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La mitologia bianca. La metafora nel testo filosofico :: in Jacques Derrida, Margini della filosofia, tr. it. di M. Iofrida, Einaudi, Torino 1997 | commenti (3) postato da Tez, giovedì, 14 settembre 2006 Questo luogo deserto e abbandonato ha la levigatezza di una pietra consumata dal mare. Senza asperità, senza colore, suoni, ecco la perfezione. . . . . incursione su un'isola deserta | commenti (2) postato da Tez, mercoledì, 20 luglio 2005 Timpano, 11 "A quali condizioni allora si potrebbe marcare, per un filosofema in generale, un limite, marcare un margine che esso non possa all'infinito riappropriare in sé, concepire come suo (...)?". . . . . Se posso permettermi ... | commenti (9) postato da floria1405, lunedì, 14 febbraio 2005 Io, che non sono filosofa (piuttosto filologa), possibile che Derrida ci abbia domati fino a questo punto? Non sarebbe possibile riprendere la discussione, magari in altro modo? L'idea di un "blogseminario", non era cosi' malvagia: forse si tratta di un esperimento che potremmo recuperare. Insomma, proviamo almeno a discuterne (comunque ci ho provato). . . . . Appunti sul terzo paragrafo | commenti (2) postato da Tez, giovedì, 02 dicembre 2004 3. L'ellissi del sole: l'enigma, l'incomprensibile,

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La mitologia bianca. La metafora nel testo filosofico ::in Jacques Derrida, Margini della filosofia, tr. it. di M. Iofrida, Einaudi, Torino 1997

| commenti (3)postato da Tez, giovedì, 14 settembre 2006

Questo luogo deserto e abbandonato ha la levigatezza di una pietra consumata dal mare. Senza asperità, senza colore, suoni, ecco la perfezione.

. . . .incursione su un'isola deserta | commenti (2)postato da Tez, mercoledì, 20 luglio 2005

Timpano, 11

"A quali condizioni allora si potrebbe marcare, per un filosofema in generale, un limite, marcare un margine che esso non possa all'infinito riappropriare in sé, concepire come suo (...)?".

. . . .Se posso permettermi ... | commenti (9)postato da floria1405, lunedì, 14 febbraio 2005

Io, che non sono filosofa (piuttosto filologa), possibile che Derrida ci abbia domati fino a questo punto? Non sarebbe possibile riprendere la discussione, magari in altro modo? L'idea di un "blogseminario", non era cosi' malvagia: forse si tratta di un esperimento che potremmo recuperare. Insomma, proviamo almeno a discuterne (comunque ci ho provato).

. . . .Appunti sul terzo paragrafo | commenti (2)postato da Tez, giovedì, 02 dicembre 2004

3. L'ellissi del sole: l'enigma, l'incomprensibile, l'inafferrabile

Nel paragrafo precedente Derrida ricorda, tra l'altro, come all'origine delle opposizioni (senso/significante metaforico; spazio-tempo; concetto-dato sensibile; essenza-accidente; pensiero-linguaggio) vi sia l'assunzione di un "essere", di un'essenza indipendente dalla metafora. Questa dell'in sé, del trascendente, è in fondo la tesi fondamentale della filosofia.

Tale essenza non può ovviamente essere padroneggiata come una cosa posta di fronte a noi (qualcosa di simile all'essere parmenideo). Non può comunque rientrare né in una retorica né in una metafilosofia (citato Bachelard di cui non so nulla), a causa del fatto che in esse si pone come dato proprio ciò che è da dare.

Compiere un misfatto inconsapevolmente. L'irrazionale sta nell'inconsapevole, fuori dal fatto, fuori da ciò di cui si tratta, ciò che è presente, attuale. Alludere a qualcosa come un'origine nascosta è un

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misfatto?

Perché la retorica non è adatta a determinare questa essenza (ciò di cui la metafora narra)? Quando la retorica definisce la metafora, può farlo all'interno di una rete concettuale nella quale la stessa filosofia si è costituita (in fondo l'idea di Putnam). Ora, se tale rete concettuale ha origini metaforiche (c0me nel caso di "concetto", "senso") allora il definito (la metafora) è già implicato nella definizione.

Derrida: non si presuppone alcuna continuità nella tradizione retorica, ma neppure si tralasceranno le costruzioni più durature. Che criterio è questo? Sospettoso ma anche rispettoso. C'è una retorica dietro ogni discorso sulla metafora.

Comincia il confronto con la concezione aristotelica, Poetica, 1457 b. Aristotele non ha inventato né parola né concetto di metafora, ma ne ha proposto la sistemazione più utilizzata storicamente. Studio del terreno sul quale la definizione aristotelica è cresciuta.Controllo del testo che su tale terreno deve essere scritto.Qui non un commento al testo aristotelico, ma un'analisi, un'interpretazione attiva.

Aristotele: la metafora è il trasporto ad una cosa di un nome che ne designa un'altra. Trasporto dal genere alla specie, o dalla specie al genere, o dalla specie alla specie o secondo il rapporto di analogia.Questa è la definizione più esplicita della metafora, analizzabile quale tesi metaforica e filosofica.( Aristotele è il primo a considerare la metafora come la forma generale di tutte le figure retoriche).

I luoghi della metafora in Aristotele: Poetica e III Libro della Retorica.

Della dianoia (pensiero) tratta la Retorica; essa non è manifesta in sé, ma attraverso l'atto di parola (lexis); in questo consiste l'essenza della tragedia e la sua attività. E' nel divario tra dianoia e lexis che nasce la condizione di possibilità della tragedia: il pensiero del personaggio non può essere manifesto in quanto deriva dal linguaggio. Noi non solo dobbiamo poter dire altro da ciò che pensiamo, ma esistiamo quali personaggi tragici proprio perché parliamo. C'è tragedia in quanto c'è uno scarto, il quale si manifesta sotto forma di metafora (ma qui, allora, Aristotele insinua che il pensiero è in sé indicibile, e si manifesta tragicamente e unicamente quale metafora di se stesso?).

Se il linguaggio non è manifesto in sé, c'è metafora. La metafora esiste in quanto si suppone che qualcuno manifesti con un'enunciazione un dato pensiero che in se stesso resta non apparente, nascosto o latente. La metafora è un avvenimento del pensiero che cerca di dirsi, di portarsi alla luce della lingua. Ma la teoria della metafora non era, all'inverso, una teoria del senso originario, della naturalità? La metafora non si saldava a un perno originario stabilito tra un nome e una cosa sensibile, empirica?

Nella Poetica Aristotele lascia da parte la dianoia (assegnata alla Retorica). Nella Poetica definisce le parti della lexis, tra cui il nome (onoma) ed è in questo punto che tratta della metafora. Onoma, il nome, è intelligibile di per sé stesso (ha immediato rapporto con un'unità di senso). Il campo dell'onoma (e della metafora quale veicolo di un nome) è relativo a ciò che può essere nominalizzato, ovvero ciò che pretende di possedere un significato completo e indipendente (metafora come trasporto di categoremi, Husserl??). La tesi sempre presente: la metafora trae origini da nomi di oggetti sensibili.

Derrida: la vera metafora si mantiene nei limiti del nome aristotelico. Cosa è il nome per Aristotele? E' la prima unità semantica, il più piccolo elemento significante. Prima di definire il nome, Aristotele enumera le parti della lexis: la lettera è un elemento fonico, atomo di voce e non forma

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grafica. La lettera non ha senso ma deve poter entrare naturalmente nella composizione di un'unità di senso, tra cui un nome. La lettera è un suono inserito nel linguaggio.

Il proprio dei nomi è di significare qualcosa. Solo all'interno di una struttura che abbia un senso e un riferimento (cioè la possibilità di significare qualcosa per mezzo di un nome) si può distinguere tra lettera e suono non inseribile nel linguaggio (tipo il grido di un animale).

Il nome, come ciò che significa qualcosa come un ente a sé stante, s'intreccia con l'ontologia, con l'articolazione metafisica del mondo aristotelico, diviso secondo generi e specie.

Per costruire una buona metafora occorre riconoscere il simile, si deve esser capaci di mimesis. La condizione della metafora è anche condizione della verità: vi deve essere anticipatamente o la realtà oppure la credenza in una consistenza, una coerenza, una regolarità del mondo, una costanza del riferimento.

La mimesis è un movimento naturale in quanto coglie somiglianze (imita) una struttura fondamentale che si tiene su una coerenza di fondo, quella che consente appunto che vi sia qualcosa di simile (anche se ciò potrebbe benissimo avvenire a livello soggettivo). Il potere di verità come svelamento della natura (physis) per mezzo della mimesis, è congenito alla fisica dell'uomo.

Per Aristotele la poesia nasce, così come la metafora, da due cause naturali: imitare è naturale, l'imitazione è il proprio dell'uomo, il quale grazie alla sua capacità innata di imitare differisce dagli animali. Il piacere naturale dato dall'imitazione è la seconda causa.

Linguaggio-lexis, imitazione-mimeis, pertanto la metafora, sono vere in quanto e solo in quanto trovano il loro perno e condizione di possibilità nel mondo di cose cui corrispondono nomi. La metafora, per effetto di mimesis e homoiosis, manifestazione dell'analogia, sarà dunque un mezzo di conoscenza. Il che vuol dire: il nome significa all'interno di un campo concettuale che assegni al nome un ente autonomo, coerente con se stesso, perdurante nel tempo ed esteso nello spazio. La mimesis coglie somiglianze tra questi enti che compongono un insieme organizzato come una molteplicità di generi che si tiene ed è analizzabile in base a un unico punto di vista; la mimesis non può dissociarsi dalla percezione teorica della somiglianza; sulla base di questa somiglianza scorta tra cose, sopraggiunge la metafora che si incarica di indicare nuovi rapporti tra generi e specie e fenomeni, sotto forma di riferimento opaco. Infatti la metafora (...) deve lavorare al servizio della verità, ma il padrone non può contentarsi di lei e deve preferire il discorso della verità piena. Il discorso della verità piena è quello del riferimento diretto tra nome e cosa.

Il piacere (seconda causa naturale): ciò che ci apporta conoscenza ci procura piacere. Una metafora che riesca a cogliere lontane somiglianze è associata da Aristotele al valore di energeia.

Il punto è che la somiglianza presentata dalla metafora non è un'identità. La mimesis metaforica procura piacere mostrando ciò che non si può dire in un suo doppio. Il mimema non è né la cosa stessa né qualcosa d'interamente altro. La metafora apre dunque una frattura nel campo semantico, invece di designare la cosa che il nome indica, porta altrove e apre la significazione a nuove possibilità.

Derrida sostiene che in un referenzialismo perfetto il linguaggio finirebbe col cancellarsi, non avendo più alcuna possibilità dinanzi alla cosa stessa. Prendendo per buona questa ipotesi, allora la lexis avviene quando ancora la verità - intesa come corrispondenza tra nome e cosa - non si è ancora manifestata nella sua pienezza. Questo è il luogo della metafora, in una natura ancora velata. L'assenza di verità della metafora dipende quindi da un'assenza determinata della cosa stessa.

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Per Aristotele, vi sono 4 tipi di metafora:

trasporto dal genere alla specie: l'esempio è "fermare la nave" anziché "ancorare" (dove fermare=genere e ancorare=specie);

trasporto dalla specie al genere: esempio "Ulisse ha compiuto migliaia di gesta" dove "migliaia" è una specie della molteplicità;

trasporto dalla specie alla specie: "estinguere una vita" anziché "togliere" (estinguere=specie; togliere=genere);

L'analogia: date due coppie di termini, il 4° va al posto del 2° e viceversa: "la coppa sta a Dioniso come lo scudo sta ad Ares" creano le metafore per analogia "la coppa di Ares" e "lo scudo di Dioniso".

Per Aristotele l'analogia è la metafora per eccellenza, in quanto innesta la metaforologia nella sua teoria dell'essere (?). Nell'esempio tutti e 4 i termini sono noti; ma quando il 4° termine non è noto? Aristotele dice: occorre inventarlo e illustra questa soluzione con l'esempio del sole. L'analogia sarebbe "seme:seminare=sole:x", da cui la metafora "seminare la luce". Come si è giunti a cogliere una somiglianza tra la semina e la diffusione dei raggi? congiungere insieme, pur dicendo ciò che è, dei termini inconciliabili. I termini in questione (raggi, sole, semi, semina) non sono in sé tropi; la metafora consiste nella sostituzione di nomi propri, cioè nomi che hanno un referente unico, fisso.Il nome proprio qui è il primo motore non metaforico della metafora, il padre di tutte le figure.

Aristotele accenna però a una lexis che sarebbe completamente metaforica, non rinviando ad alcun contenuto sensibile, o meglio negando tale contenuto e riferendosi ad altra metafora, come in "coppa senza vino" al posto di "coppa di Ares". Tale procedimento mette in imbarazzo Aristotele perché può dilungarsi all'infinito senza alcuna speranza certa di tornare a un nome proprio. Se in un'analogia tutti i termini sono metaforici, la fonte di verità diviene occulta. In Coppa senza vino vi è la sottrazione di note intensive, metafora negativa in cui non viene nominato in modo proprio alcun riferimento e niente ci assicura che ci ricondurrà al nome proprio. Sembra qui che la metafora possa sgorgare da sé, senza radicarsi in un nome proprio.

Il sole può seminare perché il suo nome è inscritto in un sistema di relazioni che lo costituisce. In un linguaggio, diremmo oggi.

Se la mimesis, quale percezione di una somiglianza naturale, nutre la metafora, allora quest'ultima è ritorno alla natura (disegnata in articolazioni che la rendono organica e legiferabile nei suoi fondamenti). La physis si dà nella metafora. Ecco perché la metafora è un dono naturale, che appartiene agli uomini in proporzione al loro genio. Genio è colui il quale sa trovare somiglianze nascoste. Ma dove si ferma il potere di sostituire? Qual è il limite? E' possibile che una metafora si basi solo su metafore, all'infinito? Sul margine di tale abisso Aristotele si deve fermare.

