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/ON ERA MAI ACCADUTO che Julian Bar-nes e Ian McEwan, due tra gli autori più rappresentativi della moderna letteratura inglese oltre che amici da decenni, concedessero un’intervista

in comune. McEwan ha convinto il collega, di due anni più anziano, ad accompagnarlo in Germania: un’impresa non semplice, dato che dalla morte di sua moglie, Barnes conduce una vita molto ritira-ta. Ma ora eccoli qui, a parlare di infanzia infelice e liberazione attraverso l’arte, della paura del dolo-re, ma anche del conforto che dà il lavoro sulla lin-gua alla ricerca della precisione.

In tedesco esiste il termine “Fremdschämen”, che vuol dire vergognarsi per qualcun altro. Una facoltà irrinunciabile per uno scrittore? Julian Barnes: «Per me la debolezza è più inte-

ressante della forza, l’impotenza più del potere. Non mi interessano molto gli autori che celebrano la forza virile. Perciò apprezzo Hemingway, secon-

do me uno scrittore frainteso. La sua immagine è quella di un gigante barbuto e litigioso; ma in veri-tà la sua cifra è la debolezza dell’essere umano: non il coraggio, ma la viltà».

Ian McEwan: «In certi momenti la vergogna o il pudore rivelano tutto un universo».

Nei vostri libri avete creato entrambi un’infini-tà di personaggi letterari. Queste figure conti-nuano a esistere in qualche piega della vostra coscienza, dove conducono una sorta di vita pro-pria?Barnes: «Un romanziere rammenta i suoi perso-

naggi in maniera assai diversa dai suoi lettori. Que-sti ultimi tendono a vederli come esseri umani rea-li; mentre noi abbiamo memoria del sangue sulle nostre mani quando li abbiamo plasmati — un po’ come un artigiano ricorda le ferite che si è procura-to mentre fabbricava una sedia. Siamo pupari: e dunque sappiamo che si tratta di marionette…».

McEwan: «Quando un autore rilegge un suo vec-chio libro ricorda soprattutto le cose che non ha scritto, quelle che aveva in mente e che poi ha deci-

so di lasciar cadere; e le vie che ha rinunciato a per-correre».

In quest’intervista, come nei vostri incontri coi lettori, siete obbligati in qualche modo a recita-re la parte di un personaggio di nome Julian Bar-nes o Ian McEwan: è una componente essenzia-le del mestiere di scrittore. Per voi è un proble-ma, o fonte di gratificazioni — il piacere di au-to-rappresentarsi? McEwan: «Le rispondo con una frase di Philip

Larkin: “Faccio finta di essere me”. È così che mi sento quando leggo in pubblico. A un certo punto si incomincia a provare disgusto per se stessi, per il suono della propria voce. Alla fine ci si sente come un venditore ambulante di spazzole degli anni Cin-quanta, che suona a tutte le porte sotto l’occhio dif-fidente delle massaie».

Barnes: «Quando mi capita di fare qualche lettu-ra, c’è una frase che appare nella mia testa, come un sottotitolo: “Sei una puttana”. Perché natural-mente molte osservazioni sulla propria opera si im-parano a memoria; e ci si rende conto di aver inseri-

to nel discorso le stesse pause della sera prima, o anche di aver detto questa o quella battuta come se ci fosse venuta in mente in quel preciso momen-to. La gente ride, e si pensa: “È andata bene anche stavolta, puttana che non sei altro!”».

McEwan: «Io mi guarderei bene dall’andare a una mia presentazione! E ieri sera mi ha dato un dannato fastidio vedere Julian tra il pubblico, addi-rittura in prima fila. Ma oggi tocca a lui e mi vendi-cherò: andrò a sedermi direttamente davanti al suo naso!».

Barnes: «Per un autore che abbia una nuova fiamma, il modo più sicuro per mandare tutto a monte è farsi accompagnare da lei in una tournée di letture. C’è il rischio di sentirsi dire: “Se ti ripeti quando parli per due sere di seguito, cosa sarà mai dopo mesi o anni di vita comune?”».

Una domanda a Ian: a undici anni i suoi genitori la mandarono in un collegio dove dormiva in una camerata con altri trenta compagni…McEwan: «No, erano sessanta!».

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$OS’HA IMPARATO SULLA NATURA UMANA, in quelle notti passate insie-me a tanti altri ragazzi?

McEwan: «Il mio collegio era a duemila miglia da casa mia. Ero mol-to legato a mia madre; non averla più vicina è stato un trauma che ho vissuto in silenzio. Per sopravvivere mi sono ritirato completamente in me stesso. Ma non ho pianto, come facevano tanti altri ragazzi».

Li sentiva singhiozzare di notte?McEwan: «Mio Dio, sì. A volte era insopportabile. Io non piangevo.

Non ho mai subìto vessazioni, forse perché ero delicato, pallido e taci-turno. Credo di essere rimasto muto e come irrigidito per tre o quat-tro anni. Solo a sedici anni ho finalmente rialzato la testa. A un tratto ho scoperto che il paesaggio intorno alla scuola era stupendo. E ho in-

cominciato ad amare la musica. E per di più ho scoperto che l’amicizia era possibile». Fino a quel momento non ha avuto amici?McEwan: «Tra gli undici e i sedici anni era come se fossi morto. Quando tornavo a casa, su un ru-

morosissimo DC3 — passando per Londra, Roma, Malta e Tripoli — i miei genitori mi aspettavano all’aeroporto e mi domandavano: “Allora, figliolo, come te la passi?”. E io: “Benissimo”. Non avrei mai confessato che stavo male. Mi sarebbe sembrato un tradimento verso i miei genitori».

Barnes: «Ti obbligavano a scrivere a casa?».McEwan: «Sì, ogni settimana. “Oggi abbiamo giocato a rugby e vinto trentatré a ventisette. Col

tè ci hanno dato le patatine e le uova”. Ecco, queste erano le cose che scrivevo nelle mie lettere». E neppure un accenno al magone, alla nostalgia di casa? McEwan: «Non ero capace. Non riuscivo a confessarlo neppure a me stesso. Negli anni Cinquanta

un bambino non avrebbe mai detto in faccia ai genitori: “Sto male”. Le mie figliastre lo fanno, ma al-lora era diverso. Soprattutto i maschi non lo avrebbero mai fatto».

Era un collegio solo maschile?McEwan: «Sì. Mi è mancata la passione, il batticuore dei primi appuntamenti. Niente ragazze!». Barnes: «Posso chiederti se hai avuto una fase di omosessualità?».McEwan: «A undici anni mi struggevo per un compagno bellissimo, ero sempre alle sue calca-

gna. Pensavo: come sono belli i suoi occhi! Sembrava una ragazza. Ma non è successo niente». Per lei, Julian, la situazione era molto diversa, dato che viveva con i suoi genitori.Barnes: «Sì, stavo a casa coi miei, ma anche la mia scuola era solo maschile. E coi genitori mi com-

portavo più o meno come Ian, anche se li vedevo tutti i giorni. Ho sempre mentito sul mio reale stato d’animo. Dicevo: oggi abbiamo giocato a rugby, è finita trentatré a zero, o cose del genere. Invece mi guardavo bene dal dire che nel Southern Region Train un ragazzo mi aveva quasi tirato giù i cal-zoni. E soprattutto non dicevo che in fondo stavo male. Dei sentimenti non si parlava».

McEwan: «Eravamo molto soli. A pensarci adesso, quasi inconcepibile!».Barnes: «Ma ovviamente c’è una cosa che non dobbiamo dimenticare: tendiamo tutti a travisare

il nostro passato. Lo abbiamo riscritto, prima an-cora di scrivere i nostri romanzi. Nei miei ricordi mi sono sempre visto come un adolescente mol-to riservato, un timido topo di biblioteca. Poi, cinque anni fa ho avuto un incontro con un ex compagno di scuola, che mi ha detto: “A quei tempi eri un tipo fracassone e indisponente”. Può darsi che fossi diverso da come credevo di es-sere. Anche perché la mia scuola era molto com-petitiva: una vera CSBJO�GBDUPSZ, che sfornava giovani universitari».

McEwan: «A me quel clima da CSBJO�GBDUPSZ piaceva molto, soprattutto gli esami scritti».

Barnes: «Perché non conoscevamo altro; non avevamo modo di confrontare le emozioni della competitività con quelle di una cotta per una ra-gazza altrimenti non ci saremmo interessati tanto agli esami. Forse avremmo avuto una vita del tutto diversa, addirittura opposta. E magari poi, a quarant’anni, stufi di bere e fumare can-ne, avremmo scoperto la letteratura».

Lei, Julian, come l’ha scoperta?Barnes: «A scuola, una volta alla settimana

dovevamo vestirci come soldati, con tanto di sti-valoni, cinturone, berretto e bottoni tirati a luci-do. Fu in quel periodo che iniziai a leggere Do-stoevskij, e una cosa mi apparve chiara: tutto quello che ci avevano propinato, la cosiddetta realtà della vita, al confronto con quanto legge-vo era solo un teatrino, uno spettacolo da quat-tro soldi. E non perché le vite dei personaggi di Dostoevskij fossero più interessanti, ma perché erano autentiche, descritte con onestà, a diffe-renza di quanto mi era stato raccontato fino a quel momento. A un tratto ho pensato: i miei ge-nitori non mi hanno detto la verità. E neppure i miei professori, i giornalisti, i politici».

