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*L LORO CONVEGNO ERA STATO interrotto da una marcia di protesta e da un allar-me bomba, perciò avevano deciso di riunirsi in segreto. All’insaputa di poli-ziotti e manifestanti, i nazionalisti

bianchi si incontrarono in un albergo del cen-tro di Memphis. Pochi giorni prima il Paese aveva eletto per la prima volta un presidente nero e ora, nel novembre del 2008, decine tra i razzisti più noti a livello mondiale erano deci-si a elaborare una strategia per gli anni a veni-re. “La battaglia per ripristinare un’America bianca comincia ora”, recitava il loro pro-gramma. La stanza era gremita da ex capi del Ku Klux Klan e neonazisti di primo piano, ma uno degli interventi di apertura era stato riservato a un ragazzo della Florida, uno stu-dente universitario che aveva appena com-piuto diciannove anni. Derek Black aveva già un suo programma radiofonico, gestiva un si-to per bambini dedicato al nazionalismo bian-co e aveva vinto un’elezione locale. L’organiz-zatore lo presentò come «la stella del nostro movimento», poi Derek si avvicinò al leggìo. «La strada da percorrere è la politica», disse. «Possiamo infiltrarci. Possiamo riprenderci il Paese».

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j4E UN NERO entrasse alla Ca-sa Bianca sarebbe un ol-traggio, non ci potrem-mo sentire rappresenta-ti. La nostra gente diven-

terebbe pazza: i Padri fondatori avevano pen-sato ad una nazione bianca. È tempo che i bianchi americani si alzino e si battano per i loro interessi e diritti». Sembrava una minac-cia, invece era una promessa. Che si sta avve-rando. Queste parole, pronunciate una setti-mana prima delle elezioni del 2008, mi appar-vero come farneticazioni di una minoranza che ama tenere la bandiera sudista fuori dal-la porta di casa. Ma otto anni dopo hanno con-quistato teste e cuori della maggioranza dell’elettorato repubblicano e trovato un can-didato alla Casa Bianca che le rappresenti.

L’appuntamento era nel parcheggio del “Flanigan’s bar and grill”, a West Palm Bea-ch, Florida, arrivai in anticipo ma Don Black era già lì ad aspettarmi. Mi venne incontro ap-poggiandosi a un bastone, si stava riprenden-do da un ictus che lo aveva colpito tre mesi pri-ma. Accanto a lui il figlio Derek, capelli lun-ghi, rossi, che toccavano le spalle sotto un cap-pello di pelle da cowboy australiano.

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"NNI PRIMA CHE DONALD TRUMP lanciasse una campagna presiden-ziale basata, fra le altre cose, sulla politica della razza, un grup-po di nazionalisti bianchi dichiarati lavorava per rendere possi-bile la sua ascesa allontanando la propria ideologia dal settari-smo radicale e avvicinandola sempre più all’estrema destra dello schieramento conservatore. Molti dei presenti in quell’al-bergo di Memphis si erano trasformati da incappucciati del Klan a suprematisti bianchi e poi a “realisti razziali”, come si autodefinivano, e Derek Black rappresentava un altro passo in quell’evoluzione.

Non usava mai epiteti razziali offensivi. Non propugnava at-ti di violenza o violazioni della legge. Aveva conquistato un seg-

gio nel comitato locale del Partito repubblicano della contea di Palm Beach, Florida, dove Trump stesso aveva una casa, senza mai menzionare il nazionalismo bianco e parlando invece dei disastri prodotti dall’ideologia del politicamente corretto, dalle politiche di discriminazio-ne positiva e dall’immigrazione incontrollata di MBUJOPT.

Black non era solo un leader del razzismo politico, era anche un suo prodotto. Il padre, Don Black, aveva creato 4UPSNGSPOU, primo e principale sito del nazionalismo bianco, con oltre tre-centomila utenti. Sua madre, Chloe, era stata sposata con David Duke, uno dei più famigerati fanatici razziali statunitensi, e Duke era stato il padrino di Derek, tanto che alcuni nazionalisti bianchi avevano preso a chiamarlo “l’erede”.

Ora Derek parlava a Memphis del futuro della loro ideologia. «Quello che voglio è che i Re-pubblicani si approprino del ruolo di Partito bianco». Qualcuno cominciò a battere le mani, e dopo non molto tutti applaudirono. Erano convinti che il nazionalismo bianco stesse per mette-re in moto una rivoluzione. Erano convinti che Derek avrebbe contribuito a guidarla. «Tra alcu-ni anni ripenseremo a questo giorno», disse. «La grande battaglia intellettuale per salvare il popolo bianco è cominciata oggi».

*M�QJDDPMP�EJBWPMPOtto anni dopo, con le presidenziali del

2016, quel futuro immaginato a Memphis si stava infine concretizzando: Donald Trump ritwittava i messaggi dei suprematisti, Hilla-ry Clinton teneva discorsi sull’ascesa dell’o-dio bianco menzionando David Duke, che aveva lanciato la sua campagna per un seg-gio in Senato. Il nazionalismo bianco era riu-scito a occupare il centro della politica, ma una delle persone che meglio conoscevano quell’ideologia ora era lontanissima da quel centro. Derek aveva appena compiuto venti-sette anni e invece di guidare il movimento stava cercando di tirarsi fuori non solo da quello, ma anche da una vita che non riusciva più a capire.

Fin dall’inizio gli avevano insegnato che l’America era un luogo riservato agli europei bianchi e che tutti gli altri prima o poi avreb-bero dovuto andarsene. Gli avevano detto di diffidare delle altre razze, del Governo federa-le, dell’acqua di rubinetto e della cultura pop. I suoi genitori lo avevano ritirato dalla scuola pubblica alla fine della terza elementare,

quando avevano sentito il suo insegnante ne-ro dire BJO�U (forma negativa generica usata nel gergo afroamericano, OES). Derek era uno dei pochi studenti bianchi in una classe prevalentemente di ispanici e haitiani e i suoi genitori decisero che era meglio farlo studia-re a casa. «Ora non subisco più aggressioni da bande di altre razze», scrisse poco tempo do-po, sulla versione per bambini del sito di 4UPSNGSPOU, che aveva realizzato a dieci anni. «Sto imparando a essere fiero di me stesso, della mia famiglia e del mio popolo».

Adesso che studiava a casa, era anche libe-ro di cominciare a viaggiare con suo padre, che per diverse settimane all’anno andava nel profondo Sud per partecipare a convegni di nazionalisti bianchi. Don Black era cresciu-to in Alabama e negli anni Settanta si era uni-to a un gruppo locale chiamato White Youth Alliance, guidato da David Duke, all’epoca sposato con Chloe. Il matrimonio finì e qual-che anno dopo Don e Chloe si rincontrarono, si sposarono e nel 1989 ebbero Derek. Si tra-sferirono nella casa dove Chloe era cresciuta,

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$�ERANO VOLUTI MESI per avere l’appuntamen-to, ma l’occasione era unica per sondare l’u-more di quella parte oscura dell’America che continua a coltivare l’idea della supremazia dei bianchi e che non ha mai digerito la stagio-

ne dei diritti civili, la società multietnica e gli immigrati. So-prattutto alla vigilia di un’elezione che avrebbe portato un afroamericano alla Casa Bianca.

Don Black oggi ha sessantatré anni, ma già allora era la gui-da del più grande movimento del “potere bianco” degli Stati Uniti, con un curriculum perfetto: nato e cresciuto in Alaba-ma, a Birmingham, la città dove quattro bambine nere furono uccise nel 1963 da una bomba piazzata in una chiesa battista; leader del Ku Klux Klan alla fine degli Anni Settanta dove rag-giunse il grado massimo di Gran Dragone; tre anni in una pri-gione federale del Texas per aver tentato un colpo di stato nell’isola caraibica di Dominica; in carcere diventò program-matore di computer, cosa che gli permise poi di immaginare che la galassia del razzismo bianco potesse sbarcare su inter-net; così nel 1995 fondò 4UPSNGSPOU — “Fronte della tempe-sta” — il sito web del nazionalismo bianco.

La sua fissazione è sempre stata di togliere il cappuccio al Ku Klux Klan per renderlo presentabile. Già nel 1974, insieme a David Duke, leader storico del Klan, tentò di trasformarlo in una forza politica: «Fallimmo per colpa della propaganda dei media che avevano screditato il movimento, avevamo la repu-tazione dei violenti e fu impossibile trasformare e rilanciare l’organizzazione. Ma ci rimase la convinzione che bisognava dare alle nostre idee una nuova faccia, legale e presentabile». Così cominciò a guardare al Partito repubblicano: «Non è più tempo per cercare di creare un terzo partito destinato alla marginalità, dobbiamo presentarci ad ogni elezione primaria dei Repubblicani così da imporre i nostri temi nel dibattito, dobbiamo lavorare per creare un nostro gruppo di interesse, per restaurare le tradizioni e i veri valori bianchi».

La prova generale c’era stata nel giugno del 2007, quando il Congresso bocciò la legge di regolarizzazione di milioni di im-migrati illegali voluta da George W. Bush: «Ci mobilitammo al massimo — raccontò — per fare pressioni in ogni collegio su deputati e senatori. Abbiamo vinto perché la maggioranza dei cittadini ha paura che l’America diventi come Haiti. Non esi-ste la possibilità di una reale integrazione: un messicano non può diventare un vero cittadino americano, perché non si può cambiare la natura delle persone». Erano discorsi che avevo sentito nelle radio, sui treni, che ora stavo ascoltando al tavolo di un bar senza finestre dove non entrano mai neri, asiatici o ispanici e dove gli hamburger sono immensi e pieni di salsa. Non avrei mai immaginato di risentirli otto anni dopo durante un dibattito elettorale per la presidenza, che un candidato po-tesse farne il fulcro dei suoi comizi. Donald Trump invece era in ascolto, e prima di tutti si è messo a cavalcare l’onda di cui mi parlava Don Black: «La gente bianca sta mettendo fuori la testa, esce dal bosco in cui si era rifugiata, adesso si sente moti-vata ad alzarsi e a combattere per i suoi interessi. Dobbiamo mobilitarci prima che gli immigrati trasformino quella che era una nazione ricca e stabile in un Paese del Terzo mondo».

Potremmo dire che il peggio si è avverato, che gli spettri del razzismo sono tornati tra noi e che il discorso pubblico negli Stati Uniti si è avvelenato. Una strada che sembra aver imboc-cato tutto l’Occidente, preda di populismi e nazionalismi esa-sperati. Rileggere l’intervista che scrissi su 3FQVCCMJDB�otto anni fa genera sconforto. Ma se l’ho ripresa in mano è perché sulla prima pagina del 8BTIJOHUPO�1PTU di domenica scorsa c’era la storia di Derek, il figlio di Don, il ragazzo con il cappello di pelle che era indicato come il leader predestinato del supre-matismo bianco. Voce della radio di Stormfront, era appena stato eletto nel direttivo dei Repubblicani della contea di Palm Beach e ascoltò il padre con grande attenzione, toccando a ma-lapena le sue patatine. Alla finse aggiunse con voce molto sec-ca: «Se non cambiamo in fretta, entro quarant’anni noi bian-chi saremo una minoranza. Siamo vittime di un genocidio». Mi disse che sarebbe andato all’università, che gli piacevano la storia medievale, i cavalieri e le battaglie. Cosa è successo dopo lo potrete leggere nel grande reportage del 8BTIJOHUPO�1PTU che pubblichiamo qui. E forse tornerete anche voi ad ave-re speranza.