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. . . .La memoria | commenti (2)postato da Tez, mercoledì, 01 dicembre 2004

Sebbene questo seminario su Derrida viva un momento di secca, proseguo arditamente nello studio del testo. Presto pubblicherò il mio sguardo sul 3° paragrafo. A tutti

. . . .[DERRIDA] La mitologia bianca - Esergo (3/3) | commenti (1)postato da violentunknownevent, mercoledì, 24 novembre 2004

Questo dialogo dissimmetrico - falso - non merita di essere posto in esergo solo perché colpisce; e perché, colpendo non meno la ragione dell’immaginazione, esso incide il nostro problema in un’effigie teatrale. Esso ha altri titoli. Molto schematicamente:1) L’intento di Polifilo sembra appartenere ad una configurazione la cui distribuzione storica e teorica, i cui limiti, le cui divisioni interne, i cui sfalsamenti restano da interpretare. Guidata dalla questione della retorica, tale interpretazione dovrebbe interrogare tanto i testi di Renan[1] e di Nietzsche[2] (che entrambi, da filologi, hanno richiamato quella che consideravano come l’origine metaforica dei concetti, in specie di quello che sembra sostenere il senso proprio, la proprietà del proprio, l’essere) quanto quelli di Freud[3], di Bergson[4], di Lenin[5] che, attenti all’attività metaforica nel discorso teorico o filosofico, hanno proposto o praticato la moltiplicazione di metafore antagoniste al fine di meglio neutralizzarne o controllarne l’effetto. Lo sviluppo della linguistica storica nel XIX secolo è lungi dall’essere sufficiente a spiegare l’interesse per la sedimentazione metaforica dei concetti. E va da sé che la configurazione di questi motivi non ha un limite cronologico o storico lineare. Ben lo mostrano i nomi che abbiamo ora accostati e, per di più, le sfaldature che dobbiamo definire o mantenere passano all’interno dei discorsi firmati da un unico nome. Una nuova determinazione dell’unità dei corpus delle opere dovrebbe precedere o accompagnare l’elaborazione di queste questioni.2) Leggere in un concetto la storia nascosta di una metafora, è privilegiare la diacronia, a spese del sistema, e puntare su quella concezione simbolista del linguaggio che di passaggio abbiamo fatto rilevare: il legame del significante col significato ha dovuto essere e restare, benché sotterraneo, un legame di necessità naturale, di partecipazione analogica, di rassomiglianza. La metafora è sempre stata definita come il tropo della rassomiglianza; non semplicemente fra un significante e un significato, ma tra quelli che sono già dei segni, l’uno dei quali designa l’altro. E la sua caratteristica piti generale ed è ciò che ci ha autorizzato a riunire sotto questo nome tutte le figure cosiddette simboliche o analogiche evocate da Polifilo (figura, mito, favola, allegoria). In questa critica del linguaggio filosofico, interessarsi alla metafora - questa figura particolare - corrisponde dunque ad un partito preso simbolista. E interessarsi soprattutto al polo non sintattico, non sistematico, alla «profondità» semantica, al magnetismo della similarità piuttosto che alla combinazione posizionale, diciamo «metonimica», nel senso definito da Jakobson che giustamente sottolinea[6] l’affinità fra il predominio del metaforico, il simbolismo (sia, diremmo noi, come scuola letteraria che come concezione linguistica) e il romanticismo (più storico, cioè storicista, e più ermeneutico). Va da sé che la questione della metafora, quale qui la ripetiamo, lungi dall’appartenere a questa problematica e dal condividerne i presupposti, dovrebbe al contrario

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delimitarli. Tuttavia, non si tratta di sostenere simmetricamente quello che Polifilo prende come bersaglio; ma piuttosto di decostruire gli schemi metafisici e retorici che sono all’opera nella sua critica, non per rifiutarli o buttarli via come scarti ma per reinscriverli altrimenti e soprattutto per cominciare a identificare il terreno storico-problematico a partire dal quale è stato possibile domandare sistematicamente alla filosofia i titoli metaforici dei suoi concetti.3) Bisognava anche sottoporre ad interpretazione il valore di usura. Esso sembra avere un legame sistematico con la prospettiva metaforica. Lo si ritroverà ovunque il tema della metafora sarà privilegiato. E’ anche una metafora che trascina con sé un presupposto continuista: la storia di una metafora non avrebbe essenzialmente l’aspetto di uno spostamento, con rotture, reinscrizioni in un sistema eterogeneo, mutazioni, scarti senza origine, ma quello di un’erosione progressiva, di una perdita semantica regolare, di un impoverimento ininterrotto del senso primitivo. Astrazione empirica senza estrazione dal suolo natio. Non che il lavoro degli autori citati sia interamente consegnato a tale presupposto, ma vi fa ricorso ogniqualvolta fa dominare il punto di vista metaforico. Questa caratteristica - il concetto di usura - non appartiene senza dubbio ad una configurazione storico-teorica ristretta ma, piuttosto, al concetto di metafora stesso e alla 1unga sequenza metafisica che esso determina o che lo determina. E ad essa che, per cominciare, qui ci interessiamo.4) Per significare il processo metaforico, i paradigmi della moneta, del metallo, argento e oro, si sono imposti con una notevole insistenza. Prima che la metafora - fatto di linguaggio - trovasse la sua metafora in un fatto economico, è stato necessario che un’analogia più generale organizzasse gli scambi tra le due «regioni». L’analogia all’interno del linguaggio si trova rappresentata da un’analogia tra il linguaggio e qualcosa di altro da esso. Ma ciò che qui sembra «rappresentare», raffigurare, è anche ciò che apre lo spazio più ampio di un discorso sulla figura e non si lascia contenere più in una scienza regionale o determinata, la linguistica e o la filologia.L’inscrizione della moneta è il più delle volte il luogo d’incrocio, la scena dello scambio tra il linguistico e l’economico. I due tipi di significante si suppliscono nella problematica dcl feticismo, sia in Nietzsche che in Marx[7]. E Per la critica dell’economia politica organizza in sistema i motivi dell’usura, del «denaro che parla linguaggi […] differenti”, dei rapporti tra la “differenza di denominazione» e la «differenza di figura», della conversione del denaro in «oro sans phrase» e, reciprocamente, dell’idealizzazione dell’oro che «diventa simbolo di se stesso ma non può servire come simbolo di se stesso» («nessuna cosa può essere simbolo di se stessa», ecc.)[8]. Il riferimento sembra qui piuttosto nomico e la metafora linguistica. Che inoltre, almeno apparentemente, Nietzsche inverta la corrente dell’analogia, non è certamente cosa di poco significato, ma non deve dissimulare la possibilità comune dello scambio e dei termini: «Che cos’è allora la verità? Un mobile esercito di metafore, metonimie, antropomorfismi, in breve una somma di relazioni umane che, migliorate poeticamente e retoricamente, sono trasposte e abbellite e che, dopo un lungo uso, sembrano a un popolo salde, canoniche e vincolanti: le verità sono illusioni che abbiamo dimenticato siano tali, metafore divenute consunte e svuotate della forza dei sensi, monete che hanno perso la loro immagine e che vengono ora considerate solo come metallo, non più come monete»[9].Se si accetta la distinzione saussuriana, si dirà dunque che la questione della metafora rientra qui nel campo di una teoria del valore e non solo cli una teoria della significazione. E nel momento in cui giustifica tale distinzione che Saussure pone la necessità, per tutte le scienze del valore ma solo per esse, di incrociare le assi sincronica e diacronica (Corso di linguistica generale, pp. 98 sgg.). Egli sviluppa allora l’analogia tra l’economia e la linguistica: «[…] la dualità di cui parliamo si impone già imperiosamente alle scienze economiche. Qui, diversamente da ciò che accadeva nei casi precedenti, l’economia politica e la storia economica costituiscono due discipline nettamente separate in seno a una stessa scienza [...]. Procedendo in tal modo si obbedisce, senza rendersene ben conto, a una necessità intrinseca: ed è una necessità affatto simile che ci obbliga a scindere la linguistica in due parti aventi ciascuna il suo principio. Il fatto è che qui, come in economia politica, si è di fronte alla nozione di valore; in entrambe le scienze ci si occupa di un sistema di equivalenza tra cose di ordini differenti: nell’una un lavoro e un salario, nell’altra un significato e un

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significante» (ibid.).Per definire la nozione di valore, prima ancora che essa sia specificata come valore economico o valore linguistico, Saussure descrive le caratteristiche generali che garantiranno quindi il passaggio metaforico o analogico, per similarità o proporzionalità, da un ordine all’altro. Ora, una volta di più, la metaforicità per analogia è costitutiva di ciascuno dei due ordini quanto del loro rapporto.

Una volta di più è il pezzo da cento soldi a far le spese della dimostrazione:

[…] è necessario mettere in luce questo problema [rapporto fra significazione e valore], sotto pena di ridurre la lingua a una semplice nomenclatura […]. Per rispondere a un tale quesito, constatiamo anzitutto che anche fuori della lingua tutti i valori sembrano retti da questo principio paradossale. Essi sono sempre costituiti: 1) da una cosa dissimile suscettibile d’esser scambiata con quella di cui si deve determinare il valore;2) da cose simili che si possono confrontare con quella di cui è in causa il valore.

Questi due fattori sono necessari per l’esistenza d’un valore. Così per determinare che cosa vale un pezzo da cinque franchi, bisogna sapere: 1) che lo si può scambiare con una determinata quantità di una cosa diversa, per esempio del pane; 2) che lo si può confrontare con un valore similare del medesimo sistema, per esempio un pezzo da un franco, o con una moneta di un altro sistema (un dollaro ecc.). Similmente [corsivo mio] una parola può esser scambiata con qualche cosa di diverso: un idea; inoltre, può venir confrontata con qualche cosa di egual natura: un’altra parola. Il suo valore non è dunque fissato fintantoché ci si limita a constatare che può esser «scambiata» con questo o quel concetto, vale a dire che ha questa o quella significazione; occorre ancora confrontarla con valori similari, con le altre parole che le sono opponibili. Il suo contenuto non è veramente determinato che dal corso di ciò che esiste al di fuori. Facendo parte di un sistema, una parola è rivestita non soltanto di una significazione, ma anche e soprattutto di un valore, che è tutt’altra cosa (ibid., pp. 139-40).

Il valore, l’oro, l’occhio, il sole, ecc. sono trascinati, lo sappiamo da lungo tempo, nello stesso movimento tropico. Il loro scambio domina il campo della retorica e della filosofia. Quest’osservazione di Saussure, alla pagina seguente, può essere dunque messa a fronte della versione di Polifilo (il «soffio seduto», il « fuoco divino, fonte e centro della vita», ecc.). Essa ci ricorda che la cosa più naturale, più universale, più reale, più chiara, il referente in apparenza più esterno, il sole, dal momento in cui interviene (e lo fa sempre) nel processo di scambio assiologico e semantico, non sfugge affatto alla legge generale del valore metaforico: «Così il valore di un qualunque termine è determinato da ciò che lo circonda; persino della parola che significa “sole” non è possibile fissare immediatamente il valore se non si considera quel che le sta intorno; ci sono delle lingue in cui è impossibile dire “mi seggo al sole”» (ibid., p. 141).In questa stessa costellazione, ma nella sua posizione irriducibile, bisognerebbe rileggere di nuovo[10] tutto il testo di Mallarmé sulla linguistica, l’estetica e l’economia politica, tutta la sua scrittura del segno oro che calcola degli effetti testuali eludendo le opposizioni del proprio e del figurato, del metaforico e del metonimico, della figura e del contenuto, del sintattico e del semantico, della parola e della scrittura classiche, del più e del meno. Specialmente in quella pagina che dissemina il suo titolo Oro nel corso di «fantasmagorici calar del sole».

[1] Cfr. per esempio E. RENAN, De l’origine du langage (1848), cap. V, in ID., Œuvres complètes, Paris 1947-61, t. VIII. [2] ‘Cfr. per esempio F. NIETZSCHE, Die Philosophie im tragischen Zeitalter der Griechen (1873), Leipzig 1925 (trad. it. La filosofia nell’epoca tragica dei Greci, in ID., Opere cit.,III, t. lI, pp. 263 sgg.). [3] Cfr. per esempio J. Breuer in ID. e S. FREUD, Studien über Hysterie, Leipzig-Wien, 1895 (trad. it. Studi sull’isteria, in FREUD, Opere cit., I, p. 372); S.

