale, computi gliinteressi pagati quale rimborso del capitale concesso convertendo ilfinanziamento in finanziamento gratuito”; 6) (Nullità ex art. 117 TUB): se il TAEG realmente praticato dallabanca convenuta nei confronti del soggetto finanziato sia superiore aquello dichiarato in contratto. In caso affermativo il CTU provveda aricalcolare il piano di ammortamento al tasso minimo dei BOT emessinei 12 mesi precedenti la conclusione del contratto, o, se piùfavorevoli per il cliente, emessi nei 12 mesi precedenti losvolgimento dell'operazione. Il CTU computi altresì gli interessipagati in eccesso da parte attrice.

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Per la convenuta: In via principale: - respingere integralmente le domande tutte svolte da controparte inquanto infondate in fatto e in diritto; In via subordinata: nella denegata ipotesi di accoglimento in tutto o in parte delledomande di controparte, accertare e dichiarare: - che in relazione al contratto di mutuo oggetto di causa sono,comunque, dovuti gli interessi corrispettivi nella misura risultantedal contratto medesimo o, in subordine, in misura pari al tasso legale- tenendo conto di tali circostanze nella determinazione delle sommeeventualmente destinate a restituzione/compensazione. In ogni caso, con vittoria delle spese di causa, oltre accessori dilegge, da corrispondersi in favore degli avv.ti prof. Astolfi eMelpignano, procuratori antistatari. BPB, in ogni caso, si oppone alla già negata CTU richiesta dacontroparte in quanto irrilevante e meramente esplorativa ed aventead oggetto accertamenti (cfr. punti 1-2-3) che esulano dall'oggettodi causa in quanto relativi a profili non contestati da controparte. Fatto SVOLGIMENTO DEL PROCESSO Con ricorso ex art 702 bis c.p.c. Anna Lisa instaurava il presente giudizio nei confronti della Banca Popolare di Bergamo s.p.a., al fine di ottenerne la condanna alla restituzione di somme pagate a titolo di interessi usurari con riferimento a un contratto di mutuo. L'attrice in particolare esponeva: - che il 30.6.2004 stipulava con la convenuta un contratto di mutuo ipotecario per euro 300.000,00, da restituirsi in 120 rate mensili; - che le parti pattuivano un tasso di interessi corrispettivo fisso per i primi due anni e la possibilità per il mutuatario di scegliere tra un tasso fisso o uno variabile per ciascun biennio successivo del piano di ammortamento; - che il contratto prevedeva l'applicazione di interessi usurari; - che, pertanto, la banca doveva essere condannata ex art. 1815 secondo comma c.c. alla restituzione di tutte le somme versate a titolo di interessi. Nessuno si costituiva per la Banca Popolare di Bergamo s.p.a., la quale veniva quindi dichiarata contumace. Il giudice disponeva la conversione del rito e, all'esito delle memorie istruttoria, non dava corso ad attività istruttoria alcuna e rinviava all'odierna udienza per la discussione e decisione della causa ex art. 281 sexies c.p.c.; solo in occasione di detta udienza si costituiva parte convenuta, chiedendo il rigetto delle domande attoree Diritto MOTIVI DELLA DECISIONE Le domande attoree sono infondate e, pertanto, non possono trovare accoglimento. Preliminarmente va revocata la dichiarazione di contumacia della banca convenuta, essendosi quest'ultima costituita, sia pure tardivamente. Premesso, infatti, come l'attrice mai abbia sostenuto come il tasso degli interessi corrispettivi concordato oltrepassasse il tasso soglia in materia di usura, la contestazione di fatto è stata innanzitutto formulata pretendendo di sommare al tasso convenzionale pattuito

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per gli interessi corrispettivi il tasso concordato per gli interessi moratori e in tal modo, facendo richiamo ad alcuni precedenti giurisprudenziali, evidenziando come la sommatoria dei due tassi di interesse risultasse superiore al tasso soglia in materia di usura. Sennonchè deve rilevarsi come la difesa attorea cada in un equivoco interpretativo, dal momento che i precedenti giurisprudenziali invocati non sostengano in alcun modo la pretesa a sommare i due tassi di interesse, al fine di verificarne la legittimità o meno sul piano dell'usura, ma si limitano a evidenziare come il controllo dell'usurarietà degli interessi debba operare non solo con riferimento agli interessi corrispettivi, ma anche per gli interessi moratori. In sostanza, quindi, entrambe le tipologie di interessi potenzialmente potrebbero risultare usurarie, ma ciò dovrà essere valutato singolarmente per ciascuna categoria di interessi, dal momento che, nel caso di inadempimento del debitore e conseguente decorrenza degli interessi moratori, questi si sostituiscono e non si aggiungono agli interessi corrispettivi. Anche là dove, come frequentemente avviene, le parti avessero determinato il tasso di interesse moratorio in una misura percentuale maggiorata rispetto al tasso dell'interesse corrispettivo, ciò assume rilievo esclusivamente sotto il profilo della modalità espressiva adottata per la quantificazione del tasso, ma non implica sul piano logico giuridico una sommatoria dell'interesse corrispettivo con quello moratorio, dato che quest'ultimo, sia pure determinato in termini di maggiorazione sull'interesse corrispettivo, comunque si sostituisce al primo. La contestazione mossa dall'attrice, inoltre, non può essere condivisa, quanto meno nella sua prospettazione “astratta”: la parte, infatti, non deduce di avere pagato tardivamente una o alcune delle rate del piano di ammortamento e, quindi, di avere dovuto corrispondere importi a titolo di interessi moratori, ma pretende viceversa di conteggiare l'incidenza di tali interessi a livello teorico, esemplificando inadempimenti tali da non consentire una risoluzione contrattuale in forza delle clausole del contratto di mutuo.Tale impostazione, tuttavia, diviene arbitraria nelle conclusioni se solo si consideri la teoricità dei presupposti, dal momento che non può ritenersi percorribile una rilevazione in termini percentuali del tasso di mora effettivo pattuito su presupposti di entità dell'inadempimento e di durata dello stesso del tutto indeterminati e non prevedibili al momento della pattuizione delle condizioni contrattuali.Se, pertanto, deve escludersi la possibilità di procedere a una sommatoria dei tassi di interesse pattuiti, va in ogni caso ulteriormente precisato come allo stato non si possa neppure procedere a una valutazione del carattere usurario o meno degli interessi di mora mediante un loro raffronto con il tasso soglia. In proposito, infatti, si deve rilevare come tanto la giurisprudenza di legittimità che la stessa Banca d'Italia siano sostanzialmente concordi nel ricordare come anche gli interessi moratori, al pari di quelli corrispettivi, debbano sottostare ai limiti derivanti dalla disciplina in materia di usura e, quindi, siano suscettibili di essere pattuiti in misura usuraria.Tale premessa si fonda su quanto ricordato dal legislatore con il D.L. 394/2000, il quale, con riferimento alla disciplina in materia di usura, ha fatto esplicito riferimento agli interessi a qualunque titolo convenuti.Sebbene, quindi, profondamente differente sia la natura e la funzione degli interessi corrispettivi rispetto a quelli moratori, anche questi ultimi sono suscettibili di essere etichettati come usurari.

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Se tale principio non può che essere condiviso nella sua affermazione astratta, sicuramente più problematico diventa l'accertamento in concreto del carattere usurario, quando la verifica viene effettuata con riferimento agli interessi di mora. Il problema, infatti, nasce per il fatto che con la Legge 108/1996 si è inteso “oggettivizzare” la nozione di usura, introducendo l'istituto del tasso soglia, in modo che, superando le difficoltà probatorie in precedenza riscontrate in materia, gli interessi dovessero essere riconosciuti come usurari per il solo fatto che fossero stati pattuiti in misura superiore al tasso soglia rilevato per la tipologia di contratto omogenea a quella in verifica. Precisato ancora come il tasso soglia è stato determinato attraverso la rilevazione del Tasso Effettivo Globale Medio (TEGM) praticato nel periodo per la specifica tipologia di contratto e, quindi, operando su di esso la maggiorazione prevista (inizialmente il 50%, dal 14.5.2011 il 25% maggiorato a sua volta di 4 punti percentuali e con il limite di una maggiorazione finale rispetto al TEGM non superiore all'8%), deve osservarsi come le rilevazioni del TEGM vengano effettuate trimestralmente dalla Banca d'Italia secondo le indicazioni e le prescrizioni impartite dal Ministero delle Finanze. Ebbene, dette prescrizioni hanno sempre previsto e disposto che le rilevazioni statistiche fossero condotte con riferimento esclusivamente ai tassi corrispettivi, verosimilmente alla luce della maggiore omogeneità delle condizioni concordate sul mercato con riferimento a tali interessi, in considerazione della loro natura e funzione di retribuzione del denaro e, quindi, di prezzo corrisposto in relazione all'erogazione del credito. Al contrario, analoga rilevazione non viene richiesta con riferimento agli interessi di mora, in considerazione della loro differente natura di prestazione non necessaria, ma solo eventuale, in quanto destinata a operare solo in caso di inadempimento del mutuatario, nonchè in ragione della funzione non corrispettiva, ma risarcitoria del danno derivante dall'inadempimento e, quindi, di una funzione che può portare a quantificare la pattuizione in forza di variabili e di componenti estremamente eterogenee e non strettamente e direttamente collegate al costo del denaro e all'erogazione del credito.Il fatto, quindi, che il TEGM, e conseguentemente il Tasso Soglia che dal primo dipende, siano determinati in forza di rilevazioni statistiche condotte esclusivamente con riferimento agli interessi corrispettivi (oltre alle spese, commissioni e oneri accessori all'erogazione del credito), porta a concludere come non si possa pretendere di confrontare la pattuizione relativa agli interessi di mora con il Tasso Soglia così determinato, al fine di accertare se i primi siano o meno usurari.Così operando, infatti, si giungerebbe a una rilevazione priva di qualsiasi attendibilità scientifica e logica, prima ancora che giuridica, in quanto si pretenderebbe di raffrontare fra di loro valori disomogenei (il tasso di interesse moratorio pattuito e il tasso soglia calcolato in forza di un TEGM che non considera gli interessi moratori, ma solo quelli corrispettivi).In sostanza, quindi, quanto meno ad oggi una verifica in termini oggettivi del carattere usurario degli interessi moratori risulta preclusa dalla mancanza di un termine di raffronto, ossia di un tasso soglia, che sia coerente con il valore che si vuole raffrontare. Nè il problema potrebbe essere superato invocando la rilevazione condotta dalla Banca d'Italia nel 2001 con riferimento ai tassi di interesse moratori praticati sul mercato; l'Istituto di vigilanza bancaria, infatti, anche con la propria Circolare del 3.7.2013, ha fatto richiamo a tale rilevazione, ricordando come fosse stato verificato come in media gli interessi moratori fossero pattuiti in misura maggiorata di 2,1 punti percentuali rispetto ai tassi medi concordati per gli interessi corrispettivi.

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Sennonchè detta rilevazione, oltre a essere “ufficiosa”, in quanto condotta in assenza di una istruzione in tal senso disposta dal Ministero delle Finanze in attuazione a quanto dettato dalla Legge 108/1996, non solo non può considerarsi neppure scientificamente attendibile, non essendo conosciute le modalità di rilevazione statistica utilizzate e, al contrario, risultando essere stata condotta attraverso l'acquisizione di dati a campione, ma soprattutto risale a oltre dieci anni fa, senza essere stata aggiornata e rivisitata trimestralmente, come invece preteso dal legislatore.In sostanza, quindi, anche la soluzione di raffrontare il tasso degli interessi moratori con un tasso soglia specifico costruito con riferimento agli interessi di mora, se dal punto di vista logico matematico risulta sicuramente più condivisibile, non trova comunque giustificazione sul piano propriamente giuridico per il carattere “privato” del tasso di riferimento preso in esame per il raffronto. Deve, pertanto, concludersi che, sino a quando non verrà commissionata dal Ministero delle Finanze una rilevazione di un TEGM specifico per gli interessi di mora, per questi ultimi non risulti possibile procedere a una qualificazione in termini “oggettivi” dell'interesse usurario, ferma restando la possibilità che tali interessi possano essere riconosciuti comunque come usurari in chiave soggettiva, ossia là dove, richiamando quanto dettato dall'art. 644 c.p., si dimostri che detti interessi siano stati pattuiti in termini tali da creare una sproporzione delle prestazioni, con approfittamento delle condizioni di difficoltà economiche e finanziarie del debitore (ipotesi neppure dedotta da parte attrice).Ad oggi, quindi, la premessa ricavabile dalla Legge 394/2000 e ribadita reiteratamente dalla giurisprudenza e dalla stessa Banca d'Italia circa la possibilità di sottoporre a un vaglio di usurarietà anche gli interessi moratori, per forza di cose non può che essere circoscritta alla dimensione “soggettiva” dell'usura, così come ricavabile dalla disciplina penalistica dell'istituto. La tesi sopra esposta, relativa all'impossibilità di raffrontare il tasso di interesse moratorio con il Tasso Soglia ai fini di verificarne l'usurarietà, oggi appare ulteriormente confortato dal D.L. 132/2014 convertito con la Legge 10.11.2014 n. 162, il quale ha introdotto un interesse legale di mora per le ipotesi in cui lo stesso non fosse stato oggetto di specifica pattuizione ad opera delle parti; tale interesse legale è stato parametrato con richiamo al tasso di interesse legale per le transazioni commerciali di cui al D.L.vo 231/2002, determinando in tal modo un tasso di interesse che per diverse tipologie contrattuali risulta essere superiore al Taso Soglia trimestralmente rilevato dalla Banca d'Italia.Se, pertanto, si dovesse opinare per l'ammissibilità di un raffronto degli interessi moratori con il Tasso Soglia attualmente disponibile, arriveremmo alla conclusione paradossale e per evidenti ragioni non condivisibile, per cui il tasso di interesse moratorio previsto dallo stesso legislatore risulterebbe usurario per una molteplicità di contratti, con l'effetto di qualificare come illegittimo un tasso di interesse imposto dal legislatore.Nè potrebbe obiettarsi che in tale ultimo caso gli interessi così determinati non sono frutto di una pattuizione negoziale, ma sono imposti in via residuale dal legislatore, in quanto comunque si finirebbe con ammettere che un tasso di interesse, considerato massimamente lesivo, in quanto usurario, pur non modificandosi nei suoi contenuti sostanziali, diventi invece legittimo e conforme con gli interessi meritevoli di protezione per il solo fatto che, in difetto di pattuizione fra le parti, intervenga come sostitutivo su imposizione dello stesso legislatore.Peraltro la funzione degli interessi di mora, quale strumento risarcitorio del danno in misura predeterminata e forfettaria, ne consente una sostanziale assimilazione nell'ambito delle

