lapallacorda.files.wordpress.com  · Web view2021. 1. 16. · INTRODUZIONE. Nel 1994, Silvio...

97
INTRODUZIONE Nel 1994, Silvio Berlusconi, proprietario delle 3 più grandi emittenti televisive private, decide di scendere in campo in politica. L’intera storia della nostra televisione infatti, è stata caratterizzata da una costante “anomalia”, o da una serie di anomalie, tutte riconducibili allo strapotere dei partiti e, al tempo stesso, all’enorme difficoltà legislativa di riformare questo settore. La situazione attuale suscita quindi una grande domanda negli storici: perché la TV italiana è sempre apparsa come un'appendice della politica, uno strumento asservito al potere ed ai partiti? Mario Morcellini (studioso e professore di processi comunicativi) commenta la preminenza dei partiti all’interno della televisione pubblica negli anni Cinquanta e Sessanta, sostenendo che l’abbiano utilizzata come “un nuovo e luccicante instrumentum regni”. A rendere particolare la situazione della radiotelevisione italiana erano le caratteristiche del sistema politico del dopoguerra e le forti continuità che si stabilirono tra la RAI e l’ente radiofonico EIAR (Ente Italiano per le Audizioni Radiofoniche) creato dal fascismo. Da un lato alcuni settori della DC aspiravano a fare dei nuovi mezzi di comunicazione il pilastro della loro politica culturale nel tentativo di nazionalizzare la cultura ed i saperi. Dall’altro lato però dopo la fine della guerra nessuna delle forze politiche manifestò un reale interesse a cambiare le regole della radiofonia. Esso venne infatti rifondato sotto il segno di un compromesso tra le continuità delle vecchie strutture amministrative dell’EIAR fascista e la subordinazione diretta della nuova azienda al governo. Legge 14 del 1975: Secondo la legge, i principi fondamentali del servizio pubblico, sono indipendenza, obiettività e apertura alle diverse tendenze politiche, sociali e culturali. Tramite ne è l'apposita Commissione parlamentare per l'indirizzo generale e la vigilanza dei servizi radiotelevisivi. Le novità più importanti contenute nella norma possono essere così riassunte: - passaggio del controllo del servizio pubblico e della società concessionaria dal governo italiano al Parlamento per garantire maggior pluralismo all'informazione; - conferma del monopolio dello Stato sulle trasmissioni radiotelevisive;

Transcript of lapallacorda.files.wordpress.com  · Web view2021. 1. 16. · INTRODUZIONE. Nel 1994, Silvio...

Page 1: lapallacorda.files.wordpress.com  · Web view2021. 1. 16. · INTRODUZIONE. Nel 1994, Silvio Berlusconi, proprietario delle 3 più grandi emittenti televisive private, decide di

INTRODUZIONENel 1994, Silvio Berlusconi, proprietario delle 3 più grandi emittenti televisive private, decide di scendere in campo in politica. L’intera storia della nostra televisione infatti, è stata caratterizzata da una costante “anomalia”, o da una serie di anomalie, tutte riconducibili allo strapotere dei partiti e, al tempo stesso, all’enorme difficoltà legislativa di riformare questo settore. La situazione attuale suscita quindi una grande domanda negli storici: perché la TV italiana è sempre apparsa come un'appendice della politica, uno strumento asservito al potere ed ai partiti? Mario Morcellini (studioso e professore di processi comunicativi) commenta la preminenza dei partiti all’interno della televisione pubblica negli anni Cinquanta e Sessanta, sostenendo che l’abbiano utilizzata come “un nuovo e luccicante instrumentum regni”.

A rendere particolare la situazione della radiotelevisione italiana erano le caratteristiche del sistema politico del dopoguerra e le forti continuità che si stabilirono tra la RAI e l’ente radiofonico EIAR (Ente Italiano per le Audizioni Radiofoniche) creato dal fascismo. Da un lato alcuni settori della DC aspiravano a fare dei nuovi mezzi di comunicazione il pilastro della loro politica culturale nel tentativo di nazionalizzare la cultura ed i saperi. Dall ’altro lato però dopo la fine della guerra nessuna delle forze politiche manifestò un reale interesse a cambiare le regole della radiofonia. Esso venne infatti rifondato sotto il segno di un compromesso tra le continuità delle vecchie strutture amministrative dell’EIAR fascista e la subordinazione diretta della nuova azienda al governo.

Legge 14 del 1975: Secondo la legge, i principi fondamentali del servizio pubblico, sono indipendenza, obiettività e apertura alle diverse tendenze politiche, sociali e culturali. Tramite ne è l'apposita Commissione parlamentare per l'indirizzo generale e la vigilanza dei servizi radiotelevisivi. Le novità più importanti contenute nella norma possono essere così riassunte:

- passaggio del controllo del servizio pubblico e della società concessionaria dal governo italiano al Parlamento per garantire maggior pluralismo all'informazione;

- conferma del monopolio dello Stato sulle trasmissioni radiotelevisive;- regolamentazione delle trasmissioni via cavo;- disponibilità, all'interno della programmazione radiotelevisiva, di appositi spazi

destinati a sindacati, confessioni religiose, movimenti politici, enti e associazioni politiche e culturali, gruppi etnici e linguistici e altri gruppi di rilevanza sociale che ne facciano richiesta (altrimenti definito Accesso);

- costruzione di una terza rete televisiva;- nascita di una struttura dedicata alla divulgazione all'interno della concessionaria, il

Dipartimento Scuola Educazione.Con il passaggio del servizio pubblico dal controllo del governo a quello parlamentare, si avvia quel processo poi ribattezzato genericamente "Lottizzazione", ovvero la spartizione dei canali radiotelevisivi della Rai su base elettorale. Il primo effetto fu l'incorporazione di Rai 1 nella sfera di influenza della Democrazia Cristiana, di Rai 2 in quella del Partito Socialista Italiano e di Rai 3 in quella del Partito Comunista Italiano.

3 gennaio 1954: inizio trasmissioni televisive regolari in Italia.

Page 2: lapallacorda.files.wordpress.com  · Web view2021. 1. 16. · INTRODUZIONE. Nel 1994, Silvio Berlusconi, proprietario delle 3 più grandi emittenti televisive private, decide di

CAPITOLO 1 Nel 1924 nacque il ministero delle Comunicazioni (affidato a Costanzo Ciano, padre di Galeazzo Ciano). Nacque anche la prima società di broadcasting italiana, la “Unione Radiofonica Italiana”, nata dall’unione della torinese “Radiofono di Guglielmo Marconi” e la “Società Italiana Radio Audizioni Circolari”, entrambe legate al gruppo americano “Western Electric”. Grazie ad una convenzione dello stesso anno, l’Unione Radiofonica Italiana ottenne dal governo la concessione esclusiva dell’esercizio radiofonico per sei anni. Nel 1927 dall’URI nacque l’EIAR (Ente Italiano per le Audizioni Radiofoniche), il suo primo presidente fu Tommaso Tittoni, ex ministro degli Esteri ed esponente della classe politica liberale. Nel 1932 in occasione della IV mostra della radio di Milano, si svolsero le prime dimostrazioni di televisione via cavo.

Dopo il 1939 e lo scoppio della guerra, il broadcasting fu utile non solamente per scopi di propaganda, ma anche per scopi politici e militari per l’estero. In particolare ad esempio Radio Bari, che già da tempo si rivolgeva ai Paesi arabi, intensificò la propria azione, per far apparire le forze dell’Asse come liberatrici contro gli oppressori anglo-francesi. Fin dall’epoca della guerra di Spagna poi, l’Italia era stata raggiunta da trasmissioni radiofoniche estere ed era così iniziato un diffuso ascolto clandestino di alcune trasmissioni. Dalla Russia, gestita da Palmiro Togliatti, arrivava Radio Mosca, dalla GB arrivava Radio Londra, che conobbe ascolti altissimi in tutta Italia nonostante la repressione di Mussolini. Nel ‘42 poi arrivarono anche le radio americane, in particolare ogni domenica vi era un intervento del sindaco di NY Fiorello La Guardia, che si rivolgeva ai propri connazionali dai microfoni della NBC. All’aumentare degli ascolti delle radio clandestine estere, calava la credibilità dell’italiana EIAR. Con la caduta di Mussolini il 25 luglio del 1943 e con il successivo governo Badoglio, l’azienda dell’EIAR si ritrovò spezzata in due, una parte al sud ed una al nord. Al sud le radio passarono sotto il controllo degli alleati attraverso il PWB (Psychologi-cal Welfare Branch). Le radio del Sud Italia sotto il PWB ebbero più successo in fatto di propaganda e in particolare Radio Bari si distinse per una importante trasmissione: Italia combatte, che poi passò prima a Radio Napoli, e poi a Radio Roma. Questa trasmissione era un servizio di informazione militare destinato ai partigiani che combattevano nelle regioni occupate.

Nel 1944 l’EIAR cambia nome e diventa RAI (Radio Audizioni Italia), sempre sotto la guida del presidente Luigi Rusca.

La subordinazione dell’azienda radiofonica all’esecutivo e la permanenza di una parte dei quadri direttivi dell’EIAR fascista sembravano un giusto compromesso per la formazione di una radio democratica che superasse l’emergenza bellica. Questo compromesso resse fino al 1947, quando le sinistre uscirono dai quadri del governo. Il nuovo presidente RAI divenne Giuseppe Spataro (DC, degasperiano cattolico-liberale), il suo arrivo coincise con il recupero di vecchi quadri dirigenti dell’EIAR e con la messa a punto di legami fondanti tra l’agenzia concessionaria, l’IRI (Istituto per la Ricostruzione Industriale), e il partito di maggioranza relativa, la DC. Questi legami si fondavano su poche e semplici direttive: la gestione finanziaria ed economica spettava all’IRI, mentre l’indirizzo politico spettava al governo e l’impostazione culturale alla Democrazia Cristiana. Dopo Spataro il direttore della RAI divenne Sernesi, che tra le altre cose istituì, secondo una suddivisione già presente nella radio britannica, un “programma nazionale” dai contenuti più

Page 3: lapallacorda.files.wordpress.com  · Web view2021. 1. 16. · INTRODUZIONE. Nel 1994, Silvio Berlusconi, proprietario delle 3 più grandi emittenti televisive private, decide di

istituzionali, tradizionali e legati all’informazione, un “secondo programma” legato alle trasmissioni di intrattenimento e varietà ed infine un “terzo programma” volto principalmente alla trasmissione di programmi culturali.

Nel frattempo erano ricominciate le sperimentazioni per la realizzazione del servizio di televisione circolare e nell’aprile del 1952 partì il primo ciclo di trasmissioni sperimentali messe in onda dalla stazione di Milano.

L’ avvento della televisione e la RAI di Guala: Il 3 gennaio del 1954 iniziavano le trasmissioni televisive regolari con una media di 28 ore a settimana. Il 10 aprile dello stesso anno la RAI (prima Radio Audizioni Italia), pur mantenendo la stessa sigla, assunse il nome di Radiotelevisione Italiana. Sempre a partire dal 1954 poi si fece strada una nuova classe dirigente, con una maggiore consapevolezza della intrinseca politicità della televisione. Questa nuova classe dirigente iniziò a sfidare l’equilibrio mantenuto a lungo dagli “aziendali”, i vecchi funzionari dell’EIAR ed i funzionari formatisi in periodo post bellico sotto la direzione angloamericana.

Anche lo scenario politico nazionale era in fermento dopo l’uscita di De Gasperi dalla scena politica nel 1953, e gli equilibri della DC si spostarono sempre più verso una sinistra cattolica guidata da Amintore Fanfani. In questo contesto l’amministratore delegato della RAI divenne Filiberto Guala. Guala decise di percorrere diverse strade:

- tentò di svecchiare le strutture interne- allentò il primato della sede torinese a favore di quella romana- ridusse il peso degli “aziendali”- tentò di potenziare al massimo l’intento formativo-educativo della televisione- trasferì a Roma la direzione della TV- separò il momento ideativo dei programmi da quello produttivo- il telegiornale passò alle dirette dipendenze della direzione generale- formò un grande accentramento delle decisioni - formò anche un articolato sistema di comitati con funzioni di indirizzo e di controllo.

Al vertice di questo sistema c’era il “comitato generale delle trasmissioni” che aveva la funzione di determinare le direttive generali di attuazione delle trasmissioni. Furono inoltre create delle specifiche commissioni consultive per “l’aspetto culturale ed il costume”, una per la radio ed una per la TV.

Nel 1955 venne organizzato il primo concorso di assunzione RAI e poi un successivo corso di formazione per i nuovi dipendenti. Vi parteciparono in 4000 e vennero presi in 40, tra questi vi furono figure illustri, come ad esempio quella di Umberto Eco. Questa ampia opera di ristrutturazione dell’azienda, aveva per Guala una doppia finalità: sia quella di modernizzare la RAI nel momento decisivo del lancio della TV, che quello di accentrare i poteri decisionali al vertice in modo da isolare sempre di più i vecchi funzionari non in linea con la sua idea.

Fu il fronte degli “aziendali” a sferrare l’attacco decisivo a Guala, anche se contro di lui operarono diverse forze: venne travolto da molte critiche che sostenevano lui prendesse ordini dal Vaticano, e all’interno della DC veniva considerato troppo “fanfaniano”. Guala fu anche oggetto di grosse polemiche a causa di un documento, il “Codice di autodisciplina”,

Page 4: lapallacorda.files.wordpress.com  · Web view2021. 1. 16. · INTRODUZIONE. Nel 1994, Silvio Berlusconi, proprietario delle 3 più grandi emittenti televisive private, decide di

redatto da monsignor Galletto ed introdotto nel ‘54 per i programmisti TV. Il codice comprendeva una serie di norme sul rispetto della persona umana, della famiglia, degli ordinamenti sociali e della sensibilità degli spettatori. Rispondeva quindi all’intento di creare una morale cattolica. Documento dapprima segreto, divenne poi oggetto di pesantissime critiche da parte della politica che lo tacciarono come prova inconfutabile del legame tra le gerarchie ecclesiastiche e la nascente industria televisiva.

Il boom della televisione e la difficile transizione internaIl nuovo amministratore delegato RAI divenne Macello Rodinò, ingegnere elettronico ex dirigente di varie aziende di energia elettrica. La sua politica puntava a l'efficientismo amministrativo e produttivo con lo scopo di fare della RAI un’impresa moderna e competitiva. Con la ristrutturazione di Rodinò si posero le basi di quel sistema interno di ripartizione delle funzioni e delle competenze che avrebbe dotato poi la RAI della sua ben nota struttura in feudi.

Benché mancasse ancora l’accesso dei partiti in TV e l’informazione politica si limitasse alle notizie ufficiali trasmesse dai TG, l’interesse pubblico verso i notiziari era aumentato costantemente, contribuendo a consacrare il successo del nuovo mezzo di comunicazione. Col miglioramento delle attrezzature per le riprese esterne aumentarono anche le dirette televisive e fu un grandissimo successo ad esempio, il collegamento in diretta dal Vaticano per l’elezione a papa di Giovanni XXIII nell’ottobre del ‘58. In questo contesto mentre cominciarono a nascere diverse polemiche riguardo alla faziosità del giornalismo televisivo ed il mancato accesso al video dei partiti dell ’opposizione, la DC aveva tutto l’interesse a mantenere saldo il controllo sul settore dell’informazione.

In quegli anni tramite la SIPRA (Società Italiana Pubblicità per Azioni), cui azionisti di maggioranza erano l’IRI e la RAI, venne creato un nuovo canale di collegamento tra il sistema radiovisivo ed il mondo della politica. La convenzione del 1952 prevedeva che la pubblicità non superasse il 5% del tempo totale delle trasmissioni, ma fin da subito ci fu una grande richiesta di pubblicità televisiva, superiore alla disponibilità temporale. Siccome la domanda e l'offerta non potevano essere aggiustate dal libero gioco del mercato, la SIPRA si trovò libera di gestire il mercato pubblicitario in modo abbastanza discrezionale. Dirottò grosse somme di denaro sotto forma di pubblicità su altri mezzi di informazione, come giornali e periodici, in questo modo la SIPRA (e indirettamente IRI e RAI), finanziavano in modo indiretto anche gli organi di partito cui dava la pubblicità: per la DC era il quotidiano “Il Popolo”, per il PCI “l’Unità” e “Rinascita”, per il PSI “Avanti!” e “Mondo Operaio”, per il partito liberale “Umanità” e “Ragionamenti”.

L’ uomo di fiducia Ettore Bernabei L’inizio degli anni Sessanta costituì un momento chiave per la politica italiana: Tambroni aveva fondato un governo con la fiducia del Movimento Sociale Italiano, rischiando una frattura insanabile nella politica italiana dopo gli scontri a Genova. La sola strada possibile restava così quella del centro-sinistra, che voleva dire includere il Partito socialista nella maggioranza governativa. L’apertura a sinistra era già nell’aria da anni, e dopo la morte di De Gasperi (‘54) si era prodotto un vasto dibattito in DC a riguardo. Aldo Moro al momento della sua elezione a segretario di partito nel 1959 disse che si doveva “dar vita ad un’esperienza di più ardito impegno sociale”.

Page 5: lapallacorda.files.wordpress.com  · Web view2021. 1. 16. · INTRODUZIONE. Nel 1994, Silvio Berlusconi, proprietario delle 3 più grandi emittenti televisive private, decide di

In quegli anni inoltre, con Nikita Kruscev si era aperta la fase della destalinizzazione in Unione Sovietica. Nella chiesa Cattolica invece, Papa Giovanni XXIII e il suo Concilio Vaticano II costituirono un importante momento di rinnovamento. L’Italia tutta stava vivendo un particolare momento di rinnovamento culturale, la società stava diventando mediamente più ricca, più informata e più urbanizzata, inoltre cambiarono anche le abitudini degli italiani: famiglie più piccole e più isolate, si diffuse la motorizzazione privata e gli elettrodomestici, nacque il “tempo libero” e la TV divenne il simbolo del nuovo consumo. A 10 anni dall’avvio delle trasmissioni regolari, gli utenti televisivi erano già più di 5 milioni.

Il 4 novembre del 1961 partirono anche i programmi regolari della seconda rete televisiva. Nello stesso periodo, grazie ad un sistema progettato dalla Ampex (compagnia statunitense), si cominciò ad avere la possibilità di registrare le immagini televisive, cioè si potevano avere programmi per la TV con tecniche analoghe a quelle per il cinema. All’interno della RAI nel 1961 fu nominato direttore generale Ettore Bernabei, politicamente vicino a Fanfani, al momento presidente del Consiglio. Fanfani era allora illuso di poter essere il capitano di una transizione della politica verso un centro-sinistra organico (la figura di Moro era già molto importante) e la presenza di un suo uomo di fiducia in RAI era fondamentale. Bernabei poi rimase al suo posto di direttore generale anche quando nel 1963 Fanfani fu costretto a cedere il posto a Moro a capo dell'esecutivo.

Bernabei in RAI cercò di sostituire la direzione manageriale di Rodinò con una gestione più politica, necessaria a favorire il decollo del centro-sinistra. I suoi uomini infatti, misero all’opera programmi nuovi, più spregiudicati, più moderni e socialmente impegnati, al passo col nuovo corso del centro-sinistra. Con Bernabei si venne creando un meccanismo di spartizione delle cariche via via sempre più istituzionalizzato, cui corrispondeva poi una strategia culturale più aperta e varia, più conforme sia alla sentenza della Corte Costituzionale, che alla nuova realtà politico-ideologica che comprendeva il nuovo governo. La sua convinzione era quella che “una buona televisione avrebbe contribuito al disegno più generale di un rafforzamento della democrazia”, in quest’ottica Bernabei ed i suoi collaboratori avviarono un programma di rinnovamento della TV che, nel rispetto della consueta triade “educare, informare, intrattenere”, mirava a migliorare la qualità e l’offerta delle trasmissioni. Politica e spettacolo entrarono in contatto diretto attraverso le Tribune elettorali e le Tribune politiche, mentre nei programmi d’inchiesta e di informazione la RAI cominciava a dar prova di un giornalismo moderno e all’avanguardia. Nel settembre del 1961 Bernabei decise di affidare ad Enzo Biagi (giornalista per la Stampa) la direzione del telegiornale. Biagi cercò di rinnovare il tutto, volle rendere meno paludoso il TG: abolì la messa in onda delle cerimonie ufficiali, inaugurazioni, mostre, tagli di nastri dei politici. Inoltre poi, volle puntare sulla cronaca, compresa quella giudiziaria che fino a quel momento non era apparsa molto in TV. Ben presto Biagi si accorse di non avere tutto quel margine di autonomia, a posteriori si accorse che al direttore del TG occorreva “mantenere certi equilibri” e capì di essere “l’uomo sbagliato al posto sbagliato”, così, dopo soli 11 mesi, segnò le dimissioni.

Negli anni 1960-61, con la richiesta dell’entrata nei quadri dirigenti RAI di Italo De Feo (socialdemocratico), si era cominciato a profilare il metodo delle spartizioni dei ruoli di potere ai diversi partiti al governo. Solo tre anni dopo tuttavia, insediatasi nel 1963 la nuova

Page 6: lapallacorda.files.wordpress.com  · Web view2021. 1. 16. · INTRODUZIONE. Nel 1994, Silvio Berlusconi, proprietario delle 3 più grandi emittenti televisive private, decide di

maggioranza di centro-sinistra, si potè arrivare alla designazione di De Feo come vicepresidente.

Nel 1965 erano oltre 24 milioni le persone che quotidianamente assistevano ai programmi TV. Il 25 giugno del 1967 la RAI partecipò per la prima volta alla mondovisione, mandando in onda un collegamento diretto con i cinque continenti.

L’ arrivo di Granzotto ed il conflitto tra “ aziendali ” e “politici” Il 29 aprile 1965 venne nominato amministratore delegato Gianni Granzotto, prestigioso giornalista, commentatore di politica estera e fa i primi moderatori di Tribune elettorali. La sua candidatura scaturiva da un unione di diversi interessi che riflettevano il quadro politico di quegli anni. Impossibile attenta la progettualità riformatrice che era stata l'origine del centrosinistra, il sistema si stava assestando sulle regole del cosiddetto “condominio doroteo”, che avrebbe dovuto garantire la tenuta dell'alleanza di governo e soprattutto l’unità interna della Democrazia Cristiana mediante un meccanismo capillare di occupazione del potere in tutti gli apparati pubblici. Inizialmente tra Bernabei e Granzotto si creò una certa sintonia: entrambi sapevano di dovere i loro incarichi alla volontà delle forze politiche e che pertanto era necessario far fronte comune contro la vecchia guardia degli “aziendali”.

In quegli anni, fino al 1967, ci fu un grande rimpasto aziendale, cambiarono molte figure in posizioni di potere proposte da diversi partiti. Al termine di queste manovre il profilo complessivo della RAI risultava molto diverso da quello delineato a suo tempo da Rodinò: la DC (in particolare il gruppo fanfaniano) aveva ottenuto il controllo di quasi tutti i settori chiave dell'azienda. Le altre forze politiche erano entrate in gioco solamente nelle spartizioni interne.

La gestione di Bernabei, anteponendo gli interessi politici a quelli economico amministrativi, aveva prodotto una struttura sempre più dispendiosa. Fu proprio su questo punto che nel corso del 1968 si consumò lo scontro fra Bernabei e Granzotto; Quest'ultimo infatti, trascinando una più oculata politica finanziaria e il ridimensionamento del potere democristiano, aveva cercato l'appoggio delle componenti aziendalistiche interne e sul fronte politico si era rivolto ai partiti laici di centro. Al momento della scadenza del suo mandato, nel 1968, Bernabei avrebbe voluto sostituirlo e anche Moro aveva pronta la candidatura alternativa di un suo stretto collaboratore. Tuttavia, grazie al sostegno di repubblicani socialisti e lo stesso IRI Granzotto venne riconfermato.

Proprio a partire dal ‘68 iniziarono a farsi sempre più consistenti le richieste di una riforma organica della RAI e contemporaneamente gli echi delle rivolte studentesche e del Maggio francese, produssero un notevole inasprimento dei conflitti interni. Ci furono parecchi scioperi, occupazioni e assemblee che paralizzarono i centri di Roma, Milano e Torino. Fu in questo quadro di dissidi interni e di ricerca di un migliore assetto organizzativo che si decise di far stilare a tre esperti del settore, uno studio sulla ristrutturazione della RAI. Questi esperti stesero un rapporto che verteva a razionalizzare le strutture dell’azienda. Il rapporto affermava: “La RAI, oggi è da una parte una struttura a regime autoritario, Una distinzione dei compiti fra l'amministratore delegato ed il direttore generale rigida nei fatti, ma poco chiara e funzionale; d’altra parte, rappresenta un regime di tipo feudale con una serie di

Page 7: lapallacorda.files.wordpress.com  · Web view2021. 1. 16. · INTRODUZIONE. Nel 1994, Silvio Berlusconi, proprietario delle 3 più grandi emittenti televisive private, decide di

autonomie e di poteri di carattere troppo policentrico e con grave difficoltà a ricondurre ad unità meccanismi decisionali. Ora la nostra convinzione è che “coordinamento”, sia una bella parola, ma molto difficile da attuare. E che la creazione di organi di coordinamento sia un modo di sfuggire a vere e proprie responsabilità di direzione. Un'azienda che rispetti schemi enormi di tipo funzionale deve poter contare il meno possibile sulla funzione di coordinamento ed esaltare invece la funzione di delega di responsabilità compiuta con chiarezza e precisione.“ Il rapporto quindi, proponeva una ristrutturazione in chiave manageriale e razionalistica, che non escludeva il pluralismo dei contributi culturali e politici ed una più ampia partecipazione dei gruppi sociali del Paese. Secondo il rapporto l’amministratore delegato sarebbe dovuto diventare Il responsabile politico dell'azienda verso gli organi collegiali e verso l'esterno occupandosi anche dei piani di sviluppo di lungo periodo. Il direttore generale, capo effettivo dell'apparato interno, avrebbe dovuto assumere: le responsabilità di conduzione giornaliera di produzione dei programmi, di finalizzazione degli altri servizi alle esigenze della produzione, di gestione delle risorse umane, e di adozione delle tecniche necessarie garantendone l’impiego economicamente corretto. Bernabei lo definì uno “studio abbastanza fumoso e campato in aria” e lo liquidò, dando il pretesto a Granzotto di segnare le dimissioni nel 1969. Il rapporto degli esperti d’altronde, non aveva entusiasmato neanche la stampa nazionale ed il mondo politico; in generale tutti vi contestavano il mancato riferimento ai rapporti politici ed ai meccanismi di potere che da sempre legavano la RAI ai partiti di governo. Anche il Partito Comunista respingendo il rapporto degli esperti propose al suo posto un documento elaborato dal comitato centrale che proponeva l'idea di una riforma complessiva e veramente Democratica dell'ente radiotelevisivo. Una riforma che facesse della televisione un servizio pubblico distaccato dall'esecutivo democraticamente strutturato e decentrato nel Paese basato su una gestione sociale degli utenti dei lavoratori dell'ente e del Parlamento. Al contrario, il rapporto degli esperti maturato fuori da ogni forma di dibattito pubblico e di controllo da parte del parlamento, manifestava la chiara intenzione di nascondere una situazione fallimentare, la profonda degenerazione interno, la disorganizzazione dei servizi, la crisi finanziaria che si esprime in un consistente deficit, la crisi della politica culturale e dell'informazione. Appariva In sostanza solo un pretesto per prendere tempo, per ricostruire un'alleanza che dava segni di cedimento.

L’ ordine di servizio del 1969 e l ’ inizio della “ guerra del video ” L’ordine di servizio che Granzotto si era rifiutato di firmare nel 1968, che prevedeva un rimpasto di dirigenti RAI, venne approvato 8 mesi dopo. Il nuovo comitato direttivo era compatto ed equilibrato al punto giusto da consentire in tempi rapidissimi l'approvazione dell'ordine di servizio di Bernabei. Improntato al criterio secondo cui le direzioni andavano ai democristiani, le vice direzioni e le codirezioni ai socialisti, esso rivoluzionò l’organigramma dell’azienda coinvolgendo circa 300 persone. Simbolo e vittima illustre di questa vasta opera di riorganizzazione fu Marcello Bernardi, il vicedirettore generale che da 30 anni si trovava in RAI e rappresentava la linea di continuità col vecchio EIAR, nonché il punto di riferimento dell’establishment degli “aziendali”. Questo allontanamento costituì, da un lato, il trionfo definitivo della “anima politica” della Rai su quella “aziendale”. Inoltre l'estromissione di Bernardi consacrò definitivamente il potere personale di Bernabei. Un potere che fu sancito anche per via formale, da una delibera del Consiglio di Amministrazione dell'aprile 1969 che ampliò le competenze del direttore generale includendovi anche il controllo sulle attività e sulle

Page 8: lapallacorda.files.wordpress.com  · Web view2021. 1. 16. · INTRODUZIONE. Nel 1994, Silvio Berlusconi, proprietario delle 3 più grandi emittenti televisive private, decide di

decisioni dell'amministratore delegato. Sempre nel 1969 ci furono ordini di servizio che applicavano le vecchie logiche spartitorie dei ruoli di direzione in modo più esteso rispetto al passato, includendovi socialisti e partiti minori dell'alleanza di governo, la lottizzazione della RAI quindi, si avvia a diventare un fatto compiuto. L’estromissione degli aziendali e la creazione di un gruppo dirigente compatto ed omogeneo rispetto agli equilibri governativi, contraddiceva però gli schemi di razionalizzazione suggeriti dal documento degli esperti. Tra ‘68 ed il ‘69 e infatti, la RAI conobbe un imponente dilatazione delle strutture interne, con pesanti conseguenze per la sua situazione finanziaria. Nelle sue memorie Bernabei ha attribuito le difficoltà finanziarie di quegli anni principalmente alla volontà del ministro del Tesoro di non aumentare il canone della Radiotelevisione, ma in realtà furono soprattutto le crescenti spese per il personale ad incidere sul deficit di bilancio.

