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DIAMO VOCE AI DIRITTI UMANI LUGLIO 2015 NUMERO 3 - ANNO 1 REPRESSIONE i giochi della Baku 2015 VOCI

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D I A M O V O C E A I D I R I T T I U M A N ILUGLIO 2015 NUMERO 3 - ANNO 1

REPRESSIONEi giochi dellaBaku 2015

VOCI

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La tenacia nella lotta per il godimento dei diritti fondamentali 3di Liliana Maniscalco

Azerbaijan: violazioni dei diritti umani e giochi europei 5di Giuseppe Provenza

Le poche luci e le molte ombre del nuovo corso in Myanmar 7di Paolo Pobbiati

Pena di morte e coscienza europea 9di Vincenzo Ceruso

Le cliniche legali in italia 11di Clelia Bartoli

La lunga storia del rapporto fra la psicologia e i diritti umani 14di Aristide Donadio

(In)sicurezze verticali e orizzontali. Sguardi sul mondo neoliberale dalle scienze sociali 19di Javier Gonzalez Diez

Il teatro delle libertà 21di Paola Caridi

Buone notizie sulla pena di morte 23di Giuseppe Provenza

LUGLIO 2015 N. 3 / A.1 - Voci

Rivista del Centro di Documentazione per la Promozione e l’Educazione alla

Tutela dei Diritti Umani “Peter Benenson”

COMITATO DI REDAZIONE

Giuseppe Provenza Responsabile della Redazione

Liliana ManiscalcoResponsabile Regionale di Amnesty International

Daniela ConteResponsabile del

Centro di Documentazione per la Promozione e l’Educazione alla

Tutela dei Diritti Umani “Peter Benenson”

Emanuele Maria MarinoResponsabile Relazioni Esterne

e Comunicazione di Amnesty International in Sicilia

Silvia Intravaia Grafica e D.T.P.

COLLABORANO

Aurelio Angelini, Clelia Bartoli, Giorgio Beretta, Daniela Brignone, Paola Caridi, Giovanna Cernigliaro,

Vincenzo Ceruso, Cissé Mouhamed, Coordinamento America Latina

- Amnesty International Sezione Italiana, Marta D’Alia, Luciana De Grazia, Aristide Donadio, Vincenzo

Fazio, Maurizio Gemelli, Javier Gonzalez Diez, Giuseppe Carlo

Marino, Maria Grazia Patronaggio, Paolo Pobbiati, Rossella Puccio, Bruno Schivo, Daniela Tomasino,

Fulvio Vassallo Paleologo

VOCI

[email protected]

-Via Benedetto d’Acquisto 30

90141 Palermo

IN QUESTO NUMERO

/amnestysicilia

TUTTI I GIORNI

/amnesty-sicilia

/Amnestysicilia

Amnesty In Sicilia

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/amnestysicilia

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Non può pertanto considerarsi un prodotto editoriale ai sensi della legge n° 62 del 7.03.2001.Le informazioni contenute in questa rivista, pur fornite in buona fede e ritenute accurate, potrebbero contenere inesattezze o essere viziate da errori tipografici. Gli autori di “Voci“ si riservano pertanto

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posizioni di Amnesty International.

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EdITORIALE

LUGLIO 2015 N. 3 / A.1 - Voci3

Ci reputavamo fortunati ed eravamo soddisfatti due anni fa, noi attivisti. Quando nel 2013 si chiudeva, a Palermo, il corteo dell’ultimo Pride nazionale sentivamo di avere contribuito a costruire, seppur nel nostro piccolissimo, un mondo non più uguale, ma più giusto, dove gli svantaggi potevano ancora essere recuperati, sebbene non sempre risarciti, e gli esseri umani messi in condizione di parità.

In quei giorni, un luogo ideale si andava componendo sotto ai nostri occhi e metteva pezzetti di dignità e rispetto ognuno al proprio posto per un futuro realmente migliore.

Mai uno stato d’animo è stato però così clamorosamente smentito trasformando il tempo galantuomo in un clown dei più feroci. Adesso possiamo solo nutrire preoccupazione, non tanto per la questione in sé, ma per quanto connessa alle persone LGBTI, specie agli attivisti che, in pieno svolgimento dell’Onda Pride in Italia, sono oggetto più che mai di attacchi insensati alla loro natura e di parole d’odio, risucchiate in una dinamica di spersonalizzazione che riporta alla mente quella che

condusse ai più gravi crimini della storia commessi dall’umanità contro l’umanità.

L’Onda Pride, a due anni di distanza da quel bagno di folla, convinzione e motivazione, sembra svolgersi in un contesto culturale nazionale decisamente peggiorato, quasi come se le iniziative degli anni passati che hanno sancito, ribadito e richiamato l’universalità dei diritti di persone lesbiche, gay, bisessuali, trangender e intersessuate (LGBTI), più che portare beneficio a questi titolari dei diritti, ne avessero danneggiato il percorso verso il riscatto e l’affrancamento dalle violazioni, dalla discriminazione, dalla violenza fisica e dalla morte talvolta istituzionalizzata, come accade in certi luoghi, così lontani ma, se riflettiamo sui rapporti economici e finanziari tra i vari paesi, in verità così vicini, dove si condanna alla pena capitale il gay, per sodomia, o si lapida la lesbica.

Le esternazioni collettive di intere masse schiettamente anti LGBTI delle ultime settimane nel paese destano stupore, per la mancanza di basi logiche e culturali di certe argomentazioni, e sgomento, per il

LA TENACIA NELLA LOTTA PER IL GOdIMENTO dEI dIRITTI FONdAMENTALIdi Liliana Maniscalco

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Editoriale

portato di discriminazione pubblicamente condiviso. Come se accettare una diseguaglianza in tanti, la rendesse giusta.

E tra una sbandierata, quanto inesistente e acquosa, “teoria del gender” attribuita alla categoria, da confutare e contrastare in nome delle famiglie sane, formate da mamma, papà e prole, e le manifestazioni di piazza del Family day, al suono dello slogan farlocco “giù le mani dai bambini” ci rendiamo conto di cosa abbiamo ancora davanti: un paese nel bel mezzo del guado nel percorso del riconoscimento dei diritti LGBTI.

In realtà la lettura dei fatti può essere diversa da quella delusa e volendo un po’ destruens, perché tarda a raggiungere gli obiettivi prefissati, del lavoro svolto fino ad oggi.

I passi avanti compiuti negli ultimi anni semplicemente non hanno fatto ottenere a lesbiche, gay, bisessuali transgender e persone intersessuate il godimento dei diritti, e infatti l’Italia non ha ancora una legge contro l’omofobia e la transfobia, né è maturata una dinamica sociale e politica tale da renderne la genesi una naturale conseguenza del progresso dei tempi.

Il nostro è un paese dove sindaci, prefetti, politici ancora discettano sul registro delle unioni civili, figurarsi quanto è realmente ancora lontana l’accettazione del matrimonio fra persone dello stesso sesso!

Tutte queste manifestazioni, queste iniziative, queste attività hanno avuto un grande pregio in realtà, quello di aprire il vaso di Pandora che è l’Italia sull’argomento.

Finalmente, prima lo ignoravamo o potevamo solo intuirlo dietro l’ipocrisia imperante, sappiamo chi gli attivisti hanno di fronte, quali sono le criticità, le mancanze culturali, quali sono stati i pensieri taciuti fino a non molto tempo addietro dai molti componenti dei movimenti che, come le sentinelle in piedi, continuano a pensare alle teorie e ai dogmi piuttosto che alla dignità delle persone.

Quindi in realtà il percorso si è fatto e ha come primo risultato quello di avere esplicitamente portato alla luce il reale stato dei fatti in Italia.

Non resta altro quindi che sbracciarsi, continuare e restare uniti, nel contesto del più ampio movimento dei diritti umani, perché nessuna lotta per il riconoscimento di quelli fondamentali ha visto storicamente l’assenza di contrapposizione.

Per cui invitiamo tutti coloro che sono convinti che la strada del rispetto della persona umana è la giusta

via ad esserci in piazza e dopo a continuare.

E’ in base a questo principio che in Italia 38 associazioni - Arcigay, Arcilesbica, Agedo, Famiglie Arcobaleno, Mit, Associazione Radicale Certi Diritti, Equality Italia, Gaynet, Rete Lenford, Polis Aperta, Rete Genitori Rainbow, Edge Articolo 29, Lista Lesbica Italiana, Anddos, Condividilove, Gaycs, Circolo di Cultura Omosessuale Mario Mieli - Roma, Gay Center - Roma, La Fenice Gay - Roma, I Mondi Diversi - Roma, Love Out Law - Milano, Coord. Torino Pride - Torino, Circolo Tondelli - Bassano del Grappa, Delos - Vicenza, Anteròs - Padova, Esedomani - Terni, Ireos - Firenze, Azione Gay e Lesbica - Firenze, Comitato Gay e Lesbiche - Prato, Arc - Cagliari, Arci, Cgil Nuovi Diritti, UIL Campania, Uaar, Amnesty International, Uisp, Cild – chiedono, tanto per cominciare, al presidente del Consiglio Matteo Renzi e ai presidenti di Camera e Senato, Laura Boldrini e Pietro Grasso, di garantire che sia eliminata ogni forma di discriminazione nella legislazione italiana sul matrimonio civile, aprendolo anche alle coppie dello stesso sesso, riconoscendo i matrimoni e le unioni celebrate all’estero e assicurando pari diritti ai figli delle persone dello stesso sesso.

La campagna, dal titolo “Lo stesso sì”, permette di firmare l’appello della richiesta sia in piazza, presso gli stand delle associazioni coinvolte, che via web.

Per aderire è sufficiente andare su

http://appelli.amnesty.it/lostessosi/

Vi aspettiamo.

Liliana ManiscalcoResponsabile Regionale

di Amnesty International

#LoStessoSì

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ATTUALITà

LUGLIO 2015 N. 3 / A.1 - Voci5

L’Azerbaijan – un paese di quasi dieci milioni di abitanti, con popolazione a maggioranza musulmana sciita – faceva parte dell’impero russo. Dopo il crollo di questo fu per breve tempo indipendente (1918-1920). Successivamente fu incorporato nell’Unione Sovietica per settanta anni. In seguito alla fine dell’Unione Sovietica, nel 1991, divenne indipendente.

L’Azerbaigian non ha ancora risolto il suo antico conflitto con l’Armenia per il Nagorno-Karabakh, una regione prevalentemente armena situata all’interno del territorio azero. La contesa, di antica data, si intensificò dopo che entrambi i paesi conseguirono l’indipendenza dall’Unione Sovietica, in seguito a cui il Nagorno-Karabakh proclamò la propria indipendenza. Ciò provocò la reazione dell’Azerbaijan e l’inizio del conflitto nel gennaio del 1992 che si protrasse fino al cessate il fuoco del maggio 1994.

Da quella data formalmente lo stato di belligeranza fra Azerbaijan da una parte e Nagorno-Karabakh ed Armenia dall’altra, non è mai cessato, ed il Nagorno-Karabakh mantiene una sostanziale indipendenza, pur non essendo stato riconosciuto a livello internazionale.

Dal punto di vista economico l’Azerbaijan attraversa un periodo chiaramente positivo. Il tasso di crescita del 2014 è stato del 4,5% mentre nel 2013 era stato del 5,8%, anche se va tenuto conto che il paese partiva da un PIL pro-capite non molto elevato. Il PIL pro-capite del 2014 è stato infatti di $ 17.900 (per un confronto, nel 2014 il PIL pro-capite in Italia è stato di $ 34.500).

La forte crescita economica dell’Azerbaijan è attribuibile al grande sviluppo delle esportazioni di petrolio e gas, di cui il paese è ricco. Dall’Azerbaijan partono infatti diversi oleodotti a cui va aggiunto un

importante gasdotto in costruzione che porterà nuova ricchezza al paese.