Lei dunque ha trovato più verità nella lettera-tura che nel mondo reale. Ma non pensa che la letteratura sia anche un modo per parafra-sare la realtà, in altri termini che l’autore si nasconda dietro il testo, o tra le sue righe? Barnes: «Se mi chiedono perché scrivo, ho al-

cune risposte standard: il piacere di raccontare, il gusto di lavorare sulla lingua, l’intima comuni-cazione con persone sconosciute. Ma forse esi-stono anche altre ragioni. Da giovane ero incre-dibilmente timido. A poco più di trent’anni lavo-ravo al /FX�4UBUFTNBO, e alle riunioni di reda-zione non riuscivo a dire neanche mezza parola. Ero irrigidito dal terrore che qualcuno mi faces-se una domanda costringendomi a parlare. Mi ero costruito una teoria su misura: mi dicevo che scrivere era la mia salvezza, il mio modo per poter conversare con un gran numero di perso-ne. Ma forse questa teoria era solo un muro di protezione, per nascondere anche a me stesso le vere ragioni che mi inducono a scrivere. Forse non voglio neppure conoscerle. Freud non ha detto che gli autori scrivono per far soldi…?».

McEwan: «… e per farsi amare dalle donne.

Sì, è questo che ha detto. (Pausa, OES). Vorrei raccontare una storia di quando avevo undici o dodici anni. Un insegnante mi mandò nell’uffi-cio del direttore per recapitare qualcosa alla se-gretaria, che però in quel momento non c’era. Sul tavolo vidi un fascicolo intestato a me. Sape-vo che non avrei dovuto aprirlo, ma al tempo stesso mi dicevo: è qualcosa che mi riguarda».

Barnes: «E che hai fatto?».McEwan: «L’ho aperto, col cuore che batteva

a mille… E ho letto queste parole: .D&XBO�JT�BO�JOUJNBUF�CPZ — un ragazzo riservato. Quella pa-rola ha scatenato come un’esplosione nella mia testa. Ero incapace di continuare a leggere, ho fatto un passo indietro da quella scrivania… Poi, in biblioteca, ho cercato sul dizionario la parola JOUJNBUF. Pensavo che si potesse essere in inti-mità con qualcun altro, ma qui il termine era usato come intransitivo. Allora ero in intimità con me stesso? Quella definizione mi ha sconvol-to».

Sul web ho trovato un’interessante descrizio-ne del suo carattere, Ian. Vuole che gliela leg-ga? McEwan: «Sarà forse quello che non sono riu-

scito a leggere nel mio fascicolo?».No, sono frasi scritte a commento di una sua intervista uscita su YouTube, da qualcuno che la descrive come un uomo sensibile, mite e profondamente inquieto per i mali del mon-

do, che però non ha mai vissuto sulla propria pelle. Pensa sia vero?McEwan: «Indubbiamente ha ragione. Chi è

nato in quest’angoletto sicuro che è la nostra Eu-ropa lo deve riconoscere: siamo tra gli scampati. Ci sono state risparmiate indicibili sofferenze».

Barnes: «Eppure penso che in verità tutt’e due abbiamo conosciuto il male nel campo ri-stretto dei rapporti interpersonali».

McEwan: «Però non abbiamo mai subìto mi-nacce, ferite, torture...».

Barnes: «Questo no. E non credo che sarem-mo disposti a scambiare le nostre vite con altre più tormentate e rischiose nella speranza di po-terne distillare qualcosa di meglio in campo let-terario… Ma abbiamo la nostra immaginazione. Partendo da un’esperienza dolorosa, anche se piccola e sopportabile, riusciamo a immaginare una sofferenza infinitamente più grande e lace-rante. È questo il lavoro dello scrittore».

Esiste un dolore troppo grande per farne un’opera letteraria?Barnes: «Ho letto una volta sul /FX�:PSLFS�

un articolo che descriveva i supplizi praticati nell’ex Jugoslavia. Non dimenticherò mai alcu-ni episodi riferiti in quel testo. Anche ora, a di-stanza di tempo, mi fanno troppo orrore per po-terne parlare. Naturalmente uno scrittore do-vrebbe guardare in faccia l’orrore, andare dove accadono questi fatti. Ma io non me la sento di

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permettere che quelle scene prendano possesso della mia mente; e neppure di scaricarle nelle menti di altre persone».

Perché raccontare il male?Barnes: «Flaubert fu accusato di essere osses-

sionato dai mostri e dal male — de Sade, Nero-ne… La sua risposta: questi mostri ci spiegano la storia degli umani. Servono a questo: ci dobbia-mo spiegare la nostra storia».

Shakespeare è unanimamente riconosciuto come il più grande autore teatrale. Esiste l’e-quivalente — un autore che si possa conside-rare come il più grande di tutti i tempi — an-che nel campo della narrativa? Barnes: «Non credo».McEwan: «Il posto è ancora libero, Julian!».Barnes: «Beh, di fatto l’ho occupato io, Ian. So-

lo che non te ne sei accorto. Stavi dormendo quando è successo».

McEwan, il grande Philip Roth, che lei ha co-nosciuto bene quand’era un giovane scritto-re alle prime armi, le ha dato un consiglio: “Scrivi come se i tuoi genitori fossero già mor-ti”. Ora i suoi genitori sono scomparsi, ma ci sono i suoi figli. Così lei si trova ad avere nuo-vi testimoni. Pensa che oggi Roth dovrebbe dirle: “Scrivi come se non avessi figli”?McEwan: «Io questo l’ho sempre fatto: fin

dall’inizio ho scritto come se i miei genitori fos-sero già morti».

Barnes: «Tutti gli scrittori lo fanno. Ma penso che la frase sui genitori vada riferita all’intera cerchia delle persone a noi più vicine: amici, amanti. Il concetto è la necessità di rinunciare a ogni riguardo per entrare in quello che è il pro-cesso essenziale della scrittura».

McEwan: «Quando uscì 1SJNP�BNPSF �VMUJNJ�SJUJ, mio padre era combattuto tra l’orgoglio sfrenato per il fatto che avessi pubblicato un li-bro e l’orrore per il suo contenuto. Prevalse l’or-goglio. Distribuì un gran numero di copie del ro-manzo ai suoi colleghi. Forse avrebbe fatto me-glio a non farlo. In ogni caso ai miei figli mando tutto quello che scrivo. A volte anche a puntate, prima ancora di aver finito il libro».

Ai tempi nostri, come concludere una storia? Oggi il motto di Shakespeare “all’s well that ends well” (tutto è bene quel che finisce be-ne) è considerato reazionario.McEwan: «Il giovane ha conquistato la fan-

ciulla, iniziano i preparativi delle nozze, suona-no le campane della chiesa… Così, si concludono i romanzi di Jane Austen. Ma con quel tipo di feli-cità abbiamo chiuso, a cominciare da George Eliot, se non prima».

Barnes: «Pensiamo entrambi che il nostro compito non sia quello di dispensare consolazio-ni fittizie. In realtà, a me piace non concedere al lettore questo tipo di conforto».

McEwan: «Ma proprio questo, di rimbalzo, può essere in qualche modo consolante».

Barnes: «Citerò un passaggio dalla corrispon-denza tra Flaubert e George Sand, che ha scrit-to: “Io cerco di dare conforto al lettore; tu gli dai la disperazione”. Risposta di Flaubert: “È questo che vedono i miei occhi”. Credo però che si possa trovare un grandissimo conforto in una descri-zione veritiera della disperazione».

McEwan: «Se un romanzo è veramente gran-de ha sempre in sé qualcosa di incoraggiante, per quanto buio sia il mondo che descrive».

Barnes: «Le storie di Ian, come le mie — an-che le più cupe — si concludono invariabilmen-te con una promessa di futuro: ci sarà sempre un dopo. Lasciamo che sia il lettore a decidere se il seguito sarà consolante o meno».

Una volta, durante il lavoro di ricerca per “Miele” McEwan ha detto: “In fondo siamo tutti un po’ spie: nascondiamo le nostre vere motivazioni e cerchiamo di carpire la missio-ne segreta della vita altrui”. Vi è mai capita-to di spiarvi a vicenda — cercare di sapere co-sa l’altro avesse in mente, cosa stesse proget-tando o scrivendo? Barnes: «Sarebbe un modo per poter final-

mente scrivere in McEwaniano. Potrei tentare con un titolo come 4VOEBZ… (alludendo a 4BUVS�EBZ�di McEwan, OES); e tu, Ian, potresti scrive-re *M�CBTTPUUP�EJ�(PFUIF�(riferimento al suo ro-manzo *M�QBQQBHBMMP�EJ�'MBVCFSU, OES). Ma, se-riamente, nel nostro caso lo spionaggio sta tut-to nel leggere i libri l’uno dell’altro. Rubarci le idee non avrebbe senso: siamo scrittori troppo diversi».

McEwan: «Sì, tieniteli pure stretti, i tuoi dan-nati segreti! (ride, OES). Però sarebbe un qua-dretto niente male: io che entro nel mio studio e ti colgo sul fatto mentre stai chino sul mio com-puter…».� 'JSTU�QVCMJTIFE�JO�%JF�;FJU����������

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ARAMENGO D’ASTI

j2UI TENDIAMO all’eter-nità, con garbo». La signora Anna Rosa Nicola indossa un bel camice bianco da primario, però con piccole macchie da decoratore, men-tre da dietro gli oc-chiali spiega cos’è un buon restauro: «Qualcosa che do-vrebbe durare per

sempre ma non troppo. Perché se si esagera, se insomma si va giù pesante, si possono provocare danni peggiori di quelli che si devo-no riparare».