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Freud, ibid., pp. 426-427; o anche ID., Der Witz und seine Beziehung zum Unbewußten, Leipzig-Wien 1905 (trad. it. Il motto di spirito e la sua relazione con l’inconscio, in Opere cit., V, p. 187); m., Vorksungen zur Einführung in die Psychoanalyse, Wien 1915-17 (trad. it. Introduzione alla psicoanalisi, ibid., VIII, p. 456) (a proposito della metafora dell’anticamera); ID., Jenseits des Lustprinzips cit., fine del cap. VI; an., Die Frage der Laienanalyse. Unterredungen mit einem Unparteiischen, Leipzig-Wien-Zürich 1926 (trad. it. Il problema dell’analisi condotta da non medici. Conversazione con un interlocutore imparziale, in Opere cit., X, p. 362). D’altra parte, riguardo all’intervento degli schemi retorici nel discorso psicoanalitico, naturalmente cfr. J. LACAN, Ecrits, Paris 1966 (si veda l’indice ragionato di J.-A. Miller), E. BENVENISTE, Remarques sur la fonction du langage dans la découverte freudienne (1956), in Problèmes de linguistique générale cit., (trad. it. Note sulla funzione del linguaggio nella scoperta freudiana, in Problemi di linguistica generale cit., pp. 93 sgg.), e E. JAKOBSON, Two Aspects of Language and Two Types of Aphasic Disturbances (1954), ora in ID. e M. HALL, Fundamentals of Language, The Hague 1956 (trad. it. Due aspetti del linguaggio e due tipi di afasia, in R. JAKOBSON, Saggi di linguistica generale, Milano 1966, pp. 22 sgg.). [4] Cfr. per esempio Iniroduction à la métapbysique, in La pensée et le mouvant cit., p. 185. [5] Nei Quaderni sulla dialettica di Hegel, Lenin definisce il più delle volte il rapporto di Marx con Hegel come «rovesciamento» (a testa in giù) ma anche come «decapitazione» (il sistema hegeliano meno tutto ciò che lo comanda: l’assoluto, l’Idea, Dio, ecc.) o anche come lo sviluppo di un « seme» o di un « chicco», e perfino come la « mondatura» che dalla buccia procede verso il nocciolo, ecc. Per quel che riguarda la questione della metafora nella lettura di Marx e in una problematica marxista in generale, cfr. specialmente L. ALTHUSSER, Contradiction et surdétermination, in ID., Pour Marx, Paris 1965 (trad. it. Contraddizione e surdeterminazione, in Per Marx, Roma 19692, pp. 69 sgg.); ID., Lire le Capital, Paris 1965 (trad. it. Leggere il Capitale, Milano 1968, pp. 27 sgg. e passim); ID., Idéologie et appareils idéologiques d’Etat, in «La Pensée», n. 151 (1970), pp 3-38 (trad. it. in M. BARBAGLI (a cura di), Istruzione, legittimazione e conflitto, Bologna 19782, pp. 45-65), e J.-J. GOUX, Numismatiques, I, II, in «Tel Quel», 35 (1968), 36 (1969). [6] R. JAKOBSON, Essais de linguistique générale, Paris 1963 (trad. it. da originali inglesi, Saggi di linguistica generale cit., p. 41). [7] Cfr., per esempio, K. MARX, Das Kapital, l. I, Hamburg 1867 (trad. it. Il Capitale, Roma 1964, pp. 114-15): «Di dove vengono le illusioni del sistema monetario? Questo sistema non ha visto che l’oro e l’argento, in quanto denaro, rappresentano un rapporto sociale di produzione, ma li ha considerati nella forma di cose naturali dotate di strane qualità sociali [...]. Se le merci potessero parlare, direbbero: […] Si ascolti ora come l’economista parla con l’anima stessa della merce: […]». [8] ID., Zur Kritik der politischen Ökonomie, Berlin 1859 (trad. it. Per la critica dell’economia politica, Roma 1969, pp. 87 sgg). Facciamo un semplice richiamo a questi testi. Per analizzarli dal punto di vista che ci interessa qui (critica dell’etimologismo, questioni vertenti sulla storia e sul valore del proprio idion, propruam, eigen), bisognerebbe tenere rigorosamente conto, in particolare, di questo fatto: Marx non ha solo criticato, insieme ad altri (Platone, Leibniz, Rousseau, ecc.) l’etimologismo come abuso o aberrazione non scientifica, come pratica della cattiva etimologia. La sua critica dell’etimologismo ha preso ad esempio il proprio. Non possiamo citare qui tutta la critica di Destutt de Tracy che gioca sulle parole proprietà e proprio come « Stirner» faceva con Mein e Meinung [mio, il mio parere; anche Hegel faceva altrettanto], Eigentum e Eigenheit [proprietà e individualità]. Riporto solo questo passo, che riguarda la riduzione della scienza economica al gioco del linguaggio, e quella della specificità stratificata dei concetti all’unità immaginaria di un etimo: «“Stirner” ha negato dianzi l’abolizione comunista della proprietà privata trasformando la proprietà privata nell”avere” e dichiarando poi che il verbo “avere” è una parola indispensabile, una verità eterna, perché anche nella società comunista potrebbe capitargli di “avere” i dolori di corpo. Proprio allo stesso modo egli motiva qui l’impossibilità di abolire la proprietà privata, trasformandola nel concetto della proprietà, sfruttando il nesso etimologico fra “proprietà” e “proprio” e dichiarando che la parola “proprio” è una verità eterna, perché anche sotto il regime comunista potrebbe capitare che gli fossero “propri” i dolori di corpo. Tutta questa assurdità teorica, che cerca asilo nell’etimologia, sarebbe impossibile se la proprietà privata reale, che i comunisti vogliono abolire, non fosse stata

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trasformata nel concetto astratto “la proprietà”. Con ciò da una parte ci si risparmia la fatica di dire o anche solo di sapere alcunché sulla proprietà privata reale, e d’altra parte si giunge facilmente a scoprire nel comunismo una contraddizione, dal momento che in esso, anche dopo l’abolizione della proprietà (reale), si può certo scoprire ogni sorta di cose che possono essere sussunte sotto “la proprietà”». Questa critica - che apre o lascia aperte le questioni della «realtà» del proprio, dell’astrazione» e del concetto (non della realtà generale) del proprio - continua più sotto con degli esempi notevoli: «Per esempio, propriété Eigentum e Eigenschaft, property Eigentum e Eigentümlichkeit, “proprio” nel senso mercantile e nel senso individuale, value, Wert - commerce, Verkehr - échange, exchange, Austausch, ecc., che sono adoperati tanto per i rapporti commerciali quanto per le qualità e le relazioni degli individui come tali. Nelle altre lingue moderne accade esattamente lo stesso. Se san Max si mette seriamente a sfruttare questa ambiguità, può riuscire facilmente a fare una magnifica serie di nuove scoperte economiche senza sapere una parola di economia; e del resto anche i suoi nuovi fatti economici, che vedremo in seguito, restano interamente nell’ambito di questa sfera della sinonimia» (ID. e F. ENGELS, Die deutsche Ideologie (1845-46), in Historisch-Kritische Gesamtausgabe, V, Frankfurt am Main - Berlin - Moskau 1932 (trad. it. L’ideologia tedesca, Roma 1958, rispettivamente pp. 211-12 e 213)). [9] NIETZSCHE, Erkenntnistheoretische Einleitung über Wahrheit und Lüge im außermoralischen Sinne (estate 1873), in Das Philosophenbuch cit., trad. it. p. 76. Tale motivo del cancellarsi, dell’impallidire dell’immagine, si ritrova anche in S. FREUD, Die Traumdeutung, Leipzig-Wien 1900 (trad. it. L’intripretazione dei sogni, in Opere cit., III), ma, in Freud come in Nietzsche, non determina univocamente o unilateralmente la teoria della metafora. Questa risulta compresa in un’agonistica più generale. [10] Questa lettura è abbozzata in DERRIDA, La double séance cit. (II).

. . . .Uso e usura (aggiunta) | commenti (1)postato da violentunknownevent, domenica, 21 novembre 2004

Cancellare dalla moneta l'esergo, secondo Polyphile, significa eliminare i segni di una contingenza. Asserire l'universalità, negare la relatività della quale testimonia l'iscrizione con la sua lingua, la sua data: "tirate via dal tempo e dallo spazio". Così si genererebbero i fantasmi della filosofia (come li chiamò Stirner). La falsificazione metafisica non consiste - come ogni altra falsificazione monetaria - nel conio, ma in una sottrazione del coniato: "l'usura la renderà trasparente" (Gide), cioè assoluta (notare, però, che l'usura di una moneta falsa ristabilisce la verità: l'universale dietro al particolare). Scomparsa del volto impresso: ef-facement.

Una degradazione che permette il passaggio dal fisico al metafisico, dal sensibile al filosofico. Dallo storico al sovrastorico. La citazione di Nietzsche ribadisce la stessa idea: "le verità sono illusioni che abbiamo dimenticato essere tali, metafore usurate che hanno perso la forza sensibile,

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monete che hanno perduto l'impronta..." Ma tutto questo - etimologismo, scrive Derrida, che individua una degenerazione del fisico nel metafisico -, è un luogo comune ottocentesco, che va di pari passo con l'idea che vi sia un senso originario, un nocciolo di verità oltre l'interesse semantico generato. Non esiste un "valore originario": nulla cioè da pervertire.

Ed eccoci dalle parti di un problema che l'ottocento vide tornare di gran moda: l'origine del linguaggio, l'origine del linguaggio come verità del linguaggio. L'idea, in Polyphile, è che il cammino degenerativo del linguaggio consista in un'allontanamento della parola dalla cosa concreta, finché non sia sparito ogni legame è che non rimanga altro che fumo: la lingua dei filosofi. L'origine sarebbe il linguaggio magico, in cui coesistono cosa e parola: "Il simbolo, in un certo modo, è sentito come l'essere o l'oggetto stesso che rappresenta" (Levy-Bruhl). Lo stadio successivo è la metafora, il come se: sorta di linguaggio del linguaggio, linguaggio sul linguaggio, edificio che finisce per assumere i contorni di un castello di carte... Sull'argomento (origine come metafora, origine come fusione tra cosa e parola) vi rimando alla breve trattazione di T. Todorov, Il linguaggio e i suoi doppi in T. Todorov, Teorie del Simbolo.

. . . .2. (Niente) più metafora | commenti (4)postato da Tez, mercoledì, 17 novembre 2004

2. (Niente) più metafora

Se l'esergo è cancellato (cancellata la connessione con il senso originario) come decifrare la metafora? Qui si ha, dice Derrida, un'impossibilità di fatto: una metaforologia potrebbe (dovrebbe) giungere a tropi fondamentali, fondatori, che non si lascerebbero dominare dal discorso. Siamo in presenza di una petizione di principio: si pretende di dominare questi tropi fondamentali mediante quel discorso (metafisico) che essi hanno generato. Nel caso del sistema di tutte le metafore possibili (una tassonomia perfetta) rimarrebbe fuori, scrive Derrida, quella senza la quale non si sarebbe costruito il concetto di metafora. In virtù di questa eccedenza, o supplementarità tropica, alla tassonomia i conti non tornerebbero mai. Vedremo come questo succeda.

Derrida immagina anzitutto il percorso di una tale tassonomia: a) dovrebbe darsi una definizione rigorosa di "metafora";b) si dovrebbero individuare nel discorso filosofico le metafore allogene, cioè significati letterali che divengono metaforici una volta inclusi nel discorso filosofico;c) si dovrebbero poi classificare i luoghi di provenienza di tali significati; si avrebbero così metafore biologiche, organiche ecc.d) una volta classificate le aree di origine, si devono ricondurre i discorsi che danno in prestito e quelli che prendono in prestito a due tipi fondamentali: quelli più originari e quelli, per così dire, derivati (il cui oggetto non è più primitivo). Il primo gruppo fornisce metafore animali, fisiche, biologiche (physis), il secondo metafore tecniche, sociali, culturali (techne), dando vita alla tacita opposizione che opera ovunque.

Se si prova a derogare da questa classificazione si va incontro all'errore di Louis (ma ciò non toglie che qualsiasi classificazione sia di per sé fallace), che non si basa sul modello della migrazione ma su quello dell'organizzazione interna delle metafore. Sembra che tutta la ricerca avverrà all'interno del testo, un sistema chiuso in cui i parametri sono l'intenzione dell'autore, il senso, la verità espressa. Secondo Derrida, Louis non prende però in esame le metafore (di Platone) bensì le idee filosofiche, relegando le metafore al ruolo di ornamento pedagogico (proprio il contrario di quel che Louis sostiene).

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Louis raduna le metafore secondo le idee che esprimono, individuando una metafora dominante nel discorso. La sua dichiarazione di intenti vuole evitare che la metafora divenga ornamento retorico come nella poesia (?), dunque propone una classifica della metafora quale veicolo espressivo dell'idea. Ora, stringe Derrida, il punto è proprio nel fatto che la metafora viene incaricata di esprimere un'idea, di metter fuori o rappresentare il contenuto di un pensiero che viene chiamato con naturalezza "idea". Ma ciascuno di questi termini ha tutta una sua storia (non si tratta di termini scesi dal cielo col loro contenuto di certezza già acquisito da sempre e indipendentemente dall'uomo). Ecco dunque che la classificazione delle idee metaforiche operata da Louis soffre di una carente indagine sui propri presupposti metodologici (laddove per Derrida una simile classificazione sarebbe forse giustificabile in base a un calcolo cosciente, cioè al prender per buoni dei fondamenti al fine di articolare una teoria).

Un'indagine sui presupposti: sono metaforici, resistono a ogni meta-metaforica, i valori di concetto, di fondazione, di teoria. Il fondamentale, ad esempio, desidera un suolo fermo a sostegno di una struttura artificiale, di una teoria; il concetto ha in sé lo schema della mano che afferra e tiene un insieme come un oggetto. Interessante piuttosto il limite imposto da questi termini a una meta-metaforica, come se oltre essi ci fosse il vuoto; tanto da doverli prendere, all'interno della nostra cultura, come dati di fatto (l'ultimo Wittgenstein), senza i quali l'intero sistema culturale crollerebbe (o diverrebbe indicibile).

Anche per Hegel la metafora sorge dal fatto che una parola che all'inizio indica solo qualcosa del tutto sensibile, viene estesa al campo spirituale. In fondo è il tragitto prospettato con Polifilo, perché il lato metaforico sparisce via via nell'uso e la parola indica di nuovo un senso proprio astratto. Per Derrida, questo movimento della metaforizzazione originale (nascita e morte della metafora, cioè passaggio dal senso proprio sensibile a quello spirituale, astratto) è un movimento di idealizzazione, proprio dell'idealismo dialettico che si nutre dell'opposizione natura/spirito, natura/libertà, sensibile/spirituale. (in nota Heidegger: l'aver stabilito questa scissione tra sensibile e non sensibile (...) è un tratto fondamentale di ciò che chiamiamo metafisica e che determina in modo decisivo il pensiero occidentale).