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a West Palm Beach. C’erano degli immigrati guatemaltechi che vivevano in fondo all’isola-to e dei pensionati ebrei che si erano trasferi-ti in un condominio lì vicino. «Usurpatori», li definiva a volte Don.

Durante i loro viaggi Don e Derek dormiva-no sempre da amici del movimento, e Derek ascoltava le loro storie. Di quella volta che a suo padre, all’epoca sedicenne, avevano spa-rato nel petto mentre lavorava per una cam-pagna segregazionista in Georgia. Di quel giorno in cui lui e altri otto volevano salire su una nave carichi di dinamite, armi automati-che e una bandiera nazista: il loro piano, chia-mato “Operazione Cane Rosso”, era impadro-nirsi del minuscolo Stato caraibico di Domini-ca, ma Don era stato scoperto, arrestato e condannato a tre anni di carcere. In prigione aveva imparato un po’ di computer e alla fi-ne, nel 1995, aveva lanciato 4UPSNGSPOU con il motto: “White Pride World Wide”.

Negli anni, il sito cominciò ad attirare estremisti di ogni genere: skinhead, milizia-ni, terroristi e negazionisti. Secondo il Sou-thern Poverty Law Center, organizzazione che monitora i gruppi estremisti, alcuni di quelli che scrivevano post su 4UPSNGSPOU era-no passati all’azione commettendo reati, an-che omicidi. Nel 2008 Don mise al bando epi-teti offensivi, simboli nazisti e minacce di vio-lenza, e Derek rafforzò il rapporto con suo pa-dre diventando il suo più grande alleato ideo-logico. Cominciò a essere intervistato sull’in-citamento all’odio, dalla tv per bambini /JD�LFMPEFPO, da talk show di fascia diurna, dalla )CP e 6TB�5PEBZ. «Il bambino diabolico», lo definiva a volte Don, con orgoglio e affetto. Cominciava a vedere qualcosa di diverso quando guardava suo figlio: non semplice-mente un bambino nato all’interno del movi-mento, ma un leader emergente. Don aspet-tava da quarant’anni un risveglio razziale dei bianchi americani e ora cominciava a pensa-re che quell’adolescente che viveva in casa sua avrebbe potuto fare da catalizzatore. «Aveva tutte le mie qualità senza nessuno dei miei difetti», disse in seguito.

Derek lanciò un programma radiofonico quotidiano. Attraverso la radio, contribuì a diffondere l’idea che era in atto un genocidio bianco, che i bianchi stavano perdendo la lo-ro cultura e le loro tradizioni di fronte all’im-migrazione di massa di individui di altre raz-ze. Poi finì le superiori, si iscrisse a un commu-nity college e si candidò per un seggio nel co-mitato del Partito repubblicano della contea,

battendo il consigliere uscente con il sessan-ta per cento dei voti.

Quindi decise che voleva studiare storia eu-ropea medievale e fece domanda per il New College of Florida, una prestigiosa università con un corso di storia rinomato. «Noi voglia-mo che tu faccia la storia, non che ti limiti a studiarla», gli ricordavano ogni tanto Don e Chloe. Il New College era una delle università più a sinistra di tutto lo Stato — «piena di can-ne e di omosessuali», spiegava Don in radio — e nel movimento c’era chi guardava con perplessità a quella scelta. Una volta, in tra-smissione, un amico chiese a Don se non fos-se preoccupato all’idea di mandare suo figlio in un «focolaio del multiculturalismo», e Don cominciò a ridere. «Se ci sarà qualcuno che verrà influenzato, saranno loro», disse. «Pre-sto tutto il corpo docente e gli studenti sa-pranno chi c’è in mezzo a loro».

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All’inizio all’università non sapevano nul-la di lui, e Derek cercava di fare in modo che continuasse a essere così. Andò a un incontro introduttivo sul tema delle diversità organiz-zato dall’ateneo e ne concluse che il modo più sicuro per farsi ostracizzare là dentro era di-chiararsi un razzista. Decise di non menziona-re il nazionalismo bianco nel campus, alme-no finché non si fosse fatto qualche amico. Le cose che prima lo facevano passare per uno strambo — i capelli rossi lunghi fino alle spal-le, il cappello da cowboy che portava sempre, la passione per le rievocazioni medievali — si incastravano perfettamente con il New Colle-ge, dove le stramberie erano moneta corren-te fra gli ottocento studenti. Forse erano “usurpatori”, come diceva suo padre, ma De-rek li trovava anche piuttosto simpatici, e pian piano passò dal non parlare delle sue convinzioni all’impegnarsi attivamente per nasconderle. Quando un altro studente disse che aveva letto un articolo sulle implicazioni razziste del 4JHOPSF�EFHMJ�BOFMMJ�in un sito chia-mato 4UPSNGSPOU, Derek fece finta di non averne mai sentito parlare. Nel frattempo, quasi tutte le mattine dei giorni feriali usciva dal campus e teneva via telefono il suo show alla radio. Diceva agli amici che erano telefo-nate che regolarmente faceva ai genitori.

Dopo un semestre andò a studiare all’este-ro, in Germania, perché voleva imparare la lingua. Rimase in contatto con il New College anche attraverso un forum online riservato agli studenti. Una sera di aprile del 2011, no-

tò un messaggio che era stato inviato a tutti gli studenti all’1.56. Era stato scritto da uno studente dell’ultimo anno che, facendo una ricerca sui gruppi terroristici, era incappato in un volto noto. «Avete visto quest’uomo?», recitava il messaggio, e sotto quelle parole c’era una foto inconfondibile. I capelli rossi. Il cappello da cowboy. «Derek Black: supremati-sta bianco, conduttore radiofonico… studen-te del New College???», c’era scritto nel mes-saggio. «Come deve reagire la nostra comuni-tà?».

Quando Derek fece ritorno al campus per il nuovo semestre, quel post aveva ricevuto più di mille risposte. Chiese il permesso di vivere al di fuori dello studentato e affittò una stan-za a qualche chilometro di distanza. Alcuni dei suoi amici dell’anno precedente gli scris-sero via email per dirgli che si sentivano tradi-ti ma, per la maggior parte, gli altri studenti lo fissavano o lo ignoravano, anche se sul fo-rum si continuava a parlare di lui. «Forse sta cercando di tirarsi fuori da una vita che non ha scelto». «Lui sceglie di essere un personag-gio pubblico razzista. Noi scegliamo di chia-marlo razzista in pubblico». «Vorrei solamen-te che questo tizio morisse di una morte dolo-rosa, insieme a tutta la sua famiglia. È chiede-re troppo?». Invece di rispondere, Derek leg-geva il forum e lo usava come motivazione per organizzare un convegno di nazionalisti bianchi nell’est del Tennessee. «Vincere argo-mentando: tattiche verbali per chiunque sia bianco e normale», aveva scritto nell’invito.

Un altro studente del New College era ve-nuto a sapere del convegno e ne pubblicò i particolari sul forum, dove pian piano stava emergendo un nuovo approccio. «Ostracizza-re Derek non servirà a niente», scriveva uno studente. «Abbiamo l’occasione di influenza-re uno dei leader del suprematismo bianco in America». «Chi è abbastanza intelligente da pensare a qualcosa che potremmo fare per far cambiare idea a questo tizio?».

Una delle persone che Derek aveva fre-quentato nel primo trimestre ebbe un’idea. Cominciò a leggere 4UPSNGSPOU e ad ascoltare lo show radiofonico di Derek. Poi, alla fine di settembre, gli inviò un sms.

«Sei libero venerdì sera?».

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Matthew Stevenson aveva cominciato a or-ganizzare ogni settimana cene per lo Shab-bat nel suo appartamento all’interno del cam-pus. Era l’unico ebreo ortodosso in un ateneo

dove le infrastrutture per ebrei scarseggiava-no, perciò cominciò a cucinare per un grup-petto di studenti nel suo appartamento tutti i venerdì sera. I suoi ospiti erano per lo più cri-stiani, atei, neri, ispanici, chiunque fosse ab-bastanza aperto di mente da non avere pro-blemi ad ascoltare qualche benedizione in ebraico. Ora, nell’autunno del 2011, aveva in-vitato Derek a unirsi a loro.

Matthew, che portava quasi sempre la kip-pah, aveva una lunga frequentazione con l’antisemitismo, abbastanza da conoscere be-ne il KKK, David Duke e 4UPSNGSPOU. Si rimise a leggere alcuni dei messaggi pubblicati da Derek sul sito dal 2007 al 2008: «Gli ebrei NON sono bianchi»; «Gli ebrei si insinuano furtivamente nelle posizioni di potere per controllare la nostra società»; «Se ne devono andare». Matthew decise che il modo miglio-re per provare a influenzare le idee di Derek non era ignorarlo o affrontarlo, ma semplice-mente coinvolgerlo. «Forse non ha mai passa-to del tempo con un ebreo prima d’ora», ricor-da di aver pensato.

Era la prima volta che Derek riceveva un in-vito da quando era tornato nel campus, per-ciò accettò. Alle cene per lo Shabbat di Mat-thew in certi casi c’erano otto o anche dieci studenti, ma questa volta furono in pochi a presentarsi. «Trattiamolo come chiunque al-tro», raccomandò Matthew agli altri invitati.

Derek si presentò con una bottiglia di vino. Per riguardo nei confronti di Matthew, nessu-no fece allusioni al nazionalismo bianco o al forum. Derek era tranquillo e cordiale. Tornò la settimana dopo e quella dopo ancora fino a quando, dopo alcuni mesi, nessuno si sentì più minacciato. Nelle rare occasioni durante le quali era Derek a guidare la conversazione, si parlava di grammatica araba, o di sport ac-quatici, o delle radici del cristianesimo in epo-ca medievale. Derek dava l’immagine di per-sona brillante e desiderosa di sapere. Chiese a Matthew che cosa ne pensasse di Israele e della Palestina. Entrambi diffidavano ancora l’uno dell’altro: Derek si chiedeva se Mat-thew non stesse cercando di farlo ubriacare per spingerlo a dire qualcosa di offensivo che sarebbe stato riportato sul forum, e Matthew si chiedeva se Derek non stesse cercando di coltivare l’amicizia di un ebreo per mettersi al riparo da eventuali accuse di antisemiti-smo. In ogni caso, i due si presero in simpatia e iniziarono a giocare a biliardo in un bar nei pressi del campus.