La strada provinciale 458 si attorciglia tra le colline tra Chivasso e Asti, poi si libera con un colpo di coda e s’inerpica verso Aramen-go, un paese che già il nome è tutto un programma. Ma quel modo di dire, anzi di “andare a ramengo” è l’esatto contrario di quanto accade da tre generazioni oltre il bianco cancello, dove viceversa si salva l’arte proprio da quel tragitto desolato. Perché non vada af-fatto a ramengo, perché al contrario ritrovi forme e colori, la gran-de famiglia dei Nicola realizza da più di mezzo secolo il miracolo della mano buona. «Si tratta di riconoscerla, di capirla. E poi di ad-destrarla. La mano artigiana, la mano sapiente. Questo, devo dire, è un nostro prodotto tipico».

Stanze enormi, piene di splendore. Tele, affreschi, icone, sarco-fagi, libri che sembrano sbriciolarsi solo a guardarli sono in attesa

di questi bizzarri medici che vanno e vengono silenziosi, aprono e chiudono porte, passano un panno con la delicatezza di una carez-za a un neonato, sfiorano un quadro col pennello come se il pennel-lo fosse un petalo di rosa. Anni e anni di profondissima leggerezza, e bellezza ovunque. Del tipo più commovente: la bellezza ferita.

«Tutto comincia da mio padre», dice Anna Rosa. È Guido Nicola, il patriarca, l’uomo che studiava da barbiere e si era venduto una mucca per aprire la prima bottega a Torino. Poi conobbe un mer-cante d’arte genovese, il professor Giovanni Borri, che alla vigilia della Seconda guerra mondiale cercava rifugio per le sue tele: il professore trovò quel rifugio ad Aramengo, in mezzo al nulla, e in-tuì nelle dita del giovane barbiere un talento segreto, la sapienza

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della buona mano. Lo fece studiare, gli insegnò i trucchi. «Così, pa-pà e mamma cominciarono a restaurare quadri nel retrobottega della barberia, in via Napione. Io me la ricordo bene quella casa, c’erano tele dappertutto».

Il barbiere non più barbiere tornò ad Aramengo, il suo paese na-tale, e nel 1967 aprì il laboratorio. «Da quella finestrella faceva le serenate a mamma, che aveva solo tredici anni e a sedici andò in sposa». Insieme si amarono l’un l’altra e amarono il nuovo mestie-re. «Papà rubacchiava l’esempio dove poteva, aveva incontrato maestri importanti, e mamma fece tutto il percorso con lui». Gui-do Nicola, specialista in puliture. Maria Luisa Borri, esperta in re-stauro di carte e pergamene. La discendenza comincia così, figli e nipoti che insieme a un genero e a una nuora hanno trasformato gli stanzoni di Aramengo nel più importante centro di restauro pri-vato italiano.

Per capirlo, bisogna partire proprio dall’albero genealogico. Con una premessa: Guido, il patriarca, è scomparso nel gennaio del 2015 a novantatré anni. La moglie Maria Rosa ne ha ottanta-sei, non lavora più ma ha allevato la nidiata dei personaggi che an-diamo a squadernare. Guido e Maria Rosa hanno avuto due figli, Anna Rosa e Gian Luigi. Anna Rosa, cinquantanove anni, è esper-ta di reintegrazione pittorica, e dalla mamma ha ereditato la pas-sione per le carte, inoltre coordina il lavoro dell’intera squadra. Il marito Nicola Pisano è un abile pulitore, si occupa di analisi non in-vasive e di arte orientale. Gian Luigi, sessantotto anni, è speciali-sta in affreschi ma è pure archeologo e restauratore di reperti egi-zi; sua moglie Gianna Tognin, allieva di Guido dal 1967, è esperta di restauro conservativo. Gian Luigi e Gianna hanno avuto due fi-gli, Alessandro e Marco. Alessandro, quarant’anni, architetto, cu-ra la progettazione dei restauri mentre Marco, trentasette, è chi-mico e ha un’azienda per le analisi scientifiche dei beni culturali. Infine, Anna Rosa e Nicola hanno avuto una figlia, Eleonora, venti-quattro anni, che si è specializzata anche lei in pulitura e restauro di carte antiche. «Però il nostro albero ha altri rami importantissi-mi: i dipendenti, molti dei quali sono con noi da una vita», dice An-na Rosa. E racconta la storia di Carletta, cioè Carla Perotto che nel ’74 accompagnò la sorella in prova dal signor Guido, il quale le ave-va dato una tavolozza con i colori e le aveva chiesto di riprodurre certe tinte, come in un gioco. «Però la ragazzina non ci riusciva, le scendevano calde lacrime. A quel punto Carletta, che aveva solo quindici anni, chiese se poteva provare lei. Papà le disse sì, figuria-moci, e Carletta cominciò a mescolare i colori e a pennellare quella sorta di crosta che mio padre usava per la pratica degli allievi, roto-li recuperati al mercatino torinese del Balon. Voglio dire che il ta-lento delle mani è innato, ce l’hai dentro: papà vide quello di Carlet-ta e lei non è più andata via, anche se tra poco purtroppo ci lascerà perché è il tempo della pensione».

Non troppo diverse da così dovevano essere le botteghe dei grandi artisti antichi. «Siamo una struttura anomala», dice Ales-sandro Nicola, l’architetto. «La nostra evoluzione non è stata linea-re, ma ognuno di noi ha capito la sua strada. Mio nonno ci addestra-va giocando come faceva con i cani da tartufi, e alla fine abbiamo trovato il senso del percorso. Io volevo scappare dopo la laurea pre-sa a Barcellona, ma capii presto che tendevo sempre a riprodurre questo luogo e questa vita. Insomma, scappavo per tornare alla partenza. Aveva senso? Così sono rimasto». «Nessuno di noi è sta-to forzato», lo interrompe Anna Rosa. «Certo, tutti si aspettavano che facessimo quello che poi abbiamo fatto, ma se da ragazzini la cosa poteva pesare, poi si è confermata la nostra passione, la no-stra vocazione. Del resto, tra i nostri avi ci sono un alchimista, un pittore, qualche musicista e persino un falsario, si vede che gli in-gredienti nel dna esistevano già tutti». Qui sono passate e passano opere di Picasso e Tiziano, Tintoretto e Michelangelo, Antonello da Messina e Veronese, Guido Reni e Cézanne, ma anche cose me-no preziose, appartenenti non ai musei ma a privati, «ormai la me-tà dei nostri committenti: e meno male, in questo tempo di crisi». Tuttavia la crisi non ha impedito atti di grande generosità, come il restauro a spese della famiglia Nicola di un’opera semidistrutta dal terremoto dell’Aquila nel 2009, *M�SJUSPWBNFOUP�EFMMB�WFSB�DSP�DF di Giulio Cesare Bedeschini. «Era rimasta sotto le macerie della chiesa di San Francesco da Paola, l’avevamo quasi perduta. Inve-ce, dopo un anno è tornata come nuova». Ma non si pensi che lo Sta-to sia sempre in prima linea quando c’è da salvare o recuperare la bellezza. «Spesso, a muoversi sono i privati e gli enti». Anche per questo, e non sembri una diminuzione o un’elemosina, nella pri-ma sala del laboratorio dove ogni sabato si organizzano visite gui-date c’è una cassetta trasparente. “Libera offerta per l’Arte in emergenza” sta scritto, e la parola arte con la maiuscola. «Grazie al-la generosità delle persone abbiamo già restaurato nove capolavo-ri che il terremoto in Abruzzo aveva quasi cancellato». Anche que-sta, in fondo, una “buona mano”. La più buona di tutte.

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-A PRIMA VIGNETTA NACQUE a 3FQVCCMJDB, per caso. «Non so perché me la chiesero, io fino ad allora facevo solo il grafico. Ma c’e-ra lo sciopero dei piloti, e forse non aveva-no foto. Così mi dissero: Massimo, pensaci tu. Disegnai un aeroplano rovesciato, co-me un animale morente: sopra di lui un pi-lota con il fucile in mano che esibiva il suo trofeo abbattuto. Mi ricordo che la vignet-ta fu persino ripresa da 4UBNQB�4FSB». Era il maggio del 1976, e Massimo Bucchi ave-va finalmente incontrato la sua vocazione.

Fino ad allora ci aveva girato intorno senza sapere dove sarebbe ap-prodato: da ragazzo cronista politico all’"WBOUJ� («ma non capivo niente dei consigli comunali che seguivo»), poi un passaggio nelle agenzie di pubblicità, infine l’approdo nell’editoria, come art director alla Mondadori a Verona. Stampa, comunica-zioni, immagini: destino, evidentemente.

Quarant’anni e sedicimila vignette dopo («Ne faccio circa quattrocento l’anno. È un calcolo approssimativo e forse per difetto, vi-ste tutte quelle che scarto»). Bucchi ha deci-so di dare alle stampe un libro definitivo, ap-prodo finale di una vita passata a cercare l’im-magine e la battuta giusta per illuminare con un lampo di intelligenza le nostre giornate. È una summa, un libro conclusivo: «D’ora in poi vorrei dedicarmi ad altro», dice, «magari a scrivere di più. Ma tranquilli, non rinuncerò alla vignetta quotidiana nella pagina dei com-menti».

Sulfureo, geniale, impudente: in questi quarant’anni lo spirito di Bucchi è rimasto lo stesso, tutto il resto è cambiato. Disegnava, ma ha via via abbandonato matita e pennarel-li. Ha inventato un linguaggio e una tecnica che è diventata la sua cifra: navigando nel grande mare della società delle immagini, ne pesca quelle che gli servono, le forza, le elabo-ra e le violenta fino a ottenere l’effetto desiderato. Le potremmo defi-nire collage virtuali. Photoshop e tutti i programmi simili che prolife-rano nel web lo hanno aiutato molto: «Fin troppo, non sai quante pos-sibilità offrono di manipolare un disegno. Faccio infinite versioni, del-le volte passo anche due giorni per trovare quella finale».