Derrida: supponiamo che queste opposizioni siano valide al fine di stabilire una classificazione delle metafore filosofiche. Se classifichiamo le metafore di origine naturale, arriviamo subito alla mitologia dei quattro elementi. Oltre questa prima classificazione, sarebbe inevitabile aggiungere le regioni della sensibilità, capaci di produrre contenuti metaforici utilizzabili nell'ambito filosofico (metafore visive, tattili ecc.). Da questo ambito rimane esclusa la matematica, che non fornisce metafore sensibili.

A un'estetica si arriva naturalmente nel tentativo di analizzare questi contenuti sensibili secondo i concetti classici di metafora visiva, tattile, uditiva. A questa estetica dei contenuti sensibili delle metafore deve corrispondere un'estetica trascendentale delle metafore, quindi spazio e tempo. Ma spazio e tempo costituiscono un'opposizione.

Nietzsche: ogni fonia è metaforica, in quanto trasporta l'eterogeneo nel tempo lineare del discorso. Ma il metaforico è anche (e al contrario) spazializzante, in quanto consente di immaginare, vedere, toccare. Ma prima, se non chiariamo cosa siano spazio e tempo come possiamo parlare di temporalizzazione o spazializzazione?

L'opposizione tra senso (significato non temporale e non spaziale) e significante metaforico è sedimentata, permettendoci di chiamare "senso" ciò che è estraneo ai sensi, eppure solido e fondante (il terreno trascendente sul quale poggerebbe il metaforico).

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La tassonomia metaforica dà quindi per scontate molte presupposizioni e lascia molti problemi irrisolti, derivando da quel discorso che pretenderebbe di dominare, sia che si riferisca alla coscienza del filosofo, alla struttura della sua opera o ad altro.

Derrida: è impossibile domandare la metaforica dall'esterno (quando tale discorso si basi su un insufficiente concetto di metafora); la filosofia non può controllare la propria metaforica. Questo perché a) il filosofo troverà nel proprio discorso solo ciò che egli vi ha messo; b) la nascita delle opposizioni (sensibile/intelligibile, spazio tempo ecc.) è interna essa stessa a un movimento tropico (metaforico).

Ignorare la possibilità di queste opposizioni equivale ad accettare e presupporre definitivamente che vi sia un'essenza, un senso (non sensibile) traslato a noi appunto dalla metafora (o un tropo in genere).

La tesi della filosofia (la ricerca del senso) sarebbe dunque costruita su questa opposizione tra essenza e metafora. Quale disciplina potrebbe dominare questa origine? Qui Derrida accenna alla legge della supplementarità. Da quel che ho potuto capire (altrove), è una legge, tutta derridiana, che regola il rapporto che lega una descrizione, una teoria, alla scrittura; un rapporto di reciprocità dove la scrittura ha già in sé la struttura del proprio snodarsi in teoria.

imho: Così, a naso, sembra che la scrittura fondata sull'opposizione originaria sia gettare semiosi che torna intrisa di una teoria perché ha già in sé la forma, la possibilità del proprio farsi tale. Ma questo vuol dire che raccogliamo col linguaggio solo ciò che abbiamo già coltivato, predisposto? E se fosse vero, allora si spiegherebbe così il nostro perenne fallimento nel tentativo di trovare una spiegazione ultima (non possiamo dire ciò che non si può pensare) in quanto il linguaggio stesso si fonda su una circolarità ineludibile.

. . . .appena entrato, saluto. | commenti (4)postato da pesante, lunedì, 15 novembre 2004

Ciao a tutti. Sono appena entrato. Come qualcuno ha scritto prima di me nel blog, cito: "Scrivo solo a titolo di prova, per vedere l'effetto che fa. Col che mi sono iscritto, suppongo."

Si cita sempre, in fondo. Ma chi ha scritto? Io? Altri? Un computer di qualcuno? Ma qualcuno chi? In Margini vi è il riferimento al "chi?" molto chiaro e molto derridiano. Precisamente nel saggio "Fini dell'uomo". Va be', torno appena sono più preparato. Siete tutti preparatissimi. Ma siete chi? Tutti?

A presto

. . . .In Limine a Margini | commenti (1)postato da halibuto, domenica, 14 novembre 2004

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« Hébert ne commençait jamais un numéro du Père Duchêne sans y mettre quelques “foutre” et quelques “bougre”. Ces grossièretés ne signifiaient rien, mais elles signalaient. Quoi ? Toute une situation révolutionnaire. Voilà donc l’exemple d’une écriture dont la fonction n’est plus seulement de communiquer ou d’exprimer, mais d’imposer un au-delà du langage qui est à la fois l’Histoire et le parti qu’on y prend. »

Roland Barthes, Le degré zéro de l’écriture, 1953.

Quello che Barthes scriveva su Hébert (Barthes che fu uno dei protagonisti degli anni di cui parliamo), lo dobbiamo tener in mente oggi a proposito di Derrida : “Ecco dunque l’esempio di una scrittura la cui funzione non è più soltanto di comunicare o di esprimere, ma di imporre un aldilà del linguaggio, un aldilà che è insieme la Storia e, nella Storia, il partito che si sceglie.”

Il Derrida del 1970.

Per cominciare.

Si prende il saggio e si trascrive la bibliografia, presente nelle note.

Derrida non citava mai a caso, allora (non che lo abbia fatto in seguito, ma si è sentito più libero di citare chi gli pareva e piaceva), perché alla fine degli anni Sessanta, si stava conquistando e assicurando un posto nel campo degli intellettuali eccellenti.

Citazioni e riferimenti abbondantissimi, dunque, che aiutano a comprendere il progetto e l’intento.

Innanzitutto, dove viene pubblicato?

In Poétique : una rivista nata da pochissimo, abbinata a una collana presso un editore prestigioso (Seuil, dove infatti Derrida pubblicherà), di stampo prettamente letterario (né linguistico, né tantomeno filosofico).

“Rivista francese di teoria e di analisi letterarie creata nel 1970 da Gérard Genette e Tzvetan Todorov”, così viene descritta. Il tema del n. 5 era proprio : Retorica e filosofia (e Genette e Todorov si beccano una citazione a testa nel saggio).

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Bisogna tenere in mente anche due o tre piccoli “indizi” :

Nel 1969, era uscita a Parigi la traduzione della Linguistica cartesiana di Noam Chomski (riscoperta della linguistica storica).

La rivista più in vista, Tel Quel (titolo tratto da Valéry), era marxista-leninista, tendenza cinese.

Julia Kristeva (la moglie di Philippe Sollers, il direttore di Tel Quel) stava scrivendo La révolution poétique du langage, un tomone su Mallarmé.

Da cui si può desumere che troveremo, oltre a filosofia e retorica, le seguenti sezioni bibliografiche nel saggio di Derridasimbolismo : dal testo di Anatole France a Valéry, passando dal precursore Lautréamont fino al surrealista Breton e a Bataille (irrinunciabilmente di moda, è l’autore feticcio di Lacan)linguistica : l’inevitabile triade Saussure, Benveniste, Jakobsonpsicanalisi : l’altrettanto inevitabile diade Freud-Lacanmarxismo : ovviamente Marx, Engels, Lenin, poi Althusser (e Jean-Joseph Goux).

Il vezzo sta nel citare i fondatori, e con noncurante salto temporale, l’interprete moderno francese che ne diffonde la lettera, rinnovandone il contenuto (Lacan e Althusser sono perfetti, da questo punto di vista). Infine, le giovani speranze : Genette, appunto (che scriverà un libro sulle “Soglie” dei libri, eserghi e altro), Todorov, allora narratologo, e Goux che lavora sull’economia tentando una “articolazione” con il freudismo e, nel ’73, pubblica un saggio intitolato, per l’appunto, Economia e simbolico.

Insomma, Derrida mette una facilità di scrittura e una erudizione fondata in studi tradizionali al servizio di una strategia di piazzamento sul mercato, il quale si è insperatamente aperto negli anni Sessanta. Una valutazione realistica dello stato del campo intellettuale e accademico in quegli anni è ineludibile, perché Derrida non è Platone, e nemmeno Heidegger. Il suo discorso è profondamente immerso nell’air du temps. La pretesa di dire la sua su tutto lo scibile era tipica di quegli anni. I suoi riferimenti politici fanno ridere oggi (chi citerebbe ancora Lenin e Althusser come quell’ingenuità?). L’andamento della linguistica gli ha dato torto (anche se “metaforicamente” poteva avere ragione).

Infine, ci sarebbe qualcosa da dire sulla scelta del testo commentato, Le Jardin d’Epicure di Anatole France. Anatole France, adorato da Proust (era il modello di Bergotte nella Ricerca del tempo perduto), odiato e insultato dai surrealisti come scrittore mondano, amico dei simbolisti (con i quali

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condivide l’ossessione del tema floreale), frequentatore di salotti aristocratici, non era certo un filosofo. Partire da un suo testo minore, poco più di un divertissement, non può che essere una scelta, nel 1970, diciamo così, “sfottente”, ironica, un vero e proprio “prestesto” giocoso. Di questo gioco un po’ beffardo, la punta è la definizione che Derrida fornisce del sofista nella nota 52, definizione che viene fatta a sua immagine e somiglianza :

“Il sofista manipola dei segni vuoti e trae i suoi effetti dalla contingenza dei significanti (donde il suo gusto per l’equivocità e innanzitutto per l’omonimia, l’identità ingannevole dei significanti)”.

nota : ehm, scusate, questo post è un po’ fuori posto (senza gioco di parole), ma non ho fatto in tempo a inserirlo prima.

. . . .Sugli interventi | commenti (5)postato da Azioneparallela, venerdì, 12 novembre 2004

Dico due parole su alcuni interventi.

Comincio dalle domande di Marcellodibello. 1 Lascerei perdere il lapidario. Primo: perché è bene non cominciare dalle metafore; secondo, perché la metafora viene ripresa in conclusione del testo, e dunque vale la pena aspettare (così anche per il motivo eliotropico, aspetterei che si dispiegasse attraverso il testo tutto intero). 2. A quale libro alluda Derrida io non so. Chiederò (se lo becco) a un derridologo. Posso supporre che si tratti del volume di Poetique, ma non mi pare affatto decisivo per la comprensione del saggio. Derrida usa programmaticamente (qui e altrove) questa strategia, di costringere a riflettere su tutto ciò che ‘incornicia’ ciò che è detto: dall’esergo alla firma, dal supporto materiale al valore di scambio dello scritto. Fa bene a farlo, ma noi credo facciamo bene a ‘sospendere’ gli effetti che questa strategia in generale produce, per concentrarci anzitutto su ciò che è detto. 3. Non mi pare che la proporizione libro/capitolo=uso/uura sia appoggiata dal testo. Il movimento complessivo dei primi capoversi mi pare posa essere inteso, in forma minimale, così: è un’impresa circoscrivere il tema ‘metafora’, impresa destinata a naufragare – essenzialmente, e non per accidente. (E tra parentesi, Derrida accenna al fatto che non è detto che sia un male: “conviene [chi ha il testo francese sotto mano controlli questo verbo] che l’impegno in tale lavoro prometta più di quanto non dia”. (Se non dovessimo attenerci al testo, darei il massimo spicco a queste parole, e se dovessimo occuparci di Derrida in generale, inviterei a pensare a quante cose Derrida ha pensato anche in seguito sotto questa divisa). Derrida non ci dà un libro, ma un capitolo (qui torno ad ignorare le ragioni e i riferimenti pragmatici), poi aggiunge: ma un libro non lo si può fare, la partita con la metafora non la si può chiudere, ed è infine un bene (conviene...) che resti aperta. (Sul senso di questa convenienza, si potrà tornare) 4. Secondo una certa idea di filosofia (all’ingrosso: un’idea platonica: più nel senso del platonismo che di Platone – aggiungo io) vi è un buono e un cattivo uso della metafora in filosofia. Ma perché si possa distinguere buono e cattivo uso, occorre che la

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filosofia disponga di un’istanza sopraordinata alla metafora, che appunto ne regoli l’uso. Il che non è (e Derrida ce lo dovrà mostrare). Meglio parlare allora di usura, a condizione però di non supporre che l’usura intervenga in un secondo tempo, a rovinare (usurare, appunto) l’uso naturale. Saremmo ancora in pieno platonismo. Derrida vuol mostrarci anche questo: non c’è un primo tempo in cui le parole sono intatte, e un secondo tempo in cui vengono usurate. L’usura è originaria (come altrove Derrida dirà della traccia): “L’usura non viene ad aggiungersi...” (275; altrove Derrida dirà, con forza ancora maggiore; il supplemento è originario).

C’è un passaggio su cui Marcello chiedeva spiegazioni: “Come rendere ciò sensibile, se non attraverso metafora?”. Io proporrei la seguente ‘spiegazione’ (un po’ più larga del testo): il ‘ciò’ che deve essere reso sensibile è proprio l’originarietà dell’usura, il fatto che non si venga ad aggiungere, ecc. Potremmo dire anche, e semplicemente: la metafora filosofica, intendendo con ciò non: la metafora in filosofia, ma l’indistricabilità in linea di principio di buono e cattivo uso, di metafora e concetto, di proprio e improprio, ecc. È chiaro peraltro che, questa essendo la tesi, essa non può essere propriamente detta. Non si può parlare propriamente dell’improprietà. Di qui la metaforizzazione che incombe sulle nostre stesse parole, anzi: che gioca con le nostre stesse parole e da cui siamo noi stessi giocati. Ma questo motivo ‘esplode’ solo sul finire del saggio, mi pare, e perciò lascerei andare la cosa, qui.