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"LCUNI MEMBRI DEL GRUPPO CHE SI RIUNIVA per lo Shabbat iniziaro-no a chiedere a Derek le sue opinioni e lui le chiarì a voce o per email. Disse che nei confronti dell’aborto era favorevole all’au-tonomia di scelta delle donne, era contro la pena di morte, non credeva nella violenza o nel KKK o nel nazismo e nemmeno nel-la supremazia bianca che era un concetto diverso dal nazionali-smo bianco. In una email scrisse che la sua unica preoccupazio-ne era che “l’immigrazione di massa e l’integrazione forzata” potessero sfociare in un genocidio bianco. Disse di credere nei diritti di tutte le razze, pur ritenendo che ciascuna razza avreb-be vissuto meglio nella sua terra d’origine. Poi all’inizio del suo ultimo anno al New College decise, una volta per tutte, di ri-

spondere sul forum. Si sedette a un bar e iniziò a scrivere il suo post. «Mi è stato fatto notare che la gente potrebbe sentirsi impaurita a causa di ciò che è stato detto su di me. Vorrei cerca-re di dare una risposta ufficiale a queste preoccupazioni, in quanto non hanno motivo d’esse-re. Io non sono favorevole all’oppressione di nessuno per questioni legate alla sua razza, i suoi principi, la sua religione, il suo genere, il suo ceto socio-economico o altre cose di questo tipo».

Il post sul forum, che avrebbe dovuto restare all’interno del college, fu fatto arrivare al Sou-thern Poverty Law Center (Splc), che su Derek e altri leader razzisti teneva un file pubblico e che reagì scrivendo direttamente a Derek, chiedendogli spiegazioni. Stava forse sconfessan-do il nazionalismo bianco? «Le tue opinioni adesso divergono parecchio da quello che pensava-no molte persone» diceva la mail. Derek ricevette il messaggio mentre si trovava in Europa per le vacanze invernali. Alloggiava da Duke, che aveva iniziato a mandare in onda il suo show radiofonico da una regione europea nella quale c’erano leggi particolarmente indulgenti nei confronti della libertà di espressione. Derek rispose al Splc dal divano a casa di Duke: «Tutto ciò che ho detto (sul forum) è vero» scrisse. «Credo anche nel nazionalismo bianco. Il mio post e la mia ideologia razziale non sono concetti che si escludono a vicenda».

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In verità, Derek era sempre più confuso in relazione a ciò in cui credeva. Smise di posta-re interventi su 4UPSNGSPOU. Iniziò a inventa-re scuse per non curare più la sua trasmissio-ne radiofonica: si stava preparando per un esame; stava facendo passare le pene dell’in-ferno ai suoi professori liberal. Aveva sempre basato le proprie opinioni sui fatti, ma negli ultimi tempi la sua logica era stata smantella-ta dalle email dei suoi amici del gruppo dello Shabbat. Riceveva da loro link a studi secon-do i quali le disparità di quoziente intellettivo tra le razze potevano essere spiegate da circo-stanze attenuanti, come l’alimentazione pre-natale e le opportunità di studio. Lesse artico-li sul privilegio bianco e sulla sleale rappre-sentazione delle minoranze nei telegiornali. Un amico gli scrisse per email: «Il geNOcidio contro i bianchi è un concetto ingiurioso e umiliante nei confronti dei veri genocidi con-tro gli ebrei, i ruandesi, gli armeni».

«Non odio nessuno per la sua razza o la sua religione» chiarì Derek sul forum. «Non sono un suprematista bianco. Credo che nessun po-polo di nessuna razza, religione o altro avreb-

be dovuto abbandonare la propria terra o es-sere segregato o perdere le sue libertà».

«Derek», gli rispose un amico, «mi sembra che tu sia il rappresentante di un movimento nel quale tu stesso non credi più di tanto».

Durante il suo ultimo anno al New College, Derek frequentò corsi sui testi sacri dell’e-braismo e sul multiculturalismo tedesco, ma per lo più le sue ricerche si concentrarono sull’Europa medievale. È così che imparò che l’Europa occidentale si era costituita non co-me una società di popoli geneticamente supe-riori, ma come un territorio tecnologicamen-te arretrato, che arrancava dietro la cultura islamica. Studiò storia dall’ottavo al dodicesi-mo secolo, cercando di rintracciare le origini dei concetti moderni di razza e di XIJUFOFTT, senza trovarli da nessuna parte. E quindi giunse alla seguente conclusione: «In prati-ca, ce li siamo inventati di sana pianta».

Dopo la laurea, Derek iniziò a prendere in considerazione l’idea di fare una dichiarazio-ne pubblica. Sapeva di non credere più nel na-zionalismo bianco, e pensava di poter prende-re le distanze dal suo passato modificando

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parte del suo nome e andando dalla parte op-posta del paese per frequentare il master. Il suo istinto gli suggeriva di allontanarsi in punta di piedi, ma aveva sempre propugnato pubblicamente le sue idee, senza contare che lasciava dietro di sé trasmissioni radiofoni-che, post su internet, apparizioni televisive.

Quella stessa estate, stava ancora pren-dendo in considerazione il da farsi quando tornò a casa a trovare i suoi genitori. Suo pa-dre stava seguendo l’ascesa del nazionalismo bianco sulla tv via cavo. Ormai, però, tutto ciò suonava ridicolo alle orecchie di Derek.

Quella sera uscì di casa e andò in un bar portandosi dietro il computer, dove iniziò a scrivere una dichiarazione: «Una grande fet-ta della comunità nella quale sono cresciuto crede nel nazionalismo bianco, e i membri della mia famiglia che io rispetto moltissimo, in particolare mio padre, sostengono tale cau-sa con fermezza. Non mi sentivo pronto a ri-schiare di provocare screzi in questi miei rap-porti. Ma dopo avervi meditato a lungo, ho ca-pito che essere sincero nei confronti della mia lenta ma progressiva disaffiliazione dal nazionalismo bianco è nell’interesse di tutte le persone coinvolte. Non posso essere favore-vole a un movimento per il quale non mi è con-cesso stringere amicizia con chi desidero o per il quale la razza del mio prossimo mi impo-ne di considerarlo in un dato modo, o di nutri-re sospetto e diffidenza nei confronti dei suoi successi. Le cose che ho detto e le mie azioni hanno danneggiato persone di colore, di di-scendenza ebraica, attivisti che si adoperano affinché tutti siano trattati equamente. Mi scuso per il male che ho fatto». Proseguì con questo tono per altri paragrafi prima di spedi-re la mail all’Splc, proprio il gruppo che suo padre aveva considerato nemico per qua-rant’anni, aggiungendo: «Pubblicate pure tutto» . Quindi premette il tasto “invio”.

2VFMMB�MFUUFSB�Ò�NJBIl pomeriggio seguente, Don era al compu-

ter a fare ricerche su Google e il nome di De-rek gli apparve nel titolo di un articolo. Da die-ci anni, digitava “Stormfront” e “Derek Black” nella barra delle ricerche più volte a settimana, per monitorare l’ascesa del figlio nel nazionalismo bianco. Il titolo dell’articolo era “Figlio attivista di un importante leader razzista sconfessa il nazionalismo bianco”.

Quando riuscì a telefonare a Derek, ricor-da di avergli detto: «Gli hacker ti hanno ruba-to l’identità». «No, la lettera è mia» rispose

Derek. E subito sentì suo padre chiudere la te-lefonata. Per alcune ore, Don rimase incredu-lo. Forse Derek gli stava giocando un brutto scherzo. Forse Derek credeva ancora nel na-zionalismo bianco ma voleva aver vita facile.

Quella sera, Don si collegò alla bacheca dei messaggi di 4UPSNGSPOU. «Sono sicuro che questa notizia starà circolando ovunque in Rete, quindi inizio da qui» scrisse, postando un link alla lettera di Derek. «Non voglio par-lare con lui. Derek dice di non capire perché ci sentiamo traditi da lui perché ha annunciato i “principi personali” in cui crede ai nostri peg-giori nemici». Per giorni, Don non riuscì a po-stare nient’altro. «È stato l’evento peggiore nella mia vita di adulto».

-B�TJOESPNF�EJ�4UPDDPMNBAlcune settimane dopo Derek tornò a casa

per il compleanno del padre, anche se sua ma-dre e la sua sorellastra gli avevano chiesto di non farsi vedere. «Penso che potrebbero arri-vare a ripudiarmi» scrisse a un amico. Tutta-via, essendo in partenza per la Florida per il master, voleva salutare i suoi. Arrivato a casa della nonna per la festa di compleanno del pa-dre, Derek in seguito avrebbe ricordato la strana sensazione di essere considerato a ma-lapena dalle sue sorellastre. Sua madre era stata cortese, ma gelida. Don aveva cercato di farlo entrare in casa, ma il resto della fami-glia voleva che se ne andasse. Padre e figlio erano saliti in macchina e si erano allontana-ti, dirigendosi prima verso la spiaggia e poi al ristorante. Dopo qualche ora Don concluse che «era sempre il vecchio Derek» e la cosa lo sorprese. Il suo dolore era stato così immenso che si era aspettato di vedere in lui una specie di manifestazione fisica della perdita subìta. Chiese al figlio se stava fingendo di essere cambiato per avere una carriera più facile. Era il suo modo di ribellarsi? Quando Derek smentì, Don citò la teoria nella quale ormai era arrivato a credere, la stessa che David Du-ke aveva postato dopo la pubblicazione della lettera: Sindrome di Stoccolma. Derek sareb-be diventato ostaggio dello schieramento li-beral e avrebbe poi provato empatia per i suoi rapitori. «Molto rassicurante come teo-ria», ricorda di aver detto al padre. «Come posso dimostrarvi che questo è ciò in cui oggi credo davvero?».

Al ristorante Derek cercò di convincere Don per alcune ore. Gli raccontò del privile-gio bianco e dei ripetuti studi scientifici sul razzismo istituzionalizzato. Citò le grandi so-

cietà islamiche che svilupparono l’algebra e avevano preannunciato un’eclissi lunare. Ri-corda anche di aver detto: «Non solo avevo torto, ma ho anche contribuito ad arrecare danni reali». A sua volta Don ricorda di aver ri-sposto: «Non riesco a credere che sto discu-tendo proprio con te, tra tutte le persone pos-sibili, di realtà razziali».

Il ristorante ormai stava per chiudere, e i due non avevano compiuto nessun passo avanti per comprendersi meglio. Derek andò a dormire a casa di sua nonna, si alzò di primo mattino e lasciò il paese in macchina da solo.