Dal punto di vista politico, l’Azerbaijan è una repubblica. Presidente è dal 2003 Ilham Aliyev, che, con referendum del 2009, ha fatto abolire i limiti del mandato presidenziale, divenendo, in pratica, presidente a vita ed instaurando nel paese un regime comunemente considerato, a livello internazionale, “autoritario”. Va notato che, in occasione dell’elezione di Aliyev nel 2003, l’OSCE (Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa) considerò quelle elezioni presidenziali “Non corrispondenti agli standard internazionali”, espressione diplomatica, ma comunque eloquente.

In Parlamento ha la maggioranza dei seggi (71 su 125) il partito YAP, di cui Ilham Aliyev è presidente (molto indicativo che il Presidente della Repubblica sia anche presidente di un partito politico !).

Particolarmente grave è la condizione in cui sono costretti ad operare gli oppositori politici per i quali il rischio del carcere è costantemente incombente, come chiaramente evidenziato da Amnesty International nel rapporto “AZERBAIJAN: I GIOCHI DELLA REPRESSIONE”, pubblicato alla vigilia dell’apertura dei primi GIOCHI EUROPEI, una sorta di Olimpiadi del Continente.

AZERBAIJAN: VIOLAZIONI dEI dIRITTI UMANI E GIOCHI EUROPEI di Giuseppe Provenza

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Voci - LUGLIO 2015 N. 3 / A.1 6

Attualità

Ciò che particolarmente colpisce nel rapporto è l’elencazione dei PRIGIONIERI DI COSCIENZA di cui sono noti i nomi, ma ai quali certamente ne vanno aggiunti tanti altri non noti. Nel rapporto sono elencati ben venti prigionieri di coscienza, fra cui sono compresi membri di partiti politici e movimenti d’opposizione, come Ilgar Mammadov, presidente del partito d’opposizione REAL, i coniugi Leyla e Arif Yunus, rispettivamente presidente e membro dell’ONG ”Institute for Peace and Democracy”, Khadija Ismayilova, giornalista di “Radio Free Europe/Radio Liberty” nonché vari membri del partito d’opposizione Musavat, e vari membri del movimento civile giovanile NIDA.

Alla denunzia di Amnesty si affianca, con la sua metodologia, quella di Freedom House, l’Organizzazione americana indipendente che assegna annualmente alla maggior parte dei paesi del mondo un punteggio sulla libertà, e dei punteggi di dettaglio sulle libertà civili e sui diritti politici.

Tali punteggi vanno da 1 (il migliore) a 7 (il peggiore). Per il 2015 all’Azerbaijan Freedom House ha assegnato un punteggio complessivo sulla libertà di 6 e punteggi egualmente di 6 per le libertà civili e di 6 per i diritti politici.

Eppure, malgrado una situazione politica assolutamente ed indiscutibilmente deprecabile, dal 12 al 28 giugno si sono svolti in Azerbaijan i primi GIOCHI EUROPEI, concedendo ad un paese in cui non sono rispettati i più elementari principi delle libertà personali, e quindi dei DIRITTI UMANI, una visibilità ed una risonanza, realizzate mediante centinaia di ore di servizi televisivi, che certamente non dovevano essergli consentiti e che non fanno onore

ad un organismo internazionale come il COMITATO OLIMPICO EUROPEO, che, da promotore in Europa dello sport olimpico, dovrebbe avere come obiettivo, come del resto proclamato dalla CARTA OLIMPICA, “la promozione di una società pacifica protesa a salvaguardare la dignità dell’uomo”.

Ma forse per alcuni la DIGNITÀ DELL’UOMO passa in secondo piano quando in gioco entrano i grandi interessi economici e finanziari che sono, poi, interessi di pochi, se non pochissimi, per sostenere i quali si può ignorare e calpestare la libertà, e quindi la dignità, di milioni di persone, cosa che subivano, negli stessi giorni di svolgimento dei Giochi Europei, tante persone in Azerbaijan.

Per questa ragione, in tutto il mondo, tante persone, anche per difendere la loro stessa libertà pur vivendo in paesi liberi, hanno appoggiato, con le loro firme, la battaglia che Amnesty International sostiene per la libertà dell’Azerbaijan, battaglia che è la stessa che quotidianamente conduce per la difesa dei diritti umani ovunque siano violati, o semplicemente minacciati.

A riprova del grande fastidio che l’azione di Amnesty sta provocando al governo dell’Azerbaijan, in data 10 giugno è stato impedito alla delegazione dell’Organizzazione l’ingresso nel paese ove intendeva pubblicare, alla vigilia dei Giochi, il rapporto sopra citato sulla situazione dei diritti umani in quel paese.

Giuseppe ProvenzaResponsabile Gruppo Italia 243

di Amnesty International Sezione Italiana

Membro del Coordinamento Europa di Amnesty International Sezione Italiana

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APPROFONdIMENTI

LUGLIO 2015 N. 3 / A.1 - Voci7

S-E Asiatico

Quando, il 13 novembre 2010, la leader dell’opposizione birmana e Premio Nobel per la Pace Aung San Suu Kyi venne definitivamente liberata dopo più di vent’anni dal primo arresto e le venne consentito di presentarsi alle elezioni suppletive per entrare in parlamento, in molti sperammo che fosse in atto un cambiamento radicale della situazione dei diritti umani in Myanmar. E’ cambiato tanto da allora: molte delle norme che limitavano le attività dell’opposizione e il libero esercizio della libertà di espressione e di associazione sono state abrogate o modificate; Aung San Suu Kyi oggi siede in parlamento insieme ai suoi compagni di partito e gira il mondo promuovendo accordi commerciali e cercando sostegno internazionale per la proposta di abrogare l’articolo della costituzione che ancora le impedisce di concorrere al ruolo di presidente a causa del suo matrimonio con un cittadino britannico.

E’ cambiato l’approccio della comunità internazionale, che dopo aver considerato il Myanmar una sorta di intoccabile, soggetto a dure sanzioni e alla generale riprovazione, oggi plaude a questo nuovo corso e si affanna nel tentativo di sfruttare nel modo più redditizio e conveniente le ricche opportunità economiche e commerciali che questo paese, finalmente aperto al mondo, offre.

Ma quanto è cambiato nella sostanza? Siamo davvero in una fase si transizione verso una democrazia, se non

pienamente compiuta, dove almeno siano rispettati i diritti umani fondamentali?

Le notizie che arrivano dal paese asiatico lascerebbero intendere il contrario. Nel Myanmar di oggi si continua a essere arrestati e condannati a lunghe pene detentive per reati di opinione e si affronta una dura repressione poliziesca fatta di pestaggi e arresti se, come hanno fatto gli studenti di Yangon e Mandalay qualche settimana fa mentre protestavano contro la riforma scolastica, si osa scendere in piazza per criticare il governo.

Emblematica la storia di Tint San, Lu Maw Naing, Yarzar Oo, Paing Thet Kyaw e Sithu Soe, cinque giornalisti arrestati e condannati a sette anni di reclusione per aver denunciato la presenza di una fabbrica di armi chimiche nella provincia di Magwe. Il loro giornale, Unity, è stato chiuso. Questo accadeva pochi mesi dopo che il presidente Thei Sein aveva annunciato la fine della censura per la stampa. E’ andata peggio ad Aung Kyaw Naing, giornalista che indagava sulle azioni condotte dall’esercito nello stato Mon, ucciso in circostanze mai chiarite dopo essere stato arrestato dai militari.

Chi critica il governo lo continua a fare a suo rischio e pericolo, come il leader del Movimento per la Democrazia Ko Htin Kyaw, condannato a 13 anni e 4 mesi di reclusione per aver distribuito materiale su

LE POCHE LUCI E LE MOLTE OMBRE dEL NUOVO CORSO IN MYANMARdi Paolo Pobbiati

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Voci - LUGLIO 2015 N. 3 / A.1 8

S-E Asiatico

espropri e sgomberi arbitrari da parte delle autorità nei confronti di contadini poveri che non hanno possibilità di opporsi alla confisca delle loro terre.

Ma l’esempio forse più emblematico che rappresenta questa fase è quello dei Rohingya, una minoranza etnica che vive nello stato di Rakhine, nella parte più occidentale del paese, vicino al confine con il Bangladesh e che conta una popolazione di 1.300 mila persone. Proprio questa prossimità, insieme al fatto che si tratta di una minoranza musulmana in un paese a larghissima maggioranza buddhista, ha fatto sì che in molti li considerino un corpo estraneo nel paese. Da sempre sottoposti a discriminazioni e agli abusi delle forze di sicurezza birmane, negli ultimi tre anni sono stati colpiti da veri e propri pogrom da gruppi fondamentalisti buddhisti, con la dichiarata intenzione di espellerli dal paese. Leader di questo movimento islamofobo è il monaco buddhista Ashin Virathu, già prigioniero politico rilasciato con l’amnistia nel 2010, che con i suoi sermoni è uno dei principali ispiratori della violenza e dell’intolleranza nei confronti dei Rohingya. Le motivazioni sono le solite che vengono utilizzate per criminalizzare un gruppo etnico in ogni parte del mondo e in ogni tempo: “vogliono cancellare la nostra cultura e le nostre usanze”, “fanno più figli di noi e finiranno per ridurci a una minoranza nel nostro stesso paese”, “sono dei malviventi che vogliono solo rubare il nostro denaro”. Dal giugno 2012, quando è iniziata questa ondata di una vera e propria pulizia etnica, gli assalti nei confronti dei Rohingya hanno causato diverse centinaia di morti - ma una stima precisa è impossibile - e costretto oltre un quarto della popolazione a doversi allontanare dalle proprie case e dai propri villaggi messi a ferro e fuoco dai fondamentalisti buddhisti.

Privati della nazionalità birmana nel 1982, alla vigilia del censimento dello scorso anno il Ministero degli Interni ha imposto ai Rohingya di registrarsi come “immigrati bengalesi”, nonostante vivano in quella regione da numerose generazioni, lasciandoli di fatto come apolidi, senza diritti fondamentali come l’assistenza sanitaria e l’istruzione, ma soprattutto negando la legittimità della loro permanenza nel paese, fornendo così un nuovo pretesto a chi vorrebbe cacciarli e per farlo non si fa scrupolo di scatenare violenze inaudite.

Così più di 150mila Rohingya si sono trovati nelle condizioni di dover lasciare il paese negli ultimi tre anni. Oltre a quelli che attraversano via terra il confine con il Bangladesh, la maggior parte di loro fugge su barche che vengono soprannominate “bare” per le loro condizioni di fatiscenza, in cerca di salvezza e di asilo in Thailandia, in Malesia o in Indonesia, paesi che per il momento non hanno mostrato una grande

disponibilità ad accoglierli. Iniziano così vere e proprie odissee via mare, fatte di respingimenti ai limiti delle acque territoriali, di naufragi con centinaia di morti e di ignobili forme di sfruttamento che bande di trafficanti locali mettono in atto approfittando della vulnerabilità di queste persone. Ancora violenza quindi, anche per i fortunati che riescono a sopravvivere al mare. Mentre la speranza di migliaia di disperati galleggia alla deriva tra il Golfo del Bengala e il Mare delle Andamane, ONU ed Unione Europea, sensibile al problema dei profughi evidentemente solo quando sono lontani dai suoi confini, hanno fatto pressione sui governi dell’ASEAN perché mettano in atto politiche comuni di accoglienza. Con scarsi risultati, almeno per il momento. Il vertice di fine maggio si è concluso con una generica dichiarazione che impegna il governo del Myanmar a “risolvere il problema alla radice”. Come le autorità birmane interpreteranno questo invito non è dato sapere, ma visto quanto fatto sinora gli auspici non possono essere certo i migliori.