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obbligazioni pecuniarie all'istituto negoziale generale in materia di obbligazioni rappresentato dalla clausola penale, con la conseguenza che rimane astrattamente percorribile la possibilità per il debitore di avanzare istanza di riduzione ex art. 1384 c.c., prospettandone i presupposti di manifesta eccessività riguardo all'interesse che il creditore aveva all'adempimento (si confronti Cass., 23273/2010).Nel caso di specie, tuttavia, in difetto di allegazione alcuna in proposito, deve considerarsi preclusa l'applicazione ufficiosa dell'istituto da ultimo richiamato, con conseguente rigetto della domanda azionata con il presente giudizio.Se le considerazioni esposte sono già assorbenti nel senso di escludere la fondatezza delle contestazioni sollevate con riferimento agli interessi moratori, ad abundantiam va ulteriormente rilevata l'inattendibilità delle perizie econometriche di parte prodotte in giudizio con riferimento alla pretesa di determinare un Tasso Effettivo di Mora, dal momento che tale nozione muove dal presupposto di sommare spese e oneri agli interessi moratori, effettuando una analogia con il concetto di Tasso Annuo Effettivo Globale (TAEG), senza tenere conto che quest'ultimo parametro ha logica solo se riferito agli interessi corrispettivi e agli oneri accessori all'erogazione del credito, dovendo escludere tale accessorietà degli oneri rispetto all'interesse moratorio, che invece dipende non dall'erogazione del credito, quanto piuttosto dall'inadempimento del debitore.La ricostruzione proposta da parte attrice, al fine di sostenere la sussistenza di un Tasso Effettivo di Mora (chiamato T.E.MO) superiore al tasso soglia, risulta evidentemente non condivisibile anche sotto un altro profilo. L'operazione compiuta, infatti, consiste nell'ipotizzare un ritardo nel pagamento della prima rata di ammortamento di 29 giorni e di rapportare poi la mora così maturata alla sola quota capitale della prima rata non pagata tempestivamente.Tale operazione tuttavia è priva di qualsiasi fondamento.In primo luogo non si comprende perché il valore assoluto della mora sia stato rapportato alla sola quota capitale quando la mora è stata applicata sull'intera rata non pagata ed è quindi tale ammontare che costituisce il “capitale” considerato per il suo calcolo. La strumentalità della scelta della prima rata è poi resa evidente dal fatto che nel piano di ammortamento a rate costanti in essa è massima la quota interessi e minima quella capitale. Inoltre è del tutto arbitrario ipotizzare un ritardo di 29 giorni, dato che non ha alcun riscontro con i fatti di causa e ciò evidenzia l'arbitrarietà del calcolo operato.Ma l'erroneità della tesi di parte attrice emerge essenzialmente là dove si pretenda di parametrare la quota di interessi moratori alla quota capitale della rata tardivamente onorata e non già al capitale residuo al momento del pagamento, con l'effetto di individuare in tal modo un tasso di mora nettamente superiore rispetto a quello effettivamente applicato; il raffronto, infatti, non può che essere condotto con riferimento al capitale residuo ancora non restituito alla scadenza della rata, atteso che è in relazione al capitale erogato che viene inizialmente pattuito il tasso di interesse corrispettivo costituente il costo del mutuo ed è in relazione a detto capitale, ridotto grazie al progressivo rimborso delle rate, che vanno conteggiati alle scadenze pattuite gli importi pretesi a titolo di interessi.In realtà, infatti, ai fini del calcolo del tasso effettivo, TAEG, come disciplinato nella Direttiva 2011/90/UE e Provv. Banca d'Italia 28/3/2013, con formula del tutto diversa da quella utilizzata dalla parte, occorre la conoscenza ex ante degli interessi pagati e ciò non è evidentemente possibile in caso di mora, della quale non si conosce ex ante né la base di calcolo, né la durata.

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In definitiva, quindi, la pretesa di calcolare un tasso effettivo di mora non ha alcuna base normativa ed è assolutamente priva di attendibilità per le modalità seguite nella fattispecie.Pari esito, infine, va attribuito anche alla contestazione relativa a una pattuizione illecita dei tassi di interesse pretendendo di sommare al tasso degli interessi corrispettivi la penale pattuita per il caso di anticipata estinzione del rapporto di mutuo e, così facendo, riscontrare il superamento del Tasso Soglia.Anche sotto tale profilo, infatti, la doglianza non può essere condivisa, considerato come la penale per l'anticipata estinzione del mutuo non possa considerarsi un onere collegato all'erogazione del credito, riguardando piuttosto una fase successiva ed eventuale, ossia la risoluzione anzitempo del rapporto ed è rivolta a indennizzare la parte mutuante della perdita di lucro discendente dalla mancata corresponsione degli interessi originariamente programmati con il piano di ammortamento poi disatteso per effetto della anticipata risoluzione.Coerentemente, quindi, la stessa Banca d'Italia nelle proprie istruzioni in materia di determinazione del TEGM ha precisato di non ricomprendere tale onere ai fini della rilevazione dell'usura.Per quanto attiene, poi, all'incidenza della polizza assicurativa, deve rilevarsi come, nonostante i termini istruttori concessi, parte attrice abbia omesso di produrre la polizza, con l'effetto che la stessa risulti attestata solo per la sua incidenza economica tramite un richiamo contenuto nel contratto di mutuo; tale circostanza preclude di accertare se la stipula della polizza fosse stata condizione imposta ai fini dell'erogazione del mutuo, con la necessità di doverne tenere conto ai fini della determinazione del TAEG, piuttosto che frutto di una scelta effettuata dalla parte mutuataria.Per ultimo parte attrice ha contestato l'applicazione di interessi anatocistici insiti nella pattuizione di un piano di ammortamento “alla francese”, ossia mediante la previsione della restituzione delle somme mutuate attraverso il pagamento di rate di importo costante, ciascuna delle quali composta da una quota di capitale e una di interessi, con previsione che nella parte iniziale del rapporto la quota di interessi inserita nella rata sia prevalente rispetto al capitale e che il rapporto fra tali due componenti vada progressivamente a invertirsi con le rate successive, mediante un aumento costante della quota capitale e corrispondente riduzione della quota di interessi.Orbene, a detta dell'attrice tale modalità di ammortamento nasconderebbe inevitabilmente una prassi anatocistica non pattuita e illegittima, in quanto contrastante con il dettato di cui all'art. 1283 c.c., implicando di fatto l'addebito di interessi a un tasso complessivo maggiore rispetto a quello pattuito.Tale doglianza, che richiama alcuni isolati precedenti giurisprudenziali, nasce da un equivoco nella scomposizione della struttura dei contratti di mutuo con ammortamento alla francese, in quanto tale sistema matematico di formazione delle rate risulta in verità predisposto in modo che in relazione a ciascuna rata la quota di interessi ivi inserita sia calcolata non sull'intero importo mutuato, bensì di volta in volta con riferimento alla quota capitale via via decrescente per effetto del pagamento delle rate precedenti, escludendosi in tal modo che, nelle pieghe della scomposizione in rate dell'importo da restituire, gli interessi di fatto vadano determinati almeno in parte su se stessi, producendo l'effetto anatocistico contestato.Nè può parlarsi di anatocismo illegittimo con riferimento all'addebito di interessi moratori su rate scadute, ma non tempestivamente pagate, dal momento che con riferimento a tale addebito il contratto di mutuo prevede espressamente che gli interessi moratori vadano

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calcolati sull'intera rata (e quindi anche sulla quota di essa imputata a interessi corrispettivi), salvo escludere che gli interessi moratori cosi calcolati possano a loro volta produrre nuovamente frutti, il tutto in piena conformità con quanto previsto dall'art. 3 della delibera C.I.C.R. del 9.2.2000.Per le ragioni tutte esposte, pertanto, le domande attoree vanno giudicate come infondate e devono essere respinte.La costituzione di parte convenuta solo in occasione della udienza di discussione non ha implicato alcuna attività difensiva effettiva, tale da giustificare una condanna della controparte alla rifusione delle spese di lite, dovendo essere valutate le spese sostenute dalla convenuta come sostanzialmente superflue ex art. 92 c.p.c.

Il Tribunale in composizione monocratica, definitivamente pronunciando nel contraddittorio delle parti, ogni diversa istanza disattesa:- rigetta le domande proposte da An. Li. nei confronti della Banca Popolare di Bergamo s.p.a.; - nulla in ordine alle spese di lite.Così deciso in Milano il 16 febbraio 2017Depositata in cancelleria il 16/02/2017.

ORDINANZA n. 27442 del 30 ottobre 2018

Rilevato che:

1. Nel 2006 la società Alias Tag s.r.l. stipulò un contratto di leasing con la Banca Italease s.p.a. (che in seguito muterà ragione sociale in Banco Popolare soc. coop.; d'ora innanzi, per brevità, "il Banco").

I debiti dell'utilizzatore verso il concedente vennero garantiti con una fideiussione da T.V..

2. Nel 2013 la Alias Tag e T.V. convennero dinanzi al Tribunale di Milano il Banco, esponendo che:

(-) il contratto di leasing sopra indicato prevedeva nel caso di inadempimento dell'utilizzatore interessi moratori nella misura dell'8,6% annuo;

(-) tale saggio di interessi era superiore a quello massimo legale (c.d. tasso-soglia) applicabile ratione temporis, pari al 7,86% (il ricorso non precisa se alla data di pattuizione del saggio, a quella di costituzione in mora, ovvero a quella di introduzione del giudizio);

(-) di conseguenza il saggio degli interessi di mora doveva ritenersi usurario, e quindi nullo il relativo patto;

(-) conseguenza della nullità del patto che fissava la misura degli interessi moratori era la liberazione del debitore dal pagamento di qualsiasi interesse, ai sensi dell'art. 1815 c.c..

Gli attori conclusero pertanto chiedendo che fosse dichiarata la nullità del suddetto patto di interessi moratori in misura ultralegale; che fosse dichiarata l'insussistenza dell'obbligo dell'utilizzatore di

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pagare interessi; che fosse dichiarata la liberazione del fideiussore ex art. 1956 c.c., e che il Banco fosse condannato alla restituzione "di quanto indebitamente percepito".

3. Il Banco si costituì eccependo - per quanto qui ancora rileva che "il limite oltre il quale gli interessi sono sempre usurari" (secondo la dizione di cui all'art. 644 c.p.c., comma 3), ovvero il tasso-soglia, non fosse applicabile agli interessi di mora.

4. Con sentenza 23.12.2014 n. 15315 il Tribunale di Milano rigettò la domanda, ritenendo che la regola per cui gli interessi eccedenti il tasso-soglia sono usurari e non dovuti non si applicasse agli interessi moratori.

La sentenza venne appellata dai soccombenti.

5. La Corte d'appello di Milano, con sentenza 6.6.2016 n. 2232, rigettò il gravame.

La Corte d'appello ritenne che:

a) gli interessi corrispettivi e quelli moratori sono "ontologicamente" disomogenei, poichè:

à) i primi remunerano un capitale, i secondi costituiscono una sanzione convenzionale ed una coazione indiretta per dissuadere il debitore dall'inadempimento, e sono perciò assimilabili alla clausola penale;

à') i primi sono necessari, i secondi eventuali;

à'') i primi hanno una finalità di lucro, i secondi di risarcimento;

b) non esiste nessuna norma di legge che commini la nullità degli interessi moratori eccedenti il tasso soglia;

c) tanto si desume dalla circostanza che la rilevazione periodica, da parte del Ministero del Tesoro, degli interessi medi praticati dagli operatori finanziari viene effettuata trascurando quelli moratori;

d) sarebbe stato irrazionale, nel caso di specie, ritenere usurari interessi moratori convenzionali al saggio dell'8,6%, laddove nella stessa epoca la legge contro i ritardi nel pagamento delle transazioni commerciali tra imprenditori prevedeva, come interesse legale di mora, un saggio del 9,25%.

6. La sentenza d'appello è stata impugnata per cassazione dalla Alias Tag e da T.V., con un unitario ricorso fondato su due motivi.

Ha resistito il Banco, con controricorso illustrato da memoria.

Il Procuratore Generale ha depositato conclusioni scritte, chiedendo l'accoglimento del ricorso.

Considerato che:

1. Il primo motivo di ricorso.

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1.1. Col primo motivo i ricorrenti lamentano, ai sensi dell'art. 360 c.p.c., n. 3, la violazione della L. 7 marzo 1996, n. 108 e dell'art. 644 c.p..

L'illustrazione del motivo esordisce censurando come "contraddittoria" la sentenza d'appello, nella parte in cui da un lato ha negato che esistano norme che fissino la misura massima degli interessi moratori, e dall'altro ha osservato come non potesse ritenersi usurario un saggio di mora, applicato dal Banco, inferiore a quello previsto dalla legge per il caso di ritardo nell'adempimento delle transazioni commerciali (deve ritenersi, di cui al D.Lgs. 9 ottobre 2002, n. 231).

Prosegue quindi la difesa dei ricorrenti sostenendo che la L. 7 marzo 1996, n. 108 (c.d. legge antiusura) non fa nessuna distinzione tra interessi moratori e corrispettivi; che pertanto anche i primi, come i secondi, possono essere qualificati come "usurari" se eccedenti il tasso soglia; che tale interpretazione sarebbe imposta, oltre che dalla lettera della legge, anche dalla sua ratio, ovvero prevenire i fenomeni usurari.

Corollario di tale interpretazione dovrebbe essere, secondo i ricorrenti, che nel caso di pattuizione di interessi moratori usurari il debitore non è tenuto al pagamento di alcun interesse, ai sensi dell'art. 1815 c.c., comma 2, secondo cui "se sono convenuti interessi usurari, la clausola è nulla e non sono dovuti interessi".

