Wait and hope

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Wait and hope da “The Economist” del 28 maggio 2016 - traduzione a cura di Emilio Tagliaferri I sondaggi suggeriscono che non ci sarà una Brexit. Landbrokes, un bookmaker, la da 4 a 1, ma sondaggisti e bookmakers hanno già sbagliato altre volte: cosa succederebbe se il 23 giugno la Gran Bretagna scegliesse di uscire dall'Unione Europea? Le più grandi banche del mondo, per cui Londra è una seconda casa, se non la prima, hanno un sacco di altri problemi: i profitti sono esigui, le autorità di vigilanza assillanti, gli investitori impazienti: il referendum è un grattacapo di cui farebbero volentieri a meno e, tuttavia, devono tenersi pronte per le turbolenze se dovesse succedere l'imponderabile. E, se dovesse prevalere il sì all'uscita dall'UE, dovrebbero affrontare una decisione sofferta: spostare o no i loro affari dalla capitale finanziaria europea? Le banche non devono ancora rispondere a una simile domanda, e sperano di non doverlo mai fare. Già sotto pressione per ridurre i costi, non stanno investendo molto su piani contingenti e non lo faranno sino a quando non vi saranno costrette; per il momento guardano al referendum come ad un avvenimento di mercato, con data conosciuta, che potrebbe provocare volatilità e ridurre la liquidità. Il posto più ovvio in cui cercare guai sarà il mercato dei cambi, dove già si sono verificate turbolenze pre consultazione. Tra inizio anno e aprile la sterlina si è svalutata del 9% nei confronti dell'euro; ora è in ribasso solo del 3% - e in realtà un po' più forte contro dollaro ed euro di quanto non fosse in febbraio quando il referendum è stato indetto. Dopo un voto per l'uscita, simili movimenti sembrerebbero solo gentili oscillazioni; i mercati delle opzioni hanno prezzato, in quel caso, un calo immediato della sterlina del 4%. Gli economisti ipotizzano che nell'arco di sei o dodici mesi la sterlina potrebbe inabissarsi di un 15% o di addirittura un 30%. L'OCSE, l'FMI, il Tesoro e altri predicono gravi danni per l'economia britannica (allarmisti, si lamentano i fautori della Brexit); anche l'eurozona ne risentirebbe. Nulla di tutto ciò sarebbe positivo per la banche basate a Londra – benché scaltri traders potrebbero avvantaggiarsi dalle oscillazioni delle valute – o per i loro clienti corporate. Nel prepararsi le banche sono state aiutate dal rafforzamento dei controlli dopo la crisi finanziaria. Regolari ispezioni delle loro difese, sia dall'interno che da parte delle banche centrali, sono diventate routine, e le autorità monetarie promettono di fornire abbondante liquidità. La Banca d'Inghilterra terrà tre aste straordinarie di pronti contro termine a ridosso del referendum, in effetti un'offerta di denaro in prestito a qualunque banca possa offrire titoli a garanzia. Le grandi banche britanniche hanno accesso alle valute estere attraverso le altre banche centrali; la Banca d'ìInghilterra ha linee di scambio con le sue pari nel G7 e con la Svizzera. La volatilità, in altre parole, può essere gestita; le regole del “passaporto” UE, grazie alle quali una società finanziaria in un paese membro può servire clienti negli altri 27 senza porre in essere attività locali, sono un'altra faccenda. Le sussidiarie europee di banche non UE ricevono lo stesso trattamento, il che permette a società americane, svizzere e giapponesi di servire l'intera Europa dalle loro basi a Londra. Goldman Sachs rappresenta, probabilmente, l'esempio più estremo, con 6000 dei suoi 6500 dipendenti europei nella capitale britannica e sta costruendo un nuovo ufficio londinese, che dovrebbe aprire nel 2019. Grazie al passaporto europeo, rileva TheCityUK, Londra può vantare circa il 70% del mercato dei derivati sui tassi d'interesse denominati in euro, il 90% del prime brokerage (assistenza nel trading agli hedge funds) europeo e altro. Senza un accordo per rinnovarli o rimpiazzarli i passaporti delle banche scadranno se il Regno Unito uscirà dall'UE. Si potrebbe raggiungere un accordo; le regole dell'UE consentono ai sistemi regolatori dei paesi non membri di essere equiparati al proprio; la Gran Bretagna lotterebbe disperatamente per mantenere la sua industria finanziaria; la banche sicuramente effettuerebbero una forte azione di lobbying. Anche in tal modo, pero, i costi legali probabilmente aumenterebbero, semplicemente perché le banche dovrebbero confrontarsi con due diversi (benché coerenti) gruppi di norme, e un accordo potrebbe non essere raggiunto facilmente. Nessun altro non-membro, fa notare TheCityUK, ha pieni diritti di passaporto; gli ex partner delle Gran Bretagna potrebbero essere inflessibili: i politici francesi e tedeschi non vorrebbero apparire deboli prima delle elezioni in programma il prossimo anno. Nulla verrebbe deciso in fretta. La Gran Bretagna rimarrebbe un membro per altri due anni (probabilmente di più) dopo l'inizio della procedura di uscita, e nel frattempo negozierebbe i termini del suo abbandono. Ma l'orologio andrebbe avanti comunque: le banche dovrebbero fare dei piani. Dalla crisi in avanti le autorità di vigilanza hanno preferito che le banche possedessero entità capitalizzate in modo separato in giurisdizioni separate; le autorità dell'UE potrebbero pressarle per spostare capitali e persone in luoghi dove già hanno delle sussidiarie. Il capo di almeno una banca dell'eurozona teme che potrebbe diventare molto più difficile regolare transazioni in euro a Londra. Le banche sono restie a parlare di cosa potrebbero fare (almeno in pubblico, e così vicino alla consultazione), e nessuna farà piani prima di essere costretta; ma HSBC ha detto a febbraio che potrebbe spostare circa 1.000 presone, un quinto dello staff londinese, a Parigi, dove possiede una sussidiaria, il precedente Credito Commerciale di Francia. Il co