In un anno di elezioni, i militari birmani assecondano questa ondata nazionalista e continuano a non fare nulla per evitare che la situazione degeneri, mentre la Lega Nazionale per la Democrazia evita accuratamente di schierarsi contro queste violenze per timore di inimicarsi il clero buddhista e di perdere voti. Sulla spinta di numerose critiche che le sono arrivate dall’estero, tra cui quelle di altri due Premio Nobel per la Pace, il Dalai Lama e Desmond Tutu, Suu Kyi ha ammesso a denti stretti che “è sbagliato non considerare i Rohingya cittadini birmani”, ma non ha ancora preso una posizione netta contro le violenze. Vero è che non ha il potere né tanto meno i numeri in parlamento per porre rimedio a questa situazione, ma sono in molti a pensare che la sua credibilità e il seguito che ha nel paese renderebbe una sua presa di posizione più coraggiosa difficile da ignorare anche per i nazionalisti più esagitati. Posizione che ad oggi non è ancora arrivata.

A quasi cinque anni dall’inizio di questo nuovo corso, la sensazione è che il bicchiere sia molto più vuoto che mezzo pieno. Né pare lecito nutrire particolari speranze di cambiamento nel risultato delle elezioni che si terranno a novembre, e non solo perché la legge elettorale consentirà comunque ai militari di mantenere la maggioranza dei seggi in parlamento. Il cambiamento, quello vero, sembra ancora lontano.

Paolo PobbiatiInsegnante, ex Presidente della Sezione

Italiana di Amnesty International

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APPROFONdIMENTI

LUGLIO 2015 N. 3 / A.1 - Voci9

Pena di Morte

Negli anni della “primavera hitleriana” Montale scriveva: “la sagra dei miti carnefici che ancora ignorano il sangue / s’è tramutata in un sozzo trescone d’ali schiantate, / di larve sulle golene, e l’acqua seguita rodere / le sponde e più nessuno è incolpevole” 1.

Quanto scriveva il poeta è ancora più vero oggi, in tempo di globalizzazione. Nessuno è incolpevole, cioè nessuno è irresponsabile dei crimini perpetrati nei confronti di un altro essere umano in qualunque parte del mondo avvengano.

Dopo la II guerra mondiale, l’Europa ha sentito fortemente questa responsabilità nei confronti del resto del mondo. Il continente che si era reso colpevole delle peggiori violazioni dei diritti umani, è divenuto il primo continente liberato dalla pena capitale e primo nella lotta alla pena di morte nel mondo.

Il 4 novembre 1950 i governi riuniti a Roma adottarono la Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo. Tale trattato, oltre ad essere giuridicamente vincolante, istituiva una Corte Europea dei Diritti dell’Uomo. La giurisprudenza della Corte è giunta a vietare agli Stati membri l’estradizione di individui verso paesi che applichino la pena di morte. Si è trattato di una lettura combinata dell’articolo 2 della Convenzione, che sancisce il diritto alla vita di ogni individuo, e del Protocollo n. 6 alla stessa Convenzione, adottato

1 - E. Montale, Tutte le poesie, Mondadori, Milano, 2012, p. 256.

nel 1983 2. Infatti, nella sua prima stesura, l’art. 2 stabiliva: “Nessuno può essere intenzionalmente privato della vita, salvo che in esecuzione di una sentenza capitale pronunciata da un tribunale, nei casi in cui il delitto sia punito dalla legge con tale pena”. Il successivo Protocollo ha abolito del tutto la pena di morte, salvo ipotesi eccezionali confinate al tempo di guerra.

La Carta dei Diritti dell’Unione Europea ha espresso un orientamento netto in tal senso, asserendo che “nessuno può essere condannato alla pena di morte né giustiziato” (comma 2, art. 2). La coscienza europea ha affermato sempre di più il legame strettissimo tra il diritto alla vita e il no alla pena di morte. Una rapida lettura della geografia della pena di morte basta a mostrare quanto ciò non sia affatto scontato, tanto che in diverse parti del mondo si è arrivato ad “ipotizzare che l’irrogazione della pena di morte possa essere sanzione adeguata per assicurare essa stessa il diritto alla vita” 3. Tale interpretazione, oltre a ribadire una funzione deterrente della pena di morte che non ha alcun fondamento storico-giuridico, sottende una finalità puramente retributiva della pena che ha trovato un autorevole avallo giurisprudenziale presso alcune sentenze della Corte Suprema degli Stati Uniti. Non è inutile ribadire l’ingenuità di questa concezione retributiva e il volto feroce di un

2 - C. Russo – P. M. Quaini, La Convenzione europea dei diritti dell’uomo, Giuffrè editore, Milano, 2006, p. 87.

3 - V. Angiolini, Diritti umani. Sette lezioni, Giappichelli editore, Torino, 2012, p. 61.

PENA dI MORTE E COSCIENZA EUROPEAdi Vincenzo Ceruso

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Voci - LUGLIO 2015 N. 3 / A.1 10

Pena di Morte

diritto che somiglia fin troppo alla legittimazione della semplice vendetta.

In taluni contesti questa lettura ha trovato spazio appoggiandosi ad una lettura fondamentalista del Primo Testamento che, in realtà, non trova ragione d’essere rispetto ad una corretta esegesi: “non bisogna confondere la vendetta di cui si parla nel Primo Testamento con l’idea di vendetta della nostra società. La vendetta va innanzitutto intesa come il ristabilimento del diritto anche con l’uso della forza” 4. Dio si presenta negli antichi testi come il garante del diritto, che interviene per ristabilire la giustizia nel mondo, tutelando il debole, l’oppresso, il povero.

Per concludere, mi sembra singolare che oggi il sogno europeo di una tutela universale dei diritti umani e di abolizione della pena di morte, sia incarnata da un Papa argentino, che non esita a dire un no radicale alla pena di morte in tutte le sue forme, sia quelle extragiudiziali, sia quelle legali, giungendo ad equiparare l’ergastolo ad una pena di morte mascherata. Rivolgendosi ai giuristi, Bergoglio si è espresso contro il “populismo penale” che anima alcuni sistemi giuridici: “Si è affievolita la concezione del diritto penale come ultima ratio, come ultimo

4 - A. Spreafico, Da nemici a fratelli, San Paolo, Milano, 2010, p. 132.

ricorso alla sanzione, limitato ai fatti più gravi contro gli interessi individuali e collettivi più degni di protezione” 5.

In un’Europa afflitta dagli egoismi nazionali e localistici, che rischia di dimenticare le sue radici culturali e spirituali, ripartire dal no alla pena di morte è un modo per ribadire l’umanesimo che è alla base della costruzione europea, ben oltre ogni logica mercatista.

5 - Discorso del Santo Padre alla delegazione dell’Associazione internazionale di diritto penale, 24 ottobre 2014.

Vincenzo CerusoDocente di Filosofia del Diritto alla Link

Campus University di Catania

Mappa tratta dal Rapporto “Death Sentences And Executions 2014” http://www.amnestyusa.org/pdfs/DeathSentencesAndExecutions2014_EN.pdf

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APPROFONdIMENTI

LUGLIO 2015 N. 3 / A.1 - Voci11

Assistenza Legale

Cosa sono le cliniche legali?

Studenti di giurisprudenza, supervisionati da docenti e avvocati qualificati talvolta in partnership con ONG ed enti che tutelano i diritti umani, offrono consulenza pro bono e svolgono diverse attività connesse al diritto in azione, in genere a favore di soggetti indigenti o marginali, che difficilmente avrebbero accesso alla giustizia.

Esse costituiscono per i giovani in formazione un’opportunità di apprendere attraverso la pratica. L’esperienza clinica, quindi, migliora le competenze professionali, offrendo agli studenti l’opportunità di provarsi già da subito nel mestiere che un giorno saranno chiamati a svolgere. Ma essa è in grado di affinare anche le doti umane e il senso di giustizia dei ragazzi coinvolti coinvolgendoli in prima persone in casi dalla forte valenza etica. Inoltre amplia la visione, accresce i saperi pluridisciplinari (sociologici, psicologici, antropologici, politologici, ecc.) e le capacità interculturali.

Oltre a portare beneficio agli studenti ovviamente, le cliniche impegnate sul fronte dei diritti umani svolgono un servizio per la collettività. Sappiamo bene come il gratuito patrocinio sia un mezzo spesso insufficiente a coprire la domanda di tutela legale per soggetti vulnerabili e a basso reddito. Le cliniche

legali implementano l’accesso alla giustizia offrendo una consulenza legale, non solo gratuita, ma anche di alto livello poiché svolta sotto l’egida dell’accademia. Peraltro in molti paesi dell’Unione, tra cui l’Italia, il gratuito patrocino non copre l’attività stragiudiziale. Tuttavia sono numerose le circostanze in cui soggetti non abbienti e vulnerabili hanno necessità di un supporto legale, al di là della mera difesa in giudizio, per tutelare diritti fondamentali e accedere a servizi e benefici previsti dalla legislazione nazionale e comunitaria.

Le cliniche dunque contribuiscono al perseguimento della giustizia sociale poiché implementano l’assistenza legale gratuita e di alta qualità a persone vulnerabili quali poveri, detenuti, migranti, rifugiati, esponenti di minoranze, vittime di discriminazione, tratta, sfruttamento, ecc. o in processi con un elevato interesse pubblico, ad esempio cause relative all’ambiente e alla tutela dei beni comuni.

I primi esperimenti di cliniche legali sorgono negli Stati Uniti già oltre un secolo fa. Ma si strutturano all’interno delle facoltà di Legge in seguito ad un profondo ripensamento dei percorsi formativi. Pur avendo una lunga storia in territorio americano e nei paesi in via di sviluppo, in Europa le cliniche legali sono un fenomeno recente, sorte prima ad Est, per poi raggiungere i paesi dell’Ovest e mediterranei.

LE CLINICHE LEGALI IN ITALIAdi Clelia Bartoli

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Voci - LUGLIO 2015 N. 3 / A.1 12

Assistenza Legale

Il movimento delle cliniche legali in Italia

Sto personalmente svolgendo una ricerca sulle cliniche legali in Europa che mi è stata commissionata da Cécile Kyenge, ex ministro dell’integrazione e oggi europarlamentare. Ho iniziato censendo la situazione delle cliniche in Italia. A tal fine ho inviato un questionario on line chiedendo una serie di informazioni che mi permettessero di mappare il fenomeno.

Hanno risposto 22 cliniche dislocate in 15 diverse città: si tratta sia di cliniche consolidate (vedi fig. 1), sia appena avviate o progetti in una fase ancora embrionale (vedi fig. 2).