1.2. Il motivo è fondato.

Gli interessi convenzionali di mora non sfuggono alla regola generale per cui, se pattuiti ad un tasso eccedente quello stabilito dalla L. 7 marzo 1996, n. 108, art. 2, comma 4, vanno qualificati ipso iure come usurari, con le conseguenze di cui si dirà più oltre.

Questo principio è già stato reiteratamente affermato sia da questa Corte in sede civile e penale, sia dalla Corte costituzionale.

Nondimeno la constatazione di come tale principio resti non infrequentemente trascurato da parte dei giudici di merito; ed il rilievo di come esso appaia sostanzialmente incompreso con riferimento alla prassi seguita da parte degli organi amministrativi preposti a dare attuazione alle prescrizioni di cui alla L. 7 marzo 1996, n. 108, art. 2, inducono questa Corte a ripercorrerne il fondamento, la portata e le conseguenze.

Da questa disamina si trarranno i principi di diritto cui il giudice di rinvio, nel riesaminare l'appello, dovrà attenersi.

1.3. La L. n. 108 del 1996, art. 2, cit., vieta di pattuire interessi eccedenti la misura massima ivi prevista.

Questa norma s'applica sia agli interessi promessi a titolo di remunerazione d'un capitale o della dilazione d'un pagamento (interessi corrispettivi: art. 1282 c.c.), sia agli interessi dovuti in conseguenza della costituzione in mora (interessi moratori: art. 1224 c.c.).

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Tale conclusione è l'unica consentita da tutti e quattro i tradizionali criteri di ermeneutica legale: l'interpretazione letterale, l'interpretazione sistematica, l'interpretazione finalistica e quella storica.

1.4. (A) L'interpretazione letterale.

Dal punto di vista dell'interpretazione letterale, nessuna delle norme che vietano la pattuizione di interessi usurari esclude dal suo ambito applicativo gli interessi usurari.

L'art. 644 c.p., comma 1, stabilisce: "chiunque (...) si fa dare o promettere (...) in corrispettivo di una prestazione di denaro (...) interessi (...) usurari, è punito con la reclusione da due a dieci anni e con la multa da Euro 5.000 a Euro 30.000".

Il terzo comma della stessa disposizione recita: "la legge stabilisce il limite oltre il quale gli interessi sono sempre usurari".

A tali norme ha dato attuazione la L. 7 marzo 1996, n. 108, art. 2, comma 4, il quale - nel testo vigente all'epoca della stipula del contratto di leasing oggetto del presente giudizio (2006) - stabiliva che "il limite previsto dall'art. 644 c.p., comma 3, oltre il quale gli interessi sono sempre usurari, è stabilito nel tasso medio risultante dall'ultima rilevazione pubblicata nella Gazzetta Ufficiale ai sensi del comma 1 relativamente alla categoria di operazioni in cui il credito è compreso, aumentato della metà".

Infine, il D.L. 29 dicembre 2000, n. 394, art. 1, comma 1, (convertito nella L. 28 febbraio 2001, n. 24), nell'interpretare autenticamente l'art. 644 c.p., ha stabilito: "ai fini dell'applicazione dell'art. 644 c.p. (...) si intendono usurari gli interessi che superano il limite stabilito dalla legge nel momento in cui essi sono promessi o comunque convenuti, a qualunque titolo, indipendentemente dal momento del loro pagamento".

1.4.1. Nessuna delle suddette norme distingue tra i vari tipi di interessi.

La prime tre parlano genericamente di "interessi" tout court; la quarta soggiunge che l'usurarietà va valutata al momento della pattuizione "a qualsiasi titolo".

Ma quella di pagamento degli interessi è una obbligazione, e il "titolo" dell'obbligazione come noto è costituito dalla qualità giuridica della sua fonte.

Poichè dunque gli interessi possono essere pattuiti sia a titolo di corrispettivo della cessione d'un capitale (art. 820 c.c., comma 3; art. 1282 c.c., art. 1499 c.c.); sia a titolo della remunerazione d'una prestazione a pagamento differito (arg. ex art. 1714 c.c.); sia a titolo di mora (art. 1224 c.c.), la previsione secondo cui il giudizio di usurarietà può riguardare gli interessi pattuiti "a qualunque titolo" rende palese che per la lettera della legge anche gli interessi di mora restano soggetti alle norme antiusura.

La conclusione appena raggiunta è confermata dai lavori preparatori della L. n. 24 del 2001 (che, come s'è detto, convertì in legge il D.L. n. 394 del 2000, che a sua volta interpretò autenticamente l'art. 644 c.p.): nella relazione che accompagnò, nella XIII legislatura, l'esame in aula del D.D.L. n.

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S-4941 si legge, infatti, al p. 4, che il decreto aveva lo scopo di chiarire come si dovesse valutare la usurarietà di qualunque tipo di tasso di interesse, "sia esso corrispettivo, compensativo o moratorio".

Appare dunque, impossibile negare che le norme antiusura si applichino agli interessi moratori convenzionali, se lo stesso legislatore, nell'interpretarle autenticamente, intese precisare che esse si dovessero applicare senza distinzioni.

1.4.2. Si è obiettato in dottrina che l'art. 644 c.p., comma 1, incriminando la sola dazione o promessa di interessi usurari "in corrispettivo di una prestazione di denaro", implicitamente limiterebbe il campo applicativo delle norme antiusura agli interessi corrispettivi. L'obiezione non ha pregio.

Infatti - lo si dirà meglio più oltre - la corresponsione degli interessi di mora per il nostro ordinamento ha la funzione di tenere indenne il creditore della perduta possibilità di impiegare proficuamente il denaro, dovutogli.

Gli interessi corrispettivi ex art. 1282 c.c. remunerano dunque un capitale di cui il creditore si è privato volontariamente; quelli moratori ex art. 1224 c.c. remunerano invece un capitale di cui il creditore è rimasto privo involontariamente: ma tanto gli uni, quanto gli altri, rappresentano - secondo la celebre espressione paretiana - "il fitto del capitale".

Anche gli interessi moratori, pertanto, costituiscono la remunerazione di un capitale, e rientrano nella previsione degli interessi "promessi o dovuti in corrispettivo di una prestazione in denaro".

1.5. (B) L'interpretazione sistematica.

Interessi corrispettivi ed interessi convenzionali moratori sono ambedue soggetti al divieto di interessi usurari, perchè ambedue costituiscono la remunerazione d'un capitale di cui il creditore non ha goduto: nel primo caso volontariamente, nel secondo caso involontariamente.

Gli interessi moratori previsti dall'art. 1224 c.c., infatti, hanno la funzione di risarcire il creditore del danno patito in conseguenza del ritardo nel pagamento d'un debito pecuniario.

Ma il danno che il creditore d'una somma di denaro può patire non può che consistere o nella necessità di ricorrere al credito, remunerando con l'interesse chi glielo conceda; o di rinunciare ad impiegare la somma dovutagli in investimenti proficui.

Tanto nell'uno, quanto nell'altro caso, il "danno" patito dal creditore d'una obbligazione pecuniaria altro non è che la conseguenza del principio economico della naturale fecondità del danaro.

Ma questo principio economico è altresì alla base del patto di interessi accessorio ad un contratto di mutuo.

Così come chi dà a mutuo una somma di denaro legittimamente esige un interesse, perchè deve essere compensato della privazione di un bene fruttifero (il capitale), allo stesso modo chi non

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riceve tempestivamente la somma dovutagli deve essere compensato dei frutti che quel capitale gli avrebbe garantito, se ne fosse rientrato tempestivamente in possesso.

Tanto gli interessi compensativi, quanto quelli convenzionali moratori ristorano dunque il differimento nel tempo del godimento d'un capitale: essi differiscono dunque nella fonte (solo il contratto nel primo caso, il contratto e la mora nel secondo) e nella decorrenza (immediata per i primi, differita ed eventuale per i secondi), ma non nella funzione.

1.5.1. La conclusione appena esposta è corroborata dalla giurisprudenza di questa Corte formatasi sull'art. 1224 c.c.; dalla Relazione al vigente codice civile e da autorevole dottrina.

1.5.2. Questa Corte, nell'interpretare l'art. 1224 c.c., ha già ripetutamente stabilito che questa norma disciplina sì il risarcimento del danno da inadempimento delle obbligazioni pecuniarie, ma il "danno" da ritardato adempimento d'una obbligazione pecuniaria si identifica nella perduta possibilità per il creditore di investire la somma dovutagli, e trarne un lucro finanziario.

Questo "danno" è presunto dal legislatore juris et de jure nel suo ammontare minimo, che non può essere inferiore al saggio legale (art. 1224 c.c., comma 1), poichè "non ha bisogno di essere provato il fatto che il denaro è destinato ad essere impiegato nell'acquisto di beni o servizi o comunque in forme remunerative; (...) risponde infatti alla natura della moneta che essa è non solo la misura dei valori ma è strumento di scambio, dotata appunto di valore nella misura in cui viene adoperata a questo scopo" (Sez. U, Sentenza n. 19499 del 16/07/2008, Rv. 604419 - 01).

Ciò conferma che gli interessi moratori, convenzionali o legali che siano, remunerano un capitale, nè più, nè meno, che gli interessi corrispettivi.

1.5.3. Che gli interessi convenzionali moratori e corrispettivi abbiano la medesima funzione economica è confermato indirettamente dalla Relazione al codice civile.

Va ricordato, a tal riguardo, che nel codice civile del 1865 l'art. 1831, comma 4, vietava la pattuizione orale di interessi ultralegali (senza distinzione alcuna tra corrispettivi e moratori), e stabiliva che in caso contrario non fosse dovuto alcun interesse.

Tale norma, come noto, non venne riprodotta nel codice civile del 1942. La Relazione al vigente codice civile afferma di avere ritenuto "eccessivo" riprodurre quella norma perchè essa aveva lo scopo contrastare l'usura, ed era divenuta inutile dal momento che "contro l'usura può reagirsi penalmente" (così la Relazione del ministro guardasigilli alla maestà del Re Imperatore sul libro del codice civile "delle obbligazioni", Roma, 1941, 57, p. 60).

Ora, se l'art. 1831 c.c. del 1865 non venne riprodotto nel codice del 1942 perchè "contro l'usura può reagirsi penalmente", e se l'art. 1831 c.c. del 1865 pacificamente era ritenuto applicabile a tutti gli interessi convenzionali (tanto corrispettivi quanto moratori), ciò dimostra che la Relazione dava per scontato che anche agli interessi moratori fossero applicabili le norme (in quel caso penali) contro l'usura.

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1.5.4. Autorevole dottrina, infine, ha da tempo messo in luce che la fonte degli interessi non ha nulla a che vedere col problema della loro misura.

La fonte può essere legale o convenzionale; la misura incontra il limite della forma scritta ad substantiam per gli interessi ultralegali.

La forma scritta ad substantiam è richiesta dalla legge sia per gli interessi corrispettivi, sia per quelli moratori, e nessuno dubita che sia richiesta a tutela del debitore.

Sarebbe, pertanto, illogico ritenere che la tutela del debitore apprestata dal codice civile si applichi ad entrambi i tipi di interessi, e quella apprestata dalla legge antiusura si applichi solo agli interessi corrispettivi. Identica è, nell'uno come nell'altro caso, la funzione degli interessi; identica è la posizione del debitore, ed identico è il rischio di approfittamento da parte del creditore.

1.5.5. S'è detto sin qui che gli interessi convenzionali moratori e quelli corrispettivi hanno la medesima funzione (remunerare il mancato godimento d'un capitale), e che tale identità di funzione giustifica l'assoggettamento di entrambi alla legislazione antiusura.

Deve ora aggiungersi che le conclusioni appena raggiunte non sono scalfite dalla tralatizia affermazione secondo cui gli interessi corrispettivi e quelli moratori avrebbero una funzione diversa: remunerativa i primi, risarcitoria i secondi.

Ciò per tre ragioni.

La prima ragione è che tale scolastica distinzione prescinde del tutto dalla genesi e dallo sviluppo storico della distinzione tra interessi compensativi e moratori, di cui si dirà più oltre (infra, p.p. 1.6 e ss.).

La seconda ragione è che quella appena ricordata costituisce una delle purtroppo non rare tralatizie affermazioni, spesso irriflessivamente reiterate, dal cui abuso hanno messo in guardia le Sezioni Unite di questa Corte, allorchè hanno indicato, come precondizione necessaria per l'interpretazione della legge, la necessità di "sgombrare il campo di analisi da (...) espressioni sfuggenti ed abusate che hanno finito per divenire dei "mantra" ripetuti all'infinito senza una preventiva ricognizione e condivisione di significato (...), (il quale) resta oscuro e serve solo ad aumentare la confusione ed a favorire l'ambiguità concettuale nonchè la pigrizia esegetica" (sono parole di Sez. U, Sentenza n. 12310 del 15/06/2015).

La terza ragione è che, anche ad ammettere che gli interessi moratori abbiano lo scopo di risarcire il creditore, e quelli corrispettivi di ricompensarlo per il prestito d'un capitale, tale affermazione resterebbe una mera declamazione teorica. Sul piano del diritto positivo, infatti, mancano sia norme espresse, sia plausibili ragioni giuridiche che giustifichino un diverso trattamento dei due tipi di interessi quanto al contrasto dell'usura.

1.6. (C) L'interpretazione finalistica.

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Che gli interessi convenzionali moratori non sfuggano alle previsioni della L. n. 108 del 1996 è confermato dalla ratio di tale legge.

La L. n. 108 del 1996 venne dettata al fine di troncare le infinite questioni che, in precedenza, si ponevano in giudizio allorchè si trattava di accertare l'usurarietà di un patto di interesse: se occorresse adottare il criterio oggettivo o quello soggettivo, come valutare il contesto del contratto, quanto rilevasse la condizione e qualità personale delle parti, e via dicendo.

La L. n. 108 del 1996 ha introdotto un criterio oggettivo al duplice scopo di tutelare da un lato le vittime dell'usura, e dall'altro il superiore interesse pubblico all'ordinato e corretto svolgimento delle attività economiche.

Escludere, pertanto, dall'applicazione di quella legge il patto di interessi convenzionali moratori da un lato sarebbe incoerente con la finalità da essa perseguita; dall'altro condurrebbe al risultato paradossale che per il creditore sarebbe più vantaggioso l'inadempimento che l'adempimento; per altro verso ancora potrebbe consentire pratiche fraudolente, come quella di fissare termini di adempimento brevissimi, per far scattare la mora e lucrare interessi non soggetti ad alcun limite.