$IJ�M�BWSFCCF�NBJ�EFUUP Da allora Derek continuò ogni giorno a fa-

re il possibile per prendere le distanze dal suo passato. Dopo aver completato gli studi e con-seguito il master, iniziò a studiare l’arabo per capire la storia dell’Islam delle origini. Dal giorno della sua defezione non ha più parlato di nazionalismo bianco. Si è invece dedicato con tutto se stesso a recuperare il tempo per-duto e a cercare di conoscere meglio aspetti della cultura pop che un tempo gli era stato imposto di diffamare: gli articoli dei giornali liberal, la musica rap, i film di Hollywood. È arrivato ad ammirare il presidente Obama. Ha deciso di fidarsi del governo degli Stati Uniti. Ha iniziato a bere l’acqua del rubinet-to. Ha fatto vari viaggi a Barcellona, Parigi, Dublino, in Nicaragua e in Marocco, immer-gendosi in quante più culture ha potuto. Ha messo a disposizione di estranei alla ricerca di un alloggio temporaneo la sua camera da letto, l’unica del suo appartamento. Si è senti-to sempre meglio a potersi fidare delle perso-ne, senza pregiudizi o preconcetti, e dopo un po’ ha iniziato a sentirsi completamente di-verso dall’individuo che era stato.

Poi, però, è iniziata la campagna elettorale per le presidenziali del 2016 e all’improvviso il nazionalismo bianco che Derek stava cer-cando di lasciarsi alle spalle è diventato l’ine-ludibile sottinteso costante del dibattito na-zionale sui rifugiati, sull’immigrazione, su Black Lives Matter e sull’elezione stessa.

Alla fine di agosto, Derek ha seguito in tele-visione un comizio di Hillary Clinton durante il quale la candidata ha parlato dell’ascesa del razzismo, spiegando che i suprematisti bianchi non hanno fatto altro che cambiare nome e farsi chiamare nazionalisti bianchi. Ha fatto riferimento a Duke e ha citato il con-cetto di “genocidio bianco” che Derek stesso un tempo aveva contribuito a diffondere e

rendere popolare. Ha raccontato in che modo Trump avesse assunto per la sua campagna un manager che aveva legami con l’“alt-right”, la destra alternativa, e ha detto: «In sostanza, un movimento marginale ha preso il sopravvento sul Partito repubblica-no».

Si trattava del medesimo concetto nel qua-le Derek aveva creduto per così tanti anni del-la sua vita. «È spaventoso sapere che ho con-tribuito a diffondere questa robaccia» ha det-to a un amico del gruppo dello Shabbat.

Alla fine dell’estate, per la prima volta a di-stanza di anni, è andato a far visita ai suoi ge-nitori. In una fase di dibattito pubblico sem-pre più acceso, voleva sentire cosa ne pensa-va suo padre. Si sono seduti in casa e per un po’ hanno parlato dei suoi corsi all’università e del nuovo pastore tedesco di Don. Poi, la lo-ro conversazione ha svoltato di nuovo verso l’ideologia, l’argomento preferito di sempre. Don, che di solito non vota, ha detto che que-sta volta darà il suo pieno sostegno a Trump. Derek ha detto di essersi cimentato con un quiz politico online e di aver scoperto che le sue opinioni collimano al novantasette per cento con quelle di Hillary Clinton.

Don ha detto che le restrizioni imposte all’immigrazione gli paiono un buon punto di partenza. Derek gli ha risposto che in verità crede nell’importanza di autorizzare l’ingres-so a più immigrati, perché ha studiato i van-taggi sociali ed economici legati alla diversi-tà. Don ha pensato che ciò potrebbe sfociare in un genocidio bianco. Derek ha pensato che la razza è un concetto sbagliato in ogni caso.

Sono rimasti uno di fronte all’altro, cercan-do un modo per colmare l’abisso creatosi tra loro. A un solo isolato di distanza c’era la Baia e proprio sull’altra sponda la tenuta nella qua-le Trump ha vissuto e trascorso le vacanze per anni, e dove ha fatto installare un palo al-to ventiquattro metri per farvi sventolare una enorme bandiera americana.

«Chi l’avrebbe mai detto che sarebbe stato proprio Trump a rendere così alla moda que-ste idee?» ha detto Don. E nel momento in cui non erano mai stati così distanti l’uno dall’al-tro su questa affermazione non hanno potuto fare a meno di trovarsi d’accordo.

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1ROBABILMENTE ho disegnato�.BVT a fu-metti perché sapevo che Vladek, mio pa-dre, ci avrebbe capito poco. Potevo fare quello che volevo e lui non poteva met-terci bocca perché era un ambito che gli era totalmente estraneo. Anja, mia ma-dre, credeva che la carriera artistica fos-se un’attività alquanto rispettabile. Pur condividendo le ansie economiche di Vladek non le sembrava così orribile che una persona diventasse creatore di ma-nufatti culturali. E ovviamente quando

mi ha dato mandato di sfruttare in qualche modo i suoi diari di guer-ra ha determinato il tipo di disegnatore che sono diventato. I miei ge-nitori non mi stracciavano i giornalini come invece mi risulta che fa-cessero certi genitori americani. La crociata contro i fumetti che isti-gano i giovani alla delinquenza non li ha neppure sfiorati. Non ne sa-pevano proprio niente.

$PNF�HVBEBHOBSTJ�EB�WJWFSFMia madre guardava con indulgenza alle mie letture sovversive.

Mio padre invece pensava solo: «Perché buttare soldi per certe stupi-daggini?». Siccome non aveva problemi a comprarmi i fumetti di se-conda mano perché costavano meno — parlo di quelli precedenti all’èra Comics Code, l’organo di autocensura degli editori di fumet-ti, molto più interessanti e pericolosi di quelli che trovavo dal giorna-laio — ha avuto una grande influenza sui miei gusti e la mia crescita. Il pragmatismo di mio padre in lotta con l’indole più intellettuale di mia madre hanno dato forma al mio concetto di quello che può esse-re un artista. Il fatto che riuscissi davvero a guadagnarmici da vive-re gli dava un piacere molto astratto. Avevo cominciato già a quindi-ci anni, quando ero riuscito a farmi pagare i miei primi lavori: mi ero procurato una collaborazione come disegnatore freelance su una ri-

vista del Queens, 5IF�-POH�*TMBOE�1PTU. Era una bella cosa; ricevere lo stipendio è una bella co-sa. E quando mi hanno dato un posto fisso alla Topps Bubble Gum mio padre sembrava incre-dibilmente sollevato e avrebbe voluto che me lo tenessi per tutta la vita. Mi hanno assunto per un lavoro estivo quando avevo diciotto anni e gi-ra e rigira il rapporto è durato ventitré anni. A vent’anni, quando ero nel pieno della mia ribel-lione adolescenziale, ricordo di avergli mostra-to un complicato disegno porno che avevo fatto — solo per dargli un dispiacere, immagino. Si in-titolava #MPXJOH�#VCCMFT, gli ho detto: «Guarda qua, l’ho finito proprio adesso». Gli mostro il di-segno — questo succedeva dopo la morte di mia madre — e lui non fa una piega. Dice: «Ah, è così che ti guadagni da vivere?» Punto! Era una reazione stupita, della serie: “Oh, America, le tue strade sono lastricate d’oro. Disegna que-sta roba e lo pagano pure”. Ma non è rimasto sconvolto. Ero abbastanza soddisfatto della

mia vita da disegnatore, perché facevo quello che mi piaceva e senti-vo il bisogno di fare. Stavo cercando di andare avanti a modo mio. Ma non ho mai avuto quel successo popolare che gli avrebbe fatto di-re: «Mio figlio è il creatore di Topolino!» o una frase così. Quel succes-so è arrivato quando mio padre e mia madre non c’erano più.

"MUSP�DIF�.JDLFZ�.PVTFAh, i topi… Per la verità è iniziato tutto con me che cercavo di dise-

gnare gente di colore. Nel 1971 avevo ventitré anni, e facevo parte di una grande comunità di fumettisti underground concentrata a San Francisco, che si era formata alla fine degli anni Sessanta, sulla scia di ;BQ�$PNJY di R. Crumb. Un mio amico venne incaricato di mettere insieme un libro a fumetti intitolato 'VOOZ�"NJOBMT. Io vo-levo realizzare qualcosa che avesse quel taglio pulp melodrammati-co, con tanto di ombre degli avvolgibili sui volti, dove però i perso-naggi avessero sembianze animali, e il protagonista finisse stritola-to da una gigantesca trappola per topi che scatta e gli imprigiona il corpo. Avevo disegnato qualche bozzetto ma mi trovavo a un punto morto quando sono andato a una lezione all’Harpur College, la scuo-

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la da dove mi avevano giustamente buttato fuori un paio di anni pri-ma (ma nel 1995 mi hanno dato la laurea ad honorem). Un regista di cui ero diventato molto amico, Ken Jacobs, stava tenendo un cor-so introduttivo sul cinema. Quel giorno Ken mostrò una serie di car-toni animati razzisti che risalivano all’epoca del muto e ai primi anni del sonoro. I neri erano allegramente rappresentati come subuma-ni, creature scimmiesche dai giganteschi labbroni — macchiette che rubavano polli, rubavano angurie, giocavano a dadi, cantavano e ballavano, insomma il classico armamentario razzista della nostra tradizione fumettistica. Nella stessa lezione mostrò i tipici cartoni Farmer Gray: animali che scorrazzano per l’aia, cose così, e mi pare che abbia addirittura mostrato�4UFBNCPBU�8JMMJF, il primo cartone animato sonoro di Walt Disney. Questo cartone animato era uscito sull’onda del�$BOUBOUF�EJ�KB[[�e in sostanza mostra un Topolino chiassoso, non il Topolino borghese e posato dei decenni successivi. Era un saputello dell’epoca del jazz; lì ho avuto una folgorazione: po-

tevo realizzare un fumetto sull’esperienza dei neri in America, usando uno stile da cartone animato. Potevo disegnare gatti del Ku Klux Klan, la “underground railroad” e qualche sto-ria sul razzismo in America. L’idea mi ha entu-siasmato per un paio di giorni finché non mi so-no reso conto che poteva essere accolta come l’ennesimo esempio di quel luogo comune che Crumb aveva costantemente minato con "OHFM�GPPE�.D4QBEF�e altre intenzionali caricature razziste: il ritorno del represso — il classico im-maginario offensivo che era stato espurgato dalla cultura tradizionale ma che era ancora un retropensiero diffuso — riportato in vita con uno spirito alla Lenny Bruce: «C’è qualcuno che non ho ancora insultato?», con la speranza che a forza di ripeterla, la parola negro non suonas-se più ingiuriosa. In realtà avevo disegnato qualche fumetto imbarazzante e atrocemente maldestro con cui emulavo Crumb mentre cer-cavo di trovare la mia voce come disegnatore

underground, e sarebbe stato molto facile che la mia idea venisse percepita come l’ennesima “parodia” razzista, anche se la infarcivo di Ku Klux Kats e il mio intento era onorevole. Sembrava solo proble-matica.