Per riprenderla subito dopo, con Alderano. Il quale dice appunto (se ben intendo): il linguaggio ha natura metaforica, produzione di figure. E fin qui, è semplice. Ma non disponiamo di un punto di osservazione privilegiato da cui assistere allo zampillìo originario delle metafore. Questa stessa idea di una natura metaforica del linguaggio va dunque essa stesa ‘metaforizzata’. (io direi, ma forse siamo d’accordo: non che ‘va’ metaforizzata, ma che viene metaforizzata dallo stesso Derrida, e anzi: si metaforizza da sé. E ciò direi conformemente a quanto Derrida dice altrove – non io decostruisco, ma la decostruzione avviene).

Preoccupato però dalla piega esoterica di queste considerazioni, ripiego e mi riaccuccio all’ombra dei post di Vue (il secondo) e Tez (il secondo). La loro esposizione mi pare riuscita, salvo minimi particolari che trascuro. (Pregherei anzi anche gli altri partecipanti al seminario (se loro va) di intervenire anche solo per dire: ok).

Vengo invece al primo post di Tez. Dove sono poste domande legittime, ma più avanzate rispetto alla porzione di testo che stiamo leggendo. Bene tenerle a mente, magari svilupparle, ma non dare risposta. Per dirla in breve: in questo esergo, Derrida si limita in fondo a seminar dubbi su una lettura troppo facile dei termini della questione: di là il concetto, di qua la metafora; di là la metafisica, di qua la fisica, ecc. Sicché proposizioni come: di là la realtà, di qua la metafisica devono per ora essere messe tra parentesi, mi pare. Lo stesso dicasi per la questione del ‘farla finita’, che viene qui posta troppo presto (a proposito della filosofia, e dello stesso sbarazzarsi della metafora, di cui nulla sappiamo e di cui si può temere anzi che proprio non si tratti). Un’osservazione generale sulle domande di Tez: esse sono tutte orientate a decidere una questione, di cui in fondo Derrida si appresta a mostrare l’indecidibilità e l’intima aporeticità. (Il che, è ovvio, può non piacere). È legittimo che ciò procuri l’impressione di circolarità. Poiché però può darsi, per dirla cn Heidegger, che si tratti di stare nel circolo nel modo giusto, anche in questo caso aspettiamo.

Primo post di Vue: sommesso superamento del platonismo. D’accordo. D’accordo pure sul sommesso, sull’idea del clivage, dello smottamento. Però annoto: usura del soprasensibile è essa stessa un’espressione metaforica (peraltro felice); meno felice mi pare, nel seguito, l’idea dell’originale, e dell’interpretazione che lo trasforma. Fra l’altro, terrei molto saldamente fermi i piedi (ed il punto mi pare decisivo) sul terreno che Derrida ha qui scelto. non testi e interpretazioni, ma ‘cose sensibili’, (eventualmente ‘percetti’) e ‘parole intellegibili’. La vera partita si gioca su

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questo terreno.

Nei commenti al post, Marcello mostra di considerare abbastanza pacifico che le idee platoniche (i concetti eterni) non se le beve più nessuno. D’accordo, se può servire. Ma il punto vero sono le ‘cose’ sensibili, piene e intatte: e queste se le bevono, ce le beviamo in molti (e chissà che non se le beva anche Derrida, ma questo altrove). Platonismo non è solo la tesi che vi siano le ‘idee’ (scusate la fretta dell’esposizione), ma altrettanto è anche più che vi sono le cose ‘là fuori’. E qui si può dare battaglia. (E qui aspetto che qualche partecipante al seminario la dia). E qui sta la ragione per cui ci siamo messi a leggere Derrida, per vedere se l’accusa di verbalismo (di nuovo: vado di fretta), sia meritata oppure no. (Ne approfitto per aggiungere che il nominalismo sta tutto dentro il platonismo: basta leggere il Cratilo. Se infatti abbiamo le idee fisse e ferme, che importano le parole? Cambino pure, restano ferme le idee).

Ecco: è tutto.A falsoidillio, infine (nei commenti al mio post ‘esergo’)): sì al punto 1, per quel che mi riguarda; sì al punto 3, ma si tratta di farlo vedere nel corso stesso del saggio; no al punto 2., non perché contenga errori, ma perché contiene precomprensioni sulle quali ci dovremmo spiegare noi, mentre Derrida non ci e si spiega (almeno qui) in quei termini.

. . . .Peggio di Selezione dal Reader's Digest | commenti (8)postato da Tez, giovedì, 11 novembre 2004

Hume sostenne che l'impressione sensibile, piena di chiarezza, viene ricordata in modo sbiadito mediante idee, che da una serie di sensazioni si ricava l'idea, ad esempio, di causa ed effetto. Senza inoltrarci nei mostruosi problemi che una tale concezione solleva, quel che importa qui, nel seguitare a leggere Derrida, è ricordare come si possa ritenere l'esperienza sensibile, il dato evidente, fonte del nostro pensiero; in un rovesciamento del fondamento platonico, l'idea trattiene pallidamente l'impressione.

Polifilo sostiene che i metafisici sono come arrotini che cancellano l'esergo dalle monete per dichiararle di incomparabile e atemporale valore. Con il loro lavoro, essi portano le parole dal fisico al metafisico, dunque allontanano i termini dal loro etimo che è sensibile per portarli in una regione soprasensibile semplicemente cancellando, a furia di usarli, tale origine. Si configurerebbe così un passaggio dal senso letterale a un senso metaforico.

Tutte le parole (...) furono coniate all'origine a partire da una figura materiale. Vi è un materialismo fatale del vocabolario. Ma quando il filosofo mette in circolazione queste parole, esse dimenticano (per usura) il significato originario, ma per effetto di una doppia cancellazione (effacement) perché il senso originario viene trasformato in metafora, e la metafora viene mutata in senso proprio (come fa troppo facilmente certa filosofia della scienza). Va da sé che chi crede in un linguaggio originario tarato su impressioni sensibili non ammetta interpretazioni ma si affidi alla legalità di tassonomie tanto infinite quanto ingestibili.

I metafisici sceglierebbero di preferenza (...) le parole più usate. Qui la faccenda si fa rischiosa perché tutto il linguaggio comune trasforma in tal modo le parole: noi siamo metafisici inconsapevoli in proporzione all'usura delle nostre parole.Improvvisamente Polifilo annuncia l'usura assoluta di un segno, cioè quel porre in forma negativa i concetti: a-ssoluto, in-finito, in-tangibile, non-essere. Perché il filosofo fa questo? Semplice, i concetti in forma negativa hanno la funzione di rompere il legame che tiene avvinti al senso di un

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ente particolare. Essi realizzano lo spostamento dal senso originario sensibile a quello metaforico e metafisico (in cui al metaforico viene assegnato di nuovo un significato sensibile).

E' possibile riattivare l'iscrizione primitiva precedente l'usura metaforica e metafisica? Polifilo vuole provarci. Al termine del suo tentativo, applicato a parole come "Dio", "anima", "assoluto", precisa che esse sono dei simboli (legati a una somiglianza con un essere di fatto) e non dei segni. Queste idee sono allegorie, una raccolta condensata di favole vediche, di miti primitivi. Per Polifilo i metafisici fanno quindi della mitologia bianca. La metafisica bianca occidentale, cuore della cultura, nasce dalla mitologia indoeuropea la quale è scritta con l'inchiostro bianco, così che tale origine rimanga invisibile persino a lei stessa. L'uomo bianco prende tale mito per la forma della propria ragione. L'interlocutore di Polifilo, Ariste, abbandona la scena senza difendere la metafisica.

Qual è l'interesse di Derrida nel riportare porzioni di questo dialogo? La risposta viene ripartita in 4 punti:

1) La proposta di Polifilo si collega a) a una tradizione filologica che esplora l'origine metaforica dei concetti nei riguardi di un originario senso proprio, b) di una tradizione culturale che tende al controllo finalizzato della metafora.

2) Tracciare una filologia significa esaltare il percorso diacronico della metafora, a spese del sistema (sincronico), puntando su un una concezione simbolista, pertanto su un legame, per quanto sfilacciato, con una necessità naturale. Ecco che la metafora diviene rassomiglianza tra segni. Derrida: non si tratta di criticare Polifilo, ma di decostruire i suoi schemi retorici e metafisici per riscriverli, indagando il terreno sul quale è possibile render conto alla filosofia dell'origine metaforica dei suoi concetti.

3) Il termine usura va anch'esso indagato, esso indica una soluzione continuista nella vita di una metafora. Presuppone che la diacronia sia relativa a una continuità, a un mantenimento del medesimo senso, la medesima rassomiglianza, pur con un'erosione lenta e inesorabile, un impoverimento ininterrotto del senso primitivo. (vedi George Orwell), una sorta di evoluzionismo rovesciato.

4) Per dare significato al concetto di usura vengono prevalentemente utilizzati gli esempi della moneta, del metallo prezioso, quindi dello scambio economico. Occorre quindi un'analogia più vasta che comprenda i due domini del linguaggio e dell'economia; questo sfondamento esula da una scienza regionale e va a chiedere risposte in un territorio più ampio e fondamentale (Kant, intro KdU; Heidegger Essere e Tempo).

L'iscrizione della moneta quale luogo d'incrocio tra lingua ed economia, insomma tra ordini differenti. Ma perché la questione della metafora diventa una questione di valore (Saussure)? Il valore (come la metafora) stabilisce appunto equivalenze tra cose differenti; Saussure dice: il principio paradossale del valore è che esso è costituito da una cosa dissimile che possa essere scambiata con quella di cui si vuole stabilire il valore, e insieme da cose simili che si possano confrontare con quella di cui è in causa il valore (per determinare il valore di una moneta da 2 euro devo sapere quali merci dissimili posso comperare con essa e devo poterla confrontare con gli altri tagli). Allo stesso modo, seguita Saussure, una parola può essere scambiata con un'idea e confrontata con altre parole. Dunque il valore metaforico è stabilito all'interno di una serie di relazioni, da ciò che sta intorno (e non, o non solo, da ciò che sta prima), arrivando a un incrocio tra diacronico e sincronico.

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. . . .[DERRIDA] La mitologia bianca - Esergo (2/3) | commenti postato da violentunknownevent, giovedì, 11 novembre 2004

Quasi al termine del Giardino di Epicuro [1], un breve dialogo fra Ariste e Polifilo ha come sottotitolo O il linguaggio metafisico. I due interlocutori hanno uno scambio [commercent] proprio sulla figura sensibile che si rifugia e si us(ur)a, fino a sembrare impercettibile, in ciascun concetto metafisico. Le nozioni astratte nascondono sempre una figura sensibile. E la storia della lingua metafisica verrebbe a confondersi con il cancellarsi della sua efficacia e l’usura della sua effigie. La parola non viene pronunciata, ma è possibile decifrare la duplice portata dell’usura: il cancellarsi per sfregamento, l’esaurimento, lo sfaldamento, certamente, ma anche il provento supplementare di un capitale, lo scambio che, lungi dal perdere la posta, ne metterebbe a frutto la ricchezza primitiva, ne accrescerebbe la resa sotto forma di rendite, di interesse addizionale, di plusvalore linguistico, laddove queste due storie del senso rimangono inseparabili. «POLIFILO Non era che una rêverie. Fantasticavo che i metafisici, quando si fabbricano un linguaggio, somigliano [immagine, paragone, figura per significare la raffigurazione] a degli arrotini che, invece di coltelli e forbici, passassero sulla loro mola medaglie e monete, per cancellarne l’esergo, l’annata e l’effigie. Quando hanno tanto fatto che non si vede più sulle loro monete da cento soldi né Vittoria, né Guglielmo, né la Repubblica, dicono: “Queste monete non hanno nulla di inglese, né di tedesco, né di francese; le ab-biamo tratte fuori dal tempo e dallo spazio; esse non valgono più cinque franchi: esse hanno un valore inestimabile e il loro corso è stato esteso infinitamente”. Essi hanno ragione a parlare così. Con questo lavoro da pochi soldi le parole vengono portate dal fisico al metafisico. Si vede innanzitutto cosa ci perdono; non si vede subito cosa ci guadagnano».

Non si tratta qui di basarsi su questa rêverie ma di vedere delinearsi, attraverso la sua logica implicita, la configurazione del nostro problema, le condizioni teoriche e storiche del suo emergere. Due limiti, almeno: 1) Polifilo sembra voler salvare l'integrità del capitale, o piuttosto, prima dell'accumulazione di un capitale, la ricchezza naturale, la virtù originale dell'immagine sensibile, deflorata e deteriorata dalla storia del concetto. Egli suppone così - motivo classico, luogo comune del XVIII secolo - che all'origine del linguaggio abbia potuto aver corso un linguaggio sensibile puro e che resti sempre possibile determinare l'etymon di un senso primitivo, benché nascosto; 2) questo etimologismo interpreta la degradazione come passaggio dal fisico al metafisico. Esso si serve dunque di un'opposizione tutta filosofica, che ha anch'essa la sua storia e la sua storia metaforica, per giudicare di quello che il filosofo farebbe, inconsapevolmente, delle metafore.

Lo conferma il seguito del dialogo: esso interroga proprio la possibilità di restaurare o di riattivare, sotto la metafora che a un tempo nasconde e si nasconde, la “figura originale” della moneta usurata, cancellata [effacée], levigata dalla circolazione del concetto filosofico. Il dis-fac(c)i(a)mento[2] non dovrebbe dirsi, sempre, di una figura originale, se esso non si disfacesse da se stesso?

«Di tutte queste parole, o sfigurate dall'uso o levigate o anche forgiate in vista di qualche costruzione mentale, possiamo rappresentarci la figura originale. I chimici ottengono dei reagenti che fanno comparire sul papiro o sulla pergamena l'inchiostro cancellato. E con l'ausilio di questi reagenti che si leggono i palinsesti. Se si applicasse un procedimento analogo agli scritti dei metafisici, se si mettesse in luce il senso primitivo e concreto che rimane invisibile e presente al di sotto del senso astratto e nuovo, si troverebbero delle idee assai strane e talvolta assai istruttive».