L’approdo al colore era inevitabile: per uno che è nato in bianco e ne-ro è un salto in un nuovo universo di possibilità. Questo libro è - per la prima volta - un’esplosione di blu, rossi, gialli eccessivi, lucenti, psiche-delici. Quasi una compensazione dell’humor nero che li accompagna. S’intitola .BQQBNPOEP, ma chiaramente è un mondo che a Bucchi non piace. Soprattutto non gli piace quello che verrà. Tirannosauri, carri armati, bombe che piovono dal cielo e Titanic che affondano si in-seguono in un immaginario che illumina l’apocalisse prossima ventu-ra. Ecco la prima vignetta del libro: la terra è in bilico su una porta soc-chiusa, appena sarà aperta crollerà. La didascalia è una profezia: “In-gresso nel millennio”. «Humor nero? Certo», dice. «Viviamo in un

mondo minaccioso, pericoloso, è impossibile non vederlo. Ricordati che nell’umorismo il protagonista è sempre un perdente. E in questo caso i perdenti siamo noi».

Il ritratto del futuro è caustico: fossero dipinti sui muri delle città questi disegni avrebbero la stessa efficacia dei murales di Banksy. So-no manifesti che in una sola immagine svelano l’evidenza nascosta del nostro mondo: icone contemporanee illuminate di una luce diver-sa e sinistra. In fondo Bucchi è un omeopata: cura la malattia sociale con il suo stesso veleno.

Tutte le vignette sono accompagnate da un titolo che ne racchiude e moltiplica il senso. Un esempio? Tre cowboy pronti al duello in un paesaggio post-nucleare dai colori acidi. Titolo: *M�SJUPSOP�EJ�$IFSOP�#JMM. Fulminante.

E qui affiora l’altra anima di Bucchi, speculare e opposta a quella del pessimista melanconico. Uno spirito ludico, allegro, irriverente: un folletto imprevedibile e lunare, autore di scherzi memorabili, capa-

ce di tutto per amore di una battuta. Chi ci ha lavorato insieme la conosce bene. Bucchi è il joker che rovescia il senso comune con un pic-colo tocco di genio: come la meravigliosa $B�TB�.POESJBO che vedete nella pagina accan-to. La serie dedicata all’arte è sublime: le tre grazie fanno sesso nel letto di Van Gogh, la (JPDPOEB diventa una escort grazie alla dida-scalia che indica il numero di telefono, e infi-ne le improbabili�/P[[F�#FSOJOJ�)PQQFS�dove un uomo dipinto dal pittore americano siede sullo stesso letto di Santa Teresa d’Avila. Sia-mo nel mondo felice dell’assurdo.

Bucchi è un amante dell’arte e naviga da maestro tra le sue visioni. D’altronde uno co-me lui deve avere una memoria visiva mo-struosa. È un collezionista di visioni. «Lo sono davvero: ho un archivio di cinquantamila im-magini. Ma sono troppe: è come non averne nessuna. Anche perché le catalogo in cartelle di cui non capisco più l’ordine e il senso». Dun-que la caccia riparte ogni giorno da zero: pen-sate cosa deve essere disegnare una vignetta

al giorno. Tutti i giorni, tutto il giorno in servizio permanente effetti-vo. «È un lavoro che non finisce mai: hai mandato la vignetta al giorna-le, sei fuori a cena, ma hai un’idea migliore, che fai? Non puoi tenerte-la. Saluti, torni a casa, e mandi l’ultima versione».

La folgorazione arriva quando vuole: Bucchi deve stare lì, sempre sintonizzato, in attesa che precipiti nella sua testa. «È proprio così, all’inizio era come accendere una radio immaginaria e girare la mano-pola fino a quando non arrivava l’ispirazione giusta. Con il tempo qual-cosa è cambiato: ho imparato dove andare a cercare». Si è dato un me-todo: compra una risma di fogli da fotocopia, la fa fascicolare e la usa per appuntare ogni cosa che gli viene in mente. «Ogni tanto torno a quei blocchi, e magari riscopro battute che avevo scartato e che inve-ce hanno assunto un’attualità nuova, insperata». Ne ha raccolti, fino-ra, trenta. Sarebbe bello poterli sfogliare: chissà quante rivelazioni sul nostro oscuro mondo contengono.

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$OME MOLTISSIMI FAN TROPPO MALEDETTAMENTE GIOVANI per aver potuto vivere i concerti del 1966 in tempo reale, il mio primo contatto con il sound di Dylan & the Hawks di allora fu un album semiclandestino chiamato, a seconda dei casi,�*O������5IFSF�8BT, 5IF�3PZBM�"MCFSU�)BMM�$PODFSU o�-PPLJOH�#BDL. Quel-la registrazione di un concerto a Manchester (come si è scoperto poi), pub-blicata nella sua interezza nel 1998 come quarta uscita delle “Bootleg Se-ries” ufficiali della Sony, non era semplicemente incendiaria, sconfinava nell’anarchia. Gruppi di fan contrapposti vennero quasi alle mani in platea, al manifestarsi della violenza della musica. Uno studente di sociologia, di no-me Keith Butler, quasi stramazzò per lo choc prima di tirar fuori un’unica pa-rola “Giuda!”, la sua profetica risposta alla domanda a cui Dylan aveva pre-parato il terreno tutta la serata: “How does it feel? Che ve ne sembraaa?”.

Uscendo infuriato dalla sala per assaporare l’aria primaverile, Butler si ritrovò un microfono sotto il naso e una telecamera portatile puntata in faccia. E di nuovo quella domanda: che le è sembrato? «È un traditore. Vuole una sparatoria. Striscia nelle fogne cercando di guadagnarci su».

Era così in tutti i concerti? Dopo tutto erano passati già dieci mesi (e tanta carta di giornale da distrugge-re un bosco) da quando Dylan aveva lanciato le sue nuove sonorità rock, e a un festival di musica folk nel Rhode Island per di più. Di sicuro la notizia doveva essere arrivata a Manchester. Di certo era arrivata nella redazione londinese del .FMPEZ�.BLFS. Un articolo sul numero del 30 aprile 1966 del celeberrimo settima-nale musicale era intitolato: «Dylan si porta dietro un suo gruppo: gli farà da spalla per metà di ogni concer-to». Chiaro, no? Non per tutti.

Le reazioni virulente di quella serata spinsero una giovane Erica Davies a scrivere una lettera al .FMPEZ�.BLFS, la stessa settimana del concerto di Manchester, «per protestare contro l’atteggiamento di una par-te del pubblico di Dylan. Gridare “traditore” e andarsene perché si è presentato in scena con una chitarra elettrica è infantile. Queste persone evidentemen-te girano con i tappi nelle orecchie, perché negli ulti-mi due album e sette singoli di Dylan c’è sempre sta-ta una chitarra elettrica, e si sapeva già da tempo che si sarebbe portato dietro un gruppo di suppor-to». La Davies era stata al concerto di Cardiff sei gior-ni prima, uno dei primissimi appuntamenti di tutto il tour. E anche lì gli avevano gridato “traditore!”. Evidentemente Manchester non era un caso isola-to. Il pubblico rumoreggiava e si incattiviva sempre di più a ogni concerto, ma l’impeto della musica tra-volgeva tutto davanti a sé e in prima linea c’era Dy-lan, saldo nella consapevolezza di avere la potenza di fuoco necessaria per spuntarla. Erano otto mesi

che Dylan provava con il gruppo prescelto e riadde-strato all’uopo, la bar-band di Toronto (Levon and) the Hawks. Dopo che Levon Helm aveva abbando-nato la nave aveva sperimentato sul campo altri due batteristi prima di optare per Mickey Jones, uno che picchiava duro sui piatti e veniva dalla band di Johnny Rivers: arrivò giusto in tempo per l’i-nizio del tour mondiale a Honolulu, il 9 aprile del 1966. Lo stile “picchiatore” di Mickey diede il giu-sto amalgama al tutto. E dal suo punto di osservazio-ne privilegiato guardò con ammirazione Dylan che tutte le sere, da aprile a maggio, attaccava la presa della sua chitarra direttamente alla corrente dell’i-spirazione.

Mickey Jones: «Nell’intervallo co-minciava a caricarsi. Girava dietro le quinte con la sua chitarra, non vedeva l’ora di uscire sul palco e scatenarsi (…). A volte eravamo tutti ca-ricati al massimo (…). Il no-stro atteggiamento era “Chi se ne fotte del pubblico” (…). Man mano che andava avanti il tour, Bob sembrava divertirsi sempre di più. Appena si mette-va in spalla quella Telecaster ne-ra, era pronto a scatenarsi: saltel-lava su e giù nei camerini, non vedeva l’ora di salire sul palco. C’è da dire che a volte non guardava mai il pubblico quando aveva la chitarra elettrica: suona-va per la band, la sua attenzione era concentrata su di noi». Dovunque fosse concentrata la sua attenzio-

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6NA STRANA FIGURA sale sul palco del Folk Festival di Newport, il luogo dove si raduna il gotha della scena folk “impegnata”. Un mondo che oggi viene rac-

contato in una monumentale raccolta dal grande valore storico intitolato�5IF������-JWF�3FDPSEJOHT in uscita in questi giorni.

