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Peacekeeping Operations info:http://newpolitik.wordpress.com/ La pace con le bombe di Bruno Manfellotto (tratto da “L’Espresso” del 21 Ottobre 2010) Se è impossibile ritirarci dall' Afghanistan allora abbiamo il diritto di sapere che cosa davvero fanno laggiù i militari italiani. "L'espresso" comincia l'operazione verità L'intesa bipartisan destra-sinistra è arrivata, udite udite, sul tema ostico della guerra, o meglio di quella che ci ostiniamo a chiamare "missione di pace" in Afghanistan. E proprio nelle ore in cui il Paese commemorava i quattro ragazzi saltati su una mina talebana. L'elenco dei caduti sale a trentaquattro. Dunque non i primi e, si teme, nemmeno gli ultimi. Le ragioni della missione sono state confermate dal governo, anche se nella maggioranza stessa cominciano ad affiorare dubbi e dissensi, valgano per tutti quelli politicamente sottili e ben argomentati di Giuliano Ferrara (l'intervista è a pagina 39) e quelli urlati della Lega, anche se Bossi ci ha abituato a grandi sparate in piazza e sulle sponde del Po e a granitiche fedeltà all'alleanza nelle aule parlamentari. Però la tensione sale, e altrimenti non potrebbe essere dinanzi ad altre bare avvolte nella bandiera italiana. Né deve sorprendere che Piero Fassino abbia sostenuto il senso della missione e, al di là delle precisazioni e delle messe a punto sulla necessità di armare di bombe i nostri aerei per difendere le truppe di terra - affermazione raccolta in tv da Lucia Annunziata e rilanciata con clamore dai giornali - resta il dato di fondo: il Pd non sembra intenzionato ad alzare la voce, né a chiedere il rientro del contingente italiano, né a mettere in discussione la missione. 1

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La pace con le bombedi Bruno Manfellotto (tratto da “L’Espresso” del 21 Ottobre 2010)

Se è impossibile ritirarci dall' Afghanistan allora abbiamo il diritto di sapere che cosa davvero fanno laggiù i militari italiani. "L'espresso" comincia l'operazione verità

L'intesa bipartisan destra-sinistra è arrivata, udite udite, sul tema ostico della guerra, o meglio di quella che ci ostiniamo a chiamare "missione di pace" in Afghanistan. E proprio nelle ore in cui il Paese commemorava i quattro ragazzi saltati su una mina talebana. L'elenco dei caduti sale a trentaquattro. Dunque non i primi e, si teme, nemmeno gli ultimi.

Le ragioni della missione sono state confermate dal governo, anche se nella maggioranza stessa cominciano ad affiorare dubbi e dissensi, valgano per tutti quelli politicamente sottili e ben argomentati di Giuliano Ferrara (l'intervista è a pagina 39) e quelli urlati della Lega, anche se Bossi ci ha abituato a grandi sparate in piazza e sulle sponde del Po e a granitiche fedeltà all'alleanza nelle aule parlamentari. Però la tensione sale, e altrimenti non potrebbe essere dinanzi ad altre bare avvolte nella bandiera italiana.

Né deve sorprendere che Piero Fassino abbia sostenuto il senso della missione e, al di là delle precisazioni e delle messe a punto sulla necessità di armare di bombe i nostri aerei per difendere le truppe di terra - affermazione raccolta in tv da Lucia Annunziata e rilanciata con clamore dai giornali - resta il dato di fondo: il Pd non sembra intenzionato ad alzare la voce, né a chiedere il rientro del contingente italiano, né a mettere in discussione la missione.

Intendiamoci, anche a sinistra i mal di pancia non mancano. Affiorano dubbi e richieste di correttivi (si leggano a pagina 40 le proposte di Arturo Parisi), mentre non nascondono il loro netto dissenso Antonio Di Pietro e quanto resta delle frange pacifiste e della sinistra radicale, alle quali il leader dell'Idv guarda con grande attenzione. Ma ciò comunque non sarà sufficiente a intaccare l'equilibrio raggiunto: né Pd né Pdl ingaggeranno una battaglia per riportare a casa, in dissenso con l'amministrazione Usa, i quattromila militari italiani che fanno parte del contingente Nato.