Probabilmente vi è qualche esperienza clinica che è sfuggita al rilevamento, ma ritengo che i dati raccolti definiscano un quadro sufficientemente esaustivo di quanto stia accadendo in Italia. Va comunque considerato che si tratta di una realtà in fermento,

Fig. 1 - Cliniche consolidate

Nome età dipartimento Staff

L’Altro Diritto: Centro di documentazione carcere, devianza e marginalità

19 Dipartimento di Scienze Giuridiche, Firenze 100

Clinica Legale, Univ. di Brescia 5 Univ. degli Studi di Brescia Dipartimento di Giurisprudenza 30

Clinica legale I e II, Univ. di Brescia 5 Univ. degli Studi di Brescia Dipartimento di Giurisprudenza 15

Clinica del diritto dell’immigrazione e della cittadinanza 5 Dipartimento di Giurisprudenza, Università Roma TRE 10

Human Rights and Migration Law Clinic 4International University College of Turin, DG dell’Università di Torino, Università del Piemonte orientale

15

Clinica legale in diritto dei minori 3 Dipartimento di Giurisprudenza, Univ. Roma TRE 6

Clinica Legale di Diritto del lavoro 3 Università degli studi di Teramo 4

Diritto ambientale 3 Università degli studi di Bergamo 2

Clinica legale penitenziaria 3 Università di Perugia, Dipartimento di Giurisprudenza 15

Clinica legale in diritto dei risparmiatori 2 Dipartimento di Giurisprudenza, Univ. Roma TRE 2

Clinica Legale Verona 2 Diparti. di Scienze Giuridiche, Università di Verona 8

Carcere e diritti 2 Dipartimento di Giurisprudenza, Univ. di Torino 6

Ambiente e territorio 2 Univ. di Perugia, dipartimento di Giurisprudenza 9

Persone e famiglia 1 Dipartimento di Giurisprudenza, Univ. di Torino 1

Fig. 2 - Cliniche in fase di avviamento

Nome dipartimento staff

Clinica Legale per i diritti umani DIGISPO Palermo 10

Spazi violenti. L’empowerment e accesso al diritto delle persone svantaggiate

Dipartimento di Giurisprudenza, Università di Torino 5

Clinica legale di diritto penaleDip. Cesare Beccaria - sezione di scienze penalistiche. Università degli Studi di Milano

8

Da definire Dipartimento Jonico di Studi Giuridici ed Economici 30

Clinica legale “Federico II” Dipartimento di Giurisprudenza, “Federico II, Napoli --

Accesso alla giustizia Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università di Sassari --

Da definire Dipartimento di scienze sociali e politiche, Università di Milano --

Da definire Dipartimento di Giurisprudenza, Università di Catania 10

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LUGLIO 2015 N. 3 / A.1 - Voci13

Assistenza Legale

soggetta a trasformarsi con grande rapidità 1.

Appena cinque anni fa venivano fondate formalmente le prime cliniche legali italiane. Una storia estremamente recente, simile a quella di altri paesi dell’Europa Occidentale, quali Francia e Germania 2. Le cliniche, dunque, che hanno un’età di almeno quattro anni fanno capo a pochi atenei (l’università di Brescia, Roma Tre, l’Università di Torino in collaborazione con l’International University College of Turin e con l’Università del Piemonte orientale), seguono le cliniche di Bergamo, Teramo, Perugia e Verona che esistono da due o tre anni.

C’è poi da segnalare il caso anomalo di “Altrodiritto”, un’associazine che nasce all’interno dell’Università di Firenze circa venti anni fa e, pur non dandosi il nome di clinica legale, opera in modo del tutto analogo. Gli studenti sono inizialmente coinvolti nell’assistenza legale dei detuniti delle carceri della regione, in seguito l’attività di Altrodiritto si espande a molti comuni della Toscana e dell’Emilia Romagna, coinvolgendo centinaia di giovani in formazione sia della facoltà di Legge che di altre discipline, per fornire un’assitenza legale variegata anche a migranti, rifugiati, rom e marginali in genere, ecc. Recentemente è stato aperto un ramo Siciliano dell’associazione che ha da poco inaugurato una clinica nell’isola.

Altrodiritto per anni ha preferito agire da clinica in modo informale; solo di recente l’associazione ha deciso di dare ad una parte delle sue molteplici attività il nome e lo statuto di clinica legale.

Monitorando gli ambiti di intervento, i tipi di attività e le tipologie di clienti appare chiaro che la quasi totalità delle cliniche italiane abbia una forte vocazione verso la giustizia sociale. Esse quindi, oltre a proporre una formazione giuridica attraverso la metodologia del learning by doing, intendono smontare l’immagine dell’università come ambiente chiuso e sterilizzato, regno della teoria che teme l’invischiamento con la concretezza del reale. Al contrario la gran parte di coloro che scelgono di impegnarvisi soffrono l’isolamento e il senso di aleatorietà che non di rado accompagna il lavoro accademico e credono nell’importanza di un impegno civico delle istituzioni culturali. Non stupisce che gli ambiti in cui le cliniche risultano maggiormente attive siano: l’immigrazione e l’asilo, il carcere, l’anti-discriminazione e i diritti umani.

La principale attività è coinvolgere gli studenti nella risoluzione di casi giudiziali reali in collaborazione con

1 - I dati sono aggiornati al marzo 2015.

2 - U. Stege, Evidence of Successes and Challenges in Clinical Legal Education in Europe, in stampa.

studi di avvocati. Ma al contempo è molto praticata anche la consulenza stragiudiziale, attivando sportelli di consulenza all’interno dei dipartimenti rivolti tanto a persone fisiche quanto ad associazioni impegnate nella tutela dei diritti. È anche abbastana frequente che una clinica agisca come osservatorio: molti studenti nel corso del loro percorso clinico partecipano ad un monitoraggio, per esempio della condizione dei migranti nei CIE o su eventuali pratiche di discriminazione istituzionale. Pertanto una delle caratteristiche più importanti delle cliniche legali è il fatto che esse aprano delle porte verso l’esterno, sviluppando collaborazioni con soggetti estranei al mondo accademico.

La costituzione in Italia di un movimento delle cliniche nelle facoltà di Giurisprudenza ritengo abbia la possibilità di incidere anche sulla cultura professionale degli avvocati, poiché fornisce una formazione delle nuove generazioni di giuristi piuttosto rivoluzionaria. Gli studenti che vi partecipano si confrontano infatti da vicino con soggetti, che difficilmente entrano negli studi legali, a causa della povertà e della marginalità, e hanno così modo di sperimentare un modo di essere giurista a servizio dei diritti umani, della parità e del pubblico interesse.

Clelia Bartolidocente di “Diritti umani” presso

l’Università  di Palermo

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APPROFONdIMENTI

Voci - LUGLIO 2015 N. 3 / A.1 14

Psicologia

Nel 1936 Einstein, su mandato della Società delle Nazioni, invia una lettera a Sigmund Freud dal titolo “Perchè la guerra?”. Scopo del mandato era quello di intervistare le maggiori autorità della comunità scientifica internazionale per tentare di comprendere come fosse potuta accadere la follia collettiva della 1ª Guerra Mondiale (mentre scrivo sono in corso le celebrazioni del centenario) e quali potessero essere gli interventi possibili per scongiurare altre follie collettive. La Storia ci ha poi drammaticamente insegnato che al peggio non c’è limite. Si tratta, a ben vedere, d’un carteggio estremamente interessante: un fisico, seppur di fama mondiale e dotato di una curiosità straordinaria, e uno psicologo, come Freud stesso ama definirsi, il fondatore della psicanalisi, che decidono di mettersi a parlare assieme su come mettere fine ad una cosa diventata “insopportabile” 1; due mondi altrimenti lontanissimi l’uno dall’altro, eppure accomunati dalla stessa curiosità 2, dalla stessa onestà intellettuale, dalla stessa “amicizia per l’umanità”, per usare la magnifica espressione adoperata dallo stesso Freud nella sua missiva di risposta. Sorprende l’ampio bagaglio culturale e d’interessi che hanno le due autorità della comunità scientifica internazionale, che da un lato fa sconfinare l’uno nel campo dell’altro, mentre dall’altro crea un ponte naturale d’incontro, d’invischiamento reciproco, di felice contaminazione, qualità rara nella nostra attualità, ricca di iper-specializzazioni ma povera di

1 - Espressione adoperata dallo stesso Freud, nella sua risposta ad Einstein: “semplicemente non la sopportiamo più’... un’intolleranza costituzionale... della massima idiosincrasia”.

2 - « Non ho particolari talenti, sono solo appassionatamente curioso. », da una lettera a Carl Seelig, 11 marzo 1952

unitarietà, di reale interdisciplinarità, di autentica intercultura o, più lapidariamente, povera di cultura.

Profetici i richiami ad un auspicabile tribunale internazionale, una Corte riconosciuta da tutti gli Stati che abbia l’autorità e i mezzi per intervenire nelle diatribe fra Nazioni e punire le violazioni del diritto internazionale, a patto che vi siano i mezzi per intervenire e che ciascuno Stato sia pronto a cedere parte della propria sovranità. Sorprendente la riflessione di Einstein, a proposito di come fosse possibile che la maggioranza di individui d’un popolo accettasse di andare al “proprio olocausto” per compiacere gli interessi di potere ed economici di un’avida minoranza dominante, sorprendente anche il richiamo a certi concetti quando afferma: “Una risposta ovvia a questa domanda sarebbe che la minoranza di quelli che di volta in volta sono al potere ha in mano prima di tutto la scuola e la stampa, e perlopiù anche le organizzazioni religiose. Ciò le consente di organizzare e sviare i sentimenti delle masse rendendoli strumenti della propria politica”. E’ il concetto di “industria culturale”, un assioma tipico della scuola di Francoforte, già presente dal 1923, composta da sociologi, filosofi e psicologi in buona parte ebrei.

Colpisce, fra le altre, un’affermazione apparentemente banale, se non persino inopportuna in relazione ad una catastrofe bellica 3, quella riguardante la “degradazione estetica” causata appunto dalla guerra. Solo una persona di eccezionale levatura morale e culturale può essere in grado, in una situazione di totale distruttività e prostrazione, di mostrare al mondo l’importanza della bellezza e di come il danno ad essa arrecato possa essere persino accostato a quello dei milioni di morti e di feriti. Viene in mente una frase di Primo Levi, quando afferma, in riferimento ai campi di sterminio, che la cosa più grave fosse stata che tutto ciò sia entrato nel regno del possibile, del pensabile 4. Freud, infine, richiama l’attenzione del grande scienziato sulla necessità di considerare la complessità della psiche umana e di come sia difficile individuare un’azione, un

3 - “[...] mi sembra che le degradazioni estetiche della guerra non abbiano nel nostro rifiuto una parte molto minore delle sue crudeltà [...], sempre dal carteggio Freud-Einstein.

4 - “ [...] La vergogna che i tedeschi non conobbero, quella che il giusto prova davanti alla colpa commessa da altrui, e gli rimorde che esista, che sia stata introdotta irrevocabilmente nel mondo delle cose che esistono, e che la sua volontà sia stata nulla o scarsa, e non abbia valso a difesa.”, in Se questo è un uomo, cap. “Le nostre notti”.

LA LUNGA STORIA dEL RAPPORTO FRA LA PSICOLOGIA E I dIRITTI UMANIdi Aristide Donadio

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LUGLIO 2015 N. 3 / A.1 - Voci15

Psicologia

comportamento che sia frutto d’una sola pulsione 5 o d’una sola motivazione ed è proprio tale necessità che deve indurre “noi pacifisti” ad un ulteriore impegno 6 in direzione pedagogica ed andragogica, che liberi le masse dalla soggezione all’autorità e dalle forme di manipolazione, incluse quelle d’un certo tipo di Chiesa.

Freud condivide le considerazioni di Einstein ed, entrando nel campo di propria competenza, riconosce d’aver dovuto profondamente rivedere l’impianto epistemologico psicanalitico proprio a fronte di tanta distruttività, sino a dover ammettere l’esistenza d’un istinto di morte, il Thanatos, da affiancare all’Eros, e propone, come possibile soluzione alla guerra, che prevenga il prevalere e il dominio della distruttività, quella di lavorare su entrambi gli istinti, canalizzando la distruttività attraverso il rafforzamento dell’intelletto e l’interiorizzazione dell’aggressività (con tutti i rischi che ciò può comportare se non adeguatamente gestita) e inducendo al massimo lo sviluppo dei “legami emotivi”, delle relazioni affettive 7 accanto alla capacità di stabilire identificazioni con l’altro da sé, donde empatia e solidarietà. In termini più immediati, Freud risponde ad Einstein, asserendo la necessità di controllare maggiormente il Thanatos per diffondere più Eros e suggerisce che questo compito spetta ad un approccio educativo particolarmente evoluto, che sappia andare in tale direzione. Uno scambio, questo fra due grandi della Terra, davvero emozionante e ricco di senso, di indicazioni di direzioni, di strade da seguire, di consigli che, purtroppo, vengono ancor oggi disattesi.