La figura indossa una giacca di pelle (una cosa da rocker) e, soprattutto, tiene in mano, una chitarra elettrica (una Fender Stratoca-ster che oggi ha il valore di quasi un milione di dollari), dietro di lui un’intera band. A quel punto una parte del pubblico è già sconcerta-ta. Perché quella strana figura è Bob Dylan, il re della canzone di protesta, e di solito si esibi-sce da solo con una chitarra acustica, come vo-gliono i canoni. Quando attacca una delle sue canzoni più note, .BHHJF�T�'BSN, metà del suo pubblico pensò che si fosse bevuto il cer-vello. Cantava “Non lavorerò più alla fattoria di Maggie/ no, non lavorerò più per la fattoria di Maggie (…). È una vergogna il modo in cui lei mi fa lustrare il pavimento”: il testo era sempre lo stesso ma la gente fischiava. Per i puristi del folk quella musica era una bestem-mia. Tanto che Pete Seeger urlò: “Togliete quella distorsione dalla sua voce! È terribile: se avessi un’ascia taglierei il filo del microfo-no” (tempo dopo però dirà che si riferiva a un problema tecnico e non al tipo di suono).

La cosa più bizzarra era che Bob Dylan, in uno dei suoi tipici impulsi, aveva deciso di passare dall’acustico all’elettrico solo la sera prima e aveva messo in piedi un gruppo racco-gliendo musicisti qua e là con cui aveva prova-to per qualche ora. Joe Boyd, direttore del fe-stival, dichiarò: “Il primo accordo di .BHHJF�T�'BSN fu la cosa più rumorosa che avessimo mai sentito!”. Era il 25 luglio del 1965: una da-ta che sarebbe passata alla storia. Il giorno successivo: la stampa scrisse: “Metà del pub-blico ieri sera è rimasta elettrizzata e l’altra invece folgorata come se l’avessero messa sulla sedia elettrica”.

Quello di Newport non sarebbe stato un ca-so isolato: nel tour che seguì l’anno successi-vo, che verrà definito “il tour che ha cambiato il rock’n’roll per sempre”, la battaglia tra Dy-lan e il pubblico sarà continua e senza esclu-sione di colpi ripetendosi non solo negli Stati Uniti ma anche in Inghilterra. Ed è proprio questo che viene minuziosamente documen-tato, giorno per giorno, concerto dopo concer-to in 5IF������-JWF�3FDPSEJOHT.

È lì che dobbiamo guardare se vogliamo ca-pire il Dylan che dopo aver vinto il premio No-bel non rilascia alcuna dichiarazione, anche se a un giornalista del 5FMFHSBQI l’ineffabile Bob ha poi detto che andrà “sicuramente” al-la premiazione, aggiungendo subito un sur-reale “se sarà possibile”. “Del resto è così che volete che sia Bob Dylan, no? Non vorreste che se ne andasse in giro sorridendo ma che fosse piuttosto scettico sull’intera faccenda”, disse il preveggente Obama dopo un suo con-certo alla Casa Bianca nel 2010. Lo stesso Obama che il 29 maggio 2012 lo premia con la Medal of Freedom, la più alta onorificenza civile americana. Dylan si presenta con gli oc-chiali da sole indossando un improbabile smo-king. Non ride mai. Nemmeno quando Oba-ma fa una battuta a cui tutti ridono mentre lo presenta: “Signore e signori, ecco qui Bob Dy-lan, viene da Hibbing, Minnesota, un posto dove, come dice lui, non potevi essere un ri-belle perché faceva troppo freddo”. Il Presi-dente lo premia, gli dà una pacca sulla spalla a cui lui risponde dandogliene altre due e se ne va. Ecco, se vogliamo capire Dylan, la spie-gazione di tutto era già là, in quella devastan-te versione elettrica di .BHHJF�T�'BSN: “Beh, provo a fare del mio meglio/ per essere come sono,/ ma tutti vogliono che tu/ sia proprio co-me loro./ Cantano mentre tu lavori come uno schiavo/ ed io comincio ad essere stufo./ Non lavorerò più alla fattoria di Maggie”.

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ne, di certo Dylan ci metteva del suo per provo-care il pubblico in alcuni concerti, fra cui quel-lo di Manchester. Rick Saunders, che in quell’occasione faceva parte della sicurezza, ne era convinto. «Il fatto che ci mettesse così tanto ad accordare gli strumenti era un at-to di sfida. Molto calcolato (…). Qualunque

fosse il suo obiettivo, agiva a una veloci-tà molto diversa da quella di tutti gli al-tri, compresa la band». A Manchester gli altri musicisti ormai erano consapevo-li che il loro capitano avrebbe ribaltato qualsiasi animosità reindirizzandola fra il pubblico. Quel giorno di maggio, Dy-lan era di umore particolarmente pro-vocatore. Tutta la fase preparatoria era stata piuttosto agitata: il lungo viaggio in macchina pieno di curve e tornanti attraverso la brughiera con

Tom Keylock (tuttofare di Dylan, OES) al volante, dopo una notte quasi del tutto

insonne a Sheffield; un prolungato sound-check per trovare le sonorità giuste per il tecnico della Columbia che la sera pri-

ma aveva fatto un pasticcio con la registra-

zione; una litigata con il direttore della sala concer-ti quando il manager Al Grossman aveva chiesto di togliere le prime tre file per far posto alle attrezza-ture di registrazione ultimo modello; e un pubblico che già dal primo colpo di stivale sul palco per dare il la alla band e attaccare 5FMM�.F �.PNNB aveva co-minciato a esprimersi con la vivacità tipica del Nord dell’Inghilterra.

Per fortuna, Dylan ormai sapeva che catarsi è so-lo un altro modo per dire che non hai più nulla da perdere. La cosa curiosa è che Manchester era il se-condo concerto (dopo quello di Londra) a fare il tut-to esaurito. Perché la domanda di Dylan oltremani-ca non era mai stata così alta. Le vendite erano an-date molto bene anche a Bristol, Cardiff, Birmin-gham, Liverpool, Leicester, Sheffield, Glasgow, Edimburgo e Newcastle, le altre tappe in provincia prima di Parigi e Londra, le due capitali che Dylan aveva messo nel mirino per la conclusione del tour.

Ma a ogni concerto — come attestano le bobine Nagra incise dal tecnico del suono Richard Alder-son in tutti i concerti di maggio — c’era maretta. L’ostilità di alcuni settori del pubblico a volte era im-placabile quanto la sfrenata cavalcata di suoni sguinzagliata dagli Hawks, ma non faceva altro

che dimostrare che anche nella musica rock a ogni azione corrisponde una reazione uguale e contra-ria. E allora preparatevi a essere presi alla sprovvi-sta — come fu preso alla sprovvista Dylan — dalla reazione al suo nuovo stile musicale proprio nel Pae-se in cui aveva un richiamo commerciale compara-bile ai Beatles e ai Rolling Stones (sia gli uni che gli altri andarono ai concerti londinesi e li apprezzaro-no moltissimo). Non che l’uomo nell’occhio del ci-clone fosse disposto ad ammettere che quella rea-zione tanto virulenta lo avesse ferito. Lasciò il com-pito alla sua amica, la cantante blues Dana Gille-spie, che alla fine del tour informò un settimanale di musica inglese.

Dana Gillespie: «È rimasto molto sorpreso dalla reazione del pubblico inglese. Pensava che l’Inghil-terra fosse molto più avanti di qualsiasi altro Paese nella musica pop e non riusciva a capire perché ve-niva contestato e fischiato. La verità è che Bobby ha sempre voluto essere un cantante rock, come Elvis Presley. Quando ha raggiunto la fama come cantan-te folk ha pensato che poteva cambiare strada e far-si accettare anche come cantante rock. Quando gli spettatori hanno contestato e deriso i suoi pezzi rock a Londra, per irritarli ha fatto ancora più il roc-kettaro».

E non fu solo a Londra che Dylan e la sua band fe-cero “ancora più i rockettari” ogni volta che comin-ciavano i fischi, anche se l’aggressività verbale di Dylan in quell’ultimo concerto londinese è quella di un uomo allo stremo, che tenta il tutto per tutto. Per la prima volta, il dramma in multi-cd di quei con-certi europei (e i due concerti australiani registrati direttamente dal sistema di amplificazione) si di-spiega di fronte a orecchie fin qui inconsapevoli, tra-smettendo la netta impressione di ascoltare la sto-ria in corso d’opera: la reazione del pubblico a ogni concerto sovrapposta a una band che suona come se ne andasse della propria vita. E non solo la vita, ma la direzione stessa della musica. Come commen-

tò D. A. Pennebaker ripensando al tour che fu spedi-to a documentare: «Quella musica stava generando tutta la musica altrove. Persone che nemmeno ave-vano visto quei concerti ne ricevevano indiretta-mente qualcosa (…). (Avevano) l’attrattiva cari-smatica che ha sempre l’occhio del ciclone».

Dylan aveva deciso di fronteggiare a muso duro la marea montante di conformismo, almeno da par-te dei critici londinesi, che amavano la metà acusti-ca del concerto e odiavano quella elettrica. Al venti-settesimo pezzo rispose direttamente alle recensio-ni di quel mattino, prima di�*�%PO�U�#FMJFWF�:PV: «Vi prego di scusarmi: mi rendo conto che è musica ru-morosa, ma se a voi non piace, beh, pazienza. Se avete dei suggerimenti per migliorarla, ottimo. Ma il punto è che non è musica inglese quella che state ascoltando (…). Quello che state ascoltando ora è il suono delle canzoni, nient’altro: prendere o lascia-re. A me non importa, dico davvero (…). Se la pensa-te diversamente, non mi metterò a litigare con voi (…). Comunque, questo guarda caso è un pezzo vec-chio, intitolato�*�%PO�U�#FMJFWF�:PV: prima era in quel modo e ora è in questo modo… e va bene così!». E allora mettetevi comodi e fate partire il cd; e co-me disse qualcuno che si trovava vicino a uno dei microfoni del palco alla Free Trade Hall di Manche-ster: «Suonatela a tutto volume!».