Il perché è presto detto. Fu il secondo governo di Silvio Berlusconi, nell'ottobre del 2001, un mese dopo l'11 settembre, a concordare con il presidente-amico George W. Bush la partecipazione italiana all'operazione militare in Afghanistan. Quando due anni dopo si trattò di mandare laggiù i nostri militari, il dibattito parlamentare fu lungo e nervoso, ma alla fine il compromesso che consentì al centro sinistra di non votare contro fu trovato proprio nella definizione di "missione di pace". Missione armata e blindata, ma pur sempre di pace.

Ottimismo? Diplomazia? Ipocrisia? Allora si rispose ricordando che l'Italia fa parte di http://espresso.repubblica.it/dettaglio/la-pace-con-le-bombe/2136432

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un'alleanza e che sarebbe stato miserevole tradirla nel momento più grave. Farlo oggi, e in

splendida solitudine, sarebbe impossibile, pena una grave perdita di credibilità internazionale.Poi nel 2006 toccò al presidente del Consiglio Romano Prodi e al suo ministro della Difesa, Parisi, raccogliere dal governo di centro destra il bastone del comando, confermare la missione e pure rinforzare il contingente. Del resto sarebbe stato ben difficile per il centro sinistra negare ciò che aveva concesso quando non era al governo, e ancora più arduo sarebbe oggi invocare un ritiro unilaterale: la responsabilità non può essere a corrente alternata. E poi, rifiutare a Barack Obama ciò che è stato permesso a Bush?

Detto questo, gli avvenimenti recenti - politici e militari - e un nuovo inquilino alla Casa Bianca impongono che si riapra la discussione, e naturalmente in Parlamento. Dove però è opportuno che il governo arrivi con idee chiare e proposte limpide, perché non si può chiedere a una mozione parlamentare ciò che è prima di tutto nella responsabilità dell'esecutivo. Torna alla mente la polemica aperta da Francesco Cossiga al suo arrivo al Quirinale: "Chi comanda in caso di guerra?", chiedeva il presidente fresco di elezione. Sembrò un interrogativo bizzarro, e invece conteneva in nuce questioni decisive.

Ma certo non può esserci responsabilità senza chiarezza, senza trasparenza. Se scappare è impossibile e disdicevole, è allora arrivato il momento di sapere che cosa pensa il governo degli ambigui rapporti tra il leader afghano Karzai e i capi dei Talebani; che cosa veramente sono chiamati a fare i militari italiani in Afghanistan e cosa distingua, come ricorda Parisi, le missioni di pace dalle attività "per la pace", per ottenere la quale può essere necessario sparare, uccidere, morire.Sapere.

Lo impone l'esercizio della democrazia, lo pretende la maturità di un Paese: se si deve restare laggiù è bene farlo consapevolmente. È necessaria un'operazione verità. "L'espresso" questa settimana dà il suo contributo pubblicando in esclusiva documenti riservati su operazioni condotte da militari italiani in Afghanistan. Scelta difficile, ma doverosa.

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Afghanistan, ecco la veritàdi Gianluca Di Feo e Stefania Maurizi (tratto da “L’Espresso” del 21 Ottobre 2010)I civili uccisi. Le battaglie dei parà che La Russa non ha mai rivelato. I feriti italiani tenuti nascosti. E poi le stragi di talebani, le azioni coperte degli 007, i tradimenti e i doppi giochi. Ecco il vero volto della nostra 'missione di pace'. Nei file scoperti da Wikileaks e consegnati a L'espresso