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Wait and hopeda “The Economist” del 28 maggio 2016 - traduzione a cura di Emilio Tagliaferri

I sondaggi suggeriscono che non ci sarà una Brexit. Landbrokes, un bookmaker, la da 4 a 1, ma sondaggisti e bookmakers hanno già sbagliato altre volte: cosa succederebbe se il 23 giugno la Gran Bretagna scegliesse di uscire dall'Unione Europea? Le più grandi banche del mondo, per cui Londra è una seconda casa, se non la prima, hanno un sacco di altri problemi: i profitti sono esigui, le autorità di vigilanza assillanti, gli investitori impazienti: il referendum è un grattacapo di cui farebbero volentieri a meno e, tuttavia, devono tenersi pronte per le turbolenze se dovesse succedere l'imponderabile. E, se dovesse prevalere il sì all'uscita dall'UE, dovrebbero affrontare una decisione sofferta: spostare o no i loro affari dalla capitale finanziaria europea?

Le banche non devono ancora rispondere a una simile domanda, e sperano di non doverlo mai fare. Già sotto pressione per ridurre i costi, non stanno investendo molto su piani contingenti e non lo faranno sino a quando non vi saranno costrette; per il momento guardano al referendum come ad un avvenimento di mercato, con data conosciuta, che potrebbe provocare volatilità e ridurre la liquidità. Il posto più ovvio in cui cercare guai sarà il mercato dei cambi, dove già si sono verificate turbolenze pre consultazione. Tra inizio anno e aprile la sterlina si è svalutata del 9% nei confronti dell'euro; ora è in ribasso solo del 3% - e in realtà un po' più forte contro dollaro ed euro di quanto non fosse in febbraio quando il referendum è stato indetto.

Dopo un voto per l'uscita, simili movimenti sembrerebbero solo gentili oscillazioni; i mercati delle opzioni hanno prezzato, in quel caso, un calo immediato della sterlina del 4%. Gli economisti ipotizzano che nell'arco di sei o dodici mesi la sterlina potrebbe inabissarsi di un 15% o di addirittura un 30%. L'OCSE, l'FMI, il Tesoro e altri predicono gravi danni per l'economia britannica (allarmisti, si lamentano i fautori della Brexit); anche l'eurozona ne risentirebbe. Nulla di tutto ciò sarebbe positivo per la banche basate a Londra – benché scaltri traders potrebbero avvantaggiarsi dalle oscillazioni delle valute – o per i loro clienti corporate.

Nel prepararsi le banche sono state aiutate dal rafforzamento dei controlli dopo la crisi finanziaria. Regolari ispezioni delle loro difese, sia dall'interno che da parte delle banche centrali, sono diventate routine, e le autorità monetarie promettono di fornire abbondante liquidità. La Banca d'Inghilterra terrà tre aste straordinarie di pronti contro termine a ridosso del referendum, in effetti un'offerta di denaro in prestito a qualunque banca possa offrire titoli a garanzia. Le grandi banche britanniche hanno accesso alle valute estere attraverso le altre banche centrali; la Banca d'ìInghilterra ha linee di scambio con le sue pari nel G7 e con la Svizzera.

