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QUADERNI DELLA CONSULTA Consulta della Pastorale della Scuola della Diocesi di Verona 2013 N°6 VIVERE E TESTIMONIARE LA FEDE A SCUOLA ANNO FEDE DELLA 2012 2013 A cura di Don Domenico Consolini

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Quaderni della consulta

consulta della Pastorale della scuola della diocesi di Verona

2013

n°6

ViVere e testimoniare

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20122013

A cura di Don Domenico Consolini

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Consulta Diocesana di pastorale Scolastica

Quaderni della Consulta - 6

Verona, ottobre 2013

A cura di Don Domenico Consolini

Vivere e testimoniare la fede a scuola

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Presentazione

Questo è stato l’anno della fede, un anno di meditazione indetto dalla Chiesa dall’11 ottobre 2012 al 24 novembre 2013, dedicato ad intensificare «la ri-

flessione sulla fede per aiutare tutti i credenti in Cristo a rendere più consapevole ed a rinvigorire la loro adesione al Vangelo, soprattutto in un momento di profon-do cambiamento come quello che l’umanità sta vivendo», così come ci raccoman-dava Benedetto XVI nella sua esortazione apostolica “Porta Fidei”.Sulla base di questo fatto molto importante la Consulta della Pastorale Scolastica ha deciso di utilizzare questo argomento come linea guida per la conduzione del proprio lavoro di riflessione all’interno della scuola: cosa c’entra la fede con la scuola? Ha una sua valenza? Può essere una proposta rivolta a tutti? Partendo da queste domande abbiamo cercato di sviluppare un percorso che possiamo sintetiz-zare in tre interventi esterni e due interni.

Si è partiti da una riflessione di tipo psicologico; a prescindere dal fatto religio-so, la fede può essere considerata un dato acquisito nella mente umana? Credere senza avere un riscontro razionale ed oggettivo è una cosa che quotidianamente facciamo, affidarci alla parola di qualcuno che ha carattere di autorevolezza ai no-stri occhi non sembra poi una cosa così straordinaria. Nel mondo giovanile questo atteggiamento, questo modo di porsi dinanzi a proposte, idee, percorsi di vita, valori, è una cosa ancora sentita? Come? Con quali dinamiche? Di questo abbia-mo parlato nell’incontro con il dott. Amedeo Bezzetto, psicologo responsabile del servizio Riabilitazione presso l’ospedale “Villa Santa Giuliana”, ne abbiamo fatto oggetto di un colloquio che ha cercato di mettere in risalto l’aspetto esperienziale con un’angolazione dedicata in modo particolare all’utenza delle nostre scuole.

Sulla base poi delle risonanze emerse da questo primo incontro, le quattro com-ponenti della Consulta hanno elaborato una riflessione specifica, propria dell’area

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di appartenenza, ed ecco quindi i lavori risultati dal settore docenti, da quello dei dirigenti scolastici, da quello degli studenti e da quello dei genitori. Ogni contri-buto analizza dalla propria prospettiva il rapporto della fede con la scuola.

Il passo successivo è stato quello di affrontare l’argomento da un’ angolazione teologica, provare a rendersi conto di quali possano essere gli elementi per ricono-scerla, definirla con precisione, capirla, coglierne la struttura o meglio, per usare termini ecclesiali, per discernerla. Ecco allora il contributo molto interessante di mons. Ezio Falavegna docente di teologia pastorale nonché parroco cittadino e quindi a contatto quotidiano con la realtà giovanile. Si è cercato di evidenziare come la fede sia un evento di relazione, che si può attuare solo ove si instauri una relazione, l’esperienza di un incontro, di una relazione d’amore.

Infine si è voluto mettere l’accento sul rapporto arte-fede, cercare di capire se e come ci sia interdipendenza. Ci si chiedeva come fosse possibile che un dipinto, un edificio, una poesia o una melodia nati secoli or sono come manifestazione di fede, possano ancora parlare al cuore di un giovane o debbano solo considerarsi espressioni artistiche; molte chiese anche della nostra città sembrano essere diven-tate più un museo che casa di Dio. Su questo terreno abbiamo cercato l’aiuto di un esperto del ramo, il prof. Markus Opharders, docente di Estetica presso l’Uni-versità di Verona che nel suo articolato intervento ha cercato di mostrarci come l’arte non porti direttamente alla trascendenza perché, in quanto sempre legata alla dimensione estetica ovvero alla percezione sensibile, essa può solo portare davanti alla soglia, come fa Beatrice con Dante. Il resto è un cammino che si deve fare da soli.

Questa un po’ la traccia del lavoro della Consulta della Pastorale Scolastica per quest’anno scolastico e come di consueto, abbiamo deciso di raccogliere tutti i contributi sintetizzandoli ed ordinandoli in questo Quaderno che volentieri met-tiamo a disposizione di quanti hanno a cuore il mondo della scuola, il mondo dei nostri giovani. Lo facciamo in un incontro pubblico, lo facciamo aprendo il nostro lavoro disponibili al confronto ed al dialogo con docenti, genitori e studenti.