1.7. (D) L'interpretazione storica.

Che anche gli interessi convenzionali di mora soggiacciano alle previsioni dettate dalla legge antiusura è conclusione imposta da una millenaria evoluzione storica, dalla quale non può prescindere l'interprete che volesse degli istituti giuridici non già ritenere il vuoto nome, ma intenderne la vim ac potestatem.

L'analisi storica dell'istituto in esame conferma infatti che:

(a) gli interessi moratori sorsero per compensare il creditore dei perduti frutti del capitale non restituito, e quindi per riprodurre, sotto forma di risarcimento, la remunerazione del capitale; non è dunque storicamente vero che le due categorie di interessi siano "funzionalmente" differenti;

(b) l'opinione secondo cui gli interessi moratori avrebbero una funzione diversa da quelli corrispettivi sorse non per sottrarre gli interessi moratori alle leggi antiusura, ma per aggirare il divieto canonistico di pattuire interessi tout court;

(c) la presenza nel nostro codice civile di due diverse norme, l'una dedicata agli interessi moratori (art. 1224 c.c.) l'altra agli interessi corrispettivi (art. 1282 c.c.) non si spiega con la distinzione tra le due categorie di interessi e non ne giustifica un diverso trattamento rispetto alle pratiche usurarie, ma è retaggio dell'unificazione del codice civile e di quello di commercio, che avevano risolto in termini diversi il problema della decorrenza degli effetti della mora.

La pretesa distinzione "ontologica e funzionale" tra le due categorie di interessi non solo è dunque un falso storico, ma sorse e si affermò per circoscritti e non più attuali fini. Tale inesistente distinzione "funzionale" non giustifica affatto la pretesa che gli interessi moratori sfuggano all'applicazione della L. n. 108 del 1996.

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Nei p.p. che seguono si darà conto di tali affermazioni.

1.7.1. I giuristi romani di epoca classica distinsero vari tipi di interessi: tra questi, rileva ai nostri fini la distinzione tra interessi dovuti in virtù d'un patto ad hoc (foenus ex conventione); e quelli dovuti per diritto pretorio (usurae officio iudicis: per tale distinzione, tra i tanti, si veda Marciano, Libri IV Regularum, in Dig., XXII, I, 32, 2).

I primi avevano la funzione di remunerare un capitale dato a mutuo, ed il loro fondamento era spiegato col fatto che il mutuante, privandosi della disponibilità del capitale dato a mutuo, si sarebbe privato anche dei relativi frutti, i quali dovevano perciò essere compensati dall'obbligo di pagamento del foenus.

I secondi erano concepiti come una remunerazione compensativa del pregiudizio che il creditore, non -ricevendo tempestivamente la restituzione o il pagamento di quanto dovutogli, aveva patito per non potere investire l'importo dovutogli e farlo fruttare (foenus odiosum nomen est, usura non item. Usurae non propter lucrum petentium, sed propter moram solventium infliguntur: così Dig., XXII, I, 17, 3).

Tuttavia la distinzione tra interessi dovuti lucri petentis causa ed interessi dovuti morae solventis causa veniva dai giuristi romani affermata solo in astratto: anche i secondi, infatti, venivano concepiti come un surrogato dei frutti del capitale non tempestivamente restituito: usurae vicem fructuum obtinent, scriveva infatti Ulpiano nei suoi Libri XV ad edictum, in Dig., XXII, I, 34.

Nel diritto romano classico, dunque, gli interessi (che oggi chiameremmo) corrispettivi e quelli (che oggi chiameremmo) moratori assolvevano analoga funzione: remunerare un capitale del quale il proprietario era stato temporaneamente privato.

1.7.2. Da questa affinità concettuale tra i due istituti (foenus ed usurae) discese che per lunghi secoli l'uno e l'altro furono sempre soggetti alle medesime regole in tema di usura.

La pratica dell'usura fu infatti sempre odiosissima (omnia conductis coemens obsonia nummis, ricorda Orazio nelle Satire, II, 9), e la sua repressione attraverso la fissazione di un saggio degli interessi invalicabile è antica quanto la nostra cultura giuridica.

Nel diritto romano arcaico un "tasso soglia" (foenus unciarum) venne introdotto sin dal VI secolo a.C. nella legislazione tavolare (secondo quanto riferisce Tacito, Annales, VII, 16, 2). Questo tasso subì periodiche variazioni, e restò fissato nella misura del 6% dall'imperatore Giustiniano.

Tale limite trovava applicazione sia per gli interessi dovuti ex conventione (o corrispettivi che dir si voglia, con terminologia moderna); sia per gli interessi dovuti ex officio judicis (tra i quali rientravano le usurae moratoriae).

Illuminante, al riguardo, è un rescritto dell'imperatore Giustiniano al prefetto del pretorio Menna (in Codex, IV, XXXII, 26), nel quale, dopo avere stabilito la misura massima degli interessi, si soggiunge: "et eam quantitatem usurarum etiam in aliis omnibus casibus nullo modo ampliari, in quibus citra stipulationem exigi usurae solent".

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Il saggio oltre il quale gli interessi erano reputati illegittimi trovava dunque applicazione non solo nel caso di interessi concordati quale remunerazione d'un capitale dato a prestito, ma anche "in aliis omnibus casis", e dunque anche nelle ipotesi in cui gli interessi erano dovuti officio judicis.

Interessi moratori e foenus si distinguevano dunque solo nella causa, non nella disciplina, perchè per i giuristi romani tanto gli interessi contrattati (foenus) quanto quelli "legali" (usurae) erano soggetti al limite invalicabile stabilito dalla legge o, nei giudizi di buona fede, dagli usi della regione (mos regionis). Il limite dettato per l'usura pattizia valeva dunque anche per quella da mora (Papiniano, Libri II quaestionum, in Dig., XXII, I, 1; così pure la costituzione imperiale di Gordiano in Codice, IV, XXXII, 15).

1.7.3. Nel diritto tardoantico ed altomedioevale il divieto di pattuire interessi usurari si trasformò in quello di pattuire interessi tout court.

La patristica del V e del VI sec. (ed in particolare San Gerolamo, Sant'Ambrogio, Sant'Agostino) ritenne infatti il prestito ad interesse non consentito dall'esegesi d'un passo del Vangelo di Luca (mutuum date nihil inde sperantes: Luca, 6, 35).

Il divieto canonistico dell'usura, col rifiorire dei commerci e degli studi giuridici nel XII sec., divenne palesemente anacronistico. Fu così che la dottrina tanto canonistica quanto civilistica iniziò a concepire una serie di deroghe legittime ad esso.

Tra queste, una rileva in particolare ai nostri fini: si ammisero le usurae concordate per l'ipotesi di ritardo nel rimborso del prestito, con la giustificazione che in tal caso gli interessi non costituivano l'immeritata percezione d'un compenso senza controprestazione (il che avrebbe incontrato il divieto canonistico), ma il risarcimento d'un danno patito dal creditore per non avere potuto impiegare la somma dovutagli.

In quell'epoca, dunque, si distinsero le usurae moratoriae dalle usurae remuneratoriae non perchè le une e le altre fossero istituti ontologicamente diversi, ma perchè solo la qualificazione degli interessi come moratori consentiva di sottrarli al divieto di pattuire interessi.

Ma anche nel diritto intermedio non si dubitava che gli interessi, quando ammessi perchè moratori, incontrassero comunque il limite del saggio previsto dagli usi locali (mos regionis).

1.7.4. L'opinione secondo cui gli interessi moratori hanno lo scopo di risarcire il danno da ritardato adempimento, sorta al fine di svincolare l'istituto degli interessi di mora dai divieti canonistici, non impedì mai ai giuristi delle epoche successive (la Scuola Culta, il Diritto Comune, i Giusnaturalisti) di avere ben chiaro che il "danno" patito dal creditore che si vede tardivamente restituire il capitale è pur sempre un danno da lucro cessante; che esso consiste nella perduta possibilità di investire il capitale dovutogli e ricavarne un lucro finanziario; che la liquidazione di tale danno in forma di interessi non è altro che una convenzione; che, di conseguenza, la funzione degli interessi moratori, proprio come quelle degli interessi corrispettivi, è remunerare il creditore per la forzosa rinuncia a far fruttare il proprio capitale.

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Per quei giuristi poteva pur concedersi in astratto che gli interessi corrispettivi garantivano un lucro, e quelli moratori evitavano un danno ("foenus est ad sortem tantum creditam additamentum ex conventione; usura est ad sortem, quae debetur, cuiusve positio est quacumque ex causa, accessio ex conventione, vel officio judicis": così il Cuiacio, Ad titulum I Lib. XXXXII dig., de re judic. comment., nonchè il Voet, Commentariorum ad pandectas, III, XXII, 1; che gli interessi moratori avessero lo scopo "de repensando damno, quod facit qui pecuniam dat mutuam, eo quod diu pecunia careat", sostenne altresì il Grozio, De jure belli ac pacis, II, 12, 21).

E tuttavia essi non dubitarono mai che l'unica differenza tra gli uni e gli altri riguardava la fonte, non la funzione degli interessi.

Anche coloro che qualificavano gli interessi corrispettivi come "frutti", e quelli moratori come "risarcimento", ammettevano però unanimemente che quest'ultimo aveva lo scopo di tener luogo dei frutti perduti, e venivano accordati al posto di quelli ("usura, quae propter moram infligitur, non est foenus, sed pro eo, quod interest, infligitur officio judicis ex tempore morae, ut non male idem Theodorus in hac lege ita scribat, (vedi PDF per citazione greca), confundens cum usuris id quod interest, quia scilicet exiguntur vice eius, quod interest": così, ancora, Cuiacio, Ad librum VII Codicis recitationes solemnes seu commentarli, ad titulum XLVII De Sententiis).

La funzione risarcitoria assegnata agli interessi moratori, teoricamente ineccepibile, non ebbe mai nel diritto comune l'effetto di sottrarli alla disciplina dell'usura.

I giuristi del XVI ed il XVII sec. non esitarono ad affermare che gli interessi moratori "sub colore ejus quod interest ("id quod interest" era definito il danno risarcibile, n.d.e.) nihil aliud quam foeneris, usuraeque vis, ac potestas comprehenditur" (Noodt, De foenore et usuris, I, 12); che sottrarre gli interessi moratori alla disciplina dell'usura era "velut somnium, et deliramentum rejeciendus" (Dumoulin (Molinaeus), Tractatus commerciorum et usurarum, II, 75); che non c'era "nulla di più assurdo" che assoggettare alle norme contro l'usura gli interessi compensativi, ed escluderne quelli moratori, perchè anche questi ultimi recavano con sè il sospetto dell'ingiusto guadagno: "lex (...) tantundem faveat iis usuris quae ex mora veniunt, quantum iis quis ex mutuo stipulatus est, quia hae semper suspicionem aliquam improbi lucri secum ferunt" (Hotman (Hotomanus), De usuris, I, 8).

Ancora nel 1788 il giureconsulto partenopeo Niccola Doccilli affermava icasticamente che "le usure lucrative e compensatrici (cioè gli interessi corrispettivi e quelli moratori, n.d.e.), comechè differiscano e nella causa, e nell'obbietto, pure per diritto civile convengono perfettamente in questo: che circa la quantità, il modo (cioè il saggio, n.d.e.) e le une, e le altre, seguon le stessissime leggi".

Principio che veniva fatto discendere dall'abbandono della concezione aristotelica, secondo cui la moneta, essendo infertile, non poteva produrre altra moneta ("nec magis urget quod suapte natura sterilis est pecunia. Nam et domos et res alias natura infoecundas hominum industria fructuosas fecit": così Grozio, De jure belli ac pacis, II, 12, 20, 1; nello stesso senso Voet, Commentario alle Pandette, XXII, 5: "quae enim natura sterilis est, usu tamen hominum fertilis est reddita").

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Pertanto anche quando fosse stato chiamato a liquidare gli interessi di mora, il giudice avrebbe potuto applicare il saggio di mora pattuito o risultante dagli usi solo "se non avesse offeso la legge" (porro usura (...) quacumque ex causa infligatur, non potest excedere dupli quantitatem (...). Denique in casibus certis, eundem esse modum (cioè il saggio, n.d.e.) usurae, et eius quod interest": così ancora il Cuiacio, Ad librum VII Codicis recitationes solemnes seu commentarli, ad titulum XLVII De Sententiis).

1.7.5. I principi appena riassunti vennero recepiti nella prima codificazione dell'età moderna, il Code Napoleon del 1804.

Tale codice, abolendo il divieto del prestito ad interesse, ancora vigente in ambiti locoregionali, giustificò la propria scelta - così si legge nei lavori preparatori - reputando "essere strano" che gli interessi fossero illeciti se convenzionali, e leciti se moratori. Ambedue i tipi di interessi dovevano dunque essere ammessi, perchè anche il debitore che ritarda il pagamento fa al debitore un "torto capace di essere riparato con una indennità", esattamente come dovrebbe fare chi prende a prestito del denaro (così la "sposizione" del tribuno Bigot-Preameneau, del 6 Piovoso anno XII (27.1.1804), in Motivi, rapporti, opinioni e discorsi per la formazione del codice napoleone, Napoli 1839, 34).

Analogamente, la dottrina giuridica formatasi sul Code napoleon, sia in Italia che in Europa, mai dubitò che gli interessi moratori compensassero il creditore della perduta disponibilità del denaro ("il creditore non avrebbe tenuti morti i suoi capitali, se a tempo debito gli fossero stati soddisfatti"), e che pertanto essi assolvevano la medesima funzione degli interessi compensativi, con l'unica differenza che la loro misura era predeterminata dalla legge: non perchè avesse natura diversa (solo la causa è diversa), ma per evitare il proliferare dei giudizi cui avrebbe inevitabilmente condotto la necessità di accertare caso per caso che uso il creditore avrebbe potuto fare del denaro dovutogli, se gli fosse stato tempestivamente restituito.

