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Associazione Culturale "Giulianova sul Web" - C.F. 91040070673 Rivista Madonna dello Splendore n° 22 del 22 Aprile 2003 Giulianova 1508-1688 di Sandro Galantini Nel 1508 – l’anno in cui Andrea Matteo torna in possesso di Atri, dopo le congiure, i rovesci militari, la prigionia nel 1503-1505 e quindi, nel 1507, l’aggregazione della famiglia al seggio nobile napoletano di Nido [1] ed il vantaggioso matrimonio contratto con Caterina della Ratta – nel 1508, si diceva, Giulianova sembra vivere, relativamente agli aspetti più squisitamente demografico-urbanistici, una situazione di penosa incompletezza, oltre ad un generalizzato malessere sociale che, qui come altrove, traeva alimento dagli abusi feudali e dalla politica fiscale regia. La Terra di Giulia risulta «male incasata» e persistenti sono le difficoltà che gli assegnatari incontrano nella costruzione dei “casalini”: molti hanno pigliati casalini con promissione voler edificare – si legge infatti in un documento del 1508 – et poi hanno interlassati detti casalini, et la terra per essere male incasata ne pate assai. Concessione di indulgenze a favore dell'Arciconfraternità del Cordone (anno 1586). Da ciò la decisione presa dal duca-umanista, il 21 ottobre 1508, di reiterare le norme e le franchigie per il popolamento emanate a suo tempo dal padre Giuliantonio, disponendo contestualmente, a favore della «Università et Homini abitanti in la Terra di Giulia Nova», l’abolizione, totale o parziale, di una lunga serie di abusi e di pratiche vessatorie, come le onerose imposte di dogana o di platea, del fondaco di sale e ferro e della gabella della carne, compresi alcuni donativi o ~ i ~

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Associazione Culturale "Giulianova sul Web" - C.F. 91040070673

Rivista Madonna dello Splendore n° 22 del 22 Aprile 2003

Giulianova 1508-1688di Sandro Galantini

Nel 1508 – l’anno in cui Andrea Matteo torna in possesso di Atri, dopo le congiure, i rovesci militari, la prigionia nel 1503-1505 e quindi, nel 1507, l’aggregazione della famiglia al seggio nobile napoletano di Nido[1] ed il vantaggioso matrimonio contratto con Caterina della Ratta – nel 1508, si diceva, Giulianova sembra vivere, relativamente agli aspetti più squisitamente demografico-urbanistici, una situazione di penosa incompletezza, oltre ad un generalizzato malessere sociale che, qui come altrove, traeva alimento dagli abusi feudali e dalla politica fiscale regia.  La Terra di Giulia risulta «male incasata» e persistenti sono le difficoltà che gli assegnatari incontrano nella costruzione dei “casalini”: 

molti hanno pigliati casalini con promissione voler edificare – si legge infatti in un documento del 1508 – et poi hanno interlassati detti casalini, et la terra per essere male incasata ne pate assai.

Concessione di indulgenze a favore dell'Arciconfraternità del Cordone (anno 1586).

Da ciò la decisione presa dal duca-umanista, il 21 ottobre 1508, di reiterare le norme e le franchigie per il popolamento emanate a suo tempo dal padre Giuliantonio, disponendo contestualmente, a favore della «Università et Homini abitanti in la Terra di Giulia Nova», l’abolizione, totale o parziale, di una lunga serie di abusi e di pratiche vessatorie, come le onerose imposte di dogana o di platea, del fondaco di sale e ferro e della gabella della carne, compresi alcuni donativi o contribuzioni tutt’altro che moderatamente pretesi e non poche “ancariglie” pesantissime, come «lo portare delle lettere et comandare cavalli per ogni minima cosa»[2]. Rimangono tuttavia ancora a carico degli abitanti le spese necessarie per il completamento del Duomo ma anche gli oneri relativi alla manutenzione delle due fontane nel frattempo realizzate, quella ubicata nella piazza ducale e l’altra presente fuori le

mura, non escluso l’obbligo di garantire ospitalità ai gendarmi eventualmente presenti. A differenza del protagonismo dell’Università atriana nella vita e nell’amministrazione della cosa pubblica[3], l’organismo municipale di Giulia è impossibilitato a svolgere efficacemente il

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suo ruolo di garante degli interessi dei cittadini essendo sprovvisto - a causa di un analfabetismo pressoché assoluto - di organi direttivi elettivi, indice sintomatico di un corpo sociale raccogliticcio e scarsamente omogeneo[4]. 

Alli tempi passati – si legge infatti nel solito documento del 1508 – era solito eligersi ogn’anno due homini, cioè Procuratore et Camerlengo, et molte volte per l’ignorantia loro, et per non saper scrivere, o mal intendere, restano disfatti[5].

 Peraltro iniziava, con l’ipoteca sugli introiti della città accesa nel 1522 da Andrea Matteo a favore del napoletano Paolo Restigliano a fronte di una somma di 4mila ducati [6], una penosa sequela di cessioni e “riconquiste” del feudo da parte degli Acquaviva destinata a caratterizzare – con mesta frequenza - la duplice vicenda e della importante famiglia feudale, e della stessa Giulianova.

Chiesa della MisericordiaLa Rotonda di San Flaviano (Sec. XV-XVI)

in un disegno di Raffaello Pagliaccetti

(1839-1900)

E tuttavia qualche segnale di ripresa, almeno relativamente alla capacità organizzativa del corpo sociale, può cogliersi poco meno di un ventennio dopo, nel 1526 (ormai a ridosso della terribile peste del 1526-27, seguita alla invasione del Lautrec, e della ennesima confisca del feudo, a favore stavolta di Ascanio Colonna), quando l’Ospizio di S. Rocco – la cui chiesa, dotata di benefici considerevoli, aveva ‘assorbito’ l’altra di S. Vincenzo -  viene governata «da due Proccuratori [sic]» eletti dall’Università[7]. Appalesa per contro la decadenza della Collegiata l’assegnazione disposta, il 18 agosto di questo stesso anno 1526 dal vescovo aprutino Francesco Chierigati su indicazione del marchese di Bitonto Giovanni Francesco Acquaviva d’Aragona, figlio di Andrea Matteo, dei quattro canonicati di juspatronato feudale presenti nella chiesa matrice, intitolati rispettivamente a S. Antonio, a S. Niccolò, a S. Bartolomeo e a S. Flaviano, con gli ultimi due ridotti a benefici semplici «stante la tenuità de’ frutti de’

canonicati» stessi[8].

Palazzo degli Acquaviva

Proprio in questi anni venti del Cinquecento, peraltro, come attesta un lascito testamentario del 1525 di Andrea Matteo a beneficio di S. Maria delo Sbendore [sic] de Julia nova,[9] risulta già esistente un insediamento di monaci celestini a settentrione dell’abitato, sorto all’indomani dell’apparizione miracolosa della Madonna «cinta da non mai più visto splendore» ad un taglialegna originario di Cologna,

avvenuta – secondo taluni[10] – addirittura nel 1480 e non nel 1557, come si è continuato a credere sulla scorta di una doviziosa ma erronea Cronica scritta tra il 1657 e il 1674 dal Priore aquilano Pietro Capullo[11], acriticamente ripresa dal Palma[12] e dalla storiografia successiva. La notizia, sinora del tutto ignorata, consente di retrodatare di circa vent’anni l’unico dato

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documentario fededegno relativo alla presenza celestina a Giulianova sinora disponibile, rappresentato specificamente da un volume edito a Bologna nel 1549, relativo al Capitolo Napoletano tenuto nel 1547, nel quale si menziona il Monastero «Sanctae Marie Splendoris extra Juliam Novam» tra gli insediamenti della provincia «ultra Piscaria» nell’elenco delle Province Italiane dei Celestini[13].

Torrione il Bianco Panorama di Giulianova

Questa realtà conventuale[14] sicuramente patrocinata dagli Acquaviva - attivissimi nel diffondere e incrementare il culto della Madonna dello Splendore, con un’insistenza tale che, al di là della pur sincera dedizione riservata da questa importante famiglia al culto mariano [15], pure non esclude l’ipotesi di un suo utilizzo teleologico in direzione di una maggiore coesione sociale e della creazione di un forte identità comunitaria, vero leit motiv che percorre tutta la vicenda urbana di Giulianova almeno sino a fine ‘500 - , questa realtà conventuale, si diceva, appare l’unica presente all’epoca e per qualche decennio ancora nell’abitato voluto da Giuliantonio, considerato il fallimento – qualche decennio dopo - del tentativo di penetrazione

in città attuato da «certi Frati regolari ordinis S. Augustini» che, a quanto pare, si «erano intrusi de facto, e si erano sostenuti per alcuni mesi» in San Rocco: con bolla del vescovo Giacomo Silverio Piccolomini del 6 dicembre 1554, infatti, quei frati sarebbero stati espulsi e contestualmente Andrea Gionni di Giulia, albanese di origine (di talché è possibile inferire il miglioramento delle condizioni di vita della colonia alloglotta a suo tempo introdotta sia in Cologna che in città da Giuliantonio), avrebbe ricevuto la nomina di Rettore della chiesa di “Santo Roccho”[16], essendone questa stata sprovvista per lungo tempo.

Per l'Università di Giulia...

Ma torniamo ad Andrea Matteo. All’indomani della sua morte, avvenuta il 19 gennaio 1529 a Conversano (evento, questo, che da un lato faceva scendere la parola ultima sul sogno, da tempo accarezzato, di creare per sé e per i suoi discendenti una signoria assoluta tra sovrano aragonese e stato pontificio allora in tumulto[17], e dall’altro apriva la successione a Giovanni Antonio Donato, conte di Gioia, essendo premorto il 6 ottobre 1527 il fratello marchese di Bitonto), iniziava una transizione politico-culturale di non

poco momento[18], con un Abruzzo teramano percorso da ventate di fuoruscitismo nobiliare e proprietario anticipatrici del grande banditismo del secondo Cinquecento [19], e con le finanze della illustre e potente casata destinate – dopo le mutilazioni alla consistenza patrimoniale dello “Stato” da parte di Andrea Matteo - a conoscere un progressivo e notevole

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appesantimento[20]: un indebitamento dietro il quale si scorge agevolmente  la crisi ma da considerare anche come segno di oculata capacità di adattamento alla fluidissima situazione politica del tempo[21].

Chiesa di San Flaviano

Torre di avvistamento del navigliobarbaresco (anno di costruzione 1569) altrimenti

detta Torre di Mazzaufo.

Persino dopo gli spasmi relativi alla gestazione dello stato moderno che avrebbero segnato la fine delle turbolenze feudali e la fase più cruciale delle «horrende guerre», la Giulia acquaviviana non sembra emanciparsi, nonostante fasi alterne, da una condizione di inarrestabile e sostanziale declino. Nel 1539 – quindi sei anni dopo il dissequestro degli “Stati” d’ Atri e di Conversano e la loro concreta restituzione a Giovanni Antonio Donato - il debito gravante sulla città, che nel 1532 aveva registrato la non trascurabile consistenza demografica di duecento “fuochi”[22], ammonta a ben ottomila ducati, cifra considerevole se relazionata ai 55mila ducati complessivamente quantificati per tutto il possesso feudale abruzzese degli Acquaviva[23], ciò che comunque non impedisce al cardinale Giovanni Vincenzo Acquaviva di ricomprare in quell’anno, per 8600 ducati, il feudo di Giulianova da Cornelia Pagano. Pure considerando l’indebitamento una caratteristica probabilmente “costituzionale” della feudalità nel secolo decimosesto, viene da pensare tuttavia come questa situazione non mancasse di ridondare negativamente nei confronti dell’Università, come peraltro sembra confermare la titolarità, ancora nel 1569, in capo ad un mercante genovese di nome Gennaro Ravaschiero (cognome ricorrente tra i principali creditori dell’Acquaviva[24]), della gabella della spica, cioè del diritto di raccogliere le spighe dopo la messe[25].