Nell’opinione pubblica era alla ribalta il tema del presunto pericolo rosso in RAI, lanciato da una parte dell'establishment democristiano ostile a Fanfani e si era poi trasformato in una grossa polemica sulla stampa, dopo che nel maggio 1964 Indro Montanelli aveva denunciato il controllo sulla Rai da parte del “mondo comunista cattolico” ovvero “minotauri del più ripugnante matrimonio ideologico”. Montanelli dichiarò anche “In questa polemica ho detto ciò che andava e che andrebbe detto: un'azienda di Stato è al servizio dei cittadini, non dei partiti e delle loro correnti, e che farne uno strumento di propaganda politica e di pubblicità commerciale è un sopruso, una immoralità, un'infamia.” Questa polemica esplose poi nuovamente nel maggio 1969 quando apparve su “Epoca” un provocatorio articolo di Pietro Zullino intitolato Il video diventa rosso: "abbiamo seguitato a vedere i soliti telegiornali ambigui e le solite inchieste demistificatorie dalle quali si deduce che i contestatori hanno ragione sempre e a priori, perché il nostro paese è ancora in mano al Borbone e i suoi sgherri." In un’intervista a margine dell’articolo, il vicepresidente RAI Italo De Feo, che da tempo rappresentava nell’azienda il baluardo dell’anticomunismo, lamentava che non fosse “mai stato preso un provvedimento contro coloro che hanno tradito le direttive loro impartite, ossia hanno falsato la verità e hanno distorto l'informazione. I due terzi dei nostri curatori e consulenti previsti nei programmi sono comunisti o communistroidi; ma più terzo è formato da radicali e cattolici dissidenti.”

Le pressioni anticomuniste di De Feo aumentarono in occasione del caso Zavoli, scoppiato nel febbraio 1970, quando il quotidiano “Il Tempo” sferrò un violento attacco contro l'inchiesta condotta dal giornalista Sergio Zavoli per TV7 sulle norme ancora vigenti del Codice Penale fascista. L'inchiesta (Un codice da rifare) tacciata di faziosità dal quotidiano romano, venne attaccata pubblicamente da De Feo in una lettera inviata il giorno successivo allo stesso giornale. L'articolo del “Tempo” suscitò numerosi interventi soprattutto da parte dei repubblicani in difesa di Zavoli, e dell'obiettività del servizio. Mentre Bernabei cercava di non lasciarsi coinvolgere in prima persona, il presidente Rai Sandulli, già al centro di altre polemiche, decise di dimettersi.Il caso si concluse con un nulla di fatto, il gruppo nominato dalla Commissione di Vigilanza non raggiunse mai un accordo sui tagli effettuati limitandosi a definire discutibile il montaggio del servizio giornalistico. Tuttavia le dimissioni di Sandulli e l’enorme eco che la vicenda ebbe sulla stampa e all'interno dell'azienda, dove i giornalisti scioperarono in segno di solidarietà con Zavoli, aprirono di fatto la lunga stagione di crisi della Rai.

Page 9: lapallacorda.files.wordpress.com  · Web view2021. 1. 16. · INTRODUZIONE. Nel 1994, Silvio Berlusconi, proprietario delle 3 più grandi emittenti televisive private, decide di

Dal punto di vista finanziario, la RAI riuscì a chiudere il bilancio del ‘74 in pareggio solo grazie all'aumento del canone, alle sovvenzioni dello Stato e alla riduzione delle spese per tecnologie e produzione. Dal punto di vista tecnico, poi, l'azienda non era in grado di rinnovarsi sul fronte della televisione a colori; fin dai primi anni Sessanta erano iniziate le sperimentazioni, ma la Rai continuava a trasmettere in bianco e nero a causa di mancanza di decisioni da parte del legislatore. L'immobilismo dipendeva da due ragioni: c'era infatti il problema di scegliere tra il sistema PAL brevettato da Telefunken e in uso in Germania ed in Inghilterra ed il sistema francese SECAM, tecnicamente preferibile perché sulle lunghe distanze consentiva un segnale migliore. Le pressioni degli industriali furono fortissime tanto che, alla fine, quando nel febbraio ‘77 venne ufficialmente introdotto il colore, si scelse il sistema PAL che diventò il sistema più diffuso in Europa nell'area mediterranea. Esisteva poi un problema di natura politica, dal momento che il Partito Repubblicano si opponeva all'introduzione della TV a colori, in nome dell’austerità e della necessità di indirizzare le risorse e gli sforzi produttivi del Paese in altre, e più urgenti, direzioni. Contro il pericolo di una nuova corsa ai consumi, il leader repubblicano Ugo La Malfa costituì per anni il paladino del rigore economico e della televisione in bianco e nero. In occasione delle Olimpiadi di Monaco del 1972 il governo autorizzò la RAI a trasmettere a colori a giorni alterni, con sistema PAL e con quello SECAM, La Malfa, convinto che si trattasse del primo passo verso l'introduzione definitiva nel colore, minacciò di togliere l'appoggio del suo partito al governo. Cosa che avvenne effettivamente l'anno successivo, quando La Malfa tolse la fiducia al governo Andreotti ribadendo anche la questione del colore. L'opposizione di La Malfa alla TV a colori si intensificò nel corso del ‘73 quando, per cercare di far fronte alla grave recessione internazionale, il leader repubblicano, in qualità di ministro del tesoro, varò un rigoroso programma economico improntato al contenimento del deficit di cassa e al controllo dei prezzi. Applicata alla televisione tuttavia, questa politica di austerity, contribuì probabilmente a compromettere l'industria nazionale di apparecchi televisivi. Quando infatti nel ‘77 venne introdotto definitivamente il colore, l'industria elettronica italiana si ritrovò immediatamente surclassata dalle grandi multinazionali americane e tedesche.

Bernabei, venne attaccato violentemente per come la televisione aveva gestito la campagna elettorale in vista del referendum sul divorzio del 13 maggio ‘74 si dimise per questo motivo il 18 settembre dello stesso anno.

CAPITOLO 2

Informare, educare, intrattenere: il servizio pubblico in EuropaGià negli anni ‘50-’60, le TV europee contribuirono a veicolare la penetrazione della cultura e degli stili di consumo americane: si trattò di un "imperialismo autoinflitto, operato da professionisti del settore sinceramente attratti dagli Stati Uniti”. Il fenomeno d'altra parte, era già iniziato durante la guerra con la radio; in Italia, come si è visto, durante l'occupazione alleata, l'impiego massiccio della radio da parte americana era finalizzato sia a fiaccare psicologicamente il morale del nemico, sia a far conoscere agli italiani modelli, valori, ma anche stili di informazione propri degli Stati Uniti. Tuttavia, anche senza fermarsi ad un modello unico di radio e di TV, è possibile individuare alcune similitudini di fondo che accomunavano il broadcasting europeo. Questo era un servizio pubblico controllato, direttamente o indirettamente, dallo Stato. In quanto strumenti con funzioni di servizio alla collettività, la radio e la televisione avevano lo scopo di “informare, educare, intrattenere” secondo quanto pensava il primo direttore della BBC John Reith.

Page 10: lapallacorda.files.wordpress.com  · Web view2021. 1. 16. · INTRODUZIONE. Nel 1994, Silvio Berlusconi, proprietario delle 3 più grandi emittenti televisive private, decide di

Un elemento che caratterizzò tutti i paesi dell'Europa Occidentale fu la presenza di stretti legami e continue relazioni di interscambio tra l'apparato radiotelevisivo e il mondo politico. La scelta dei governi europei di assegnare le emittenti radiotelevisive in esclusiva allo Stato dipese da vari fattori. Innanzi tutto, come riportavano le riviste giuridiche degli anni ‘20-’30 quando si dovette affrontare il fenomeno nuovo della radiodiffusione, si pensò che costituisse una variante della radiotelegrafia e che come tale andasse gestita. Inoltre c'era la convinzione che la radio, in quanto pilastro della nascente industria culturale, dovesse essere al servizio dell'interesse collettivo dei cittadini. Dal punto di vista tecnico, la disponibilità limitata delle frequenza di diffusione del segnale televisivo (Ie onde hertziane) suscitò quasi naturalmente la necessità del monopolio statale, finalizzato a garantire la copertura su tutto il territorio nazionale. Da elemento fondamentale di tutte le società democratiche, il pluralismo informativo divenne ovunque il presupposto legittimante dell’intervento pubblico sulla televisione. La Radiotelevisione veniva dunque concepita come una sorta di grande agenzia educativa nazionale col compito di rafforzare e integrare la missione pedagogica delle scuole. Sulla base quindi, di una filosofia di servizio che considerava i media come segni di civiltà, e la loro funzione come un diritto universale, gli Stati si assumevano l'onere e la responsabilità di garantire tale diritto all'intera collettività. Sul piano politico, i mezzi audiovisivi diventarono pilastri sui quali le democrazie postbelliche cercarono di costruire la propria legittimazione utilizzandoli per propaganda politica diretta.

Se dunque all'origine del sistema europeo di Radiotelevisione pubblica vi erano soprattutto motivi politici e tecnici, viceversa il modello privatistico americano, sorto all'indomani della Prima Guerra Mondiale, si fondava su ragioni essenzialmente economiche. Negli USA infatti la radiodiffusione si sviluppò come un’organizzazione funzionale agli interessi commerciali delle imprese che gestivano il broadcasting. Nacque nel 1926 il primo network, una catena di emittenti che emettevano contemporaneamente lo stesso programma, sarebbe diventato l'istituzione peculiare della Radiotelevisione americana. Il Radio Act del 1927 stabilì che chiunque poteva effettuare trasmissioni radiofoniche purché in possesso di una licenza che gli assegnava anche le frequenze su cui trasmettere. Per regolamentare l'assegnazione delle licenze e impedire concentrazioni monopolistiche fu creata nello stesso anno la Federal Radio Commission che nel 1934 divenne Federal Communications Commission, con competenze più estese comprendenti anche la telefonia. Dal punto di vista finanziario i network statunitensi si fondavano sulla vendita del tempo agli inserzionisti pubblicitari. Guido Guarda, uno scrittore italiano, nei suoi studi sulla televisione affermò: "purché i suoi sostenitori paghino, qualsiasi idea trova ospitalità nei teleschermi americani, e non ha nessuna importanza che un determinato programma sia solo il pretesto alla pubblicità o che un suo stesso argomento ne sia la sostanza." Entrò in gioco negli USA l’idea che la radio fosse da gestire analogamente alla stampa, in quanto entrambi veicoli per la libera espressione del pensiero. Di qui la nascita di un sistema commerciale di libero mercato dove lo Stato si riservava solo il compito di accordare le licenze ai privati per la gestione degli emittenti.

Il caso dell ’ Italia ed il modello inglese Nell’Italia del dopoguerra mancò un vero e proprio dibattito su quale modello radiotelevisivo adottare; la scelta del monopolio pubblico fu quasi naturale e scontata. Mancò sia in sede di Costituente che nei Parlamenti del dopoguerra, una reale sensibilità verso il problema della

Page 11: lapallacorda.files.wordpress.com  · Web view2021. 1. 16. · INTRODUZIONE. Nel 1994, Silvio Berlusconi, proprietario delle 3 più grandi emittenti televisive private, decide di

legislazione del settore audiovisivo ed esso fu infatti tra quei settori che maggiormente conservarono le più forti continuità col ventennio fascista: prima fra tutte il monopolio esclusivo statale e la dipendenza dell’azienda concessionaria dall’esecutivo. Dal canto loro, le forze dell'opposizione non ebbero la volontà e soprattutto la forza necessaria per imporsi.

La sola novità legislativa del dopoguerra fu il decreto del 3 aprile 1947 sul “coordinamento e la vigilanza della radiodiffusione e della televisione”, elaborato durante il periodo del governo Bonomi, anche sotto la pressione alleata; fu completato alla fine del 1946, sottoposto alla Costituente e poi approvato nel giro di qualche settimana. Il decreto affidava al Ministero delle Poste e Telecomunicazioni il controllo sugli impianti e sulle attività dell'azienda concessionaria, comprese quelle finanziarie. Anche le nomine del presidente e dell'amministratore delegato dell'azienda dovevano essere ratificate dal ministero, sentito il parere del Consiglio dei Ministri. Il decreto istituiva inoltre un Comitato per la determinazione delle direttive di massima culturali, artistiche, educative ed una Commissione parlamentare di Vigilanza. Il Comitato era un organo tecnico chiamato a sovrintendere alla programmazione radiofonica predisposta trimestralmente dalla RAI. La Commissione parlamentare di Vigilanza, composta da rappresentanti di tutti i gruppi parlamentari, aveva il compito di vigilare affinché fosse assicurata l'indipendenza politica e l'obiettività di informazione delle radiodiffusioni. Era inoltre tenuta a trasmettere le proprie deliberazioni al Capo del governo affinché egli potesse riferirle al presidente dell'azienda concessionaria. Per l’adempimento di queste funzioni, la Commissione riceveva dall'ente concessionario tutti i programmi e i testi delle trasmissioni e poteva invitare alle sue riunioni i membri del governo e i dirigenti dell'ente concessionario, per comunicare le informazioni ed i documenti di sua competenza. Analizzata tuttavia dall’indeterminatezza dei propri compiti, dal fatto che i suoi interventi avvenivano solo dopo l'effettiva messa in onda dei programmi e soprattutto dalla facoltà del governo di intervenire direttamente sulla RAI per bloccare eventuali trasmissioni, la Commissione di Vigilanza risultò essere più formale che sostanziale. A questo proposito lo storico e giurista Garrone scrisse che la Commissione parlamentare ed il comitato culturale erano solamente "polvere negli occhi, perdenze di controllo", perché la realtà era dominata dal fatto che l'amministratore delegato ed il direttore generale, i veri e soli responsabili della gestione dell'ente, erano persone di fiducia del governo, anzi del partito di maggioranza governativa.

Anche in Francia e perfino nel tanto ammirato modello inglese della BBC, gli enti concessionari per le trasmissioni radio e TV erano formalmente dipendenti dall'esecutivo. In Gran Bretagna ad esempio, lo statuto del 1946 prevedeva che l'azienda fosse diretta da un consiglio di amministrazione con mandato quinquennale in cui membri venivano nominati dal sovrano su indicazione del governo in carica. Benché però, come si legge nella relazione della commissione per la radiodiffusione presentata al parlamento nel gennaio del ‘51, i poteri riservati formalmente dal governo sulla BBC fossero assoluti, nella realtà i vari governi succedutisi si sono trovati d'accordo col Parlamento nel decidere che la società dovesse essere indipendente dal governo nello svolgimento delle sue attività quotidiane, riguardanti tanto la preparazione dei programmi che l'amministrazione in generale. Tale indipendenza era indispensabile per togliere il partito al governo la tentazione di servirsi del controllo sulle radiodiffusioni per i propri fini politici.

Page 12: lapallacorda.files.wordpress.com  · Web view2021. 1. 16. · INTRODUZIONE. Nel 1994, Silvio Berlusconi, proprietario delle 3 più grandi emittenti televisive private, decide di

A rendere diverso il caso italiano e ad infiammare di conseguenza le polemiche contro una Radio Televisione feudo dell'esecutivo non era quindi l'aspetto giuridico in sé, ma la concomitanza di diversi fattori. La centralità dell'esecutivo si sommava: ad un rapido assorbimento dei vecchi quadri dell’EIAR nella nuova azienda concessionaria senza, come si è visto, vere misure di epurazione, al tentativo di una parte della classe dirigente democristiana di fare dei nuovi mezzi di comunicazione il pilastro della propria politica culturale e, in generale, alla complessa situazione politico-istituzionale dell'Italia del dopoguerra. Fu dunque l'insieme di questi elementi che, in assenza di un quadro normativo davvero rinnovato, finì per rendere la RAI un ente sotto la tutela della maggioranza governativa più che un ente pubblico a tutti gli effetti. La situazione politico-istituzionale della Gran Bretagna era diversa da molti punti di vista. La solidità del sistema bipartitico e il meccanismo dell'alternanza impedirono che nel lungo periodo il controllo formale dell'esecutivo sulla BBC si trasformasse in monopolio esclusivo di partito. Va infine considerato che nell'immaginario collettivo l'azienda britannica si portava dietro l'enorme credito acquisito durante la guerra, quando era apparsa a tutti come la sola a voce della libertà dinanzi alle dittature nazifasciste.

Arturo Carlo Jemolo, durante la sua breve presidenza in RAI affermò: “La Radio fu al servizio del regime; oggi è al di fuori dei partiti, ma segue l'indirizzo generale della politica del governo. Una radio unica in un regime che non sia totalitario, bisognerà resti in ogni modo supergiù sulla medesima linea; occorrerà cioè che non sia sorda a quegli interessi su cui sicuramente si trova concorde l'enorme maggioranza degli italiani e non adotti mai un indirizzo di partito. Rimedi giuridici si potranno attuare; ed il più semplice sarà una Commissione di Vigilanza, poco numerosa, emanazione del Parlamento, eletta con sistema proporzionale. Ma, poiché in seno alla commissione ci sarà sempre una maggioranza ed una minoranza, l'appello al costume cioè l'impegno di tutti i partiti che la radio non abbia mai ad essere strumento di quello al potere, è insostituibile. Ed è appunto per questa mia convinzione dell'impossibilità di sostituire mezzi giuridici al buon volere degli uomini per ottenere ciò che questo soltanto può dare, che credo sostanzialmente analoghe radio privata e radio di Stato agli effetti dell'indipendenza.”

In sostanza, come notava il giornalista e scrittore Adriano Bellotto nel ‘62, in Italia la serietà e l'imparzialità delle trasmissioni TV della BBC godevano di un credito enorme, dovuto al fatto che l'azienda radiotelevisiva inglese poteva vantare una completa Indipendenza nei confronti del governo.

In Italia, ad impedire che si potesse raggiungere il “modello BBC”, erano diversi fattori: la mancata alternanza al potere di due partiti, la centralità dei partiti stessi e la subordinazione del Parlamento al governo, la crescente egemonia democristiana nelle istituzioni pubbliche. E proprio per questo la “questione televisiva” divenne presto l’occasione per discutere più in generale i limiti e le disfunzioni del sistema politico-partitico dell’Italia repubblicana.

La parlamentarizzazione della RAI: la prima battaglia del Partito ComunistaLe polemiche contro la televisione “feudo governativo” costituirono uno dei temi cruciali della battaglia politica socialcomunista. Pietro Ingrao sferrò pubblicamente un duro attacco al sistema radiotelevisivo italiano: "La RAI agisce in Italia in condizione di assoluto monopolio, non ha concorrenti nel nostro Paese: monopolio stabilito per legge. Un regime che volesse serbare un minimo di rispetto

Page 13: lapallacorda.files.wordpress.com  · Web view2021. 1. 16. · INTRODUZIONE. Nel 1994, Silvio Berlusconi, proprietario delle 3 più grandi emittenti televisive private, decide di

ai principi democratici della nostra Costituzione, avrebbe il dovere di sottrarre uno strumento così delicato al potere esclusivo di una parte. Oggi la RAI è un chiuso ed esclusivo strumento della propaganda clericale. Non solo i responsabili di questo servizio sono scelti fuori da ogni controllo pubblico, ad arbitrio di pochi, ma le sue trasmissioni sono state adoperate sino per i più bassi, contingenti bisogni del partito al potere.”

Partì da Davide Lajolo, Giancarlo Pajetta e Pietro Ingrao una delle prime proposte di legge in materia di riforma radiotelevisiva. Presentato Il 18 marzo 1959 e mai discussa in aula, essa condannava l'identificazione tra Stato e governo, tra governo e partito al potere, e chiedeva la diretta ingerenza del Parlamento nella gestione dell'azienda concessionaria. il Parlamento infatti, “non può e non deve essere presente nei confronti del servizio delle radiodiffusioni solo nel momento successivo alla determinazione dei programmi ed alla loro esecuzione, ma deve partecipare direttamente, soprattutto attraverso la Commissione parlamentare di Vigilanza, all’attuazione di programmi, sia dal punto di vista politico, che da quello culturale, artistico ed educativo”. Solo in questo modo secondo il Partito Comunista si sarebbe garantita l'assoluta imparzialità ed obiettività nei programmi politici, para politici, cripto politici ed impedita la loro trasformazione in un continuo forsennato comizio democristiano.

Il periodico comunista “Rinascita” affermò: “La radio è diventata lo strumento politico del governo, anzi, del partito democristiano, a danno non solo delle opposizioni, ma degli stessi soci di governo della Democrazia Cristiana. Il Giornale Radio è concepito e redatto in appoggio a tutte le campagne anticomuniste e antisovietiche condotte dal governo e dalle forze reazionarie internazionali. L'anticomunismo si rivela nella scelta delle notizie, tutte le invenzioni e falsificazioni o travisamenti delle agenzie di informazioni americane contro i paesi dell'oriente europeo sono stati ripresi e ripetuti fino al intontimento e, non serve nemmeno farne il bilancio.”La questione dell'assetto radiotelevisivo vedeva la sinistra italiana impegnata soprattutto su due fronti: togliere al governo il controllo sulla concessionaria e attribuirlo al Parlamento e consentire l'accesso dei partiti in televisione per la propaganda e per l'informazione politica. Anche su questo fronte, infatti, c'era stato un sostanziale vuoto legislativo all'indomani della fine della guerra. La stessa legge del 4 Aprile ‘56 che introduceva nuove norme per la propaganda elettorale, riguardava esclusivamente i mezzi tradizionali (affissioni, striscioni, giornali murali, insegne luminose, eccetera), senza alcun riferimento a radio e televisione. Nel dicembre ‘54 ad esempio, Mario Scelba chiese al governo di approvare l'esclusione dalle trasmissioni Rai di notizie relative ai discorsi di esponenti comunisti e dalla rassegna stampa ogni accenno a “l'Unità”. Richiesta che fu accolta all'unanimità. Quattro anni dopo, il capo del governo Adone Zoli respinse definitivamente la domanda di assegnare uno spazio radiotelevisivo ai partiti in vista delle elezioni, affermando che i comunisti avevano già le trasmissioni mandate in onda da Radio Praga. Le tensioni si inasprirono proprio in occasione delle elezioni del marzo 1958, sia a causa della ancor più marcato interventismo del ministro degli Interni Tambroni, sia perché il PC, di fronte all'avvento della televisione e alla capillare diffusione della radio, ribadì la propria richiesta di concedere a tutti i partiti che hanno una rappresentanza parlamentare il diritto di fruire dei servizi radiotelevisivi. L'intervento di Ingrao alla camera, il 13 marzo, fu una durissima requisitoria sui metodi di assunzione in uso alla RAI e sulla faziosità dei giornalisti radiotelevisivi: “Oggi ci troviamo di fronte ad una situazione non di monopolio statale, ma di monopolio governativo: anzi, nemmeno di monopolio governativo si può parlare, ma più precisamente di monopolio di partito o addirittura di una corrente che attualmente dominante all'interno della Democrazia

Page 14: lapallacorda.files.wordpress.com  · Web view2021. 1. 16. · INTRODUZIONE. Nel 1994, Silvio Berlusconi, proprietario delle 3 più grandi emittenti televisive private, decide di

Cristiana. Si arriva così alla sfacciata parzialità della RAI divenuta strumento per la propaganda democristiana. Alcune notizie compaiono, ma inutilmente se ne cercano altre e non dico notizie che riguardano noi comunisti o i nostri compagni socialisti, ma, ad esempio, l'annuncio della lettera mandata a Kruscev e ad Eisenhower del grande filosofo inglese Bertrand Russell, lettera sulla quale si è aperta una polemica di stampa mondiale, sulla quale però la RAI ha taciuto, così come si è ben guardata dal dare la notizia il 7 marzo, di una presa di posizione della massima organizzazione sindacale Britannica sulla installazione delle rampe di lancio dei missili. Consideriamo, per un momento, quanto è successo a proposito del lancio dello Sputnik sovietico. Sapete, onorevoli colleghi, come ha dato la notizia per la prima volta la RAI? Con queste parole: “mentre gli Stati Uniti si preparano a lanciare 10 satelliti artificiali, i sovietici annunciano di aver sperimentato il loro!”. Compito della Rai non è quello di commentare i più importanti fatti italiani ed esteri, ma quello di informare in modo obiettivo. Quindi dallo stesso resoconto dell'attività della RAI balza evidente la violazione della legge. Stiamo per andare alle elezioni e vi andiamo con un solo partito al governo che detiene tutte le leve della responsabilità e sappiamo bene con quale abilità il governo sia penetrato in una serie di enti economici.”

Nel dicembre 1958, la questione dell'informazione politica in televisione tornò alla ribalta in Parlamento con una proposta di legge presentata dai deputati socialisti Adelio Albarello e Fernando Schiavetti. Richiamandosi all'articolo 21 della Costituzione sulla libertà di pensiero, i proponenti contestavano che fossero i funzionari Rai a riassumere gli orientamenti dei vari partiti, il più delle volte senza alcuna obiettività e veridicità aggiungendo quasi sempre commenti che tendono a distorcere il senso delle cose e a dare un quadro della situazione politica deformato ad uso di una sola parte politica. Chiedevano quindi di assegnare a ciascun gruppo parlamentare un tempo di 15 minuti, una volta al mese, da usufruirsi 10 minuti sulla rete nazionale delle trasmissioni radiofoniche e 5 sulla rete televisiva.

Le proposte del “ Mondo ” contro una TV di regime Le critiche all’assetto giuridico e politico della TV non vennero solamente di partiti di sinistra socialcomunisti: anche i partiti laici avviarono un processo contro la RAI. Nel 1959 iniziò il “primo processo alla gestione democristiana sulla RAI”, in occasione del convegno “verso il regime” organizzato dagli “Amici del Mondo” (dal giornale Mondo). Il convegno rappresentò il primo tentativo di creare un dialogo costruttivo e critico sulla funzione dei media nella società e anche sul funzionamento del sistema politico italiano. L’atto di accusa era già presente nel titolo del convegno: secondo loro quello italiano era “un regime morbido”, un regime governato dalla DC e appoggiato da “preti, i grossi industriali e l’alta burocrazia, uniti dall’alleanza che fondò De Gasperi tra il ‘47 ed il ‘48”. Ernesto Rossi (giornalista e politico del Partito Radicale), disse che in questo contesto generale, la RAI e la televisione erano diventati "pericolosi strumenti per il condizionamento dei cervelli, e quindi per la instaurazione di un regime totalitario"; dalla TV infatti secondo lui “Si propagava un vero fluido ipnotico, che inibisce le facoltà critiche trattenendo per ore davanti al video qualunque stupidaggine venga allestita. Nella democrazia che funziona a suffragio universale questo fluido ha effetti straordinari durante le campagne elettorali.” Secondo Rossi poi, la presenza di un'azienda radiotelevisiva controllata esclusivamente dal governo, e di conseguenza, al servizio esclusivo della Democrazia Cristiana e del Vaticano, costituiva un grave campanello d'allarme circa la scarsa sordità delle istituzioni democratiche italiane. Per trasformare la RAI da "voce del padrone" in "strumento per

Page 15: lapallacorda.files.wordpress.com  · Web view2021. 1. 16. · INTRODUZIONE. Nel 1994, Silvio Berlusconi, proprietario delle 3 più grandi emittenti televisive private, decide di

l'educazione liberale e Democratica del popolo italiano", Rossi non pensava né al rafforzamento dei poteri della commissione parlamentare di vigilanza né alla piatta imitazione della BBC: "non abbiamo il sistema bipartitico inglese, né l'opinione pubblica è abituata, come quella inglese, ad esercitare un serio, continuo controllo sul governo e sulla pubblica amministrazione; nè esiste, purtroppo, una tradizione di fair play nei confronti delle opposizioni". La commissione "nata morta, va seppellita" perché "non può essere rinvigorita con ricostituenti"; infatti, anche se "potesse veramente farsi ubbidire dai funzionari della Rai, non potrebbe mai dare ordini sgraditi al governo, perché è formata dai rappresentanti dei gruppi parlamentari in rapporto proporzionale alla consistenza numerica di ogni gruppo e quindi riflette nella sua composizione la composizione stessa della maggioranza governativa".Partendo dal presupposto di sostituire l'influenza diretta dei partiti sulla Radiotelevisione con meccanismi di più autentico pluralismo, volti a rappresentare "la molteplicità delle forze in contrasto" e a garantire "la partecipazione consapevole di tutti i cittadini alla vita politica", il gruppo del “Mondo” respingeva l’atteggiamento paternalistico presente tanto nella cultura cattolica quanto in quella marxista, con l'obiettivo di fare del cittadino-spettatore un soggetto attivo nel sistema delle comunicazioni. Il progetto di riforma Rossi prevedeva la trasformazione della Rai in un ente di diritto pubblico e la costruzione di un Comitato di garanzia di 7 membri, responsabile di fronte al Parlamento. Era questa la novità più interessante della proposta, i compiti del Comitato erano quelli di stabilire i criteri per la preparazione dei programmi, fissare le modalità di svolgimento delle discussioni, dei dibattiti e delle repliche su argomenti controversi, e disporre speciali servizi nel corso delle elezioni politiche e amministrative. I membri del Comitato, dovevano essere nominati dai presidenti dei gruppi parlamentari di camera e Senato (5) e dal Presidente della Repubblica (2), che in questo modo avrebbe potuto correggere eventuali scelte troppo partigiane fatte dal Parlamento. Il consiglio di amministrazione del nuovo ente, nominato dal ministero delle Poste e Telecomunicazioni, sarebbe stato responsabile davanti al governo del bilancio della Rai. Il direttore generale Rai otteneva l'incarico dallo stesso Ministero su proposta del Comitato dei garanti. Si sarebbe creato quindi un sistema di bilanciamenti dove il consiglio di amministrazione era ancora di nomina governativa, mentre il comitato di garanzia rispondeva al Parlamento ed al Capo dello Stato. La proposta includeva anche il disciplinamento della propaganda elettorale: ai partiti presenti in tutte le circoscrizioni si doveva assegnare uguale disponibilità di tempo per la propaganda radiotelevisiva.Presentato alla camera da Ugo La Malfa il 12 marzo 1959, Il progetto di legge del "Mondo" seguì la stessa sorte degli altri: venne annunciato e deferito ad un'apposita commissione, non venne mai effettivamente discusso.