Per cogliere il senso dell’introduzione del concetto di Thanatos e delle problematiche che ha suscitato nella stessa comunità psicanalitica, è necessario risalire al 1920, anno di pubblicazione di “Al di là del principio di piacere”, scritto da Freud a ridosso della 1ª Guerra Mondiale. Qui l’autore rivede, inopinatamente, la struttura teorica psicanalitica inserendo il Thanatos,

5 - “[...] E’ assai raro che l’azione sia opera di un singolo moto pulsionale [...]”, S. Freud, op. cit.

6 - “[...] L’abuso di autorità da Lei lamentato mi suggerisce un secondo metodo per combattere indirettamente la tendenza alla guerra. Fa parte dell’innata e ineliminabile diseguaglianza tra gli uomini la loro distinzione in capi e seguaci. Questi ultimi sono la stragrande maggioranza, hanno bisogno di un’autorità che prenda decisioni per loro, alla quale perlopiù si sottomettono incondizionatamente. Richiamandosi a questa realtà, si dovrebbero dedicare maggiori cure, più di quanto si sia fatto finora all’educazione di una categoria superiore di persone dotate di indipendenza di pensiero, inaccessibili alle intimidazioni e cultrici della verità, alle quali dovrebbe spettare la guida delle masse prive di autonomia. Che le intru-sioni del potere statale e la proibizione di pensare sancita dalla Chiesa non siano favorevoli ad allevare cittadini simili non ha bisogno di dimostrazione. La condiz-ione ideale sarebbe naturalmente una comunità umana che avesse assoggettato la sua vita pulsionale alla dittatura della ragione. Nient’altro potrebbe produrre un’unione tra gli uomini così perfetta e così tenace, perfino in assenza di reciproci legami emotivi. Ma secondo ogni probabilità questa è una speranza utopistica. Le altre vie per impedire indirettamente la guerra sono certo più praticabili, ma non promettono alcun rapido successo. E’ triste pensare a mulini che macinano talmente adagio che la gente muore di fame prima di ricevere la farina. [...] “; ibidem.

7 - “[...] La psicoanalisi non ha bisogno di vergognarsi se qui parla di amore, per-ché la religione dice la stessa cosa: “ama il prossimo tuo come te stesso”. ibidem.

una mossa sorprendente, contestata persino dai suoi discepoli e, ancor oggi, dalla maggior parte del mondo psicanalitico. Sono in molti a ritenere che l’orrore della guerra (che coinvolse anche la vita di Freud e della sua famiglia) prima, e la morte dell’amata figlia Sophie poi, indussero e confermarono l’autore nel sostenere l’esistenza della pulsione di morte, inficiando quindi la validità scientifica di tale innovazione. Fromm stesso, allontanato dalla Scuola di Francoforte per aver osato criticare Freud che pure ammirava, ribadirà con forza, per tutta la sua esistenza, la presenza unica dell’Eros, attribuendo solo ad una cultura necrofila dominante la responsabilità di allontanare le persone dalla loro naturale pro-socialità. Non vanno tuttavia sottovalutati gli studi provenienti dal filone riconducibile al “secondo Freud”, come quelli di Klein, Fornari, Lacan e, per citare un illustre contemporaneo italiano, Recalcati, per citarne solo alcuni.

Sembra tuttavia opportuno richiamarci all’idea primigenia di Freud della psiche, allontanando il rischio di pericolosi alibi relativi all’ineluttabilità della guerra e della distruttività. Piace riferirsi al principio di potere di Adler, il bisogno di affermarsi in comunione con l’altro da sé, nonché al filone umanistico-esistenziale di Rogers e Fromm, che non si limitano all’anamnesi, ma costruiscono un gioioso percorso di progetto esistenziale con i propri pazienti, proiettandosi verso il loro futuro di auto-realizzazione.

Gli studi psicanalitici danno vita ad una serie di iniziative che sembra lecito definire umanitarie, poiché un contributo formidabile verso quell’amicizia per l’umanità di cui Freud stesso parla furono non solo l’amore per la ricerca e la cura delle malattie verso il benessere possibile, ma anche gli interventi nella formazione specialistica e l’impatto impressionante che ebbe e che tuttora riesce a mantenere su autori e teorie dell’intero campo delle scienze umane e dell’arte nonché sulla cultura dell’opinione pubblica mondiale, giungendo sino a Gandhi e Tolstoj. Anche

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Voci - LUGLIO 2015 N. 3 / A.1 16

Psicologia

la figlia di Freud, Anna, si dedicò ad interventi in ambito umanitario operando su bambini orfani della 2ª Guerra mondiale e traumatizzati da eventi bellici, fondando e dirigendo a Londra, in un sodalizio umano e culturale formidabile con la psicanalista americana Dorothy Burlingham, l’Hampstead War Nurseries per l’assistenza ai bambini abbandonati, l’Hampstead Child Therapy Course e l’Hampstead Child Therapy Clinc, istituti in cui si tennero corsi di addestramento per terapeuti infantili ed educatori, nonché attività diagnostiche e terapeutiche per i bambini. Anna Freud non solo darà un contributo epistemologico formidabile alla psicanalisi, spostando il fulcro della vita psichica dall’Es, come riteneva il padre, all’Io 8, ma anche spendendo la psicanalisi non più in ambito quasi esclusivamente terapeutico 9 ma anche formativo nel senso più ampio possibile e verso diverse categorie: genitori, infermieri, medici, psicologi e, soprattutto, formatori.

Ma la Psicanalisi, la Psicologia sociale e la Psicologia in generale realizzano sinergie formidabili con alcune discipline in particolare, come l’Antropologia 10, la Sociologia (con la nascita della Psicosociologia), la Psichiatria (attraverso l’antipsichiatria di Laing, Cooper e del nostro Basaglia e l’Etnopsichiatria), la Linguistica e, naturalmente, le Scienze dell’Educazione (con la Psicopedagogia). Questa felice contaminazione si annuncia, invero, già a partire dalla seconda metà dell’Ottocento quando, lentamente, si decide di abbandonare l’approccio ai malati di mente e ai “soggetti irregolari” come semplice misurazione o classificazione tout court, per intraprendere la strada della trasformazione, della terapia: sarà la formidabile stagione della psicopedagogia, appunto, con esponenti quali Montessori e Neill che intervengono non solo contro la segregazione di tali soggetti (e quindi per l’abbandono progressivo di “istituzioni totali” come orfanotrofi e manicomi), ma anche favorendo l’applicazione dei risultati degli studi condotti sui “soggetti anormali” sui cosiddetti normodotati; questi studi, in convergenza con i progressi di altre discipline, mostrarono anzi come sia proprio la “normalità patologica” 11 a generare “bambini spezzati” o “deviati” 12, a causare il disagio,

8 - Tanto che, da allora ad oggi, si parla di “Psicologia dell’Io”, con inevitabili rif-lessi sulle Scienze Umane e culturali; cfr A. Freud, “L’Io e i meccanismi di difesa”.

9 - Sigmund Freud la usava, al di fuori dell’ambito terapeutico, per la formazione di psichiatri e per conferenze.

10 - Si veda, ad esempio, il filone “Cultura e Personalità, che ha dato vita ad una serie di studi sul rapporto fra modi di educare i figli e le strutture di base della personalità tipiche di vari popoli.

11 - Cfr. E. Fromm , “I cosiddetti sani”.

12 - Espressioni adoperate dalla Montessori nelle sue opere, atte ad indicare gli effetti perniciosi e distorsivi di un approccio -adultistico- rispetto al normale sviluppo che un bambino dovrebbe avere verso il dispiegamento del “bambino segreto” e di quell’”embrione spirituale” che è il suo progetto identitario originale in nuce.

la psicopatologia 13: quella “banalità del male” di cui ci parla Hannah Arendt nelle sue opere.

Come dimenticare la stagione orgogliosa e prorompente degli studi di Psicologia sociale che indagano proprio su come possa esser accaduta questa “banalità del male”! Delle migliaia di studi e ricerche non è possibile non citare il famoso esperimento di Stanley Milgram “sull’obbedienza all’autorità” del 1963, con l’obiettivo dichiarato di verificare sino a che punto una persona normale possa causare danno o morte ad un’altra solo per obbedire ad un “ordine”; in tale esperimento veniva fatto credere al soggetto sperimentale di collaborare ad una ricerca che mirava a verificare l’impatto dei “rinforzi negativi” (punizioni) sull’apprendimento, per cui, ad ogni risposta sbagliata, il “maestro” doveva somministrare una scossa progressivamente più potente (dai 15 sino ai 450 volts!) allo “scolaro” che sbagliasse le risposte, in realtà il presunto “scolaro” era il vero collaboratore dello sperimentatore: un attore che, non subendo alcuna scossa, simulava reazioni via via più forti sino ad un silenzio inquietante che potesse far temere uno svenimento o persino la morte. Gli autori dell’esperimento ipotizzarono che si sarebbero spinti sino a superare la soglia potenzialmente letale di scosse il 10% dei soggetti sperimentali, ma si sbagliarono di molto, poiché venne superata la soglia del 50%: più della metà dei soggetti sperimentali si resero disponibili a correre il rischio di uccidere una persona per assecondare un tizio col camice bianco!

Interessanti le varianti all’esperimento che vennero poi sviluppate, nelle quali si potette verificare che, invitando il “maestro” ad accostarsi allo “scolaro” per verificare se, non udendo più alcun lamento alle forti scosse, il polso pulsasse ancora, lo stesso contatto comportasse la riduzione della volontà di collaborare con lo sperimentatore, avendo il contatto con la vittima accentuato capacità empatiche e identificative, dilatando la percezione della cospecificità 14.

13 - Cfr. il concetto di necrofilia in E. Fromm, “Anatomia della distruttività umana”, ma anche gli studi sul “bambino deviato” della stessa Montessori.

14 - Va ricordato anche l’esperimento di Philip Zimbardo, del Dipartimento di Psicologia dell’Università di Stanford, realizzato nell’estate del 1971 sugli effetti psicologici e psico-sociali del contesto e dei ruoli applicato all’ambito carcerario. Zimbardo prese spunto dal concetto di de-individuazione del francese Gustave Le Bon, secondo il quale gli individui di un gruppo coeso o d’una folla tendono a perdere identità personale, consapevolezza e senso di responsabilità sviluppando impulsi anti-sociali. L’esperimento voleva verificare se si potessero determinare sensibili modificazioni negli atteggiamenti e nei comportamenti di soggetti speri-mentali all’interno d’una riproduzione di situazione carceraria. I soggetti vennero suddivisi in maniera random in due diversi gruppi di “prigionieri” e di “carcerieri”. Il solo fatto di appartenere a due diverse categorie fece prevalere progressivamente un’identità gruppale e lo stigma verso quanti appartenevano all’altra categoria. La spoliazione identitaria e di ruoli avveniva obbligando i “detenuti” di Stanford a indossare casacche color caki e talvolta cartoni calati sulla testa, per annullare ogni possibile forma di comunicazione fra carnefici e vittime e per deumanizzarle definitivamente. Il risultato fu una serie impressionante di abusi di ogni genere da parte delle guardie carcerarie, tale da costringere ad interrompere l’esperimento dopo soli sei giorni, pur essendo previsto per due settimane. Impressionante la somiglianza fra ciò che accadde a Stanford e ciò che si verificava e purtroppo si verifica ancora in situazioni carcerarie o in situazioni-limite: persino la somigli-anza fra le “divise” dei “detenuti” di Zimbardo e quelle dei detenuti veri di Abu Grahib o di Guantanamo, ad opera di veri soldati occidentali! Sembra quasi che

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LUGLIO 2015 N. 3 / A.1 - Voci17

Psicologia

Ma per comprendere ancora meglio il nesso fra Psicologia e Diritti Umani è necessario comprendere come sia proceduta l’opera di analisi della cause profonde delle condotte distruttive e delle conseguenti violazioni di diritti umani, sino ad allargarsi alla prevenzione di tali cause ed all’intervento concreto sulle origini psicosociologiche, sugli attori delle violazioni e sulle vittime stesse. Per ritornare a Freud, illuminanti furono i suoi studi sulla coazione a ripetere condotti sui reduci della Prima Guerra Mondiale, grazie ai quali emerse che i soldati vittime di traumi bellici tendevano a rivivere la scena del trauma, così come gli studi condotti sui pedofili mostrarono che essi stessi fossero a loro volta stati vittime di pedofilia nell’infanzia. Anche Paulo Freire 15 sosteneva che non esistono oppressi ed oppressori ma, a ben vedere, solo oppressi: anche gli oppressori sono degli oppressi, sino agli studi psicosociologici di criminologia che mostrano come esistano ambiti micro e macro-sociali criminogeni.