Stemma degli Acquaviva d’Aragona

Ciò nonostante la città – alla quale il cardinale Giovanni Vincenzo conferma nel 1543 tutte le franchigie e le norme per l’urbanizzazione e il popolamento già a suo tempo disposte e

ripetutamente confermate dai precedenti Acquaviva[26] - continua a possedere nell’organizzazione ecclesiastica aprutina un ruolo affatto considerevole, con il vescovo Giacomo Barba che, visitando Giulianova il 4 settembre 1548, dopo una ricognizione effettuata due anni prima dal vicario Pietro Michelini (il quale aveva trovato «semidiruta» la chiesa di S. Flaviano nel vecchio abitato medievale ma in «buono stato» la chiesa «nuova» nella città acquaviviana), spedì proprio in quell’occasione, come ci dice il Palma, un testimoniale, in cui asserì che avendo esaminata la consuetudine circa i Paesi, le Chiese, e gli Ospedali da visitarsi a preferenza, dopo la Cattedrale, Capitolo, Città ed Ospedale di Teramo, avea trovato che i Vescovi suoi predecessori erano stati soliti visitare la vecchia Chiesa di S. Flaviano extra et prope moenia Terrae Juliae novae, come seconda sede Vescovile, immediatamente

dopo Teramo. E perché i Sindaci e Reggimenti di Giulia lo avevano richiesto a far piena fede di

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tale prerogativa e precedenza; ei dichiarò essere la loro Terra la seconda sede Vescovile nella Diocesi Aprutina: doversi essa visitare prima di ogni altra: e di aver egli così praticato in quell’occasione.[27]

 Peraltro a questo riconoscimento di Giulia quale «seconda Sedia» del Vescovato aprutino (gravido di conseguenze future, come si avrà modo di vedere di qui a poco) sembra fare pendant una non meno rilevante e persistente importanza strategica e commerciale della città, almeno su quell’Adriatico dove - a metà Cinquecento - non esuberante ma certo intenso era il traffico marittimo, come confermano la presenza, nel porto di Giulianova appunto, uno dei più importanti porti abruzzesi di estrazione olearia e granaria, di mercanti bergamaschi ma anche triestini e addirittura di provenienza oltremarina (Lesina, Tesana, Zara) [28], oltre ad un notevole apparato burocratico (gli uffici di Portulanato, Credençero e Guardiano, documentati in una «prammatica» del 1558) che, insieme con la Dogana regia ed i Fondachi del sale, segnala un’attività marittima sicuramente dinamica – difatti notevole è il commercio con lo stato della Chiesa[29] ma anche infra Regno[30] - e quindi economicamente apprezzabile[31], tanto vero che il marchese Alberto Acquaviva nel 1565 si sarebbe impegnato nella capitale del Regno per l’istituzione a Giulia di una fiera franca di otto giorni da cominciare il 1 di maggio[32]. Non senza significato a partire dal 1576 – due anni dopo l’avvenuto acquisto, da parte del decimo duca d’Atri Giovan Girolamo I, dell’ufficio di Dogana competente sia per Giulia che per Calvano[33] nonché del perfezionamento del contratto da questi stipulato con la Regia Corte per la costruzione di sei galere per la flotta regia[34], e ad un anno di distanza dalla conseguita autonomia e contestuale assegnazione ad Adriano del feudo acquaviviano pugliese [35] - qui avrebbe funzionato, seppure occasionalmente e su iniziativa del veneziano Geronimo Domo, persino un cantiere navale[36] e ciò pur in presenza di quel diffuso e certo giustificato timore delle scorrerie turchesche in relazione al quale, oltre alla realizzazione nel 1568 delle torri costiere[37], comprese le due in agro di Giulia (quella del Salinello e l’altra del Tordino), il primogenito di Giovan Girolamo, il trentenne Alberto Acquaviva, rimasto in Abruzzo al fine di predisporre le difese lungo il litorale, effettuava proprio nel 1575-1576 una attenta ricognizione delle mura urbane di Giulia, conclusa con l’ordine, impartito al suo delegato il capitano Giovanni Brancadoro, di procedere alla immediata riparazione della cinta, pericolante più che malridotta, in prossimità della Porta Terravecchia e del Convento dei “Cordiglieri” o Frati Minori Conventuali[38]. Costoro avevano ultimato la costruzione della loro chiesa sotto il titolo di S. Francesco di Paola, parte integrante dell’ampio convento destinato ad essere uno dei più ricchi nell’intera regione[39], esattamente un decennio prima, quindi nel 1566[40], l’una e l’altro realizzati appunto a ridosso delle mura meridionali della città e di uno degli otto “torrioni” presenti lungo la cinta muraria, probabilmente inglobato nel nuovo organismo edilizio[41] e in seguito adibito a stalla[42]. Anche stavolta siamo al cospetto di una scelta non priva di significato, considerando la tendenza dei francescani a dislocarsi nei centri della riorganizzazione territoriale a livello politico, ecclesiastico e socio-economico, ciò che li aveva spinti prima del 1324 a realizzare un insediamento nella medievale Castel S. Flaviano (con la contigua chiesa dedicata a San Giusto)[43] e che ora determina la ricollocazione a Giulia del loro convento, ubicato peraltro in un’area interessata dalla presenza d’un ceto molto modesto che, secondo un’opinione non temeraria, potrebbe rappresentare il nucleo dei primissimi abitatori della città trasferitisi da S. Flaviano [44]. D’altronde la costruzione di convento e chiesa si colloca in un momento demograficamente dinamico, con la popolazione di Giulia che si attesta nel 1561 a 358 “fuochi”, cioè 61 in più rispetto a quelli numerati nel 1545[45].Proprio in riferimento ai dati demografici la litigiosità può essere qualificata notevole, tenuto conto dei ben centonovantanove fascicoli di pratiche pendenti, in maggioranza appartenenti al contenzioso civile, in minima parte al penale e qualche rara volta alla volontaria giurisdizione. 

Oltre un terzo della popolazione – scrive infatti Riccardo Cerulli, al quale si deve la trascrizione di un illuminante codice cartaceo giuliese contenente i verbali delle adunanze tenute dal Minor Consiglio dell’Università di Giulia tra il 26 maggio 1576 e il 17 marzo 1577 – aveva adito la giustizia, o doveva rispondere ad essa. Tra i contendenti, troviamo quasi tutti i «capita» e i «Consiliarii». […] L’Università è spesso nell’elenco, o tra gli istanti, o tra i resistenti.[46]

 La Giulia di questi anni settanta del Cinquecento è percorsa quindi da forti tensioni sociali, mentre continua a pesare sulla collettività, in aggiunta ad una serie di onerose gabelle regie

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(persino la riscossione dell’adoa e dei relievi, tributi, questi, gravanti sul feudatario che l’organo impositore esigeva invece dall’Università), una ostinata oppressione feudale, certo non poco alimentata dalla grave situazione debitoria di Giovan Girolamo, con i regi assensi concessi ad obbligazioni di beni feudali effettuate dal duca, con le numerose sentenze del Sacro Consiglio a lui sfavorevoli, le vendite di non pochi castelli e terre feudali con «patto di retrovendita», le alienazioni di entrate fiscali e quanto altro ancora a testimoniare, in maniera diremmo lippis et tonsoribus, come la situazione del passivo fosse ormai giunta a livelli considerevoli, preludio di quella che sarà, durante il ducato di Giosia II, la vera debâcle finanziaria della famiglia, travolta dall’urto dei «plurima debita sive onera». Nessuna meraviglia perciò se Alberto, venutosi a trovare nella necessità di ampliare la sua dimora giuliese, già di proprietà dello zio Andrea Matteo arcivescovo di Cosenza, proceda all’acquisto del contiguo vasto fabbricato di Vespasiano Lembo perfezionando la compera non col normale corrispettivo della valuta, che, rileva il Cerulli, «per le cennate domestiche contingenze, non aveva, né prevedeva di avere, entro breve termine», ma ricorrendo significativamente ad una permuta di case e terreni, «infra et extra moenia Iuliae», in parte suoi e in parte di uso civico, esclusivo o promiscuo, cioè civico-ducale. La permuta, ratificata il 10 gennaio 1576, vulnerava peraltro il risalente ma ancora vigente privilegio concesso alla “Terra” di Giulia nel lontano 1481 da re Ferrante, mediante il quale si precludeva in modo assoluto la concessione del suolo circostante l’abitato a privati «in defensa», cioè in esclusiva, col diritto di recinzione[47]. Questa disinvolta operazione contrattuale rimanda alla sistematica politica di abusi feudali condotta dagli Acquaviva nei confronti della finanziariamente strematissima Università di Giulia, la quale tuttavia – come d’altronde è verificabile in questo torno di anni anche per Atri, pure colpita dagli abusi feudali ma avvezza ad un rapporto dialettico più vivo, aspro persino, coi suoi duchi – non si perita, rispetto al passato, di rivendicare con fermezza l’osservanza dei suoi «privilegij» (franchigie, esenzioni ed immunità) riconosciuti sin dal diploma del 1472 di Giuliantonio, quindi da quello di re Ferrante del 1481, da Andrea Matteo nel 1508 e, in ultimo, dal cardinale Giovanni Vincenzo Acquaviva d’Aragona, «Juliae Novae Comes», il quale, come sappiamo, nel febbraio 1543 aveva non solo ratificato i precorsi benefici, ma ne aveva promulgati di nuovi. Ecco quindi l’Università reagire, sia pure senza esiti apprezzabili, contro la permuta del gennaio 1576, contro l’ordine arbitrario ingiunto nell’autunno dello stesso anno da Giovan Girolamo di acquistare, a prezzo d’imperio (due ducati la soma), duecento tomoli di grano di produzione feudale, contro la cessione in affitto dei terreni, compresi nella «defensa» di contrada Cavoni, ad alcuni «pecorali di Monte Calvo», ed anche, senza qui naturalmente esaurire il sesquipedale elenco di abusi, contro l’inaccettabile «taxa de regimentato» ingiustificatamente pretesa dall’Acquaviva. Solerte sarà anche l’azione dell’Università nel tutelare i suoi diritti di juspatronato sulle due Cappelle di S. Maria de Loreto extra muros o piccirilla e di S. Giovanni in piano o in Tricoli (già presente in epoca flavianea), minacciati stavolta non dal feudatario bensì da un intrigante sacerdote locale, tal don Parascenzio, dopo la morte dell’ultimo Rettore, il giuliese don Gian Andrea Mostacci[48]. Non poco rigorosa è l’attività svolta dall’Università nella disciplina dei prezzi, rifiutando essa – per esemplificare – l’appalto della carne ai macellai camplesi in ragione dei richiesti sette grani il rotolo per il castrato, prezzo certamente eccessivo considerando che nella stessa Campli un ventennio dopo la medesima quantità di carne di castrato si sarebbe venduta a nove grani![49] Il maggiore protagonismo dell’Università giuliese (o, se si preferisce, la sua minore remissività), è certamente da attribuire alla presenza, al suo interno, di quel seppur ristretto ceto benestante che, formato da piccoli proprietari ma anche e soprattutto da giusperiti ed avvocati in continuo giro d’affari tra di loro e sempre al centro della vita economica e civile cittadina [50], rappresentava la borghesia in ascesa nel Regno, spessissimo animata – si sa - da una avversione nei confronti del regime feudale appena velata dall’ossequioso frasario convenzionale. E difatti “notari” sono Jo. Francesco de Albis, Bartolomeo Mazzone (forse congiunto di Andrea Mazzone, “notaro” pur’egli), Felice Albano o Albani, quest’ultimo autorevole esponente della Giunta, un don Bartolomeo, il canzanese Andrea De Nigris ed un tale mastro Nicola o Nicolao, in aggiunta ad un folta presenza di agiati proprietari, come Giovanni Angelo Spina, Andrea Ferraro, Bernardino de Tartaglia o Passarani, Augustino De Dominicis, per citare qualche nome, non dimenticando lo “speziale” Bernardino Targhetta.Interessante la persistenza, oltre che di specifiche disposizioni contemplate nello Statuto medievale di Castel San Flaviano, di istituti flavianei evidentemente non soppressi nel passaggio dalla vecchia alla nuova “Terra”. Tra questi il Generale (Maggior?) Consiglio – o Parlamento – composto da tutti i capifamiglia[51], chiamato a pronunciarsi nel 1576 su una permuta di immobili comunali ed ecclesiastici; il Regio credenziere e fondachiere, erede del credenziero istituito nel centro medievale da Carlo I d’Angiò il 10 novembre 1269, e, con la