Il senso primitivo, la figura originale, sempre sensibile e materiale («tutte le parole del linguaggio umano furono coniate all'origine a partire da una figura materiale e […] tutte rappresentarono nella

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loro novità qualche immagine sensibile […], materialismo fatale del vocabolario […]») non è esattamente una metafora. È una sorta di figura trasparente, equivalente ad un senso proprio. Essa diventa metafora quando il discorso filosofico la mette in circolazione. Allora si dimenticano simultaneamente il primo senso e il primo spostamento. Non si rimarca più la metafora e la si prende per il senso proprio. Doppia cancellazione [effacement]. La filosofia sarebbe questo processo di metaforizzazione che da se stesso si toglie via. Costitutivamente, la cultura filosofica sarà sempre stata logora.

E una regola di economia: per ridurre il lavoro dello sfregamento, i metafisici sceglierebbero di preferenza, nella lingua naturale, le parole più usate: « […] essi scelgono di preferenza, per levigarle, le parole che arrivano loro un po’ logore. Così risparmiano una buona metà del lavoro. Talvolta, più fortunati ancora, mettono mano a parole che, per lungo e universale uso, hanno perso, da tempo immemorabile, ogni traccia di figura». Reciprocamente, noi siamo metafisici inconsapevoli in proporzione all’usura delle nostre parole. Senza farne un tema o un problema, Polifilo non può evitare il passaggio al limite: l’usura assoluta di un segno. Che cos’è? E questa perdita - cioè questo plusvalore illimitato - non è ciò che il metafisico preferisce, sistematicamente, scegliendo per esempio i concetti di forma negativa, a-ssoluto, in-finito, in-tangibile, non-essere? « In tre pagine di Hegel, prese a caso dalla sua Fenomenologia [libro che pare fosse assai poco citato nell’Università francese nel 1900], su ventisei parole, soggetti di frasi importanti, ho trovato diciannove termini negativi contro sette termini affermativi […]. Gli ab, gli in, i non agiscono ancor più energicamente della mola. Vi cancellano d’un colpo solo le parole più salienti. Talvolta, a dire il vero, ve le capovolgono soltanto, e ve le mettono sottosopra». Al di là della battuta, resta da interrogare il rapporto tra la metaforizzazione che si sopprime da se stessa e i concetti di forma negativa. Togliendo la determinazione finita, questi hanno la funzione di rompere il legame che tiene avvinti al senso di un ente particolare, se non addirittura alla totalità di ciò che è. Essi sospendono così la loro metaforicità apparente. (Definiremo meglio questo problema della negatività individuando, più sotto, la connivenza tra il rilevamento hegeliano - l’Aufhebung, anch’essa unità di una perdita e di un utile - e il concetto filosofico di metafora). «Tale è, per quanto ho saputo vedere, l’usanza dei metafisici o, per dir meglio, dei “metatafisici”, perché è una meraviglia da aggiungere alle altre che la vostra scienza abbia essa stessa un nome negativo, tratto dall’ordine in cui furono disposti i libri di Aristotele, e ai quali voi stessi conferiste il titolo: quelli che vengono dopo i fisici. Capisco bene che voi supponiate che essi siano messi in pila e che prender posto successivamente significa montar sopra. Ma con ciò voi ammettete di essere fuori dalla natura».

Benché la metafora metafisica abbia messo tutto sottosopra, benché essa abbia anche cancellato pile di discorsi fisici, dovrebbe sempre essere possibile riattivare l’inscrizione primitiva e restaurare il palinsesto. Polifilo si dedica a questo gioco. Da un’opera che «passa in rassegna i sistemi a partire dagli antichi Eleati fino agli ultimi eclettici e finisce col signor Lachelier», egli estrae una frase di tenore assai astratto e assai speculativo: «L’anima possiede Dio nella misura in cui essa partecipa dell’assoluto». Poi mette mano ad un lavoro etimologico o filologico che deve risvegliare tutte le figure che in essa giacciono addormentate. Per questo, egli presta attenzione non a quanto la frase «conteneva di verità» ma «unicamente alla forma verbale». E, dopo aver precisato che le parole «Dio», «anima», «assoluto», ecc. sono dei simboli e non dei segni, poiché il simbolizzato conserva un legame di affinità naturale con il simbolo e autorizza così la riattivazione etimologica (l’arbitrarietà non sarebbe così, come suggerisce anche Nietzsche, che un grado di usura del simbolico), Polifilo presenta i risultati della sua operazione chimica:

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Ero così nel vero nel ricercare i sensi contenuti nelle parole anima, Dio, assoluto, che sono dei simboli e non dei segni.

«L’anima possiede Dio nella misura in cui essa partecipa dell’assoluto».

Che cos’è questo, se non un accostamento di piccoli simboli che sono stati fortemente cancellati, ne convengo, che hanno perso il loro splendore e il loro pittoresco, ma che ancora rimangono dei simboli per forza di natura? L’immagine è ridotta in essi allo schema. Ma lo schema è ancora l’immagine. E ho potuto, senza essere infedele, sostituire quest’ultima al primo. E così che ho ottenuto: «Il soffio è seduto su colui che brilla nello staio del dono che riceve in ciò che è completamente sciolto (o sottile) » da cui senza difficoltà ricaviamo: «Colui il cui soffio è un segno di vita, l’uomo, prenderà posto (certamente dopo che il soffio sarà esalato) nel fuoco divino, fonte e centro della vita, e questo posto gli sarà misurato in base alla virtù che gli è stata data (dai demoni, immagino) di estendere questo soffio caldo, questa piccola anima invisibile, attraverso lo spazio libero (il blu del cielo, probabilmente)».

E notate che questo ha l’aria di un frammento di inno vedico, che sa della vecchia mitologia orientale. Non garantisco di aver ristabilito questo mito primitivo rispettando il pieno rigore delle leggi che governano il linguaggio. Poco importa. Basta che si veda che abbiamo trovato dei simboli e un mito in una frase che era essenzialmente simbolica e mitica, poiché era metafisica.

Credo di avervelo fatto capire abbastanza, Ariste: ogni espressione di un’idea astratta non può essere che un’allegoria. Per un bizzarro destino, questi metafisici, che credono di sfuggire al mondo delle apparenze, sono costretti a vivere in perpetuo nell’allegoria. Poeti tristi, essi scoloriscono le favole antiche, e non sono che dei raccoglitori di favole. Essi fanno della mitologia bianca.

Una formula - breve, condensata, economica, quasi muta - è stata svolta in un discorso interminabilmente esplicativo, che si mette in mostra come un pedagogo, con gli effetti di ridicolo che produce sempre la traduzione prolissa e gesticolante di un ideogramma orientale. Parodia del traduttore, ingenuità del metafisico, del povero peripatetico che non riconosce la sua figura e non sa dove essa l’ha portato.

La metafisica - mitologia bianca che concentra e riflette la cultura dell’Occidente: l’uomo bianco prende la sua propria mitologia, quella indoeuropea, il suo logos, cioè il mythos del suo idioma, per la forma universale di ciò che egli deve ancora voler chiamare la Ragione. Il che non accade senza conflitti. Ariste, il difensore della metafisica (un refuso avrà fatto stampare, nel titolo, Artiste), finisce per andarsene, deciso a non dialogare più con un giocatore sleale: «Me ne vado non persuaso. Se aveste ragionato conformemente alle regole, mi sarebbe stato facile confutare i vostri argomenti».

Mitologia bianca - la metafisica ha cancellato in se stessa la scena favolosa che l’ha prodotta e che tuttavia resta attiva, irrequieta, inscritta in inchiostro bianco, disegno invisibile e nascosto nel palinsesto.

[1] A. FRANCE, Le Jardin d’Epicure, Paris 1900. La stessa opera contiene una sorta di rêverie sulle figure dell’alfabeto, sulle forme originarie di alcune delle sue lettere (De l’entretien que j’eus cette nuit avec un fantôme sur les origines de l’alphabet).

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[2] NDT: Ef-face ment: Derrida gioca, qui e più sotto, sui vari significati di effacement: 'cancellazione', 'cancellazione della faccia, dell'aspetto' e anche 'cancellazione della faccia di una moneta'; nel seguito, si è tradotto col più ordinario “cancellazione”, segnalando fra parentesi il termine effacement.

. . . .Luce su luce. | commenti (4)postato da alderano, sabato, 06 novembre 2004

Tentavo di indicare il movimento stesso del gesto derridiano, del suo discorso. (Col risultato, forse, di metaforizzare la sua metafora- metafora di terzo grado). Ché il primo periodo – nella sua oscurità (e nel venire alla luce) – ha il senso, credo, di aprire la strada, di mostrare il movimento stesso del linguaggio, di svelarne la natura. La sua natura, appunto, metaforica.

φύω– da cui: φύσις - significa: venire alla luce, designando il movimento naturale di crescita della pianta. La fisica è la scienza della natura. Ovvero scienza di un processo, di un divenire. Un di-venire alla luce. (Il pro e il di fanno segno a un’origine - anche il pro: penso a Plotino -, che per adesso va lasciata in sospeso: è la presunta trasparenza originaria che Derrida, nella pagine a venire, metterà in questione. Parentesi nella parentesi: non ho ancora letto il saggio, voglio leggerlo passo passo, - per non tradire il mio tradimento – passami l’espressione). Questo divenire è produzione di figure: la metafora dell’incisione la leggo così: si incide una forma, o la si intaglia, e il senso sta in quella forma – che soggiace ad usura (ancora: la questione in sospeso è l’origine: la figura originaria, ovvero lo scarto). Le figure prodotte sono appunto il mobile esercito di metafore che costituisce la forza d’urto del linguaggio. La lingua esposta, dunque, in quanto Derrida ci sta dicendo: intendo esporre la natura della lingua. Il suo valore d’usura.

Quanto a me, ho capito questo per adesso.

. . . .Uso e Usura (b3) | commenti (4)postato da violentunknownevent, sabato, 06 novembre 2004

"Ascoltate come suona bene: quasi lo stesso suono delle altre. Si potrebbe giurare che è d'oro. Ci sono cascato io stesso stamane, come ci cascò prima di me il droghiere che me l'ha rifilata. Non ha esattamente il giusto peso, credo: ma scintilla e suona come una vera moneta; è rivestita d'oro, cosicché vale qualcosa più di due soldi - ma è in cristallo. L'usura la renderà trasparente. Non la strofinate; me la rovinereste. Già si vede quasi attraverso."André Gide, Les faux-monnayeurs.

Non c'è uso senza usura. Questa banale considerazione ha forse reso necessario il platonismo: oltre il mondo delle cose che si usurano, le idee (che pure usiamo) restano intatte. Non ci sarebbe scambio economico se l'usura potesse mutare il valore della moneta; nello stesso modo la conoscenza ha bisogno di oggetti cristallizzati, la comunicazione della certezza di un linguaggio stabile. Ovviamente non è così: il valore delle monete si usura, è l'inflazione. E se inoltre si usurassero anche le idee, i concetti, le metafore, il linguaggio? E se proprio in questo si svolgesse il pensiero filosofico? Le prime frasi del testo di Derrida suggeriscono un sommesso superamento del

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platonismo. Sommesso quanto blasfemo: l'idea di un'usura del sovrasensibile.

Ma l'usura stessa è termine usurato (ogni termine, ovviamente, lo è). Nel senso di deterioramento deriva - metaforicamente - dallo strozzinaggio: l'usura in latino (dal supino uti) era l'interesse generato da una somma di denaro prestata. Di nuovo il denaro, la moneta, somma metafora del linguaggio. E due sensi contraddittori, rispettive metafore l'uno dell'altro: l'usura come guadagno, l'usura come perdita. Contraddizione poco calzante sul piano finanziario, e molto su quello dei concetti. L'usura della metafora è perdita di sensi, compensata dal guadagno di altri (ma a ben strofinare, notate, "si vede quasi attraverso" l'intera storia dei sensi perduti). Un'interpretazione, una traduzione, usura l'originale: finché di questo non rimane nulla, o piuttosto rimane altro. Scrive Gadamer in Verità e metodo: "Se nella traduzione vogliamo far risaltare un aspetto dell’originale che a noi appare importante, ciò può accadere solo, talvolta, a patto di lasciare in secondo piano o addirittura eliminare altri aspetti pure presenti"[1]. L'usura è il movimento della produzione di significato: strofinata con dedizione, la moneta cambia valore, cambia senso. In questo senso l'usura sarebbe propriamente l'interesse semantico generato dall'investimento dei concetti. Alcuni direbbero che sono sempre le monete che circolano: ma che importa se l'usura le rinnova continuamente?

[1] H. G. Gadamer, Verità e metodo, tr. it. di G. Vattimo, Bompiani, Milano 1983, p. 351.

. . . .La prima parte dell'Esergo dissanguata | commenti (1)postato da marcellodibello, sabato, 06 novembre 2004

Ho gia' detto qualcosa nelle risposte ai post precedenti. Ripeto qui: la prima parte dell'Esergo (pp. 275-76, ed. Einaudi) mi rimane pressoche' incomprensibile. Aiutatemi! Elenco, seguendo pedissequamente i paragragfi del testo, alcuni nodi.

1. Dalla filosofia (alla?) retorica. Da un volume (ad?) un fiore. Filosofia sta a retorica come volume sta a fiore? E allora? Poi: il fiore che si allontana da se' e lascia un'incisione? Il lapidario? Ma che diamine sta dicendo????

2. Da la metafora nel (nel senso di inclusa, come fosse sottoinsieme?) testo filosofico a la metafora come coessenziale al testo-lingua filosofico. Giusto? E' per questo che la certezza va ben presto perduta? Di quale certezza stiamo parlando, della certezza di intendere ogni parola dell'enunciato (che non è un enunciato!) "La metafora nel testo filosofico"? E allora?