Il monopolio di Stato è costituzionale: la sentenza del 1960A partire dal 1956, dopo l’avvento ufficiale della televisione nel 1954, da un lato gli interessi economici delle aziende che puntavano ad investire nel settore e, dall’altro, le istanze politico-sociali che premevano per la riforma RAI sembrarono incrinare la legittimità del monopolio pubblico. Gli anni 1956-57 registrarono la piena affermazione della TV come grande spettacolo di massa, gli utenti aumentarono vertiginosamente e, a partire dal 3 febbraio 1957, la RAI cominciò con il programma Carosello, a trasmettere la pubblicità commerciale. L'attrattiva per le aziende private era dunque fortissima e la prima a tentare la strada della privatizzazione del settore televisivo fu la società “Il Tempo TV” di Roma, legata all'omonimo

Page 16: lapallacorda.files.wordpress.com  · Web view2021. 1. 16. · INTRODUZIONE. Nel 1994, Silvio Berlusconi, proprietario delle 3 più grandi emittenti televisive private, decide di

quotidiano di Renato Angiolillo. Nel dicembre del 1956, Angiolillo appellandosi all'articolo 21 della Costituzione, chiese al Ministero delle Poste la concessione di 10 canali e l'autorizzazione a trasmettere programmi televisivi, finanziati dalla pubblicità, in Lazio, Campania e Toscana. Nel frattempo, a Milano, la società TVL (Televisione libera), per iniziativa di un gruppo di industriali Lombardi e dall'americana RCA e sostenuta da capitali stranieri, affermava di voler impiantare un emittente televisiva in concorrenza con la Rai. Il 16 maggio 1957 “Il Tempo” annunciava che la società di Angiolillo aveva citato in giudizio il Ministero delle Poste per l'incostituzionalità della sua decisione di non concederle l'autorizzazione a trasmettere. Lo stesso fecero i responsabili TVL quando il 24 ottobre 1958, le sue installazioni furono sequestrate. La vicenda, che ebbe un iter giuridico lungo e complesso, conquistò grande spazio sulla stampa. Si trattò della prima volta che in Italia si affrontava apertamente la questione. Anche in questo caso, tuttavia, il dibattito si focalizzò non tanto sull'alternativa fra monopolio pubblico e liberalizzazione, quanto sulla forma assunta dal monopolio e radiotelevisivo in Italia ovvero sulla dipendenza della RAI dall'esecutivo. Questo aspetto e il mancato rinnovamento della legislazione fascista costituirono quindi, ancora una volta, i temi centrali della discussione.

La stampa democristiana fece subito quadrato attorno alla RAI e alla difesa del monopolio statale, ribadendo, come scrisse a più riprese il quotidiano DC “Il Popolo”, la straordinaria forza di impatto dei media audiovisivi e la loro funzione eminentemente educativa, e dunque pubblica: “L'idea di poter avere più programmi televisivi ed una assoluta libertà in tale campo seduce. Ma sorprende il fatto che alcuni giornali che giustamente parlano della necessità di non abbandonare all’iniziativa ed all’egoismo dei privati leve essenziali della vita economica del Paese come ad esempio l’energia nucleare, si dimentichino di una tale esigenza quando si parla di trasmissioni televisive affidate a potenti gruppi economici. Se si invoca, a ragione, la necessità che i privati non siano detentori delle fonti di quella energia nucleare dalla quale dipenderà in futuro la nostra esistenza, la logica vorrebbe che almeno su un piano di problematica, ci si domandasse se la proprietà di stazioni televisive non possa costituire per il privato una fonte di potere, quanto meno paragonabile a quella del possessore di energia atomica. Tali problematiche sembrano però sfuggire ai nostri laicisti che riducono il problema della TV ad un problema di libertà di immagini, di gambe di ballerine, di polemica antigovernativa e di programmazione scadente. Un più grave pericolo esiste: è quello che le trasmissioni televisive si trasformino in un mezzo di propaganda, in un mezzo di manipolazione della personalità, per cui il potere politico finirebbe per passare nelle mani di gruppi privati senza scrupoli capaci di alterare, in radice, gli atteggiamenti ed i sentimenti dei cittadini.”

Chiamata ad intervenire nel 1960 sulla costituzionalità del monopolio radiotelevisivo di stato, la Corte Costituzionale avanzò in sua difesa argomenti diversi da quelli sollevati dal quotidiano DC. La sentenza, giustificava infatti la legittimità costituzionale della riserva allo Stato dei servizi radiotelevisivi in virtù del problema tecnico della limitatezza dei canali a disposizione. La Corte in sostanza, ritenne che, visto il numero limitato di canali e dunque delle possibilità effettive di esercizio della telediffusione, un sistema privatizzato o misto non avrebbe potuto garantire condizioni libera libertà e pluralismo. La sentenza diceva: “Siccome, a causa della limitatezza dei canali utilizzabili, i servizi radiotelevisivi, se non fossero riservati allo stato o ad un ente statale ad hoc, cadrebbero naturalmente nella disponibilità di uno o di pochi soggetti, prevedibilmente mossi da interessi particolari, non

Page 17: lapallacorda.files.wordpress.com  · Web view2021. 1. 16. · INTRODUZIONE. Nel 1994, Silvio Berlusconi, proprietario delle 3 più grandi emittenti televisive private, decide di

può considerarsi arbitrario neanche il riconoscimento della esistenza di ragioni di utilità generale idonea a giustificare, ai sensi dell'articolo 43, la vocazione, in esclusiva, dei servizi allo Stato, dato che questo, istituzionalmente, è in grado di esercitarli in più favorevoli condizioni di obiettività, di imparzialità, di completezza e di continuità in tutto il territorio nazionale.”

Negli anni successivi, infatti, il dibattito politico si concentrò prevalentemente sulla verifica dei requisiti di libertà e pluralismo delle informazioni fissati dalla Corte Costituzionale e soprattutto le sinistre giudicarono la sentenza del 1960 un importante traguardo ed uno stimolo per continuare ad esigere l'accesso nei partiti in video. Il quotidiano socialista ad esempio, ne approfittò per chiedere nuovamente al Parlamento di varare una legge che trasformi la RAI-TV in un ente aperto tutte le correnti di pensiero nello strumento stupido e fazioso dei governi più reazionari del paese. I partiti di maggioranza interpretarono la sentenza come una positiva conferma del loro operato e il governo non mise allo studio il progetto di riforma del settore. Dal canto suo l'opposizione cambiò momentaneamente strategia, abbandonato il tema della riforma, si concentro su quello dell'informazione politica in TV.

Dal punto di vista giuridico, la sentenza del 1960 ebbe un significato importante, avvicinando tra loro alcune disposizioni costituzionali apparentemente distanti. Il presupposto di illegittimità costituzionale del monopolio radiotelevisivo pubblico si fondava infatti principalmente sull'articolo 21 della Costituzione relativo al diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con qualsiasi mezzo di diffusione. In parziale deroga a tale articolo i giudici costituzionali confermarono la legittimità del monopolio, vincolandolo però al soddisfacimento di determinate condizioni (obiettività e pluralismo) e motivandolo con l’indisponibilità delle frequenze ed i costi tecnici di trasmissione che, di fatto, avrebbero prodotto un oligopolio gestito da pochi soggetti economici e politici. Su questo punto la Consulta faceva entrare in gioco gli articoli 41 e 43 della Costituzione sulla libertà di iniziativa economica e sulla possibilità dello stato di avocare a sé determinati “servizi pubblici essenziali” o “attività di preminente interesse generale”. In pratica, quindi, la sentenza finiva per collegare tra loro disposizioni costituzionali apparentemente diverse per oggetto, obiettivi e contenuti: da una parte quelle relative alla libertà di pensiero, dall'altra quelle concernenti la libertà economica i suoi limiti. Si trattava di due questioni solo parzialmente lontane fra loro, ma nella realtà già collegate nelle riflessioni giuridiche e nella prassi politica degli Stati liberal costituzionali ottocenteschi. Lo Stato liberale, infatti, aveva cercato di risolvere il problema della libertà della cultura facendo leva proprio sulla libera iniziativa economica, nella convinzione che il libero esercizio dell'attività economica fosse una garanzia della libertà di pensiero e del pluralismo della cultura. La televisione, sia per i problemi tecnici ed economici della sua gestione, sia per la rilevanza generale delle sue funzioni, finì quindi per articolarsi nell'Europa occidentale come evidente eccezione rispetto all'equazione tradizionale libertà economica-libertà di pensiero. Riservando la televisione in esclusiva allo Stato, pertanto, i giudici della Corte Costituzionale vogliono ribadire l'impossibilità di difendere la libertà dei cittadini, quella stessa sancita dall'articolo 21 della Costituzione, mediante un sistema liberalizzato e privatistico. Solo lo Stato, sembrava in grado di garantire quelle condizioni di libertà che in tutti, o quasi, gli altri settori della vita pubblica venivano viceversa assicurate dalla libera iniziativa economica privata.

Page 18: lapallacorda.files.wordpress.com  · Web view2021. 1. 16. · INTRODUZIONE. Nel 1994, Silvio Berlusconi, proprietario delle 3 più grandi emittenti televisive private, decide di

Una “ rivoluzione mancata ” : l ’ avvio delle trasmissioni di Tribuna politica Nell’autunno del 1960, in vista delle elezioni amministrative del 6-7 novembre, presero il via le trasmissioni di Tribuna elettorale. Per la prima volta tutti i partiti acquistavano il diritto d’accesso in televisione e la politica si accingeva a sperimentare una nuova e moderna dimensione: quella del dialogo diretto con gli spettatori-elettori, primo passo della progressiva “spettacolarizzazione” della propaganda politica. La decisione di istituire un'apposita rubrica per la discussione politica, visto il grande successo riscosso da Tribunale elettorale divenne permanente a partire dal 26 aprile 1961, con la nascita di Tribuna politica, dovuta alla concomitanza di diversi fattori: il richiamo dei giudici costituzionali alla libertà e imparzialità dell'informazione, le pressioni dei partiti d'opposizione affinché si allentasse il controllo democristiano sulla RAI e i mutamenti che si stavano verificando negli equilibri governativi. L’avvio di Tribuna elettorale si deve collegare infatti alla nuova fase politica apertasi dopo la crisi del governo Tambroni e l'esaurimento della formula politica centrista. Fanfani dopo aver formato il 26 luglio il suo terzo esecutivo grazie all’astensione del PSI, intuì che per gestire la difficile transizione verso l'alleanza con i socialisti, sarebbe stato necessario tra le altre cose, concedere spazi televisivi adeguati a tutti partiti per la propaganda politica. Capì, in sostanza, che una delle condizioni per cementare l'alleanza di centro-sinistra e al tempo stesso uno dei presupposti per costruire una democrazia più moderna e matura sarebbe stato quello di sottrarre alla DC, almeno in parte, il monopolio politico della Radiotelevisione.

Durante il dibattito sulla fiducia alla camera, il 5 agosto 1960, Fanfani annunciò quindi l'intenzione del governo di promuovere un nuovo ciclo di trasmissioni politiche: "bisogna evitare confusione fra Stato e partito e per evitarla bisogna affrontare il problema della partecipazione di tutti i partiti anche alle trasmissioni radiotelevisive. Devo riconoscere che questi problemi esistono e devono essere risolti con un senso di equilibrio e di rispetto sincero e fermo della libertà. Dateci tempo e lo faremo". Il 6 ottobre rese nota la struttura delle trasmissioni di Tribuna elettorale che avrebbero preso il via cinque giorni dopo. Immediata e positiva fu la risposta dei socialisti, che videro finalmente accolta la loro richiesta di fondo: “Tutti i partiti politici italiani accederanno ai microfoni ed alle camere da presa di quell’azienda pubblica che è la RAI-TV italiana”. Per l’”Avanti” (quotidiano del PSI), tuttavia, Tribuna elettorale costituiva solo il primo passo per la soluzione di un problema assai più complesso riguardante la faziosità politica della RAI, che aveva secondo loro fatto di quel delicatissimo settore della vita pubblica un pascolo abusivo del partito di maggioranza e talvolta persino un terreno di scontro fra le varie correnti interne della DC.

Con il giornalista Gianni Granzotto in ruolo di moderatore, il primo ciclo di Tribuna elettorale fu strutturato in due parti: 10 conferenze stampa di 30 minuti ciascuna, di cui 2 riservate al governo e 8 ai partiti rappresentati in parlamento e nei Consigli Comunali e provinciali di più di una regione; 9 conversazioni dei leader di partito, di cui l'ultima assegnata al Presidente del Consiglio in rappresentanza del governo.

Lajolo, evidenziando come Tribuna elettorale non dovesse considerarsi una concessione del governo, bensì il riconoscimento di un diritto che è stato ancora ribadito, se ve ne fosse stata necessità, dalla recente sentenza della Corte Costituzionale, contestò il tempo che il governo ha riservato per sé, e cioè ancora per la Democrazia Cristiana: “Riteniamo però che la Democrazia Cristiana, dopo aver accettato questa pariteticità dei partiti, accettando tre

Page 19: lapallacorda.files.wordpress.com  · Web view2021. 1. 16. · INTRODUZIONE. Nel 1994, Silvio Berlusconi, proprietario delle 3 più grandi emittenti televisive private, decide di

conversazioni per i membri del governo, che sono notoriamente esponenti del partito della DC, finisca col tornare a far la parte del leone, non accettando in sostanza nei fatti quella pariteticità che aveva accettato sulla carta.” La DC si garantiva infatti 5 apparizioni su 19 totali, due volte come partito il tre volte come governo.

Non solo quindi la DC riuscì ad assicurarsi, anche nei cicli successivi di Tribune, uno spazio preponderante rispetto agli altri partiti, ma la scelta di Fanfani di aprire la televisione alla propaganda diretta dei partiti era effettivamente riconducibile ad un preciso calcolo politico: rafforzare il dialogo coi socialisti ed insieme consolidare l’impronta pedagogico-didascalica della programmazione televisiva. Strutturate per molto tempo nella forma di dibattiti, le trasmissioni di Tribuna politica privilegiavano infatti la finalità educativa rispetto a quella propagandistica o veramente ideologica, in perfetta sintonia con la vocazione generale del servizio pubblico televisivo di quegli anni. Un aspetto questo, su cui la DC non mancò mai di insistere.

In Italia, l'urgenza di queste trasmissioni era maggiore che altrove, dal momento che il Giornale Radio e il telegiornale non davano assolutamente notizie di quello che facevano i partiti di opposizione. Nel complesso quindi, le Tribune possono considerarsi un segnale della maturità raggiunta dalle istituzioni della giovane democrazia italiana e, rompendo con il tabù del Partito Comunista, cominciarono a mostrarlo con un volto profondamente diverso da quello propagandato per anni dai suoi avversari. Secondo gli esponenti della destra DC che avevano fatto dell'anticomunismo la propria bandiera politica bisognava “evitare che il pubblico sappia troppe cose”, ma non mancò all'interno della Democrazia Cristiana una pacata riflessione sugli effetti che avrebbe avuto la partecipazione dei leader comunisti ai nuovi programmi televisivi, alla luce soprattutto delle straordinarie capacità propagandistiche del partito. Alcune valutazioni lasciavano trapelare un certo senso di inferiorità che negli anni la DC aveva maturato nei confronti delle capacità organizzative e propagandistiche del Partito Comunista, gli ambienti più conservatori, dentro e fuori il partito di maggioranza, la ferrea opposizione alle trasmissioni politiche, si inserivano nel progetto più generale di compromettere la strategia del dialogo con la sinistra socialista. I loro attacchi alle Tribune, soffiando sul fuoco del pericolo rosso e dei rischi del compromesso coi partiti estremisti, andavano infatti nella direzione di preservare il più possibile quella democrazia bloccata su cui si era fondato il sistema politico italiano nell'immediato dopoguerra; questo proprio mentre stavano gettando le basi di una democrazia sostanziale fondata su maggiore spazio di libertà, dialogo, informazione e partecipazione.In un certo senso i timori delle destre colpirono nel segno poiché le Tribune, oltre ad essere accolte con entusiasmo dal pubblico e con relativa soddisfazione da tutti i partiti di centro-sinistra, segnarono anche un importante cambiamento nel rapporto tra Partito Comunista e il mezzo televisivo.

Tra il 1960 ed il 1961, dunque, la televisione entrò a pieno titolo sulla stampa comunista; spesso si trattava di articoli di polemica sui contenuti delle Tribune, ma la novità delle trasmissioni politiche ebbe comunque l'effetto di avviare insieme al PCI una riflessione più ampia e meno preconcetta sul rapporto tra televisione, cultura e propaganda politica. Gianni Rodari, a proposito del nuovo telegiornale, scrisse: “Si tratta sempre più di un telegiornale tendenzioso e governativo, ma il cambiamento c'è, più cronaca, più inchieste, insomma più vita. Che Tribuna politica abbia i suoi difetti è inevitabile, è ovvio. Ma si tratta di nei

Page 20: lapallacorda.files.wordpress.com  · Web view2021. 1. 16. · INTRODUZIONE. Nel 1994, Silvio Berlusconi, proprietario delle 3 più grandi emittenti televisive private, decide di

trascurabili, che anzi in fondo contribuiscono anche loro a fare di Tribuna politica una trasmissione viva, introducendo anche qualche elemento di spettacolo.”

Se l'avvio delle Tribune finì per concedere al governo e alla DC una tregua nelle pressioni per la riforma della RAI, questo fu determinato soprattutto da due fattori. Innanzitutto le nuove trasmissioni di politica soddisfacevano una delle richieste più pressanti emerse durante gli anni ‘50: il diritto di accesso dei partiti in video ed il pluralismo del settore informativo. Il secondo luogo, Tribuna politica finì per spostare, almeno all'inizio, l'attenzione della classe politica su altre questioni: come gestire il nuovo spazio comunicativo rappresentato dalla TV, come trasformare la politica in spettacolo senza perdere di vista i contenuti più profondi del messaggio, come combinare la dimensione riflessiva del discorso politico con quella emotiva. Non solo in Italia, infatti, il passaggio dalla politica dalle piazze agli schermi televisivi costituì per molti leader un vero trauma, o comunque impose la necessità di rivedere a fondo le tecniche ed i contenuti dei discorsi. Telegenia e velocità di esposizione diventarono i requisiti principali del nuovo leader dell'era televisiva; e se la personalizzazione della politica era un fenomeno ancora lontano da venire, i tradizionali criteri comunicativi dei partiti apparvero ben presto obsoleti.Dall'altra parte però, le Tribune si inserivano nella precisa strategia politico-culturale delle classi governative e dei dirigenti Rai; Per questi uomini e per la DC, infatti, la tanto richiesta apertura venne concepita e realizzata con l'obiettivo implicito di non mettere mano ad un'autentica riforma del sistema radiotelevisivo contribuendo a congelare per alcuni anni il dibattito sulla riforma, le Tribune furono una concessione al pluralismo dell'informazione che doveva servire a non concedere nulla al pluralismo della gestione.

Censura ed altre polemiche nell ’et à dell ’ oro della TV italiana Nella prima metà degli anni sessanta, la televisione italiana attraversò la stagione più ricca e florida della sua lunga storia. La TV, diventata ormai il mezzo di intrattenimento privilegiato per l'uso del tempo libero, si era imposta presso tutte le fasce culturali della popolazione e la sua fruizione, da fenomeno collettivo e comunitario, stava diventando privata e familiare.

Ridotte, momentaneamente le pressioni per la riforma, l'attenzione e di conseguenza le polemiche spostarono su altri temi: le presunte manipolazione nell'informazione giornalistica e negli accessi alle Tribune che privilegiavano il partito di maggioranza relativa. I primi due punti non erano nuovi: gli attacchi contro la censura, sia negli spettacoli e nei film sia nelle notizie politiche, erano stati ricorrenti sulla stampa dell'opposizione fin da quando, all'epoca in cui Guala era amministratore delegato, era stato introdotto il codice di autodisciplina ad uso dei programmisti RAI. La tesi delle sinistre era che, grazie alla televisione, le forze di governo avessero creato un vero e proprio regime volto ad indirizzare, distrarre, manipolare l'opinione pubblica. Un "regime", un "clima da caccia alle streghe" che, secondo il PCI, si erano addirittura inaspriti dopo l'avvio del centrosinistra, il quale aveva scatenato la controffensiva delle forze clericali e più conservatrici.

La “sopraffazione” politica venne riconosciuta tanto nei contenuti (in realtà soprattutto nei silenzi) dei telegiornali, quanto nella manipolazione, sottile e capillare, attuata attraverso gli spettacoli, le rubriche, i programmi d’intrattenimento. Un caso di censura politica del primo tipo venne denunciato dal PCI in occasione dei tragici eventi del luglio 1960 durante il governo Tambroni (rivolte antifasciste), un gruppo di comunisti scrisse una lettera di protesta al presidente della Commissione di Vigilanza contestando il travisamento delle notizie sullo

Page 21: lapallacorda.files.wordpress.com  · Web view2021. 1. 16. · INTRODUZIONE. Nel 1994, Silvio Berlusconi, proprietario delle 3 più grandi emittenti televisive private, decide di

sciopero generale e la mancata messa in onda del discorso del Presidente del Senato Merzagora, che aveva tentato invano una mediazione tra le parti.

Polemiche analoghe si presentarono negli anni successivi: nel 1966 ad esempio, il quotidiano comunista denunciava con un editoriale del direttore Ferrara le omissioni del TG in merito alle responsabilità governative ed alle gravi inefficienze che seguirono la drammatica alluvione di Firenze. Il giornalista Giovanni Cesareo arrivò poi a parlare di “televisione-squillo” per smascherare il sistema delle telefonate con cui i politici suggerivano alla RAI quali informazioni dare e quali invece censurare.

Il più grosso caso di censura di quegli anni non riguardò il settore dell’informazione, ma l’intrattenimento: uno sketch di Dario Fo previsto per la puntata del programma Canzonissima del 29 novembre 1962. La scenetta, nella quale si ridicolizzava la figura dello speculatore edilizio, venne tagliata dai programmisti RAI e, poco prima di andare in onda, Dario Fo e sua moglie Franca Rame abbandonarono il programma per “divergenze artistiche ed ideologiche” con l’azienda. L’annunciatrice ne informò pacatamente gli spettatori, mentre la RAI diramava un comunicato stampa nel quale si diceva che il testo dello sketch non era stato “ritenuto opportuno per i significati che avrebbe potuto assumere in questi giorni”.Mentre i gruppi moderati e la destra approfittarono del caso Fo-Rame per lanciare l’allarme contro il presunto “pericolo rosso” alla TV, culminato due anni dopo negli articoli del giornalista Indro Montanelli, la stampa comunista si schierò apertamente con i due attori di cui, fin dalle prime puntate della trasmissione, aveva apprezzato la scelta di porre al centro degli sketch degli avvenimenti di attualità. Proprio per questo motivo l’allontanamento di Fo venne interpretato come un sintomo del carattere antidemocratico della televisione italiana, dove il silenzio costituiva il comodo “rifugio” della censura. Qualche mese dopo, mentre erano ancora vivi gli echi della vicenda Fo-Rame, il “Radiocorriere” (rivista settimanale ufficiale della Rai) usciva con un articolo che, mettendo a confronto la RAI con i network americani, illustrava la presenza della censura anche negli USA, benché specificasse che lì aveva “fonti, radici e ragioni diverse”, i programmi lì infatti, venivano talmente riveduti dagli sponsors che quanto restava aveva poco o niente a che fare con l’opera originale. L’incauto parallelismo diede modo a “Rinascita” (mensile del Partito Comunista Italiano) di stigmatizzare nuovamente la mancanza di una vera regolamentazione in materia di censura e programmazione radiotelevisiva. Il giornalista Cipriani scrisse che “in Italia esiste un codice di censura televisiva, ma questo è tenuto segreto da anni e se ne smentisce perfino l’esistenza, non solo la censura italiana è identica per intenzioni e per assurdità a quella americana, ma è molto peggiore di questa, perché agisce nella clandestinità, al di fuori di ogni legge e regolamentazione, alla sola insegna dell’arbitrio.”

Più ancora di Tribune e dei programmi di informazione quindi, erano gli spettacoli di varietà e di intrattenimento a scatenare le polemiche maggiori. Bernabei ammise “Tutta la linea dell’intrattenimento sta sul filo del rasoio, eravamo stretti tra quelli che ci accusavano di essere amici dei comunisti e quegli altri che pretendevano la TV dei mutandoni”. E proprio il tema dell”amicizia” col PCI da parte della RAI bernabeiana fu al centro di una disputa lanciata, ancora una volta da Indro Montanelli sul “Corriere della Sera” nel maggio del 1964. Prendendo spunto da alcuni servizi sulla resistenza che, a suo avviso, servivano più ad alimentare l’odio verso i carnefici che a suscitare un sentimento di pietà nei confronti delle vittime a costo di “qualche falso”, Montanelli accusava la RAI di strizzare l’occhio ai

Page 22: lapallacorda.files.wordpress.com  · Web view2021. 1. 16. · INTRODUZIONE. Nel 1994, Silvio Berlusconi, proprietario delle 3 più grandi emittenti televisive private, decide di

comunisti, rischiando di mandare a pezzi lo Stato democratico: “Nessuno chiede al capo del governo di fare una TV strumento del regime. Saremmo noi i primi a protestare contro una simile truffa totalitaria. Speriamo soltanto che il regime non ne faccia uno strumento per abbattere se stesso. Ci sono dei valori che non appartengono a nessun partito perché sono patrimonio di tutta la democrazia. Per la loro salvaguardia noi non abbiamo mai contestato il contestabile diritto dello Stato di disporre della TV. Pensavamo solo che lo Stato potesse garantirci un'informazione onesta, oggettiva, senza ammiccamenti, equivoci o sottintesi. Pensavamo che almeno lo Stato non avrebbe agito contro se stesso e ci siamo sbagliati.” Eugenio Scalfari, dalle colonne de “L’Espresso” rispondeva con un’ironia tagliente: “Hai ragione tu, (si rivolge direttamente a Montanelli). È tutto un gioco, uno sporco gioco, e noi sciocchi non ce ne eravamo accorti. La televisione in mano ai democristiani? La televisione passivo strumento del governo? La televisione organo del clericalismo italiano? Falsità. Queste critiche erano giuste ma avevano solo sbagliato obiettivo e tu ci hai finalmente fatto cadere il velo dagli occhi. È vero, la televisione è servile. La televisione è faziosa. La televisione vuole diseducare il pubblico italiano. E non perché è sempre stata, da quando è nata, un appannaggio della democristianeria, ma perché è diventata, all'insaputa di tutti, una centrale di comunisti o almeno di filocomunisti. Sì, dedica molte ore al giorno alle sue trasmissioni al Papa e ai preti, o una strizzata d'occhio a Moro, ma questo e l'alibi, la realtà che c’è sotto è ben più grave: Bernabei non è l'agente sciocco di Piazza del Gesù, ma l'uomo agilissimo delle botteghe Oscure. Hai ragione tu, caro Montanelli, tu che sei più bravo di tutti noi.”

Nel 1961 si costituì l’ARTA, l’Associazione Radio-Teleabbonati fondata da Ferruccio Parri e legata ai partiti della sinistra che puntava a coinvolgere gli utenti radiotelevisivi in una sempre più larga partecipazione alla vita intellettuale e culturale del Paese. Anche l’ARTA provò a portare un disegno di legge per una riforma del sistema RAI, ma anche quello, come tutti i precedenti, venne discusso poi archiviato.