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diversa qualifica di giudice, quello che era il baglivo negli ordinamenti flavianei, carica riservata ai nativi del luogo[52].A giustificare le tinte cinerizie con le quali si è dipinta la Giulia di questi anni settanta del Cinquecento non è solo la pesantissima situazione deficitaria delle casse comunali o l’esorbitante condizionamento feudale, e nemmeno il fatto che medico e maestro abbandonino l’incarico perché mal pagati, come d’altronde accade per i magistrati perché oberati di lavoro e quindi «stracchi», o che abbondino panettieri e macellai dediti alla truffa ed al raggiro, quasi indice sintomatico di una sostanziale e diffusa anomìa; o, ancora, che carente sia l’alimentazione dei cittadini, basandosi essa su farinacei e carni non di pregio, con pressoché totale assenza di prodotti ittici, o – per concludere questa sorta di cahier des doleances - che il Monte di Pietà, sottoposto a controllo e gestione dell’Università, tenti come può di sopperire all’indigenza dei giuliesi e alle deficienze dell’organo municipale stesso. Il segno drammaticamente evidente della decadenza (e della sostanziale indifferenza degli Acquaviva nei confronti della città) è piuttosto offerto da quella «Chiesa Maiore», parte integrante e non poco qualificante del “sogno rinascimentale” di Giuliantonio, sede di insigne e pur doviziosa Collegiata proprietaria - tra l’altro - di numerosi immobili quasi tutti ubicati nei pressi del «torrione di la fonte» (quindi nella centralissima zona signoreggiata dal palazzo ducale), che risulta nel 1576 «scomoda […] per essere quella humida et oscura»[53]. Un degrado tanto più penoso se si considera che appena pochi anni prima, nel 1546, il Vicario Pietro Michelini – come sappiamo - dichiarava il suo «buono stato», e che nel 1563, durante l’arcipretura di Giovanni Gatti,  la chiesa era stata dotata di una campana fusa proprio in quell’anno[54].  

La Parochiale con titolo d’Arcipresbiterato è Collegiata di quattro Canonici, et un’ Canonicato è uacante, Il Reuerendo Arciprete è capo, il quale resiede et è persona intelligente, et molto pratica.

Gli Canonici officiano in Choro, ma per il poco numero non u’è più perfettione che tanto, Dicono messa di continuo, et chi non è sacerdote la fa dire ad altri.

 Queste le parole, riguardanti Giulianova, dello zelantissimo e dotto vescovo Giulio Ricci estrapolate dalla Relatio ad limina compilata in occasione della sua Visita Pastorale effettuata nel 1590[55], in un periodo turbolento caratterizzato dai suoi contrasti con il Capitolo per il conferimento dei privilegi e dalla spinosa questione vertente tra Campli, Giulianova e Civitella del Tronto circa la «seconda Sedia», con la conseguente scissione dell’adiratissima Campli nel 1588 e sua erezione in diocesi dodici anni dopo, e l’accesa reazione di Civitella del Tronto, che, aspirando anch’essa al privilegio della «seconda Sedia»,  aveva fatto pervenire al nostro vescovo Ricci un appassionato memoriale (sorta di laudatio urbis al contrario, peraltro frequente in questo torno di anni[56]) redatto nel 1582 dall’insigne giurista Teodoro Graziani, pieno zeppo di impietosi rilievi sulle “concorrenti” Campli e Giulianova, quest’ultima sbrigativamente liquidata come una ben misera e «picciola» località «che non fa da cento cinquanta fuochi», peraltro «ripiena d’ogni sorte di gente plebea et specialmente di gente adventiccia»[57]. Oltre a ciò il Ricci doveva assistere alla mortificante e incoercibile erosione della giurisdizione vescovile – con tutto un portato di lunghe e talvolta violente dispute, destinate e radicalizzarsi di qui a non molto - cagionata sia dalla sottrazione di numerose parrocchie aprutine per privilegiare la nuova diocesi di Montalto delle Marche voluta da Sisto V, sia dalla pretesa di patronato da parte degli Acquaviva su tutti i benefici semplici e su molti curati[58] .Che la «Illustrissima et Eccellentissima Casa d’Acquaviva», per usare le deferenti parole dal Ricci utilizzate nel preambolo della Relatio riguardante Giulianova, pur ormai indebitatissima conservasse ancora una eccezionale vigoria almeno relativamente al monopolio laico dei benefici, lo testimonia apertis verbis l’elenco di chiese di competenza ducale presenti nel territorio dello “Stato”, ben 262, cifra ragguardevolissima ma in difetto, essendo escluso dal computo quelle esistenti negli altri territori (come la Montagna di Roseto) pure agli Acquaviva soggette[59]. A Giulianova ancora nel 1590 competono agli Acquaviva – quindi a Giovan Girolamo – ben undici chiese, comprese quelle di S. Flaviano e di S. Maria dentro la città (con i relativi quattro Canonicati che sappiamo), cui vanno aggiunte le altre presenti nella «canpagna» [sic!], cioé a Monticolo, a Peticciano e nella “villa” di Cologna, quest’ultima ancora – come ci informa il vescovo Ricci - «tutta abitata in pagliari da Schiauoni, che nascendo iui hanno la lingua natiua, et Italiana».

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E’ ancora la Relatio del nostro vescovo ad informarci di quell’importante istituzione cittadina della quale ci siamo pure occupati, cioè l’ hospitale di S. Rocco,  che, ricco di «molte tumolate di terra», continua ad essere  

governato da laici, che s’eleggono dalla Magnifica Uniuersità, et rendono conto ogn’anno. Una stantia di sopra serue per alloggiarui Sacerdoti, et persone honeste, et la di sotto per pezzenti, et non u’è obligo, ne uso di tenerui infermi della terra, se già non capitasse qualche infermo forestiero.

 Interessanti sono anche le notizie relative alle confraternite qui operanti, cioè a quei sodalizi laici a caratterizzazione devozionale-solidaristica che in questo torno di tempo sembrano vivere una fase di straordinaria espansione. Fiorita con tutta probabilità nel fervoroso clima del post Concilio – comunque attiva negli anni settanta del Cinquecento[60] - è la «Compagnia» del Rosario avente la sua collocazione, dice il Ricci, «drento» il Duomo, fatto questo che spiegherebbe la presenza di una statua della Madonna del Rosario - non casualmente della fine del secolo XVI - notata dal Bindi proprio all’interno della chiesa. Dispone di un suo «ben tenuto» oratorio vicino alla chiesa parrocchiale la Confraternita del Santissimo Sacramento, anche questa presente a Giulia almeno dal 1577, come pure l’antichissima Congregazione della Misericordia, legata alla chiesa omonima, che «si gouerna bene».Stranamente nessun cenno viene fatto circa l’Arciconfraternita francescana del “Cordone”, ragionevolmente ubicata nella chiesa di S. Antonio di Paola, della quale pure è documentata una concessione di indulgenze datata 1586[61].Nulla ci dice il Ricci anche riguardo la consistenza demografica della città. Occorrerà attendere il 1595 per sapere che, nelle nuove numerazioni effettuate in quell’anno, Giulia conta appena 291 “fuochi”: certo non i 150 dell’acrimonioso memoriale del Graziani epperò di molto inferiori rispetto ai 358 indicati nel 1561, fatto che a tutta prima sembrerebbe segnalare una vistosissima depressione demografica. 

Signore, la terra di Giulia Nova, a tempo che fu numerata e messa a fuochi di re, che sono da circa quarant’anni, fu messa per trecentocinquant’otto fuochi. Ma da detto tempo sino al presente è cresciuta pure assai, e sono più di quattrocento fuochi.

 A parlare così, rendendoci partecipi di come le rilevazioni ufficiali non potessero che essere congetturali ed infide, venendo i “fuochi” sistematicamente ridimensionati dall’Università per sfuggire al Fisco Regio e feudale o – come nel caso di specie – maliziosamente sovradimensionati[62], è un dovizioso proprietario sessantaquattrenne il cui nome conosciamo, Giovanni Angelo Spina, già “consiliare” chiamato a svolgere, a far data dal gennaio 1577, funzioni di impositore di tributi e di compilatore del bilancio dell’Università, ed impegnatissimo contraente negli anni ottanta. E’ il 17 dicembre 1596 e lo Spina è convocato insieme con altri appartenenti al ceto benestante e in ascesa di Giulianova, cioè Giovanni Filippo Di Giovanni, Pasquale Manaro o Manari e Galeazzo Mostacci[63], presso la casa dell’arciprete Muzio Boccalari, nominato appena tre giorni prima dal duca Alberto Acquaviva in sostituzione del deceduto Aurelio Mentovati. Ad ascoltare le loro dichiarazioni giurate è il vicario generale di Teramo Mario Antonini, «commissario specialiter» della Congregazione romana dei Vescovi e Regolari, spedito a Giulianova con l’ordine – impartitogli il precedente 4 dicembre[64] - di verificare la possibilità di reperire in loco sufficienti mezzi di sussistenza per la istituenda fraternità cappuccina, voluta grandemente dalla locale Università e dal duca Alberto, in ossequio ad un breve di Clemente VIII proprio del 1596 che, novellando tutta la materia, introduceva una serie di rigorose e restrittive norme tese a verificare la reale necessità dei nuovi insediamenti in modo da evitare la proliferazione delle piccole comunità mendicanti.Preziosissime, per ciò che ci riguarda, sono le notizie che l’Antonini fissa in un fascicolo, spedito da Teramo il successivo 20 dicembre, destinato al cardinale Michele Bonelli[65]. E’ così possibile apprendere che in città, come dichiara il “Magnifico” Giovanni Filippo Di Giovanni, «ci sono venuti a fabricare [sic] case di Teramo, di Campli et d’altri luochi, come è Vincenzo Vettio di Teramo, Antonio Lacque di Campli et altri», e ciò «per l’abundantia et bono vivere che è in Giulia», la cui sembra feracissima terra consente ai cittadini di raccogliere dai quindici ai