Un ringraziamento è dovuto a tutti i membri della Consulta per la loro di-sponibilità e per il loro impegno, un grazie ai nostri relatori che hanno messo a disposizione tempo e competenze con passione e professionalità rendendo visibile e reale la sollecitudine della Chiesa veronese verso coloro che saranno il nostro domani.

don Domenico ConsoliniPresidente della Consulta e

Direttore dell’Ufficio Diocesano di Pastorale Scolastica.

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la parola dello psicologo

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Gli adolescenti e la fede

Da molto tempo lavoro come psi-cologo dedicato agli adolescen-

ti, da anni, e cercherò di condividere qualche pensiero in merito al significa-to del credere, alle caratteristiche psi-cologiche del processo del credere in adolescenza, alla relazione degli adulti con gli adolescenti e al fenomeno del-la trasmissione, della fede, tra adulti e adolescenti. L’interrogativo verte sul cosa succede nella testa di un giova-ne quando si tratta di credere, ad un evento, ad una narrazione, o ad un fenomeno. E quale sia la sua modali-tà di rapportarsi con gli altri quando si tratti di credere, di avere quell’at-teggiamento di fiduciosa accoglienza dell’esperienza altrui, del dato come del riferito, senza richiedere necessa-riamente prova concreta di quanto in-contrato o espresso dall’interlocutore, adolescente o adulto che sia.Il mio contributo non ha certo la pre-tesa di esaurire l’argomento, quanto piuttosto lo scopo di sollecitare la ri-flessione ed eventualmente il dibatti-to; conoscere meglio gli adolescenti ci permette di lavorare meglio con loro, anche quando si tratta di capire e con-frontarsi su di un tema così delicato come la capacità di credere, e la fede.Partiamo subito con l’affermare che ormai la moderna psicologia riconosce la condizione di adolescente ai ragaz-zi ben oltre i 18 anni, infatti oggi la

fascia dell’adolescenza abbraccia un decennio, dai 13/14 anni ai 23. Il fe-nomeno intimamente legato alle con-dizioni socioculturali della società si sta ulteriormente dilatando al punto che l’Organizzazione Mondiale della Salute (O.M.S.) ha già preannuncia-to di estendere, per paesi occidentali, la fine del periodo adolescenziale a 29 anni!Un’adolescenza che si protrae sempre più diventa una realtà sempre più da conoscere meglio e in maniera appro-fondita non tanto per sopportarla me-glio, quanto per cogliere appieno tutte le sue valenze e opportunità per gli stessi giovani e per tutta la società.Per affrontare il tema del credere pro-pongo di soffermarci sul significato e sul valore della bugia in psicologia evolutiva. La bugia, intesa come falsa affermazione volontaria, intenzionale, viene comunemente considerata un fenomeno negativo. Nel sentire comu-ne un individuo bugiardo è una per-sona negativa, che compie un errore importante nella relazione con l’altro, sovvertendo o modificando, distraen-do la realtà dei fatti; egli si pone in modo falso nei confronti dell’altro, e ne tradisce la relazione autentica con buona pace dei principi etici e morali dei quali la storia e la comunità uma-na dovrebbero vivere. Istintivamente la bugia viene attaccata e l’atto del dire una bugia condannato senza appello nel nome di una onestà universale che guida gli uomini e il loro cammino.Tuttavia, in campo strettamente psi-cologico, e in particolare in specifiche

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fasce della crescita come nell’infanzia e nell’adolescenza, il fenomeno del rac-contare una bugia dovrebbe essere sa-lutato come un segno positivo, una te-stimonianza psichica e interpersonale della maturazione della mente, luogo della fantasia e del pensiero duplice, più ricco, in rapporto all’esperienza unica con la realtà. Tutti i bambini raccontano le bugie, esse sono un’otti-ma difesa del costruendo sé e uno stru-mento vero e proprio della relazione. Ad esempio, il soggetto che mente è proprio nell’esercizio della bugia che si rende conto che l’altro crede alle sue parole senza riscontro, e questo lo rassicura nella relazione alimentando la propria autostima, e gli permette il recupero o la continuazione di una relazione che fino a poco prima pote-va risultare critica o carente proprio a causa di una realtà svantaggiosa, ades-so ripiegata a proprio vantaggio grazie alla proprietà di mentire. Da un pun-to di vista strettamente psicologico, si può affermare che questo tipo di mo-dalità, il mentire, rientra nella norma. La bugia è parte di un processo evo-lutivo più grande che riguarda il rap-porto dell’uomo con ambiente e la sua abilità nell’adattamento (sopravviven-za); un contesto difficile che può pre-sentare per il soggetto delle difficoltà di integrazione, di accettazione o di valorizzazione di sè, viene temporane-amente affrontato con successo grazie alla possibilità di dire bugie.Nel continuare la riflessione, proprio in adolescenza, è l’acquisizione della capacità di mentire il segno che apre