Eric Fromm, psicanalista, mostrò al mondo che le vie per accedere alla distruttività 16 sono sostanzialmente due: la de-umanizzazione dell’altro e la propria de-responsabilizzazione. Ciò significa che non posso volgere verso altri condotte distruttive se non riduco o elimino quegli aspetti dell’altro che lo rendono simile a me, in quanto la tendenza filogenetica a identificarmi nell’altro ritorcerebbe contro di me l’atto aggressivo (sensi di colpa, disturbi psicosomatici, depressione, disistima); di qui la tendenza a denigrare l’altro o la categoria di altri da sé paragonandoli a cose o ad animali 17; ma, per consentire lo sviluppo di atti distruttivi, è necessario anche l’altro elemento, la de-responsabilizzazione, vale a dire l’uso di razionalizzazioni, intellettualizzazioni e tutta quella serie di alibi o forme di auto-inganno utili a ridurre la dissonanza o il senso di colpa per aver effettuato o essere in procinto di compiere atti ripugnanti. Ne è un esempio paradigmatico la presenza, presso i bracci della morte di diversi penitenziari USA dove si pratica ancora la condanna a morte per sedia elettrica, di ben tre diversi pulsanti per attivare la scarica letale, uno

questo genere di esperimenti, discussi e discutibili sul piano etico ma tristemente efficaci e rivelatori, non servissero più solo a denunciare, come nelle intenzioni dei ricercatori, le condizioni che possono condurre a estreme violazioni di diritti umani, ma venissero poi anche adoperati da menti criminali (come la scuola per la tortura di Fort Benning in Georgia, USA) per addestrare torturatori di tutto il mondo, dai dittatori piazzati in America latina agli effetti collaterali delle guerre balcaniche e “umanitarie” sino alla guerra in Iraq sulla base di pericolosi arsenali del tutto inventati per giustificare la guerra stessa e coprire interessi geo-politici . Altri interessanti studi sono stati compiuti nel campo della Psicologia sociale, come quelli sugli effetti dell’arbitrio del potere, per dimostrare quanto disorientamento e anomia siano alla base di condotte e atteggiamenti aggressivi o autolesionistici, dagli studi di Psicologia comparata di Pavlov sui cani a quelli di Tajfel sulle gare in cui vengono cambiate le regole in corso d’opera all’interno di campeggi estivi.

15 - Cfr. P. Freire in “Pedagogia degli oppressi”.

16 - Cfr. E. Fromm, “Anatomia della distruttività umana”.

17 - Joseph Goebbels, ministro della propaganda del III Reich, diffuse filmati in cui l’immagine di un ebreo si dissolveva progressivamente in quella di una capra, de-umanizzando, in tal modo, un’intera etnia e facilitando o legittimando ogni forma di aggressione nei suoi confronti.

solo dei quali realmente attivo: ciò serve a rendere meno “penoso” l’atto del boia, andando, appunto, nella direzione della de-responsabilizzazione.

Fondamentali si sono rivelati altresì gli studi sulla comunicazione, dalla scuola di Palo Alto sino alla rivalutazione del conflitto, se costruttivo e nel rispetto dell’altro 18: è nel confronto conflittuale con l’altro che può cogliersi la differenza, ed è questa stessa differenza che induce ad autodefinirsi, poiché è nel confronto costruttivo che le parti in gioco tendono a riconoscersi e legittimarsi reciprocamente, in quanto è solo il conflitto, in tale accezione, che può generare senso e significatività nell’agire sociale e individuale. Capita purtroppo che la cultura dominante incoraggi non solo il pensiero unico di marcusiana memoria 19 e il pensiero convergente 20, ma anche il conflitto distruttivo che tende all’annientamento del diverso, come persona o etnia, mentre contemporaneamente distrae e dissuade dall’intraprendere quello costruttivo, privando progressivamente, come si vede dagli attacchi ancora in corso contro la scuola pubblica e il sistema formativo in generale, i cittadini di quegli strumenti e quelle competenze culturali e sociali per farvi fronte.

La Psicologia, nel corso dei decenni e attraverso miriadi di studi e ricerche sempre più connessi e correlati fra loro e con altre discipline, ha potuto e saputo porre la basi d’un sapere sempre meno arrogantemente “scientifico” 21 e più teso alla problematizzazione e all’ermeneutica, conoscenze che hanno evidenziato e messo in luce aspetti prima solo intuiti o auspicati, attraverso un’imponente e spettacolare opera di decostruzione, cogliendo quali siano gli ambiti irrinunciabili della natura umana, gli elementi della sua struttura, dagli anni della sua evoluzione sino alla decadenza della quarta età, che cosa debba intendersi per salute 22 e cosa per patologico, quali direzioni sia auspicabile prenda l’educazione e la formazione, ma anche la prevenzione, la cura, l’assistenza e la riabilitazione, cosa debba intendersi per cittadinanza attiva; alla Psicologia va il merito di aver dato nome e voce al

18 - Ugo Morelli, Conflitto, Roma, Meltemi, 2006, p.12.

19 - Cfr. il profetico H. Marcuse de “L’Uomo a una dimensione”.

20 - Cfr. Ken Robinson in “Cambiare i paradigmi dell’educazione”, Youtube, sul pensiero convergente incoraggiato in luogo del pensiero divergente dai sistemi formativi occidentali; ma anche gli studi sull’uso dell’Invalsi per diffondere proprio pensiero unico e convergente, utile a logiche mercantili come “I test Invalsi. Con-tributi a una lettura critica” a cura del CESP, Centro Studi per la scuola pubblica, Bologna, 2013.

21 - Fu proprio Popper a sostenere che “il metodo scientifico” non esiste, così come autori come Khun e Feyerabend hanno contribuito a denunciare l’illusorietà dell’esattezza e infallibilità del metodo scientifico alimentando quel dibattito noto come “crisi dell’induttivismo”.

22 - In seno all’OMS il concetto di salute, proprio grazie a questi studi, si è pro-gressivamente evoluto, passando da una concezione negativa, che considera sana la condizione di assenza di malattie, ad una concezione positiva che considera sana la condizione di benessere non più solo fisica, ma anche psichica e sociale.

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Voci - LUGLIO 2015 N. 3 / A.1 18

Psicologia

senso della pietas umana, ad una religiosità laica 23, fornendo risposte a speranze millenarie, indicando le origini del “male” e del dolore, sino a far ritenere che la cattiveria forse non esista, ma esista solo una sofferenza che non si è potuto o saputo gestire, fino a rovesciarla sugli altri, magari sul diverso, percepito come più lontano, meno consimile e cospecifico, come ci mostra Anna Freud ne “I meccanismi di difesa”; sono emerse progressivamente anche le direzioni di una più avanzata giurisprudenza che tenga conto di tali conquiste e che assicuri diritti intesi come espressione di bisogni irrinunciabili di persone, comunità e società, rispettando l’uguale diritto alla diversità in luogo d’un diritto omologante cui tutti debbano uniformarsi 24. Questo lento cammino, che certo ha ancora molta strada da compiere, ha anche fatto sì che i concetti di diritti umani e di educazione ai diritti umani, come quelli di pace e di educazione alla pace, pur se in maniera non lineare e spesso tortuosa e contraddittoria, tendano ad incrociarsi sempre con maggiore evidenza, man mano che il concetto di diritti umani si sottrae ad una sua concezione razionalistica, tecnicistica e giuspositivistica spesso di matrice etnocentrica, per evolversi in ottica interculturale e olistica 25. La pratica del prendersi cura dell’altro, infatti, ha un valore morale che, per autori come West, Gilligan e la nostra Muraro, non viene ancora riconosciuto come criterio di giustizia, essendo addirittura antitetico all’idea e alla pratica della giustizia; ma se l’etica della giustizia non si fonde con l’etica della responsabilità, sostengono i neo-femministi, la decisione politica o giudiziaria fallisce proprio dal punto di vista della giustizia 26. Le qualità generalmente collegate alla giustizia come l’integrità, la coerenza e l’imparzialità, senza compassione e solidarietà si trasformano in aspro e gretto rigorismo. Il momento dell’empatia con la vittima e con l’imputato è necessario alla comprensione del senso del caso e della sua problematicità, e la comprensione di senso è preliminare e propedeutico alla comprensione di valore e cioè alla valutazione 27. Anche un autorevole gruppo di giuriste italiane 28 è giunto alla stessa conclusione: è necessario uno “sguardo ravvicinato”, in grado di scorgere peculiarità di casi e singolarità di soggetti, nei tribunali come nelle società 29.

23 - Sono diversi gli esempi di un felice connubio anche fra religione e psicanal-isi, cfr. “La liberta d’amare” e “Psicanalisi del vangelo “ degli psicanalisti francesi F. Dolto e G. Severin.

24 - Tale percorso è stato sollecitato dagli studi neo-femministi, che rivalutano il ruolo della differenza.

25 - Sono proprio gli studi neo-femministi, trasversali alla scienze umane, a denunciarne il carattere gerarchico, formale e razionalistico, espressione d’un pensiero maschilista.

26 - M. Grazia Giammarinaro, Iter, Treccani, anno1 n.1, 1998.

27 - G. Zagrebelsky , La legge e la sua giustizia, Bologna, Il Mulino, 2008, p. 228.

28 - Gruppo giuriste “V. Woolf”.

29 - Secondo i neo-femministi, infatti, va rivalutato “l’ordine simbolico della

L’humus creato da tutta questa serie di studi e di impegni ha provocato, anche attraverso forme progressive e diversificate di coscientizzazione 30, strategie di prevenzione e lotte poi sfociate nella realizzazione e deliberazione di Trattati come la Dichiarazione Universale dei diritti umani, non a caso varata nello stesso anno della nostra Costituzione, la Dichiarazione dei Diritti del Fanciullo del 1989 (ancora non ratificata da un unico Paese: gli USA), rivoluzioni civili e sostanzialmente pacifiche, come quelle degli anni della contestazione giovanile del ‘68, le trasformazioni che hanno condotto allo Stato sociale, al riconoscimenti dei diritti delle donne e delle minoranze, al progressivo superamento dei manicomi, degli OPG sino, si spera, ad una futura eliminazione del carcere così com’è inteso oggi, come di ogni forma di istituzione totale.

Ma la Psicologia non si è limitata all’analisi delle cause delle violazioni dei diritti, né a come concepire la nuova stagione dei diritti chiarendo forma e struttura della natura umana, dei suoi bisogni irrinunciabili, delle premesse per un sano sviluppo di personalità e comunità; essa ha anche agito e agisce sulla prevenzione e sugli effetti delle violazioni, come dimostrano gli interventi sulla formazione dei docenti 31, delle forze dell’ordine 32 e di altre categorie di soggetti, e quelli sul bullismo o sulle vittime di tortura.