CAPITOLO 3

Diversi “ modelli ” per una sola TV Quando le principali culture politiche italiane (cattolici e democristiani, la sinistra socialcomunista, i partiti laici di centro) si trovarono di fronte al successo dei mass media ed alla nuova cultura popolare di massa, esse reagirono in modo diverso e talvolta contraddittorio. Le strategie propagandistiche ed organizzative dei partiti di massa non riuscirono mai a dominare fino in fondo un processo di modernizzazione e acculturamento che seguì molte e differenti strade. Soprattutto nel caso della televisione, all’interno di tutte le correnti politiche si maturarono ampie riflessioni con gli spettatori e con le élite dirigenti. Riflessioni che, tuttavia, furono quasi sempre condizionate dai giudizi sull’assetto politico e giuridico della RAI, tanto che molto spesso, specie nel dibattito interno alla sinistra, i due aspetti (l’analisi della TV come strumento di comunicazione di massa e le critiche alla RAI) finivano per sovrapporsi e confondersi. Nella costruzione dell’immaginario collettivo sulla televisione da parte dei diversi partiti, giocarono un ruolo decisivo le caratteristiche strutturali del servizio pubblico italiano, la continuità con l’EIAR fascista, il controllo governativo e l’influenza democristiana. Proponendo concetti di nazione diversi e spesso in conflitto tra loro e legittimando memoria del passato, più o meno recente, tutt'altro che condivise, i principali attori politici finirono

Page 23: lapallacorda.files.wordpress.com  · Web view2021. 1. 16. · INTRODUZIONE. Nel 1994, Silvio Berlusconi, proprietario delle 3 più grandi emittenti televisive private, decide di

quindi per entrare in contrasto anche in merito al ruolo, al significato e all'utilizzo dei mezzi di comunicazione. Se infatti la TV pubblica cercò di diventare, sotto la guida democristiana, un mezzo di acculturazione per per tutti gli italiani e lo strumento con cui forgiare una cultura nazionale condivisa, le forze politiche escluse del tutto o in larga parte della sua gestione si trovarono a combattere contemporaneamente sia quel modello di nazione, sia il modello televisivo proposto.

Tenendo conto di questi elementi e prendendo in prestito lo schema proposto dall’autore Franco Chiarenza, si possono individuare tre posizioni principali in merito alla televisione, riconducibili a ciascuna delle grandi famiglie politiche presenti in Italia:

- La prima è la posizione Cattolica, che accomunava, le diverse correnti della DC e auspicava il potenziamento della funzione educativa dei mezzi di comunicazione. In tale ottica la televisione sarebbe dovuta diventare uno dei canali attraverso cui fondere i valori e la morale del cattolicesimo, quali elementi fondanti della tradizione culturale italiana.

- L’approccio del Partito Comunista era invece, teso ad inserire la TV nella lotta di classe per farne uno strumento di emancipazione delle classi lavoratrici contro le strutture liberal-borghesi. Per il PCI, come si è visto, restava comunque prioritaria la realizzazione di una riforma in senso parlamentare, che comportasse anche una svolta di tipo autonomistico-decentrato.

- La terza posizione era quella degli esponenti della democrazia laica più avanzata, PRI in testa. Essi contestavano la tradizionale impostazione paternalista della TV pubblica, attraverso l'autonomia professionale dei giornalisti, l'istituzione di un organo di garanti per il controllo delle trasmissioni e una più ampia libertà di accesso, intendevano potenziare al massimo la funzione informativa del servizio pubblico.

Una televisione “ cristianamente educatrice ” Furono due i principali fattori all'origine del modello di televisione che prese forma in Italia a partire dagli anni ‘50. In primo luogo la continuità con la radiofonia fascista, che si manifestò tanto nel mantenimento delle vecchie strutture amministrative e gestionali, quanto nell'esaltazione dei valori pedagogici e qualitativi delle trasmissioni. La vocazione pedagogizzante della radio e la preminenza di uno stile retorico nazionalistico di tipo scolastico, inquadrato nell'orizzonte della famiglia piccolo-borghese, sopravvissero infatti alla fine del regime mussoliniano e si trasferirono con poche variazioni nella nascente televisione.In questo senso la Radiotelevisione fu uno degli ambiti che meglio evidenziarono quella continuità dello Stato dal fascismo alla Repubblica, che molti studiosi hanno adottato come categoria interpretativa della storia dell'Italia repubblicana. L’impronta pedagogico-divulgativa della televisione italiana venne fortemente influenzata dall'orientamento della Chiesa fronte ai moderni media di massa. Orientamento non sempre univoco e coerente, nel quale infatti si mescolavano atteggiamenti di diffidenza politica e morale con speranze talora eccessive ed illusorie, ma tuttavia segnato, fin dagli anni ‘20-’30, da un costante e preoccupato interesse da parte delle gerarchie vaticane. La Chiesa guardava i mezzi di comunicazione non solo con particolare gioia, ma anche con materne ansia e vigilante sollecitudine, nella consapevolezza del loro potente influsso sul modo di pensare e delle comunità. Fu proprio sotto il fascismo che essa, con il duplice obiettivo di allargare il proprio raggio d'azione e di sfidare le organizzazioni fasciste sul terreno dell'acculturazione di massa e

Page 24: lapallacorda.files.wordpress.com  · Web view2021. 1. 16. · INTRODUZIONE. Nel 1994, Silvio Berlusconi, proprietario delle 3 più grandi emittenti televisive private, decide di

della partecipazione popolare, operarono sistematicamente sul terreno della cosiddetta “comunicazione sociale”.

Se inizialmente fu attraverso la cosiddetta "buona stampa” e il teatro di parrocchia che la chiesa cercò di instaurare una “presenza Cattolica egemonica" e di incoraggiare l'immagine di una società stabile ordinata, i nuovi strumenti di comunicazione come il cinema la radio allargarono in modo straordinario le prospettive di apostolato dei cattolici. È sufficiente ricordare, l'impatto straordinario che ebbero negli anni ‘40-’50 le predicazione radiofoniche del padre gesuita Riccardo Lombardi. Le sue parole a proposito della radio sintetizzavano in modo efficace il punto di vista delle gerarchie ecclesiastiche sulla necessità di cristianizzare i nuovi mezzi di comunicazione: “forse la radio potrebbe aiutare non poco la larga diffusione della verità, nella duplice forma di istruzione ed esortazione, raggiungendo molti nelle loro case, e valorizzando al massimo la capacità espositive di alcuni apostoli più adatti. Ma essa stessa costituisce di per sé un nuovo problema, un altro compito del campo cattolico: entrarvi, saperla usare…”. Il grande successo di Padre Lombardi come microfono di Dio, spesso riduttivamente circoscritto alla propaganda anticomunista, fu la prova non solo della prontezza delle autorità ecclesiastiche nel capire le potenzialità dei nuovi media, ma anche della capacità della Chiesa di servirsene per la propria opera di evangelizzazione e apostolato. Da un lato quindi, la Chiesa cercò di inserirsi più o meno direttamente nei canali della moderna comunicazione, dall’altro, le gerarchie vaticane sollecitarono costantemente un impostazione pedagogico-educativa per i nuovi media finalizzata al radicamento dei valori cristiani. Facendo pressioni per una severa disciplina giuridica in materia di comunicazione audiovisiva e ricorrendo a questi nuovi strumenti per facilitare “l’azione pastorale ed una maggiore diffusione del pensiero e dello spirito evangelico”, la Chiesa cattolica riuscì, per molti anni, a far sentire la propria voce nelle strutture pubbliche dell’informazione e della comunicazione.

A pochi giorni dall'inizio delle trasmissioni televisive regolari, fu lo stesso pontefice Pio XII ad intervenire su “questo meraviglioso mezzo offerto dalla scienza e dalla tecnica all'umanità, prezioso e pericoloso ad un tempo". Invitando l'episcopato italiano ad una nuova "santa crociata" per rendere la televisione "non soltanto moralmente incensurabile", ma anche "cristianamente educatrice", il Papa ne sottolineò con forza i possibili effetti nocivi: “se, infatti, visione del regolata fu costruire un mezzo efficace di saggia e cristiana educazione, è altrettanto vero che la medesima non è scevra di pericoli, per gli abusi e per le profanazioni a cui potrebbe essere condotto dalla bellezza e dalla malizia umana; pericoli tanto più gravi, quanto maggiore la potenza suggestiva di questo strumento e quanto più vasto ed indiscriminato è il pubblico a cui esso si dirige.” Pio XII si rivolse quindi al clero raccomandando una “attenta ed operosa vigilanza" sulle trasmissioni televisive, ma anche ai responsabili dei nuovi mezzi: “Noi nutriamo profonda fiducia che il senso di responsabilità di coloro che presiedono alla vita pubblica varrà ad impedire tristi eventualità”. Tuttavia, nel mondo cattolico e nelle gerarchie ecclesiastiche non venne mai meno un vago pessimismo circa l’effetto dei nuovi media.

Le riserve nei confronti di cinema, radio e televisione erano parte integrante dei timori che gli ambienti più conservatori del mondo cattolico nutrivano nei confronti del consumismo di massa e dei nuovi modelli di comportamento legati alla cosiddetta “civiltà del benessere”.

Page 25: lapallacorda.files.wordpress.com  · Web view2021. 1. 16. · INTRODUZIONE. Nel 1994, Silvio Berlusconi, proprietario delle 3 più grandi emittenti televisive private, decide di

Sensibile, dunque, ai pericoli connessi alle nuove forme di comunicazione di massa impegnata su numerosi fronti nella battaglia contro il comunismo, la Chiesa cercò anche di operare concretamente, soprattutto negli anni ‘50, affinché televisione e cinema venissero posti al servizio del messaggio cristiano e di un progetto educativo rivolto all’intera società. Questo comportava sia il tentativo di occupare i posti chiave negli organi di controllo censorio e nei canali di produzione e distribuzione della cultura. La chiesa dunque, oltre a rivendicare per sé il diritto-dovere di incidere nella storia della cultura, non solo influenzando la vita culturale, ma modificandola profondamente dall'interno, richiamava costantemente alla cautela ed al senso di responsabilità le autorità civili e politiche affinché "in nessuna maniera si è recato offesa o turbamento a quell'aura di purezza e di riservatezza che deve circondare il focolare domestico”. Per la RAI, come si è visto, il momento in cui parve trovare la più concreta attuazione il disegno Pontificio si ebbe all'epoca di Filiberto Guala e della pubblicazione del codice di autodisciplina. Oltre al codice operavano sul fronte televisivo il centro cattolico televisivo e la sua guida del teleamatore, pubblicata settimanalmente dai giornali cattolici e dai fogli parrocchiali. Il CCT e la guida avevano lo scopo di influenzare le scelte degli spettatori, indicando i programmi sconsigliati, sia di segnalare alla competente autorità quelle trasmissioni che fossero contrari ai principi della morale Cristiana.

L’influenza clericale sulla neonata televisione costituì uno dei temi forti delle polemiche contro la “tv del governo” da parte della stampa e dei partiti di opposizione.In una fase storica di crescente secolarizzazione e che, sul piano politico, preludeva all'apertura sinistra, l'incidenza diretta della chiesa sulla società e sui costumi, e dunque anche sulla televisione, si andò via via attenuando mentre di pari passo si rafforzavano il ruolo e la centralità politico-culturale della DC.

Il decreto conciliare Inter mirifica, firmato da Paolo VI nel dicembre 1963 è dedicato agli strumenti di comunicazione aveva avuto parecchie voci contrarie alla trattazione di un argomento "indegno al concilio" però, entrando dalla porta di servizio un po' come una Cenerentola a Corte, il tema ottenne di confluire in uno specifico documento, a conferma del fatto che, nonostante qualche riluttanza, la gerarchia ecclesiastica era interessata a proseguire ufficialmente il discorso iniziato più di 30 anni prima dalle encicliche di Pio XI sull’educazione dei giovani e sui nuovi mezzi di divulgazione culturale. “La Chiesa cattolica ritiene suo dovere servirsi anche degli strumenti di comunicazione sociale per predicare l’annuncio di questa salvezza ed insegnare agli uomini il corretto uso di questi strumenti. Compete pertanto alla Chiesa il diritto innato di usare e di possedere siffatti strumenti, nella misura in cui essi siano necessari o utili alla formazione cristiana e ad ogni altra azione pastorale. Così pure è dovere dei sacri pastori istruire e guidare i fedeli perché essi, anche con l’aiuto di questi strumenti, perseguano la salvezza e la perfezione”.

Sul piano pratico, l’Inter Mirifica ebbe due importanti conseguenze: l'istituzione della giornata mondiale dei mass media celebrata ogni anno nelle diocesi di tutto il mondo per istruire i fedeli sui loro doveri in questo settore, e l'estensione a tutti i mezzi di comunicazione delle competenze della commissione pontificia istituita nel 1948 esclusivamente per la cinematografia didattica e religiosa ed ampliata 4 anni dopo alla radio televisione. Secondo i gesuiti, la santa sede era riuscita nell'arco di circa vent'anni a formulare una vera e propria "Magna Carta di deontologia professionale, di prassi pastorale e di condotta personale rispetto alle cosiddette comunicazioni sociali”, che aveva il proprio fulcro dottrinale nell Inter

Page 26: lapallacorda.files.wordpress.com  · Web view2021. 1. 16. · INTRODUZIONE. Nel 1994, Silvio Berlusconi, proprietario delle 3 più grandi emittenti televisive private, decide di

Mirifica del 1963. Un po’ insoddisfacente invece, fu il bilancio delle realizzazioni concrete, molti punti del decreto rimasero infatti “lettera morta”.

In sostanza, la volontà di plasmare una "televisione educativa”, rispondente solo ai principi morali del cattolicesimo e volta a creare una cultura nazionale di ispirazione cristiana, non venne mai meno, solo che ad un certo punto di tale missione si autoinvestì la Democrazia Cristiana.

La televisione maestra: la DC e la creazione di una cultura nazionale di massaNel definire l’impronta culturale della radiotelevisione, la Democrazia Cristiana cercò di far propri tanto i precetti della Chiesa, quanto l’esempio delle TV estere, prima tra tutte la BBC britannica, che aveva una vocazione marcatamente educativa. Al tempo stesso la DC non tardò a comprendere che il forte impatto culturale della radio si sarebbe potuto orientare verso obiettivi politici e sociali.

Fu poi il democristiano Spataro, presidente RAI dal ‘46 al ‘50, a tracciare le linee guida del compito di cui riteneva investita la radio: “E’ chiaro che non può essere sempre e soltanto il gusto degli ascoltatori a dettar legge ai compilatori dei programmi, perché la radio non ha soltanto una funzione ricreativa, ma deve svolgere anche una funzione educativa. D’altra parte però la radio può raggiungere il suo scopo solo se è ascoltata e per ottenere ciò è necessario che questa azione educativa si armonizzi conventivamente con quella ricreativa e venga realizzata gradualmente.” Spataro, in linea col magistero della Chiesa, si poneva l’obiettivo dell’”elevazione spirituale” del pubblico, ma secondo i dirigenti DC la missione pedagogica della radiotelevisione doveva andare anche oltre. Radio e TV infatti, sembravano possedere le risorse per affiancare la DC nei tanti compiti che la attendevano:

- Plasmare un’identità nazionale che ancora non esisteva- Ridare fiducia ad un Paese uscito dall’esperienza drammatica della dittatura e della

guerra- Colmare le numerose fratture economiche e sociali- Far fronte alla polarizzazione internazionale ed all’incognita interna del PCI

Il partito si era assunto il compito di rimettere l’Italia sulla strada della modernizzazione attraverso il radicamento dei “valori del mondo cattolico”; valori che dovevano servire ad “imprimere a pieno titolo, un indirizzo della vita italiana, comporre le contraddizioni e sanare le divisioni che hanno fin qui rovinato la vita italiana”. L’obiettivo era quello di creare un concetto di omogeneità culturale valido per tutti gli italiani, ricomponendo le fratture prodotte dal fascismo e dalla guerra, presupponeva in primo luogo di insegnare loro la democrazia. Tale missione, universale e salvifica, finiva per coniugare i caratteri del pedagogismo cattolico con la vocazione paternalista tipica delle classi dirigenti italiane.

Dinnanzi all’”infanzia civile del popolo italiano”, la promozione della cultura di massa veniva concepita come una sorta di estensione della politica; in tal senso il controllo dei mezzi di comunicazione da parte del governo e della DC rientrava in una strategia più generale di veicolare a tutti i livelli la modernizzazione della società. La RAI pertanto, non veniva vista come un semplice prolungamento amministrativo-burocratico dell’apparato statale, ma come uno strumento politico a tutti gli effetti.

Page 27: lapallacorda.files.wordpress.com  · Web view2021. 1. 16. · INTRODUZIONE. Nel 1994, Silvio Berlusconi, proprietario delle 3 più grandi emittenti televisive private, decide di

A partire dal 1948, la presenza DC ai vertici dello Stato e, attraverso il controllo governativo, alla guida della RAI, parve offrire i presupposti per una capillare influenza del cattolicesimo nel processo di nazionalizzazione della cultura.

Radio e televisione dunque, emanando quotidianamente un soffio di aggiornamento e di modernità, avrebbero favorito la democratizzazione dei saperi e delle informazioni e stimolato l'interesse dei cittadini per la vita pubblica. Al tempo stesso però, ci si rendeva conto che, tra le tecniche di comunicazione, radio tv erano quelle maggiormente pericolose se usate male e maggiormente benefiche per lo sviluppo civile di un Paese se usate con intelligenza. Occorreva pertanto un severo controllo sulle trasmissioni e che anche l'intrattenimento venisse piegato alle superiori esigenze della vocazione formativa del mezzo. Al fondo di queste considerazioni, vi era una sorta di “etica” del servizio pubblico televisivo che, in nome di un alto ideale educativo, respingeva tanto l’ottimismo edonistico del cosiddetto American way of life, quanto il modello di TV commerciale di oltreoceano. Proprio questo l'obiettivo che si prefisse Guala col codice di autodisciplina ed il suo tentativo di rinnovare le strutture dell'azienda: l'obiettivo di dare alla Radiotelevisione Italiana il fondamento di un Umanesimo Cristiano capace di frenare l'immanentismo etico ed il paganesimo consumistico che stavano crescendo all'interno della società. Secondo tale l'impronta, trasmessa poi a Bernabei, la radio e la televisione dovevano diventare i mezzi con cui realizzare quella “via italiana” alla modernizzazione, che coniugasse novità e tradizioni, valori cristiani e consumismo di massa, egualitarismo sociale e anticomunismo. Di conseguenza la TV si proponeva idealmente come punto più alto di incontro tra fede e cultura, tra progresso e tradizione cristiana.

L’attenzione per gli aspetti morali della comunicazione, dettata non solo da preoccupazioni religiose, ma da un intento pedagogico più articolato, fu dunque una caratteristica dell'atteggiamento democristiano verso i mass media. Alla base della televisione educativa di Bernabei vi era infatti un progetto in qualche modo universale, che doveva tener conto sia del indispensabile appoggio della Chiesa, sia del fatto che un ascoltatore su 4 era comunista. La televisione, rivolgendosi ai cittadini di un Paese frazionato, disinformato, caratterizzato da ampie sacche di analfabetismo, doveva rispecchiare (come disse lo stesso Bernabei) “il modo di vivere e di pensare della gente comune: i problemi, le ansie, le paure, le speranze di tutta la popolazione e non solo della élite colta o delle minoranze scatenate e scomposte. Confinando pertanto in un settore specifico la cultura alta e limitando al massimo quella popolar-regionale di stampo folkloristico, i dirigenti radiotelevisivi investirono nella definizione di una cultura del quotidiano che immaginavano potesse contribuire, col tempo, sia all'apprendimento della lingua italiana, sia all'assimilazione graduale, immediata e non schizofrenica dei saperi e degli stili di vita propria della nuova società del benessere.

Simbolo e il fiore all'occhiello di questo tipo di programmazione, che tendeva a valorizzare la tradizione culturale nazionale e nella quale anche i format provenienti da oltreoceano venivano fatti "all'italiana" e batteriologicamente sterilizzati dai tratti americani erano le trasmissioni scolastiche: in particolare Telescuola e il ciclo Non è mai troppo tardi, videolezioni destinate agli adulti analfabeti. E’ importante ricordarle perché, con una funzione simbolica ancora più forte di quella effettiva, non solo caratterizzarono l ’impronta

Page 28: lapallacorda.files.wordpress.com  · Web view2021. 1. 16. · INTRODUZIONE. Nel 1994, Silvio Berlusconi, proprietario delle 3 più grandi emittenti televisive private, decide di

pedagogica della televisione italiana, ma serviranno alla Democrazia Cristiana nella retorica del discorso pubblico per legittimare il proprio controllo sulla Rai. Il ciclo di trasmissioni di Telescuola, avviatosi a novembre del 1958, non rappresentava una novità italiana nel programma delle TV pubbliche europee, che infatti offrivano regolarmente programmi a carattere scolastico sussidiario. In Italia, però, l'esperimento fu più ampio e in qualche modo istituzionalizzato. Il ciclo di Telescuola era concepito in modo che la televisione potesse, in caso di necessità, "prendere il posto del maestro" e trattandosi di vere e proprie lezioni effettuate col supporto di docenti scelti questo ciclo di trasmissioni rappresentò il primo tentativo all'Europea di istituire un corso regolare di avviamento professionale attraverso la televisione, al cui termine si conseguiva il normale diploma di scuola media professionale.

Nel presupposto di una televisione rivolta democraticamente a tutti in italiani, la DC cercava quindi di legittimare il proprio controllo sulla Rai per smentire tanto lo scetticismo inutile degli intellettuali quanto le polemiche dei partiti di opposizione. In ogni caso il modello di televisione proposto dalla DC negli anni ‘50 e ‘60, proprio perché rispondeva ad obiettivi culturali assai ampi e che era funzionale al radicamento di determinati equilibri politici, ad un certo punto non resse più. La grande stagione della TV pedagogica e umanistica si protrasse fino a quando la società rimase tutto sommato passiva, o comunque poco attiva nei confronti di un processo di acculturazione ricevuto dall'alto. E naturalmente fino a quando gli aspetti politici del centrismo prima e del centrosinistra poi garantirono alla DC una discreta autonomia decisionale all'interno della Rai.

Le sinistre: dalla TV “ fagiolone d ’oro” all' ” ideologia ” del servizio pubblico Mentre, come si è visto, l'azione dei partiti comunista e socialista nei confronti dell'organizzazione radiotelevisiva puntò sempre al trasferimento del controllo sulla Rai dal governo al Parlamento, assai più complesse, articolate e talvolta ambigue furono le posizioni della sinistra italiana nei confronti dei mezzi audiovisivi e della loro funzione sociale e culturale. Perlomeno fino alla fine degli anni ‘60 sopravvisse infatti verso radio e TV un atteggiamento di diffidenza e di preoccupazione, quando non addirittura di autentico rifiuto. A neanche una settimana dell'avvio delle trasmissioni televisive regolari, il quotidiano del PC emise un giudizio che aveva tutta l'aria di una condanna definitiva: "la TV sarà un privilegio riservato a pochi eletti ma di invidiarli francamente non ci sentiamo."Gli intellettuali comunisti, guidati da un forte "pregiudizio anti tecnologico" e diffidenti verso un genere culturale basso come la televisione, preferirono infatti ritagliarsi il proprio spazio in altri settori, come la letteratura e la cinematografia. Da un lato, agirono nelle riserve dei comunisti verso le moderne tecnologie, il timore che la TV, per la sua collocazione domestica, diventasse fonte di evasione dalla sfera pubblica e dall'impegno politico, l'iniziale rifiuto verso la nuova società dei consumi troppo figlia dell'American Way of life, e da ultimo, proprio il mito e l'antimito degli Stati Uniti d'America, attorno ai quali la cultura marxista italiana cercò di elaborare la propria, autonoma idea di modernità.

Sul piano teorico quindi, la cultura del “dissenso televisivo” all’interno dell’intellettualità della sinistra, nasceva dalla preoccupazione della corrosione dei saperi e delle forme culturali tradizionali. L’iniziale demonizzazione della Tv da parte dei comunisti, aveva quindi a che fare, infatti, con le dinamiche e gli effetti del boom economico, tendenzialmente interpretati dal PCI come il frutto della penetrazione americana e come il tentativo di integrare in modo subalterno la classe operaia nelle strutture del sistema capitalistico borghese.

Page 29: lapallacorda.files.wordpress.com  · Web view2021. 1. 16. · INTRODUZIONE. Nel 1994, Silvio Berlusconi, proprietario delle 3 più grandi emittenti televisive private, decide di

La TV quindi, finì per essere vista come una sintesi di tutto il negativo proveniente dagli Stati Uniti d'America: la mercificazione culturale e la perdita dei valori tradizionali, l'attaccamento ai beni materiali in contrapposizione agli ideali veri di giustizia sociale ed elevazione spirituale lo svilimento etico e l'esaltazione dell'individualismo. Questo viene sottolineato anche in un articolo de “l’Unità”: “a parte il fatto che per ora negli Stati Uniti la televisione è il divertimento di pochi fortunati e che i programmi sono ancora scarni e tecnicamente imperfetti, ricordiamoci che migliaia di persone già conoscono questa famosa TV come la maggiore disgregatrice della famiglia, come arma di propaganda bellica e come uno strumento per la rovina delle nuove generazioni. Di fronte all'esperienza americana, è nostro compito, e quello dei dirigenti della televisione italiana, stare in guardia perché i nostri figli non siano un giorno in alcun modo vittime di un simile brutale attentato a quanto c'è di candido in loro e di generoso, ma possano godere, come accade in altri paesi veramente democratici di programmi televisivi divertenti, istruzioni ed ispirati a principi di uno più grande umanità.”

Alle resistenze nei confronti di un modello di benessere che si riteneva importato direttamente dagli Stati Uniti, si aggiungeva poi il rifiuto dell'assetto politico istituzionale della Rai. L’origine dell' atteggiamento anti televisivo della sinistra italiana va dunque ricercato anche nelle condizioni oggettive (politiche, istituzionali, culturali) con cui si era sviluppata la Radiotelevisione nel nostro Paese. La condanna della RAI TV "Feudo governativo" nelle mani della "Fazione clericale che detiene il potere di governo” senza mettere in discussione il monopolio statale, si protrasse per circa vent'anni e costituì il tema centrale di gran parte delle riflessioni della sinistra italiana su questo tema.Nel 1950 al convegno per la libertà della cultura organizzato a Bologna dal Partito Socialista italiano si disse che radio e televisione costituivano "gli strumenti più importanti di informazione e di orientamento. L'importanza di un controllo democratico sull'esercizio di questi mezzi è dunque un fattore decisivo nella vita di una nazione".Il primo a prendere coscienza, anche in vista della possibile collaborazione governativa con la DC, del fatto che bisognasse puntare sulla televisione per rinnovare e riformare il paese fu dunque il Partito Socialista: "si consideri, scriveva l’ “Avanti” nel 1956, che la Tv italiana è destinata a diventare, in molti campi, molto più popolare del cinema. Si consideri insomma l’informazione radiofonica e televisiva il surrogato per milioni di persone della vita culturale, e si comprenderà allora come sia necessario impostare il problema della democratizzazione della RAI con lo stesso rigore del problema scolastico.”

Fu comunque più tardi, all'inizio degli anni sessanta, in coincidenza con l’esercizio di Tribuna politica, che nella sinistra italiana cominciò a maturare un vero e proprio progetto culturale legato alla televisione. Si fece strada, come si è già accennato, l’idea che bisognasse sfidare la DC sul suo stesso terreno, quello della “socializzazione” della cultura attraverso i mass media. Da una parte il PCI comprese che i mezzi di comunicazione, data la loro diffusione e popolarità, erano destinati a svolgere un ruolo primario nella trasformazione delle relazioni politiche e sociali, dall’altra si rese conto fino in fondo che la battaglia per la riforma del settore televisivo doveva diventare un punto centrale per la sua azione politica contro le forze di governo.

Il Partito Comunista, si assunse non solo il compito "di partecipare ad una battaglia per la riforma democratica della Radiotelevisione, di mobilitare in essa tutta la propria forza organizzata", ma soprattutto quello di servirsi di tale battaglia per creare una “comunicazione

Page 30: lapallacorda.files.wordpress.com  · Web view2021. 1. 16. · INTRODUZIONE. Nel 1994, Silvio Berlusconi, proprietario delle 3 più grandi emittenti televisive private, decide di

nuova all'interno della società nel quadro di quello che vogliamo che sia il socialismo in Italia”.

In generale però, i giudizi di condanna diminuirono col tempo e anche un critico severo della televisione come Gianni Rodari ammetteva che essa non era destinata necessariamente a diventare un “fagiolone d'oro", uno stupido strumento di evasione. C'era ancora spazio insomma, per trasformarla "in uno strumento per la diffusione critica delle idee e, per la conoscenza della realtà, in un protagonista della vita culturale della nazione. Non si tratta di trasformare la TV in una specie di Università Popolare, ma di creare qualcosa che non c'è, per cui non esistono modelli, un modo di rappresentare interpretare la vita è la realtà che sia proprio di uno strumento che, in sostanza, e ai suoi primi passi. Ma dove qualcosa si muove, si sa, niente è perduto."