3. Perche cio' (che cosa?non capisco!) richiede un libro? (Il libro e' conesso al volume di cui al punto 1?) Perche' invece del libro un capitolo? E' lecita questa proporzione: libro sta a capitolo come uso (della filosofia) sta a usura (di che? delle filosofia, della metafora?)? Se cosi', che cosa significa?

4. Rendere cio' (daccapo, che cosa?, diamine!) sensibile, questo sarebbe il compito. Attraverso la metafora dell'usura. E allora?

5. Metafora dell'usura della metafora? Cosa???? Qualcuno me lo spiega. Ma con precisione! Voglio i punti, voglio le connessioni logiche o analogiche o come volete voi! Tutte! Non accetto derridismi!

Conclusione. La confusione che ho e' la stessa di quando ho provato a studiare Teoria della

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ricorsivita'. Come ho gia' detto in una risposta, forse non capisco Derrida perche' non capisco le funzioni ricorsive. Quindi: derridismo=ricorsivismo?

Aggiunta. La parte che rimane dell'Eserego, nella quale Derrida cita, commenta e crica A. France, Il giardino di Epicuro, mi e' molto piu' chiara, direi quasi cristallina. La lascio per un prossimo post. Per ora vorrei sbrogliare i nodi di questa primissima parte.

ps. Per la mia identita' preciso che Marcello, marcellodibello, panoptikon, liberalismus, sono sempre io. Faccio un po' di casino. Mi henologizzero' tra un po!

. . . .Non sparate al pianista (che sarei io) | commenti (1)postato da Tez, sabato, 06 novembre 2004

La metafora sembra coinvolgere nella sua totalità l'uso della lingua filosofica

Un primo tentativo di elementare comprensione dell'esergo (la porzione di testo trascitta sotto da VUE)

Il mio metodo è di sopravvivenza darwiniana nel testo filosofico, costruisco unità atomiche di senso che cerco di utilizzare come guida sperando siano abbastanza forti da sopravvivere (ma il darwinismo è una mitologia metaforica!), anche se nel caso di Derrida sembra si debba fare il contrario, cioè lasciare che il testo si apra da sé. Ma da dove devo partire? Dai suoi effetti su di me? Dai suoi effetti sul mondo? Questo semmai dopo.

alcuni punti iniziali di domanda (tentativo di ermeneutica)se la metafora è riferimento, allusione, richiamo, addirittura conoscenza rivolta a qualcosa di già presupposto in modo trascendente, essa ha un piede nella metafisica e l'altro nella realtà costruita in base a tale metafisica (il problema della mitologia)? Ovvero, i termini (ad esempio usura e filosofia) di cui si compone la metafora, sono per propria natura già metafisici?Se voglio farla finita con la metafisica, devo dunque farla finita anche con la metafora che presuppone un'analogia strutturale tra gli enti metafisicamente stabiliti del mondo (la posizione aristotelica)?Se il linguaggio è nella sua propria natura metaforico (inventivo), allora anche la filosofia in quanto linguaggio soffre questo limite;Ma se la metafisica muore, muore anche il metaforico in filosofia? Dunque muore anche la filosofia?Se occorre sbarazzarsi della metafora, è perché: 1) il linguaggio della filosofia moderna è morto in sé; 2) l'intero linguaggio (come traccia globale del mondo) nasce morto, o meglio banale (semplice esposizione del già risaputo).Oppure: 3) è possibile riformare il linguaggio filosofico privandolo della metafora? della metafisica, delle mitologie?al contrario: la salvezza del linguaggio sta unicamente nella metafora?

Le questione elementare: come mi racconto questo testo? Appunti:

Derrida apre con una robusta metafora, che invoca da noi la pazienza del floricultore. Si chiede retoricamente se c'è metafora nel testo filosofico. Perché ciò richiede un libro, ma cosa è un libro? E ora, il tema dell'usura, altro termine metaforico, che si sostituisce a quello dell'uso della metafora in filosofia. L'usura che è la storia stessa della metafora filosofica. Ora, un problema fondamentale: si

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rende sensibile questa storia mediante la metaforica "usura". Ci sono altre parole per indicare tale "usura"? Sembra di no, se voglio avere davanti agli occhi l'immagine del percorso filosofico, mi dico che esso è usurato (l'immagine di una pietra levigata dalla risacca). Il tempo e la memoria si danno unicamente attraverso metafore, riferite a ciò che si può dire e dare solo sotto metafora. La paradossalità.

Dunque abbiamo la metafora dell'usura riferita all'usura della metafora. L'esergo prospetta l'usura della metafora attraverso la metafora dell'usura dell'esergo (Anatole France). Un circolo vizioso o produttivo?

. . . .Alla luce. | commenti (1)postato da alderano, venerdì, 05 novembre 2004

Faccio un passo indietro. Ai piedi della scaletta. Giusto per annotare la traccia del venire alla luce - φύσις - di un fiore che fa un'incisione. Lo studio della metafora come fisica della lingua - messa in forma figurale alla luce del sole. La lingua tirata fuori, esposta - anche questa, una metafora usurata.

. . . .1. Esergo | commenti (3)postato da Azioneparallela, venerdì, 05 novembre 2004

a. “La metafora nel testo filosofico”, 275. (...sicuri di comprendere ogni termine?...) La lingua naturale nel e come testo filosofico.

b. L’uso della metafora in filosofia.

b1. Del buon uso: in filosofia, della filosofia

b2. Uso e usura della metafora in filosofia

b3. Usura: erosione e provento supplementare. (Cf. Derrida e la logica del supplemento)

[A margine: dell’uso dell’esempio in filosofia (e in Derrida)]

c. Dal fisico al metafisico.

c1. La “virtù originale dell’immagine sensibile” 277: il primo conio delle parole, l’etymon.

c2. La logica ‘doppia’ dell’effacement. (Cf. Derrida: la traccia e l’effacement)

c3. L’operazione meta-ta-fisica: la mitologia bianca, 280. Il sedimento dei concetti e l’ingenuità della metafisica.

c4. L’ingenuità delle opposizioni con cui procede questa critica della metafisica e il compito di una

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decostruzione. (Cf. Decostruzione e dualismi metafisici – dualismo metafisico suona a sua volta pleonastico).

c5. L’ingenuità di questa critica della metafisica: il “presupposto continuista”, 282. (Cf. Derrida: genesi e struttura)

d. Il ‘luogo’ di una scienza della metafora

d1. Difficoltà di una scienza regionale

d2. La metafora monetaria: il linguistico e l’economico. Il valore. (Cf. Derrida: l’uso e lo scambio; donare il tempo).

. . . .Buon lavoro | commenti (2)postato da Azioneparallela, venerdì, 05 novembre 2004

Cari amici, poiché nessuno sa come si conduce un blog seminario (non ho controllato tra i bloggers di tutti e cinque i continenti, ma non credo che se ne conducano molti in giro per il mondo), conviene cominciare da qualche ovvietà. Questo seminario è nato tra coloro che reputano Derrida uno da cui si impara (quorum ego), e coloro che invece lo considerano un venditore di fumo. Il testo è stato scelto un po’ a casaccio un po’ no, innanzitutto per ragioni pragmatiche (lunghezza, reperibilità, rappresentatività) ma poi anche per ragioni teoretiche: in esso ne va dello statuto stesso del discorso filosofico. In verità, dello statuto del discorso filosofico ne va in tutto Derrida, più o meno, e forse ne va sempre in filosofia – il che potrebbe peraltro essere considerato un buon indizio della poca o nulla credibilità del discorso filosofico (ma anche, da taluni, della sua dignità). Non voglio però infilarmi subito in simili ingorghi, né so ancora se lo si possa e lo si debba fare. Mi accontento invece di qualche semplice suggerimento iniziale. Anzitutto: avere pazienza con le precomprensioni di ciascuno (non ci conosciamo); avere pazienza con le fesserie di ciascuno (non è detto che si sia tutti e sempre intelligenti). In secondo luogo: assumere il più strettamente possibile come filo conduttore il testo, limitando al massimo (a differenza di quel che fa Derrida medesimo) i riferimenti all’intera storia della filosofia – o del mondo. Se è una regola che suggerisco, è anche perché la si possa infrangere, e magari sarò io il primo a farlo. Però mi piacerebbe che non ci dimenticassimo la ragione per cui leggiamo La mitologia bianca: verificare se vale la pena occuparsi di Derrida, se son tutte chiacchiere le sue, se davvero con lui non si va da nessuna parte, ecc. ecc. Il punto cioè (e non sarebbe male se, incominciando, fossimo d’accordo nell’assumere questo punto come il nostro punto di domanda) è (sarebbe) il seguente: se quel che leggiamo nel testo tiene, e se l’esercizio del pensiero filosofico ne deve fare qualche conto.

Vi prego di notare qui la mia prudenza: se l’esercizio del pensiero filosofico ne deve tener conto significa che non voglio (ancora) impegnare il mondo intero, il sapere tutto, l’Occidente e non so cos’altro. Mi contenterei che le questioni sollevate dal testo fossero questioni per la e della filosofia – padronissimo ciascuno di considerare, proprio perciò, la filosofia spacciata.

Questa premessa mi pare necessaria perché temo che un derridologo (quale io, dopo tutto e per fortuna, non sono) potrebbe rimanere deluso: non so dal vostro, certo dal mio impegno di lettura. Che non è interessato a mostrare quali e quante piste il testo apre, quali e quanti sono i possibili riferimenti a questo o a quel testo, quali e quante implicazioni ha questa parola o quel concetto. Al contrario, a me importa ridurre le piste i riferimenti e le implicazioni, essere in condizione di

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leggere quel che c’è scritto, e domandarmi se quel che c’è scritto chiama in causa la filosofia. In subordine: cosa poi la filosofia a sua volta chiama in causa. (En passant: ciò che indico qui in subordine è anche ciò per cui fa filosofia chi di filosofia si occupa, ma proprio per ciò dobbiamo – credo – metterlo alla fine).

Un’ultima parola in premessa: questo seminario è un esercizio sul testo. In questo seminario, lo ripeto perché mi pare importante, gli esercitatori non si conoscono. Non credo pertanto che sia inutile (abbiamo tutto il tempo che vogliamo) proporsi anzitutto di ‘capire’ cosa nel testo c’è scritto. Derrida non mi perdonerebbe l’ingenuità di questo ‘capire’, si domanderebbe se basta il fatto che io forse ammiccando e certo alludendo l’abbia messo tra virgolette, ma pazienza. Perciò io comincio così (anche perché ho già scritto abbastanza, e già abbastanza temo di avervi annoiato): vi fornisco nel prossimo post la mia traccia di lettura della prima sezione del testo (1. L'esergo). La scaletta che io tengo davanti, insomma. A voi emendarla, se credete, oppure scegliere un punto della scaletta e applicarvici, oppure proporne un’altra, oppure, ancora se credete, affrontare di petto il testo intero, o non so cosa. Non so voi, io andrei piano. (nella scaletta ci sono fra parentesi, e precedute dalla sigla cf., cose che possono restare tra parentesi, e che funzionano da mero promemoria).

Buon lavoro.

. . . .[DERRIDA] La mitologia bianca - Esergo (1/3) | commenti (4)postato da violentunknownevent, giovedì, 04 novembre 2004

I. Esergo.

Dalla filosofia, la retorica. Da un volume, pressappoco, più o meno, fare qui un fiore, trarlo fuori, montarlo pezzo a pezzo, anzi lasciarlo montar da sé, venire alla luce — allontanandosi come da se stesso, avvolto su di sé a mo’ di voluta, questo fiore fa un’incisione — imparando a coltivare, sul modello del calcolo del lapidario[1], la pazienza...

La metafora nel testo filosofico. Sicura di intendere ogni parola di questo enunciato, precipitandoci a comprendere - a in-scrivere - una figura nel volume la cui capienza contiene filosofia, ci potremmo accingere a trattare di una questione particolare: c’è metafora nel testo filosofico? In quale forma? Fino a che punto? E’ essenziale? accidentale? ecc. La sicurezza va ben presto perduta: la metafora sembra coinvolgere nella sua totalità l’uso della lingua filosofica, né più né meno che l’uso della lingua cosiddetta naturale nel discorso filosofico, o addirittura della lingua naturale come lingua filosofica.

Ciò richiede un libro, insomma: della filosofia, dell’uso o del buon uso della filosofia. Conviene che l’impegno in tale lavoro prometta più di quanto non dia. Ci contenteremo dunque di un capitolo e sostituiremo all’uso - nel titolo - l’usura. Ci interesseremo in primo luogo ad una certa usura della forza metaforica nello scambio filosofico. L’usura non viene ad aggiungersi ad un’energia tropica

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destinata altrimenti a restare intatta; essa costituisce al contrario la storia stessa e la struttura della metafora filosofica.

Come rendere ciò sensibile, se non attraverso metafora? Qui, la parola usura. Infatti non si può aver accesso all’usura di un fenomeno linguistico senza dargli una qualche rappresentazione figurata. Cosa potrebbe essere l’usura propriamente detta di una parola, di un enunciato, di un significato, di un testo?

Di questa metafora dell’usura (della metafora), del logorio di questa figura, prendiamoci intero il rischio di dissotterrarne l’esempio (l’esempio solamente, per riconoscere in esso un tipo corrente) nel Giardino di Epicuro. Nell’esergo di questo capitolo, vogliamo rimarcarlo, la metafora ripresa da Anatole France - l’usura filosofica di questa figura - descrive anche, per un caso fortunato, l’erosione attiva di un esergo.

*

[1] NDT: “lapidario”, che traduce qui lapidaire, ha come significato arcaico quello di ‘artigiano che attende alla lavorazione delle pietre dure e delle pietre preziose’; anche, ‘esperto delle gemme e delle loro magiche virtù’ (Devoto-Oli).