1.7.6. Quel che differenziò gli interessi moratori da quelli corrispettivi, in quelle prime codificazioni, non era la loro funzione o la differente soggezione alle regole dettate per contrastare l'usura, ma la loro decorrenza. Mentre, infatti, i crediti liquidi dei commercianti producevano interessi ipso iure, sul presupposto che per il commerciante il denaro è mezzo di produzione di altro denaro (così il p. 289 del codice di commercio prussiano; l'art. 41 cod. comm. Italiano del 1882), i crediti comuni non ebbero analogo trattamento, e gli interessi vennero accordati dalla legge al creditore solo nel caso di mora, che il Code Napoleon faceva decorrere dalla domanda (art. 1153) ed il codice civile italiano del 1865 dalla mora (art. 1231).

L'unificazione dei due codici nel 1942 conservò la struttura generale di tali regole, sicchè l'art. 41 cod. comm. venne esteso a tutti i crediti e rifluì nell'art. 1282 c.c. attuale, mentre l'art. 1231 c.c. del 1865 rifluì, nell'art. 1224 c.c..

Il che rende conto e ragione della diversità delle due norme attuali: non perchè interessi corrispettivi e moratori abbiano "funzione e natura" diversi, come ritenuto dalla sentenza impugnata, ma perchè storicamente i primi prescindevano dalla mora, i secondi no. Differenza, quest'ultima, che costituisce ben esiguo fondamento per giustificare la sottrazione degli interessi moratori alla legislazione di contrasto all'usura.

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1.8. Detto delle ragioni per le quali la legislazione antiusura si applica agli interessi moratori convenzionali, resta da aggiungere che nessuno degli argomenti posti dalla sentenza impugnata a fondamento della contraria opinione possa essere condiviso.

1.8.1. La Corte d'appello di Milano ha affermato in primo luogo che gli interessi corrispettivi e quelli moratori sarebbero "ontologicamente" disomogenei, poichè i primi remunerano un capitale, i secondi costituiscono una sanzione convenzionale ed una coazione indiretta per dissuadere il debitore dall'inadempimento, e sono perciò assimilabili alla clausola penale; i primi sono necessari, i secondi eventuali; i primi hanno una finalità di lucro, i secondi di risarcimento.

Si è già visto tuttavia come la pretesa diversità strutturale tra i due tipi di interesse, se pure non raramente affermata, costituisce oggetto di un aforisma scolastico (supra, p.p. 1.5 e ss.), non giustificata sul piano storico e sistematico. Deve ora aggiungersi che, si pensi che quel che si voglia di tale pretesa diversità "ontologica", essa comunque non varrebbe a giustificare la diversità di disciplina sul piano dell'usura, per le ragioni anche in questo già esposte: tale interpretazione sarebbe infatti asistematica, contrattante con la ratio della L. n. 108 del 1996; contrastante con una esperienza giuridica millenaria.

1.8.2. Nemmeno può condividersi l'affermazione secondo cui non esisterebbe alcuna norma di legge che commini la nullità degli interessi convenzionali moratori eccedenti il tasso soglia.

E' vero, infatti, l'esatto contrario: l'ampia formula dell'art. 644 c.p.; della L. n. 108 del 1996, art. 2; del D.L. n. 394 del 2000, art. 1, dimostrano che la legge non consente distinzioni di sorta tra i due tipi di interessi, e tale conclusione è espressamente ribadita dai lavori parlamentari, come già detto (supra, p. 1.4.1).

1.8.3. Non rileva, ancora, che la rilevazione periodica da parte del Ministero del Tesoro degli interessi medi praticati dagli operatori finanziari non prenda in considerazione gli interessi moratori (all'epoca dei fatti; oggidì una rilevazione a campione di tali saggi viene comunque effettuata: cfr. i dd.mm. 27 giugno 2018 (in Gazz. Uff., 30 giugno 2018, n. 150); 28 marzo 2018 (in Gazz. Uff., 31 marzo 2018, n. 76); 21 dicembre 2017 (in Gazz. Uff., 30 dicembre 2017, n. 303)).

La L. n. 108 del 1996, art. 2, comma 1, stabilisce infatti che la rilevazione dei tassi medi debba avvenire per "operazioni della stessa natura". E non v'è dubbio che con l'atecnico lemma "operazioni" la legge abbia inteso riferirsi alle varie tipologie contrattuali.

Ma il patto di interessi moratori convenzionali ultralegali non può dirsi una "operazione", e tanto meno un tipo contrattuale. Esso può infatti accedere a qualsiasi tipo di contratto, ed essere previsto per qualsiasi tipo di obbligazione pecuniaria: corrispettivi, provvigioni, rate di mutuo, premi assicurativi, e via dicendo.

E' dunque più che normale che il decreto ministeriale non rilevi la misura media degli interessi convenzionali di mora, dal momento che la legge ha ritenuto di imporre al ministro del tesoro la rilevazione dei tassi di interessi omogenei per tipo di contratto, e non dei tassi di interessi omogenei per titolo giuridico.

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Ne discende che la mancata previsione, nella L. n. 108 del 1996, dell'obbligo di rilevazione del saggio convenzionale di mora "medio" non solo non giustifica affatto la scelta di escludere gli interessi moratori dal campo applicativo della L. n. 108 del 1996, ma anzi giustifica la conclusione opposta: il saggio di mora "medio" non deve essere rilevato non perchè agli interessi moratori non s'applichi la legge antiusura, ma semplicemente perchè la legge, fondata sul criterio della rilevazione dei tassi medi per tipo di contratto, è concettualmente incompatibile la rilevazione dei tassi medi "per tipo di titolo giuridico".

E non sarà superfluo aggiungere che la stessa Banca d'Italia, nella Circolare 3.7.2013, p. 4, ammette esplicitamente che "in ogni caso, anche gli interessi di mora sono soggetti alla normativa anti-usura" (passo, quest'ultimo, che curiosamente la società controricorrente, pur richiamando e trascrivendo la suddetta circolare, a p. 23 del controricorso, omette).

1.8.4. Osserva altresì ad abundantiam la sentenza impugnata che sarebbe irrazionale ritenere usurari gli interessi moratori concordati ad un saggio dell'8,6%, laddove nella stessa epoca la legge contro i ritardi nel pagamento delle transazioni commerciali tra imprenditori prevedeva, come interesse legale di mora, un saggio del 9,25%.

Anche questo argomento non può essere condiviso.

Il D.Lgs. 9 ottobre 2002, n. 231, art. 5 fissa il saggio "legale" di mora nelle transazioni commerciali, ma lascia alle parti la facoltà di derogarvi, alla sola condizione che gli interessi di mora non siano del tutto esclusi, oppure fissati in misura gravemente iniqua per il creditore (D.Lgs. n. 231 del 2002, art. 7).

Le parti possono dunque avvalersi o non avvalersi della facoltà di derogare al saggio legale previsto dal D.Lgs. n. 231 del 2002, art. 5.

Se non vi derogano, il saggio di mora sarà quello previsto da quest'ultima norma. Se vi derogano, il patto di interessi moratori non sarà più disciplinato dal D.Lgs. n. 231 del 2002, ma dalle restanti norme dell'ordinamento: e dunque dalla L. n. 108 del 1996, art. 2.

Il sistema della legge dunque è in sè razionale, in quanto lascia le parti libere di scegliere tra due blocchi normativi, assumendo i rischi e prefigurandosi i benefici dell'uno e dell'altro: o scegliere il sistema del D.Lgs. n. 231 del 2002, evitando i rischi di nullità del patto di interessi ma rinunciando alla libertà negoziale, oppure "far da sè", concordando il saggio di mora ritenuto più vantaggioso, ma soggiacendo alle norme antiusura.

La circostanza che, per effetto del fluttuare dei saggi previsti rispettivamente dalla legge antiusura e da quella contro il ritardo nei pagamenti, il tasso soglia antiusura possa risultare nel caso specifico inferiore al tassi di mora previsto dal D.Lgs. n. 231 del 2002, art. 5 non è dunque una "irrazionalità" intrinseca nel sistema della legge, ma una eventualità accidentale che può in concreto accadere, e che non basta di per sè a bollare come "irrazionale" quel sistema.

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1.9. A completamento di quanto esposto va soggiunto che il principio per cui le norme dettate a contrasto dell'usura si applicano anche al patto di fissazione del saggio degli interessi moratori è già stato ripetutamente affermato sia dalla Corte costituzionale, sia da questa Corte.

Già Corte cost., 25-02-2002, n. 29, chiamata a valutare la conformità a Costituzione del D.L. n. 394 del 2000, art. 1, cit., osservò che "il riferimento, contenuto nel D.L. n. 394 del 2000, art. 1, comma 1, agli interessi "a qualunque titolo convenuti" rende plausibile - senza necessità di specifica motivazione - l'assunto, del resto fatto proprio anche dal giudice di legittimità, secondo cui il tasso soglia riguarderebbe anche gli interessi moratori" (corte cost. 29/02, cit., p. 2.2 del "Considerato in diritto").

Allo stesso modo anche questa Corte, già vent'anni fa, affermò:

"nel sistema era già presente un principio di omogeneità di trattamento degli interessi (compensativi e moratori), pur nella diversità di funzione, come emerge anche dell'art. 1224 c.c., comma 1, nella parte in cui prevede che "se prima della mora erano dovuti interessi in misura superiore a quella legale, gli interessi moratori sono dovuti nella stessa misura".

Il ritardo colpevole, poi, non giustifica di per sè il permanere della validità di un'obbligazione così onerosa e contraria al principio generale posto dalla legge".

Da ciò trasse la conclusione che la pattuizione di interessi moratori a tasso divenuto usurario a seguito della L. n. 108 del 1996 è illegittima anche se convenuta in epoca antecedente all'entrata in vigore della detta legge (Sez. 1, Sentenza n. 5286 del 22/04/2000, Rv. 535967 - 01).

Il principio per cui le norme antiusura si applicano anche agli interessi moratori, è stato in seguito ribadito da Sez. 1, Sentenza n. 14899 del 17/11/2000, Rv. 541821 - 01; Sez. 3, Sentenza n. 8442 del 13/06/2002, Rv. 555031 - 01; Sez. 3, Sentenza n. 5324 del 04/04/2003, Rv. 561894 - 01; Sez. 3, Sentenza n. 10032 del 25/05/2004; Sez. 3, Sentenza n. 1748 del 25/01/2011; Sez. 3, Sentenza n. 9896 del 15/04/2008 (in motivazione); Sez. 6 - 1, Ordinanza n. 5598 del 06/03/2017, Rv. 643977 - 01; Sez. 6 - 1, Ordinanza n. 23192 del 4/10/2017. Dello stesso avviso è stata questa Corte anche in sede penale (Cass. pen. sez. 2, 21.2.2017 (ud. 31.1.2017), n. 8448, in motivazione).

1.10. Il primo motivo di ricorso, come anticipato, deve dunque essere accolto, e la sentenza impugnata cassata con rinvio alla Corte d'appello di Milano, la quale nel riesaminare il gravame proposto dalla società Alias Tag applicherà il seguente principio di diritto:

"è nullo il patto col quale si convengano interessi convenzionali moratori che, alla data della stipula, eccedano il tasso soglia di cui alla L. 7 marzo 1996, n. 108, art. 2, relativo al tipo di operazione cui accede il patto di interessi moratori convenzionali".

1.11. Al fine di prevenire ulteriore contenzioso, questo Collegio reputa opportuno soggiungere due notazioni finali.

La prima è che il riscontro dell'usurarietà degli interessi convenzionali moratori va compiuto confrontando puramente e semplicemente il saggio degli interessi pattuito nel contratto col tasso

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soglia calcolato con riferimento a quel tipo di contratto, senza alcuna maggiorazione od incremento: è infatti impossibile, in assenza di qualsiasi norma di legge in tal senso, pretendere che l'usurarietà degli interessi moratori vada accertata in base non al saggio rilevato ai sensi della L. n. 108 del 1996, art. 2, ma in base ad un fantomatico tasso talora definito nella prassi di "mora-soglia", ottenuto incrementando arbitrariamente di qualche punto percentuale il tasso soglia.

La seconda notazione finale è che nel giudizio di rinvio resterà precluso, perchè coperto dal giudicato interno, l'esame della questione concernente l'applicabilità, al contratto di leasing oggetto del presente giudizio, della previsione di cui all'art. 1815 c.c., comma 2.

La sentenza impugnata, infatti, ha affrontato espressamente tale questione (pag. 14, p. 3.2), stabilendo con autonoma ratio decidendi che la nullità del patto di interessi moratori non potrebbe mai escludere l'obbligo dell'utilizzatore di pagamento degli interessi corrispettivi.

Tale statuizione non ha formato oggetto di impugnazione, e non sarà dunque più discutibile nel giudizio di rinvio.

Reputa nondimeno opportuno questo Collegio aggiungere che, nonostante l'identica funzione sostanziale degli interessi corrispettivi e di quelli moratori, l'applicazione dell'art. 1815 c.c., comma 2, agli interessi moratori usurari non sembra sostenibile, atteso che la norma si riferisce solo agli interessi corrispettivi, e considerato che la causa degli uni e degli altri è pur sempre diversa: il che rende ragionevole, in presenza di interessi convenzionali moratori usurari, di fronte alla nullità della clausola, attribuire secondo le norme generali al danneggiato gli interessi al tasso legale.

2. Il secondo motivo di ricorso.

2.1. Col secondo motivo i ricorrenti lamentano, genericamente richiamando l'art. 360 c.p.c. senza ulteriori precisazioni, la violazione dell'art. 346 c.p.c..

Lamentano che la Corte d'appello avrebbe erroneamente rigettato la loro richiesta di disporre una consulenza tecnica d'ufficio contabile.

2.2. Il motivo resta assorbito dall'accoglimento del primo.

3. Le spese.

Le spese del presente grado di giudizio saranno liquidate dal giudice del rinvio.

P.Q.M.

la Corte di cassazione:

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(-) accoglie il primo motivo di ricorso; dichiara assorbito il secondo; cassa la sentenza impugnata e rinvia la causa alla Corte d'appello di Milano, in diversa composizione, cui demanda di provvedere anche sulle spese del giudizio di legittimità.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Terza Sezione civile della Corte di cassazione, il 17 maggio 2018.