«Molti leader talebani nel distretto di Farah vogliono organizzare attacchi contro gli italiani. Gli abitanti sono favorevoli alle truppe della Nato e sostengono gli italiani perché si stanno impegnando per rendere sicura la regione. I guerriglieri hanno paura dei "veicoli neri" della Folgore mentre non temono le jeep color sabbia degli americani e delle forze occidentali. Il capo dell'intelligence locale ritiene che questo terrore nasca dalle perdite che la Folgore ha inflitto ai miliziani nelle ultime operazioni». Eccoli i due volti della guerra in Afghanistan. Quello che ci viene raccontato da anni, con i nostri soldati che lavorano per aiutare la popolazione e proteggerla dagli estremisti islamici. E quello che è sempre stato nascosto, con i reparti italiani che combattono tutti i giorni e uccidono centinaia di guerriglieri. Una sterminata serie di scontri, con raid dal cielo e anche tra le case dei villaggi. Ma anche una missione che deve fare i conti con traditori e doppiogiochisti, con militari afghani addestrati dalla Nato che invece aiutano i talebani, con sospetti sul destino di centinaia di milioni di euro di aiuti pagati anche dall'Italia per la ricostruzione del Paese e scomparsi nei ministeri di Kabul. Una cronaca di reparti con la bandiera tricolore che sparano migliaia di proiettili in centinaia di battaglie, sfidando le trappole esplosive e le imboscate, convivendo con il terrore dei kamikaze che rende ogni auto una minaccia, mentre gli elicotteri Mangusta esplodono raffiche micidiali, incassando spesso i razzi dei talebani. 

"L'espresso" è in grado per la prima volta di ricostruire la guerra segreta degli italiani grazie ai nuovi documenti concessi da Wikileaks: l'organizzazione creata da Julian Assange che raccoglie atti riservati e li diffonde sul Web. Si tratta di oltre 14 mila rapporti dell'intelligence americana non ancora noti che il nostro settimanale presenta in esclusiva mondiale e che integrano i files divulgati due mesi fa: dossier che mostrano anche la lotta senza quartiere tra spie con una serie di episodi misteriosi. Funzionari italiani che sparano contro uomini dei servizi afghani e vengono poi arrestati da questi ultimi, un presunto terrorista prigioniero degli americani che viene consegnato al nostro governo e trasferito a Roma. Sono tutti documenti ufficiali, raccolti dai comandi Usa, in cui i reparti italiani spesso compaiono con i loro nomi di battaglia, Lupi, Fenice, Vampiri, Cobra, Tigre, Lince, o con gli acronimi delle loro Task Force, Center, North, South, TF45: resoconti in codice che raccontano l'orrore di battaglie e spesso anche la correttezza degli uomini che rischiano la pelle per non coinvolgere civili negli scontri. Un diario impressionante in cui sono elencate diverse centinaia di combattimenti, con decine di italiani feriti in modo più o meno grave di cui non si è mai saputo nulla. Il database parte dal 2005 e arriva fino al 31 dicembre 2009: "L'espresso" si è concentrato sulle informazioni dello scorso anno, quando rinforzi e http://espresso.repubblica.it/dettaglio/afghanistan-ecco-la-verita/2136377/

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nuove regole d'ingaggio hanno provocato l'escalation delle operazioni sotto bandiera tricolore. 

Battaglie taciuteTra maggio e dicembre la Folgore ha cambiato il volto della presenza italiana in Afghanistan. I parà, sostenuti da elicotteri da combattimento Mangusta e dai blindati dei bersaglieri, sono andati alla caccia dei talebani per riprendere il controllo di territori sperduti. E, altra differenza, hanno cominciato ad operare fianco a fianco con gli americani, oltre che con le truppe afghane. I files segnalano oltre 200 scontri in cui sono stati coinvolti i nostri soldati, ma è una raccolta parziale che contiene solo le notizie trasmesse agli Usa. 