Superate quindi le diffidenze iniziali, anche la sinistra italiana abbracciò un ideale di servizio pubblico in cui radio e televisione erano investite del compito di condurre alla “formazione politica e civile degli italiani”, alla determinazione di “una salda e operante coscienza civica” ed al superamento della tradizionale e dannosa divisione tra Stato e cittadini. Pertanto, anche se nella retorica politica venivano contestati il paternalismo ed i toni cattedratici o vagamente pedagogici della TV italiana, visti come manifestazione dell’autoritarismo capitalista e clericale, gli intellettuali ed i leader comunisti condividevano nella sostanza l’impostazione didascalica della televisione di Bernabei.

Alla fine di un lungo percorso di riflessione, la sinistra italiana approdò alla convinzione che non fosse il mezzo televisivo in sé ad essere pericoloso o nocivo, bensì il fatto che l’organizzazione della RAI riproponesse “in termini quasi drammatici”, il problema della “spaccatura tra classe dirigente e masse da un lato, tra intellettuali e popolo dall’altro”. Per un autentico rinnovamento della radiotelevisione quindi, il PCI ne proponeva una totale “reinvenzione”. Che da un lato la portasse a “raccogliere e trasmettere le immagini della cronaca, della vita e delle lotte delle masse”, e, dall’altro, consentisse “alle masse di partecipare in prima persona alla impostazione ed alla realizzazione dei programmi: questo appare l’unico modo atto a rovesciare in rapporto creativo il rapporto di passività che il pubblico oggi è costretto a stabilire con la televisione”. A tale scopo l’impronta educativa ed i contenuti “d’impegno”, accompagnati ad una riforma strutturale del monopolio pubblico, dovevano servire ad affinare la coscienza collettiva degli spettatori, modificando l’atteggiamento assai diffuso nelle masse popolari, anche quelle più avanzate, secondo il quale la televisione e la radio vanno intesi come “beni di consumo che nulla possono o devono dare oltre l’intrattenimento”. Tuttavia, nonostante una maggiore consapevolezza circa le complessità e le funzioni dei moderni media audiovisivi, il PCI non smise mai di focalizzarsi soprattutto sull’obiettivo politico della riforma RAI, vista come un mezzo per colpire l’egemonia democristiana.

Lo stesso segretario del PCI Enrico Berlinguer, in apertura del convegno sulla radiotelevisione organizzato dal partito nel marzo del 1973, volle liberare il campo da qualsiasi sospetto di “chiusura” del mondo comunista verso i mass media, ma ugualmente ribadì che in Italia il problema della televisione, investendo i meccanismi del suo sistema istituzionale, era soprattutto di natura politica: “Gli obiettivi di un’informazione libera, non manipolata, di una stampa libera e non asservita, di una RAI-TV che sia un servizio pubblico come prescrive la Costituzione, ma non uno strumento dell’esecutivo o addirittura del solo

Page 31: lapallacorda.files.wordpress.com  · Web view2021. 1. 16. · INTRODUZIONE. Nel 1994, Silvio Berlusconi, proprietario delle 3 più grandi emittenti televisive private, decide di

partito democristiano, costituiscono parte decisiva della più generale battaglia per il consolidamento e l’estensione della democrazia del nostro Paese.”

Il modello liberal-garantista: la TV finestra sul mondoAccanto alle posizioni del mondo cattolico e di quello socialcomunista in merito al ruolo ed ai contenuti del mezzo televisivo prese forma, già negli anni ‘50, l’orientamento “liberal-garantista”. Benché articolato e ricco di sfumature al proprio interno, esso si distingueva dagli altri due per il rifiuto dell'impianto pedagogico paternalista. Tale posizione faceva del pluralismo informativo e della varietà dell'offerta culturale la propria bandiera dal punto di vista dell'organizzazione della RAI, l'area liberal-repubblicana riteneva prioritaria, come abbiamo visto, sostituire l'influenza diretta dei partiti con un sistema di controllo e vigilanza gestito da un comitato di garanti esperti, a vario titolo, di informazione e attività culturali. Durante il convegno "verso il regime" (1959) Aldo Garosci studioso e giornalista, manifestò apertamente l'aspirazione ad una TV fondata sull'autonomia dei singoli operatori culturali e sul pluralismo dei contenuti. Un punto di partenza di matrice liberale illuministica che poggiava sulla fiducia nelle capacità dell'individuo di autodeterminare autonomamente la propria vocazione culturale: "penso che dobbiamo volere una TV illuministica, una radio che ponga problemi controversi, i problemi della riforma del paese i problemi di interesse pubblico".Gli intellettuali dell'area laico repubblicana muovevano da una concezione individualista della sfera culturale, secondo la quale il compito del potere pubblico doveva limitarsi e garantire le strutture e le condizioni concrete per la libera espressione dei singoli e dei gruppi. L’autore Adriano Bellotto nel 1965 scriveva: “La prima condizione per evitare da una parte che la TV venga adoperata a fini extra culturali di predominio partitico e dall'altra che ne derivino standard più mortificanti della pseudocultura di massa, è quella di una gestione aperta in un sistema continuo di ricambi". Ne discende la necessità di sottrarre la TV al controllo politico, eliminando i tradizionali canali di intermediazione culturale (i partiti) non tanto in nome di un imparzialità del mezzo alla quale in pochi credevano, ma per salvaguardare l'indipendenza dei suoi operatori (giornalisti, registi, programmatori) e soprattutto la libertà di scelta dei singoli spettatori.

Respingendo la nozione del pubblico massa e ancora di più, quella marxista del pubblico come classe, la cultura liberaldemocratica contrapponeva alla massa, unitaria conforme in articolata, il singolo spettatore e la sua naturale vocazione a realizzarsi come individuo.

Intervenendo al convegno sulla Rai dell'associazione radio teleabbonati del 1962, Carlo Ludovico Ragghianti, fra i fondatori del Partito d'Azione, si sofferma più volte proprio su questo aspetto di polemica verso il diffuso "pregiudizio della massa”. Affermò: “per considerare gli uomini come massa, per trattarli come massa, unanime, numerale, meccanica, informe, è necessaria una posizione che si rivela subito come un puro e semplice arbitrio mentale e morale: arbitrio che si potrebbe semplicemente considerare l'errore, se non avesse troppo evidenti ragioni pratiche, cioè che si vogliono ottenere la conseguenza che si scontrano di un carattere utile alla conservazione di un certo tipo di società divisa tra dirigenti e sudditi, siete dominanti e ceti subalterni."

Analogamente Mannucci contestava, nel suo Saggio del 1962, il "mito liberale della massa" presente non solo negli orientamenti e dei dirigenti Rai, ma anche in molti settori della sinistra e in gran parte del mondo della cultura: "da più parti si critica il paternalismo e del

Page 32: lapallacorda.files.wordpress.com  · Web view2021. 1. 16. · INTRODUZIONE. Nel 1994, Silvio Berlusconi, proprietario delle 3 più grandi emittenti televisive private, decide di

dogmatismo dei cattolici che oggi controllano questi strumenti, ma quando si passa a delineare un'alternativa all'attuale indirizzo ben pochi riescono ad andare al di là della formula del “educare le masse". Ma per questa strada la democrazia non potrà fare molto cammino. Nessuno, nemmeno la più illuminata delle élite, ha il diritto di trattare la maggioranza dei cittadini come se fosse composta di minorenni, tantomeno come una massa morta di crani da imbottire, seppur di nobili contenuti."

Per per il mondo laico liberale l'abbandono della "missione educativa" era indispensabile per una svolta davvero democratica della Radiotelevisione italiana, si teneva comunque conto, come fece Parri nel 1962, che in Italia bisognava ancora lottare "contro il materasso di qualunquismo e conformismo, contro la pigrizia politica e morale". Si facevano cioè, dei distinguo: radio e televisione "Non possono se non in casi particolari, costituire un surrogato della scuola pubblica", né il servizio televisivo pubblico può essere costretto a "funzioni didascaliche che non sono le sue". Parri era però costretto ad ammettere che il funzionamento così zoppicante ed insufficiente della scuola regolare obbligava a ricorrere a forme secondarie, e rendeva più importante la funzione educatrice della televisione. Quindi, non per non per vocazione ma per necessità, la programmazione televisiva in Italia era chiamata a svolgere anche funzioni didattiche, che tuttavia andavano rivolte non alla generica "massa" ma al “cittadino lavoratore”. A farsi strada nel corso degli anni sessanta fu la consapevolezza che la televisione aveva ormai trasformato non solo gusti, ma anche gli interessi e la capacità critica dei telespettatori, appariva quindi desueta tanto l’offerta televisiva tradizionale tra intrattenimento e nozionismo scolastico quanto la diffidenza un po' snobistica di molti intellettuali nei confronti del “teleitaliano medio”. Invece a 10 anni dall'avvio delle trasmissioni regolari, essi notavano che il pubblico televisivo era cambiato: non chiedeva più solo svago e intrattenimento, ma si aspettava dalla televisione di vedere le cose come stanno le cose del mondo.Affermando In conclusione che "il telespettatore italiano degli anni sessanta ha imparato a distinguere fare favole e la realtà", Aniello e Zanetti mettevano sotto accusa una programmazione televisiva a loro avviso, statica ed obsoleta, adeguata al tipo di pubblico fotografato dalle inchieste sociologiche degli anni ‘50. Pubblico, quello di allora, perlopiù contadino e semianalfabeta, facilmente sedotto dalle immagini televisive, ma anche "disorientato e smarrito di fronte alla grande quantità di messaggi pressoché simultanei, completamente succube di fronte alla violenza espressiva delle immagini". Tre anni dopo l'articolo de "l'Espresso", fu nuovamente Mannucci a denunciare l'immobilismo dell'offerta culturale della RAI ormai non più giustificabile col motivo della dell'arretratezza del paese e della scarsa scolarizzazione degli italiani: "l'arretratezza di certe zone del Paese non può essere usata come una scusa: essa è invece proprio una conseguenza dell'incredibile ritardo di questa classe culturale e amministrativa che è rappresentata nel comitato ministeriale di vigilanza".Nel corso degli anni Sessanta si rafforza dunque la convinzione che la TV era una straordinaria "finestra sul mondo", considerato inizialmente uno strumento di "alienazione delle masse", in realtà essa poteva "servire proprio all’opposto. La televisione può unificare e rendere più vivo il tessuto sociale del Paese, ancora così frammentato nelle sue strutture regionali e classiste, così come può contribuire ad abbattere le barriere tra un paese e l'altro". Arrigo Levi scriveva queste parole nel 1969, e concludeva dicendo: “La TV può aiutare a lanciare un ponte fra il mondo politico ed il paese. Ma bisogna usare fino in fondo

Page 33: lapallacorda.files.wordpress.com  · Web view2021. 1. 16. · INTRODUZIONE. Nel 1994, Silvio Berlusconi, proprietario delle 3 più grandi emittenti televisive private, decide di

questo strumento, smontando gli apparati di controllo, spalancando le finestre della rai tv sul paese, e non chiudendole”.Questo tipo di approccio al mezzo televisivo e del connesso obiettivo di fare della RAI "un organismo dello Stato collettività, non non un organismo dello Stato apparato" conobbero la massima diffusione nel dibattito italiano proprio dopo la crisi del 1968-1969 quando la deflagrazione della protesta studentesca e sindacale mise seriamente in discussione le strutture ed i canoni interpretativi della politica tradizionale. In quest'ottica il tema della Radiotelevisione finiva spesso per intrecciarsi a quello più generale del ruolo dello Stato e dello spazio occupato dal cosiddetto "potere culturale”.Le posizioni liberal garantiste respingevano tanto l'opzione generale egemonizzata dai partiti di governo, quanto l'ipotesi di un controllo diretto del Parlamento, il cui rischio era quello di incancrenire l'impossessamento dei partiti rendendo "ancora più rigido è complicato il controllo partitico sulle trasmissioni, impoverendo nel contenuto attraverso la formale imparzialità".

L'orientamento dei partiti laici ebbe una ricaduta sulle trasformazioni che investirono il sistema televisivo negli anni Settanta da almeno due punti di vista. Innanzitutto, spostando l'accento delle finalità educative a quelle del pluralismo informativo e dell'autonomia professionale dei giornalisti, esso richiama l'attenzione sulla necessità di riformulare la nozione di "servizio pubblico" radiotelevisivo, incentrandola su l'efficientismo dell'azienda concessionaria, sul rinnovamento dell'offerta culturale (per assicurare "quella pluralità di contributi, di impegni, di orientamenti, di realizzazioni e di critica” che costituiva il fondamento di ogni servizio radiotelevisivo pubblico) e sulla presenza di un rapporto trasparente imparziale e dunque in secondo luogo, sebbene inizialmente minoritario, le posizioni antimonopolistiche cominciarono ad affermarsi proprio in questi ambienti oltre che, come vedremo, nei settori economici interessati al campo dei media audiovisivi.

La TV tra mito americano, tradizione nazionale e “ splendido isolamento ” degli intellettuali La vocazione a cercare una “via italiana" alla modernità, al cui interno si inseriva anche l'azione svolta dai Cattolici e dalla DC nei confronti dei media audiovisivi, non fu sempre lineare e il rapporto tra cattolicesimo e modernizzazione socioculturale dell'Italia si presentò denso di contraddizioni, oscillazioni e ripensamenti.Oltre alle oggettive difficoltà di un progetto volto a ricomporre una sintesi unitaria tra le diverse tradizioni politico-culturali del Paese, entrarono in gioco anche fattori esterni e potenzialmente antagonistici che, a vari livelli, ostacolarono l'ambizione dei cattolici italiani di costruire un'identità nazionale comune fondata sulla riconciliazione tra modernità e morale Cristiana. Nel caso della televisione e dei nuovi mass media il primo problema era rappresentato dalla frattura, di cui si è già accennato, tra la cultura di massa veicolata da radio e tv e la cultura cosiddetta "Alfa", rappresentata da intellettuali, scrittori, giornalisti della carta stampata, accademici, eccetera... In secondo luogo, si manifestò subito l'esigenza di trovare una giusta combinazione tra i valori della tradizione nazionale e di modelli culturali e sociali provenienti da oltreoceano. Il primo problema era principalmente italiano, il secondo era condiviso dalla maggior parte dei paesi dell'Europa occidentale, dove la modernità assunse in quegli anni, ma non senza contraddizioni incontrarsi, le sembianze degli Stati Uniti d'America.Gli intellettuali italiani, sia perché legati alla tradizione umanistica di pensiero e a modalità di consumo culturale diverse dalla "commercializzazione del sapere prodotto dalla televisione”, sia perché tendenzialmente più vicini alla sinistra Social comunista, contestavano tanto i

Page 34: lapallacorda.files.wordpress.com  · Web view2021. 1. 16. · INTRODUZIONE. Nel 1994, Silvio Berlusconi, proprietario delle 3 più grandi emittenti televisive private, decide di

contenuti della televisione, quanto la politicizzazione indotta dal controllo governativo sulla Rai.Da qui la diffidenza degli intellettuali verso il mezzo che appariva servizio "della parte più conservatrice della classe governante Cattolica", Manuzzi scrisse: "ancora tagliato fuori dal processo di adeguamento, il pubblico del Mezzogiorno e di tutte le aree sottosviluppate, o non ancora pienamente inseritovi, la RAI svolga una funzione di "ammodernamento"; di stimolo all'aspirazione a raggiungere condizioni di vita materiale più decenti e ad operare taluni mutamenti del modo di vita che le altre società occidentali hanno raggiunto già da un pezzo. In tutto il resto però, la RAI conduce un’azione massiccia di rafforzamento di tradizioni, di opinioni, di atteggiamenti che potremmo definire pre democratici o, se si preferisci, pre costituzionali. Ma quand'anche risultassero per il momento lievi gli effetti che la RAI esercita su certi strati della società italiana, resterebbero comunque sufficienti motivi per giudicare pericolosa la sua opera ai fini dello sviluppo della democrazia nel nostro Paese, non tanto dal punto di vista politico, quanto da quello sociale culturale: che poi finisce sempre per ripercuotersi anche sulle condizioni politiche".Oltre a criticare la strumentalizzazione politica e ideologica a cui erano sottoposti i mass media anche quando, apparentemente, facevano opera di divulgazione culturale, gli intellettuali italiani denunciavano spesso la scollatura venutasi a creare tra modello di televisione imposto dalla Rai e dalla DC e la vera società italiana.

Che derivasse dalle preoccupazioni, variamente mutuate dalla scuola di Francoforte, per l'appiattimento culturale prodotto dai mass media, dalle critiche per l'eccesso di politicizzazione cui era sottoposto alla Rai o, infine, dal paradigma di una cultura popolare ormai "americanizzata" e di bassa qualità, sta di fatto che lo "splendido isolamento" degli intellettuali ebbe effetti profondi e duraturi sul processo di nazionalizzazione della cultura in Italia. Questo avvenne, soprattutto nel caso della televisione, all'insegna della mancanza di una vera legittimazione da parte della intelligenza progressista, ben presente e attiva invece, nei giornali nelle case editrici nel cinema e nelle Università. La frattura che si venne presto a creare tra i circuiti culturali d'élite e le nuove manifestazioni della cultura popolare, rese ancora più difficile, se non impossibile, fare della TV il mezzo di diffusione di una nuova cultura nazionale unitaria. A questo si aggiungeva il fatto che, per una serie di ragioni più o meno recenti, in Italia mancassero ancora un'identità comune è condivisa, un patrimonio indiscusso di valori, memoria e tradizioni appartenenti a tutti. Né, dunque, il modello di "televisione maestra" proposto dalla Rai, per quanto ben costruito ed efficacemente propagandato, né l’evocazione del mito americano e dell'American Way of life, né tantomeno i circuiti della diffusione culturale gestiti da intellettuali accademici furono in grado di ricomporre fino in fondo un Paese diviso da innumerevoli differenze teologico-politiche, culturali, sociali e geografiche.Impossibilitata pertanto, a veicolare un'identità culturale in qualche modo superiore, e non a livello profondo, e a farsi tramite della costruzione di un sentimento comune condiviso dall'intera popolazione, la "tv del governo" non fu nemmeno immune dall'influenza delle emittenti televisive americane. Per molti aspetti, infatti, proprio la televisione esemplifica al meglio il rapporto di amore-odio che, fin dagli anni trenta, si era venuto a creare tra la tradizione culturale italiana e gli stili di vita e di consumo americani. In Italia i riferimenti ai modelli televisivi e ai format americani, pur presenti fin dagli inizi soprattutto negli spettacoli di varietà, furono sempre scrupolosamente controllati e bilanciati da proposte culturali italiane.

Page 35: lapallacorda.files.wordpress.com  · Web view2021. 1. 16. · INTRODUZIONE. Nel 1994, Silvio Berlusconi, proprietario delle 3 più grandi emittenti televisive private, decide di

La TV italiana dunque, "figlia illegittima degli ascendenti molto incerti", si presentava nel suo palinsesto come un vero mix che combinava e sovrapponeva patrimoni culturali e autoctoni mescolando tradizioni nazionali con modelli culturali e format di provenienza americana. Si trattava di un processo iniziato già prima dell'avvento della televisione, durante la guerra mondiale, quando la strategia americana era stata quella di usare massicciamente la radio sia per fiaccare il morale dei nemici, sia per costruire un'opinione pubblica favorevole agli alleati. Nel 1942, ad esempio, fu trasmessa la Voce dell'America, primo programma in lingua italiana messo in onda da New York. Allora e soprattutto dopo la caduta del fascismo, l'influenza statunitense divenne costante anche se poi i programmi cambiati dagli Stati Uniti assumevano un'impronta marcatamente "casalinga" e persino di Mike Bongiorno si dimenticò presso la provenienza americana.

Caso più noto di questa particolare contaminazione dei prodotti televisivi statunitensi su quello del popolarissimo quiz Show Lascia o raddoppia? ispirato al programma di Sixty Four thousand dollars question, grande Big Money show dalla rete americana CBS. Rispetto al quiz americano, che durava solo mezz'ora, quello italiano che debuttò nel 1955, si caratterizzava per una dilatazione dello spettacolo dove l'automatismo del botta e risposta del gioco si ponevano la tipologia dei personaggi, le storie personali dei concorrenti, le emozioni del pubblico e soprattutto in figura del presentatore, Mike Bongiorno che appariva già l'incarnazione perfetta del "italiano medio", dei suoi gusti e delle sue aspirazioni.La fenomenologia di Mike Bongiorno, esemplificava al meglio le profonde differenze che intercorrevano tra sistema televisivo americano e quello italiano. Mentre il primo era rigidamente sottoposto alle leggi del mercato e il numero dei potenziali spettatori era decisivo nella scelta dei programmi del palinsesto, in Italia in regime di monopolio statale imponeva di assecondare, di fatto, un "gusto medio" del pubblico difficile da formulare statisticamente e dunque, in qualche modo, stabilito dal gruppo dirigente dell'azienda radiotelevisiva. Come nel caso di Lascia o Raddoppia?, tutte le volte che si ispirava a programmi e generi stranieri, la RAI cercava di reinventarli fino a renderli del tutto irriconoscibili, o quasi.

L’influenza diretta delle trasmissioni americane sulla TV italiana conobbe un nuovo forte slancio solo intorno alla metà degli anni Settanta, dopo che ormai era entrato in crisi il modello pedagogico-paternalistico proposto dalla RAI. Fu proprio in quel momento, nonostante il “mito americano” segnasse il passo nell’immaginario collettivo europeo, che la televisione italiana si buttò confusamente nella mischia dello show business all’americana. La stessa RAI non rimase estranea ad una vocazione commerciale che, pur nella costante difesa dei valori e delle peculiarità del servizio pubblico, la portò ad assimilare sempre di più le influenze del format e dei contenuti delle emittenti americane.

Funzionale alla creazione di una “via nazionale" alla modernità, che doveva essere lontana sia dall'atomismo individualista di stampo liberale statunitense sia dal collettivismo materialista di matrice marxista, la TV pubblica italiana importava dagli Stati Uniti tecniche e formule televisive, ma senza assimilare e condividere nel profondo "l'anima dell'American Way of Life". Del resto, quando la stampa di area Cattolica si soffermava sul sistema televisivo americano non era tanto ai contenuti dei programmi o alle Star dello show system che faceva riferimento, quanto al fatto che negli Stati Uniti la televisione era ormai diventata un diritto di tutti i cittadini: "la televisione in America scriveva "il Popolo" fa parte dei diritti dell'uomo. Ho trovato televisioni dappertutto, nella camera d'albergo, nei bar, dal

Page 36: lapallacorda.files.wordpress.com  · Web view2021. 1. 16. · INTRODUZIONE. Nel 1994, Silvio Berlusconi, proprietario delle 3 più grandi emittenti televisive private, decide di

parrucchiere, dal commerciante, e dal modesto impiegato, l'ho trovata nella casa della vedova del ricco banchiere e nella casa di un muratore italiano. La TV è andata nelle case e le ha conquistate, è entrata in ogni locale e ne è diventata parte integrante, sta vicino agli uomini, li fa conoscere reciprocamente, porta davanti agli occhi di tutti ogni panorama, ogni avvenimento, ogni persona. Per il momento si può dire veramente che senza TV negli Stati Uniti non si può vivere".

L'influenza americana sulla TV italiana avvenne dunque, nel corso degli anni Cinquanta e Sessanta in modo spesso sotterraneo impalpabile, anche se nella retorica politica, soprattutto da parte della stampa degli intellettuali di sinistra, il tema più spesso utilizzato strumentalmente per criticare la piazzamento della cultura materiale italiana sull'American Way of life alla vigilia del debutto di Lascia o raddoppia?, ad esempio, "l'Unità" scrisse che "l'originalità è quanto manca veramente la nostra TV. Non un'idea, non uno spunto proprio, per ogni programma bisogna ricorrere all'America". Per quanto le cose non stessero esattamente in questi termini nel caso della TV, non vi è dubbio che, in generale, la penetrazione del cinema e dei divi di Hollywood, la diffusione dei consumi e delle nuove tecniche pubblicitarie provenienti da oltreoceano, la creazione stessa del mito americano da parte di certi segmenti delle élites politiche ed intellettuali influenzarono nel lungo periodo la cultura e gli stili di vita della società italiana, con la conseguenza, indiretta, di accelerare la crisi del modello di televisione autoctono.

Alla fine degli anni sessanta, la televisione ha stimolato la circolazione delle notizie e dei saperi, cambiato le forme della comunicazione politica, diffuso comportamenti e stili di vita consumistici, contribuendo a quella secolarizzazione della società italiana che avrebbe ben presto travolto anche gli schemi televisivi tradizionali.

CAPITOLO 4

Il sessantotto e i primi segnali di crisiAlla fine degli anni Settanta anche la RAI entrò nel vortice della contestazione e le polemiche sulla riforma radiotelevisiva raggiunsero il punto di incandescenza. Da un lato la vicina scadenza della convenzione tra l’azienda e lo Stato, le ipotesi di riforma, la questione della TV a colori, la comparsa delle emittenti private via cavo elevarono ai massimi livelli l’attenzione su questo tema: “non passa giorno senza che sulla stampa non appaiano notizie, commenti o nuove polemiche riguardanti questo settore, al quale, peraltro, dopo vent’anni di televisione, l’opinione pubblica è sensibilissima”. E infatti a partire dal 1968 fu tutto un susseguirsi di convegni, inchieste, saggi, proposte e progetti di legge. Dall’altro lato, cominciava anche a percepirsi il distacco tra un pubblico sempre più esigente e differenziato e il vecchio modello di TV pedagogica degli anni ‘50. Inevitabilmente le turbolenze del ‘68/’69 ebbero un riflesso anche “nell’ideologia della comunicazione” e la dicotomia fra partecipazione e manipolazione, fra libera espressione e pedagogismo, fra desiderio e austerità. A provocare la fine della lunga fase di ancien régime della radiotelevisione italiana del monopolio pubblico, fu principalmente la sfida delle radio e delle televisioni private. Il giornalista Cipriani nel 1974 dichiarava: “Mentre si tenta con atti estremi un salvataggio che al tempo stesso sia capace di ridare respiro al monopolio pubblico e di avviare questo ad una nuova vita e a migliori e diverse prospettive, l'azienda rai.tv si sta lentamente sfaldando. Fallita l'ambiziosa manovra tesa a fare della RAI-TV il centro egemone e di controllo

Page 37: lapallacorda.files.wordpress.com  · Web view2021. 1. 16. · INTRODUZIONE. Nel 1994, Silvio Berlusconi, proprietario delle 3 più grandi emittenti televisive private, decide di

dell’informazione e della cultura in mano alle forze integraliste della DC; sono stati molti a decidere questa sorta di autoaffondamento, di progressivo annullamento.”Ciò che coglieva Cipriani, era il progressivo esaurimento del progetto politico e culturale della sinistra democristiana: quello di educare e far crescere il Paese attraverso la radio e la TV nella speranza di radicare istanze e valori condivisi. Un progetto, perseguito sapientemente da Bernabei grazie ai suoi “uomini di fiducia” e attraverso una TV di qualità sotto il profilo della programmazione, che ora dava segni di cedimento innanzi tutto perché cominciava a vacillare il sistema di potere che ne era alla base. Gli scioperi, i cortei, le assemblee, le dimissioni di Sandulli dopo il caso Zavoli del ‘70, le frequenti censure operate da Bernabei sui servizi giornalistici avevano infatti iniziato a logorare il potere monocratico del direttore generale. Un documento delle ACLI (associazione cristiani lavoratori italiani) recitava: "la gestione di Bernabei tende soprattutto ad accentrare il potere al vertice, ma nello stesso tempo moltiplica i dirigenti e le cariche per frazionare e annullare le responsabilità e porsi come unico ed autentico centro di potere. Lo scopo di Bernabei è quello di precostituirsi una posizione di forza, mandando gli uomini di sua fiducia a ricoprire posti chiave dell'azienda. Il risultato non è quello che l'attuale direttore generale della RAI si era promesso di raggiungere. La tattica dei fiduciari a un certo punto non funziona più sia perché si è andata logorando per l'abuso che se ne è fatto in 10 anni, sia perché nel frattempo è maturata una forte spinta di base. All'interno della rai.tv, nasce e si sviluppa il movimento dei dipendenti e all'esterno si ha una progressiva sensibilizzazione dell'opinione pubblica nei confronti dei problemi sollevati dalla politica dell'organismo radiotelevisivo.”

Agli scioperi e alle occupazioni che travolsero l'azienda a partire dal febbraio 1968, e che stavano rendendo sempre più fragile il controllo democristiano, Bernabei mantenne una linea intransigente e un'interpretazione restrittiva delle norme. Al centro delle rivendicazioni dei dipendenti vi era, oltre alla denuncia delle "enormi strutture gerarchiche quasi del tutto estranee alle reali esigenze di funzionalità", la richiesta di veder garantita "la libera manifestazione della professionalità del singolo dipendente ad ogni livello ed in ogni settore”. Il direttore, oppose una dura resistenza tanto alle proteste dei dipendenti, quanto alle pressioni degli scioperanti delle industrie per ottenere maggiore visibilità nel notiziario di informazione. Nel giugno ‘68, mentre si moltiplicavano gli attacchi alla RAI per avere censurato le lotte studentesche, Bernabei arrivò a chiedere un intervento diretto del presidente del consiglio Moro affinché "gli elementi democristiani a livello giornalistico, funzionario e dirigente siano richiamati ad una presenza attiva, per non lasciare più che sorgano o crescano in loro assenza iniziative che sono sempre contro la DC e talvolta contro gli alleati di governo”.