Depositato in Cancelleria il 30 ottobre 2018

9 Tribunale Milano n. 12425 del 20/12/2018 successivo alla ordinanza della Corte di Cassazione e di segno contrario alla stessa

Tribunale sez. VI , - Milano, 20/12/2018, n. 12425 R E P U B B L I C A I T A L I A N A IN NOME DEL POPOLO ITALIANO TRIBUNALE ORDINARIO di MILANO SESTA CIVILE Il Tribunale, nella persona del Giudice dott. Claudio AntonioTranquillo ha pronunciato la seguente SENTENZA nella causa civile di I Grado iscritta al n. r.g. omissis/2014promossa da: SOCIETÀ UTILIZZATRICE E FIDEIUSSORI Attori contro SOCIETÀ UTILIZZATRICE Convenuta

CONCLUSIONI Per SOCIETÀ UTILIZZATRICEVoglia l'Ill.mo Giudice, ogni contraria istanza, eccezione e deduzione disattesa, visti i documenti depositati nel corso del giudizio:- in via principale, revocare l'ordinanza del 27 febbraio 2015, ammettendo la consulenza tecnica d'ufficio, richiesta da parte attrice con l'atto introduttivo del giudizio, nominare il CTU e rinviare per il giuramento dello stesso;- in via subordinata, accogliere le conclusioni già precisate nell'atto di citazione, che vengono integralmente trascritte:Piaccia al Tribunale illustrissimo, contrariis reiectis e previa ogni opportuna declaratoria, così giudicare:I - Nel merito:1. accertare e dichiarare ex art. 1815 co. 2 c.c. la nullità delle clausole dei contratti di leasing finanziario n. omissis del 12/10/2007 e n. omissis del 02/04/2007, che pattuiscono interessi in misura superiore al tasso soglia - usura e di conseguenza convertire i contratti di leasing da oneroso a gratuito e per l'effetto,

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2. dichiarare società l'obbligata alla restituzione della sola somma capitale con esclusione degli interessi di qualsiasi natura,3. compensare all'occorrenza in via legale o giudiziale il credito ancora eventualmente dovuto dall'attrice alla convenuta in linea capitale, con le somme indebitamente percepite dalla Finanziaria a titolo di interessi usurari, nella misura che sarà determinata all'esito della espletanda ctu contabile,4. condannare la SOCIETÀ DI LEASING a restituire ex art. 2033 c.c. alla società attrice la somma che eventualmente residui a seguito dalla avvenuta compensazione, insieme con gli interessi legali dal giorno della conclusione dei contratti (12/10/2007 e 02/04/2007) al saldo effettivo, se risulti la mala fede o, in subordine, dal giorno della domanda al saldo effettivo.5. condannare SOCIETÀ DI LEASING a risarcire a SOCIETÀ UTILIZZATRICE i danni patrimoniali subiti da quest'ultima nell'ammontare che sarà determinato in corso di causa anche in via di liquidazione equitativa6. pronunciare ordinanza ex art. 186 quater c.p.c. nei confronti della convenuta per il pagamento della somme che eventualmente residuino dalla compensazione, nella misura che sarà determinata all'esito dell'istruttoria.Per SOCIETÀ DI LEASING:Voglia l'Ill.mo Tribunale adito, ogni contraria istanza, domanda eccezione disattesa, così giudicare:- nel merito, rigettare in quanto inammissibili ed infondate in fatto ed in diritto, tutte le domande formulate dagli attori con l'atto di citazione notificato a SOCIETY DI LEASING in data 31 gennaio 2014;- in via riconvenzionale:accertare e dichiarare - ai sensi degli artt. 21 e 23 delle condizioni generali del contratto n. IF 972481, l'intervenuta risoluzione di diritto del contratto di leasing n. omissis, per l'effetto, - condannare SOCIETÀ UTILIZZATRICE, in persona del legale rappresentante pro tempore, all'immediata restituzione, in favore di SOCIETÀ DI LEASING, dell'unità immobiliare ad uso industriale sita in OMISSIS sul, come meglio descritta nell'allegato contratto di locazione finanziaria, libera da persone e/o cose;- accertare e dichiarare l'intervenuta scadenza naturale del contratto n. omissis e, per l'effetto, in virtù di quanto previsto dall'art. 19 delle condizioni generali di contratto, condannare SOCIETÀ UTILIZZATRICE, in persona del legale rappresentante pro tempore, all'immediata restituzione in favore di SOCIETÀ DI LEASING della gru omissis, matricola n. omissis- per l'effetto, condannare SOCIETÀ UTILIZZATRICE, in persona del legale rappresentante pro tempore, ed i FIDEIUSSORI al pagamento in favore di SOCIETÀ DI LEASING della complessiva somma pari ad Euro 1.131.403,04, a titolo di canoni scaduti ed insoluti, maturati nell'ambito dell'operatività dei contratti di leasing nn. omissis e omissis, oltre interessi convenzionali di mora dal dì del dovuto sino all'effettivo saldo, ovvero di quella diversa somma, maggiore o minore, accertata in corso di causa e ritenuta di giustizia; - in via subordinata,- accertare e dichiarare, limitatamente al contratto di leasing n. omissis, l'intervenuta risoluzione del contratto ai sensi e con gli effetti di cui all'art. 1453 c.c. e, per l'effetto, - condannare SOCIETÀ UTILIZZATRICE, in persona del legale rappresentante pro tempore, all'immediata restituzione, in favore di SOCIETÀ DI LEASING, dell'unità immobiliare ad uso industriale sita in omissis, come meglio descritta nell'allegato contratto di locazione finanziaria, libera da persone e/o cose;- condannare SOCIETÀ UTILIZZATRICE, in persona del legale rappresentante pro tempore, ed i fideiussori, al pagamento in favore di SOCIETÀ DI LEASING della complessiva somma pari ad Euro 1.131.403,04, a titolo di canoni scaduti ed insoluti, maturati nell'ambito dell'operatività dei

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contratti di leasing nn. omissis, e omissis,, oltre interessi convenzionali di mora dal dì del dovuto sino all'effettivo saldo, ovvero di quella diversa somma, maggiore o minore, accertata in corso di causa e ritenuta di giustizia- in ogni caso: con vittoria di spese, competenze ed onorari di causa.Concisa esposizione delle ragioni di fatto e di diritto della decisioneSOCIETÀ UTILIZZATRICE, utilizzatrice di bene in leasing in forza di due distinti contratti di leasing stipulati con SOCIETÀ DI LEASING (odierna convenuta) lamenta l'illiceità dei rapporti per via del carattere usurario degli interessi di mora, nonché del tasso derivante dalla sommatoria dei tassi leasing e dei tassi moratori, in relazione a ciascuno dei due rapporti. Si lamenta poi la mancata consegna del piano di ammortamento.Circa i FIDEIUSSORI, gli stessi alla luce dell'illiceità del rapporto di base invocano l'exceptio doli generalis nonché nullitatis.Le doglianze sono infondate.Afferma l'attore che il tasso di mora al momento della stipula era usurario (a fortiori, nel caso di sommatoria dei due tassi).Non appare soverchio zelo attardarsi sul tema della sommatoria dei tassi d'interesse.Al riguardo, nessuna norma di legge, né la sentenza di Cassazione n. 350/2013, consentono di operare la sommatoria dei tassi d'interesse corrispettivi e moratori al fine di rapportarne il risultato al tasso soglia (in particolare, la sentenza citata si limita al contrario a sancire la possibilità che anche il tasso di mora singolarmente considerato sia usurario: ma su ciò infra). In sostanza, quindi, entrambe le tipologie di interessi potenzialmente potrebbero al più risultare usurarie, ma ciò dovrà essere valutato singolarmente per ciascuna categoria di interessi, dal momento che, nel caso di inadempimento del debitore e conseguente decorrenza degli interessi moratori, questi si sostituiscono e non si aggiungono agli interessi corrispettivi. Anche là dove, come frequentemente avviene, le parti abbiano determinato il tasso di interesse moratorio in una misura percentuale maggiorata rispetto al tasso dell'interesse corrispettivo, ciò assume rilievo esclusivamente sotto il profilo della modalità espressiva adottata per la quantificazione del tasso, ma non implica sul piano logico giuridico una sommatoria dell'interesse corrispettivo con quello moratorio, dato che quest'ultimo, sia pure determinato in termini di maggiorazione sull'interesse corrispettivo, comunque si sostituisce a quest'ultimo. In sostanza, quindi, un cumulo del tasso corrispettivo e del tasso di mora potrebbe rilevare non in riferimento a una teorica somma numerica di detti tassi da raffrontarsi con il tasso soglia (come invece sostenuto dalla difesa attorea), ma al più con riferimento alla concreta somma degli effettivi interessi (corrispettivi e di mora) conteggiati a carico del mutuatario, al fine di verificare se il conteggio complessivo degli interessi applicato in seguito all'inadempimento del mutuatario e alla conseguente applicazione degli interessi di mora, sommati agli interessi corrispettivi, determini un importo complessivo a titolo di interessi che, rapportato alla quota capitale, comporti in termini percentuali un superamento del tasso soglia.Si ritiene che né gli interessi né il tasso di mora possano assumere rilievo ai fini dell'usura (e quindi i primi neppure possono essere sommati agli interessi corrispettivi o ad altre spese per affermare l'usurarietà del contratto). Si consideri quanto segue.1) Il tasso di mora ai sensi dell'art. 1284 c.c., in difetto di accordi inter partes, è pari a quello previsto dalla normativa speciale sui ritardi nei pagamenti nelle transazioni commerciali; ora, l'art. 2 lett. e) d. lgs. n. 231/2002 prevede che il tasso degli interessi di mora sia pari a un tasso di riferimento (sancito dal ministero dell'economia e delle finanze e avente cadenza sostanzialmente semestrale, ex art. 5 d.lgs. cit.) maggiorato di otto punti percentuali: ciò per le transazioni concluse

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dall' 1.1.2013; in precedenza l'incremento previsto era di sette punti percentuali, e assumeva come tasso base un tasso di riferimento della Bce meglio descritto nella previgente lettera della disposizione. Ora, si sono dati dei casi in cui il tasso soglia è risultato inferiore al tasso di mora (per es. al 27.6.2006 il tasso soglia per i leasing di valore superiore a E 50.000 era pari all' 8,04%, mentre il tasso di mora legale e suppletivo era del 9,25%): tuttavia un tasso legalmente stabilito non può essere anche usurario. Consegue, per evitare l'impasse, rivedere la premessa e ipotizzare che gli interessi moratori non possano essere usurari (ancorché si possa sostenere che lo sforamento del tasso soglia sia giustificato in ragione della natura dei rapporti assoggettati al d.lgs. cit.: in sostanza forniture, per solito pagabili ai classici tre mesi data fattura; nel caso dei tassi soglia, invece, il riferimento è a finanziamenti di corso normalmente assai più lungo).2) Il t.e.g.m., sulla cui base viene calcolato il tasso soglia, non viene calcolato facendo riferimento ai tassi d'interesse moratori, ma solo a quelli corrispettivi. Non esiste un tasso soglia degli interessi moratori, ma solo di quelli corrispettivi. Consegue che applicare quest'ultimo puramente e semplicemente anche agli interessi moratori significa dare vita a un'applicazione priva di base normativa, che in caso di interpretazione estensiva (tasso soglia calcolato con riferimento agli interessi corrispettivi da riferirsi anche agli interessi moratori) sarebbe priva di razionalità, e censurabile quantomeno ex art. 3 Cost. in quanto 1) applicherebbe la legge in difetto dei necessari provvedimenti di sostanziale attuazione all'ipotetica volontà del legislatore (i.e. la determinazione del tasso soglia di mora), e inoltre 2) finisce per omologare situazioni diverse (già solo nella prassi il tasso di mora è ben diverso, e più elevato, di quelli corrispettivi), violando il principio di eguaglianza di trattamento, del quale è corollario l'illegittimità di disciplinare allo stesso modo situazioni in realtà diverse; inoltre 3) è chiaro che una sanzione calcolata su determinata presupposti fattuali, applicata a una fattispecie relativa a ben altri elementi costitutivi, appare intrinsecamente irragionevole.3) L'art. 1 c. I d.l. n. 394/2000, conv. in 1. n. 24/2001, sancisce che "ai fini dell'applicazione dell'art. 644 c.p. e dell'art. 1815 2° comma c.c., si intendono usurari gli interessi che superano il limite stabilito dalla legge nel momento in cui essi sono promessi o comunque convenuti, a qualunque titolo, indipendentemente dal momento del loro pagamento". Il riferimento "a qualunque titolo "potrebbe significare "anche a titolo di interessi moratori" (e in tale senso si richiama anche la relazione governativa di accompagnamento al decreto legge). Tuttavia, il decreto citato sancisce una definizione ai fini applicativi dell'art. 644 c.p., che pure continua a richiamare alla lettera il concetto di interessi "corrispettivi" (ovvero che pacificamente vi si riferiva, come l'art. 1815 c.c.: cfr. infra pt. 7), e che al comma quarto opera un riferimento, ai fini della determinazione del tasso di interesse usurario, delle "commissioni, remunerazioni a qualsiasi e delle spese [...1 collegate all'erogazione del credito", ossia costi effettivamente sostenuti (e nopotenziali, come gli interessi dovuti per il caso di mora) in relazione poi all'elemento della "erogazione" del credito, ossia in vista del momento fisiologico della messa a disposizione della moneta. Va da sé allora che non è possibile ampliarne l'ambito del significato proprio dell'articolo 644 c.p., posto che diversamente si finirebbe per darne un'interpretatio abrogans laddove il riferimento è al "corrispettivo". La relazione governativa può illustrare sull'intenzione del legislatore, ma non può certo supplire alle mancanza di un testo legislativo che, per come strutturato, non si riferisce agli interessi moratori.E del resto, si consideri quanto segue: se la relazione depone nel senso della rilevanza degli interessi di mora, la l. n. 24/2001, di conversione del d.l. n. 394/2000 è intitolata espressamente come normativa di "interpretazione autentica" della legge n. 108/1996; la natura di interpretazione autentica emerge quindi come primo dato, normativamente superiore a quello desumibile dalla