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diciottomila tomoli di grano, escludendo il quantitativo di spettanza «del signor duca et delle persone ecclesiastiche» qui residenti. Le abitazioni, prosegue ancora il Di Giovanni, sono tutte «ridutte in case di pietre, matoni [sic] et calge, fatte a plancato et volta. E tutta via se ne fanno et se fabricano da molte persone in belli principii di palazzi et di case». Di quei miseri tuguri realizzati con paglia triturata ed argilla costituiti dalle “pinciare”, così come degli altrettanto primitivi “pagliari”, le une e gli altri numerosissimi nella “villa” di Cologna (qui introdotti dagli albanesi[66]), ma a quanto pare anche entro le mura urbane (che vengono dette dallo Spina «libere e franche di matoni e pietre forte»), «non di meno – dice risoluto il Di Giovanni - al presente non se ne trova uno, se se volesse comprare a peso d’oro»! Alla presenza di un più dilatato ceto benestante che alimenta i quadri dirigenti dell’Università ed esprime clero, notai, medici, speziali ed anche qualche impegnato intellettuale, come Teodoro di Giulianova celebre Lettore di Filosofia presso l’Università di Bologna nel biennio 1590-1591[67], corrisponde d’altronde la persistenza di quell’importante apparato rappresentato dagli «officiali regii» addetti ai molteplici rami dell’amministrazione statale, specificamente casciero, credenziero, doaniero, portulanato, guardiano di marina e fondachiero.Alle Confraternite già note del Santissimo Sacramento, della Misericordia, del Cordone e del Rosario, si sono aggiunte nel frattempo quella della Concezione e l’altra di San Rocco, tutte dotate – al pari dell’ospedale - di «bone intrate», come d’altronde accade per i dieci frati della famiglia conventuale, i quali  

viveno comodissimamente et hanno entrate che bastano a dare da vivere a venticinque frati, atteso che recogliono – dichiara Pasquale Manari – ogn’anno quattrocento tomoli di grano dalle masserie del detto convento, ricoglie vino dalle vigne del istesso convento, et pigliano ogn’anno più di quaranta ducati di pensione di case dentro di Giulia Nova.

 Quanto alla Collegiata, il nostro commerciante Giovanni Angelo Spina afferma che questa dispone di entrate annue pari a mille ducati, mentre persino la “villa” di Cologna, folta di quaranta fuochi, «have anco molte massarie vicino alla terra, tutte ricche et facoltose et lontano da Giulia mezzo miglio et un miglio».Nulla però viene detto dai quattro dichiaranti – pur così documentati e avvezzi a cifre e dati – delle entrate ducali relative al diritto di pascolo, la cui origine si deve ad un’ingerenza degli Acquaviva (una delle tante) nel regolamento della «fida degli animali» o doganella, che interessava buona parte della regione collinare e marittima del teramano. In proposito soccorre un prezioso documento relativo al Fruttato della dogana delle pecore per l’anno 1591, opportunamente pubblicato da Gennaro Incarnato[68], che, dandoci il numero degli animali che hanno effettivamente pascolato, rende possibile un calcolo del bestiame immesso nei feudi di Atri e quindi, tenuto conto che al duca spettava la terza parte «per la fida degli animali» che avevano pascolato, un quadro delle entrate relative. Il numero delle pecore superava di poco le 15mila unità (2633 quelle al pascolo nella sola Giulianova), cui andavano aggiunti altri 200 capi di «bestiame grosso», cioè cavalli e vacche, per un totale di 338 ducati riservati al duca, cifra non considerevole ma neanche del tutto trascurabile considerando che questa non esauriva l’unica prestazione dovuta dai pastori, epperò del tutto incapace a lenire la oramai dispnoica situazione finanziaria del mite, religioso e moderato duca Alberto, subentrato nel 1592, alla morte del padre Giovan Girolamo, nella titolarità di quello che rimaneva certo uno dei più ampi possessi feudali della regione ma anche nei numerosissimi rapporti passivi, tanto da essere non poco angustiato da parte dei creditori e vivendo egli stesso con un miserrimo appannaggio nonostante la pingue dote di 60mila ducati portati dalla moglie Beatrice de Lannoy. I loquaci Spina, Di Giovanni, Manari e Mostacci omettono pure di dire che la rendita feudale a partire almeno dal 1593, come impietosamente attesta l’andamento dei relevi, patisce una accentuata diminuzione, con i proventi del locale mulino sul Tordino scesi nel 1595 a 380 ducati rispetto ai 550 introitati appena due anni prima, e l’affitto forni caduto, sempre in quell’anno e sempre per quanto riguarda Giulianova, a 200 ducati, quasi il 35% in meno rispetto al 1593[69].Si tace, evidentemente, per non compromettere l’immagine di una Giulianova tratteggiata forse più con generoso utilizzo di iperboli piuttosto che con sincero ma sgradevole realismo, grondante com’è di ottimismo oleografico e fiducioso. L’operazione tuttavia giunge a buon fine visto che il vicario Mario Antonini il 20 dicembre 1596, insieme con la sua relazione (la prima compilata in Italia all’indomani del già ricordato breve pontificio di Clemente VIII [70]), dichiara al cardinale Bonelli che Giulianova, come ha potuto constatare «ocularmente»,

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 per la qualità sua, degl’habitanti et territorio, non solo è bastante a sostentare un convento de dodici padri cappuccini comodamente, ma anchora de venti padri. Ottenuta così la sperata “licentia”, i devoti giuliesi possono proseguire di buona lena i lavori, principiati qualche anno prima, relativi alla «fabbrica del monastero», per la quale – oltretutto -  il conte di Conversano Adriano, onusto dei successi conseguiti quattro anni prima più con la scaltrezza che con le armi contro il brigantaggio “sociale” appenninico di Marco Sciarra e in predicato ormai di ricevere il titolo ducale di Noci[71], mette a disposizione consistenti “elemosine” mentre il fratello duca Alberto, stante le sfasciate finanze che pure non gli avevano impedito di erigere nel 1593 la Cappella di S. Igino nel Duomo della sua Giulianova, deve suo malgrado limitarsi ad autorizzare l’apprensione del legname necessario «per cocere calge» e fare mattoni in alcune vicine fornaci, oltre che per farne «tavole, sommasse et altri decorrenti e travi per servitio di detto convento». Che dietro questo concorso di forze eterogenee – Università, episcopato locale, grande aristocrazia – vi sia un movente sinceramente religioso, non può obiettivamente negarsi. Tutti i cittadini sembrano attivarsi generosamente per la realizzazione dell’insediamento, o con le elargizioni in denaro, sovente consistenti (i 500 ducati donati da Giovanni Filippo Di Giovanni «per amor di Dio» lo stanno a testimoniare) o concorrendo fattivamente alla costruzione del convento anche solo con la prestazione di opere manuali. Quanto all’intervento dei due fratelli Acquaviva, questo si colloca comunque in una consolidata tradizione famigliare di favor nei confronti dei francescani generalmente intesi (a loro consegnano, rispettivamente nel 1580 e nel 1599, i conventi teramani di Propezzano e Mosciano) e dei Cappuccini in particolare, considerando che - oltre in Abruzzo, con il convento atriano di S. Leonardo a rappresentare il primo realizzato sulla fascia marina della regione - essi avevano patrocinato la presenza della “famiglia” francescana di cui si parla in molte delle località comprese nel vasto territorio pugliese sottoposto alla loro gestione feudale: a Nardò nel 1569, a Conversano nel 1580 e ad Acquaviva delle Fonti nove anni più tardi. Ed è emblematica anzi la vicenda tutta acquaviviana dell’insediamento neritino, col duca Bernardo che avendo «sentimento di fondare» un convento di frati cappuccini acquista per 80 ducati da un altro Acquaviva, il porporato Giovanbattista, Vescovo della stessa Nardò, il sito occorrente e quindi dona il terreno al provinciale Andrea della Terza «acciò vi fabbricasse un Convento»[72].  La grande espansione, soprattutto nella seconda metà del XVI secolo, dei Cappuccini – giustamente definiti dal Colapietra i «nuovi protagonisti indiscussi della presenza regolare cinquecentesca»[73] - è indicativa dell’efficacia d’un apostolato capillare in grado di soddisfare le richieste e le esigenze di un popolo che, in tempi iniqui e di sostanziale abbandono da parte del potere politico, evidentemente trovava nei frati di quest’Ordine ascolto, rifugio e, assai spesso, sostentamento.Ciò indubbiamente non esclude, chiaramente da parte del feudatario, una prospettiva almeno ‘implicitamente’ conciliaristica rispetto ai disagi e ai malesseri sociali, e magari di compromesso e transazione tra diversi interessi. Comunque sia il convento giuliese dei Cappuccini, ubicato a circa un quinto di miglia a sud dell’abitato nell’area della chiesa medievale di S. Angelo ad criptas il cui titolo si trasferirà al “romitorio”, entra in funzione nel 1599, lo stesso anno in cui nella distante Roma due oratoriani, Ancina e Scipione Dentice, dedicano a S. Maria dello Splendore una delle loro composizioni musicali[74], iniziativa, questa, alla quale non è probabilmente estraneo un altro Acquaviva, forse il cardinale Claudio, tra i mecenati della musica a Roma in quel periodo.Il primo atto che apre il nuovo secolo è, significativamente, un documento del 14 aprile 1601 a mezzo del quale il Sacro Regio Consiglio prescrive un pagamento di 900 ducati a favore di Francesco Antonio Marchiano, creditore di Giosia II, questi investito del ducato nel 1597, alla morte del padre Alberto.Siamo dunque entrati in quel secolo decimo settimo, caratterizzato da una generale crisi europea[75], che - lo abbiamo pur anticipato - segna per la famiglia Acquaviva d’Aragona del ramo atriano il vero tracollo finanziario. Nel solo biennio 1604-1605 un vertiginoso tourbillon di alienazioni sottrae alla grande famiglia aristocratica i feudi di Morro, Montepagano, Cellino, Guardia, Canzano, Forcella, Castellalto, dopo le alienazione di Notaresco e Cantalupo nel 1601. Già nel 1611 il volume delle vendite cui era stato obbligato Giosia II per far fronte ai «plurima debita sive onera» ammontava a complessivi 77491 ducati, ciò che non impediva appena l’anno dopo, quindi nel 1612, il sequestro generale di tutti i beni ad istanza dei creditori cui seguiva la precipitosa vendita di Gioia ed Acquaviva, possedute allora dalla “Casa” d’Atri, a d. Paride Spinelli di Civita S. Angelo per 360mila ducati.[76]

Due anni prima, il 16 settembre 1610, il vescovo Giovan Battista Visconti era venuto in riva all’Adriatico, a Giulianova, per la consueta visita pastorale. Quanto contenuto nelle sue