Molto lavoro resta ancora da fare e molti ostacoli da superare, soprattutto nelle periodiche fasi di riflusso e regressione sociale, come pare essere quella in corso in Occidente, ma una cosa non mancherà mai: la ricerca, la curiosità e l’onestà intellettuale come quella di chi, come dice in una sua poesia il pacifista Danilo Dolci, “educa, senza nascondere l’assurdo ch’è nel mondo, aperto ad ogni sviluppo ma cercando d’essere franco all’altro come a sé, sognando gli altri come ora non sono: ciascuno cresce solo se sognato”.

madre”, come recita il titolo dell’opera più nota di Luisa Muraro, vale a dire la ca-pacità tipica della sensibilità femminile del “prendersi cura di”, di porre al centro della costruzione identitaria singola e collettiva l’alterità.

30 - Cfr. Paulo Freire , “La pedagogia degli oppressi”, ma anche Augusto Boal, “Il poliziotto nella testa”.

31 - Cfr. il progetto internazionale di A.I. “Friendly school” applicato nell’a.s. 2011/’12 presso l’ITI “M. Curie” di Napoli-Ponticelli, con un intervento di educazione informale e l’uso del TdO su un gruppo misto di allievi della scuola e soggetti provenienti dall’attiguo campo Rom, vittima di un recente incendio doloso e di varie aggressioni (vedi le interviste su youtube https://www.youtube.com/watch?v=svUO7GsDJIU).

32 - Cfr. “Comunicare dentro”, Sezione Italiana di Amnesty International (A.I.), 2010, sull’uso combinato di Analisi Transazionale e Teatro dell’Oppresso (TdO) di Boal nella formazione dei poliziotti penitenziari.

Aristide DonadioPsicosociologo e docente di

Scienze umane presso i licei

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APPROFONdIMENTI

LUGLIO 2015 N. 3 / A.1 - Voci19

Antropologia

Nel mondo attuale si sente parlare molto di “sicurezza” e “insicurezza”, nelle loro multiple declinazioni. Questo doppio concetto, che può essere riassunto nel termine (in)sicurezza, è tirato in ballo continuamente da attori politici e media per giustificare la messa in atto di determinate politiche e decisioni. Dall’(in)sicurezza alimentare a quella nazionale, da quella finanziaria a quella stradale, da quella cittadina a quella ambientale, il concetto sembra onnipresente. Proprio per questo, esso è diventato da qualche tempo oggetto di studio da parte delle scienze sociali, che cercano di non darlo per scontato ma di capire come, quando, perché si costruiscono forme di (in)sicurezza, chi è che ha la funzione di definirle e come questo avviene.

In questo breve articolo, riassumo alcune riflessioni che ho presentato in un recente volume curato assieme ad altri colleghi [(In)Sicurezze. Sguardi sul mondo neoliberale, a cura di Javier González Díez, Stefano Pratesi e Ana Cristina Vargas, Edizioni Novalogos, Aprilia, 2014] dedicato allo studio dell’(in)sicurezza da diversi punti di vista. Il volume raccoglie contributi di giovani studiosi provenienti da ambiti di studio molto diversi - antropologi, sociologi, scienziati politici - cui è stato chiesto di interrogarsi sul concetto partendo dalla loro prospettiva disciplinare.

Iniziamo da una precisazione importante su come affrontare il concetto di (in)sicurezza. La varietà di casi e modalità attraverso cui la riconosciamo ci spinge a contemplarla non come una realtà ontologica oggettivamente riconoscibile, ma piuttosto come un qualcosa che un attore sociale di riferimento – sia esso lo Stato o diversa entità politica o economica –

di volta o in volta sceglie di considerare (in)sicuro. Per fare un esempio preso dal nostro volume, la ricerca delle sociologhe Marianna Filandri e Tania Parisi ci mostra come in Italia la percezione dei gruppi sociali a rischio sia cambiata negli ultimi trent’anni. Negli anni Ottanta a causare allarme sociale erano omosessuali, malati di AIDS e bevitori. A partire dagli anni Novanta però questi gruppi sono considerati sempre meno rischiosi, e ad aumentare la percezione di insicurezza subentrano i mussulmani.

La variabilità del contenuto del concetto ci spinge quindi a focalizzare la nostra attenzione più sulle modalità attraverso cui un qualcosa, di volta in volta, viene ritenuto (in)sicuro. Più che parlare quindi di sicurezza, può essere interessante parlare di processi e discorsi di (in)securitizzazione, ovvero la messa in atto di azioni e dispositivi per creare sicurezza. La questione fondamentale diventa capire chi è che ha il potere di imporre il discorso di securitizzazione attraverso determinate scelte piuttosto che altre. La questione non è secondaria, in quanto già Hobbes diceva che una delle funzioni dello Stato era quella di scegliere le paure oggetto della gente, per potervi porre rimedio e, di conseguenza, trovare legittimità al proprio potere. Lo Stato produce sicurezza ma allo stesso tempo è legittimato da essa, giocando in realtà un ruolo ambivalente. I processi di “securitizzazione” - come evidenziano nel nostro volume le riflessioni dell’antropologo Carlo Capello sulle paure urbane e del sociologo Sandro Busso sull’ambivalente ruolo degli esperti nella gestione dei rischi - appaiono quindi come una condizione in cui le problematiche sociali sono depoliticizzate e in cui si perdono i modelli alternativi per interpretare e affrontare l’ordine sociale.

Una distinzione molto utile delle modalità di securitizzazione è quella che tiene conto in partenza della direzione verso cui si ricerca la sicurezza, verticale piuttosto che orizzontale. Le sicurezze basate sui legami verticali coinvolgono gruppi umani di grandi dimensioni e prevedono un legame diretto fra l’istituzione securitizzante e il singolo individuo; proprio per questo richiedono necessariamente la presenza di un sistema politico centralizzato se non di una vera e propria entità statale. Esse rispondono all’idea di Hobbes di uno Stato forte in grado di esercitare un controllo sui propri soggetti, in virtù dell’idea di sovranità, ma anche a organizzazioni non statali, ma altamente strutturate e gerarchicamente definite:

(IN)SICUREZZE VERTICALI E ORIZZONTALI. SGUARdI SUL MONdO NEOLIBERALE dALLE SCIENZE SOCIALIdi Javier Gonzalez Diez

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Voci - LUGLIO 2015 N. 3 / A.1 20

Antropologia

poteri locali o transnazionali, che trovano fondamento nel controllo militare. Le relazioni di potere, e quindi i processi di securitizzazione, coinvolgono il Sovrano e i suoi sudditi, senza intermediazioni, riguardano sia l’ambito del potere dello Stato e delle relazioni fra gli Stati, che l’ambito, più recente e più opaco, delle grandi corporations della sicurezza e degli eserciti mercenari o paramilitari, che - come evidenzia Stefano Ruzza, politologo internazionalista, nel nostro volume - (auto)rappresentandosi come garanti della sicurezza, possono arrivare a sostituirsi agli Stati, riproducendo modelli spesso violenti, fortemente asimmetrici e gerarchici di esercizio del potere.

Simultaneamente esiste però un secondo tipo di sicurezze, quelle che invece si fondano su legami di solidarietà orizzontali che coinvolgono direttamente le persone fra loro. Queste sicurezze, per forza di cose, si basano su aggregazioni e legami meno estesi, più limitati e circoscritti nello spazio. Tuttavia, quanto perdono in estensione, lo guadagnano in intensità: i legami orizzontali sono sicuramente più densi e vicini alla vita quotidiana e alla dimensione esperienzale delle persone che non quelli verticali, più concentrati su macro-temi più lontani dall’esperienza. Questo tipo di sicurezze non coinvolge dunque lo Stato o entità centralizzate, rispetto alle quali può essere autonomo: il modello che si propone si rifà più al contratto sociale di Rousseau che non al Leviatano di Hobbes, propone una prevalenza di un controllo e di una normatività orizzontale rispetto ai legami verticali del rapporto Sovrano/soggetto. Questo è il tipo di sicurezza che producono istituzioni sociali quali le famiglie o i gruppi di parentela, le comunità di vicinato, i gruppi di mutuo aiuto, ma anche quelli religiosi. Un esempio sono i legami associativi promossi dalle chiese pentecostali in Africa, descritti dall’antropologo Alessandro Gusman nel nostro volume. I pentecostali si inseriscono nel contesto di povertà e crisi create dal neoliberismo, e attraverso la creazione di comunità di piccole-medie dimensioni riescono a coinvolgere sempre più gente, offrendo loro una serie di sicurezze (spirituali, sociali ma anche materiali) che il contesto locale non riesce più a garantire.

E’ quindi interessante vedere come i limiti dei discorsi neoliberali si ritrovino nell’esistenza o persistenza di forme di socializzazione orizzontale alternative a quelle verticali dettate dal mercato. Sebbene le retoriche ufficiali dipingano questi legami come “residui” del passato in procinto di scomparire con la modernizzazione, essi sono invece molto attuali e studiosi quali Pierre Bourdieu li hanno considerate delle vere e proprie “resistenze” al neoliberismo. In generale, qualunque riproposizione di legame sociale collettivo può essere inteso come alternativo al discorso securitizzante egemone. La securitizzazione

neoliberale si fonda infatti su un privilegiare i legami verticali, fra le grandi istituzioni (Stato, mercato, enti sovranazionali o anche locali) e l’individuo, a dispetto dei legami di solidarietà di tipo orizzontale. La persistenza o la ricreazione di questi legami di tipo orizzontale mettono in causa la visione totalitaria della società a solidarietà meccanica, lasciando spazio ad altre forme di aggregazione alternativa.

Lo studio dell’(in)sicurezza neoliberale, non può quindi fare a meno di un contestuale studio delle (in)sicurezze orizzontali che animano il livello locale e che vengono messe in atto direttamente dagli attori sociali. Come abbiamo visto, esse possono assumere tantissime forme, ad iniziare da forme di solidarietà collettiva locale in opposizione alle logiche di mercificazione della società, come nel caso delle società di mutuo soccorso, dei legami familiari forti o delle associazioni di micro-credito e scambio. Possono anche consistere nell’interpretazione locale di strutture politiche calate dall’alto, rese malleabili e adattate a microcosmi locali. Possono infine dare luogo a sistemi di rappresentazione del mondo simbolici e ideologici alternativi a quello dominante, che mettono in discussione la validità e universalità del pensiero neoliberale. Un esempio è il discorso sulla demonizzazione del capitalismo in America Latina, studiato negli anni Ottanta dall’antropologo Michael Taussig, ma anche l’uso della stregoneria descritto nel nostro volume da Andrea Ceriana Mayneri nel caso centrafricano e da me in quello gabonese.

L’apporto dell’antropologia e delle scienze sociali sta in parte nel rintracciare e studiare esempi di queste alternative, in luoghi e momenti molto diversi della storia: dalle associazioni di contadini per la terra in America Latina alle reti di parentela fittizia che si estendono fra gli anziani negli USA, dalle tontines africane alle comunità zapatiste del Chiapas, dal ruolo crescente delle famiglie nell’assistenza sociale nell’Europa mediterranea alle chiese pentecostali frequentate da immigrati, dai movimenti religiosi anti-stregoneria in Africa ai gruppi della galassia No Global presenti in tutto il mondo. La loro importanza risiede nell’essere l’evidenza dei limiti e dell’insufficienza del discorso dominante, nel costituire quindi delle vere e proprie reazioni dal basso in direzione di un’alternativa. Non a caso l’antropologo David Graeber le ha definite “azioni rivoluzionarie”, potenzialmente capaci di cambiare lentamente l’ordine sociale esistente.