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relazione alla legge medesima. Che si tratta di interpretazione autentica, lo asserisce anche Corte cost., ord. n. 28/2002, solitamente citata a favore della tesi della rilevanza moratoria degli interessi di mora; ora, tale ordinanza ribadisce che la l. n. 24/2001 ha natura interpretativa, e che tale natura non desta problemi di legittimità, a condizione che vi sia compatibilità tra la norma interpretata e quella di interpretazione autentica. Ma allora, non si comprende come si possa parlare di interpretazione autentica dell'art. 644 c.p., che fa riferimento al concetto di interessi "corrispettivi", e ritenere in via interpretativa che tali interessi possano essere anche quelli moratori. È evidente l'incompatibilità concettuale.4) Gli interessi di mora sono funzionalmente diversi da quelli corrispettivi, avendo in comune con questi solo la modalità di calcolo (il rapporto di un tasso a un capitale), ma integrando per il resto un risarcimento del danno in via forfetaria. Cass. n. 5286/2000 afferma in senso contrario l'esistenza di un principio di omogeneità di trattamento degli interessi, argomentando sulla base dell'art. 1224 c.c., ma si tratta all'evidenza di argomento alquanto fragile, posto che l'omogeneità deducibile dalla norma è relativa solo al quantum degli interessi (e tenuto altresì conto del fatto che la presunta omogeneità appare smentita nel momento in cui la medesima disposizione sancisce che gli interessi moratori in misura legale sono dovuti anche se non erano previsti interessi corrispettivi). Ora, rispetto a tali interessi, difetta come già evidenziato l'indicazione di un tasso soglia specifico (sul punto, da ultimo, Cass. n. 12965/16, che afferma una radicale inapplicabilità della disciplina antiusura nel caso di impossibilità di raffronto tra il concreto dato contrattuale e quello rilevato dalla Banca d'Italia, per come calcolato: con riferimento, nel caso concreto, alla commissione di massimo scoperto).5) Con riferimento poi alla valutazione degli interessi di mora quale componente del costo effettivo del credito (si parla di t.a.e.g., ma in senso improprio, posto che lo stesso si applica solo ai contratti con i consumatori: cfr. art. 123 d. lgs. n. 385 del 1993; non di meno la prassi è nel senso di indicare tale termine ogni qual volta occorra valutare il costo effettivo del credito), e in ipotesi tali da determinare il superamento del tasso soglia, si osserva quanto segue.Occorre premettere che la Banca d'Italia calcola il tasso soglia sulla base del c.d. t.e.g.m., nel cui ambito, secondo le istruzioni operative per il relativo calcolo, non viene rilevato anche il tasso di mora; ciò in considerazione della sua natura non remunerativa. In questo caso, ci si avvede subito che rapportare il tasso effettivo di un singolo contratto, comprendendovi anche il tasso di mora, significa operare un rapporto tra entità non omogenee.Ciò ovviamente non è di per sé risolutivo, perché la Banca d'Italia non è autorità dotata di potere normativo in materia, sicché le relative procedure non sono vincolanti per il privato (e tanto meno per il giudice): ma il punto è senz'altro indicativo.Per inciso, si nota poi una certa contraddizione nei decreti ministeriali rispetto alle rilevazioni della Banca d'Italia: tale contraddizione è consistita nel riportare per lungo tempo all'interno della nota metodologica dei decreti ministeriali di rilevazione del t.e.g.m., sia pure in termini di indicazione non cogente, un rilevamento statistico (alquanto incerto dal punto di vista della natura dell'attività di rilevamento a monte: il riferimento è infatti al complesso delle operazioni creditizie del 2002) secondo il quale il tasso di mora sarebbe mediamente maggiore di 2,1 punti percentuali rispetto ai tassi corrispettivi.Si osserva che una simile rilevazione, entrata come già evidenziato a fare parte per solito dei d.m. indicatori del tasso soglia genera più incertezze applicative che altro; ciò perché si parla di un solo rilievo, del tutto sporadico, incerto nella tempistica e nei metodi, e del tutto generico, in quanto riferito a tutte le operazioni di credito (o meglio: senza distinguere); ora, a fronte di rilevazione dei

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tassi soglia calcolati invece ogni singolo trimestre e in relazione a specifiche categorie di operazioni, si deve convenire che la segnalazione relativa ai tassi di mora appare del tutto eccentrica.Da ultimo all'art. 3 c. 5 decreto Ministero del tesoro del 21.12.2017, si viene a indicare in base una rilevazione che l'interesse di mora nel leasing è superiore di 4,1 punti percentuali a quelli corrispettivi, di 1,9 punti per i mutui ipotecari ultraquinquennali, e di 3,1 punti per il complesso delle altre operazioni. Ora, se pure si tratta di percentuali ribadite nei successivi decreti, resta il fatto che si tratta di rilevazione praeter legem, incerta nei modi (cfr. le istruzioni della Banca d'Italia in punto di modalità di raccolta dei dati, nei cui moduli prestampati non vi è spazio per i tassi di mora), nei tempi (non si dice quando è avvenuta la rilevazione, né se sarà nuovamente svolta), nell'oggetto (solo due categorie di operazioni, più una terza residuale ma che comprende operazioni di svariata natura; per di più le prime categorie sono richiamate grossier, ossia: con riguardo al leasing per es. non si distingue per tipologie e classi di importo, come invece avviene ai fini dei tassi soglia), e dunque difettosa di quella tassatività e precisione che consente invece di assumere come normativamente vincolante la definizione dei tassi soglia corrispettivi. Per esplicita previsione da parte degli ultimi d.m. poi, l'indicazione avviene solo a fini conoscitivi.È del resto ulteriormente sintomatico che la , nelle sue istruzioni, si premuri di ribadire che il gli interessi di mora, al pari degli oneri contrattualmente assimilabili previsti per il caso di inadempimento, sono esclusi dal calcolo del t.e.g. Si consideri allora sia pure per incidens che tenendo conto anche di quanto rilevato sub pt. 2, sostenere il carattere usurario degli interessi di mora comporterebbe, stante la natura sanzionatoria dell'art. 644 c.p., ravvisare il relativo reato benché non sussista un'idonea rilevazione del tasso medio moratorio, e quindi un correlativo tasso soglia; col ché, appare facile prevedere una censura d'incostituzionalità della disposizione così interpretata, tenuto conto che da un punto di vista16) Occorre comunque osservare che se s'intende far valere la rilevanza della mora dal punto di vista del costo effettivo del credito (allegando l'usurarietà di quest'ultimo), non si può avere riguardo al tasso, bensì al più ai soli interessi effettivamente praticati e applicati in corso di rapporto, e a questo punto con riguardo all'intero capitale e alla sua durata (o a tutto voler concedere, al capitale residuo), e non certo valutando l'incidenza percentuale degli interessi di mora sulla sorte capitale (perché poi non sull'intera quota?) della singola rata (c.d. tasso effettivo di mora); e tenendo conto che nella pluralità dei casi, in caso di finanziamento con rimborso rateale (come per es. tipicamente nel caso del leasing) il ritardo nel pagamento della singola rata genera interessi di mora solo sulla singola rata, e non sull'intero capitale, appare ulteriormente erroneo riferire il tasso di mora all'intero capitale dovuto quale prova di un costo del credito superiore al tasso soglia. In considerazione di ciò, appare difficile che gli interessi moratori concretamente maturati in corso di inadempimento del rapporto ammontino complessivamente a una misura tale da "sfondare" il tasso soglia: nei fatti, il rapporto verrà risolto ben prima. Va da sé che pertanto non rileva neppure l'ipotesi di un tasso di mora eguale al tasso soglia; non basta affermare che una qualunque spesa determinerebbe il superamento del tasso soglia; e ciò perché, si ripete, la mora rileva al più come costo effettivo, e quindi occorre prendere in considerazione solo gli interessi di mora effettivamente maturati (discorso analogo vale per le ulteriori spese collegate all'inadempimento). Consegue l'implausibilità di concetti quali quelli di tasso effettivo di mora, o di tasso annuo effettivo nominale di mora, quando "sganciati concretamente sostenuti dal debitore 2.Comunque sia, l'impostazione volta a qualificare come costo del credito l'interesse moratorio appare erronea, perché solo una visuale economicistica, volta a ricomprendere siccome "costo" di un

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prestito gli interessi di mora, può obliterare la differenza di funzione tra i due tipi di interesse che è I) nella natura delle cose (l'economista vede nel tasso d'interesse solo un "saggio di sostituzione intertemporale" - ossia ciò che rende indifferenti due diverse somme disponibili in momenti diversi nel tempo -, o andando oltre, il "costo" per la rinuncia alla liquidità; ma in tale modo si priva della possibilità di capire come mai il tasso di mora sia sempre maggiore di quello corrispettivo: è evidente infatti che un conto è una rinuncia alla liquidità volontaria, un conto è quella imposta al creditore dal debitore moroso), II) nel punto di vista del legislatore (cfr. supra, pt. 3: l'art. 644 c.p. parla di interessi corrispettivi) e III) anche nella definizione legislativa della mora, che sub art. 117 c. 4 d. lgs. cit. viene definita come un "maggiore onere", in contrapposizione letterale al "prezzo" e "condizione praticate"; né può certo ritenersi che il tasso di mora rientri nel concetto di "servizio accessorio" di cui all'art. 121 c. 2 d. lgs. cit. (il quale, si noti, si collega in modo evidente al c. 1, lett. m), avente a oggetto proprio la definizione di t.a.e.g. 3. IV) Infine, si deve notare l'assurdità di considerare come costo un quid che dipende unicamente dalla condotta imputabile al debitore, e non certo del creditore, vale a dire l'inadempimento: che a questo punto il debitore, nella logica qui avversata, avrebbe interesse a coltivare per fare maturare in misura tale da determinare lo sfondamento del tasso soglia (anche se si è visto che ciò in pratica è sostanzialmente impossibile). Tale interpretazione, chiaramente paradossale, non può essere accolta 4.7) Negare la sanzione di cui all'art. 1815 c.c. del venire meno dell'obbligo di interessi in relazione agli interessi moratori non significa lasciare il debitore in balia del creditore, atteso che permane la tutela di cui all'art. 33 c. 2 lett. f) codice consumo, nonché la possibilità di riduzione a equità ex art. 1384 c.c. negli altri casi.8) L'art. 1815 c.c. si riferisce agli interessi corrispettivi; il secondo comma deve essere letto in relazione al primo, che contempla una norma relativa alla struttura del contratto (1' art. 1815 c. I c.c. non avrebbe senso se riferito ai soli interessi moratori, perché in tale caso sarebbe superfluo, posto che basterebbero già gli artt. 1224 e 1282 c.c.). Ciò, si noti, rivela un'altra conclusione paradossale a carico dei sostenitori della tesi del carattere usurario anche degli interessi di mora; si consideri infatti che in caso di interessi corrispettivi usurari, nulla è dovuto in costanza fisiologica di rapporto, ma certo in caso di inadempimento non vi è motivo di derogare all'ordinaria responsabilità ex art. 1218 c.c., e conseguentemente alla produzione di interessi ex artt. 1282 e 1224 c.c. Se invece a essere entro il tasso soglia fossero gli interessi corrispettivi, e usurari quelli moratori, la tesi in contestazione comporta che nulla è dovuto anche in caso di ritardato pagamento. Si tratta, in altri termini, di un'asimmetria censurabile ex art. 3 Cost.In ogni caso, se pure il carattere usurario fosse rilevante anche con riguardo al tasso di mora, si osserva che l'art. 1815 c.c. prevede la nullità e la mancata corresponsione degli interessi con riguardo non già al contratto, bensì alla "clausola ". A tutto voler concedere, pertanto, non sarebbero dovuti interessi di mora, ma certo sono dovuti gli interessi corrispettivi, sicché il contratto non potrebbe dirsi gratuito.9) L'insieme di tali problematiche, o quantomeno gli aspetti più significativi delle stesse, non risulta essere stato esaminato da Cass. n. 350/2013, che ha ripreso ad applicare il concetto di interesse usurario anche ai tassi di mora. Argumentum ab auctoritatem: Corte cost. 25 febbraio 2002 n. 29: "il riferimento, contenuto nel D.L. n. 394 del 2000, art. 1, comma 1, agli interessi a qualunque titolo convenuti rende plausibile - senza necessità di specifica motivazione - l'assunto, del resto fatto proprio anche dal giudice di legittimità, secondo cui il tasso soglia riguarderebbe anche gli interessi moratori"; ora, a parte il fatto che si tratti di un inciso (pt. 2.2. della motivazione) integrante un mero obiter dictum (resta poi il dato di fatto che alla Banca d'Italia non è demandato di calcolare