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7OLARE A VELOCITÀ SUPERSONICA O FLUTTUARE sopra i grattacieli di Manhattan mentre si cena a lume di candela. Attraversare la città su un bus mangia traf-fico, che ci porta al lavoro in metà tempo, o godersi una gita nello spazio. In quindici, al massimo venti anni, sarà possibile. Non esisteranno più le lun-ghe distanze, né in cielo né in terra. Basteranno tre o quattro ore per trovarsi all’altro capo del mondo. E non si tratta solo del sogno di milioni di viaggiato-ri, vacanzieri e pendolari frustrati. La tecnologia per rivoluzionare lo sposta-mento di persone e merci è già qui. Deve solo essere testata e raffinata. La Gran Bretagna, e l’Europa in generale, sono all’avanguardia. E silenziosa-mente stanno costruendo i velivoli di nuova generazione. Nella tranquilla campagna dell’Oxfordshire la Reactions Engines la rivoluzione l’ha già ini-ziata mettendo a punto Sabre (Synergistic air-breathing rocket engine),

una nuova classe di motore in grado di volare sia nello spazio che nell’atmosfera terrestre. Il governo ingle-se ha investito sulla piccola compagnia settanta milioni di euro e altri dieci li ha aggiunti l’Esa, l’Agenzia spaziale europea. L’aereo che verrà, chiamato Skylon, sarà in grado di lanciare satelliti e passeggeri nello spazio. Oppure di trasportare centinaia di persone da Bruxelles a Sydney in quattro ore, a seimila chilome-tri all’ora, cinque volte la velocità del suono (nella sua versione civile, il Lapcat).

«I velivoli con motore Sabre potranno andare in orbita ma non saranno razzi, saranno aerei e avran-no la stessa affidabilità degli aerei passeggeri di og-gi. Perché i razzi sono costosi ma soprattutto poco si-curi. Il 2 per cento dei lanci finisce male», assicura Mark Thomas, amministratore delegato della Reac-tions Engines. «Entro il 2020 condurremo i test sul nostro motore. In un paio di decenni potremo vede-re il primo volo passeggeri a Mach 5, ovvero a veloci-tà supersonica». Ma a che costo? Secondo Thomas per un biglietto da Superman si pagherà come per

un viaggio transatlantico di oggi in prima classe. La corsa al supersonico è partita da tempo. Ri-

chard Branson della Virgin ha annunciato la part-nership con Boom, che sta costruendo in Colorado un prototipo di jet in grado di volare da Londra a New York in tre ore e mezzo. Sarà una sorta di Rya-nair del volo superveloce: un posto in economy co-sterà 4.500 euro. Altre compagnie, Boeing e Loc-kheed Martin, stanno lavorando su progetti simili.

«Siamo a un bivio cruciale. Nei prossimi anni il trasporto di massa subirà grandi cambiamenti, con velivoli sempre più prestanti e in grado di trasporta-

re un maggior carico pagante», conferma Michele Buonsanti, pilota civile, docente e direttore del Maal, Laboratorio di micromeccanica e materiali per le tecnologie aeronautiche dell’università di Reggio Calabria. «Ormai da anni si studia come vo-lare al di fuori delle quote attuali per raggiungere tra i trenta e i centoventi chilometri di altezza (og-gi si vola a dieci-quindici chilometri). A questa quo-ta non si incontra quasi più resistenza, pertanto si può superare la velocità del suono anche quattro o cinque volte. L’agenzia spaziale italiana sta lavo-rando a un progetto simile e altre organizzazioni in-dustriali del Paese hanno messo a punto dei prototi-pi che vanno in questa direzione. I problemi? Svilup-pare nuovi motori e materiali in grado di avere pre-stazioni termomeccaniche adeguate, visto che a quell’altitudine la temperatura può superare i 1.200 gradi. Ma la ricerca è avviata bene. Tra quin-dici, venti anni si inizieranno a vedere i primi proto-tipi a velocità supersonica», è convinto Buonsanti.

C’è chi, invece, va nella direzione opposta. Airlan-der è il velivolo più grande al mondo. La sua enorme pancia, riempita di elio inerte, è adagiata in un han-gar in Bedfordshire, Inghilterra. Dopo il successo del volo inaugurale, il 24 agosto ha avuto problemi durante l’atterraggio, la cabina di pilotaggio nell’urto ha subìto danni ma i due piloti ne sono usciti indenni. Un piccolo incidente, che secondo gli esperti non compromette la validità del progetto ma deve mettere in guardia sul fronte sicurezza.

Airlander è una via di mezzo tra un aereo, un eli-

cottero e un dirigibile e al massimo può raggiunge-re centocinquanta chilometri orari. I vantaggi? In-quina pochissimo, può stare in quota cinque giorni consecutivi, fluttuare, rimanere sospeso in volo e decollare e atterrare su qualunque superficie.

«Può essere impiegato per la sorveglianza milita-re o civile, per esempio monitorare il flusso di mi-granti nel Mediterraneo. Oppure per esplorare siti petroliferi o trasportare materiale, fino a dieci ton-nellate, in un territorio remoto. Oppure avere un impiego molto più glamour: offrire voli notturni con cena a lume di candela per ammirare Roma o Venezia dall’alto», spiega Chris Daniels della Hy-brid air vehicles, la compagnia che ha costruito l’Airlander anche grazie a due campagne di DSPXE�GVOEJOH di enorme successo.

Ma anche chi non ama stare sulle nuvole avrà le sue opportunità. Dall’Hyperloop, il treno supersoni-co che sfreccia a 1.200 chilometri orari dentro un tu-bo-tunnel (potrebbe partire già tra tre anni), al co-siddetto TUSBEEMJOH�CVT, il bus mangia traffico. Il no-me ufficiale è Teb (Transit elevated bus), arriva dalla Cina, viaggia su rotaie e la sua forma a U rove-sciata permette alle auto di passarvi sotto come se stessero imboccando una galleria mobile. Potrà tra-sportare un gran numero di persone alla volta (1.200) e sarà alimentato a elettricità ed energia solare, quindi non inquina. Il primo test è stato già effettuato. Un altro sprazzo di futuro che cambierà per sempre il modo con cui esploriamo il mondo.

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0TTANTA ANNI FA nessuno immagina-va che avremmo viaggiato da un con-tinente all’altro in aeroplano. Il re dei cieli era lui, il dirigibile. Un gigan-te dell’aria che prendeva il volo lento

e pacioso, trasportando passeggeri per tratte lun-ghissime senza effettuare scali. Anche l’aereo di li-nea iniziava a fare la sua comparsa ma esclusiva-mente su rotte molto brevi. Nel caso di grandi di-stanze era necessario effettuare scali per rifornirsi di carburante. Rispetto al suo diretto concorrente l’aeroplano appariva in netto svantaggio, meno confortevole, poco capiente e ancor meno rassicu-rante. Ma il 6 maggio del 1937, a Lakehurst, un campo d’aviazione a un centinaio di chilometri da New York, accadde qualcosa che segnò la storia dell’aviazione decretando la condanna del dirigibi-le. Nonostante il maltempo, il campo era gremito tra personale di manovra, giornalisti e l’immanca-bile folla di curiosi, tutti con la testa rivolta al cielo. Dalle nuvole stava per sbucare l’Hindenburg, il diri-gibile vanto della Germania nazista. In arrivo da Francoforte dopo un viaggio durato tre giorni il gi-gantesco aeromobile inaugurava una serie di diciot-to voli transoceanici tra Stati Uniti e Germania. I nu-meri dell’Hindenburg rimangono impressionanti anche per i giorni nostri. I cantieri Zeppelin impie-

garono cinque anni per costruirlo. Con i suoi 245 metri di lunghezza, rimane il più grande mezzo vo-lante costruito dall’uomo, un autentico Titanic dei cieli, che con il celebre transatlantico, oltre alle di-mensioni, condivise anche una fine tragica. Duran-te le manovre di attracco infatti il dirigibile si incen-diò accartocciandosi in una palla di fuoco.

La rapidità con cui avvenne l’incidente rese qua-si impossibile individuare le cause del disastro. Mol-to probabilmente l’idrogeno, gas estremamente in-fiammabile con cui era gonfiato l’aeromobile, fu una delle cause determinanti. Tra i giornalisti Her-bert Morrison, cronista dell’emittente 8-4�di Chi-cago, raccontò in diretta la tragedia in una celebre radiocronaca live, che venne trasmessa in tutti gli Stati Uniti. Nonostante la spettacolarità del disa-stro, delle novantasette persone a bordo furono trentacinque a trovare la morte. Ma l’enorme diffu-sione mediatica dell’incidente fece sì che la fiducia del pubblico nel dirigibile crollò, scrivendone la pa-rola fine. Se si esclude il disastro dell’Hindenburg, gli incidenti occorsi ai dirigibili in realtà sono po-chissimi e senza perdite umane. I cieli oggi appar-tengono agli areoplani, ovvio, ma il dirigibile dopo quasi un secolo di esilio sta per tornare. Iniziate a guardare in alto.