. . . .3... 2.. 1... | commenti (2)postato da violentunknownevent, giovedì, 04 novembre 2004

Giunti alla fatidica data d'inizio del blog-seminario, nessuno ha la più pallida idea di cosa sia un blog-seminario. Sarebbe divertente perdere tempo sull'argomento, fare un blog-seminario su come funzioni un blog-seminario. Ma l'argomento è un altro: un testo di Jacques Derrida, pubblicato per la prima volta nel 1971 sulla rivista Poétique e raccolto l'anno successivo in Marges. Lascio ad altri il compito d'introdurlo, e alle vicissitudini dell'esistenza, alle intuizioni dei partecipanti, di definire l'essenza di un blog-seminario. Qui mi limito a segnalare che: il blog-seminario inizia ufficialmente con il prossimo post; che si tratta dei primissimi paragrafi del testo, ai quali fra breve seguirà un estratto ben più lungo dedicato all'esegesi di un dialogo di Anatole France; che l'intenzione per adesso è di pubblicare il testo interamente senza operare tagli; che i partecipanti sono invitati a partecipare con dei post (e nei commenti soltanto per divagazioni e polemiche gratuite). Poiché non vi sono regole, non abbiate paura d'infrangerle.

PS: Grazie ad Halibuto per scansione e ocr.

. . . .Derrida lecteur | commenti (7)

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postato da violentunknownevent, lunedì, 25 ottobre 2004

Online una serie di articoli in pdf tratti da Études françaises (Volume 38, numéro 1-2, 2002) interamente dedicato a Derrida. Testi di Jacques Derrida, Jean-Luc Nancy, Alexis Nouss, e altri.

Dès son ouverture avec De la grammatologie, l'oeuvre de Jacques Derrida aura imprimé un déplacement décisif à la question de la lecture. Bien au-delà de la seule « déconstruction » de ses conventions et règles, la lecture selon Derrida en appelle à une autre expérience, à une responsabilité accrue, acte d'hospitalité inséparable d'une invention poétique. Les collaborateurs de cette livraison ont voulu témoigner à leur tour de la portée - philosophique, littéraire, politique - de ce travail de lecture et du rapport à l'autre qu'il met en oeuvre.

. . . .Prima lettura | commenti (28)postato da notears, giovedì, 21 ottobre 2004

“Ho deciso di lavorare solo in bikini”: palla a me.

In cosa si misura la “capienza” di un volume che può contenere la filosofia? Mi viene spontaneo dire (scrivere): in stile. Nel modo peculiare che ha l’autore di approcciarsi, attraverso la sua disposizione discorsiva nella sua lingua, alla scomposizione intellegibile dei concetti d’uso immediato.

Ci sono due modi per riempire il contenitore del testo filosofico: l’essere o meno consapevoli dell’esistenza del contenitore, del lavoro necessario per riempirlo e del fatto che lo si stia facendo in maniera univoca, in quanto il testo non scorre se non fuori di sé (scripta manent). Si può restare inconsapevoli anche se l’oggetto del lavoro filosofico è proprio il contenitore, il lavoro di composizione e l’univocità – è, in linea di massima, il lavoro dei semiologi.

Derrida si situa nella consapevolezza e fa anche di più: ci gioca. Questa consapevolezza della (r)esistenza del mezzo Derrida l’ha (tacitamente?) rilevata e custodita da quella non-utilizzabilità che l’utilizzabile del primo Heidegger fa trasparire quando non funziona, quando nella norma del suo corretto uso viene a galla l’eccezione dell’inerzia allo scopo. In questo frangente l’utilizzabile da immediato appare come strumento al quale si è applicata una mediazione.

La scrittura, come tutti gli strumenti, è soggetta ad errore (e chi più gioca con gli esercizi di stile più ne riconosce e sfrutta). La scrittura per Derrida è prima portatrice sana di non-utilizzabilità, vaso di Pandora della mediazione che, una volta rotto, lascia scappare il suo segreto concedendo ai mortali solo la speranza di riacciuffarlo. Questa speranza potrebbe darsi come definita da una mutazione della proposizione 7 del Tractatus del Principe delle Banalità: di ciò, di cui non si può scrivere, occorre discrivere (troppe is pesano). Proprio perché lo “scrivere” non ha il corrispettivo di “tacere” che spetta al “parlare”: il “cancellare” lascia sempre una traccia, dice qualcosa e non tace, è un’operazione al pari dello scrivere (quando premo “canc” sulla tastiera premo un tasto, quando gioco al silenzio non apro bocca). Discrivere è il silenzio riempito di stile: essendo nota l’inopportunità di metascritture foriere di matrioske infinite, è solo lo stile, gradino in più rispetto all’artificio estetico (in quanto alla ricerca della piena corrispondenza di significato o, meglio, di più significati collimanti con l’intero senso della scrittura), a poter parlare del segreto del linguaggio nello stesso linguaggio. La lezione dello stile nella cultura filosofica francese del ‘900 è il vero albero motore di una scrittura filosofica tanto esotica quanto affascinante: cosa aveva di tanto strabiliante quel giovane russo che mise le parole in bocca a gente come Lacan qualche anno prima della guerra? Un’ottima capacità divulgativa del pensiero di Hegel? Una brillante filosofia politica?

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Una bella faccia?

- Comprendere l’uomo mediante la comprensione della sua “origine” è […] comprendere l’origine dell’Io rivelato dalla parola. – (Kojève).

Non vi ricorda nulla? Non è l’eco di qualcuno? E’ riduttivo dirlo estrapolando una singola frase, ma la comunanza è di stile, la sua forza sta proprio nel modo di, nel come. Derrida eredita tutto questo e lo costringe alla scrittura. Egli discrive e descrive la sua personalissima discrizione: questo è il gioco di prestigio col quale incanta.

Ed è stile puro, perché campo della discrizione è la discrezione assoluta, la netta definizione di campo (la scrittura) che non permette descrizione se non procedendo con stile: è un perfetto nodo gordiano, motore immobile che attraverso le sue luminose irradiazioni di senso lascia trasparire gli effetti di verità alla fine di tutte le catene di mediazione possibili.

Derrida ci tortura, ma gioca al rischiatutto: l’indecodificabilità, la totale perdita di ostensività dei concetti è sempre ad un passo. Come ha fatto, quindi, a trovare la legittimità per farlo a livello accademico? Ci riesce perché non è (era) solo un abile logofero (come del resto non lo sono i vari Lacan, Debord, Baudrillard, ma non devo essere io a dirlo): riconosce all’alfabeto fonetico la proprietà costitutiva della logica occidentale nella rottura che viene a definire tra le parole e le cose, ma questa discontinuità storica (nel senso di storicamente determinata, legata all’invenzione e diffusione di un mezzo, circostanza la cui reale portata non è sempre nota e quasi mai chiaramente definita) ce la pone come dato già acquisito da cui partire per intavolare i suoi giochi di prestigio stilistici:

- […] la fonetizzazione della scrittura deve dissimulare la propria storia producendo se stessa [affinchè non si rompa, smetta di funzionare]

e ancora:

- la storia della verità, della verità della verità, è sempre stata, pur con la differenza di una diversione metaforica di cui dovremmo render conto, l’abbassamento della scrittura e la sua rimozione al di fuori della parola “piena” – (Derrida, 1967 – trad. da un esercito di persone che non novero, parentesi e corsivi miei).

Questi sono due dei tre punti fermi “di cui ci informa il logocentrismo [ovvero] metafisica della scrittura fonetica”, belli da leggere ed anche chiari in quanto edificati su “cause” che il lettore è tenuto a conoscere in anticipo (e qui ci starebbe un intero discorso sull’impossibilità di una riduzione massificante che possa distogliere qualcuno dal dire “creando un linguaggio sostanzialmente privato”…). Eppure questa chiarezza è minata da quel “sempre” che appartiene alla sola storia dell’Occidente e che ci preclude apriori l’approccio alla “storia di una verità extraoccidentale”, ma cha fa anche molto di più. È un “sempre” che necessita della “diversione metaforica” per spiegare un altro approccio, anch’esso pienamente occidentale, alla verità che è proprio di un certo gioco della scrittura: la metafora, figlia dello stile (o viceversa?).

Seconda domanda: è possibile la metafora nelle culture orali? E in quelle con scritture non alfabetiche la metafora (se c’è) ha lo stesso “valore”?

Dovremmo render conto anche di questo, a quanto pare dal 5 novembre.

. . . .

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su Derrida | commenti (12)postato da violentunknownevent, martedì, 19 ottobre 2004

1. Pochi giorni prima della scomparsa di Derrida è uscito questo numero dei Cahiers de l'Herne (83) a lui dedicato (qui la prefazione, qui la descrizione e l'indice in pdf). Già che ci sono segnalo anche: il dossier pdf di Le Monde; gli articoli di Libération e L'Humanité; la pagina della radio France Culture (con interventi di e su Derrida). 2. Alla ricerca dell'edizione originale di Marges, la commessa della libreria francese di Milano m'informa che sabato qualcuno ha requisito tutte le opere di Derrida. Inquietante.

. . . .J Pride | commenti (6)postato da violentunknownevent, martedì, 19 ottobre 2004

In seguito ad accorate richieste, è finalmente disponibile il banner dell'operazione, che potrete fare campeggiare con orgoglio sui vostri blog. Il codice per inserirlo è questo:<a href=http://derrida.splinder.com><img src="http://www.soyombo.it/derrida/derban.jpg"></a>

. . . .[fuori testo] | commenti (2)postato da ts, lunedì, 18 ottobre 2004

L’idea di Vue mi sembra buona: si posta un brano e poi chi vuole, di seguito, nello stesso post, lo commenta e lo discute. Una protesi testuale che gemma dalla (non)archi-scrittura derridiana (appunto per me: evitare di scimmiottare Derrida, qui). Proprio come sto facendo io adesso. Aggiornamento: come vorrei fare io adesso. Non riesco a editare i post scritti da altri. Qual'è il problema?

Al volo, tanto per scrivere qualcosa in questi primi post di prova e temporanei: segnalo il sentito ricordo di Derrida da parte di Tommaso Giartosio su Nazione Indiana.Mi ha colpito, in particolare, questo passo:

Era liberazione il suo “non c’è alcun fuori testo”. Io lo spiego così: nessun testo (nessun Protocollo) può degradare il suo intorno al rango di “fuori testo” e, forte di ciò, dirsi autosufficiente, autoevidente, accecante. Occorre invece riposare la vista, se necessario, e subito dopo passare a esaminare la cornice − per esempio il progetto, il movente − che è parte integrante del testo e contribuisce alla sua feconda impurità.

Per una salutare ironia (molto derridiana –mi sembra) io quel famoso “il n’y a pas de hors-texte” l’ho sempre interpretato in maniera quasi opposta pur giungendo a conclusioni simili (per comoda brevità diciamo: antifondazionali). Ovvero: non esiste qualcosa di “puro”, di non segnato dalla traccia, dalla scrittura, non esiste un trascendente, una Verità di cui tutto il resto sarebbe effetto

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secondario. Insomma, non può venire nessuno a dirmi “io possiedo il senso, l’intenzione, il pensiero, la voce, la verità, mentre tu, inferiore, solo una protesi, una derivazione, una deviazione, una perversione: la scrittura”. Non c’è un fuori-testo naturale, sano, infondato. Siamo sempre dentro la “scrittura”, circondati da una cornice, delle istituzioni, delle fondazioni che devono essere messe in questione: decostruite.

Segnalo ancora un articolo di Terry Eagleton in difesa di Derrida e contro il rifiuto, la sufficienza e l’indifferenza del mondo accademico anglosassone di fronte alla morte del filosofo. Un ritorno a Canossa per colui che definì Derrida “rozzamente antistorico” (avrà letto questo nel frattempo?).

. . . .Libro bagnato, libro fortunato | commenti (12)postato da Tez, venerdì, 15 ottobre 2004

Ho comperato il volume oggi, prendendo anche due acquazzoni feroci che mi hanno inzuppato. Ho iniziato a leggere il saggio e... bravi per su questa suggestiva idea che si è concretizzata così in fretta. PS già che ci sono ho provato anche la funzione titolo

. . . .[titolo] | commenti (4)postato da Azioneparallela, venerdì, 15 ottobre 2004

Scrivo solo a titolo di prova, per vedere l'effetto che fa. Col che mi sono iscritto, suppongo. Quanto alla direzione filosofica, è un inattesa polpetta di vue. Che ringrazio. (Cosa comporti però non so).

. . . .Epoché | commenti (1)postato da violentunknownevent, venerdì, 15 ottobre 2004

Jacques Derrida è definitivamente "sfuggito al controllo". La sua scomparsa ha scatenato sciami d'interpretazioni (nel disperato tentativo di riassumere in qualche frase un inarrestabile flusso di scrittura) e furiosi dibattiti tra continentali e neopositivisti vari. Ma l'eredità del pensatore francese è innanzitutto un'interrogazione sulla filosofia stessa, su cosa "dica" la filosofia, su come lo dice. Perciò si è scelto di tornare (fenomenologicamente) alla cosa stessa: non il pensiero, ma la scrittura derridiana. Questo blog seminario (innanzitutto un esperimento sul mezzo) intende mettere alla prova i diversi capi di accusa che hanno pesato su Derrida: ermetico, sofista, imbroglione. Vuole essere l'occasione di sviluppare una riflessione sul testo filosofico, sui limiti e sulle ragioni del suo linguaggio. Si comincia a novembre: nel frattempo chi fosse interessato a partecipare s'iscriva via mail e cominci a leggere il saggio. Seguiranno dettagli tecnici e una breve introduzione del testo, per infine cominciare con la pubblicazione progressiva.