La chiusura dei ranghi auspicata da Bernabei si rivelò sempre più difficile da sostenere politicamente. I socialisti, insoddisfatti degli spazi garantiti loro dalla lottizzazione, avevano aumentato le pressioni per una riforma in senso parlamentare della RAI e nel 1973 arrivarono a porre su questo tema la condizione per un'eventuale nuova alleanza di centro-sinistra: “Nessuno vuole disconoscere la realtà, e cioè il posto che occupano la DC nel nostro paese e l'esecutivo del nostro ordinamento costituzionale. Nessuno può però accettare che la RAI continui ad essere un'appendice del governo e del partito di maggioranza, anziché il luogo di convergenza di tutte le forze democratiche, politiche e culturali, esistenti nella società italiana. La DC si trova dunque di fronte ad una scelta che non potrà evitare. Si misurerà anche su questo terreno la possibilità di una ripresa della collaborazione con i socialisti."

Page 38: lapallacorda.files.wordpress.com  · Web view2021. 1. 16. · INTRODUZIONE. Nel 1994, Silvio Berlusconi, proprietario delle 3 più grandi emittenti televisive private, decide di

La rinnovata mobilizzazione del PSI era dunque un segnale di come la battaglia delle finestre su questo tema fosse definitivamente uscita dalle posizioni di retroguardia degli anni ‘50. Anche il Partito Comunista, benché ancora attraversato da talune inclinazioni anti televisive, scelse infatti di portare la questione Rai alla ribalta delle manifestazioni di protesta della primavera del 1968 e alla vigilia delle elezioni arrivò a promuovere uno sciopero del canone contro una televisione partigiana e faziosa. Si trattava di campagna di disobbedienza che, al di là degli scarsi risultati ottenuti, rivelavano una crescente coinvolgimento delle masse lavoratrici sul problema della Radiotelevisione. La strategia del Partito Comunista era infatti quella di mobilitare, per “una battaglia che ormai interessava tutta la nazione, ma che sarà difficile ed aspra", le "grandi masse attive della popolazione, le loro organizzazioni politiche, ricreative e culturali". Nel frattempo proseguivano anche le iniziative legislative, alla fine del 1968 l’ARTA (??) e l’ARCI (Associazione ricreativa e culturale italiana) promossero un disegno di legge sottoscritto anche da PCI e PSI. La proposta di legge si muoveva sul terreno tradizionale dell’estromissione del governo, del potenziamento della Commissione di Vigilanza e del diritto di accesso alla TV a tutte le forze e le organizzazioni presenti nel Paese. La proposta proponeva anche l’abolizione della pubblicità, la trasformazione dell’azienda in un soggetto di diritto pubblico, l’istituzione di un comitato direttivo eletto dal Parlamento e un vasto piano di decentramento e regionalizzazione delle sedi. Virava in sostanza, a creare un modello alternativo di Radiotelevisione, fondato su una “gestione sociale" del mezzo conforme alla sua “destinazione sociale e di massa", svincolato dalle regole del mercato e sottratto agli imperativi culturali "mutuati dalle classi dirigenti e rivolti a conquistare il consenso delle masse alla società dei consumi". A differenza dei progetti del passato tuttavia, quello dell'ARCI non faceva alcun riferimento esplicito alla parlamentarizzazione della RAI, dietro la quale si poteva nascondere il desiderio di “conquistare un trattamento politico migliore per le opposizioni”.Il Partito Comunista ambiva dunque a presentarsi come il solo partito in grado di liberare l'industria culturale italiana dal dominio dei grandi gruppi di potere. Il solo soprattutto, a non cercare spazi di intervento per sé o poltrone da occupare.

Erano d'altro canto i molti avvenimenti di quei mesi a suscitare nei comunisti la speranza di poter andare oltre il semplice controllo parlamentare sulla Rai. Preso atto che ormai la televisione era un “colosso persuasore che agisce massicciamente penetrando in tutte le sfere dell'attività umana", individuatene le potenzialità "grandi e liberatrici" per il rinnovamento sociale, il Partito Comunista accarezzava l'idea di fare della TV terreno di scontro, un terreno da aprire alla lotta di classe. Tale rovesciamento però, non poteva realizzarsi attraverso un semplice intervento legislativo; attraverso alcuni codici “elegantemente lavorati". Per la RAI, insomma, occorreva una “radicale trasformazione degli indirizzi produttivi, politici e culturali" e da lì si sarebbe eventualmente partiti per instaurare nuovi rapporti di classe in tutti i settori: "è questo uno dei punti che ci dividono nettamente da quei "riformatori" che, all'interno e fuori dalla TV, sostengono soluzioni verticistiche. Per costoro infatti la riforma si riduce ad alcuni aggiustamenti, a misure di razionalizzazione che devono fare della rai.tv una grande ed efficiente azienda, espressione paternalistico-autoritaria del neocapitalismo. Quello che occorre è una gestione Democratica e sociale che paga il suo potere da fonti diverse: dal Parlamento, dagli utenti, dai dipendenti e dai collaboratori, in modo che negli organi dirigenti dal più importante centro di comunicazione di

Page 39: lapallacorda.files.wordpress.com  · Web view2021. 1. 16. · INTRODUZIONE. Nel 1994, Silvio Berlusconi, proprietario delle 3 più grandi emittenti televisive private, decide di

massa possa stabilirsi un rapporto e un confronto tra forze diverse spiegazione politica è l'ideale ". Ora dunque il Partito Comunista alzava la posta, puntando a realizzare una “battaglia culturale" a tutto tondo: espressione della lotta di classe e veicolo per la "formulazione di una strategia unitaria e alternativa, capace di superare la divisione in settori per battere il grande disegno capitalista di razionalizzazione che trova nella rai.tv il suo cardine ed il momento di più avanzata proposta”. I comunisti della Rai tv firmarono un documento in cui si dichiarava: "la Rai TV in effetti sta sempre più assumendo le caratteristiche di un grandioso centro di potere che tende a penetrare e a condizionare tutti i settori dell'industria culturale, stabilendo un processo di integrazione con centri di potere economico, come l'industria cinematografica ed editoriale. La RAI infatti, sovvenziona vaste reti di "clienti"; mediante forme di "pubblicità occulta" favorisce grandi gruppi industriali. Questa politica di stretti legami e di reciproci favori tra la RAI e il grande capitale, italiano e straniero, rappresenta l'inizio di una segreta "privatizzazione" di un servizio che dovrebbe essere pubblico”.

La rinnovata e sempre più agguerrita battaglia delle sinistre per la riforma, gli scioperi e le occupazioni nei centri di produzione, le difficoltà economiche dell’azienda e la crisi nei rapporti di potere interni furono tutti fattori che segnarono, alla vigilia degli anni Settanta, l’inizio del declino della TV di Stato. Questo non significa che il pubblico si fosse allontanato dalla TV: tra il 20 ed il 21 luglio 1969 circa 40 milioni di italiani restarono incollati ai teleschermi per assistere allo sbarco del primo uomo sulla luna. La RAI era quindi viva, ma in sofferenza.

A colpi d ’ antenna: il boom delle emittenti private 20 aprile 1971, Telebiella, ottenuto dal tribunale cittadino il diritto di trasmettere "un giornale periodico a mezzo video”, fu la prima televisione privata via cavo in Italia, la dirigeva il regista televisivo Giuseppe Sacchi. Già nel 1966 il monopolio radiofonico era stato incriminato da Radio Montecarlo, unicamente destinata al mercato italiano anche se collocata nel Principato di Monaco; grazie ad una programmazione editoriale giovane e accattivante, molto distante dalle "inconfondibile rigore dei programmi radiofonici ufficiali" della RAI, la nuova radio riscosse fin da subito un grande successo nelle regioni nord-occidentali della penisola raggiunte dal segnale. Dal 1970-’71 poi, l'attivazione di ripetitori nella Svizzera italiana e a Capodistria permise alle zone settentrionali di ricevere i programmi delle emittenti televisive straniere che, a differenza della RAI, trasmettevano già a colori; in particolare Telecapodistria, emittente jugoslava destinata alle minoranze di lingua italiana, poteva essere vista anche in Friuli, Veneto, Emilia Romagna e persino nelle Marche.In assenza di una disciplina giuridica aggiornata furono dunque i progressi tecnologici, e in particolare la televisione via cavo, che era nata negli Stati Uniti negli anni cinquanta, a scalfire il monopolio radiotelevisivo della RAI. Contro TeleBiella, si aprì nel 1972 un procedimento penale per la violazione dell'articolo 178 del codice postale, che vietava di installare impianti telefonici, telegrafici e radioelettrici senza previa concessione. Archiviata la denuncia in quanto il codice postale del 1936 non recava alcuna disciplina in merito alle trasmissioni via cavo, la risposta del governo non si fece attendere: con un decreto del marzo 1973 il vecchio testo viene aggiornato unificando tutti i mezzi di comunicazione a distanza, a cui era imposta, senza distinzioni, l'autorizzazione ministeriale. A maggio quindi,

Page 40: lapallacorda.files.wordpress.com  · Web view2021. 1. 16. · INTRODUZIONE. Nel 1994, Silvio Berlusconi, proprietario delle 3 più grandi emittenti televisive private, decide di

il Ministro delle Poste Giovanni Gioia potè disporre la disattivazione dell'impianto di Telebiella, eseguita coattivamente dalla polizia il primo giugno. In realtà l'iniziativa del ministro era stata osteggiata dalla maggior parte dei gruppi politici; comunisti e socialisti la giudicarono arbitraria, i repubblicani di La Malfa arrivarono a minacciare di ritirare la fiducia al governo Andreotti, liberali e missini erano da tempo contrari al monopolio statale.La chiusura di Telebiella e la caduta, il successivo 7 luglio 1973, del governo Andreotti per il ritiro dell'appoggio da parte del partito repubblicano furono solo il primo atto di una battaglia, giuridica e politica, molto lunga.In tale situazione la riluttanza della DC a mettere mano alla riforma finiva per rafforzare l'impressione che tutti i mali della RAI stessero dentro la sua "patologica autonomia" dal Parlamento, come aveva detto Giorgio Bogi quando, nel ‘72, alla fine della vicenda di telebiella, il governo Andreotti aveva informato la Camera dei Deputati della proroga di un altro anno della convenzione con l'azienda. Quasi tutte le forze politiche si erano opposte a questa misura in nome sia delle urgenze della riforma sia delle opportunità di coinvolgere direttamente il Parlamento nelle decisioni riguardanti l'assetto radiotelevisivo. Quest'ultimo sollevato con forza dai socialisti, che colsero l'occasione della proroga per denunciare "i gravi rischi che, sul piano della democrazia sostanziale, il nostro paese corre con la politica centrista”: “il governo aveva una occasione per dimostrare l'infondatezza delle critiche sul progressivo logoramento e svuotamento delle istituzioni democratiche e parlamentari che accompagna la sua azione; non l’ha colta perché non poteva, essendo intrinseco nella natura di questo governo disattendere le prerogative sostanziali del Parlamento.”

Grande scalpore fece quindi un articolo di Eugenio Scalfari, giornalista allora iscritto alle liste del PSI, pubblicato all'inizio del ‘72 sul "Espresso” invitava la sinistra a rivedere il “mito assai duro a morire" del monopolio radiotelevisivo pubblico: “non dobbiamo decidere se il monopolio pubblico sia, in linea teorica, preferibile all'oligopolio privato. Dobbiamo invece stabilire se il monopolio di Ettore Bernabei, abbia reso e possa rendere al paese dei servizi informativi migliori di quanto non facciano quotidianamente Il Corriere della Sera, La Stampa, Il Messaggero e l'Unità. D'altra parte, secondo punto essenziale da ricordare, i progressi tecnici dei satelliti e delle videocassette stanno sempre più avvicinando il momento in cui il monopolio cadrà per ragioni tecniche siamo dunque discutendo di qualcosa che tra 2 o 5 anni non esisterà per mancanza di oggetto”.

Al tempo stesso, Scalfari riteneva che una battaglia esterna alla RAI per il pluralismo di servizi culturali e informativi potrebbe avere maggiori possibilità di successo di qualsiasi tentativo di riformare dall'interno il monopolio statale: "si potrà obiettare a queste mie proposte che, se è vero che non esistono attualmente le forze politiche per trasformare il monopolio di Bernabei in qualche cosa di più decente, a maggior ragione non vi saranno forze sufficienti per sostituire il regime di monopolio con quello della concorrenza. Ma si tratta di un errore. La battaglia interna alla Rai vedrà sempre scontente le minoranze associate al governo; quella esterna contro la RAI può suscitare un imponente coalizione di forze economiche e sindacali, capitalistiche e operaie, liberali e socialiste, capaci di raggiungere la vittoria. Personalmente sono convinto che la sinistra debba impegnarsi a fondo in questa battaglia, dove ha molto da guadagnare e, data la situazione attuale, assolutamente nulla da perdere”.

Page 41: lapallacorda.files.wordpress.com  · Web view2021. 1. 16. · INTRODUZIONE. Nel 1994, Silvio Berlusconi, proprietario delle 3 più grandi emittenti televisive private, decide di

Sensibile all'appello di Scalfari, il Partito Comunista si chiuse ostinatamente nella difesa del monopolio di Stato, facendone quasi un punto d'onore. Il quotidiano "l'Unità" scrisse che la proposta di Scalfari e gli stessi progressi tecnologici erano dei falsi pretesti messi in campo dalle forze capitaliste per stroncare il fronte riformatore e soffocare il “diritto dei lavoratori all'uso dello strumento televisivo".Alla strenua difesa del monopolio da parte del PCI corrispondeva quella dei liberali a sostegno dell'iniziativa privata; una scelta che partito argomentava non solo con ragioni ideologiche, ma soprattutto denunciando la crisi e gli abusi della Rai: ”è il monopolio l'elemento corruttore di tutto il sistema, è il monopolio che ingigantisce le funzioni della rai.tv dandole una dimensione sproporzionata".Nelle altre forze politiche le posizioni erano più articolate, talvolta anche poco chiare.Mentre la DC affermava di non fare "del monopolio della Radiotelevisione un dogma", anche socialisti di "Mondo operaio", benché contrari in linea di principio alle liberalizzazioni, erano costretti ad ammettere che: "il tempo gioca a favore dei privati. Se non si procederà in tempi brevi alla riforma della rai.tv, sarà difficile per non dire impossibile, resistere alle forze che, premono per la rottura dello stesso. La partita a tre fra governo, schieramento riformatore e privati, è dunque destinato a concludersi in ogni modo".Gli attacchi al monopolio Rai continuarono per tutto il 1974, anche dopo la chiusura forzata di TeleBiella il 5 agosto. Telemontecarlo, con l'ambizioso obiettivo di arrivare a coprire tutta la costa tirrenica grazie a ripetitore collocato in Corsica, mandò in onda il primo programma per l'Italia, e negli stessi giorni cominciava a trasmettere la prima tv locale italiana via etere: Firenze Libera. Il primo ottobre nacque a Genova Telesuperba, che trasmetteva a colori, e fu subito denunciata dal Ministro delle Poste e delle telecomunicazioni. Qualche settimana dopo a Viareggio, si costituisce l'associazione nazionale delle teleradiodiffusioni indipendenti che raggruppava già 24 emittenti.

Il 24 settembre 1974 erano iniziate anche le trasmissioni di Telemilano, la TV via cavo acquistata da Silvio Berlusconi. Da principio mandavano in onda solo notiziari di informazione e servizi per gli abitanti del quartiere residenziale di Milano 2, poi iniziò anche a trasmettere qualche film nella fascia serale, dopo soli tre anni fece il grande salto di qualità. Trasformatasi in TV via etere, poi diventata società per azioni, Telemilano, istituita di nuovi impianti di trasmissione inizia quell'avventura nel campo delle telecomunicazioni che nel giro di pochi anni l'avrebbe trasformata nel più potente polo televisivo privato.

La grande proliferazione di emittenti televisive private nella seconda metà del ‘74 in parte dovuta a due sentenze emesse dalla Corte Costituzionale a luglio, dopo che il governo aveva disposto lo smantellamento dei ripetitori della TV Svizzera e di Capodistria. La prima sentenza numero 225, stabiliva l’illegittimità della sentenza ministeriale, dal momento che la presenza di ripetitori di emittenti estere andava a vantaggio della "libera circolazione delle idee" e interessava il numero di bande di trasmissione a disposizione dell'Italia. La sentenza numero 226, liberalizzava invece la TV via cavo in ambito locale, confermando però il diritto il monopolio pubblico per le trasmissioni via etere.

I giudici costituzionali dichiararono in modo tassativo che poteri reali sull’azienda concessionaria dovevano spettare al Parlamento, affinché vigilasse sul rispetto del pluralismo della trasmissione. Intervennero anche sulla posizione dei giornalisti radiotelevisivi, richiamando nell'osservanza dell'oggettività delle notizie e della deontologia

Stella Guizzardi, 11/01/2021,
Gio spiegaaa
Page 42: lapallacorda.files.wordpress.com  · Web view2021. 1. 16. · INTRODUZIONE. Nel 1994, Silvio Berlusconi, proprietario delle 3 più grandi emittenti televisive private, decide di

professionale, e sul diritto di accesso da garantire, in condizioni di massima imparzialità, a tutti i gruppi politici, religiosi e culturali "quali si esprimono le varie ideologie presenti nella società".Anche la sentenza numero 225, che permetteva l'installazione di ripetitori di TV estere, produsse una serie di effetti non previsti, come la nascita di un aperta concorrenza tra questa televisioni, che trasmettevano già a colori e fuori da qualsiasi regolamentazione da parte dello stato italiano, e della Rai. Alcuni giornali accusavano la Corte Costituzionale di avere introdotto per via surrettizie un regime di oligopolio: "i ripetitori vengono installati da gruppi privati, al di fuori di ogni coordinamento anche di natura tecnica, non per trasmettere i programmi svizzeri, jugoslavi o francesi, ma, già oggi e sempre più domani, per trasmettere programmi destinati soprattutto al pubblico italiano e finanziato dalla pubblicità italiana. Nasceva cioè al di fuori di ogni controllo una televisione commerciale italiana colori, per aggiunta realizzate all'estero, e finisce la Radiotelevisione come Servizio Pubblico”.

A causa di queste situazioni di fatto e del grave ritardo dell'intervento legislativo, a partire dal 1974 il "rosicchiamento" del monopolio pubblico non incontro più ostacoli. Il colpo definitivo venne ancora una volta dalla Corte Costituzionale; con la sentenza numero 202 del 28 luglio 1976 furono liberalizzate le trasmissioni via etere per le emittenti private "di portata non eccedente l'ambito locale".Sul piano nazionale, invece, il pluralismo e la tutela dell'interesse generale erano ancora garantiti dalla presenza di un unico operatore. La liberalizzazione dell'emittenza privata in ambito locale, vincolata comunque ad un sistema di autorizzazioni tale da impedire la formazione di concentrazioni, diede il via ad una corsa inarrestabile all'occupazione dell’etere; le TV commerciali si moltiplicarono ad una velocità rapidissima, contendendosi le frequenze disponibili estendendo progressivamente il proprio raggio d'azione. In pochi anni, grazie alla più efficiente raccolta pubblicitaria, quattro reti private riusciranno a prendere il sopravvento sulle altre: prima rete indipendente di Angelo Rizzoli, Italia 1 di Edilio Rusconi, Rete4 del gruppo Mondadori e Canale 5 di Silvio Berlusconi, legata quest'ultima ad altre società che si occupano della produzione e della distribuzione dei programmi e della pubblicità. In poco più di 5 anni il boom dell'Industria elettronica produsse una vera e propria rivoluzione non solo nel mercato dei media audiovisivi, ma anche nelle abitudini della popolazione e nell'assetto dell'imprenditoria italiana. Mentre le telecomunicazioni, proprio com'era accaduto l'industria automobilistica negli anni sessanta, si avviavano diventare settore trainante e più influente della vita economica del paese, la fine dell’autarchia della RAI fece ben presto svanire anche "l'accettazione sociale, la legittimazione di un sistema televisivo fondato su un determinante ruolo del servizio pubblico in termini di produzione e di ascolto".

Negli anni Settanta invece, il quadro si presentava estremamente diverso. Sullo sfondo della crisi dei rapporti economici e politici a livello internazionale operavano la ridefinizione degli equilibri politici interni, il declino delle vecchie contrapposizioni ideologiche, la straordinaria metamorfosi prodotta dal "miracolo economico", la crescente globalizzazione della popolazione, un fervore associativo presente in tutti i settori della società. Condizioni, insomma sempre meno conciliabili con la tradizionale televisione "pulpito e cattedra" da cui educare gli italiani.

Page 43: lapallacorda.files.wordpress.com  · Web view2021. 1. 16. · INTRODUZIONE. Nel 1994, Silvio Berlusconi, proprietario delle 3 più grandi emittenti televisive private, decide di

Pubblico nuovo e vecchia TVMolti studiosi concordano sul fatto che a determinare le trasformazioni del panorama radiotelevisivo negli anni ‘70 contribuì anche la crisi del modello televisivo tradizionale, quello della TV "Popolare" e rassicurante che per circa vent'anni aveva orientato i gusti, la cultura, i bisogni degli italiani. Se da un lato, infatti, la depressione economica, l'inflazione galoppante, la violenza del terrorismo aprì una fase di austerity nei consumi e di forte instabilità politica, dall'altro la crescente politicizzazione della società e la comparsa sulla scena di nuovi gruppi come le donne e i giovani segnarono la presenza di diversi segmenti di pubblico e di consumatori. Sembrava non esistere più, insomma, lo spettatore tipo sul quale Bernabei aveva costituito la vecchia Rai.

Il sociologo Giovanni Bechelloni, in un saggio del ‘74, mise in discussione l'assunto sul quale si era retta per decenni la politica culturale della Radiotelevisione: ovvero che la cultura di massa fosse sempre e comunque espressione di “valori moderni". La misura del loro condizionamento sui comportamenti individuali e collettivi, a suo avviso, era stata spesso sovrastimata: "C'è chi sostiene che i mass media sono venuti a costruire una vera e propria "scuola parallela”, più importante e più influente della stessa scuola, questi in realtà, esercitano una loro influenza, anche importante, ma sono in funzione del tipo di educazione ricevuta nella prima educazione e nella scuola". Il sociologo si riferiva in particolare al settore dell'informazione: "nonostante il fatto che il telegiornale abbia determinati orientamenti politici o la grande stampa ne abbia altri, l'elettorato, nel momento del voto, tende ad esprimere convincimenti in contrasto con tali orientamenti".

Il ‘68 aveva infatti portato alla ribalta una generazione, figlia del benessere e della televisione, che ora si ribellava alla massificazione culturale e agli standard di vita da società benestante. A ciò si aggiungevano, in Italia, la forte conflittualità sociale e la crisi del centrosinistra, segni evidenti di come se stessi esaurendo la vecchia legittimazione politica fondata sulla promozione della cultura e sulla promessa di tenere lontano lo spettro del comunismo.

Tutto questo, come notava Pietro Zollino nel 1969, non toglieva valore alla TV pedagogica di Bernabei: "Il video ha portato sui monti e nelle campagne l'immagine e la conoscenza delle cose più elementari, ha fatto capire che la terra è grande e l'umanità piena di speranze e di guai, ha unificato la nazione per quanto riguarda la lingua, le abitudini ed i gusti. E anche l'Italia di Canzonissima è lo specchio di una società che ha camminato, che non consuma più soltanto pane, che ha tempo e voglia di spedire milioni di cartoline, che vuol ridere, ballare e cantare." Benché nell'ambito delle preferenze e dei gusti del pubblico restassero ancora grandi differenze tra le aree urbane e quelle economicamente più arretrate, nel complesso l'attitudine al consumo televisivo si andava sempre più omologando alla proiezione degli altri mezzi di comunicazione non gestiti dal potere pubblico, come la stampa e il cinema. I sociologi invitarono quindi a riconsiderare la dinamica tra televisione e pubblico, che non poteva più essere quella, tutto sommato lineare, del binomio "docente-alunno": "non possiamo neppure pensare, dice sociologo Franco Crespi nel 1970, di sviluppare una politica di carattere illuministico, nel senso di decidere a priori quali sono i valori che devono essere diffusi. Quando si parla di promozione della partecipazione attiva e critica, di diffusione dei valori, di esigenze di comunicazione scambio sociale, è necessario che si tengano presenti le forze effettive che poi trovano espressione nella televisione. Il problema

Page 44: lapallacorda.files.wordpress.com  · Web view2021. 1. 16. · INTRODUZIONE. Nel 1994, Silvio Berlusconi, proprietario delle 3 più grandi emittenti televisive private, decide di

che voglio sottolineare è proprio quello del rapporto tra contesto socio-culturale e produzione televisiva: si pongono qui i problemi della rappresentatività delle forze che sono presenti nella televisione, la presenza di forze culturali plurime nel processo di produzione, la responsabilizzazione sociale dei dirigenti e produttori televisivi, la capacità di controllo e di reazione da parte del pubblico".

Mentre quindi, le analisi sociologiche palesavano una nuova circolarità a doppio senso nel rapporto tra spettatori e mezzo televisivo, che non poteva più essere lo strumento di una piccola élite illuministica, la Rai sembrava arroccata in una posizione difensiva rispetto ai cambiamenti sociali in corso, come se faticasse ad accogliere nelle proprie trasmissioni valori, stili e contenuti diversi da quelli ormai consolidati dai ceti borghesi di un'opinione pubblica moderata e mediamente colta.Anche i politologi, analizzando l'influsso della televisione sugli orientamenti politici degli italiani, contribuirono a sgretolare molte delle vecchie certezze. Giorgio Galli, in un intervento sul "Mulino" del ‘72, smentì la tesi secondo cui in Italia televisione aveva favorito il radicamento dei valori conservatori della tradizione cattolica e favorito politicamente la Democrazia Cristiana.L'esito del referendum sul divorzio, svoltosi il 12 maggio ‘74, sembrò confermare questa tesi. Il partito comunista, che pure aveva intensificato la vigilanza sulla Rai durante la campagna elettorale, si trova per certi versi spiazzato dalla vittoria del “no”, che sembrava smentire l'assunto di una televisione ultra conservatrice al servizio delle forze clericali. Pier Paolo Pasolini, continuando comunque a condannare fermamente la “omologazione distruttrice di ogni autenticità e concretezza" causata dalla televisione e dal nuovo edonismo consumistico, fu costretto ad ammettere che risultato del referendum si doveva essenzialmente alla televisione: "la principale artefice della vittoria del no, attraverso la recitazione, sia pure ebete, dei cittadini ".Analoga nelle conclusioni, anche se partiva da un giudizio tutto sommato positivo sul ruolo modernizzante dei mass media, l'analisi di Umberto Eco: la vittoria del fronte divorzista confermava che "Italia non era più quella del ‘48, che il costume si era profondamente modificato, che i modelli di vita più aperti diffusi dal cinema, della stessa televisione, dai libri, dei giornali avevano penetrato anche le zone più tradizionalmente timorose". Nel complesso la sinistra italiana sembrava ormai allineata più sulle posizioni di Eco che su quelle di Pasolini.

Il Partito Comunista Italiano, anche per tutti gli anni ‘50 e ‘60 si era interessato quasi esclusivamente al problema politico dell'assetto della RAI, aveva negli anni Settanta cominciato ad allargare in una prospettiva più sociologica i propri orizzonti di analisi, soffermandosi soprattutto sul rapporto di interscambio tra il mezzo ed il pubblico. Significativi da questo punto di vista due editoriali che usciranno su "Rinascita" nel ‘69. In uno Alessandro Nafta valutava definitivamente radio e TV, definendoli i tramiti nuovi tra cultura e masse popolari, e riconosceva nelle "libertà della Rai.tv" la condizione indispensabile della "libertà sul terreno generale dell'informazione, della creazione e dell'espressione culturale artistica, dello spettacolo". Nell'altro articolo Cipriani scrisse che una televisione democratica e pluralista avrebbe creato "l'uomo inquieto e quindi le condizioni per un dibattito continuo e uno scontro"; una televisione che sarebbe stata lo "specchio del paese in tutte le sue laceranti contraddizioni (ma anche dei suoi momenti unitari)”.

Page 45: lapallacorda.files.wordpress.com  · Web view2021. 1. 16. · INTRODUZIONE. Nel 1994, Silvio Berlusconi, proprietario delle 3 più grandi emittenti televisive private, decide di

Nel 1961 Adriano Bellotto fece una previsione: la televisione è "un libro che forse i nostri figli impareranno ad usare, conoscere, consultare più utilmente di quanto noi adulti oggi sappiamo fare". E difatti la seconda generazione televisiva non costituirà più quel pubblico che nella stragrande maggioranza dei casi "non aveva mai messo piede in un teatro", a cui sapeva di doversi rivolgere Bernabei quando era arrivato in Rai. Che si trattasse o meno del "uomo inquieto" di Cipriani era comunque un pubblico più esigente, preparato e differenziato; un pubblico che avrebbe presto trovato un felice approdo nella televisione commerciale con la sapiente misura di vecchio e nuovo, modernità e tradizione, dinamismo e rassicurazione.