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i/ON SOLTANTO IL VINO CANTA/ ANCHE L’OLIO canta/ vive in noi con la sua luce matura/ e tra i beni della terra/ io seleziono, olio/ la tua inesauribile pace, la tua es-senza verde/ il tuo ricolmo tesoro/ che discende dal-le sorgenti dell’ulivo”. Nei giorni della raccolta delle olive, la chiusura di 0EF�BMM�PMJP di Pablo Neruda è musica alle orecchie degli oleicoltori, sempre in bili-co tra i prezzi stracciati delle produzioni estere e gli accidenti stagionali che strozzano le rese.

Ma non di solo extravergine vive la dispensa degli oli, ricchissima di alter ego vegetali di ogni tipologia e provenienza: dalle bottigliette preziose col conta-

gocce ai liquidi inodori e insapori, venduti in bidoni di plastica come nemmeno la benzina. C’è olio e olio, insomma, e soprattutto c’è modo e modo di ricavarlo. Distinguere le varietà di semi e bacche è importan-te. La colza contiene una sostanza tossica che è indispensabile ridurre ai minimi termini. Palma e cocco esibiscono svariate percentuali (e tipologie) di acidi grassi saturi — non proprio in linea con i princìpi del-la dieta mediterranea. Per quanto riguarda l’olio di oliva, da non confondere con l’extravergine, le sue vir-tù sono ridotte ai minimi termini. Ma più del seme potè la sua lavorazione. Esempio d’obbligo, la famige-rata palma che contrappone da mesi consumatori e industria alimentare. Deforestazione selvaggia e de-rivati del glicerolo hanno azzerato la popolarità dell’olio derivato ben più del contenuto di grassi saturi, equiparabile a burro e lardo. Si contano sulle dita di una mano le aziende — Greenpeace ha messo in cima alla lista italiana la Ferrero — associate al Poig (Palm Oil Innovation Group), che certifica re-sponsabilità ambientale, condivisione con comuni-tà locali, integrità aziendale e di prodotto.

Per quanto riguarda la salubrità, l’adozione di processi meno violenti di raffinazione — “mitiga-ti” al di sotto degli abituali 200°C — dovrebbe far rientrare l’olio negli standard di sicurezza fissati dall’Efsa(European Food Safety Authority).

Certo, le produzioni virtuose esistono. Da cin-que anni, Slow Food sostiene il Presidio dell’olio di palma artigianale della Guinea Bissau, prodotto con frutti di palme selvatiche, in perfetta armonia con ambiente, tutela delle foreste e cultura locale, mentre Terra Madre annovera tra le sue comunità del cibo i brasiliani�2VJMPNCPMBT, produttori di olio di palma lavorato manualmente e utilizzato grez-zo, denso, di un colore rosso scuro, a testimoniare

la ricchezza in antiossidanti che bilanciano i grassi saturi.

Il guaio è che l’olio di palma prodotto industrial-mente non ha rivali nei costi e nella reperibilità. Co-me se non bastasse, questo tipo di grassi vegetali è facile da gestire, non si deteriora e semplifica assai i processi produttivi, ovvero l’esatto contrario di extravergine, germe di grano, semi di lino, burro di cacao... Toglierlo dalle linee produttive costa moltissimo in termini economici e organizzativi. Soprattutto occorre capire in cambio di cosa.

Le parole contano. Difficile trovare scritte in eti-chetta le fasi del processo di raffinazione: estrazio-ne coi solventi, degommazione, deacidificazione, decolorazione, deodorazione. Se invece leggete “estratto meccanicamente”, tirate un sospiro di sollievo e addentate a cuor leggero i vostri biscotti preferiti.

- essare le scarole, raffreddarle in acqua e ghiaccio, passarle nell’estrattore (meglio della centrifuga) e nel mixer con l’olio. Montare uova e zucchero, incor-

porare la farina setacciata insieme al lievito, alternando con il latte tiepido (40 °C), aggiungere la scarola e il sale Maldon. Cuocere venti minuti a 170 °C su una placca fode-rata di carta da forno. Cuocere le verdure in una miscela pari di acqua e aceto, leggermente salata, raffreddare su un vassoio. In un’altra casseruola scottare lo stoc-cafisso, raffreddare e condire con olio e sale. Ta-gliare la madeleine in piccoli rettangoli. Su ognuno, adagiare l’insalata di stoccafisso e guarnire con le verdure, i datterini, i pomodo-ri, foglie di scarola bianche e un filo d’extra-vergine.

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PER LA MADELEINE:

125 G. DI UOVA INTERE; 100 G. DI ZUCCHERO; 13 G. DI LIEVITO IN POLVERE

200 G. DI LATTE; 186 G. DI OLIO EXTRAVERGINE

130 G. DI ESTRATTO DI SCAROLA; 6 G. DI SALE MALDON

PER L’INSALATA:

250 G. DI STOCCAFISSO; 1 CAROTA; 1 PEPERONE ROSSO; 1 PEPERONE GIALLO

MEZZA COSTA DI SEDANO; 1 CAVOLFIORE; 2 DATTERINI GIALLI; 2 POMODORI

RAMATI; 80 G. OLIVE DI GAETA DENOCCIOLATE;1 BOTTIGLIA DI ACETO DI VINO

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"FINE GENNAIO MIO PADRE prepa-

rava i due contenitori di

zinco muniti di rubinetto.

Venivano svuotati del

liquido rimasto sul fondo,

travasato in modo accurato in bottiglie

di vetro, e quindi asciugati con pezze

pulite, poi posti nel baule della

macchina. Partiva diretto in Umbria, a

Torciano, un piccolo comune del

perugino, dove abitava il proprietario di

un negozio di vernici e colori, cliente

delle ditte di mio padre, e nel tempo

diventato suo amico: l’uomo dell’olio.

Due bidoni significavano trenta litri di

liquido giallo che irrorava pastasciutte,

insalate, pietanze, arrosti e altre vivande

che mia madre e mia nonna portavano

in tavola. Arrivavamo a fine stagione,

all’inverno successivo, suggendo a quei

litri di nettare che rendevano buona

ogni cosa che toccavano. Siamo sempre

stati una famiglia fondata sull’olio.

Come abitanti della pianura,

discendenti delle truppe tartare, degli

antichi longobardi calati dalle steppe

sino alla Pianura Padana con il loro

carico di latte, formaggi, brodi e pappe

di cereali, eravamo senza dubbio dei

traditori. Tutti intorno a noi all’inizio

degli anni Sessanta friggevano e

condivano con burro e strutto. Noi no.

Noi eravamo per l’olio. Non so come sia

iniziata in casa mia questa smodata

passione. Ci sono nato e ne sono

diventato un consumatore abituale.

Anche oggi che mio padre non c’è più, e

la via per Torciano si è interrotta (sono

andato solo una volta, dopo la sua

malattia a rifornirmi dell’olio con le sue

taniche), continuo con piccole latte da

cinque litri la raccolta dell’olio. Ho

molteplici fornitori, dalla Puglia alla

Toscana, dalla Liguria alla Sicilia.

Varietà di olio dai profumi e dai sapori

diversi, tanti quanti sono i luoghi dove

crescono i preziosi ulivi. Con il

cambiamento climatico ora l’olivo sale al

nord, quasi come la palma di Sciascia, un

metro all’anno o forse più. I longobardi

sono un retaggio del passato,

nonostante le reminescenze leghiste, e

le vie del latte raccontate dal mio

maestro, Piero Camporesi, si sono

trasformate: il liquido bianco arriva in

autobotti dalla Danimarca e dalla

Germania per produrre formaggio e

burro nelle latterie della Padania.

Mentre sul fronte opposto, dalle rive

meridionali dell’olio, salgono le olive del

Mediterraneo. Dal Nord Africa e dalla

Grecia giungono ai frantoi del sud per

spremiture non molto locali. Anche l’olio

non è più quello di una volta. Tuttavia

per averlo sborso cifre ragguardevoli,

ma non mi pento mai. Quando lo verso

sulle insalatine dell’orto è come un canto

che sgorga dall’ampolla e rimbalza

goccia a goccia sulle foglie dorando il

piatto. Senza l’olio non potrei vivere.

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ROMA

j6N FILM», DICE PETER GREENAWAY nel foyer del teatro Argentina, «ha tre movimenti: l’idea iniziale, la messa in scena e il mon-taggio. Ogni passaggio ha bisogno di una specifica prepara-zione: la scrittura come punto di partenza, l’arte visiva, la tec-nica che trasforma la serie di immagini in una storia. Io li co-

nosco bene tutti e tre». Nato nel 1942 a Newport, nel Galles, Peter Greenaway è in Italia per accompagnare /JHIUXBUDIJOH, il film ispirato al quadro di Rembrandt conservato al Rijksmuseum di Amsterdam. Che viene presentato dal distributo-re, “Lo Scrittoio”, in maniera non tradizionale, con una mini tournée nei teatri. «Volevo diventare un pittore. Ho una formazione solida, classica, ho frequentato la scuola pubblica inglese e ho imparato quello che c’è da sapere sulle scienze uma-ne. Poi per cinque anni ho studiato arte al college. Infine, quando ho deciso di dedi-carmi al cinema, ho lavorato come montatore. Posso dirlo con cognizione di causa: il ruolo più importante, al cinema, è quello del montatore».