/PO�IP�BCCFMMJUP�QFS�NBODBO[B�EJ�UFNQPNon sapevo di voler fare un libro sull’Olocausto. Se non altro per

reazione allergica alle mie origini ebraiche. Non so se arriverei a defi-nirlo odio per me stesso (anche se c’è gente che se l’è presa con .BVT per la mia mancanza di zelo sionista), ma da piccolo mi sem-brava che essere ebreo non fosse proprio il massimo — avevo senti-to che uccidevano la gente per questo. Con .BVT sono in qualche mo-do uscito allo scoperto in quanto ebreo (adesso mi sembra ridicolo che qualcuno possa avermi scambiato, che so?, per uno scandina-vo… In fondo sono nato a Stoccolma). Un po’ mi ha consolato il lasci-to dei grandi fumettisti laici ebrei — “Oh, Al Capp in realtà si chiama Alfred Caplin! E Stan Lee è Stanley Lieber! Fico!”.

Nella primissima versione di .BVT, lunga tre pagine, le razze era-no sradicate. Sì, sono topi, sono gatti, ma non siamo nemmeno sicu-ri che siano ebrei o nazisti, a meno di non conoscere la nostra storia. Quindi non c’era la spinta verso quel tipo di accettazione etnico cul-turale che è scontata per certi scrittori ebrei americani, o neri ameri-cani. Evidentemente valeva il vecchio detto: “Scrivi di ciò che sai”. Comunque sia, l’impulso a lavorare su questo tema mi è stato final-mente chiaro solo mentre ero all’opera. Non era nemmeno chiaro che agivo in base al mandato di mia madre, che mi aveva chiesto di fare qualcosa con i suoi quaderni. Sono stati il concime necessario al terreno, ma me ne sono reso conto solo molto tempo dopo. C’erano un sacco di cose che si agitavano nella regione frontale del mio cer-vello. Forse per superare la mia ripugnanza ho cercato di vedere Au-schwitz più chiaramente che potevo. Era un modo per costringere me stesso e gli altri a guardarla. La rappresentazione disumanizza-ta dei forni crematori sembrava adatta al libro, soprattutto perché

era subito seguita da una pagina con la vignet-ta che mi ha dato più filo da torcere: i topi che gridano nelle fosse incendiate. Posporre a quel-la rappresentazione fotografica oggettiva — la soppressione estrema che mostra solo l’archi-tettura — un’immagine più soggettiva aveva senso. Lavorando a quel disegno, rischiavo di cadere nella banalizzazione melodrammatica della sofferenza. Ho fatto del mio meglio per di-segnarla con convinzione, l’ho disegnata deci-ne di volte.

Ormai i fumetti hanno colonizzato l’Olocau-sto, come il cinema. Non me la sento di esprime-re un giudizio, perché potrebbero pensare che voglio «stroncare la concorrenza». Certo il tema è troppo vasto per limitarsi solo al mio libro, ma ho l’impressione che alcuni di questi progetti cerchino di correggere il mio lavoro smussando le parti più spigolose, producendo libri a fumet-ti più didattici, sentimentali, patinati. A questo proposito mi viene in mente una citazione di Pi-

casso sui propri quadri: diceva che non aveva tempo di abbellirli. Do-veva ridurre tutto all’osso. Intorno a me vedo altre opere che cerca-no di abbellire l’argomento. Ciò significa che si rifanno all’idea pate-tica e sentimentale della sofferenza che nobilita, e spesso insistono sulla superiorità delle sofferenze vissute dagli ebrei rispetto ad altri, eccetera. Alcune sembrano suggerire: “Be’, noi disegniamo esseri umani per toglierci di dosso quelle stupide e ingombranti maschere animali”. Ma secondo me sono state proprio quelle maschere a per-mettermi di affrontare cose altrimenti indicibili. .BVT è un libro spi-noso ma appunto per questo è utile come autentico sussidio didatti-co, malgrado l’intento non didattico del mio libro. .BVT in realtà ha solo cercato di insegnarmi qualcosa, raccontando allo stesso tempo una storia ad altre persone. È un libro che comprende e riconosce il piacere del racconto senza assecondarlo, mi auguro.

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(LI EBREI RAPPRESENTATI come topi. I nazisti come gatti. I polacchi come maiali. Art Spiegelman non deve faticare a spiegare come era proprio la propaganda hitleriana a dipingere gli ebrei come immondi parassiti,

portatori di peste e corruzione, intenti a invadere l’Europa. Come oggi qualcuno dipinge gli immigrati.

Animali parlanti erano riusciti da secoli a esprimere con efficacia condizioni umane profonde, cose difficili da dire altrimenti. Da Esopo e Fedro, al poeta e fustigatore della corte del Re Sole, La Fontaine, fino alle oche al macello di Shalom Aleichem. Il Mickey Mouse di Disney ritraeva un’America profonda che c’è ancora. Il “Maus” di Art

Spiegelman, gli fa il verso in yiddish. Ma chi poteva immaginare, trent’anni fa, che una interpretazione a fumetti delle memorie narrate di padre in figlio, in una famiglia ebraica passata per Auschwitz, divenisse un “classico” in tutti i sensi?

Gli avevano dato il Pulitzer già un quarto di secolo fa. Gli avessero dato il Nobel per la letteratura, avrebbe sorpreso meno di quello a Bob Dylan. Pubblicato a puntate, dopo che un editore dopo l’altro l’aveva all’inizio rifiutato, resta un best seller assoluto. Su “Maus” e sull’opera grafica di Spiegelman si continuano a fare mostre (epica Co-Mix, nel 2011 al Pompidou, poi in Germania, e al Jewish Museum di New York), convegni, e anche

polemiche. E poi interviste, tesi di laurea, saggi e articoli a non finire. Fino a quest’ultimo “Metamaus”, definito dall’editore un “Midrash” sull’argomento. In ebraico indica l’insieme delle spiegazioni con cui gli antichi rabbini spaccavano il capello in quattro sui precetti biblici.

“Maus” è essenzialmente un grande racconto. Il disegnatore elabora quel che gli è stato raccontato (o non gli è stato raccontato) in famiglia. Aveva cominciato a “intervistare” il padre nel 1978, dieci anni prima che uscissero le prime strisce. I silenzi più cospicui sono quello della madre, che si era uccisa negli anni ’60. E del fratello maggiore, avvelenato dalla zia, anche lei suicida, per evitargli l’orrore del campo di sterminio.

I silenzi e le reticenze nelle narrazioni delle famiglie ebraiche hanno radici lontane. Ai tempi dell’Inquisizione tradirsi portava al rogo. Per gli scampati allo sterminio nazista, si aggiunse la “vergogna” di essere sopravvissuti.

Itzhak Avraham ben Zeev, nato in Svezia nel 1948, prima che i genitori si trasferissero in America, e prima di diventare Art Spiegelman, aveva ereditato anche un altro gene ebraico: la pulsione a raccontare, narrare storie. “Popolo del libro”, vengono definiti gli ebrei. E cos’altro è la Bibbia, se non un’immane raccolta di storie, racconti, narrazioni? O il corpus infinito di leggende, anche dure e cattive, raccolte dal grande studioso mio omonimo, il rabbino Louis Ginzberg? La più

praticata festa ebraica, la Pasqua, consiste nel riunirsi a tavola e riraccontare, di generazione in generazione, rispondendo alle domande dei più piccoli, l’Esodo dall’Egitto.

È questa la pulsione che spinge Spiegelman a raccogliere il racconto di famiglia sull’inenarrabile, l’indicibile: l’Olocausto. Nel modo in cui sa farlo: disegnando e “sceneggiando” un fumetto che non è affatto per bambini. Senza troppi complessi. Sfidando giudizi e incomprensioni, a cominciare da quelle di suo padre. Gli chiesero se non trovasse di “cattivo gusto” inscenare a fumetti (“comics”, in inglese) una tragedia immane. «Di cattivo gusto era Auschwitz», la secca risposta.

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&RA SEMBRATO A TUTTI IL MOMENTO GIUSTO, quel settembre del 1986. Giorgio, Maurizio, Ugo, Carla, Mauro, Pina. Genovesi, gio-vani, squattrinati, attori da un paio di anni, in testa pensieri di ri-volta e qualche confusa idea di cosa fare da grandi. Partono in furgone per Parigi. A Montreuil, oltre il XX arrondissement, c’è un festival di strada. O la va o la spacca. «Provavamo tutto il gior-no su un palchetto davanti alla Patisserie Molière (che ogni tan-to ci foraggiava di UBSUF�UBUJO…) tra la gente che passava, prima ignara, poi sempre più curiosa», ricorda oggi Giorgio Gallione, regista. «Lì è nato -�JODFSUP�QBMDPTDFOJDP (incerto...infatti…) che è stato il nostro spettacolo passepartout per anni». E Carla Signoris, attrice: «Pina cucinava per sfamare i suoi attori, Gior-

gio in un sacco a pelo troppo piccolo, Ugo in un sacco a pelo troppo grande, Piro l’unico con pigiama e ciabatte, Mauri che si svegliava e addormentava con l’interruttore, Silvestri che per farlo smettere di suonare bisognava abbatterlo a cuscinate. Nascemmo così, per entusia-smo e per un’avventura tutta da scoprire e da inventare».

E sono sono ancora lì, Giorgio Gallione, Maurizio Crozza, Ugo Dighero, Carla Signoris e gli altri, chi più famoso, chi verso altri lidi, chi raccolto ancora intorno al gruppo storico a festeg-giare trent’anni di Teatro dell’Archivolto, considerato non solo uno dei pilastri teatrali di Ge-nova ma in Italia il luogo specializzato dell’incontro tra prosa e letteratura. Dove si crea tea-tro da racconti, romanzi, fumetti e perfino canzoni, dove Daniel Pennac, Stefano Benni, Mi-chele Serra, Francesco Piccolo, Niccolò Ammaniti, Luis Sepúlveda e tanti altri sono passati e diventati autori teatrali.

Pochi luoghi in Italia hanno tratto una ispirazione così feconda dall’incontro tra la scena e la pagina letteraria come l’Archivolto. #MVF�NPPO�nell’86 era tratto da Italo Calvino, 1BOF�CVSSP�F�#VUUFSGMZ dell’anno dopo da Lewis Carroll, «e che la cosa fosse giusta lo capimmo

quando a Roma, ogni sera a fine spettacolo, la gente faceva la coda dopo per complimentarsi

con quegli sconosciuti che eravamo», ricor-da Pina Rando, detta l’Apina «perché vola di qua e di là alla ricerca di “nettare” per man-dare avanti la baracca» e oggi dirige l’Archi-volto con Gallione. «Da molti anni», raccon-ta lui, «succede che vado a cercare il teatro in libreria, negli scaffali della Narrativa o Poesia o Fumetto o Arte o Musica. Il libro, il racconto, la fiaba, la parola letteraria na-sconde un’antologia del teatrabile sconfina-ta». In questo senso l’incontro con Benni, nel ‘92, è decisivo e *M�CBS�TPUUP�JM�NBSF recita-to da Marcello Cesena, Maurizio Crozza, Ugo Dighero, Mauro Pirovano e Carla Signoris — i Broncoviz, all’epoca au-

tentici cult del teatro comico — un successo-ne. «I romanzi “polistrumentali” ed estrover-si di Benni ci hanno regalato la sicurezza per aprirci ad altri autori»: Altan, Serra, Pen-nac, e poi Paul Auster, Fabrizio De André e perfino Don Andrea Gallo cui si dovrebbero aggiungere Roddy Doyle, Ian McEwan, Paul Auster, Italo Calvino, Osvaldo Soriano, Char-les Bukowski, Etgar Keret, Darina Al-Joundi per le trasposizioni teatrali. Dice Altan: «Quando Gallione mi ha proposto di portare in teatro la Pimpa e Kamillo Kromo ero esi-tante. Ci incontrammo e lui mi recitò lo spet-tacolo. Fu così convincente che da lì è inizia-

ta una collaborazione che ormai è lunga e soddisfacente. Oltre agli spettacoli per i bambini c’è stato $VPSJ�QB[[J, sul mio personaggio di Trino e sulle vi-gnette di satira, comprese

quelle di Cipputi, interpretato da Giorgio Scaramuzzino con gran-

de efficacia». E Pennac, ricordando lo spet-tacolo con Bisio del ‘97, osserva : «Quando mi trovavo prigioniero della scrittura a Bel-leville o nell’assoluta solitudine del Ver-cors non avrei mai immaginato che .PO�TJFVS�.BMBVTTÒOF e molti miei romanzi

sarebbero nati un giorno a vita teatrale.