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descrizioni, destinate a confluire nella Relatio del 1612, è per noi  estremamente prezioso. Trascurando i rilievi riguardanti le confraternite – ormai ridotte a quelle del Sacramento, della Misericordia e del Rosario – davvero interessanti sono le notizie che il Nostro restituisce circa la chiesa extraurbana di S. Maria a Mare alias Ss.mae Annuntiationis, che inutilmente il vescovo aprutino aveva tentato di incorporare alla sua “Mensa” dieci anni prima.La chiesa – che, essendo di juspatronato feudale, ha come Rettore don Giuseppe Acquaviva d’Aragona - si presenta al Visconti con il suo campanile 

magnum ad modum turris cum quator angulis ab antiquo tempore factum à latere destro introitus, v.g. in angulo ecclesiae versus meridiem et occidentem et ibi adest una campana magna, et proporzionata, quae sonatur in celebratione misse, et in alijs diebus festus. In calce dicti campanilis à parte intus eccòlesiae est scultus in lapide et in muro murato Annus v.g. supra portam ipsius camanilis et sic est. V.g. Ego Magister Asparago hanc fenestram feci Anno domini M.CC.LV

 All’interno, poi, il presule nota un dipinto murale recante l’immagine della Santissima Annunziata «facta de anno 1572», purtroppo rovinata dall’umidità.In questa chiesa, continua il Visconti, «c’è gran devozione di Giulianova, et d’altri luochi convicini», e difatti il giorno della festa della Santissima Annunziata  viene la processione da Giulia nova in questa chiesa del Arciprete, canonici et clero con gl’altri religiosi, et dicono la messa cantata in questa chiesa, et in tal giorno è visitata da tutto il populo et molti forestieri con gran concorso, et nell’istesso giorno si fa la fiera nella terra di Giulia.[77]

 Mentre Giosia II tenta in qualche maniera di opporsi all’agonia economica della sua famiglia e mentre, dal canto suo, il vescovo fronteggia la gravissima crisi che investe la sua diocesi, Giulianova assiste all’ascesa di una famiglia teramana il cui nome risuonerà prepotente nel Settecento, quella dei Delfico. Già nel 1590 un Giovanni Berardino Delfico era penetrato in territorio giuliese con l’acquisto di alcuni appezzamenti di terra in quel di Cologna, e qualche anno dopo, il 23 febbraio del 1603, Orazio II, rappresentato dalla nonna Chiara di Sebenico, diveniva titolare, al prezzo di mille ducati, di un annuo censo di 100 ducati sui frutti di una masseria di 45 moggia in contrada “Colle Magnana” sempre in territorio colognese, in un’operazione contrattuale, peraltro, che vede impegnato un personaggio che già conosciamo, Bartolomeo Mazzone, qui in qualità di notaio[78].Di qui a qualche anno, nel 1607 per essere esatti, questo stesso Orazio II verrà nominato, per volere del viceré Giovanni Alfonso Pimental de Herrera e stante la rinuncia di Paolo Venturino, Credenziere della dogana delle merci e Credenziere presso il portolanato di Giulianova [79], incarico non privo di significato né poco tonificante per le finanze personali del Nostro. Sarebbe stato solo l’inizio di quella inesorabile affermazione famigliare che, nel Settecento della devoluzione feudale, avrebbe portato un personaggio importantissimo di questa famiglia Delfico, Melchiorre, a chiedere a un certo punto l’ottenimento del “titolo” di Conte di Giulianova, con il fratello Gianberardino installato in veste di “amministratore” dell’”allodiale” atriano nell’ormai cadente palazzo ducale dove sarebbe nato suo figlio, chiamato non casualmente Orazio in ossequio ad una mai abiurata tradizione onomastica.Ma torniamo al quia del nostro discorso. Ebbene, in questa Giulianova di metà Seicento le cui condizioni finanziarie, nonostante il passaggio dal sistema dell’apprezzo a quello delle gabelle e l’istituzione – nel 1614 - della giunta delle Università, verosimilmente non saranno state esaltanti, e che oltretutto nel 1613 aveva pure patito l’assalto dei banditi con la distruzione dell’oratorio della Congregazione del Sacramento[80], in questa Giulianova, dicevamo,  la protoborghesia sembra vivere una sua fase di non resistibile ascesa, con gli appartenenti a famiglie locali la cui onomastica spesseggerà per buona parte di questo e dei secoli a venire, gli Albani, i Talucci, i Mazzone, i Mostacci, i Passarani (e da una Passarani, Vincenza, nasce nel 1628 il grande giurista Giandomenico Rainaldi[81]). E poi i Dazij, i Piermattei e i Piermarini (famiglie, queste, tributarie di un guardiano e di due frati conventuali presenti nell’insediamento giuliese nel 1650, rispettivamente Placido, Nicola e Marcello [82]) ma anche, per fare ancora qualche nome, i Ciafardoni e i Nizza, tutti costoro, come gli altri già nominati, attivi e intraprendenti nelle professioni e in campo economico, qui come altrove impegnati - sfruttando la crisi in atto - a maggiorare i propri redditi e a consolidare le proprie posizioni mediante la riorganizzazione del sistema produttivo e il “rafforzamento” del controllo

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economico sui contadini, non rinunziando tuttavia a una certa liberalità che pure sottende una sincera attenzione alle cose spirituali, come dimostra – siamo nel 1639 - la cessione di un immobile da parte di Fidenzo Corsi alla Confraternita del Rosario, rappresentata dal suo Priore Antonio Flaiani.Devozione e generosità, dunque, in un periodo moralmente e religiosamente  lasco, con non pochi frati e monaci, ignoranti per la maggior parte, i quali - lamenta il rigoroso Mons. Giovanni Battista Visconti - «vanno soli, tal’hora senza l’habito, et alloggiano ne’ loro Monasterij l’inquisiti non solo dalla Regia Corte, ma dall’Ecclesiastica ancora», con la esecrabile diffusa litigiosità, con l’inclinazione dei teramani a non osservare le feste comandate e, fatto questo davvero preoccupante, con una straripante, persistente e non poco inquietante presenza di persone «malefitiate»[83]; una piaga – questa della negromanzia – che si tenta di combattere intensificando, con la raccolta massiccia di elemosine, il suffragio per le anime del purgatorio ma anche mediante le missioni di purificazione operate in diocesi dai Gesuiti, venuti in una popolosa Giulianova[84] nel 1628 con l’intento di estirpare la paganeggiante credenza negli auspici tratti dai serpenti e dagli uccelli[85].Devozione e generosità che – sia detto per inciso - non difettano negli Acquaviva, con il XIV Duca d’Atri, Giosia III[86], figlio di Anna Conclubet dei marchesi di Arena in Calabria e del dotto Francesco I (al quale era succeduto, dopo la morte avvenuta il 24 giugno 1649, quale erede universale «in pheudalibus, et nella terza parte delli beni burgensatici» del padre) e quindi nipote di Giosia II, che riuscirà ad evitare la soppressione – a seguito delle note disposizioni innocenziane del 1652 – del sempre amato monastero celestino di S. Maria dello Splendore, addirittura elevato – grazie ai suoi buoni uffici -  in priorato mediante l’unione della grancia di Giulia a quelle di Montone e di Atri (con l’acquisizione della chiesa atriana di S. Stefano). Non pago Giosia metterà anzi a disposizione della comunità monastica cospicui sussidi coi quali – durante i priorati dell’aquilano Michele Cappa e del romano Paolo Giorgetti – si procederà, nell’ordine, all’ampliamento del monastero per ospitare l’accresciuta comunità religiosa, alla costruzione di un atrio esterno e alla ristrutturazione della chiesa, alzata di cinque braccia ed allungata della metà. Quindi si modificherà l’altare maggiore - realizzato con criteri artistici di maggior pregio rispetto al precedente - per ospitare la statua della Madonna con bambino, una scultura lignea policroma di autore ignoto e risalente al XV secolo, forse appartenuta alla chiesa della distrutta S. Flaviano e, prima della sua collocazione nel luogo di cui discorriamo, trasportata nella chiesa madre della Giulia acquaviviana. Sono ancora loro, gli Acquaviva, ad impreziosire la chiesa con il tabernacolo dell’altare maggiore, con due superbi paliotti e, soprattutto, con i preziosi quadri di Giacomo Farelli  rappresentanti i quattro dogmi della Madonna,  oltre a fondare nel 1666, e dotare, la cappella di San Michele nella Collegiata di Giulianova.. Questa munificenza, sulla quale volutamente ci si è soffermati, non deve stupire, considerando che la situazione finanziaria del duca Francesco I, pur dichiarato nel 1620 erede col beneficio d’inventario, era di molto migliorata nel 1636, tanto che per la prima volta diventa possibile procedere all’affitto dei feudi - a suo favore - dello “Stato” d’Atri rimasto in patrimonio, fino a quel momento amministrati dai commissari della Regia Camera della Sommaria. E che la famiglia conservi ancora un suo non trascurabile potere politico lo conferma, una volta per tutte, il fatto che nel 1637 un personaggio davvero influente come Pacheco De Quiñones si interessi presso il duca Francesco per fare ottenere al suo “protetto” Baldassarre Ranieri – destinato quest’ultimo a diventare Camerlengo di Campli – un «governo», che effettivamente un anno dopo conseguirà su Bellante[87]. Una strategia insomma, quella di Francesco I, fortemente tesa ad incrementare il potere e i possedimenti ereditati dal padre, e a recuperare – se possibile – alcuni feudi importantissimi come Giulianova, entrata in possesso della «Casa et Hospitale della SS.ma Annuntiata» di Napoli e poi dai governatori di questa nel 1549 affittata, insieme con le Terre di Guardia Vomano, Morrodoro e Cellino, ad Andrea Conclubet per cinque anni, e quindi ad Anna Conclubet che li avrebbe portati in dote.  E il quadro certo non muta con Giosia III, che il 4 luglio 1663 sposa – ancora una volta interviene, come da consolidata tradizione famigliare, un matrimonio con risvolti economici di non poco momento – Donna Francesca Caracciolo, figlia del ricchissimo principe della Torella. Insomma, siamo al cospetto di un processo di ripresa economica da parte degli Acquaviva, con il tentativo di riacquisizione dei beni attuato con avvedutezza mediante la compensazione tra debiti e crediti. 