Uno dei combattimenti più discussi avviene il 31 maggio 2009 intorno alla base Colombus. Siamo a Bala Murghab sulla frontiera occidentale, il settore strategico per esportare l'oppio che finanzia i talebani. Un confine invisibile: i files segnalano inseguimenti che proseguono nel territorio turkmeno. Poco prima del tramonto, sulle postazioni italiane e su quelle degli alleati afghani cominciano a piovere razzi. I parà rispondono anche con i mortai pesanti da 120 millimetri, quattro granate potenti come cannonate. Poi arriva una coppia di elicotteri Mangusta, che spara almeno un missile Tow «neutralizzando gli avversari». Il primo rapporto del comando italiano sostiene che siano stati uccisi 25 guerriglieri: 20 dai mortai e cinque dal missile.Ma il dossier viene corretto nove giorni dopo: ci sarebbe anche un civile ucciso e due feriti. «Non si sa chi li abbia colpiti. Un'indagine è in corso». Non si può escludere quindi che siano vittime dei talebani. La base Columbus nel maggio 2009 viene attaccata quasi tutti i giorni. Uno degli assalti meglio organizzati è all'alba del 9, con più gruppi di guerriglieri che massacrano un plotone di soldati afghani mentre razzi piovono sulle postazioni italiane. I parà escono dal fortino per soccorrere gli alleati, ma vengono aggrediti alle spalle. A quel punto i mortai pesanti aprono il fuoco. Si spara per oltre tre ore. Alla fine il bilancio è drammatico: 11 soldati afghani morti, 12 finiti nelle mani dei fondamentalisti, un civile ucciso e uno ferito, tre italiani colpiti in modo non grave. Si stima che 20 talebani siano stati ammazzati e dieci feriti, ma nessuno può confermarlo: queste vittime vengono catalogate con una formula di incertezza. Due giorni dopo un uomo e un ragazzo feriti da proiettili si presentano alla base in cerca di cure: un elicottero italiano li trasporta in ospedale.

I limiti dell'autodifesaCome accade in tutti gli eserciti del mondo, le forze Nato in Afghanistan si comportano in modo molto più determinato quando bisogna salvare commilitoni sotto attacco. L'apocalisse nella zona controllata dall'Italia è l'11 giugno. Una squadra di americani e afghani finisce in trappola nelle viuzze di un villaggio. Una ventina di loro vengono feriti in pochi minuti, anche l'elicottero che li soccorre incassa un http://espresso.repubblica.it/dettaglio/afghanistan-ecco-la-verita/2136377/

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razzo. A quel punto si scatena un diluvio di fuoco «in una zona densamente popolata»: viene usato tutto l'arsenale statunitense, razzi al fosforo bianco, dieci bombe, 2.300 proiettili da 30 millimetri. Infine l'ordigno più grande: la Bunkerbuster da 2 mila libbre che spazza via un edificio dove i talebani si erano barricati. Nel combattimento muoiono sei americani e 19 afghani. Nessuna informazione sulle vittime civili. Gli italiani partecipano solo ai soccorsi. Ma come fanno poi i civili a distinguere tra noi che amministriamo il territorio con grande rispetto per la popolazione e chi bombarda? Le divise sono pressoché identiche e i reparti vanno in azione sempre più spesso insieme.

Due mesi di fuocoPer rendersi conto di quello che fanno le truppe mandate in Afghanistan per volontà bipartisan del Parlamento basta esaminare i files relativi a due soli mesi. Un campione impressionante della situazione, nonostante si tratti di rapporti parziali. Partiamo dal 16 giugno 2009. La Task Force Lince finisce sotto attacco, risponde usando anche mortai leggeri: si ritiene che i talebani uccisi siano sei. Il 20 nuova sparatoria, tre giorni dopo un blindato finisce su una mina, ma l'equipaggio se la cava. Il 25 una pattuglia combatte a sud, verso il confine iraniano. 

Il 27 a nord verso Bala Murghab un lungo scontro: cinque guerriglieri uccisi. Quasi contemporaneamente a sud si spara per ore per salvare un convoglio di camion americani. Una colonna italiana interviene, ma viene bloccata dalle pallottole. Dal cielo arriva una coppia di elicotteri, si ritiene Mangusta, che spara 20 colpi da 20 millimetri. A dirigere il tiro è un commando italiano, nome in codice Bardo 5. Si stima che sei aggressori restino sul campo. Poche ore dopo un'altra squadra della Folgore viene centrata: salta in aria un Lince, ma c'è solo un ferito leggero. Il 28 fuoco con mitragliere e mortai: un nemico ucciso. Il giorno dopo bomba contro un convoglio logistico: un italiano ferito e un mezzo danneggiato. Il 30 all'alba razzi contro la base Tobruk, che risponde con i mortai da 120, e poco più tardi ancora un raid per aiutare poliziotti afghani in difficoltà.