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Perché è proprio questo che fa l’Archivolto: partorisce spettacoli, inventa testi, mette le parole al mondo, dà loro movimenti e colo-ri». Un rapporto lungo e particolare quello con lo scrittore francese pari solo a quello con Michele Serra: «Così lungo e così amiche-vole che non riesco più a considerarlo profes-sionale», scherza lo scrittore-giornalista ri-percorrendo i tanti titoli nati a Genova, *�CBNCJOJ�TPOP�EJ�TJOJTUSB con Bisio �*UBMJBOJ�JUBMJFOJ�JUBMJPUJ�con Ugo Dighero e la Banda Osiris, il recital con Stefano Bollani e lui che leggeva le sue satire, 'BUIFS�BOE�4PO con Bi-sio, da (MJ�TESBJBUJ.

E se Bisio o Maurizio Crozza sono le star dell’Archivolto, anno dopo anno il laborato-rio si è allargato agli interpreti più diversi: Neri Marcorè, Marina Massironi, Eugenio Allegri, Giuseppe Battiston, la Banda Osiris e tra gli ultimi arrivi Ambra Angiolini, Va-lentina Lodovini, Fabio De Luigi, protagoni-sti di una storia teatrale cui andrebbe ag-giunta Genova.

Sì, Genova. E non solo perché quasi tutti i padri fondatori sono usciti dalla scuola dello Stabile, o perché è la città del Teatro della Tosse, di Villaggio, di Grillo finché ha fatto il comico. Genova è la città del mugugno pe-

renne, della riservatezza e della ricchezza

nascosta, dicono all’Archivolto, «e noi siamo stati protetti da questa straordinaria incu-batrice, rustica ma onesta. Nell’ombra dei caruggi siamo riusciti a concentrarci, distil-lando il meglio di noi». «Genova è un modo di pensare», dice Carla Signoris, «che ti co-stringe ad andare e dove speri sia bello tor-nare». E nel ‘97 l’Archivolto ci torna e si fer-ma: nella periferia di Sampierdarena riapre il Teatro Modena che oggi conta settantami-la presenze l’anno e ha visto nascere tantissi-mi dei centotrentatré spettacoli sfornati in trent’anni: $PSUP�.BMUFTF da Hugo Pratt sul-le musiche di Paolo Conte, 4QPPO�3JWFS�da Edgar Lee Masters e Fabrizio De Andrè, "QP�DBMJTTF da Niccolò Ammaniti...

In questi giorni si festeggiano i trent’an-ni: ci sono appena stati Serra e Benni, il 27 Ugo Dighero omaggia Dario Fo con .JTUFSP�#VGGP. Per il futuro, getta il sasso Claudio Bi-sio: «Mi dicono che Pennac avrebbe scritto un altro romanzo legato alla tribù dei Ma-laussène. Voi direte, sei troppo vecchio per interpretare ancora Benjamin vent’anni do-po. E io vi rispondo: questo nuovo romanzo è ambientato a Parigi, a Belleville, ma venti-cinque anni dopo. Dunque...». Dunque la sto-ria continua.

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(enova, 1984, Stazione Principe, posteggio. Pioveva. Io seduto sul sedile posteriore di una vecchia Volkswagen. Alla guida Oliviero Pluviano, un omone capelluto, musicista all’epoca in tour con Ornella Vanoni, suonava

una ridicola tastiera da scuola elementare posta fra la sua pancia e il volante. Accanto a lui, il mio futuro regista e amico, Giorgio Gallione. Per più di un’ora, in quella scatola di lamiera marcia, frantumai i loro timpani cantando a squarciagola per ottenere la parte per il ruolo di Ruscamar, suddito del sultano, in una commedia musicale tratta da un libretto di Carlo Goldoni. Forse mi scelsero per salvarsi l’udito. “Gli accidenti di Costantinopoli” fu uno spettacolo memorabile per passione e ingenuità.Nel 1986 Gallione e una certa Pina Rando mi

chiamarono, insieme ad altri entusiasti scappati di casa, per dare vita a un sogno: il Teatro dell’Archivolto. Il progetto nacque in una piazza delle banlieue di Parigi. L’idea, così tremendamente bohémienne, era di provare all’aperto, durante il giorno, uno spettacolo futurista, mentre i passanti correvano indaffarati, i bambini giocavano, gli amanti si baciavano. La cosa veramente futurista eravamo noi, saltimbanchi alle prime armi, liberi su quel minuscolo palco montato in piazza. Il ricordo che da allora ho stampato nella mia memoria è quello di un bellissimo bambino nero, avrà avuto nove anni, che durante la mia petroliniana performance tenorile, mi dimostrò il suo apprezzamento mettendomi una moneta da un franco sul palco. Qualcuno aveva pagato per vedere il mio lavoro! Negli anni, grazie alla forza e alla caparbietà di Pina e Giorgio, con Dighero, Pirovano, Cesena e Signoris, quel sogno piano piano prese forma. Provavamo tre spettacoli contemporaneamente. Lavoravamo dodici ore al giorno, con una paga inesistente — a parte la moneta del bimbo parigino — e come veri bohémien, spinti dai valori di libertà, arte, amore e bellezza, a parte l’assenzio, avevamo stampato in faccia il sorriso di chi sa di partecipare alla creazione di qualcosa di bello: il Teatro dell’Archivolto.

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1REMESSO che trovo assurda l’ipotesi della “simulazione” (ovvero che noi umani sta-

remmo vivendo dentro un mondo si-mulato al computer) per indagare proverei comunque a mettere in di-scussione realtà accettate. Cerche-rei delle eccezioni in questo ipoteti-co programma. Prendiamo la chimi-ca: un centinaio di elementi sono i mattoncini di tutto quello che esi-ste. A seconda di come si combinano siamo animali, o piante, o altro. Fini-to il ciclo di vita, i mattoncini si scom-

pongono e riassemblano in altri mo-di. Se tutto ciò fosse solo un program-ma di un programmatore fantastico che si è inventato le regole della fisi-ca, della chimica, della biologia, po-trei sforzarmi di trovare un caso, per esempio, in cui gli atomi non si conservano: una perdita inesplicabi-le di materia. O scoprire una violazio-ne del ciclo naturale: se trovassi un essere inspiegabilmente longevo, sarebbe un piccolo indizio che la vec-chiaia è solo una routine di un pro-gramma che si può manipolare.

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4IAMO ESSERI VIVENTI IN CARNE E OSSA, o semplici avatar che, co-me nel film .BUSJY, vivono dentro un mondo artificiale, simu-lato al computer? È una domanda che la Silicon Valley prende sempre più sul serio, rivela il /FX�:PSLFS. L’ultima provoca-zione di Elon Musk (creatore di PayPal, Tesla Motors e di Spa-ceX con cui vorrebbe portare l’uomo su Marte), secondo cui le probabilità che il nostro sia un mondo vero sarebbero solo una su vari miliardi, avrebbe infatti uno sviluppo concreto. Sam Altman, capo dell’incubatore di start-up Y Combinator, si è lasciato sfuggire che due miliardari della Valle — innomi-nati, ma il primo sospettato è Elon Musk stesso — starebbero finanziando, perché risolvano il dubbio della simulazione, un

gruppo di scienziati, anch’essi anonimi. Tanto segreto si spiega con la paura del ridicolo, eppure l’ipotesi “Matrix” ha una sua nobiltà: non solo fantascientifica, ma anche filosofi-ca e poetica. In fondo Eugenio Montale si chiedeva qualcosa di simile quando in 'PSTF�VO�NBUUJOP�BOEBOEP�JO�VO�BSJB�EJ�WFUSP�immaginava di voltarsi e vedere per un attimo il nulla dietro di sé, e poi ricomporsi “come s’uno schermo, alberi, case e colli per l’inganno

consueto”. Tra i più convinti “avvocati del-la simulazione” odierni c’è un uomo che so-spettiamo far parte del misterioso gruppo di esperti: Richard Terrile, astronomo e di-rettore presso la Nasa del Centro di calcolo evoluzionario, dove studia come migliora-re le intelligenze artificiali ispirandosi alle strategie biologiche dell’evoluzione. «I pro-gressi della grafica 3D negli ultimi trent’anni provano che nel futuro potremo creare simulazioni sofisticatissime» spie-ga a 3FQVCCMJDB Terrile, in collegamento da Pasadena. «Un computer crea milioni di avatar in un secondo, mentre alla natura per un bebè servono i nove mesi canonici. Domani esisteranno molti più “avatar” vir-tuali che veri esseri umani. E se esisteran-no milioni di mondi virtuali e un solo mon-do reale, secondo lei in quale sarà più facile

trovarsi?». Terrile usa i verbi al futuro, ma il bello è

che potremmo già trovarci adesso in�.B�USJY. «Se nel 2050 avremo imitazioni infor-matiche fedelissime degli esseri umani, co-sa ci dice che in realtà non sia già oggi, in qualche modo, il 2050, e io e lei non siamo due software programmati dai nostri pro-nipoti per credere di vivere nel 2016?». Per l’esperto, la scienza offre spunti suggesti-vi: «La fisica quantistica ci dice che la luce è fatta di onde oppure particelle, ambiguità che si risolve solo dopo un’osservazione. L’universo, quindi, ci sembra reale solo quando è osservato: ma questo è proprio il modo in cui funzionano i videogiochi! Per farci esplorare i loro mondi, più vasti dello schermo del PC, i programmatori ci mo-strano via via soltanto il pezzettino che

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7IVIAMO in una sorta di “Ma-trix”? Il filosofo Hilary Put-nam negli anni Ottanta ebbe

un dubbio simile: “E se fossimo sol-tanto dei cervelli estratti dal corpo, tenuti in vita con sistemi sofisticati e attaccati a un computer che simu-la tutto il mondo che percepiamo, potremmo mai accorgerci di questo inganno?”. La risposta è “no”. E a mio avviso non ha senso chiederse-lo proprio perché l’unico mondo di cui abbiamo esperienza è quello che percepiamo attraverso i sensi:

se poi questi sensi riflettono la real-tà o se al contrario ci arrivano da un computer sofisticatissimo, sostan-zialmente non importa, perché se la simulazione è perfettamente ac-curata, non riusciremmo a distin-guere tra le due cose.