effettivamente alla possibilità di aver fede. Infatti, in maniera paradossale, solo un adolescente in grado di menti-re ha in sé la proprietà psicologica che gli permette di credere senza il bisogno di avere prova certa. Se la fede non ha bisogno di dato allora è l’adolescenza con le sue nuove potenzialità psichi-che l’epoca più fertile per il messaggio religioso e la sua comprensione più profonda.La capacità di non raccontare la ve-rità in adolescenza può avere anche altre valenze di respiro psicologico in termini evolutivi. In un’età in cui ci si deve separare dalle figure genitoriali l’abilità del mentire è uno strumento di grande rilievo. In adolescenza ogni ragazzo ha un compito principale a cui non può venire meno, si tratta di definire una propria identità (Sé), un proprio carattere che lo faccia sentire unico tra tutti ma soprattutto indivi-duo di valore, prezioso e importan-te, ben oltre le evidenze scolastiche o sociali, che in alcuni ragazzi talvolta potrebbero comunque mancare. In questa ricerca di sé la separazione dalle figure fondamentali dell’infanzia, ossia i genitori, è fenomeno cruciale e deci-sivo: senza separazione non può esserci individuazione. La mamma ed il papà (dell’infanzia) devono essere abban-donati, perché è nato un adolescente che con il periodo precedente vuole avere poco a che fare, tuttalpiù egli ora ha bisogno di un padre e madre (dell’adolescenza). Grazie alla pubertà la separazione dall’infanzia ha un’ac-celerazione, l’adolescenza porta con sé

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una moratoria psicologica del periodo precedente e con la nuova nascita il soggetto è più libero nella nuova ri-cerca di esperienza. Egli si sente pron-to ad affrontare il nuovo mondo, tra mille incertezze e timori, cerca nuovi incontri e trova spazi e persone mai conoscuti nell’infanzia; in quest’epoca la capacità di mentire è importante per la separazione, così come la capacità di credere è fondamentale per incontra-re e fare proprio, mettere dentro di sé e costruire una base interna per co-minciare a sentirsi qualcuno. “Questo sono io!” Ora, questa nuova opportunità di in-contrare per fare proprio, e cominciare a sedimentare per formare un proprio carattere, un proprio profilo di perso-nalità, spinge tutti i giovani a cercare spunti ed esempi attorno a sé, nei co-etanei, negli adulti, nel mondo della comunicazione. Talvolta senza mai accettare proposte preconfezionate, pacchetti dati già composti e disposti in bella mostra per tutti, talaltra acco-gliendo forme omologate ma ispirate ad elementi di valore, ideali, lustro sociale in grado di catturarlo. Ogni adolescente ha la necessità di sentirsi speciale e quindi, pur nel bisogno di conoscere perché appena nato, egli cerca oggetti speciali, magari unici o percepiti come straordinari, come fossero adatti a sé quasi come fossero stati creati proprio solo per lui. Il rifiu-to per i prodotti sociali standardizzati degli adulti, i messaggi del patrimonio delle tradizioni civili, la stessa proposta religiosa, sono l’evidenza della forza

del processo selettivo guidato dal sen-timento profondo di unicità che ogni ragazzo coltiva ogni giorno.L’insuccesso dell’esperienza religio-sa nei giovani, così come capita per l’esperienza scolastica, sono la mi-sura proprio di questa caratteristica dell’adolescenza; quando la proposta parrocchiale, la trasmissione della fede, è disposta per dover essere accettata in modo acritico, come sistema di valori predefiniti e solo da acquisire in mo-dalità passiva, i giovani si allontanano, e lentamente si orientano nel campo di altre esperienze dove il loro ruolo sia più attivo e il messaggio per sé giunga nuovo e raffinato proprio per loro.In buona sostanza, a partire dagli un-dici anni in avanti, all’incirca durante l’età in cui i nostri ragazzi frequentano la scuola secondaria di primo grado, è molto probabile che nessuno di loro accetterà affermazioni, insegnamenti, lezioni, proposte come verità assolute e proposte in maniera standardizzata per tutti. In questo periodo si instaura una sorta di doppio gioco: se da un lato gli adolescenti sono pronti a credere (ma-turità cognitiva), e quindi ad essere in qualche modo dipendenti dall’altro, è proprio per riaffermare il loro biso-gno di indipendenza, che rifiuteranno acriticamente ed aprioristicamente tutto ciò che viene dall’esterno, tanto più quanto l’offerta sarà dogmatica. La trasmissione di significati, di valori dei quali hanno bisogno, deve essere effettuata in modo che trovi un’acco-glienza favorevole nei giovani, ossia rispettando il bisogno fondamentale

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che li spinge a fare in proprio, nelle modalità di interazione, di essere chia-mati in causa, di partecipare, anche sul piano emotivo.Nella mia esperienza professiona-le continuamente trovo conferma di come in ambito adolescenziale siano due le forme principali per realizzare identità, per acquistare valore, signifi-cato, dato dall’esterno, affinchè possa essere interiorizzato, fatto proprio: - esperienza diretta: gli adolescenti

fanno esperienza diretta, eventual-mente con pari (implicazione com-pleta, inclusa componente emotiva, “sulla loro pelle”, con annessi costi dell’esperienza negativa)

- adulti competenti: gli adolescenti incontrano adulti “competenti”, in grado di lavorare insieme e di riuscire a non farli sentire “dipendenti”, vei-colando non solo nozioni ma “ogget-ti psichici” che alloggino nella loro mente giovane e quindi diventino di fatto patrimonio soggettivo, intimo, personale.