Il 2 luglio uno scontro confuso. Ci sono agenti "amici" intrappolati in un edificio. Parà italiani e soldati afghani intervengono, ma sembra che i poliziotti gli sparino contro. Arrivano due elicotteri Mangusta che non risparmiano munizioni: 424 proiettili con il cannoncino e un missile. Nessuna valutazione delle vittime. Il giorno dopo a sud un kamikaze su una moto si lancia contro un blindato italiano: il mezzo si rovescia, due soldati restano feriti. Il 4 all'alba c'è una scaramuccia intorno a un ospedale. Poi nella luce del tramonto i talebani attaccano la cittadella di Herat, dove c'è il comando e vivono quasi 2 mila militari italiani: tirano sette razzi. Due Mangusta decollano e danno la caccia agli incursori, sparando raffiche d'avvertimento. L'indomani una colonna viene bersagliata, ma quando arrivano i caccia americani i miliziani scappano. Il 7 attacco con ordigno e reazione contro gli attentatori in fuga: uno ucciso, uno ferito e uno catturato. Il 9 una pattuglia nei guai risolve la situazione a colpi di mortaio. Il 12 razzi contro le basi Tobruk e Tarquinia. Il 14 a Farah una bomba capovolge un Lince: il mitragliere http://espresso.repubblica.it/dettaglio/afghanistan-ecco-la-verita/2136377/

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Alessandro Di Lisio muore, altri due parà all'interno vengono feriti in modo leggero. Il 15 cercano di lanciare un missile contro l'aeroporto di Herat. Il 20 razzi contro la base Tobruk: colpiscono anche una casa, un civile morto e tre feriti. Il giorno dopo a Bala Murghab due bambini finiscono su un ordigno destinato ai parà: uno muore, l'altro viene ferito.Il nostro mese di fuoco si chiude con una giornata di sangue. Il 25 luglio un autobomba a sud esplode al passaggio di una colonna italiana: il Lince salva la vita di quattro soldati, che riportano solo ferite. Nelle stesse ore a Bala Baluk una compagnia in ricognizione cade sotto il tiro incrociato di razzi, mortai e mitragliatrici. C'è un ferito. Dalla base partono i rinforzi. Ma i talebani sono bene appostati, sparano da case abitate e bloccano la ritirata. I parà rispondono anche con mortai. Arrivano i Mangusta che lanciano un missile «in campo aperto», poi usano il cannone: 210 proiettili contro una casa. C'è pure un bombardiere americano, ma non gli viene permesso di sganciare: si rischiano vittime civili. Anche una compagnia di rinforzi afghani finisce sotto tiro. Nuova battaglia, i reparti si uniscono e si aprono la strada sparando tra le abitazioni fino al fortino. Recita il rapporto: «Il fuoco è stato richiesto per autodifesa, al fine di permettere all'unità di uscire dalla trappola. Non sono stati visti civili dentro o intorno i luoghi da cui proveniva il fuoco nemico». La prima stima è di 45 guerriglieri uccisi «ma non è stato possibile verificarlo perché le case erano presidiate dai talebani». Il bilancio finale è di 25 morti, confermato dalle nostre fonti di intelligence.

Cannoniere volanti I Mangusta sono attivissimi. Vengono invocati in continuazione: volano a bassa quota, si ritiene che possano mirare con precisione, limitando i danni collaterali. A leggere i rapporti, non si capisce perché il ministro Ignazio La Russa ponga la questione delle bombe sugli aerei: basterebbe aumentare il numero degli elicotteri, che hanno missili filoguidati e cannoni a tiro rapido. E che spesso - come indica il gergo Nato - "go kinetic" ossia fanno fuoco a volontà. Anche gli americani li invocano. Come quando il 16 agosto una squadra statunitense viene imbottigliata nel villaggio di Siah Vashan. I velivoli italiani gli permettono di fuggire con 400 colpi «in un campo aperto».