Il suo primo film è del 1982, *�NJTUFSJ�EFM�HJBSEJOP�EJ�$PNQUPO�)PVTF: la musica di Michael Nyman (che collaborerà con lui per altri undici film), il Diciassettesimo secolo (e quelle parrucche e costumi che solo lui riesce ad affrancare dal ridicolo), l’immagine costruita come un quadro, le tavole imbandite, l’ossessione per le vite degli artisti… C’è già tutto. Nel 1987 gira *M�WFOUSF�EFMM�BSDIJUFUUP, storia di un Stourley Kracklite che viene a Roma per allestire, nel Complesso del Vittoriano, una mostra su Étienne-Louis Boullée, visionario archi-tetto settecentesco del quale nessuno dei progetti fu mai realizzato. Convinto che la moglie lo tradisca e lo stia avvelenando, precipita in

un delirio visivo e psichico, cullato da una attualizzata sin-drome di Stendhal. «Roma», dice Greenaway, «è il nocciolo della cultura europea. È stata al centro della storia per tre se-coli e mezzo, nessuna città è stata così importante e così a lun-go. Atene ha avuto un momento di enorme fortuna, ma poi è scomparsa del tutto dal radar della cultura. Ho vissuto qui per un anno, quando giravo il film, ma non parlo italiano e sono solo un turista. Non posso dire niente tranne che ho settantaquattro anni, e sono venuto a Roma la prima volta quando ne avevo tre-dici, e ogni volta vengo sopraffatto dall’emozione». *M�WFOUSF�EFMM�BSDIJUFUUP parla di… «sesso e morte», mi interrompe Gree-naway, «tutta l’arte parla solo di sesso o morte, di cos’altro do-vrebbe parlare? Balzac suggerisce anche il denaro, ma il denaro ci serve a negoziare il sesso, ad allontanare, per quanto è possibile,

la morte. Basta pensare a Shakespeare. L’orgasmo è chiamato piccola morte ed è l’unica cosa che riguarda ognuno di noi. Io non so niente di lei», dice indicandomi, «ma so che morirà e che è nata attraverso un atto sessuale. Tutto il resto è opinabi-le, accidentale: nazionalità, religione, razza…». L’architettura è una sua grande passione. «Lo è, credo sia il rifugio di ogni altra arte. Ma ho la sensazione che ulti-mamente gli architetti, penso a Frank Gehry e Libeskind, abbiano smesso di lavo-rare per la posterità, e si dedichino, come tutti, all’effimero». Crede che anche il ci-nema sia un’arte effimera, che sparirà? «Credo che stia già morendo. Se n’è accor-ta persino Hollywood e sta cercando qualcos’altro. Forse le serie tv sostituiranno il cinema blockbuster, forse l’hanno già fatto». Nella Grecia classica c’erano i teatri, poi sono venute le chiese, il melodramma ha imperversato per secoli e adesso è praticamente morto. Se si esclude la -VMV di Alban Berg e il lavoro di Philip Glass, il Novecento ha decretato la morte dell’opera lirica, sostituita appunto dal cinema. Dopo il cinema verrà sicuramente qualcos’altro, no?». Che cos’è il cinema, secon-do lei? «Non è scrittura. Gli scrittori non dovrebbero occuparsi di cinema, per nes-suna ragione». Vorrei dirgli che l’autore di quello che lui dichiara essere il film più bello della storia, )JSPTIJNB�NPO�BNPVS di Alain Resnais, è Marguerite Duras, ma taccio. Non è facile contraddirlo, è ironico, intelligentissimo, parla un inglese colto contro il quale non è possibile combattere. «Mio nonno», dice, «avrebbe defi-nito il cinema come un grande schermo in fondo a una sala buia, dove siedono mol-te persone una accanto all’altra. Lei lo definirebbe ancora così? No di certo. Avrà in tasca uno smartphone, sul quale può vedere i miei film, io stesso posso spedire il mio lavoro agli amici a Pechino con un gesto, in pochi secondi. Si ricordi: il mezzo è il messaggio. L’arte deve prima di tutto comunicare, compito di un bravo artista è quindi saper immaginare sempre quale sia il modo migliore per comunicare quel-lo che deve». Ma non le fa impressione sapere che si possono vedere i suoi meravi-gliosi film in uno schermo così piccolo, con un audio pessimo, nella distrazione to-tale? «Ovvio che sarebbe meglio schermo gigante, audio perfetto e tutta l’atten-zione dello spettatore. Ma io non voglio perdere tempo a occuparmi di cose che non esistono più». Non è scrittura, non è neanche immagine visto che la si può di-struggere rimpicciolendola in un quadratino da tenere in tasca, e quindi cos’è il ci-nema, chiedo. «Gliel’ho detto: montaggio. Nel 1931 Eisenstein, l’inventore del montaggio cinematografico e forse il più grande regista di tutti i tempi, va in Mes-sico a girare un film sulla rivoluzione. Aveva appena diretto -B�DPSB[[BUB�1PUÑNL�JO, era un regista conosciuto anche in America ma Stalin non lo amava più, era de-luso dai suoi ultimi film. Per dispetto decise che doveva tornare in Unione Sovieti-ca e Eisenstein dovette abbandonare il film. Affidò il girato allo scrittore Upton Sinclair, col patto che lo spedisse a Mosca, dove non arrivò mai. Il film, 2VF�WJWB�.FYJDP� uscì montato dagli americani, ma il regista non lo riconobbe mai. Malgra-do le immagini fossero le sue e anche l’idea iniziale». Nel 2015 Greenaway ha gira-to un film su di lui, &JTFOTUFJO�JO�.FTTJDP. Adesso è impegnato in un progetto che si intitola /JOF�DMBTTJDBM�QBJOUJOHT�SFWJTJUFE, le cui prime tappe sono state un lavoro su -�VMUJNB�$FOB di Leonardo da Vinci e -F�OP[[F�EJ�$BOB di Veronese, sull’isola di San Giorgio a Venezia. Com’è stato tornare a lavorare in Italia? «Complicato, ma è complicato ovunque mettere le mani sui monumenti. La prima reazione è sempre “tieni lontane le tue macchine tecnologiche, abbi rispetto”. Ma l’arte è sempre ri-

voluzione e sperimentazione, o non è arte. Rembrandt lavora in un periodo stori-co, il barocco, fatto di ori, esagerazioni, fastosità. Ma lui veste i personaggi de -B�SPOEB�EJ�OPUUF in abiti contemporanei: è uno choc. È la prima volta che qualcuno osa fare una cosa del genere. -B�SPOEB�EJ�OPUUF è un monumento nazionale per gli olandesi. Dopo la Seconda guerra mondiale gli americani si offrirono di cancellare i loro debiti di guerra in cambio del quadro, ma gli olandesi si opposero. Io abito ad Amsterdam da qualche anno, ma solo dopo moltissima insistenza ho ottenuto i permessi. E la prima notte — lavoravamo di notte per permettere l’accesso agli spettatori — sono stato scortato da tre guardiani, cinque poliziotti e un paio di ca-ni, che sono rimasti tutto il tempo vicino a me. Il giorno dopo sono spariti i cani e qualche poliziotto, la terza sera mi hanno dato le chiavi e sono entrato da solo. I no-

ve quadri su cui ho lavorato — oltre ai citati, (VFSOJDB di Picasso, -BT�.FOJ�OBT di Velázquez, -B�(SBOEF�+BUUF di Seurat, e poi Monet, Pollock e *M�HJVEJ�[JP�VOJWFSTBMF di Michelangelo — sono grandi abbastanza da poter essere

visti da cinquanta spettatori contemporaneamente. Non avrei potuto farlo con -B�(JPDPOEB. Mi serve una folla, un mondo, da animare. Im-magino un sonoro, voci, musica, e degli accadimenti, pioggia, fuoco che sembrano aggredire la tela. E studiando -B�SPOEB�EJ�OPUUF ho sco-perto che è una specie di giallo, che coinvolge i protagonisti e la com-mittenza. Nel quadro è nascosta la storia di una congiura e di un omi-cidio: è il mio Csi del Seicento!». Guardando il suo film mi chiedevo se

sia una storia vera o se si tratti del suo romanzo. Sorride, Greenaway. «Dovrebbe saperlo: la Storia non esiste, esistono solo gli storici».

È chiaro che i suoi eroi sono i pittori. Ma non c’è neanche un regista che le piace? «Certo: Resnais, come dicevo. )JSPTIJNB�NPO�BNPVS e -�BOOP�TDPSTP�B�.BSJFOCBE (scritto da Bioy Casares ma anche questo evito di farlo notare…, OES) sono capolavori. Mi piaceva Lynch e ho ama-to Cronenberg. Ridley Scott sarebbe un regista eccezionale, se non per-desse tempo a Hollywood. Mi è piaciuto -B�HSBOEF�CFMMF[[B di Sorrenti-no, lo trovo un grandissimo film alla Greenaway, non trova anche lei?».

Voleva diventare un pittore. Poi il cinema, la collaborazione con

Michael Nyman e la passione per l’architettura: “Ma ho la sensa-

zione che anche gli architetti, come tutti, ormai si dedichino all’ef-

fimero”. Dopo il nuovo film ispirato alla “Ronda di notte” di Rem-

brandt, “che nasconde un giallo, è il mio Csi del Seicento”, è torna-

to in Italia per un progetto su nove quadri rivisitati, da “L’ultima

cena” di Leonardo al “Giudizio universale” di Michelangelo. Ope-

re di grandi dimensioni perché

“mi serve una folla, un mondo

da animare”. I registi più amati?

“Lynch, Cronenberg e Sorrenti-

no: ‘La grande bellezza’ non vi

sembra un mio lavoro?”

-�"35*45"�1"3-"�40-0�%*�4&440�&�.035& �%*�$04�"-530�%073&##&�1"3-"3& �*0�/0/�40�/*&/5&�%*�-&* �."�40�$)&�.03*3®�&�$)&�μ�/"5"�"553"7&340�6/�"550�4&446"-&��56550�*-�3&450�μ�."5&3*"�01*/"#*-&�&�"$$*%&/5"-&��/";*0/"-*5® �3&-*(*0/& �3";;"y

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