Javier Gonzalez DiezAssegnista di Ricerca in Antropologia

Sociale presso il Dipartimento di Culture, Politica e Società dell’Università di Torino

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APPROFONdIMENTI

LUGLIO 2015 N. 3 / A.1 - Voci21

Teatro

Ha il sapore amaro di un giorno di lutto. Strano, vero? La libertà a teatro può avere il sapore amaro, amarissimo di un giorno di lutto. Era il 4 aprile del 2011. Il Medio Oriente e il Nord Africa erano scossi da venti impetuosi e freschi, i venti delle rivoluzioni arabe. Era caldo, come sempre d’aprile in Palestina. Juliano Mer Khamis stava uscendo dal suo teatro nel campo profughi palestinese di Balata, accanto a Jenin. Il Teatro della Libertà, appunto. Era nella sua vecchia Citroen rossa con il suo bambino, piccolissimo, e la babysitter. Un uomo con il passamontagna lo ha chiamato, e freddato con cinque colpi di pistola.

Perché colpire Juliano Mer Khamis? Indicare le ragioni precise di un omicidio, in questo caso, è ben difficile, visto che non c’è ancora una verità giudiziaria e che non più tardi di due mesi fa decine di artisti israeliani e palestinesi chiedevano ancora, alle rispettive autorità, di trovare i responsabili della sua morte. Di certo, comunque, si sa perché Juliano Mer Khamis era un bersaglio per molti. Perché era impossibile incasellarlo dentro i recinti del conflitto: era molte identità assieme, e soprattutto era libero.

Artista, regista teatrale, attivista, Juliano Mer Khamis era il prodotto di una famiglia di intellettuali e di un matrimonio misto. “Al 100% palestinese e al 100% ebreo”, amava ripetere. Figlio di un palestinese cristiano e di una israeliana ebrea. Figlio di Arna Mer, la donna israeliana che per anni, sino alla sua morte, aveva portato nel negletto campo profughi palestinese

di Balata la cultura. E soprattutto il teatro.

L’attività teatrale era stata una vera e propria terapia, per i ragazzi palestinesi (i “figli di Arna”, come recita il titolo di uno struggente documentario post mortem girato proprio da Juliano Mer Khamis in onore di sua madre). Non è un caso che quell’embrione di spazio scenico fosse stato chiamato il Teatro di Pietra, immediato richiamo alla prima intifada del 1987, nota anche come la “intifada delle pietre”. Arte come resistenza, teatro come terapia, spazio scenico come luogo in cui convogliare i sentimenti contrastanti, i conflitti, l’incapacità di comprendere le ingiustizie, il dolore e l’infelicità. Il Teatro di Pietra di Arna Mer, e il Teatro della Libertà che suo figlio Julian Mer Khamis aveva fondato nel 2006, sono stato tutto questo e altro ancora.

Protagonisti, nel caso del teatro di Jenin, sono i ragazzi palestinesi. Dunque ragazzi all’interno d’un conflitto datato, per alcuni versi calcificato. Molti di loro non ce l’hanno fatta, nonostante il teatro: sono morti, sono stati feriti, incarcerati. Non c’è da stupirsi. Non ci dovrebbe essere un mandato salvifico, per il teatro. Questo non significa, comunque, che il teatro non possa assumere una funzione che va oltre l’elemento artistico, o che assieme all’elemento artistico diventi importante, fondamentale per la coscienza di sé. Soprattutto nei ragazzi. Ed è proprio questa funzione complessa che fa paura a molti. Tanta paura che, nel caso di Mer Khamis, era più importante ucciderlo che

IL TEATRO dELLE LIBERTàdi Paola Caridi

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Voci - LUGLIO 2015 N. 3 / A.1 22

Teatro

sopportare il peso culturale del suo teatro, diventato negli anni esemplare, quasi iconico. Oltre i confini del Medio Oriente.

A Jenin, nel campo profughi di Balata, il “teatro della libertà” di Juliano Mer Khamis, così vivace, così autonomo, così libero (appunto) era un pungolo nella società palestinese e nei confronti dell’autorità. Poco lontano da Jenin, stavolta in territorio israeliano, le attività teatrali guidate da Chen Alon fanno altrettanto. Il Teatro polarizzato degli Oppressi è parte integrante della professione di Chen Alon, attivista, ex ufficiale dell’esercito, fondatore di associazioni nonviolente. Attraverso il teatro, il regista e attore israeliano prova non solo a mettere assieme gruppi contrapposti, israeliani e palestinesi, israeliani e rifugiati africani, ma chiede ai partecipanti di entrare nella pelle dell’altro e agire di conseguenza. Essere l’altro, e dunque comprenderlo. Chen Alon arriva a far teatro in luogo a dir poco singolari, come i checkpoint, dove attua non solo e non tanto un teatro-denuncia, ma un teatro che è svelamento di comportamenti ingiusti.

Sono esperienze di confine, osservate da un occhio italiano? O meglio, osservate dall’Italia? La risposta immediata sarebbe sì. Esperienze di confine, in aree di crisi e di conflitto, lontane da noi. Sappiamo bene che non è vero, che il confine e la crisi sono dentro di “noi”, e che altre crisi e altri conflitti e altri confini sono arrivati nei nostri contesti. Sappiamo anche bene che in Italia, soprattutto nelle sue tante periferie, ci sono esperienze incredibili in cui il teatro diviene lo spazio sociale e mentale perché crisi, conflitti, diversità entrino in gioco. E poi vengano sezionate, digerite e rielaborate.

Dove, quando, perché entrano in gioco i diritti a teatro? Sempre. Entrano in gioco sin dalla definizione dello spazio: e cioè sin dalla indicazione di un luogo come uno spazio sociale e artistico, fruibile, comune. È il diritto a partecipare nello spazio comune. Tutto ciò che viene dopo, è la risposta locale, differente a seconda del contesto e delle esigenze. Può essere un teatro che insegna diritti in chiave direttamente pedagogica. Riunisce, cioè, persone, e soprattutto bambini e ragazzi, in uno spazio grande e - perché no - gradevole, per fornire i giusti strumenti: si raccontano i diritti, si interagisce con il pubblico di studenti, si forniscono delle chiavi di lettura. Può essere un teatro che affianca a una offerta di informazione sui diritti un lavoro costante sui diritti attraverso i propri strumenti: le storie rappresentate su un palcoscenico.

È questa la lezione che arriva dai “teatri della libertà”, a Jenin oppure in un altrove ancora anonimo. Recitare in quello spazio è stato, per molti dei ragazzi, costruire la consapevolezza del proprio posto nel mondo,

rinsaldare la propria identità, e avere una coscienza diversa e più approfondita dei diritti, propri o altrui. Lo stesso atto di andare a fare teatro, per alcuni ragazzi, era un’affermazione di libertà e di richiesta di diritti.

Siamo capaci di pensare in modo simile anche in Italia? Di dare coscienza di sé a ragazzi poco più che adolescenti, di aiutarli a riannodare il filo con la propria storia? La sfida non è semplice, ma necessario è pensare che l’impegno folle dei Mer Khamis in giro per il mondo riguardi anche l’Europa, e dunque anche l’Italia. La coscienza dei diritti e la loro difesa - non è banale e superfluo ricordarlo - passa anche da un palcoscenico.

Paola CaridiGiornalista e storica, esperta di sistemi politici del Medio Oriente e Nord Africa

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LUGLIO 2015 N. 3 / A.1 - Voci23

Il 27 maggio 2015 il Nebraska ha abolito per legge la pena di morte.

Il Nebraska diventa così il 19° stato degli Stati Uniti abolizionista. Tuttavia in altri 8 stati esiste una moratoria che porta gli stati in cui non si eseguono pene di morte a 27. A questi vanno aggiunti il territorio di Porto Rico (non ancora stato, ma un referendum lo ha previsto) ed il Distretto di Columbia, ossia la Capitale Washington.

Gli stati mantenitori restano quindi 23. Le leggi federali prevedono per alcuni reati federali la pena di morte, eseguibile anche nei confronti di cittadini residenti in stati in cui la pena di morte è stata abolita.

In Arizona (USA), dopo 23 anni passati nel braccio della morte, il 22 marzo 2015 è stata giudicata innocente e liberata Debra Milke.

Era stata condannata per aver commissionato l’omicidio del figlio, sulla base delle dichiarazioni dell’agente di polizia Armando Saldate.

L’agente aveva dichiarato che la donna aveva confessato a lui di essere stata la mandante dell’omicidio, tuttavia alla confessione non avevano assistito testimoni né esisteva una registrazione.

L’agente Saldate è stato accusato

di corruzione per aver mentito ai giudici in quattro processi.

In Alabama (USA), dopo 30 anni passati nel braccio della morte, il 3 aprile 2015 è stato giudicato innocente e liberato   Anthony Ray Hinton.

Era stato condannato a morte nel 1985 per duplice omicidio, sulla base di una prova indiziaria: che la pistola trovata in casa della madre fosse l’arma del delitto.

Solo recentemente è stato provato che i proiettili ritrovati sulla scena del crimine non potevano essere messi in relazione con la pistola di Hinton.

Nello Zimbabwe, il 14 aprile 2015 la Corte Suprema ha commutato la pena di morte di Bmuvai Machena in una condanna a 20 anni di carcere, dopo 11 anni passati nel braccio della morte.

Nel 2002 Machena aveva accoltellato a morte un parente dopo aver accusato lui ed il figlio di far pascolare il bestiame nel suo campo di cotone.

La pena è stata commutata essendo stato derubricato l’omicidio da volontario a preterintenzionale.

In Cina il 24 aprile 2015 un tribunale ha sospeso la condanna a morte di Li Yan. La donna nel novembre del 2010 aveva ucciso il marito dopo aver subito per anni le sue violenze.

La condanna a morte è stata sospesa essendo state accolte come circostanze attenuanti le violenze subite dalla donna.

La sospensione della pena di morte implica la possibilità, dopo due anni di buona condotta, che la

pena sia commutata in ergastolo, pena ulteriormente riducibile.

In Mississippi (USA) il 4 maggio 2015, dopo oltre 20 anni nel braccio della morte, Willie Manning ha avuto concessa dalla Corte Suprema dello Stato la sospensione della pena di morte comminata per un duplice omicidio avvenuto nel 1992.

La decisione è stata presa dopo che il Dipartimento di Giustizia degli Stati Uniti aveva inviato alcune lettere con cui esprimeva dei dubbi sulle testimonianze di alcuni esperti dell’FBI sul caso.

In Nigeria, il 28 maggio 2015, il Governatore dello Stato del Delta, ha concesso la grazia a Moses Akatugba, insieme ad altri condannati a morte.

Del caso si era attivamente interessata Amnesty International, raccogliendo oltre 500.000 firme di richiesta della grazia.

Moses, che si era sempre dichiarato innocente, era stato condannato nel 2005, quando aveva 16 anni, con l’accusa di rapina a mano armata.

In Pakistan il 9 giugno 2015 è stata sospesa l’esecuzione di Shafqat Hussain, dopo 11 anni nel braccio della morte per la condanna relativa all’uccisione di un bambino di 7 anni quando lui ne aveva 14, nel 2004.

Anziché da un tribunale per i minori, Hussain era stato processato da un tribunale speciale antiterrorismo. Inoltre la sua difesa ha sostenuto che egli sia stato torturato dalla polizia.

BUONE NOTIZIE

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« Quando ho acceso la prima candela di Amnesty avevo in mente un vecchio proverbio cinese: “Meglio accendere una candela che maledire l’oscurità”.

Questo è anche oggi il motto per noi di Amnesty »

(Peter Benenson)

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