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anche i tassi soglia sulla base dei tassi medi di mora), peraltro alquanto superficiale (il problema non è solo e tanto la lettera della legge, ma l'insieme delle implicazioni e dei problemi sistematici che una simile lettura comporta), le sentenze di Cassazione, alle quali rinvia la Corte costituzionale, risultano alquanto equivoche: così la n. 5324/2003 (che si limita in parte motiva a rinviare ai precedenti che seguono), sentt. n. 5286/2000 (su cui supra, pt. 4), n. 14899/2999 (che non è riferita a ipotesi di inadempimento e di interessi moratori, bensì a un caso di eccessiva onerosità sopravvenuta) e n. 1126/1999 (che afferma che la normativa si applica anche ai rapporti conclusi prima della l. n. 108/1996 in relazione alla parte di rapporto ancora in corso). In nessun caso quindi la questione, peraltro neppure affrontata con soverchio zelo, ha costituito la ratio decidendi delle sentenze (così anche la più recente sent. n. 602/2013, che rinvia a Cass. n. 5324/2003). Del pari apodittica sul punto Cass. n. 350/2013. Del resto, l'opinabilità dell'interpretazione fatta propria dalle suddette sentenze è implicitamente contestabile sulla base dei principi espressi, sia pure in altro contesto, da altre sentenze della suprema Corte, tra cui Cass. n. 12965/2016 (cfr. supra, pt. 4).10) Di recente la tesi della rilevanza usuraria degli interessi di mora è stata ribadita dalla Cassazione con ordinanza n. 27442/2018, la quale muove dall'assunto della "naturale fecondità" del denaro nonché dalla considerazione che la normativa in tema di usura si occupi degli interessi tout court, prima ancora che corrispettivi o moratori. Il presupposto esplicito di quest'ultima affermazione è che la categoria degli interessi non costituisca una categoria a sé stante di obbligazione, bensì una semplice modalità o tecnica di calcolo di un debito (cfr. soprattutto i punti 1.5 (B) e 1.5.2 della motivazione).Ora, che gli interessi siano stati e siano tuttora, dal punto di vista strutturale, una categoria trasversale (ossia una tecnica di calcolo, impiegabile sia al fine di calcolare un corrispettivo che un risarcimento del danno), è principio positivo (arg. ex artt. 1282 e 1224 c.c.). Ciò non vale a negare che, impregiudicato il calcolo del quantum, abbia senso a livello normativo chiedersi a che titolo, ossia per quale causa, siano dovuti gli interessi. In questo senso l'art. 644 c.p. è netto nel riferirsi a quanto percepito dal soggetto attivo del reato "in corrispettivo".Si obietta (punto 1.4.2 della motivazione) che a venire in rilievo nel caso di interessi è sempre la remunerazione di un capitale, a prescindere dal fatto che siano corrispettivi (ossia dovuti a seguito di privazione volontaria di un capitale) o moratori (nel caso di privazione involontaria); tuttavia in tale modo (come già evidenziato supra in p. 7) si adotta una visuale che non spiega perché i secondi sono convenuti immancabilmente in misura superiore ai primi; e ancora: si potrebbe allora obiettare che se per es. in un contratto di mutuo ricorre una clausola relativa agli interessi corrispettivi e una agli interessi moratori, detto contratto prevede in realtà due corrispettivi (il che è non poco eccentrico); se poi si precisa che il secondo corrispettivo si applica solo in caso di inadempimento (che è poi la traduzione giuridica del concetto di privazione involontaria di un capitale), parlare ancora di corrispettivo più che finzionistico è semplicemente erroneo.Negare quindi la funzione del debito di interessi appare erroneo. Si consideri l'art. 1224 c. 2 c.c.: in caso di danno maggiore rispetto a quello coperto dagli interessi di mora spetta al creditore "l'ulteriore risarcimento"; ora, se gli interessi moratori non avessero funzione risarcitoria, non avrebbe senso parlare di risarcibilità del solo "maggiore danno" rispetto agli stessi; a rigore dovrebbe essere risarcito l'intero danno oltre agli interessi. E del resto, si crede, se un contratto prevedesse una clausola di interessi moratori e una clausola penale per il ritardo, a tenere fermo l'assunto dell'irrilevanza della funzione risarcitoria, si dovrebbero liquidare tanto gli interessi moratori che quanto previsto dalla penale: il che non pare corretto.

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Sostenere quindi che la distinzione di titolo (corrispettivo/risarcimento) in relazione alle due tipologie di interesse (corrispettivi/moratori) abbia carattere "scolastico" e di "mantra" dal carattere "oscuro" (punto 1.5.5 della motivazione) appare asserzione non condivisibile. Quanto poi all'intenzione del legislatore di cui al d.l. n. 394/2000, conv. in l.n. 24/2001 (cfr. punto 1.4(A) della motivazione), si è già messo in risalto (supra, p. 2) che prevale ai fini interpretativi il carattere tecnico di interpretazione autentica della normativa; come tale, ai sensi di Corte cost. n. 29/2002, la stessa non può andare contro il tenore letterale della norma interpretata, che parla di "corrispettivo". La Cassazione richiama inoltre a sostegno della tesi la medesima sentenza n. 29/2002 della Corte costituzionale (punto 1.2 della motivazione), ove si indica come "plausibile" l'applicazione della disciplina dell'usura agli interessi moratori; ma si tratta di argomentazione alquanto debole, riducendosi il tutto all'uso del suddetto aggettivo. In ordine poi alle presunte incoerenze della tesi dell'irrilevanza usuraria degli interessi di mora (punto 1.6C), sostenere che per il creditore sarebbe più vantaggioso l'inadempimento dell'adempimento per lucrare interessi più alti si pone in contrasto, a tacere d'altro, con tutta l'evidenza empirica; né ha rilievo la tesi secondo la quale il creditore potrebbe allora fissare termini di adempimento brevissimi per far scattare la mora e lucrare interessi senza limiti: problema già affrontato dalla dottrina all'indomani dell'entrata in vigore della l. n. 608/1996 (richiamando sul punto gli artt. 1344 e 1384 c.c.).Al punto 1.8.4 della motivazione si allega inoltre che non sarebbe contraddittorio il fatto che il d. lgs. n. 231/2002 possa prevedere interessi moratori più elevati del tasso soglia (come evidenziato supra in p. 3), perché le parti potrebbero decidere di non optare per l'applicazione di tale ultima normativa. Tuttavia il punto è irrilevante: se il tasso di mora di cui al decreto citato è superiore al tasso soglia, il carattere di "eventualità accidentale" della circostanza non vale a negare l'aporia rispetto alla tesi della rilevanza usuraria del tasso soglia con riguardo agli interessi moratori. Inoltre appare discutibile sostenere che la norma imperativa di cui all'art. 644 c.p., riferibile in tesi anche agli interessi moratori, possa essere derogata dalle parti, con l'ulteriore anomalia data dalla possibile applicazione di tassi di mora superiori a quelli soglia (che si ripete: in tesi applicabili anche ai tassi moratori).L'ordinanza in esame è infine contraddittoria 1) in via teorica allorquando in sede di analisi dell'art. 1815 c.c. (peraltro in obiter) ammette che lo stesso sia applicabile solo agli interessi corrispettivi e non anche a quelli moratori "perché la causa degli uni e degli altri è pur sempre diversa" (punto 1.11; dunque la funzione dell'obbligazione di interessi ha il suo rilievo); 2) in via pratica nel momento in cui afferma che in presenza di interessi moratori usurari "è ragionevole" attribuire al danneggiato gli interessi "al tasso legale" (presumibilmente ex art. 1224 c.c.): soluzione che nell'ottica della prima parte della motivazione deve ritenersi del tutto praeter legem. Se usura è, nulla è dovuto.Circa la mancata consegna del c.d. piano di ammortamento, si osserva anzitutto che il piano di ammortamento altro non rappresenta se non una prospettazione per esteso dell'obbligo di restituzione del capitale e del pagamento degli interessi gravante sull'utilizzatore; in sintesi, si tratta dell'esplicitazione di criteri che, ai fini della valida stipulazione del contratto, è sufficiente che ai sensi dell'art. 1346 c.c. siano indicati in contratto. Ora il contratto evidenzia sub condizioni particolari la durata dell'operazione, il numero dei canoni la periodicità e la decorrenza, l'ammontare, il tasso leasing, il parametro di variabilità del tasso, e in allegato la formula per il calcolo dell'indicizzazione. Gli elementi del contratto erano dunque tutti determinati e/o determinabili. Nessun vulnus quindi al contratto dal punto di vista strutturale, ossia sotto il profilo dell'oggetto. Per quanto concerne invece il profilo relativo alla violazione di un'ipotetica

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trasparenza, si osserva che gli elementi indicati supra consentano di fornire una rappresentazione sufficientemente chiara in capo all'utilizzatore e idonea a ritenere applicato l'art. 117 d. lgs. n. 385/1993. In ogni caso, appare poi assorbente il fatto che la normativa in tema di trasparenza bancaria, richiamata dall'art. 117 c. 8 d. lgs. cit., prescrive che l'onere di consegna del piano d'ammortamento opera solo per i contratti di mutuo a tasso fisso (cfr. punto 7 della sez. II, sub "documento di sintesi').Consegue il rigetto delle domande delle parti attrici in quanto infondate, attesa la legittimità dei contratti di leasing e, di riflesso, di quelli di fideiussione.Parte convenuta ha proposto domanda riconvenzionale di restituzione del bene e di pagamento della penale in relazione al contratto n. omissis e in relazione al contratto omissis.Ora, parte concedente ha assolto al proprio onere probatorio (cfr. Cass. s.u. n. 13533/2001), atteso che il titolo della relativa pretesa (i.e. i contratti azionati, e l'adempimento degli obblighi di consegna gravanti sulla concedente) non sono mai stati contestati, ed ha allegato l'inadempimento di controparte. Consegue la condanna al pagamento della somma di E 1.131.403,04 in relazione a entrambi i contratti, previa declaratoria di risoluzione del contratto n. omissis e la venuta a scadenza dell'altro contratto.Gli interessi di mora, genericamente dedotti dal dovuto al saldo, sono da intendersi dovuti, nella misura contrattualmente convenuta, dalla data della costituzione (è onere di parte indicare specificamente le singole decorrenze dei medesimi interessi, posto che la causa petendi dell'azione non può essere integrata tramite lettura dei documenti allegati), dunque dall'1.10.2014.Spese al dispositivo ridotte in conseguenza della modestia della fase istruttoria.

P.Q.M. Il Tribunale, definitivamente pronunciando, ogni diversa domanda o eccezione respintaDICHIARARisoltoex art. 1456 c.c. il contratto di leasing n. omissis intercorso tra SOCIETÀ DI LEASING e SOCIETÀ UTILIZZATRICE per inadempimento di quest'ultima in data 25.9.2014CONDANNASOCIETÀ UTILIZZATRICE e FIDEIUSSORI,Al pagamento in solido tra di loro in favore di SOCIETÀ DI LEASING di E 1.131.403,04 oltre interessi convenzionali di mora dall'1.10.2014 al saldo effettivo di E 52.625,00 oltre spese generali cpa e ivaCONDANNASOCIETÀ UTILIZZATRICE all'immediata restituzione, della gru omissis matricola omissis nonché, libera da persone o cose, dell'unità immobiliare ad uso industriale sita in omissis, come meglio descritta nell'allegato contratto di locazione finanziariaRESPINGEOgni ulteriore domandaMilano, 6 dicembre 20181 Peraltro, quand'anche la banca d'Italia procedesse a rilevare e a quantificare un tasso soglia specificamente moratorio, resterebbe il fatto che non può essere una fonte secondaria a decidere se anche gli interessi moratori possono integrare la fattispecie di reato di cui all'art. 644 c.p. Compete solo al legislatore individuare l'area dell'illecito penalmente rilevante (cfr.Corte cost. n. 26/1966), e la normazione secondaria può solo specificarla, ma non dare vita a fattispecie frutto di una scelta

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legislativa mancata o equivoca. Consegue che in presenza di una simile rilevazione, occorrerebbe pur sempre affrontare prima il punto sviluppato sub 3) della motivazione.2 Con riferimento alla pretesa di determinare un tasso annuo nominale di mora (sovente chiamato con l'acronimo Tanmo), tale nozione muove dal presupposto di sommare spese e oneri agli interessi moratori, effettuando una analogia con il concetto di TAEG, senza tenere conto che quest'ultimo parametro ha logica solo se riferito agli interessi corrispettivi e agli oneri accessori all'erogazione del credito, dovendo escludere tale accessorietà degli oneri rispetto all'interesse moratorio, che invece dipende non dall'erogazione del credito, quanto piuttosto dall'inadempimento del debitore. La pretesa di ricostruire un tasso complessivo calibrato sul tasso di interesse moratorio, quindi, risulta privo di una sua attendibilità logica, prima ancora che giuridica, se solo si consideri come la nozione di TAEG si giustifica al fine di determinare il costo effettivo complessivo del mutuo e in tale contesto non possono che assumere rilievo i soli interessi corrispettivi, ossia la voce che comporta e rappresenta "il costo" del denaro mutuato, secondo una pattuizione ex ante predeterminabile al momento del perfezionamento del contratto. Ben diversa è la situazione riguardo agli interessi moratori, dal momento che essi non rappresentano il costo del denaro mutuato e la relativa incidenza, oltre a essere evidentemente solo eventuale, in quanto dipendente da un eventuale inadempimento, per ovvie ragioni non è preventivamente quantificabile anche nella sua incidenza, non potendo le parti sapere al momento della conclusione del contratto se e per quanto tempo il mutuatario sarà inadempiente e, quindi, per quanto tempo decorreranno gli interessi di mora. Del pari irrilevante il concetto di temo, ossia di tasso effettivo di mora; non si comprende infatti perché si dovrebbe dare rilievo agli interessi di mora sulla sola quota capitale della rata (per solito nelle perizie di parte si abbonda di ipotesi ricostruttive, alle volte disgiunte dal reale svolgimento del rapporto, del tutto a favore dell'utilizzatore: così per es. un ritardo di 29 giorni, e un calcolo del rapporto tra capitale e interessi di mora sulla prima rata, ossia quella che, essendo di quota capitale più bassa, consente di determinare un rapporto percentuale più elevato), anziché valutare gli interessi concretamente maturati sull'intera somma capitale erogata (o al limite, ancora da restituire). Tralasciando peraltro l'obiezione che così facendo l'usurarietà del contratto di leasing, come evidenziato in corpo di motivazione, finisce per dipendere dall'andamento del rapporto, anziché essere determinabile al momento della stipula, e in concreto dalla condotta e in ipotesi dalla volontà del debitore di rendersi inadempiente.3 Cfr. sul taeg la nota che segue.4 Si noti che ladirettiva comunitaria 2008/48/UE, art. 19, nel disciplinare il contenuto del c.d. Taeg, prevede al comma 1 "1. Il tasso annuo effettivo globale che, su base annua, rende uguale il valore attualizzato di tutti gli impegni (prelievi, rimborsi e spese) futuri o esistenti pattuiti da creditore e consumatore, è calcolato con la formula matematica che figura nella parte I dell'allegato I". Ma come si può considerare un interesse di mora un "impegno", nascendo proprio dall'inadempimento, ossia dalla violazione dell'impegno principale? Più in radice: considerare gli interessi di mora come un costo di un finanziamento significa ipotizzare un contraente homo oeconomicus che valuta se gli conviene adempiere o meno; con il ché la categoria generale dell'obbligazione dovrebbe essere riletta nel senso che anziché ricorrere un vincolo di prestazione e solo in subordine una responsabilità per inadempimento, ricorrerebbe un'obbligazione alternativa, dove prestazione principale e risarcitoria sono sullo stesso piano, a scelta del debitore. Tale tesi, a tutto voler concedere, si pone in evidente contrasto con la politica legislativa di tutela del credito (cfr. l'art. 614-bis c.p.c.; ovvero l'art. 48 bis del d. lgs. n. 385/1993), e appare non condivisibile sul piano etico, svalutando fortemente la rilevanza del momento debitorio in favore di quello della

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responsabilità: con ripercussioni anche sul piano economico, attesa la vanificazione del contratto quale strumento di programmazione dei propri affari.Depositata in Cancelleria il 20/12/2018