I talebani cercano in tutti i modi di abbatterli. Il 26 maggio 2008 uno dei nostri elicotteri riceve anche l'allarme laser: il segnale che un missile nemico lo ha inquadrato. Almeno due Mangusta e un Agusta della Marina vengono colpiti da pallottole. Il 9 luglio 2009 i talebani organizzano un agguato su vasta scala. Una mina esplode al passaggio di un convoglio italo-spagnolo: ci sono 4 feriti gravi feriti. Dopo venti minuti arrivano due eliambulanze spagnole e scatta l'imboscata: cecchini sparano dai tetti, altri sono nascosti tra gli alberi. I soccorritori volano via e sulla scena irrompono due Mangusta che "la ripuliscono dagli insorti" a cannonate. Il 18 agosto 2009 i miliziani gli lanciano contro due razzi che esplodono a pochi metri. Poco ore più tardi un'altra coppia di Mangusta soccorre una squadra italo-afghana: appena gli "insorti" li sentono, scappano. Il giorno dopo stesso servizio per liberare una http://espresso.repubblica.it/dettaglio/afghanistan-ecco-la-verita/2136377/

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compagnia statunitense. Il 3 settembre i commandos spagnoli sono in difficoltà vicino al Sabzak Pass. Due coppie di Mangusta si alternano per coprirli con raffiche intense: gli vengono attribuiti 19 nemici uccisi e otto feriti.

Ma c'è chi ci aiutaIn diverse occasioni è la popolazione a segnalare agli italiani i pericoli, segno che riusciamo a farci stimare. In un paesino i bambini, normalmente festosi, rifiutano le bottiglie d'acqua offerte dai nostri fanti. I soldati all'inizio sono sorpresi, poi capiscono e danno l'allarme: «Gli insorti ci stanno sorvegliando, possibile presenza nemica nelle abitazioni». Il 23 settembre 2009 una squadra sta percorrendo la strada alle porte del villaggio di Parmakan. Un civile li ferma: «Attenti è pieno di talebani». Ma è troppo tardi. I guerriglieri sono ben piazzati, aprono il fuoco da due diverse posizioni con razzi, mitragliatrici e mortai. C'è un parà ferito in modo grave, gli altri sparano senza sosta. Arrivano due caccia, ma ci sono troppe case per bombardare: sganciano solo scie luminose, che convincono i fondamentalisti a fuggire, lasciandosi alle spalle quattro morti e otto feriti. Ci vuole poco però a perdere il consenso della gente. Quattro giorni dopo americani e commandos afghani cadono in un'imboscata

nelle vie di un villaggio. Ci sono cecchini sui tetti, altri tra le case. Poi arrivano gli aerei. I caccia vanno in picchiata con migliaia di colpi da 30 millimetri, due bombe, un razzo al fosforo bianco. Il rapporto indica che «tutte le coordinate colpite sono un'area abitata». Sembra che il governatore e il comando italiano vengano tenuti all'oscuro del volume di fuoco. E all'indomani nei due ospedali di Farah e Balah Baluk si presentano molti civili feriti.

Natale di bombeLa Folgore ha una singolare fantasia nello scegliere i nomi delle operazioni. Quando arriva in Afghanistan lancia l'operazione "Buongiorno", per far capire ai talebani che il clima è cambiato. Poi scatta "Bestia feroce" e con l'avvicinarsi del Natale ecco "Guastafeste". Ma il pomeriggio del 25 dicembre i talebani festeggiano a modo loro: attaccano una pattuglia Usa in un borgo non lontano dal fortino di Bala Baluk. Si muove la compagnia Cobra delle nostre forze speciali: 39 soldati e dieci Lince, in due colonne. I talebani li bloccano. Loro rispondono con 4 mila proiettili. Ma non basta. Dalla base tirano con i mortai da 120. Poi arrivano gli aerei: due bombe e tutti rientrano incolumi nell'avamposto per cena.

Due giorni dopo si combatte ancora nello stesso villaggio, i talebani sparano da tre case. I jet sganciano due bombe su una postazione fuori dal paese, ma viene proibito l'attacco sulle abitazioni. Il raid sembra avere riportato la quiete e comincia il rastrellamento. I Cobra si appostano, gli americani http://espresso.repubblica.it/dettaglio/afghanistan-ecco-la-verita/2136377/

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entrano nel paese. Ma dai tetti rispuntano i cecchini talebani. Volano raffiche e razzi. Ed ecco di nuovo gli stormi americani: quattro bombe vengono dirette sugli obiettivi. Quattro le case sbriciolate: si stima che 25 guerriglieri siano morti, ma controllare è troppo pericoloso. Il giorno dopo due bambini feriti si presentano al cancello della base: dicono che la madre è stata ammazzata. Raccontano una storia agghiacciante: la loro famiglia è stata tenuta in ostaggio dai talebani. Il rapporto è laconico: «Si ritiene che la bomba sganciata contro la casa confinante l'abbia uccisa». 