Purtroppo, nel nostro tempo, gli adulti sono ancor più in difficoltà che non in passato per quanto riguarda la possi-bilità di incontrarsi e lavorare assieme con gli adolescenti. Occupati troppo da sé stessi gli adulti lasciano soli gli adolescenti. Bambini troppo coccolati ieri, gli adolescenti di oggi sono sem-pre più autosufficienti nella costruzio-ne di sé, i giovani sono pervasi da un atteggiamento di fondo di tipo narci-sistico che li vede sempre più lontani dall’adulto. Diversamente dal tempo in cui l’identità era frutto anche del-

la differenza guadagnata anche con il conflitto con il mondo dei grandi, oggi l’adolescente vive e cresce “in proprio”, utilizza gli adulti approfittando della loro disponibilità ma senza ricercarne il confronto autentico. Gli adolescenti sono definiti narcisi in quanto capaci di autogeneratività, in grado di gene-rarsi da soli, guardandosi allo specchio (coetaneo) invece che misurarsi con l’altro più grande (l’adulto). L’incontro e il negozio che un tempo avveniva tra adulti e giovani secondo modalità codificate e passaggi tempo-rali ben noti, oggi non avviene più, in nessun ambito, scuola e chiesa com-prese: il mondo degli adulti non solo non interessa i giovani ma è come se non esistesse, i giovani utilizzano gli adulti come se fosse uno strumento o materiale inerte, l’adulto viene spesso collocato al di fuori del campo men-tale di un adolescente, oltre l’area di interesse attivo della mente in adole-scenza.In letteratura lo studio del fenomeno adolescenza tipico degli ultimi decen-ni ha coniato l’affermazione che si è passati da un mondo etico ad un mon-do estetico, o più precisamente narci-sistico (autogenerazione di sé).Nei nostri giovani il metodo fonda-mentale per conoscere sé stessi, e il mondo, è l’affidamento sulle esperien-ze fatte da soli, o nel ristretto giro di amici; un mondo limitato e per certi aspetti chiuso, dove si assume lessico ed atteggiamenti autoctoni, un richia-mo ai confini dello spazio psichico contenuto.

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Complice, e non di poco conto, del-la nuova epopea narcisistica, il venir meno del sistema delle regole e dei limiti da parte del modo esterno in cui albergano i ragazzi, e del quale gli adulti dovrebbero essere i titolari: di fatto ogni bambino, prima, e ogni adolescente poi, mediamente ha speri-mentato poco dei confini delle proprie azioni e dei propri desideri. In ogni contenitore dell’infanzia (famiglia, scuola…) la componente normativa è stata spesso sostituita dagli adulti dal-la determinante affettiva, in nome di una libera crescita del bambino atta a sviluppare tutte le sue potenzialità. In questo modo, nel tempo, la poca espe-rienza del limite e del contenimento, contribuisce a non mentalizzare la stessa esistenza di un confine, per la-sciare spazio aperto all’azione mitiga-ta dal solo giudizio interno (scarso) o all’impatto con la realtà, dura e cruda, che talvolta non consentirà a soddi-sfare il desiderio. La regolazione del soggetto (adolescente) in chiave psi-cologica e comportamentale, a questo punto, non potrà essere che interna e su base emotiva: tipicamente espressa con “faccio quello che voglio io e se me la sento”.Se gli adulti hanno perso campo nel mondo psichico degli adolescenti, complice la deriva narcisistica vissuta nell’infanzia, altrettanto non si può dire dell’impatto e della considerazio-ne dei coetanei per ogni adolescente in pieno sviluppo psichico. I giovani non guardano agli adulti per cogliere esemplificazioni o proposte di cresci-

ta per sé ma più spesso si confrontano gli universo gli altri, si “squadrano” tra di loro. La ricerca di sé, di tratti del carattere, di valori e significati, può essere trovata nell’educatore più im-portante; il coetaneo, il compagno di banco, il migliore amico, il compagno della squadra di calcio che sembra “più avanti”. Il coetaneo rappresenta il nuovo edu-catore efficace perché:- il coetaneo non è un adulto (colloca-

to all’interno del campo mentale)- il coetaneo non è mai copia di me

stesso: egli è sempre diverso da me, ma non troppo (diversità sosteni-bile).