Il processo di recupero dei crediti e dei beni – scrive in proposito Gennaro Incarnato – è costante per tutto il secolo XVII. Durante tutto il confuso periodo del sequestro i duchi d’Atri riescono ad avere in fitto buona parte delle terre per un canone annuo di soli 1000

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ducati, ben poco dato il valore delle terre. Come si vede agganci politici, rapporti con le gerarchie ecclesiastiche ed economia signorile procedono di pari passo. E’ un fatto che in questo sistema la funzione pubblica e quella privata si confondono, ed anche a livello patrimoniale spesso una qualche forma di intervento, che oggi definiremmo pubblico, finisce col salvare patrimoni barcollanti.[88]

 Che questa ripresa economica fosse giunta a buon punto ce lo attesta peraltro la cessione con patto di retrovendita, perfezionata con «istrumento» del 13 luglio 1658, da parte dell’Università di Giulia di due gabelle – una di carlini 3 per ogni salma di farina l’altra pure di 3 carlini per ogni salma di vino, il tutto per una rendita annua di 180 ducati – al prelato Rodolfo Acquaviva d’Aragona, fratello di Giosia III e figlio di Francesco, in questo periodo governatore di Frosinone. La cessione viene decisa dall’Università, dopo essersi «convocato parlamento, prima nel dì 7, e poi nel dì 12 Luglio dello stesso anno 1658», evidentemente per ottenere il necessario consenso da parte dei cittadini, onde far fronte all’oneroso debito di 700 ducati con lo stesso Rodolfo, ma anche per pagare un «attrasso» vantato dalla «Regia Casa di Penne» che, a motivo della perdurante insolvenza, «minacciava Commissarj». Anzi, per garantire il totale adempimento di quest’ultima obbligazione Rodolfo cede, ai quattro “massari” della economicamente esangue Università, 600 tomoli di grano, dalla cui vendita si sarebbe tratto il denaro necessario per il pagamento dell’«attrasso»[89].Una riconferma, pur con tutti i distinguo del caso, di come la debolezza economica della illustre famiglia fosse ormai consegnata al passato, almeno a quello recente, l’abbiamo in due date fatidiche, quelle del 1671 e del 1688. Il 24 gennaio 1671, infatti, presso il notaio Narici di Napoli si stipulava una transizione tra Giosia III e i governatori della Casa Santa dell’Annunziata di Napoli per il recupero della tenuta, transazione tuttavia portata a compimento appunto diciassette anni dopo, quando a Giovan Girolamo II, figlio primogenito di Giosia III e quindicesimo Duca d’Atri, i governatori della Casa Santa dell’Annunziata  conoscendo di non poter più tenere la tenuta di detto feudo di Giulianova e, volendo anche mettersi al coperto dal giudizio di avocazione de frutti percepiti in tempo della tenuta, cedettero al duca suddetto (Giovan Geronimo) d’Atri la tenuta di Giulianova ed il duca promise garantirla con suoi crediti anteriori sopra detto patrimonio dalla molestia dell’avocazione dei frutti fino alla somma di ducati 20000.[90]

 Così, pur tra contrasti, Giulianova, in un modo o nell’altro tornava in possesso, insieme con altri feudi, degli Acquaviva, famiglia protagonista di complesse e non marginali vicende politiche da cui era scaturito il progetto prima e la realizzazione poi della città stessa, sottoposta per tanto tempo alla loro (talvolta pesante) “tutela”, ma anche interessata da un generoso, anche se non frequente, mecenatismo.

(*) Il presente lavoro è stato compilato modificando e integrando in maniera apprezzabile il nostro saggio su Giulianova pubblicato nel volume L’Abruzzo dall’Umanesimo all’età barocca, edito dall’Istituto Nazionale di Studi Crociani nel 2002.L’Autore ringrazia sentitamente i professori Mario Bevilacqua e Antonio Iampieri, nonché l’architetto Flaviano Tribuiani, per le segnalazioni e gli utili consigli dati. [1] In argomento FRANCESCO BONAZZI, Famiglie nobili e titolate del napoletano ascritte nell’elenco regionale o che ottennero posteriori legali riconoscimenti con brevi notizie illustrative, Bologna, Forni, 1985, (rist. dell’ediz. Napoli, 1902), pp. 9-10.[2] Cfr. RICCARDO CERULLI, Giulianova 1860, Teramo, “Abruzzo Oggi”, 19682, pp. 258-259.[3] In argomento si rimanda agli interventi di MARIA LUISA STORCHI, Gli Acquaviva e l’Università di Atri nei «Partium» della Sommaria, e di FARA FUSCO, Repertorio delle fonti per la storia degli Acquaviva d’Atri nel Cinquecento, in Gli Acquaviva d’Aragona. Duchi di Atri e Conti di S. Flaviano, I Tomo, Teramo, Centro Abruzzese di Ricerche Storiche, 1985.[4] RICCARDO CERULLI, Giulianova 1860, cit., p. 259.[5] VINCENZO BINDI, Monumenti storici ed artistici degli Abruzzi, Napoli,  Tip. F. Giannini & Figli, 1889, pp. 108-113.[6] Cfr. MARIO BEVILACQUA, Giulianova. La costruzione di una ‘città ideale’ del Rinascimento, Napoli, Electa, 2000, pp. 36 e 39 nota 41.

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[7] GAETANO CIAFFARDONI, Cronaca. Breve cenno di Castro e Giulia in Abruzzo Primo per lo giudice Gaetano de’ Baroni Ciaffardoni, Teramo, Dai tipi di Quintino Scalpelli, 1861, p. 37 ora ripubblicato nel vol. Opucula 2, Teramo, Istituto Abruzzese di Ricerche Storiche, 1988.[8] NICCOLA PALMA, Storia ecclesiastica e civile, Teramo, Cassa di Risparmio della Provincia di Teramo, vol. 4, 1981, p. 178.[9] Cfr. MARIO BEVILACQUA, Giulianova, cit., pp. 57, 157.[10] Cfr. DOMENICO TARASCHI, Santuari aprutini, Teramo, Edizioni Grafiche Italiane, 1991, p. 33. A questo proposito è stato pure affermato che il miracolo potrebbe essere collocato persino intorno al 1470, quando Giuliantonio dava inizio alla costruzione della città. Cfr. P. CANDIDO DONATELLI, L’apparizione della Madonna dello Splendore in Giulianova e la sua festa, in “La Madonna dello Splendore”, 4, 1985, pp. 6-7.[11] Cronica (...) Relazione del Sacro Tempio di santa Maria dello Splendore di Giulianova de’ R.R. P.P. Celestini dell’Ordine di S. Benedetto con alcuni miracoli ecc., manoscritto stampato una prima volta a Napoli, Tipografia Strada Nuova de’ Pellegrini, 1870 e, in seconda edizione, a Lanciano, Carabba, 1891.[12] Cfr. NICCOLA PALMA, Storia della città e Diocesi di Teramo, cit., vol. 3, 1980, p. 77 e ss.[13] Si tratta del volumetto di Fra IACOPO DA LEZZE, Le cerimonie dei monaci Celestini, con la vita di Celestino V, loro primo padre, Bologna, Anselmo Giacarella, 1549, p. 128. E’ importante notare che nell’unito Gli articoli e i brievi dei monaci Celestini (Napoli, Raimondo D’Amato, 1552) a  reggere il Monastero è addirittura da un «prior» e non un vicario.[14] Sull’insediamento celestino di Giulianova cfr., oltre ai reiterati interventi di Riccardo Cerulli ora antologizzati ne Il cerchio inconchiuso. Momenti di storia giuliese attraverso le pagine della rivista “La Madonna dello Splendore” (1982-1995), a cura di Sandro Galantini, Teramo, Demian Edizioni, 1995, passim, anche CLEMENTE DINO CAPPELLI, I Celestini nel Teramano, in I Celestini in Abruzzo. Figure, luoghi, influssi religiosi culturali e sociali, Atti del Convegno – L’Aquila 19-20 maggio 1995, L’Aquila, Deputazione Abruzzese di Storia Patria (Edizioni Libreria Colacchi), 1996, spec. pp. 256-262.[15] Dice infatti Adelmo Marino che gli Acquaviva erano «i più strenui difensori del culto della Madonna, tanto che non c’era feudo che non avesse una chiesa o un altare che non fosse dedicato alla Vergine». Cfr. ADELMO MARINO, Il rilancio tridentino di San Berardo Vescovo e protettore della diocesi aprutina, in Il Concilio di Trento nella vita spirituale e culturale del Mezzogiorno tra XVI e XVII secolo, a cura di Gabriele De Rosa e Antonio Cestaro, vol. 2, Venosa, Edizioni Osanna, 1988, p. 423. [16] NICCOLA PALMA, Storia della città e Diocesi di Teramo, cit., vol.  4 , p. 610.[17] MARIO MARCONE, Ritratto di un Acquaviva, in Gli Acquaviva d’Aragona. Duchi di Atri e Conti di S. Flaviano, III tomo, cit., p. 100.[18] Sul ruolo degli Acquaviva in questo periodo si rimanda a RAFFAELE COLAPIETRA, Giangerolamo Acquaviva Duca d’Atri 1521-1592 protagonista di una transizione politico-culturale, in “Bullettino della Deputazione Abruzzese di Storia Patria”, a. LXXXIII (1993), pp. 5- 97.[19] RAFFAELE COLAPIETRA, Abruzzo un profilo storico, Lanciano, Rocco Carabba Editore, 1977, p. 95 e ss.[20] Circa la situazione finanziaria degli Acquaviva, a partire da Andrea Matteo, cfr., oltre ai due lavori di  GENNARO INCARNATO, L’evoluzione del possesso feudale in Abruzzo Ultra dal 1500 al 1670, in “Archivio storico per le province napoletane”, a. LXXXIX (1971)  e  Cacce, crisi militare, intraprendenza contadina nella prima metà del ‘500, cit., anche quelli di FARA FUSCO, Repertorio delle fonti per la storia degli Acquaviva d’Atri nel Cinquecento, e di MARIA LUISA STORCHI, Gli Acquaviva e l’Università di Atri nei «Partium» della Sommaria, entrambi in Gli Acquaviva d’Aragona. Duchi di Atri e Conti di S. Flaviano, cit., I Tomo.[21] Così FARA FUSCO, Repertorio delle fonti, cit., p. 28 e GENNARO INCARNATO, Cacce, crisi militare, intraprendenza contadina nella prima metà del ‘500. Una nobiltà assediata: il caso Acquaviva d’Aragona, Duchi d’Atri, Conti di Conversano, in Don Giulio Di Francesco. Sacerdote Insegnante e Storico Teramano. Testimonianze e Contributi, a cura di Adelmo Marino, Teramo, Centro Abruzzese di Ricerche Storiche, 1994, pp. 53-98. [22] Cfr. NICCOLA PALMA, Storia della città e Diocesi di Teramo, cit.,  vol. 3, p. 275.[23] GENNARO INCARNATO, L’evoluzione del possesso feudale in Abruzzo Ultra, cit., p.257 nota 87.[24] E’ importante notare che altri Ravaschiero (o Ravaschieri), specificamente Giovanni Girolamo, Giovanni Battista, Germano e Ottavio, risultano creditori del duca d’Atri Giovanni Girolamo per forti somme. Giovanni Battista già nel 1545 risulta titolare, insieme con Giovanni Antonio Amenduno, di un’ipoteca sulle entrate di Giulianova. Ed è ancora Giovan Battista, stavolta insieme con l’altro Ravaschiero, Giovan Grirolamo, il destinatario di un assenso, in data 11 marzo 1563, alla vendita di annui ducati 415 su alcune entrate feudali del duca, mentre risale al 26 giugno 1570 la esecutoria della sentenza del Sacro Consiglio contro il duca e a favore di Germano e Ottavio per la somma di 1904 ducati. Cfr. FARA FUSCO, Repertorio delle