La volatilità, in altre parole, può essere gestita; le regole del “passaporto” UE, grazie alle quali una società finanziaria in un paese membro può servire clienti negli altri 27 senza porre in essere attività locali, sono un'altra faccenda. Le sussidiarie europee di banche non UE ricevono lo stesso trattamento, il che permette a società americane, svizzere e giapponesi di servire l'intera Europa dalle loro basi a Londra. Goldman Sachs rappresenta, probabilmente, l'esempio più estremo, con 6000 dei suoi 6500 dipendenti europei nella capitale britannica e sta costruendo un nuovo ufficio londinese, che dovrebbe aprire nel 2019. Grazie al passaporto europeo, rileva TheCityUK, Londra può vantare circa il 70% del mercato dei derivati sui tassi d'interesse denominati in euro, il 90% del prime brokerage (assistenza nel trading agli hedge funds) europeo e altro.

Senza un accordo per rinnovarli o rimpiazzarli i passaporti delle banche scadranno se il Regno Unito uscirà dall'UE. Si potrebbe raggiungere un accordo; le regole dell'UE consentono ai sistemi regolatori dei paesi non membri di essere equiparati al proprio; la Gran Bretagna lotterebbe disperatamente per mantenere la sua industria finanziaria; la banche sicuramente effettuerebbero una forte azione di lobbying. Anche in tal modo, pero, i costi legali probabilmente aumenterebbero, semplicemente perché le banche dovrebbero confrontarsi con due diversi (benché coerenti) gruppi di norme, e un accordo potrebbe non essere raggiunto facilmente. Nessun altro non-membro, fa notare TheCityUK, ha pieni diritti di passaporto; gli ex partner delle Gran Bretagna potrebbero essere inflessibili: i politici francesi e tedeschi non vorrebbero apparire deboli prima delle elezioni in programma il prossimo anno.

Nulla verrebbe deciso in fretta. La Gran Bretagna rimarrebbe un membro per altri due anni (probabilmente di più) dopo l'inizio della procedura di uscita, e nel frattempo negozierebbe i termini del suo abbandono. Ma l'orologio andrebbe avanti comunque: le banche dovrebbero fare dei piani. Dalla crisi in avanti le autorità di vigilanza hanno preferito che le banche possedessero entità capitalizzate in modo separato in giurisdizioni separate; le autorità dell'UE potrebbero pressarle per spostare capitali e persone in luoghi dove già hanno delle sussidiarie. Il capo di almeno una banca dell'eurozona teme che potrebbe diventare molto più difficile regolare transazioni in euro a Londra.

Le banche sono restie a parlare di cosa potrebbero fare (almeno in pubblico, e così vicino alla consultazione), e nessuna farà piani prima di essere costretta; ma HSBC ha detto a febbraio che potrebbe spostare circa 1.000 presone, un quinto dello staff londinese, a Parigi, dove possiede una sussidiaria, il precedente Credito Commerciale di Francia. Il co

direttore esecutivo di Deutsche Bank, John Cryan, ha detto lo scorso mese al Financial Times che “sarebbe strano” negoziare titoli di stato europei e valute in un ramo non europeo di una banca tedesca. Altri ipotizzano che sedi operative verrebbero istituite a Dublino (in parte grazie alle leggi liberiste sul lavoro vigenti in Irlanda) e in Lussemburgo.

Londra ha già sconfitto in passato fosche previsioni; è divenuta la capitale finanziaria dell'euro zona anche se il Regno Unito è rimasto fuori dalla moneta unica. La sua attrazione è probabilmente troppo forte affinché una qualunque grande banca la abbandoni del tutto, o per un declino improvviso. Oltre alle esperienze nel settore bancario può vantare un'armata di contabili, legali e altre figure professionali; persone del genere amano vivere nel suo grande e ribollente calderone.

E tuttavia alla fine è probabile che si verifichi una frammentazione dell'industria finanziaria europea in caso di Brexit: più affari in altri centri, di meno a Londra e, con ogni probabilità di meno in assoluto. Le economie di scala attualmente presenti nel Regno Unito andrebbero perdute, mentre altre realtà sarebbero troppo piccole per compensare; ciò significherebbe costi più alti che le società finanziarie potrebbero a mala pena permettersi dopo otto pesanti anni post crisi: nessuna meraviglia, quindi, che sperino che gli inglesi risolvano il problema col voto.

Articolo originale: Wait and hope