Secondo me perfino trovando vio-lazioni alle leggi fisiche rimarrem-mo nel dubbio, perché percepirem-mo queste “stranezze” pur sempre attraverso i nostri sensi, e quindi po-trebbero far parte anch’esse della si-mulazione.

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dobbiamo vedere in quel momento». Il mo-do per scoprire la verità? Fare i conti in ta-sca al Simulatore Occulto: «Ha risorse illi-mitate o no? Magari per fare economia non ha curato in modo certosino tutti gli in-finiti aspetti da riprodurre: imperfezioni nel mondo simulato possono tradirlo» pro-pone Terrile. «Ma il migliore indizio l’avre-mo quando noi stessi produrremo qualco-sa in grado di rivaleggiare sul serio con la realtà, su scala anche piccolissima. A quel punto il sospetto di essere solo personaggi di un altro, più grande, ologramma virtua-le diventerà ineludibile».

Per Terrile l’illusione è addirittura più pratica della realtà: «Pensiamo all’Univer-so, che ha 13,8 miliardi di anni e contiene centinaia di miliardi di galassie, ognuna con altrettante stelle: tutto ciò può deriva-

re da qualche spontanea creazione quanti-stica: ma più tale processo si espande nel tempo e nello spazio, più difficile è spiegar-lo» sottolinea Terrile: «Magari non c’è biso-gno di tutto questo. Può bastare una galas-sia. Una stella. Un pianeta. O un solo cervel-lo: tutto il resto può essere un suo sogno. Un affascinante paradosso, quello dei “cer-velli di Boltzmann”, suggerisce come l’ap-parire improvviso dal nulla di un cervello che si immagina tutto l’universo, sia più probabile, perché meno impegnativo, del-la formazione di un universo vero e pro-prio». Chissà se mai qualcuno ha detto la stessa frase che un tecnico delle luci, dopo aver allestito un cielo stellato per un film di fantascienza, disse al regista Lucio Ful-ci: «Dottò, il cosmo è pronto!».

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4E, PER PURO GIOCO, dovessi risol-vere il dubbio proposto da Mu-sk, lavorerei sull’FOUBOHMF�

NFOU, quel fenomeno quantistico per cui una coppia di particelle prodotte insieme si evolvono separatamente ma restano collegate: se ne modifi-chiamo una, anche l’altra cambierà, indipendentemente dalla distanza a cui si trova. Ovvero, presa una coppia di particelle così, ne terrei una sulla Terra e sparerei l’altra a milioni di an-ni luce. La manderei sempre più lonta-no per vedere fino a quando le due

particelle continuano a influenzarsi a vicenda.

Se il “legame a distanza” si spezza, allora sì, forse una “simulazione” c’e-ra e però noi ne abbiamo varcato i con-fini. Se invece il legame regge all’infi-nito, può voler dire che o la simulazio-ne non c’è affatto, oppure coincide con l’universo. Ma allora, in questo ca-so, non potremmo distinguerla come simulazione.

Ecco perché lavorerei sull’FOUBO�HMFNFOU: perché sarebbe impossibile da simulare alla perfezione.

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*O SCEGLIEREI un esperimento mentale ideato da Stephen Jay Gould: riavvolgere più volte il

“nastro” dell’evoluzione. Se le stes-se condizioni di partenza ci portano ogni volta allo stesso risultato, allo-ra in ciò che succede c’è una necessi-tà molto forte, un “programma” che dice che le cose devono andare per forza così. E allora l’ipotesi “Ma-trix” diventerebbe un po’ più credi-bile.

Se invece riavvolgendo il nastro del processo mille volte ottengo mil-

le risultati diversi, avrei la confer-ma che il nostro mondo è reale: una simulazione non può prevedere tut-to e il contrario di tutto, comprende-re anche il caso e la contingenza.

Questo test si potrebbe effettua-re, in piccolo, studiando migliaia di generazioni di batteri con cicli di vi-ta molto brevi. Oppure potremmo vedere se evoluzioni diverse porta-no a risultati USPQQP simili per esse-re casuali quando — e se — dovessi-mo scoprire forme di vita su altri pia-neti.

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6NA CITTÀ PER ANNUSARE. E POI ANCHE GUSTARE, certo, trattandosi di uno tra i prodotti più preziosi e controversi regalati da madre terra. Ma il tar-tufo — quello bianco in assoluto, quello nero in parte — è prima di tutto un profumo. Così affascinante che lo chef-patron de “El Bulli” Ferran Adrià serviva il piatto dedicato al .BHOBUVN�1JDP preceduto da un�CBM�MPO da vino rosso, al cui interno il magnifico tubero era stato grattugia-to a neve con una Microplane. Risultato, una nuvola di tartufo in cui af-fondare il naso per inebriarsi, prima di addentare i fantasmagorici bli-nis al formaggio St. Agustin.

Si ama o si odia, il tartufo bianco, per merito o colpa del suo profumo. Capace di mandare in estasi o ripugnare, trasformare la ricetta più sem-plice — un uovo fritto, un gomitolo di tagliolini al burro — in un’espe-

rienza paradisiaca, o al contrario rovinare irrimediabilmente un buon risotto, una crema di patate, la tartara di carne. Tra chi lo considera il più sensuale dei sentori gastronomici e chi lo paragona a una spremuta d’aglio, la mediazione è impossibile.

Del resto, tutto il corollario del fungo ipogeo più pregiato del pianeta risuona in modo selvaggio e ribelle. Impossibile da coltivare, insofferente a qualsivoglia tentativo di irreggimentarlo nei canoni dell’agricoltura, anche la più liberale e creativa. Hai voglia a creare tartufaie, piantare faggi e querce, disseminare spore. Imprevedibile e lunatico, il tartufo bianco decide dove come e quando crescere, sensibile alla pioggia e ai primi freddi. Solo certi cani (e certe mosche autunnali, confidano i tartufai) sanno percepirne l’afrore e svelarlo al cercatore. Che si muove di notte, solitario, tutt’uno insieme al suo quattrozampe, esplorando e riconoscendo i sentieri misteriosi da seguire per arrivare al te-soro. Tutto più facile con il tartufo nero: medesi-ma ricerca con i cani, e pure col maiale -retaggio di una pratica ancestrale- ma supportata e corro-borata dalle tartufaie dedicate, dove andare a col-po quasi sicuro. Se il tartufo bianco appartiene in toto alla nostra cultura — con rare eccezioni di terre confinanti, come Istria e Slovenia — il .FMB�OPTQPSVN abita felicemente le terre di Francia — in primis il Périgord — e Spagna. Apprezzato, ambìto, senza rivali, appartiene così profonda-mente alla cultura alimentare dei paesi di raccol-ta, da essere esibito nei menù perfino in forma di olio tartufato, che battezza carni e verdure come la più esclusiva delle essenze. Facile anche da amare, vuoi per il minore impatto olfattivo, vuoi per la doppia opzione crudo-cotto, che stempera

e accomoda.Bianco o nero che sia, poco importa: l’associa-

zione Città del Tartufo negli ultimi anni ha dise-gnato una mappa golosa senza pregiudiziali cro-matiche, che va dal Piemonte alla Calabria, con sito aggiornato in tempo reale su eventi e quota-zioni (borsino).

Nei giorni che accompagnano la presentazio-ne della candidatura a Patrimonio Unesco, le ter-re del tartufo esibiscono i nuovi gioielli freschi di raccolta. E se Alba anche quest’anno firma asta mondiale e mostra-mercato con l’abbinamento magistrale tartufo-Barolo, l’imminente fusione tra i borghi di San Giovanni d’Asso e Montalcino sarà celebrata il 12 novembre con le nozze enoga-stronomiche fra Brunello di Montalcino e Tartu-fo Bianco delle Crete Senesi. E vinca il migliore (ammesso che esista).

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* mpastare farina, acqua, tuorli e un pizzico di sale con l’aiuto di una planetaria. Tirare a due millimetri di spessore, tagliare delle sfoglie da venticinque centimetri circa e passarle alla trafila

per tagliolini, dividendo in piccole matasse. Cuocere i ta-gliolini in acqua salata per circa tre minuti, allargarli su una placca unta d’olio, evitando che si attacchino tra loro. Far scaldare il burro in una padella e rosolarci i tagliolini a fuoco medio, muovendoli con l’aiuto di una pinza e aggiu-stando di sale. Quando i tagliolini saranno croccanti e omogeneamente dorati, asciugarli dal burro in ecces-so su una placca coperta di carta assorbente.

Disporre i tagliolini su un piatto piano di porta-ta, allargandoli bene.

Affettare in lamelle il tartufo con l’apposita mandolina e servire. Sono deliziosi mangiati con le mani!

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INGREDIENTI

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16 TUORLI D’UOVO

175 G. DI BURRO

50 G. DI EXTRAVERGINE

9 G. DI SALE FINO

30 G. DI TARTUFO BIANCO D’ALBA

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$HE IL TARTUFO BIANCO d’Alba

sia un elemento

identitario e radicato nella

cultura langarola non c’è

dubbio. Così come non vi è

dubbio sulla sua valenza economica, che

intorno alla fiera a esso dedicata ha

saputo creare un’attrattività fortissima

per un territorio, portando al suo traino

un insieme di produzioni e di eccellenze

enogastronomiche che negli ultimi

trent’anni hanno fatto di questa piccola

porzione di Piemonte una meta turistica

di prim’ordine. Sono ormai passati quasi

novant’anni dalla prima edizione della

“Fiera del Tartufo” di Alba, e ogni anno

l’enorme massa di visitatori che si riversa

in città testimonia un potere evocativo e

attrattivo che non accenna a diminuire o a

incrinarsi. Se questo è certamente un

aspetto da salutare con piacere e

soddisfazione perché valorizza le

produzioni alimentari locali, per lo più

artigianali e certamente non solo legate al

tartufo, vale forse la pena di approfittare

di questa visibilità e di questa ricaduta per

fare alcune riflessioni sull’economia del

turismo enogastronomico e sul boom che

ha generato.