Chi ci spara controI resoconti dell'intelligence americana mostrano la sfiducia nei confronti delle forze afghane, spesso addestrate dagli italiani. La diffidenza massima è nei confronti della polizia locale. A Herat, nel capoluogo della regione dove sventola il tricolore, sono ancora più espliciti: "La maggior parte della polizia afghana non può essere giudicata affidabile, perché molti dei poliziotti lasciano i loro posti e spesso si arruolano nelle fila dei talebani. Molti lo fanno perché non vengono pagati. Non è chiaro dove vanno a finire i soldi destinati agli stipendi». Gli agenti arrotondano con i sequestri di persona, a danno di possidenti, un business molto proficuo: "Si pensa che rapitori ed alti ufficiali della polizia siano d'accordo".

Il vicegovernatore di un'area nel nostro distretto si vanta di «avere un fratello nei talebani». Molto spesso sulle informative degli 007 è scritto in evidenza: «Queste notizie non devono essere condivise con il governo di Kabul e la polizia». L'episodio più grave è avvenuto il 29 dicembre nella base Columbus. Un soldato afghano ha fatto fuoco sui suoi alleati occidentali, uccidendo un americano e ferendo due italiani. Pare che l'obiettivo fosse un elicottero appena atterrato. Il 21 dicembre, dopo una lite, scoppia una battaglia davanti all'ingresso principale della cittadella di Herat, comando di tutte le nostre truppe: poliziotti afghani contro soldati afghani. La stessa scena si ripete cinque giorni dopo su un ponte. Spesso gli afghani sparano senza motivo: una pattuglia di bersaglieri descrive come abbiano distrutto un negozio in un villaggio alle porte di Bala Murghab. Persino quattro uomini assoldati per la sicurezza dell'ambasciata di Kabul vengono indicati come complici dei talebani e rimossi. E c'è il sospetto che l'attentato in cui è stato ammazzato un artificiere italiano sia stato organizzato con la complicità di poliziotti. Molti di loro però pagano con la vita il sostegno agli occidentali: due agenti vengono decapitati a Chin. A un altro ufficiale uccidono la figlia e feriscono la moglie. Il 3 giugno i parà italiani scoprono un camion con i corpi di 12 civili, rapiti e assassinati perché lavoravano per gli americani.

I bambini perduti Le informative occidentali e anche quelle italiane evidenziano come i talebani puntino a usare i bambini per i loro piani criminali. Viene descritto l'addestramento di dodicenni, destinati a diventare kamikaze alla guida di autobombe. Ci sono progetti dettagliati per stroncare la campagna di scolarizzazione laica http://espresso.repubblica.it/dettaglio/afghanistan-ecco-la-verita/2136377/

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e spingere i piccoli verso le madrasse, le scuole religiose che formano i quadri talebani. Temono il successo delle aule costruite dagli italiani: studiano come avvelenare il cibo donato dagli occidentali ai centri di istruzione e di infiltrare fondamentalisti tra gli insegnanti selezionati dal governo di Kabul. Nelle informative si parla anche di gas e sostanze chimiche per mettere a segno attentati clamorosi contro i fiancheggiatori della Nato. Ci sono stati anche sospetti sull'incendio che ha distrutto l'accampamento della Task Force 45, l'unità speciale di commandos italiani, a Farah: le fiamme hanno fatto esplodere la scorta di munizioni e una granata ha centrato un elicottero americano parcheggiato nelle vicinanze. Ma alla fine la causa è stata individuata in un difetto del gruppo elettrogeno.