Autonomia della RAI: come e da chiLa sfida delle emittenti private ed estere e, nel ‘72, la scadenza della concessione RAI rendevano indispensabile un intervento legislativo rapido e chiaro. Inoltre la nascita, dopo le elezioni di maggio di un governo tripartito con democristiani, liberali e socialdemocratici ruppe gli ormai fragili equilibri interni dell'azienda, cristallizzati secondo gli schemi del centrosinistra.Così quando nel ‘72 la DC, dopo circa 10 anni di alleanza con i socialisti, mise in piedi una sorta di governo di centro-destra, come risposta alle esito delle elezioni e alla forte inquietudine che attraversava il partito il Paese, il problema della riforma radiotelevisiva si pose in maniera urgente: bisognava infatti ricalibrare gli equilibri interni della RAI e soprattutto ripensare i meccanismi generali della lottizzazione alla luce di maggioranze mobili e fluttuanti.

Bernabei, pur consapevole di aver esaurito il proprio compito, si lasciò convincere a rimanere fino al rinnovo della convenzione, che il governo Andreotti, come si è visto la prorogò fino al 31 dicembre 1973, istituendo nel frattempo una commissione di studio per la riforma Rai sotto la presenza del consigliere di Stato Aldo Quartulli. Anche se si trattava di una scelta abrogativa, era comunque la prima volta che il governo si accingeva ad affrontare il tema del servizio radiotelevisivo mediante un esame approfondito e un'ampia ricognizione della questione di Stato.Riconosciuti da tutti la "finalità educativa" della Radiotelevisione ed il suo "fine pubblico giustificato da esigenze di educazione permanente", l'opzione largamente maggioritaria era quella del mantenimento del monopolio statale; solo presidente di Confindustria Renato Lombardi si espresse a favore della "pressoché completa liberalizzazione della radiodiffusione" che lasciasse allo Stato il monopolio dei mezzi tecnici, ma non quello delle programmazioni. Altro punto condiviso in tutte le relazioni pervenute alla Presidenza del Consiglio era quello dell'autonomia del settore radiotelevisivo del governo e dei partiti di maggioranza. La riforma della RAI era infatti vista rispetto ad un obiettivo minimo non negoziabile: renderla indipendente dall'esecutivo.Non si trattava certo di un tema nuovo, ma rispetto al passato conosceva ora unico assai maggiore e si presentava in forme più articolate. Per esempio, la tradizionale proposta delle sinistre di spostare il controllo sulla Rai da governo e Parlamento cominciò a suscitare riserve per l'eventualità che si riproducessero ugualmente intese spartitorie tra i maggiori partiti: "La RAI, disse Giuliano Amato, non dovrà più dipendere dal governo. Non dovrà dipendere nemmeno dal Parlamento, cosa questa che potrebbe portare a trasmissioni non meno paludate e non meno censurate di quelli attuali, con la differenza che ciò accadrebbe con l'avallo e con la concordia di maggioranza e opposizione. L'ente gestore dovrà essere di derivazione parlamentare, ma sottoposto a vigilanza mista del Parlamento, delle forze sociali

Page 46: lapallacorda.files.wordpress.com  · Web view2021. 1. 16. · INTRODUZIONE. Nel 1994, Silvio Berlusconi, proprietario delle 3 più grandi emittenti televisive private, decide di

i sindacati, e delle regioni, ed affidate alla responsabilità e alla capacità professionale di uno staff aperto di operatori, oltre che disponibile finalmente, all'accesso diretto di organismi culturali sociali ". D'altra parte era impensabile, secondo Leopoldo Elia, un semplice "ritorno all’aziendalismo" perché a guidare la RAI sarebbero stati comunque dei "manager come una sorta anche di notevole sensibilità politica". Le scelte spese dell'azienda radiotelevisiva erano per loro natura "di tipo politico": “l'uomo al di sopra della politica, disse il democristiano Gian Aldo Arnaud, l’ottimo tecnocrate capace di guidare un'azienda qual è la Rai TV con cristallina indifferenza ideologica, culturale e politica non esiste e se esistesse si troverebbe di fronte a problemi di scelta che lo costringerebbero comunque, ad uscire dalla lingua dell'indifferenza, che è cosa ben diversa dall'indipendenza". Alla soluzione parlamentare pura delle sinistre, che unificava gestione e controllo nelle mani della Commissione di Vigilanza e di altri organi rappresentativi, una parte della DC opponeva l'opzione di separare il momento della gestione, da affidarsi ad un organo di derivazione governativa, da quello del controllo, attribuito ad un'istituzione altamente rappresentativo della pluralità sociale e politica del paese. Proprio in questa direzione che si è mossa la commissione di studio istituita dal governo. La riserva allo Stato in regime di monopolio era giustificata non tanto dalla limitatezza dei canali a disposizione, modello natura di "servizio pubblico essenziale" di Radio TV, da non considerarsi "un fatto puramente economico da lasciar interamente alla libera iniziativa privata, nei un mezzo oppure semplice di svago o di evasione". La commissione Quartulli proponeva di mantenere il sistema della concessione ad una società privata, vantaggioso sia per ragioni finanziarie, sia perché "offre al governo possibilità di interventi, di indirizzo, di controllo, più di quanto si possa con un ente pubblico". Così mentre la gestione governativa era legittimata dal carattere di "servizio pubblico", le esigenze di pluralismo e decentramento e venivano affidati al controllo di una commissione civica di garanzia emanazione del Presidente della Repubblica, del Parlamento, delle regioni e della più rappresentative organizzazioni socio-culturali del Paese. La nuova commissione era concepita come una sorta di "alta magistratura radiotelevisiva", che doveva "tutelare la collettività dei cittadini per la soddisfazione dei valori di cultura e di democrazia" ed essere un freno "nei confronti di quelle forze che per il loro potere di pressione, per la posizione dominante ricoperta nell'apparato, possono indirizzare il messaggio radiotelevisivo e in un senso diverso da quello che dovrebbe". Nel complesso lo schema della relazione Quartulli costituiva un compromesso tra un vecchio assetto e le nuove istanze di pluralismo e decentramento regionale. La centralità dello Stato concedente il servizio, nei fatti assicurata dalla presenza di rappresentanti del governo del consiglio di amministrazione dell'azienda; il controllo sui programmi era però sottratto all’esecutivo e affidato alla Commissione Civica affinché i contenuti delle trasmissioni fossero stabiliti "dallo Stato collettività anziché dallo Stato apparato". Proponendo una piramide gerarchica, la relazione Quartulli si aggiungeva dunque nell'alveo delle proposte favorevoli a mantenere l'aspetto storico della Radiotelevisione italiana, rendendolo però più razionale, efficiente e democratico mediante la separazione tra i poteri di gestione quelli di controllo. Una soluzione di compromesso verso cui propendeva la DC, ma anche ad esempio, l’amministratore Paolicchi, convinto che la riforma dovesse rispecchiare lo "schema del sistema rappresentativo che regola la vita democratica del paese, secondo il quale esiste il diritto di controllo da parte delle minoranze, come esiste diritto di governare da parte della maggioranza".

Page 47: lapallacorda.files.wordpress.com  · Web view2021. 1. 16. · INTRODUZIONE. Nel 1994, Silvio Berlusconi, proprietario delle 3 più grandi emittenti televisive private, decide di

Per la Democrazia Cristiana il pregio di uno schema che separasse la gestione della Rai dal controllo sui programmi era sia giuridico, sia organizzativo, sia politico. Sul piano giuridico un'azienda così articolata avrebbe mantenuto "rapporti di equidistanza tra governo e Parlamento" e l'intero funzionamento ne avrebbe guadagnato in razionalità ed efficienza perché, come disse il ministro Bosco alla camera nel ‘71, i controlli da parte degli organi di vigilanza parlamentari sarebbero diventati "univoci e omogenei", eliminando "l'attuale pluralismo di competenze che certamente contribuisce ad attenuare nell'efficacia". Ma soprattutto, dal punto di vista politico, la DC evitava così di mandare in pezzi il vecchio sistema, per limitarsi invece a correggerne le disfunzioni.Il giornale "Discussione" sosteneva che: "il problema non è tanto quello di diminuire i poteri dell'esecutivo e di trasferirli all'assemblea, inadatta ad esercitarli, quanto quello di rendere più efficace il potere di controllo dell'assemblea sull'esecutivo. Un Parlamento trasformato in governo (e per di più di un settore così altamente specializzato) non ci pare probabile".

Fu proprio carattere compromissorio e continuista del progetto Quartulli ad essere contestato da tutti quei settori, come l'ordine nazionale dei giornalisti, e da quelle forze politiche che propendevano per una riforma radicale della RAI. Quella avanzata dalla Commissione governativa appariva infatti una “riforma del Gattopardo" che avrebbe rafforzato l'impostazione tradizionale senza alcun "rinnovamento reale in termini di rapporto con la società" e senza risolvere "la carenza istituzionale" insita nel vecchio modello di gestione.In risposta al progetto della commissione Quartulli, il PCI presentò alla Camera una nuova proposta di legge il 20 marzo ‘73, i punti cardine erano quelli di sempre: creazione di un ente pubblico, distacco completo dall'esecutivo, l'attribuzione del potere direttivo alla commissione parlamentare e ad un comitato articolato per regioni attraverso cui realizzare un piano coerente di decentramento.

Anche le proposte di riforma delle regioni ebbero un discreto spazio all'interno del fitto dibattito di quegli anni. Benché probabilmente partissero da una posizione giuridica debole, le regioni avevano dalla loro l'intenzione, almeno apparente, di tutti i maggiori partiti di procedere ad un ampio decentramento delle strutture radiotelevisive. La più minuziosa e articolata fu la proposta avanzata dalla Lombardia, che prevedeva tanto la regionalizzazione di una parte dei programmi, quanto la partecipazione diretta delle regioni alle decisioni centrali. Il comitato direttivo del nuovo ente pubblico, a cui si sarebbe dovuto affidare la concessione in esclusiva nel servizio, doveva infatti essere nominato dal governo, 4 membri, dal Parlamento 6, dalle regioni 6, e dai dipendenti 3. Si stabiliva inoltre la creazione di appositi comitati regionali a cui demandandare l'elaborazione e la diffusione di programmi a carattere locale, che avrebbero dovuto coprire un terzo del totale della programmazione. Alle regioni si attribuiva anche la possibilità di realizzare trasmissioni via cavo e legiferare in questa materia.

Tanto le proposte della Regione Lombardia, quanto gli interventi al al convegno "regioni e riforma Rai TV" svoltosi a Napoli nell'ottobre ‘72, si ponevano nell'ottica di garantire alle regioni un ruolo nello svolgimento diretto nelle decisioni prese a livello centrale. In questo senso, e temendo una "ghettizzazione" televisiva, i rappresentanti regionali respinsero a Napoli l'ipotesi di una terza rete TV gestita direttamente dalle regioni o dai consorzi regionali.

Page 48: lapallacorda.files.wordpress.com  · Web view2021. 1. 16. · INTRODUZIONE. Nel 1994, Silvio Berlusconi, proprietario delle 3 più grandi emittenti televisive private, decide di

Contro la prospettiva delle 20 televisioni, ovvero "una moltiplicazione e frammentazione delle strutture" che "favorirebbe il trionfo del piatto localismo e non sarebbe gravemente a livello culturale e alla validità informativa dei programmi" il presidente della giunta Emiliano Romagnola Guido Fanti chiedeva che le regioni potessero concorrere alla stato del servizio "attraverso una loro corresponsabilizzazione nella direzione dell'unico ente radiotelevisivo e nell'elaborazione dei suoi indirizzi informativi e culturali". Da qui una ferma critica anche alla proposta di decentramento del documento Quartulli: "nutrito di una visione realistica e conservatrice, armonica con gli orientamenti intesi allo svuotamento dell'ordinamento regionale e alla sua riduzione al piano burocratico e tecnico amministrativo. Mentre ogni istanza di rinnovamento è negata, si tende a consolidare il predominio del potere governativo, fino a rivolgere accenti di durezza di disprezzo nei confronti delle proposte dibattute dalle forze politiche e culturali democratiche nel Paese sui temi essenziali della presenza regionale, della democrazia interna, di un rinnovamento organizzativo aperto alle istanze della società.”

La sfida delle TV locali e via cavo rendeva infatti dirimente anche la scelta tra monopolio pubblico e liberalizzazione, come si è visto, le posizioni favorevoli alla seconda, pur essendo minoritarie, cominciavano a riscuotere un certo credito nel mondo politico e giornalistico. Se per il PCI quest'ultimo restava il nodo cruciale, da risolversi mediante la piena "sovranità del parlamento" sulla Radiotelevisione, il dibattito sull'autonomia aveva fatto emergere numerose, e spesso ambigue, proposte; che potremmo definire "minimaliste”, della commissione Quartulli, che la risolveva cercando di riproporre nella gestione Rai il tradizionale equilibrio fra governo e Parlamento, a quella "estensiva" del partito repubblicano, che puntava invece ad allentare i vincoli tra l'azienda e il mondo politico nel suo complesso. Il PRI infatti, continuava a concepire la riforma come un progetto organico di razionalizzazione aziendale che, in nome dell'autonomia dei dipendenti e dei giornalisti, riducesse al minimo le ingerenze delle istituzioni politiche: “abbiamo da tempo proposto l'unificazione del ruolo di amministratore delegato e direttore generale, che non è soltanto funzionale ad ogni azienda moderna, ma che è uno dei modi per spezzare alla radice il meccanismo di lottizzazione fra democristiani e socialisti".

Un altro tema di grande rilevanza riguardava la natura giuridica dell'azienda e la sua organizzazione interna. L’opzione del mantenimento della concessione ad una società privata, dotata quindi di una maggiore autonomia imprenditoriale, era sostenuta soprattutto dalla DC, dai liberali e dei repubblicani convinti, soprattutto quest'ultimi, che una gestione privata garantisse un servizio migliore, più efficiente e aderente ai progressi della tecnologia, e soprattutto meno costoso per la collettività.

Di temi in discussione insomma, ve n'erano tanti e di proposte fin troppe. Quelle della commissione Quartulli, rimase tuttavia lettera morta, per la sopraggiunta caduta, nel luglio 1973, del governo Andreotti. La palla passava al prossimo esecutivo presieduto da Mariano Rumor.

Un compromesso storico: la riforma del 1975Anche il governo Rumor stabilì un decreto per prorogare la convenzione con la Rai: la nuova scadenza era fissata al 30 Aprile 1974. Di fronte alle vivaci proteste delle opposizioni, il Ministro delle Poste Togni assicurò che la proroga serviva solo a dare un brevissimo respiro

Page 49: lapallacorda.files.wordpress.com  · Web view2021. 1. 16. · INTRODUZIONE. Nel 1994, Silvio Berlusconi, proprietario delle 3 più grandi emittenti televisive private, decide di

alla redazione del progetto di riforma, o almeno al formarsi di un insieme coerente sufficiente dei suoi punti essenziali. Era chiaro che le trattative interne alla maggioranza erano più complicate del previsto. Anche la scadenza del 30 aprile passò con un nulla di fatto e il governo fu costretto a procrastinare la concessione per altri 7 mesi, autorizzando inoltre la RAI a trattenersi quasi tutto il corrispettivo del canone dell'abbonamento, invece di contro i due terzi, come indennizzo per gli adempimenti eccedenti rispetto agli obblighi previsti per convenzione del 1952.Proprio la sera del 30 aprile ‘74, in quello che è passato alla storia come "il patto della Camilluccia" dal nome della località di Roma dove si svolgevano gli incontri, i partiti della maggioranza raggiunsero finalmente un protocollo d'intesa sulla riforma. L'accordo, immediatamente trapelato sulla stampa, presentava alcuni elementi di novità. Ad esempio l'introduzione del principio della concorrenza fra le reti, mediante la creazione di direzioni e testate giornalistiche separate, ristrutturazione degli organismi direttivi che prevedeva, tra le altre cose, l'eliminazione della figura dell'amministratore delegato. Il punto più ostico delle trattative, era il primo, ovvero una concorrenza fra le reti fortemente voluta dai repubblicani e ostacolata dalla DC. L'intesa lasciava comunque aperte molte incognite e le polemiche cominciarono ancora prima che venisse varato il decreto legge. Mentre i socialisti difendevano un accordo che avrebbe portato la RAI a "riflettere, sia pur parzialmente, la dialettica culturale e sociale del paese" e avrebbe reso la sua articolazione interna "più complessa, meno monopolistica e centralizzata", liberali e comunisti lo interpretarono come l'ennesimo compromesso al ribasso funzionale, un inaccettabile logica della lottizzazione.

Le indiscrezioni, intanto, tracciavano un quadro abbastanza preciso delle distribuzioni dei vertici aziendali scaturito dalle trattative: "alla presidenza della Rai TV andrebbe un socialista, alla vicepresidenza un socialdemocratico e alla direzione generale un democristiano. Una rete radiofonica e la direzione di un telegiornale verrebbero diretti da un democristiano, per quanto riguarda le altre reti radiofoniche e l'altro telegiornale, la responsabilità andrebbero ripartite tra socialisti e repubblicani". Quello che per socialisti e repubblicani costituiva certamente un risultato positivo, perché metteva in crisi un sistema di rapporti in cui la DC dettava le condizioni dagli altri partiti, era effettivamente un compromesso che rischiava di produrre una super lottizzazione addirittura legalizzata. Il giornalista del “Corriere della Sera” Giovanni Russo commentava: "un giudizio però già si può e si deve dare di un aspetto della riforma che è quello più rilevante dal punto di vista dell'opinione pubblica e che è, in definitiva, il tema essenziale attorno cui ruota tutto il resto. Esso riguarda il modo in cui i partiti della maggioranza governativa si apprestano a spartirsi le due reti, i due telegiornali e i tre radio giornali che dovrebbero essere concorrenti proprio per ovviare a quella che è stata la pecca più grave della TV: Il conformismo e la mistificazione dell'informazione. Si tratta di una spartizione dell'informazione tra i partiti governativi, che invece di ovviare ai mali del passato li renderebbe ancora più odiosi. Un mezzo di informazione fondamentale potentissimo come la RAI TV non può essere lottizzato. Questa prospettiva, è un pericolo reale, mette in luce l'assurdità di concepire la li-bertà di informazione come una "spartizione" di verità e quindi una somma di verità parziali".

Nonostante le critiche sulla stampa e una stesura più difficoltosa del previsto, il decreto legge sulla Rai riuscì ad essere varato dal nuovo governo Moro, un bicolore DC PRI, entro la scadenza del 30 novembre ‘74. Esso confermava la riserva allo stato dei servizi di radio e telediffusione, delimitando la però secondo le disposizioni delle due sentenze della Corte Costituzionale e riconoscendo il “diritto di terzi di accedere al mezzo radiotelevisivo".

Page 50: lapallacorda.files.wordpress.com  · Web view2021. 1. 16. · INTRODUZIONE. Nel 1994, Silvio Berlusconi, proprietario delle 3 più grandi emittenti televisive private, decide di

L'indipendenza e l'obiettività della programmazione erano i principi fondamentali del Servizio Pubblico, la loro applicazione era affidata alla Commissione parlamentare di Vigilanza, che otteneva un penetrante controllo su tutta la complessa attività dell'azienda. Adesso si aspettava inoltre di stabilire le norme per l'accesso al mezzo, disciplinare le trasmissioni di informazione politica, fissare gli indirizzi generali della pubblicità, approvare i piani di massima della programmazione annuale ed eleggere 10 membri del Consiglio di amministrazione della concessionaria. Consiglio di amministrazione che sarebbe stato nominato in parte dell'assemblea dei soci, in parte dai consigli regionali e dalla Commissione di Vigilanza infine, sulla base degli accordi precedenti, il decreto affidava l'ideazione e la realizzazione dei programmi televisivi radiofonici, così pure i servizi giornalistici di ciascuna rete TV e radio erano assegnati ad altrettanti direttori responsabili di fronte al direttore generale.

Il democristiano Bubbico rispose alle critiche sulla lottizzazione invocando il principio del pluralismo: "evocato il cosiddetto "accordo della Camilluccia", si è fatta facile ironia su un telegiornale guelfo ed uno ghibellino. Si è infine detto che è una forzatura specificare in una legge l’organizzazione interna di un ente. Non voglio entrare nel merito delle polemiche, alcune delle quali forse il futuro rivelerà se fossero fondate o del tutto artificiose. E’ importante invece chiedersi se vi fossero altri sistemi per creare un quadro nuovo, diverso ma ugualmente vivo, concorrenziale all'interno, simulatore di responsabilità professionali e attribuendo a ciascuno il suo, senza permanenti equivoci, come in fondo oggi è possibile. Se ci fossero cioè alternative vere per sperimentare un tipo nuovo di televisione, un mondo nuovo, più problematico è responsabile, firmando e assumendo ciascun incarico preciso determinato. Non c'è sembrato ci fossero altre vie".

Per il partito repubblicano la riforma rappresentava un valido tentativo di aprire una crepa nei meccanismi patologici del rapporto tra i partiti e l'azienda radiotelevisiva. La centralità del Parlamento, ma soprattutto il coinvolgimento delle regioni e il diritto d'accesso riconosciuto alle diverse forze sociali e culturali del Paese stavano a testimoniare la “consapevolezza che il dibattito culturale e politico in Italia, non era limitato ne limitabile ai partiti; che i partiti non possono dire di essere l'unico centro promotore di iniziativa e di promozione culturale democratica".

Il Movimento Sociale Italiano fece un tenace ostruzionismo, presentò infatti diverse migliaia di emendamenti, e produsse una situazione di stallo per i primi 2 mesi del 1975. Vista l'impossibilità di convertire in legge il decreto entro la scadenza di fine gennaio, il governo si vide costretto a ritirarlo e a sostituirlo con un'altro, sostanzialmente identico. Questa mossa produsse anche all'interno della maggioranza tensioni altissime; il ricorso ad un nuovo decreto e l'incapacità "di contrastare in modo efficace l'ostruzionismo dell'estrema destra" rischiavano di “dare coraggio a coloro che sostengono che il bicolore DC PRI è un governo debole e che bisogna arrivare alle elezioni anticipate". D’altro canto Moro, benché personalmente contrario, venne condotto dalle pressioni di PSI e PSDI a chiedere la fiducia proprio sul decreto RAI. Ottenuta la fiducia il 7 febbraio, con voti favorevoli dei partiti di centro-sinistra e quelli contrari di Partito Comunista, del partito liberale, Movimento Sociale Italiano e indipendenti di sinistra, l'esecutivo si dispose comunque a ritirare anche il secondo decreto per presentare una normale proposta di legge sulla quale fu messo "l'esame con procedura urgentissima".

Page 51: lapallacorda.files.wordpress.com  · Web view2021. 1. 16. · INTRODUZIONE. Nel 1994, Silvio Berlusconi, proprietario delle 3 più grandi emittenti televisive private, decide di

Il capogruppo comunista alla camera Alessandro Natta, pur denunciando i contratti, le difficoltà, i sospetti reciproci, all'interno della maggioranza e senza nascondere i limiti e le insufficienze del provvedimento, disse che il suo partito era favorevole all'approvazione in tempi rapidi della riforma e sollecitò la maggioranza a mantenere con fermezza necessaria l'impegno assunto per portare ad una positiva conclusione questa battaglia parlamentare. Il PCI, deciso a verificare proprio sulla questione Rai l'impegno e il credito del governo, scelse quindi una linea possibilista, limitandosi a presentare alcuni emendamenti in relazione alla pubblicità e alla regolamentazione della TV via cavo. Sempre il Partito Comunista, prendeva le distanze tanto dall'ipotesi che sulla Rai se stesse realizzando il compromesso storico di Berlinguer, quanto dall'accusa di ambire alla spartizione di posizioni clientelistiche.

La lunga e tribolata approvazione della legge sulla Rai conferma l'esistenza di un fronte politico, che oltre al Partito Comunista comprendeva anche socialisti, repubblicani e quella parte di DC favorevole alla strategia dell'attenzione di Moro, disposti superare, almeno parzialmente, la paralisi indotta dalla vecchia conventio ad excludendum. Proprio tale prospettiva politica, più ancora dei punti specifici della legge, fu al centro degli innumerevoli interventi dei deputati del Movimento Sociale Italiano. "Questo decreto-legge, disse Giorgio Almirante, è l'atto formale attraverso il quale il Partito Comunista entra nel regime, se ne sta al vertice di esso avendo come giaciglio le libertà degli italiani malamente vendute da una maggioranza che si dichiara Democratica e si permette di discriminare chi combatte per la Libertà.” Il gruppo missino attaccava sia il governo e alla natura compromissoria del provvedimento, sia il partito comunista perché aspettava una "convenzione lottizzata" camuffata da svolta democratica, rinunciando in tal modo a fare opposizione solo per consolidare le sue posizioni all'interno della Rai. Sempre il Movimento Sociale: "si è così avuto questo parto, che è stato però preceduto da un patto: noi questo patto lo facciamo, a condizione però che la torta venga così divisa. Vi siete cioè spartiti posti, e avete stabilito che alla Democrazia Cristiana spettino la presidenza della Commissione parlamentare di Vigilanza, la nomina del direttore generale della società, la direzione di un telegiornale e quella di un giornale radio. Al partito socialista italiano spettano la nomina del presidente del consiglio di amministrazione delle società, la direzione del secondo telegiornale e la direzione di un giornale radio. Al partito socialdemocratico toccheranno il vicepresidente della società e la direzione di un giornale radio. Al partito repubblicano la Presidenza del comitato nazionale e la direzione del secondo telegiornale."

Sulla stampa in molti sostenevano che la legge di riforma della Radiotelevisione doveva servire a verificare la tenuta del centrosinistra, ma pure lo spazio di un possibile dialogo con il Partito Comunista, e l'esito della votazione sembrò confermare entrambe queste ipotesi. Alla Camera, nella seduta del 26 marzo ‘75, la proposta di legge vide infatti i voti favorevoli dei quattro partiti di centro-sinistra, i voti contrari del partito liberale e del Movimento Sociale Italiano e l’astensione dei deputati comunisti. Dopo l'approvazione del Senato, le nuove norme in materia di diffusione radiotelevisiva entrarono in vigore il 14 aprile 1975, legge numero 103.

In merito alla Rai la novità più rilevante dal punto di vista politico era il passaggio del controllo sulla concessionaria, una società per azioni a totale partecipazione pubblica, dal governo alla Commissione parlamentare per l'indirizzo generale e la vigilanza sui servizi radiotelevisivi. La Commissione infatti, che rispetto a quella istituita nel ‘47 passava da 30 a 40 membri designati in modo paritetico dei Presidenti dei due rami del Parlamento, otteneva

Page 52: lapallacorda.files.wordpress.com  · Web view2021. 1. 16. · INTRODUZIONE. Nel 1994, Silvio Berlusconi, proprietario delle 3 più grandi emittenti televisive private, decide di

di designare 10 di 16 membri del Consiglio di amministrazione dell'azienda e si vedeva riconosciuti i nuovi e più ampi poteri, fai quali la disciplina diretta delle rubriche di Tribuna, ed infine il compito di analizzare il contenuto dei programmi è l'indice di gradimento del pubblico.

Ma il punto più caratterizzante nell'ambito del “pluralismo orizzontale" era il principio dell'autonomia delle reti e delle testate giornalistiche, fissato dall'articolo 13: "l'ideazione e la realizzazione della programmazione televisiva e radiofonica vengono organizzate dalle direzioni di rete. Ciascuna direzione di rete ha una sua distinta assegnazione di personale organizzativo e amministrativo. I servizi giornalistici quotidiani e periodici sono forniti in televisione da due telegiornali e di Radio da tre giornali radio, il direttore di ciascuno dei quali è responsabile di fronte al direttore generale particolarmente della impostazione informative politica, della realizzazione e messa in onda delle trasmissioni".

Attribuendo i compiti di ideazione e la realizzazione dei programmi ai direttori di rete, la legge cercava di spezzare sia il monoblocco dell'offerta, sia il centralismo decisionale nelle mani del direttore generale. Infine, accogliendo le disposizioni della Corte Costituzionale, la legge del ‘75 consentiva la presenza sul territorio nazionale di ripetitori di emittenti straniere, perché non costituite al solo scopo di trasmettere in Italia. Liberalizzava in ambito locale le TV via cavo monocanale e ammetteva la pubblicità sia radiofonica che televisiva nel tetto massimo al 5% delle ore complessive di trasmissione.Restavano tuttavia due grossi limiti che nel medio periodo avrebbero penalizzato l'azienda di Stato rispetto alle emittenti private. In primo luogo una forte continuità col passato per quel che riguardava i meccanismi interni di gestione e cooptazione del personale. In secondo luogo i principi ispiratori della riforma apparivano sfasati, fuori luogo in tempo massimo, rispetto alle tendenze generali dell'Economia e le trasformazioni in atto nell'industria culturale.

Eletto a metà maggio, il consiglio di amministrazione comprendeva quindi sette membri di aria democristiana, tre socialisti, due socialdemocratici, due consiglieri di area comunista, un liberale, e un repubblicano. Il 23 maggio ‘75 il Consiglio di amministrazione nominò il democristiano Michele Principe, proveniente dal ministero delle Poste e delle telecomunicazioni, alla carica di direttore generale, che avrebbe mantenuto fino al gennaio ‘77. Il socialista Finocchiaro alla presidenza e il socialdemocratico Orsello alla vicepresidenza.La legge del ‘75 produsse una “democratizzazione" del settore radiotelevisivo per il fatto che allargò la presenza dei socialisti, spezzando il monopolio democristiano. Senza modificare più di tanto i vincoli fra l’azienda e i partiti, la riforma ebbe semmai l'effetto di ampliare e perfezionare il sistema, creando un'ampia gerarchia piramidale che tuttavia non era troppo diversa da quella istituita a suo tempo da Bernabei. Da un lato, essa non fu capace di impedire la privatizzazione selvaggia dell’etere che nel giro di pochi anni, anche grazie alla nuova sentenza costituzionale del ‘76, avrebbe moltiplicato il numero delle radio e delle televisioni commerciali. Dall'altro lato, la legge non riuscì ad organizzare in senso efficientistico la struttura interna della RAI, che rimase quell'enorme dispendioso colosso creato da Bernabei e sopravvissuto alle sue dimissioni.