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fonti per la storia degli Acquaviva d’Atri nel Cinquecento, cit., pp. 35-36 ad annum e MARIO BEVILACQUA, Giulianova, cit., p. 39 nota 41.[25] Cfr. RICCARDO CERULLI, Giulianova 1860, cit., p. 261.[26] MARIO BEVILACQUA, Giulianova, cit., p. 37.[27] NICCOLA PALMA, Storia della città e Diocesi di Teramo, cit.,  vol. 3, pp. 44-45.[28] ALESSANDRA BULGARELLI LUKACS, Mercati e mercanti in Abruzzo (secc. XV-XVIII), in Abruzzo. Economia e territorio in una prospettiva storica, a cura di Massimo Costantini e Costantino Felice, L’Aquila, Regione Abruzzo – Assessorato alla Promozione culturale (Vasto, Cannarsa), 1998, p. 261.[29] MARIA R. PESSOLANO, Il sistema portuale abruzzese-molisano, in Sopra i porti di mare. II. Il Regno di Napoli, a cura di Giorgio Simoncini, Firenze, Olschki, 1993, p. 162.[30] Tra il 1 settembre 1568 e il 31 agosto 1569 il portolano d’Abruzzo, Geronimo de Segua, registra, per quanto concerne specificamente Giulianova e Vasto, otto «estrattioni» con destinazione San Vito, Ortona e Pescara. Cfr. al riguardo ALESSANDRA BULGARELLI LUKACS, Mercati e mercanti in Abruzzo (secc. XV-XVIII), cit. p. 274.[31] Cfr. COSTANTINO FELICE, Il Sud tra mercati e contesto. Abruzzo e Molise dal Medioevo all’Unità, Milano, Franco Angeli, 19962.[32] Cfr. NICCOLA PALMA, Storia della città e Diocesi di Teramo, cit.,  vol. 3, p. 97 e FRANCESCO BRUNETTI, Sacra ac profana Aprutii Monumenta, a cura di Roberto Ricci, Teramo, Provincia di Teramo – Biblioteca Provinciale Melchiorre Delfico, 2000, p. 27.[33] Cfr. in proposito l’Appendice relativa a Gli scali meridionali fino al 1860: descrizioni, lavori e diritti feudali, in Sopra i porti di mare, cit., p. 403.[34] MARIA SIRAGO, Attività economiche e diritti feudali nei porti, caricatoi ed approdi meridionali tra XVI e XVII secolo, in Sopra i porti di mare, cit., p. 377.[35] Cfr. utilmente, per tutti, MARIA SIRAGO, Il feudo acquaviviano in Puglia (1575-1665), in “Archivio Storico Pugliese”, a. XXXVII (1984), fasc. I-IV, p. 81 e ss. e ID., Due esempi di ascensione signorile: i Vaaz conti di Mola e gli Acquaviva conti di Conversano tra ‘500 e ‘600 (Terra di Bari), in La rifeudalizzazione nei secoli dell’età moderna: mito o problema storiografico?. Atti della 3a Giornata di Studio sugli antichi Stati Italiani, a cura di Giorgio Borelli, Verona, Istituto per gli studi storici veronesi, 1986, pp. 169 e ss.[36] CORRADO MARCIANi, Un cantiere veneto a Giulianova nel 1500, in “Rivista Abruzzese”, a. XIX (1966), n. 3, pp. 120-127, poi in Scritti di Storia, Lanciano, Carabba, 1974, pp. 68-75.[37] Riguardo la difesa costiera del versante adriatico del Regno cfr. per tutti, oltre al lavoro di ANTONIO GAMBACORTA, Città fortificate e torri costiere della Puglia e dell’Abruzzo nelle relazioni di Carlo Gambacorta, in “Castellum”, a. II (1965), e a quello di VITTORIO FAGLIA, Visita alle torri costiere nelle province d’Abruzzo, in “Castellum”, a.XV (1978), FLAVIO RUSSO, La difesa costiera del Regno di Napoli dal XVI al XIX secolo, Roma, Stato Maggiore Esercito, Ufficio storico, 1989.  [38] Cfr. RICCARDO CERULLI, Il Portico De’ Bartolomei e il Monumento a Vittorio Emanuele II, in “La Madonna dello Splendore”, 13/1994, p. 21, ora ne Il cerchio inconchiuso, cit., p. 105.[39] Così NICCOLA PALMA, Storia della città e Diocesi di Teramo, cit.,  vol. 4, p. 71.[40] LUIGI DONVITO, BRUNO PELLEGRINO, L’organizzazione ecclesiastica degli Abruzzi e Molise e della Basilicata nell’età postridentina, Firenze, Sansoni, 1973, p. 63 (ivi si fissa al 1556 la “fondazione” del convento) nonché EGIDIO RICOTTI, La Provincia francescana abruzzese di S. Bernardino dei frati minori conventuali, Roma, Miscellanea francescana editrice, 1937, p. 231. Più recentemente cfr., soprattutto relativamente alla chiesa di S. Antonio (olim S. Francesco), LORENZO BARTOLINI SALIMBENI, Architettura francescana in Abruzzo dal XIII al XVIII secolo, Chieti, Università “G. D’Annunzio” (Roma, Edigrafica), 1993, pp. 22, 72, 156, 179, 180. Altri utili rilievi in MANUEL BASTIONI, Una chiesa nella chiesa: S. Antonio, in “La Madonna dello Splendore”, 17/1998, pp. 50-57 e nel recente volume di AMALIA BIANCHETTO, CARMEN DI ODOARDO, CINZIA FALINI, MANUEL BASTIONI, GIOVANNI BOSICA, PIERINO SANTOMO, La chiesa di S. Antonio a Giulianova, Teramo, Edigrafital, 1998.[41] Da una relazione redatta nel 1650, si dice infatti che il convento dispone, tra le altre, di «stanze da tener legna e paglia con torrione» (mio è il corsivo). Cfr. P. NICOLA PETRONE, Relazioni sui Comventi d’Abruzzo dei Frati Minori Conventuali in occasione della Soppressione Innocenziana redatte nel 1610, Tagliacozzo, Biblioteca Tommasiana, 1998, p. 16. [42] Un documento ci fa sapere che a metà Cinquecento «due rocche seu torrioni uno detto san Francesco» sono affittate per «servire da stalle». Cfr. MARIO BEVILACQUA, Giulianova, cit., p. 37.[43] Cfr. in proposito LUIGI PELLEGRINI, Il Francescanesimo nella Società abruzzese dal sec. XIII all’“Osservanza” Bernardiniana, in “Bullettino della Deputazione Abruzzese di Storia Patria”, a. LXX (1980), vol. I, spec. p. 57, ora nel suo Insediamenti francescani nell’Italia del Duecento, Roma, Laurentianum, 1984, spec. pp. 286-287 e SOFIA BOESCH GAJANO, MARIA RITA BERARDI, Civiltà medioevale negli Abruzzi, vol. I, L’Aquila, Colacchi, 1990, pp. 337-368.

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[44] MARIO MONTEBELLO, Francesco di Giorgio Martini e Giulianova, L’Aquila, Deputazione Abruzzese di Storia Patria (Padova, Aldo Ausilio Editore), 1994.[45] Cfr. RICCARDO CERULLI, Giulianova 1860, cit., p. 31.[46] Cfr. RICCARDO CERULLI, Un codice cartaceo giuliese della fine del Cinquecento, in “Bullettino della Deputazione Abruzzese di Storia Patria”, a. LXIV (1974), p. 169 e ss.[47] RICCARDO CERULLI, Un codice cartaceo, cit., p p. 153-157.[48] RICCARDO CERULLI, Un codice cartaceo, cit., p. 177 e ss.[49] Cfr. opportunamente Le Gabelle teramane nel Cinquecento, a cura di Adelmo Marino, Teramo, Cassa di Risparmio della provincia di Teramo, 1979, pp. 37-38.[50] A riprova dell’assunto si consideri che nell’aprile del 1584 è dato incontrare Giovanni Angelo Spina quale “parte” (insieme con Simone Piermarino) di un contratto stipulato con Fedele ed Orazio Delfico per l’acquisto da costoro di 1500 tomoli di grano, peraltro con Agostino De Dominicis nella veste di “giudice ai contratti”. Cfr. opportunamente DONATELLA STRIGLIONI NE’ TORI, L’inventario del Fondo Delfico. Archivio di Stato di Teramo,Teramo, Centro Abruzzese di Ricerche Storiche, 1994, p. 79.[51] Circa composizione ed attività del Parlamento, diffuso nelle Università meridionali nell’età aragonese, cfr. GIOVANNI CASSANDRO, Il Comune meridionale nell’età aragonese, in Atti del Congresso Internazionali di Studi sull’Età Aragonese, Bari, Adriatica, 1968, p. 152. Probabilmente anche a Giulianova il Parlamento veniva convocato – secondo una prassi non poco diffusa nel resto del Regno – ad sonum campanae e in luoghi pubblici che dovevano essere una piazza o la chiesa. Ancora nella seconda metà del Settecento questa prassi era in uso a Giulianova, come ci consente di sapere RICCARDO CERULLI, L’Università di Giulianova nello Stato allodiale di Atri (da documenti inediti dell’Archivio privato de Bartolomei), in “Bullettino della Deputazione Abruzzese di Storia Patria”, a. LXV (1975), p.593.[52] RICCARDO CERULLI, Un codice cartaceo, cit., pp. 162, 168, 170.[53] RICCARDO CERULLI, Un codice cartaceo, cit., p. 183.[54] VINCENZO BINDi, La monumentale chiesa di S.Flaviano in Giulianova e la sua storica campana nuovamente fusa, “Il Risorgimento d’Abruzzo e Molise”, 27 luglio 1926.[55] Lo stato della Diocesi di Teramo negli anni 80 del secolo XVI – Relatio ad limina di Mons. Giulio Ricci, a cura di Giulio di Francesco e C. Dino Cappelli, in “Aprutium”, a. IV (1986), n. 1-2, p. 23, riprodotta anche in Visite Pastorali a Giulianova nel corso dei secoli. 1590-1918, a cura di Ottavio Di Stanislao, Giulianova, Comune di Giulianova, 1998, p. 19.[56] Si veda, infatti, quello – per tanti versi simile – col quale i teramani espongono le ragioni per cui a Campli debba negarsi la qualità di città. Il documento, sinora inedito, è stato rinvenuto e pubblicato da LUCIANO ARTESE, Documenti cinquecenteschi: Perché Campli non si debba erigere in Città, in “Notizie dalla Delfico”, 3/2001, pp. 9-16. [57] Il documento è riportato da CARINO GAMBACORTA, Storia di Civitella del Tronto, volume primo, Teramo, Edizioni Grafiche Italiane, 1992, pp. 261-269. [58] Sulla questione cfr. LUIGI DONVITO, Chiesa e società negli Abruzzi e Molise nel periodo post-tridentino, in LUIGI DONVITO, BRUNO PELLEGRINO, L’organizzazione ecclesiastica, cit., p. 7 e ss.; BENEDETTO CARDERI, Fermenti tridentini nella diocesi aprutina, in Aprutium”, a. VII (1989), n. 2-3, p. 8 e ss. e ADELMO MARINO, Il rilancio tridentino di San Berardo, cit., pp. 402-403. [59] Cfr. BRUNO TRUBIANI, Gli Acquaviva nelle carte della biblioteca di Nicola Sorricchio, in Gli Acquaviva d’Aragona. Duchi di Atri e Conti di S. Flaviano, cit., tomo I, pp. 85-86.[60] RICCARDO CERULLI, Un codice cartaceo, cit., pp. 185-186.[61] MARIO MONTEBELLO, Francesco di Giorgio Martini  e Giulianova, cit., p. 87.[62] E’ appena il caso di sottolineare che 358 sono i “fuochi” giuliesi indicati da Hieronimus Magister nelle sue Delitiae Neapolitanae del 1605. Cfr. in proposito EZIO MATTIOCCO, L’Abruzzo descritto e illustrato in un’opera tedesca del 1605, in “Bullettino della Deputazione Abruzzese di Storia Patria”, a. LXXXIII (1993), p. 120 sub Giulianova.[63] Si tratta evidentemente di un appartenente a quella famiglia Mostacci o Mostaccio, protagonista delle vicende giuliesi nel ‘500 ed oltre – è del ‘700, infatti, la sua estinzione – della quale erano prestigiosi membri Giovan Antonio, rettore del beneficio  di San Giovanni in Piano o in Tricoli, e l’ecclesiastico Gian Andrea, pur’esso titolare di quel beneficio e dell’altro di Santa Maria de Loreto extra muros, detta piccirilla, sempre in Giulianova.[64] Cfr. I Cappuccini e la Congregazione romana dei Vescovi regolari. 1596-1605,a cura di Vincenzo Criscuolo, vol. II, Roma, Istituto Storico dei Cappuccini, 1990, p. 97. L’Università di Giulianova aveva infatti avanzato “suppliche” alla Sacra Congregazione per ottenere “licenza” di portare a compimento la «fabbrica del monastero, ch’alcuni anni sono principiò per li frati cappuccini».[65] I Cappuccini e la Congregazione romana dei Vescovi regolari. 1596-1605, cit., pp. 100-111.[66] Cfr. in proposito SANDRO GALANTINI, Sviluppo e diffusione delle “pinciaie” teramane. La presenza di popolazione alloglotte nel territorio della provincia come fattore incentivante, in