Perché il tartufo è anche una

interessante sentinella dell’ambiente, si

sviluppa in un habitat molto preciso che è

fatto di boschetti di pioppi, tigli, querce,

noci e salici. Fino a qualche decennio fa,

questi boschetti erano numerosi,

segnavano il limitare delle proprietà

fondiarie, occupavano i terreni esposti

meno bene, formavano una parte

importante del paesaggio collinare del

basso Piemonte. Ma da quando un’altra

produzione è assurta agli onori di critica e

gourmet in tutto il mondo, il vino, per la

felicità dei produttori e del territorio tutto,

la superficie vitata è aumentata

enormemente, trasformando in una sorta

di monocoltura a due (vite e nocciole) la

campagna. Dal punto di vista economico

credo che tutti possano dirsi contenti, ma

non c’è dubbio che molta parte di quella

biodiversità che creava le condizioni

ideali per la nascita dei tartufi sia andata

perduta, e con essa anche parte di un

savoir faire che, prima che essere il

background folkloristico di un prodotto di

lusso, faceva parte della sapienzialità

contadina tramandata di generazione in

generazione.

E allora la proposta di inserire la

“Cultura del tartufo” tra i beni immateriali

dell’Umanità ci può fornire lo spunto per

ragionare sul tipo di futuro che

immaginiamo per i nostri territori, e su

come inseguire meri orizzonti economici

ci porti a essere tutti un po’ più poveri.

Non si può parlare di sviluppo agricolo, di

eccellenze agroalimentari, di turismo

gastronomico senza preservare il

paesaggio che di queste produzioni è

humus e condizione necessaria. E allora,

ancora una volta, bisogna tornare alla

parola biodiversità (proprio in questi

giorni Slow Food lancia una campagna

mondiale per finanziare progetti a tutela

della biodiversità) che va curata, protetta

e valorizzata se vogliamo dare un futuro

promettente alle nostre campagne.

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ROMA

$�È LA CANZONE D’AUTORE CHE SI RINNOVA, c’è la dance italiana che conquista il mondo, c’è il mainstream pop che domina le classifiche nazionali. E poi c’è il rock, con tante giovani band piene di idee e di entusiasmo. E con qualche “vecchia gloria” che a dispetto dell’età è ancora in grado di fare quello che mol-

ti giovani sognano soltanto di poter fare. È quello che sta accadendo alla Premia-ta Forneria Marconi: quarantacinque anni di storia sulle spalle e, non sembri un’ovvietà, non dimostrarli. Così come non dimostra i suoi settanta Franz Di Cioccio, batterista, cantante, anima e cuore della band dai suoi esordi a oggi. So-prattutto quando lo si vede in scena con la Pfm travolgere tutti con la sua ener-gia, il suo entusiasmo, in definitiva la sua bravura. «L’età? Ma quella non conta, conta solo la musica», ci dice, e ha ragione, soprattutto se è quella di una band che ha scritto pagine importanti della storia della musica italiana, che ha colla-borato con Lucio Battisti e con Fabrizio De André, che ha conquistato le classifiche non solo in Italia ma anche in Inghilterra e negli Stati Uniti, e realizzato album leggendari come 1FS�VO�BNJDP o -�JTPMB�EJ�OJFOUF. Oggi la Pfm sta vivendo una seconda gioventù, con una nuo-va formazione, e soprattutto un pubblico ai concerti in cui i giovani sono più numerosi degli adulti. La forza musicale è tutta concentra-ta nel live: «Ai nostri concerti il pubblico si rinnova sempre», ci spie-ga Di Cioccio, «ci sono i fan storici, quelli che amano la nostra musi-

ca e non hanno mai smesso, ma anche quelli che ci hanno scoperti con i dischi del papà e quelli che hanno visto un post su Facebook. Devo dire che però anche noi ci rinno-viamo: non facciamo mai lo stesso concerto. Siamo torna-ti in Italia da pochi giorni dopo un tour europeo, era tanto che non ne facevamo uno. Abbiamo suonato in club vera-mente belli. L’anno scorso eravamo stati negli Usa e in Cana-da, e devo dire che anche lì era andata molto bene. Direi che facciamo un bell’effetto. Possiamo proporre ogni sera cose diffe-renti, e questo rende ogni show interessante anche per chi ci ha già visti. Fare live in questo modo significa che il calendario è sempre aperto: prepari uno spettacolo, la gente viene, comin-cia il passaparola, e poi le cose vanno avanti. Insomma, per ca-pirci: non siamo come quelle vecchie band che fanno un tour

ogni due o tre anni e poi è finita lì». Di Cioccio sta lavorando con grande passione — c’è da dirlo? — alla riedizione

degli album della Pfm, con un primo cofanetto uscito nel 2012 e che raccoglieva i primi due album oltre molte rarità e inediti, e un nuovo cofanetto, .BSDPOJ�#B�LFSZ, con gli album del 1973-1974, 1IPUPT�PG�(IPTUT, -�JTPMB�EJ�OJFOUF e 5IF�8PSME�#FDBNF�UIF�8PSME, dai quali risalta ancora la straordinaria originalità del-la band: «I dischi erano diversi l’uno dall’altro, e riascoltandoli ora si vede che c’e-ra un percorso preciso che avevamo intrapreso e che seguiamo ancora. Erava-mo contemporanei, e forse alle volte eravamo persino in anticipo, ma mai fuori tempo, eravamo al centro di quello che accadeva all’epoca. E così alcuni dei no-stri album sono rimasti freschi, altri si sono addirittura rivalutati, altri ancora si sente che rispecchiano gli anni in cui sono nati, ma devo dire che sono invecchia-ti bene. Avevamo e abbiamo ancora un approccio che è internazionale e italia-no, perché in realtà non ci siamo mai neppure posti il problema se dovessimo re-stare italiani o lasciarci contagiare da quello che ascoltavamo: mettevamo e met-tiamo insieme i nostri ascolti con la nostra naturale vena mediterranea. E que-sto ci ha resi diversi dagli altri. Eravamo rock ma facevamo anche canzoni, erava-mo una band progressive ma entravamo in altri ambiti, ci siamo avventurati in ogni campo musicale. Diciamo pure che ci è sempre piaciuto giocare con la musi-ca senza badare agli schemi e alle etichette».

Di Cioccio è sempre stato al centro della Premiata Forneria Marconi, con la sua vivacità, la creatività, la voglia di non stare mai fermo, fisicamente e cultu-ralmente: «Ho guidato la band da dietro, seduto alla batteria. Poi nelle scelte: la maggior parte dei progetti, delle produzioni, delle strategie, dei tour, delle co-pertine, parte tutto da me. Forse perché sono abruzzese, e perché sono un entu-siasta di natura, difficile vedermi triste. E poi sono un randagio musicale, e que-sto significa che mi piace il rock, il rap, il funky, l’heavy metal, il jazz, mi piace la canzone. La musica è emozionante, è un dono, una delle cose belle della vita. Quelli che hanno lasciato la band lo hanno fatto perché avevano finito la benzi-na, avevano bisogno di altro. Ma per me la Pfm è tutto. A patto, ovvio, che si suo-ni bene». Già, e quali sono le qualità di un buon musicista? «Innanzitutto deve sa-per ascoltare gli altri. Suonare non è solamente un fatto tuo personale, non puoi fare tutto da solo. Il musicista bravo è quello che non ascolta se stesso quando suona, tanto lo sa quello che sta facendo, ma è quello che ascolta gli altri, solo co-sì tutto si incastra. Ancora oggi noi DJ ascoltiamo, facciamo prove estenuanti per-ché tutto sia messo perfettamente a fuoco. Del resto la nostra leggenda è questo che vuole. Guardavo dei filmati tempo fa, noi che suoniamo all’Old Grey Whistle Test, oppure alla Bbc a Londra: so che non dovrei dirlo, ma è pazzesco come face-vamo tutto EBWWFSP bene. E oggi uguale. Io metto molta cura in quello che fac-cio, sono sempre stato così, perché credo che le storie belle vadano mantenute, curate, coccolate. Prendi questo cofanetto: dentro ci ho messo tutta la passione che ho perché venisse fuori un prodotto storicamente corretto».

La storia del gruppo è legata a doppio filo alla storia di Franz, è lui che ha dato il via ai Quelli, in era beat, poi ai Krel e quindi alla Pfm. Le storie su come nascono le band sono tutte diverse, e tutte leggendarie, dall’incontro dei Doors sulla spiaggia di Los Angeles a quello degli Stones nella stazione della metropolitana.

E la Pfm? «Volevo semplicemente fare una band e avevo un’agendina piena di nomi. Ho iniziato con Franco Mussida e poi uno alla volta sono arrivati tutti gli

altri, Flavio Premoli per esempio. Fino all’incontro storico, quello con Mau-ro Pagani, proprio sulla spiaggia, quella di Spotorno. Ma anche l’arrivo di Patrick Dijvas è stato bello: stavamo facendo una session, io, Demetrio Stratos, Alberto Radius, Paolo Tofani, Mauro Pagani. Arriva Dijvas e De-metrio lo chiama in scena, non aveva lo strumento e io l’accompagno a prendere un basso. Mi stava sul cazzo, non mi piaceva, ma appena si mette a suonare capisco che aveva “quella cosa” che mancava alla Pfm. Cominciammo così a lavorare tutti insieme, il mio sogno iniziava

a prendere forma: il sogno di una band fantastica, che è poi il sogno che cerco ancora oggi di tenere vivo. Far ripartire la Pfm è stata

una grande idea, per la quale mi ha aiutato moltissimo mia mo-glie Iaia. Nessuno ci credeva. E invece. Per prima cosa abbiamo organizzato un tour in Giappone, tutto via internet. Perché è vero che in Rete ci sono già i video del nostro passato, ma noi volevamo che tutti ci vedessero oggi. È stata la svolta: tutti hanno potuto vedere quanto eravamo vitali e creativi, an-che più bravi di come eravamo da giovani. E così, non appe-na tornati dal Giappone, la Pfm è ripartita alla grande».

Ovviamente dopo la separazione con Franco Mussida oggi c’è una nuova formazione: «Sì, certo, ma formazione nuova

vuole anche dire musica nuova, un modo diverso di suonare an-che le cose più vecchie. Entrare nella band dopo Mussida non

era certo una cosa facile. Ma noi sapevamo che non si sostituisce un elemento con un altro che gli assomiglia. Ti serve invece uno che ti fa fare uno scatto in avanti, ed è così che è successo con il no-stro nuovo chitarrista, Marco Sfogli: tu pensa, un napoletano nel cuore della Pfm, un ragazzo che viene dal nuovo prog...». In scena non c’è la Pfm 2.0, ma la Pfm e basta.

In epoca beat iniziò con i Quelli, poi ci provò con i Krel e infine, “sul-

la spiaggia di Spotorno” vide concretizzarsi il sogno della sua vita,

“quello di avere la più fantastica delle band”. Nasceva così, qua-

rantacinque anni fa, la Pfm. Oggi il suo batterista e leader ne ha

settanta e grazie a lui la Premiata Forneria Marconi sta conoscen-

do una seconda giovinezza: “In realtà più che grazie a me è grazie

a mia moglie e a internet: lei ci ha spinto a rimetterci in pista, la Re-

te ci ha fatti conoscere da un al-

tro pubblico per come suonia-

mo oggi e non per come erava-

mo quarant’anni fa. E così ades-

so ai nostri concerti i più giovani

superano i più vecchi”

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