Soprattutto per i ragazzi più giovani, i compagni un po’ più grandi sono il riferimento più importante per la vita psichica in adolescenza e la costruzio-ne dell’identità. La relazione tra pari rappresenta la miniera più preziosa di tipo esperienziale per la crescita in adolescenza. Attraverso l’esperienza condivisa con chi è come me o qua-si, e contemporaneamente migliore di me, ogni adolescente attiva la princi-pale raccolta dei segni, degli stili per affrontare i fenomeni, dei suggerimen-ti per mettere a punto il sistema dei valori interni ed esterni.Proprio il discorso sulla trasmissio-ne dei valori in adolescenza richiede alcune precisazioni affinchè la rifles-sione sulla psicologia in età evolutiva, la capacità di credere e la fede siano affrontati in modo più completo. Se la trasmissione di un sistema di valori appartenenti al mondo religioso è ne-

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cessario per i nostri giovani, possiamo affermare che in realtà ci troviamo di-fronte a un problema non limitato al discorso religioso ma che investe ogni proposta valoriale per questo target di soggetti. Anche altre proposte di va-lore, civile, laico, umano, faticano ad essere acquisite e interiorizzate dagli adolescenti; la modalità comunicati-va, la qualità della fonte, definiscono il destino del messaggio. Con i bambini la trasmissione della co-noscenza è materia condivisa e pratica-ta da moltissimi educatori e istituzioni eccellenti; per loro credere è più facile, la mancanza delle capacità ipotetico-deduttive li agevola nella registrazione del dato semplificato e se l’educazione si concentra sull’effetto di far imparare quanto l’adulto propone, il successo è pressoché assicurato. A questa età la catechesi è efficace ma di certo man-cano gli elementi psichici (neurobio-logici e psicologici) per poter parlare di fede matura.Il discorso cambia con l’inizio dell’ado-lescenza, con l’età arrivano anche le proprietà mentali per elaborare con-cetti astratti e formulare ipotesi, tesi e antitesi, verità differenti non escluden-ti. Tutto sembra pronto in adolescenza per accogliere “la buona novella”, ma la nuova capacità ricettiva non è colta opportunamente dagli adulti, la co-municazione dell’adolescenza ha cam-biato registro e gli adulti che non si accorgono nel nuovo corso non hanno successo; inascoltati e stanchi alcuni si abbandonano al giudizio su questi adolescenti “annoiati perché hanno

avuto troppo”. In realtà sono proprio gli adolescenti ad essere i più curiosi sul nuovo mondo, anche religioso, perché sono soggetti potenzialmente attrezza-ti a lavorare sul piano simbolico, ide-ale, prospettico, e hanno bisogno di stimoli e suggerimenti che orientino il loro pensiero e comportamento (con esperienza diretta), ma che deve essere veicolata in modo tale che la scoperta sia sempre personale, sentita in termi-ni unici, quasi fondativi, e non copia e imitazione dell’offerta dell’adulto.Non è vero che gli adolescenti rifiutano l’adulto, perché la fame di conoscenza che li spinge alla ricerca per sé stessi, è altissima. Gli adolescenti hanno biso-gno di adulti purchè questi siano in grado di comunicare con loro, adulti competenti in materia (religiosa) ma altrettanto capaci di grande ascolto e risonanza empatica. Un adulto coe-rente con ciò che afferma e testimone in prima persona degli stessi contenuti di cui egli è primo referente. Credente e credibile.Purtroppo bisogna tenere presente che non tutti i ragazzi di oggi maturano le nuove competenze cognitive, anzi la ricerca ha dimostrato che ancora a 16 anni alcuni di loro non hanno raggiun-to la possibilità di esprimersi secondo un codice simbolico, fondamento della comunicazione più complessa e della capacità riflessiva. Purtroppo essi sono privi della capacità di usare pa-role e di combinarle in frasi affinché si sviluppi un concetto nella mente, e possano essere trasmessi ad altri rea-lizzando una comunicazione positiva,

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efficace e condivisa. L’obbiettivo di fornire loro nozioni, informa-zioni, e strategie opera-tive quando la matura-zione delle capacità della mente tarda ad arrivare può essere agevolata, se non compensata, attra-verso il “corpo”, ossia l’esperienza percettiva, sensomotoria, proprio-cettiva. Il corpo e l’espe-rienza corporea (fisica e motoria) sono il mezzo più idoneo, per certi aspetti più naturale vista la trasformazione biolo-gica in corso d’opera, per aprire un contatto condiviso tra adulti e il mondo degli adolescen-ti. Per loro l’acquisizio-ne di un concetto può letteralmente essere veicolato attraver-so il corpo (non solo l’udito, ma anche tattile come nel caso delle esperienze pratico-manuali per esempio).Per molti adolescenti se non si opera in questa modalità più concreta, più fisica, la comunicazione dell’informa-zione diventa solo una narrazione, che ripeteranno con soddisfazione degli adulti, ma che non farà parte del loro patrimonio personale interno di espe-rienza trasformata in idee, convinci-menti, assiomi propri pronti ad essere rappresentati, espressi, divulgati, con-frontati. Il pensiero riflessivo, funzio-ne protettiva dell’esistenza (dai vissuti

ai comportamenti), abilità mentale fondamentale per la formazione di sé e la comprensione di sé stessi, non è certo un traguardo scontato per tanti dei nostri ragazzi. Per loro il suppor-to e la relazione con l’adulto diviene necessità per raggiungere le potenzia-lità del pensiero riflessivo. Soltanto il lavoro attento di tanti adulti compe-tenti potrà aiutare ed “educare” questi giovani affinchè possano appropriarsi della loro vita ed abbiamo cura della comunità e del mondo in cui vivono.