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“Rivista Abruzzese”, a. XLIII (1990), n. 3-4, pp. 205-212. Non è un caso che la zona di Cologna, località di colonizzazione allogena, presentasse proprio nel XVI secolo una forte presenza di pinciare, come si evince – tra gli altri – da un atto di vendita stipulato il 9 novembre 1590 tra Antonio di Nicolantonio di Cologna e Giov. Berardino Delfico di Teramo, col quale il primo cede al secondo, oltre ad un orto e vari appezzamenti di terra con vigne ed alberi, una casa «ad terrinam». Il relativo atto d’acquisto è in DONATELLA STRIGLIONI NE’ TORI, Regesti delle pergamene dell’Archivio Delfico, in “Aprutium”, a. IX (1991), n. 2-3, p. 48.[67] In argomento cfr. VINCENZO BALZANO, Legisti e artisti abruzzesi Lettori nelle celebri università d’Italia, in “Bullettino della Deputazione Abruzzese di Storia Patria”, a. LI-LIII (1961-1963), p.32 e ID., I Legisti ed Artisti Abruzzesi, Lettori dello Studio di Bologna, Castel di Sangro, Tipografia Oriente Potaturo, 1892. Su Teodoro di Giulianova amplius UMBERTO DALLARI, I Rotuli dei Lettori,Legisti e Artisti dello Studio Bolognese, dal 1384 al 1799, Bologna, Regia Tipografia dei F.lli Merlani, vol. II, 1888, p. 239 e, da ultimo, SANDRO GALANTINI, Oltre la linea d’ombra. Impegno culturale degli “Illustri Giuliesi” dal Sei all’Ottocento. Profili bio-bibliografici, in VINCENZO BINDI, Illustri Giuliesi. Con un saggio di Sandro Galantini, Giulianova, Centro di Servizi Culturali della Regione Abruzzo (Mosciano S. Angelo, Media Edizioni), 2000, pp. 31-32.[68] GENNARO INCARNATO, Le ‘illusioni del progresso’ nella società napoletana di fine Settecento, parte prima (La crisi aristocratica), Napoli, Loffredo Editore, 1991, pp. 169-170, già in ID., In margine «all’elevato dibattito» sull’eversione della feudalità nel Regno di Napoli; prassi e realtà dell’amministrazione degli allodiali d’Atri alla vigilia della devoluzione della feudalità, in Gli Acquaviva d’Aragona. Duchi di Atri e Conti di S. Flaviano, cit., II tomo, pp. 97-98.[69] Cfr. GENNARO INCARNATO, L’evoluzione del possesso feudale in Abruzzo Ultra, cit., p. 276.[70] I Cappuccini e la Congregazione romana dei Vescovi regolari. 1596-1605, cit., p. 12 n. 12.[71] Cfr. RAFFAELE COLAPIETRA, Le insorgenze di massa nell’Abruzzo moderno, in “Storia e Politica”, a. XIX (1980), fasc. IV, pp. 577-642 (1a parte) e a. XX (1981), fasc. I, p. 1 e ss. (2a parte).[72] Cfr. in argomento FILIPPO BERNARDI, I Frati Minori Cappuccini di Puglia e di Basilicata (1530-1716), a cura di Tommaso Pedìo, Bari, Società di Storia Patria per la Puglia [Grafica Rossi], 1985. Per un ampio quadro relativo alla presenza cappuccina in Terra di Bari cfr. FARA SFORZA, I cappuccini in terra di Bari nei secoli XVI-XVII, in Cultura e società a Bitonto nel sec. XVII, Atti del Seminario di studi (Bitonto, dicembre 1978-maggio 1979), Bitonto, Centro Ricerche di Storia e Arte Bitontina, 1980.[73] RAFFAELE COLAPIETRA, Insediamenti ambientali e funzione socio-culturale degli ordini religiosi in Abruzzo, Molise e Capitanata fra Quattro e Settecento, in Ordini religiosi e società nel Mezzogiorno moderno, Atti del seminario di Studio (Lecce, 29-31 gennaio 1986), a cura di Bruno Pellegrino e Francesco Gaudioso, vol. I, Galatina, Congedo Editore, 1987, p. 15.[74] Titolo: VORREI VERGINE BELLA/ CHÉ L «A S. MARIA DELLO SPLENDORE». Musica di Scipione Dentice. Canto (in chiave di Do sul primo rigo) Mezzo canto (in chiave di Do sul secondo rigo) Tenore. 1599. Cfr. GIANCARLO ROSTIROLLA, La musica a Roma al tempo del Baronio: l’oratorio e la produzione laudistica in ambiente romano, estr. da Baronio e l’arte. Atti del Convegno internazionale di studi Sora, 10-13 ottobre 1984, s.l. (ma Sora), Centro di studi sorani “V. Patriarca”, s.d. (1984?), sub  461. Ringrazio l’arch. Flaviano Tribuiani per la relativa segnalazione.[75] Cfr. RUGGERO MOSCATI,  Le “Università” meridionali nel viceregno spagnolo, in «Clio», 1967, 1, p. 27.[76] Queste notizie sono contenute in un documento settecentesco riportato felicemente da GENNARO INCARNATO, Crisi signorile, ripresa regia e speranze borghesi nel tardo ‘700 teramano, in “Aprutium”, a. 0 (1982), n. 0, pp. 16-17, poi in ID., Le ‘illusioni del progresso’ nella società napoletana di fine Settecento, parte prima (La crisi aristocratica), cit., pp. 36-37. Alcuni cenni al documento in parola erano stati fatti dall’Incarnato nel suo lavoro L’evoluzione del possesso feudale in Abruzzo Ultra, cit., p. 258 n. 89.[77] La relazione relativa alla chiesa in argomento è stata pubblicata nel lavoro di GABRIELE DI CESARE, Problemi storici e storiografici del Monachesimo benedettino teramano, Bellante, Centro Culturale Aprutino, 1983, pp. 80-83.[78] Cfr. DONATELLA STRIGLIONI NE’ TORI, Regesti delle pergamene dell’Archivio Delfico, cit., p. 54 e ID., L’inventario del Fondo Delfico. Archivio di Stato di Teramo, cit., p. 79.[79] DONATELLA STRIGLIONI NE’ TORI, L’inventario del Fondo Delfico. Archivio di Stato di Teramo, cit., p. 25.[80] NICCOLA PALMA, Storia ecclesiastica e civile, cit., vol. 3, p. 225.[81] Per le notizie bio-bibliografiche relative al Rainaldi, Uditore a Bologna ed avvocato celebratissimo a Roma, cfr. NICCOLA PALMA, Storia ecclesiastica e civile, cit., vol. V, pp.226-228 e da ultimo SANDRO GALANTINI, Oltre la linea d’ombra, cit., p. 31. Amplius RICCARDO CERULLI, Giandomenico Raynaldi, in “P.Q.M.”, a. V (1992), n. 2, pp. 7-10.[82] P. NICOLA PETRONE, Relazioni sui Conventi d’Abruzzo dei Frati Minori Conventuali, cit., p. 16.

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[83] Cfr. Lo stato della Diocesi di Teramo dal 1609 al 1638. Le “Relationes ad limina” di Mons. Giovan Battista Visconti, a cura di Giulio Di Francesco e Clemente-Dino Cappelli, in “Aprutium”, a. X (1992), n. 3, p. 17 e BENEDETTO CARDERI, Fermenti tridentini nella diocesi aprutina, cit., p. 13.[84] Le rilevazioni effettuate nel 1626, infatti, davano per Giulianova la presenza di ben 358 “fuochi”. Cfr. GIORGIO MORELLI, Manoscritti d’interesse abruzzesi nelle biblioteche romane, L’Aquila, Deputazione Abruzzese di Storia Patria, vol. I, 1982, p. 42.[85] Cfr. LUIGI DONVITO, Chiesa e società negli Abruzzi e Molise nel periodo post-tridentino, cit., p. 27.[86] Giosia III nacque a Giulianova il 25 gennaio 1631. Cfr. in proposito la scheda biografica relativa in GIORGIO MORELLI, Gli Acquaviva d’Aragona duchi d’Atri in un manoscritto del secolo XVIII, in Gli Acquaviva d’Aragona. Duchi di Atri e Conti di S. Flaviano, cit. I Tomo, pp. 71-72.[87] In proposito cfr. ROBERTO RICCI, Gli Acquaviva e i Farnese nell’Abruzzo tramano del ‘600: oligarchie, banditismo, società, in Gli Acquaviva d’Aragona. Duchi di Atri e Conti di S. Flaviano, cit., III tomo, p. 26.[88] GENNARO INCARNATO, Le ‘illusioni del progresso’ nella società napoletana di fine Settecento, parte prima (La crisi aristocratica), cit., p.37.[89] Queste notizie attingiamo da una comparsa conclusionale priva di indicazioni tipografiche e di data, ma comunque post 1760, redatta da Domenico Antonio Scarola, Attuario della Regia Camera della Sommaria, dal titolo Per l’Università di Giulia nova col Regio Fisco, e l’Illustre D. Carlo Acquaviva. Degnissimo Commissario Il Signore D. Biaggio Sanseverino Presidente della regia Camera della Sommaria. Siamo riconoscenti all’amico Prof. Antonio Iampieri per averci segnalato e messo a disposizione il documento in parola.[90] Cfr. GENNARO INCARNATO, Le ‘illusioni del progresso’ nella società napoletana di fine Settecento, parte prima (La crisi aristocratica), cit., p. 38. Il riferimento è a Giovan Girolamo II, XV Duca d’Atri, figlio di Giosia III e di Francesca Caracciolo.

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