L'intelligenceI files di Wikileaks mostrano un grande attivismo dei nostri servizi segreti, sul campo e nei Paesi chiave per conoscere le mosse dei talebani. Nel 2009 il comando italiano ha ricevuto 255 rapporti su minacce di attentati e movimenti dei guerriglieri. Gli americani sembrano diffidare di molte delle nostre fonti e selezionano questi dossier, dandogli gradi di affidabilità limitati. E sul campo accadono episodi molto oscuri. Un nostro ufficiale alla guida di una colonna spara contro un agente dei servizi segreti di Kabul. Pare che gli 007 di Karzai avessero bloccato una nostra missione sul campo: dopo la sparatoria arrestano tutti gli italiani, rilasciandoli dopo alcuni giorni. Ancora più enigmatica è la consegna al governo di Roma di un prigioniero custodito dagli americani: dovrebbe trattarsi di un terrorista straniero. Lo scambio avviene il 20 dicembre 2009 all'aeroporto di Bagram e l'uomo prende il volo con un Hercules dell'Aeronautica. Chi è? Perché interessava tanto alle nostre autorità? Nel documento ci sono solo codici cifrati, e niente nomi.

Tra tanti files confidenziali, uno è particolarmente suggestivo: ha il titolo "Berlusconi" e racconta la nascita di una protesta popolare anti-americana e anti-Karzai in un distretto del Nord, affidato ai tedeschi, in sostegno del generale Dostum, leggendario signore della guerra. Il dossier fa riferimento a informazioni di un documento del febbraio 2008 con il nome del premier, che in quei giorni era impegnato nella campagna elettorale. Perché chiamarlo proprio con il nome del Cavaliere? L'ultimo mistero di una guerra tenuta nascosta agli italiani, una missione dove la pace è un ricordo remoto. E dove ogni giorno quasi quattromila militari combattono e rischiano la vita per portare a termine il compito che gli è stata assegnato da governo e parlamento.

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Il nostro incontro col fondatore di Wikileaksdi Stefania Maurizi (tratto da “L’Espresso” del 21 Ottobre 2010)

Julian Assange è sempre in movimento da una città all'altra. Con il computer portatile in cui sono nascosti tutti i suoi segreti. E il terrore che i suoi avversari gli nascondano qualcosa nel bagaglio per poterlo incastrare

L'ultimo appuntamento è in una grande capitale europea. Al buio, come tutti i contatti lanciati dai suoi ragazzi. Dopo la pubblicazione del primo database di documenti segreti sottratti al Pentagono, Wikileaks è diventato il pericolo pubblico numero uno delle autorità statunitensi. E il fondatore, Julian Assange, una sorta di leggenda, idolatrata e odiata: il capo dei pirati informatici che hanno beffato la più grande potenza mondiale o l'uomo che mette a rischio la sicurezza internazionale.Dopo il clamore per la fuga di notizie più massiccia mai avvenuta, che ha messo a nudo tutti i lati oscuri della guerra condotta in Afghanistan dalla Nato, Assange si è inabissato. Poi la vicenda oscura delle accuse di stupro, lanciate contro di lui da due ragazze svedesi, immediatamente confermate dai magistrati di Stoccolma e smentite dagli stessi neppure ventiquattr'ore dopo. Il tempo di una veloce autodifesa in pubblico ed è scomparso.Alla fine "L'espresso" è riuscito a incontrare l'uomo che la Cia e l'Nsa vorrebbero torchiare. "Ecco il mio bagaglio", dice, mostrando una bustina di plastica trasparente, che contiene solo una t-shirt e quattro flaconcini di sapone: è tutto quello che gli hanno consegnato all'aeroporto di arrivo, perché, racconta, la sua valigia si è smarrita. "Strano che si sia persa", commenta: "Per venire qui ho preso un volo diretto". Poi apre una borsa a tracolla e tira fuori l'armamentario su cui tutte le agenzie d'intelligence del mondo vorrebbero mettere le mani: un computer Mac e una valigetta minuscola da cui estrae foglietti di carta tipo pizzini. La sua arma segreta è quella. "Questo computer invece sta sempre con me, non può sparire". Poi si infila le mani nel maglione a collo alto e tira fuori una chiavetta Usb fissata a un cordoncino. "Anche questa sta sempre con me". Un sorriso fugace e si rabbuia di nuovo: "Forse nella valigia vogliono metterci qualcosa?", commenta, "una microspia o materiale pedopornografico?". Eccolo Julian Assange: si materializza lui e, fedele come la sua ombra, si materializza la paranoia

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