Il nuovo disegno organizzativo dell'azienda non fu dunque supportato da un vero piano di razionalizzazione e la separazione tra momento ideativo, affidato alle reti, e quello

Page 53: lapallacorda.files.wordpress.com  · Web view2021. 1. 16. · INTRODUZIONE. Nel 1994, Silvio Berlusconi, proprietario delle 3 più grandi emittenti televisive private, decide di

realizzativo, affidato ai centri di produzione, comportò un aumento delle spese e degli sprechi. Un altro elemento di distorsione gestionale era dato dalla tendenza a concentrare, per ragioni prevalentemente economiche, la maggior parte delle attività a Roma, con la conseguenza di lasciare improduttivi o sottoutilizzati i centri periferici.

Nel frattempo però, la spinta all'innovazione tecnologica, il rinnovamento produttivo, l'efficienza aziendale nascevano fuori dal servizio radiotelevisivo pubblico.

La “ riforma tradita ” dal “ bilancino del farmacista ” Come era prevedibile, il varo della riforma non spense le polemiche e la designazione dei nuovi organi direttivi della RAI costituì l’ennesimo terreno di scontro. La situazione era complicata dal fatto che grossi cambiamenti erano in corso anche all’interno della DC, dove il passaggio della segreteria di partito da Fanfani a Benigno Zaccagnini, candidato da Moro e già presidente del Consiglio nazionale di partito, ebbe l’effetto di indebolire la corrente fanfaniana, che rischiava così di vedere compromesso il controllo esercitato per circa vent’anni sull’azienda televisiva.

La Commissione parlamentare di Vigilanza si era riunita una sola volta, il 4 giugno, il che rendeva “imbarazzante” la posizione del consiglio di amministrazione, costretto ad “immaginare” le direttive da applicare, e soprattutto faceva temere che gradualmente il potere decisionale tornasse nelle mani del direttore generale, allora Michele Principe. Quest’ultimo ed i dirigenti legati a Fanfani dal canto loro, si sentivano minacciati dalla decisione del cda di intraprendere una politica di “mobilitazione e risparmio”, eliminando un un centinaio di lavoratori esterni e bloccando assunzioni e promozioni. Lanciarono quindi provocatoriamente l'allarme sul fatto che la RAI non avesse più programmi da mandare in onda e presentavano al contempo una programmazione per tutto il triennio successivo. Secondo il presidente Finocchiaro questa era una manovra orchestrata dai vecchi dirigenti per “mettere il Consiglio di amministrazione con le spalle al muro” facendogli “approvare un blocco di programmi che avrebbero impugnato la RAI fino al 1978”.

A metà febbraio poi i fanfaniani tornarono all’attacco con una bozza di organigramma presentata da Principe che non teneva conto degli accordi dell’anno precedente e che fu subito oggetto di grandi polemiche sia all’interno del cda, sia da parte delle associazioni giornalistiche. Accantonato il documento Principe, l’iter per le nomine dei nuovi dirigenti rimase piuttosto tribolato; solo il 2 dicembre, dopo che anche le federazioni dei giornalisti erano scese in campo con uno sciopero generale contro il grave ritardo nell’avvio della riforma, il cda riuscì ad approvare il nuovo organico. Non parteciparono al voto PCI, PRI, e PLI in segno di protesta contro la “lottizzazione selvaggia”. Dopo sette mesi di dure trattative dunque, un cda ridotto di 4 membri su 16 arrivava a “partorire il topolino delle nomine, con un uso metodico del bilancino del farmacista”.

La prima rete toccò alla DC che designò Mimmo Scarano alla direzione ed Emilio Rossi alla guida del TG1; sempre alla DC fu assegnata la direzione di Radio2 con Vittorio Citterich e quella del GR2 con Gustavo Selva. Per i socialisti entrarono alla guida Sergio Zavoli alla guida del GR1, Massimo Fichera alla direzione della seconda rete, Enzo Forcella a Radio3 e Paolo Grassi nel ruolo di vicedirettore generale. I socialdemocratici segnalarono Gianni

Page 54: lapallacorda.files.wordpress.com  · Web view2021. 1. 16. · INTRODUZIONE. Nel 1994, Silvio Berlusconi, proprietario delle 3 più grandi emittenti televisive private, decide di

Baldari per la direzione di Radio1 e Mario Pinzauti per il GR3. La direzione del TG2 andò al socialista Andrea Barbato.

A confermare le indiscrezioni emerse nella primavera dell’anno precedente, quando per la DC aveva contribuito lo stesso Fanfani a condurre le trattative, non era solo il profilo complessivo dell’organigramma dei 21 nuovi dirigenti, ma anche il fatto che esso sembrava rilanciare un centro-sinistra “molto fanfaniano”. Se il settimanale “Tempo” ne faceva una questione di “abitudine ad agire in termini di sottogoverno dove Fanfani è molto più abile di Zaccagnini”, la realtà era che lo schema di spartizione era scaturito da accordi precedenti al passaggio della segreteria da DC a Zaccagnini. Esso quindi, da un lato, ripristinava parzialmente i vecchi equilibri RAI a vantaggio dei fanfaniani, ma dall’altro rischiava di compromettere la stessa maggioranza governativa visto che il PRI era “rimasto tagliato fuori da un accorso sul quale doveva realizzarsi la più ampia convergenza possibile”. I repubblicani infatti, delusi per il “pasticciaccio” combinato sottobanco dalla DC con la complicità di socialisti e socialdemocratici, non solo chiesero di sottoporre la delibera sulle nomine alla Commissione parlamentare di Vigilanza, ma minacciarono anche un procedimento giudiziario nei confronti del socialista Fichera; il neo direttore della seconda rete TV che aveva stipulato un contratto di collaborazione con la società editoriale della RAI (la ERI) per il biennio ‘69-’70, mentre faceva parte del cda dell’azienda radiotelevisiva.

Il malcontento riguardò un fronte assai vasto che comprendeva gli altri partiti esclusi dalla “rosa dei 21”, ossia PLI e PCI, ma anche il Partito radicale, il cui segretario Spadaccia disse che la nuova RAI faceva “rimpiangere quella di Bernabei”.

Per tutta l’estate e l’autunno del ‘75, quando ancora il PCI sperava che dalla legge di riforma RAI sarebbe uscito sconfitto il centrosinistra di Fanfani e vincente la “strategia dell’attenzione” di Moro, la stampa di partito si era limitata ad attaccare “l'arroganza di potere fanfaniano” e tutte le manovre che avrebbero fatto a fettine la riforma, trasformandola in una controriforma.

Se dunque, il difficoltoso iter di ratifica della legge aveva costituito un terreno di prova della successiva “solidarietà nazionale”, le nomine di dicembre non solo lasciarono il PCI ai margini della lottizzazione, ma parvero confermare la tenuta, seppur fragile, della maggioranza di centro-sinistra e la capacità dei fanfaniani di salvaguardare, almeno in parte, i vecchi poteri all’interno della RAI. Agli occhi del PCI pertanto, la riforma era stata “tradita” al momento della scelta del nuovo organigramma, ma di suoi contenuti dovevano restare un punto fermo per la difesa del pluralismo gestionale e informativo e per la tutela del monopolio pubblico.

Tale battaglia, puntando essenzialmente alla difesa del monopolio pubblico e all’attuazione della legge 103, impedì tuttavia al partito di misurarsi col nuovo “contesto inedito” delle radio libere, molte delle quali caratterizzate da un impegno militante a sinistra. Benché quindi si trattasse di un’iniziativa ricca di “fermenti anti capitalistici ancora più che commerciali”, il PCI finì per subirla passivamente, col risultato non solo di lasciarsi sfuggire la proficua sinergia con le nuove radio private, ma anche di trovarsi presto nella “scomodissima posizione” del più convinto patrocinatore della terza rete TV, proprio mentre questa smarriva le ragioni della sua nascita e si trovava a ledere importanti interessi locali maturati nel frattempo.

Page 55: lapallacorda.files.wordpress.com  · Web view2021. 1. 16. · INTRODUZIONE. Nel 1994, Silvio Berlusconi, proprietario delle 3 più grandi emittenti televisive private, decide di

Per quanto riguarda la programmazione, rispetto alla quale le posizioni del PCI restavano oltremodo critiche e severe, il nuovo palinsesto “riformato” si segnalava per una forte carica innovativa e spesso persino spregiudicata, sia nei programmi d’intrattenimento, sia in quelli di informazione. Parzialmente marginalizzati i programmi culturali, segno che stava ormai tramontando il vecchio progetto pedagogico dell’epoca di Bernabei, fu nel settore dell’informazione che si registrarono le novità più interessanti, specie nel TG2 di Barbato: linguaggio più abile e sciolto, ritmo più veloce, ricerca dello scoop e della spettacolarizzazione delle notizie, rottura dei confini tradizionali fra generi e stili. Il secondo canale televisivo si pose all’avanguardia anche nel genere degli spettacoli, come testimoniò il celebre programma di Renzo Arbore L’Altra Domenica, andato in onda tra il ‘76 ed il ‘79; una trasmissione che, miscelando sapientemente i contributi dei media più diversi, trasformava l’intrattenimento in spettacoli e aboliva le vecchie distinzioni tra generi. Con l’avvio nel 1976 di Domenica in… sulla prima rete televisiva si era davvero di fronte ad una nuova epoca televisiva: la televisione, aperta all’interazione col pubblico, capace di integrare e sovrapporre contenuti, toni e linguaggi differenti, diventava ora spazio di routine giornaliero; sempre meno maestra e sempre più intrattenimento lucido per tutti.

Ma se nel palinsesto, specie nel settore dell’informazione, la riforma contribuì a produrre cambiamenti significativi, dando addirittura la “suprema legittimazione politica” alla concorrenza fra le testate, nel complesso le continuità col passato furono maggiori e più incisive delle rotture. Ad esempio la legge del 1975 non fu in grado di garantire la presenza di circuiti informativi e forme di gestione davvero autonomi rispetto al compromesso da cui era scaturita, lasciando in secondo piano (o del tutto emarginati) i partiti più piccoli, i soggetti sociali, le professioni, i singoli cittadini. Un altro suo limite, sottolineato con forza da Chiarenza, fu quello di non aver affrontato e risolto l’annoso problema della tutela dell’autonomia dei giornalisti perché, proprio mentre cresceva la loro professionalità e si definiva la deontologia del settore informativo, il sistema era tale da mettere “l’ufficialità dell’informazione al servizio dei partiti, possibilmente in proporzione al loro peso elettorale”.

Da sempre strette l’una all’altra in un gioco di specchi dove “tutti i soggetti vanno al di là dei ruoli prestabiliti e svolgono funzioni improprie”, televisione e politica avrebbero dato, negli anni a venire, nuove e sorprendenti prove della forza del loro sodalizio.

CONCLUSIONEA proposito del progetto di legge sulla RAI del novembre ‘74, Giovanni Russo scrisse sul “Corriere della Sera” che “la riforma della radiotelevisione è uno specchio fedele del mondo con cui si è concepita la politica del nostro Paese”. Un commento che si potrebbe in realtà estendere all’intera storia del servizio radiotelevisivo pubblico in Italia: storia condizionata dalla “dipendenza reciproca” tra l’apparato televisivo e quello politico-istituzionale e viziata dal contrasto tra il forte potere esercitato dai partiti e la presenza di regole, in questo sentore, deboli o meramente applicate. Tale squilibrio ha prodotto una sorta di inversione rispetto al canone fondamentale dei rapporti tra politica e “quarto potere” nei sistemi democratici; canone che prevede la separazione di questi due ambiti e assegna ai mass media il compito di controllare e vigilare il processo politico, nonché i soggetti ed i luoghi destinati alla decisione politica. In Italia al contrario, la radiotelevisione si è sempre trovata nella condizione di essere amministrata dai partiti e dai loro leader.

Page 56: lapallacorda.files.wordpress.com  · Web view2021. 1. 16. · INTRODUZIONE. Nel 1994, Silvio Berlusconi, proprietario delle 3 più grandi emittenti televisive private, decide di

Se dunque, l’ingresso di Silvio Berlusconi nell’arena politica, a metà degli anni Novanta (nel ‘94), ha prodotto un’ulteriore distorsione del rapporto TV-politica, dovuta al conflitto d’interessi tra le sue funzioni pubbliche e politiche e gli affari dell’azienda di famiglia, certi aspetti di questa distorsione affondano le radici in un passato più lontano. Che fosse la RAI “feudo dell’esecutivo” o sia oggi il conflitto di interessi di Berlusconi, la commistione tra politica e TV è sempre stata oggetto di grandi polemiche, battaglie e interrogativi riguardanti, più in generale, lo stato di salute della nostra democrazia.

A partire poi dalla fine degli anni ‘70 con la liberalizzazione delle emittenti, l’assetto monopolistico “è stato superato dai fatti prima ancora che dagli interventi delle istituzioni” e il sistema radiotelevisivo si è progressivamente conformato agli indirizzi del mercato e agli interessi dei vari operatori. Il paradosso degli ultimi anni è semmai che, anche (ma non solo) per la discesa in campo di Berlusconi, la TV è divenuta il palcoscenico per eccellenza della vita politica, eclissando di fatto i luoghi più istituzionali e tradizionali del confronto e della decisione; il Parlamento quindi, che non ha mai inciso in profondità nel determinare le regole del sistema radiotelevisivo, risulta ulteriormente depotenziato nel contesto dell’attuale “democrazia mediatica”.

Tornando al periodo di esamina, va detto che l’inadeguatezza degli interventi parlamentari in materia di radiotelevisione, tante volte lamentata dai partiti d’opposizione, fotografava in realtà un’anomalia più generale del quadro politico-istituzionale dell’Italia degli anni ‘50-’70. Il consolidato monopolio governativo sulla RAI e la riluttanza della DC a modificarne la struttura erano infatti riconducibili allo strapotere dei partiti di maggioranza, i quali tendevano a trasformare il loro diritto e dovere di governare in una massiccia ed inamovibile dominazione. Un fenomeno questo, dovuto alla frattura che si era aperta nel 1947 fra l ’area della rappresentanza parlamentare, includente anche il PCI, e l’area della legittimità a governare, che invece lo escludeva. Il consolidamento della democrazia italiana avvenne dunque, in forma incompleta e mutilata: all’impossibilità dell’alternanza al governo corrispondeva infatti la solo parziale integrazione del PCI nel nuovo Stato, mentre a fronte di un quadro politico molto articolato e tendenzialmente polarizzato le dinamiche del conflitto tendevano quasi sempre alla delegittimazione dell’avversario.

Nonostante quindi il pluralismo delle aree culturali e politico-ideologiche che componevano la democrazia italiana, il rapporto tra governanti e opposizione assunse il carattere della “contrapposizione tra Stato e anti-Stato”; e se le forze dell’opposizione tendevano a considerare lo Stato “proprietà” della classe dirigente, la DC a sua volta, rivendicava per sé la capacità politica di “garantire lo Stato” ed il diritto-dovere di esercitarla fino in fondo. A questo si aggiungeva che il primato del Parlamento, visto come luogo storico della libera discussione ed espressione massima della sovranità popolare e fissato come tale dalla Carta costituzionale, venne di fatto sostituito, nella prassi politica ordinaria, dal primato dei partiti. Se infatti il dibattito pubblico a proposito della RAI rimandava con forza l’”autorappresentazione” di un sistema incentrato sul Parlamento, la sola istituzione che si riteneva in grado di garantire il pluralismo degli apparati informativi, tutta la storia della televisione è stata caratterizzata proprio dall’immobilismo del Parlamento e della tendenza del legislatore a riprodurre, come nel caso della riforma del ‘75, decisioni contrattate dai

Page 57: lapallacorda.files.wordpress.com  · Web view2021. 1. 16. · INTRODUZIONE. Nel 1994, Silvio Berlusconi, proprietario delle 3 più grandi emittenti televisive private, decide di

partiti della maggioranza e logiche spartitorie che, più o meno, si erano già prodotte nella prassi. A determinare il lungo ancien régime della radiotelevisione italiana, rappresentato dal monopolio statale e della RAI “feudo dell’esecutivo”, contribuirono anche altri due fattori. In primo luogo, la continuità normativa e gestionale con l’amministrazione fascista, che assicurò al governo una preminenza pressoché assoluta nel controllo sull’azienda concessionaria; in secondo luogo, la straordinaria capacità egemonica della DC. Un partito che ambiva ad offrire “pane e libertà” a tutti i cittadini, rispettando la tradizione cristiana, ma senza “teocratizzare la politica”, e che seppe cogliere con grande tempismo le potenzialità dei nuovi media non solo per la propaganda diretta, ma anche per la costruzione di una cultura nazionale condivisa. Per Fanfani del resto, la DC aveva una “visione integrale del mondo e delle aspirazioni dei bisogni umani” e furono proprio questa versione integrale dei problemi della società e la corrispondente “tensione ideale a difesa dei deboli e per la promozione dei diseredati” a guidare Bernabei nella sua opera di educazione/acculturazione attraverso la RAI TV. D’altronde, persino la tanto attesa riforma del ‘75 può essere interpretata nell’ottica della celebre frase di Tancredi del Gattopardo: “se vogliamo che tutto rimanga com’è, bisogna che tutto cambi”. Dietro la verniciatura del pluralismo e della “parlamentarizzazione” del controllo sulla RAI infatti, la legge non produsse altro che una riedizione della vecchia lottizzazione in veste aggiornata, come dimostrarono le convulse vicende che alla fine del ‘75, accompagnarono la scelta dei nuovi vertici aziendali.

E’ certamente vero che la riforma rappresentò una sorta di prova generale del “compromesso storico” perché, mentre in ambito governativo non si arrivò mai al superamento definitivo della conventio ad excludendum nei confronti del PCI, nemmeno nei frangenti più drammatici della minaccia terroristica, in RAI il compromesso coi comunisti avviato negli anni ‘70 avrebbe retto anche dinanzi al mutato quadro politico del decennio successivo. A bilanciare tale parziale apertura e novità restavano non pochi elementi di continuità col passato: i vincoli diretti e sempre molto stretti tra la concessionaria e i partiti, l’idea di un sistema radiotelevisivo pubblico al servizio della contesa politica e delle sue esigenze di spartizione/contrattazione e soprattutto una concezione miope e limitata del pluralismo. Che cosa sia il pluralismo all’interno di un sistema informativo non è questione facile da definire e tanto meno da fissare giuridicamente; quello che si realizzò in RAI tra gli anni ‘60 e ‘80, perfezionandosi sempre di più, fu comunque un “pluralismo lottizzato”, ovvero una sorta di “pluralismo sociale” dato dalla giustapposizione e dalla sommatoria dei vari gruppi politici e non, invece, un autentico “pluralismo intellettuale” frutto della sinergia e della mescolanza fra le diverse voci e tendenze culturali.

La RAI dopo il ‘75 divenne effettivamente un’azienda più pluralista, passando da una monocultura ad un concerto di voci, ma un così fatto tipo di pluralismo, più quantitativo che qualitativo, più livellatore che espressione delle differenze, più centralizzatore che policentrico, portava con sé anche il rischio di impoverire la funzione fondamentale della radiotelevisione di Stato: quel suo essere un servizio pubblico alla collettività col compito di informare, educare, intrattenere. Un rischio che Giorgio Bogi colse lucidamente durante il dibattito alla Camera sulla legge del ‘75, anche se in quella fase era ancora convinto che la riforma sarebbe stata un valido baluardo contro la lottizzazione: “La lottizzazione è senz’altro spartizione, ma sostanzialmente è eliminazione del ruolo tipico del servizio pubblico. Nel

Page 58: lapallacorda.files.wordpress.com  · Web view2021. 1. 16. · INTRODUZIONE. Nel 1994, Silvio Berlusconi, proprietario delle 3 più grandi emittenti televisive private, decide di

momento in cui al servizio pubblico del quale parliamo, quello radiotelevisivo, assegniamo teoricamente il ruolo di mediazione tra la classe politica e la società, e le forze politiche se lo spartiscono, possedendolo, in quel momento esse hanno distrutto il ruolo del servizio pubblico, e non c’è più mediazione che la TV o la radio possano fare tra classe politica ed il Paese”. Spesso giustificato, se non addirittura legittimato, dalla necessità di dare voce a tutte le numerose componenti politico-ideologiche del Paese, il pluralismo nella veste della lottizzazione produsse sulla RAI nel lungo periodo, gli effetti temuti da Bogi, in quanto l’azienda, a causa della necessità di reagire alla concorrenza delle TV commerciali, perse a poco a poco il suo storico profilo educativo, nobile e paternalistico di un tempo. Smise cioè, di essere “mamma RAI” dei tempi d’oro di Bernabei che, pur con tutti i suoi limiti e le sue censure, aveva comunque funzionato da “agorà socializzante nei momenti più emozionanti della vita nazionale”.

RAI, ovvero “Rapida Assegnazione Incarichi”: così la definì ironicamente Enzo Biagi nel ‘75 per sottolineare che, mentre i partiti costituiscono la cinghia di trasmissione tra gente e potere, nell’azienda televisiva si confondeva troppo spesso “quella utilissima striscia di pelle con l’intera macchina”. Rispetto al passato quindi, agli anni del “feudo governativo”, non solo non furono recisi i vincoli di dipendenza con i partiti, ma venne a poco a poco meno quello “spirito di servizio” che aveva invece animato, all’interno di un progetto più ampio e ambizioso della classe dirigente democristiana, la TV di Bernabei.

Divisa e potenzialmente ancora divisibile, dotata di un pluralismo interno molto accentuato, ma di fatto autoreferenziale, la RAI del dopo riforma continuò ad essere priva di una governance autonoma rispetto alla copertura dei partiti e si trovò ben presto costretta a rincorrere l’offerta delle TV commerciali, nonché a subire la massiccia penetrazione dei prodotti televisivi americani, in particolare fiction e telefilm. La radiotelevisione pubblica, partita con ambizioni pedagogiche, alla fine degli anni ‘70 si accorse di essere un formidabile strumento di intrattenimento. Ma va detto a questo proposito che un’analoga evoluzione la conobbero in quegli stessi anni anche i partiti. Partiti che passarono gradualmente dall’ideale pedagogico di educare i cittadini e guidarli verso la salvezza, alla missione di offrire loro pa-nem et circenses, ovvero benessere, intrattenimento e spettacolo.

Non fu quindi solo la TV a trasformarsi nel corso degli anni ‘70, ma anche i partiti politici e i due processi andarono sostanzialmente in parallelo. I partiti capirono che il solo “essere in TV” forniva solo una base solida di legittimazione e di potenziale consenso. Una volta superata la difficile fase della ricostruzione, garantiti alla maggior parte dei cittadini un discreto livello d’istruzione ed una certa quantità di benessere, raggiunto un soddisfacente grado di pace sociale, si ridusse a poco a poco anche il ruolo salvifico dei partiti, quello legato esclusivamente alla dimensione etico-religiosa dell’agire pubblico. Al suo posto prese forma una politica sempre più fatta di spettacolo, immagini, suoni, personalizzazione della leadership, semplificazione del linguaggio; una politica più attenta alla comunicazione che all’impegno militante, sempre meno “luogo di gestione delle preoccupazioni dell’uomo” e sempre più ”palcoscenico su cui gli attori si sfidano a colpi di arguzie e battute”. Tale processo, arrivato a coronamento nella “democrazia mediatica” dell’ultimo quindicennio, passando attraverso i rampanti anni ‘80 di Craxi, non è stato tuttavia solo l’esito, in qualche modo subito dai partiti, della rivoluzione prodotta dalla TV e dai nuovi

Page 59: lapallacorda.files.wordpress.com  · Web view2021. 1. 16. · INTRODUZIONE. Nel 1994, Silvio Berlusconi, proprietario delle 3 più grandi emittenti televisive private, decide di

media elettronici. Fu lo stesso sistema dei partiti a conoscere, in tutta l’Europa occidentale, una trasformazione nel corso del secondo dopoguerra: trasformazione che, da garanti e motori della democrazia rappresentativa, li portò gradualmente a diventare i mediatori della partecipazione dei cittadini alla nuova affluent society. L’intensa urbanizzazione, la forte crescita economica, lo sviluppo del consumismo di massa, l’aumento del livello di alfabetizzazione finirono infatti per togliere valore e significato alla “missione salvifica”, all’impegno etico-didascalico di cui i partiti si erano auto investiti al momento della rifondazione della democrazia postbellica.

Se dunque, gli anni ‘70 rappresentarono uno spartiacque cruciale nella storia del Paese, tanto nell’ambito del sistema politico-partitico, quanto all’interno dell’industria culturale e del settore radiotelevisivo, quali erano stati il ruolo e le funzioni della “TV pedagogica” nei vent’anni precedenti? Quel modello infatti, paternalisticamente indirizzato al “progresso civile della nostra società verso la meta del bene comune”, non poteva più reggere nel contesto di un Paese ormai industrializzato, scolarizzato, sempre più de-ideologizzato e soprattutto non poteva reggere dinanzi alla sfida seducente delle TV commerciali. Ma nell'Italia degli anni ‘50 e ‘60 esso aveva avuto una sua ragion d’essere, di ordine sia politico che storico, e aveva cercato di assolvere a quel compito di servizio pubblico ai cittadini che Bernabei sintetizzava così: “fare delle buone trasmissioni. Trasmissioni gradite ad un pubblico vastissimo di persone colte e incolte, ricche e povere che interpretassrro i loro bisogni, le loro aspirazioni, le loro aspettative”. E non solo quelle trasmissioni incontrarono uno straordinario successo presso gli spettatori, ma la TV dei primi anni ‘60 costituì “il più formidabile progetto culturale elaborato dal pensiero cattolico in Italia nel campo della comunicazione”; un progetto culturale in cui l’idea di servizio pubblico era presente molto di più di quanto lo sarebbe stata, anche per ragioni esterne all’azienda, nella RAI lottizzata del dopo riforma. Il modello di TV pedagogica plasmato dalla DC corrispondeva infatti, da una parte, alla cultura politica propria soprattutto della sinistra democristiana e dall’altra, era in sintonia con una tradizione storica di lunga data che aveva sempre visto le classi dirigenti italiane nel ruolo di “educatori” di una società ritenuta ancora immatura ed arretrata. Riguardo al primo punto, la DC, e in particolare il gruppo fanfaniano, non solo si avvide in anticipo rispetto agli altri soggetti politici, del contributo fondamentale che radio e TV potevano dare processo di socializzazione della cultura e di ricostituzione di una rinnovata cittadinanza democratica; ma colse anche la necessità di professionalizzare gli artefici dell'informazione e, in generale, tutti gli operatori dei nuovi media, investendo nella difficile scommessa di fare una TV di qualità che si ponesse più come scuola che come spettacolo. Mentre quindi il PCI cercò soprattutto di lusingare gli intellettuali, “li corteggiò e li persuase del loro ruolo virtuale nella vita della nazione”, la DC puntò all’obiettivo di creare una “cultura popolare” omogenea e condivisa, capace di integrare definitivamente le masse nella compagine del giovane Stato. Lo fece attraverso la stampa popolare, i nuovi cinema parrocchiali, ma soprattutto attraverso radio e TV, e quest’ultima, la TV maestra degli anni ‘50 e ‘60, contribuì in effetti a socializzare i saperi e le conoscenze (prima fra tutte quella della lingua italiana) e a ridurre progressivamente la frattura convenzionale tra “cultura alta” e “cultura bassa”.

La TV nel nostro Paese non riuscì mai a diventare fino in fondo il tramite per la condivisione di un idem sentire proprio di tutti i cittadini. Incapace dunque di abbattere gli steccati delle molte e varie subculture spesso in conflitto tra loro, ovvero di superare del tutto la “divisività” della tradizione politico-culturale italiana, la TV pubblica, negli anni del suo massimo

Page 60: lapallacorda.files.wordpress.com  · Web view2021. 1. 16. · INTRODUZIONE. Nel 1994, Silvio Berlusconi, proprietario delle 3 più grandi emittenti televisive private, decide di

successo e del “miracolo economico”, agì da strumento di omogeneizzazione ad un livello più superficiale. Creò infatti, miti e appuntamenti quotidiani, consolidò abitudini e comportamenti collettivi, contribuì a diffondere saperi, informazioni e passatempi.

Senza addentrarci negli sviluppi della “questione televisiva” della metà degli anni ‘70 in poi, è comunque evidente che la simbiosi tra questo settore ed il mondo politico-partitico non è ancora venuto meno. E’ diventata semmai, più stretta e vischiosa dal momento che al primato della politica nella gestione dell’azienda pubblica si sono aggiunti il conflitto di interessi di Silvio Berlusconi e la sempre maggiore centralità del medium televisivo nel decidere i contenuti, le forme e il linguaggio della comunicazione politica.