Amedeo Bezzetto

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la parola alla scuola:

insegnante scuola primaria

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Mi è stato chiesto di proporre, prima durante un incontro del-

la Consulta di Pastorale Scolastica del-la nostra Diocesi e poi in forma scritta, “una testimonianza di come nella scuola si possa vivere la propria fede da parte di chi ci opera quotidianamente”.Il termine “testimonianza” è ambizioso

e, nel presentarla, si rischia di entrare nell’ambito della presunzione perché si può pensare di poter essere modello ad altri. Credo che il modo di vivere di ciascuno, con riguardo alla propria fede ma anche alle proprie azioni, ai propri atteggiamenti e ai propri valori, sia molto legato ai contesti, alle espe-

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rienze che si sono fatte nell’arco della vita, alle persone che si sono incontra-te: quello che ognuno fa o, come in questo caso, esprime va letto e inter-pretato all’interno di questa pluralità di elementi e può essere oggetto di confronto per individuare, insieme a chi ascolta o legge, caratteristiche co-muni ad altre esperienze.Per questo, propongo questa testimo-nianza come “pensieri ad alta voce”, esi-to di un percorso che ho fatto e che sto facendo, non da solo, insieme ad altri.Mi colpisce l’idea di “vivere la propria fede” e mi chiedo come essa si collochi nell’esperienza di una persona.La fede è un dono gratuito che Dio fa ad ogni uomo e ad ogni donna.Si apre una relazione significativa all’interno della quale il dono può es-sere accolto. Per farlo, occorre cono-scerlo e comprenderlo. Da piccoli, si è aiutati dall’educazione religiosa in famiglia, dai percorsi di iniziazione cristiana e dall’esempio delle persone che intorno a noi vivono già, in forma adulta, questa relazione.Col proseguire degli anni, il dono può essere maturato, assunto e scelto. Per farlo, occorre perseverare, per confer-marlo ogni giorno, e sono di aiuto il confronto con la Parola di Dio, la preghiera e l’esperienza di comunione ecclesiale.Contemporaneamente, la scelta si fa testimonianza che, attraverso le azioni di vita nella realtà quotidiana, mostra la bellezza del dono e della relazione d’amore in cui si è inseriti.Credo, per questo, di poter conside-

rare il “vivere la propria fede” come obiettivo da raggiungere, come tensio-ne verso cui orientare la propria vita. Sono necessari continui approfondi-menti, aggiornamenti, rinnovamenti, riflessioni e ricerche all’interno di una dinamica di relazione che, mentre si svolge, esprime la reciprocità dell’amo-re tra Dio e ogni persona e tra ciascu-no con gli altri.Il luogo della fede vissuta è, in questo caso, la scuola.Essa è luogo di formazione umana, di relazioni – con se stessi e con le pro-prie dinamiche interne, interperso-nali, interistituzionali, tra le diverse agenzie educative –, di incontri – tra generazioni, con la conoscenza, con il sapere –.La scuola è anche luogo in cui si espri-mono la responsabilità professionale e quella genitoriale, in particolare per quanto riguarda la socialità dell’educa-zione, e in cui si maturano, dal punto di vista degli alunni, le responsabilità verso se stessi e verso gli altri.Per un cristiano, è anche il luogo della testimonianza laicale come modalità propria di ogni battezzato di contribu-ire a realizzare il progetto che Dio ha per gli uomini, come singoli e come comunità.Rifletto, ora, sul “come” vivere la pro-pria fede nella scuola che, nel titolo proposto, porta il pensiero nel versan-te concreto e operativo.Mi aiutano, in questo, alcuni te-sti, scritti dall’Assistente Nazionale dell’Associazione Italiana Maestri Cat-tolici, Aimc, don Giulio Cirignano, in

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occasione della preparazione al Con-vegno Nazionale della Chiesa Italiana che si è svolto a Verona nel 2006.“Quale, allora, la presenza seria all’al-tezza cioè dell’amore di Dio per il mon-do? Ogni realtà secolare, com’è noto, ha una propria identità, dinamiche e finalità specifiche. Esse vanno conosciu-te, rispettate e perseguite con la guida di un rigoroso profilo deontologico che le mantenga nella prospettiva di promo-zione dell’uomo, di ogni uomo e di tutti gli uomini. Abitare le realtà secolari, in coerenza con la loro natura e le loro buo-ne finalità, è la sola maniera degna di considerazione.Ogni realtà secolare si evangelizza ren-dendola idonea alle proprie finalità. La scuola, pertanto, si evangelizza non colo-nizzandola ma impegnandosi a renderla strumento di vera promozione umana attraverso l’educazione alla libertà e alla responsabilità.La strada obbligata è, allora, quella della competenza intesa nel suo pieno signifi-cato. Competenza come sintesi continua di saperi e conoscenze. Non, dunque, ari-de conoscenze, ma l’insieme di tutto ciò che fa del proprio lavoro un’esperienza di edificazione di sé insieme agli altri.Ciò vale per qualunque realtà secolare. In particolare, parlando di quella che più direttamente ci vede coinvolti, “abitarla” in obbedienza alla sua natura e alle sue finalità positive significa far propria la sfida di conoscerne i dinamismi che la governano al di là di ogni pressapochi-smo, di individuarne le domande che propone, sia quelle di sempre sia quelle inedite, di elaborare risposte idonee, sia

sul piano dei contenuti che su quello di metodo.La competenza, questo tipo di compe-tenza non si improvvisa né si acquisisce una volta per tutte. Si nutre di spirito e volontà di ricerca, di studio, di dispo-nibilità al confronto e alla verifica. E’, insomma, coinvolgimento permanente per l’ampio spettro delle questioni con-nesse con il mondo della scuola e delle molteplici relazioni interne ed esterne ad essa che la caratterizzano. E’ amore vero, concreto, rigoroso non solo vago senti-mentalismo. E’ amore fatto di costanza, continuità e, come ogni amore vero, non vive di rendita, non si improvvisa”1.Si aprono, a mio modo di vedere, due prospettive di impegno: l’attenzione alle persone, in vista della loro forma-zione completa, e l’attenzione all’isti-tuzione, affinché manifesti e svolga completamente il suo compito.Sul piano concreto, la competenza pro-fessionale si esprime nelle azioni indi-viduali: verso gli alunni – la relazione interpersonale, l’attenzione a loro in riferimento anche alle diverse età, la preparazione delle lezioni, l’accompa-gnamento nello studio, la valutazione, unita al senso di giustizia, alla sua fun-zione formativa e al concetto di me-rito – verso i colleghi e i genitori, per contribuire a realizzare la partecipa-zione, la condivisione educativa, verso l’istituzione, per il rispetto dei compiti e delle mansioni professionali e, non ultimo, verso se stessi nell’ambito della propria formazione continua.

1 L’ecclesialità dell’Aimc, a cura di don Giulio Cirignano, Aimc, Roma, 2008, p. 32-33

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Contemporaneamente, mi pare im-portante un’attenzione alle azioni col-lettive, non solo sul versante del fare e dell’assunzione di responsabilità nei compiti funzionali all’insegnamento.Credo che si possa assumere un ruolo significativo nel contribuire ad affron-tare le domande di senso per andare alla scoperta dei significati e dei valori che orientano e sostengono le azioni.Nell’urgenza e nella precarietà dell’og-gi vedo forte, alla luce del pensiero di Maritain, il rischio di scambiare i mezzi con i fini. L’enfasi sugli aspetti economici e sulla necessità di conte-nimento della spesa, sugli strumenti tecnologici, sulle lingue straniere, sul-la valutazione, sulla certificazione delle competenze, sul merito, sul rapporto scuola-lavoro, a volte, può lasciare in ombra gli aspetti formativi legati alla maturazione e alla crescita della perso-na secondo i propri ritmi e secondo le proprie possibilità e capacità.Lo stile professionale che caratterizza una presenza significativa, come modo di essere di ogni individuo e dell’isti-tuzione stessa, è quello relazionale che favorisce la condivisione, la collegiali-tà e la partecipazione e la realizzazione della democrazia.Per un cristiano, inoltre, tutto questo diventa stile della propria presenza lai-cale che caratterizza lo stile della co-munità ecclesiale.Mi aiutano ancora le parole di don Giulio Cirignano. “Ma c’è, in tutto questo discorso, una sottolineatura da fare. E’ quella relativa alla qualità della presenza dei cristiani in una qualunque

realtà secolare e, quindi, anche nella scuola.In teoria, infatti, si è tutti d’accordo nel ritenere necessario pensare ad una presenza “alta” connotata da vera com-petenza. In pratica, invece, soprattut-to in relazione al mondo della scuola e dell’educazione si adotta talvolta un profilo abbastanza basso di presenza: affidata alla buona volontà del singolo, profondamente ignara della complessità dell’esperienza scolastica e della ricchez-za del suo costruirsi come comunità, una presenza che si attesta su battaglie par-ziali intorno a valori importanti, ma circoscritti. Un profilo di presenza che si pensa di poter garantire senza l’ascolto continuo delle domande sempre nuove e la difficile ricerca di risposte adeguate.Una presenza efficace reclama invece, necessariamente, la forma organizzata dei professionisti di scuola. L’Associa-zione, appunto, che non è qualcosa di diverso dalla comunità ecclesiale. E’ la comunità stessa che, in forma idonea e non improvvisata o rapsodica, costruisce il suo abitare significativo nella realtà se-colare. Presenza da riconoscere e favorire proprio in omaggio a quell’immagine di chiesa conciliare che tutti diciamo di amare e in cui diciamo di credere. La comunità cristiana esprime se stessa at-traverso il laicato organizzato: in sua assenza essa non si rende presente se non attraverso la sola azione individuale.”2

Antonio Rocca

2 Idem, p. 28

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la parola alla scuola:

insegnante scuola secondaria

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Come un professore può vivere la propria fede

“Testimonianza” è un termine molto impegnativo e mi ha

spinto a fare un po’ di silenzio, a esa-minare le mie convinzioni, ad analiz-zare le mie azioni.Ho fatto allora alcune valutazioni e sono emerse queste precisazioni/osser-vazioni:- non è che un professore, in quanto

tale, viva la fede in modo diverso- vivere la fede non varia dal tipo di

lavoro, di ambiente, di materia che si insegna o dal giorno della settima-na (la domenica sì gli altri giorni un po’ meno, a casa sì sul lavoro un po’ meno, ecc.)

- vivere la fede per me vuol dire ave-re la capacità di leggere la realtà, di rapportare le situazioni, di pensare, di agire alla luce della Parola e questo richiede una continua formazione

- inoltre, nel momento in cui ci si ren-de conto di essere cristiani, di voler essere cristiani, la fede entra a far parte del nostro DNA, per cui non si distingue più se è il “buon carattere” che porta alla vita cristiana o se è la vita cristiana che plasma e migliora il modo di vivere.

Detto questo per me si è posto il pro-blema di sintetizzare in nuclei portanti le varie azioni della mia vita, in parti-colare di quella scolastica.

Ne indicherei tre, concatenati tra loro, di ugual importanza:- il senso del ruolo- la comprensione/accettazione del do-

lore- la centralità della persona

Il senso del ruolo: Il ruolo non è pote-re, è servizio (chi è il primo di noi?; Io sono venuto per servire). Il ruolo ha sen-so e autorevolezza se alla base troviamo conoscenza e competenza e assunzione di responsabilità. Il ruolo è la posizione che permette di “tirar fuori il meglio” da chi ci sta di fronte, la funzione che consente di migliorare le cose, ma que-sto appunto è possibile conoscendo il proprio ruolo, avendo una buona e continua preparazione e la capacità di adattarsi alle esigenze contestuali.

La comprensione/accettazione del dolore: Il cristiano non è un maso-chista, Cristo ci ha salvato con i suoi insegnamenti, indicandoci la strada da percorrere, non con la sofferenza della crocefissione; Cristo sulla croce esprime soprattutto il suo abbraccio al mondo. Il dolore, la perdita di persone care, i distacchi fanno parte della vita; queste esperienze possono portare ad un rinchiudersi in se stessi, incattivirsi, o, se accettati, dare delle opportunità. L’opportunità di capire meglio l’altro, la sua situazione; permette di imme-desimarsi nel problema altrui perché già vissuto in prima persona e que-sto consente il gesto, la parola giusta perché sono il gesto o la parola da noi ricevute, o che avremmo voluto rice-

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vere, nella medesima situazione; si è in grado non solo di sentire ma ascoltare veramente l’altro. La scuola è un luogo privilegiato per le relazioni.

La centralita’ della persona: Amate-vi l’un l’altro come io ho amato voi... ama il prossimo tuo come te stesso... se farete questo ad uno solo di loro l’avrete fatto a me... chi è senza peccati scagli la prima pietra... nessuno ti ha condannata? Neanch’io ti condanno.Il prossimo è importante, il prossimo permette di seguire le indicazioni di Cristo, in che modo?- con l’amore- con il rispetto- con una percezione dell’altro senza

preconcetti, senza giudizi.Come credo di aver espresso queste convinzione nei ruoli vissuti nella scuola?- privilegiando al massimo il dialogo

personale, stabilendo, quando possi-bile, una comunicazione di ascolto e risposta paritaria, nei due sensi

- mettendomi in gioco come ruolo e come persona

- mettendo in conto un fiume di ener-gia, un mare di tempo, un oceano di pazienza.

Nel caso della mia funzione di respon-sabile della commissione orario, il fa-moso orarista, ho cercato di rendere più agevole il lavoro ai colleghi, ma di tutti i colleghi, tenendo conto dei loro problemi di salute, familiari od altro, senza che questo danneggiasse la di-dattica o gli altri docenti. Non potere, ma servizio.

Per far questo iniziavo ad imposta-re l’orario a giugno, lavorando anche nelle vacanze estive e senza perdere a settembre giorni di lezione.Sono stata vicario e non ha ritenuto questa carica una posizione di presti-gio, ma la funzione che permetteva di ricucire, mediare, essere l’interfaccia tra le varie componenti della scuola; non un’occasione per essere sotto le luci della ribalta, ma nel retroscena.Fare il docente è stata, ed è ancora tutt’ora con il carcere e il progetto di scuola in ospedale, l’esperienza più ap-passionante; credo che insegnare sia il più bel lavoro del mondo.In classe sono persona fra persone.A farmi capire questo è stata un’espe-rienza ad inizio carriera, parlo del 1972. Come insegnante novellina ci tenevo a far bella figura, mi preparavo accuratamente le lezioni, le scrivevo su fogli ecc, mi sentivo in gamba, poi un giorno un’alunna (ricordo ancora il nome Gonzi Maria Grazia e l’espres-sione combattiva, erano gli anni giu-sti!) alza la mano per intervenire e mi dice: “Lei entra fa lezione, certe sono anche anche belle, poi esce, ma non ci vede; guardi che ci siamo anche noi!”L’insegnamento permette di far cresce-re la persona in modo globale e l’edu-catore deve partecipare attivamente a questo processo, inoltre regala all’inse-gnante la possibilità di rinnovarsi con-tinuamente, nella didattica, nella per-cezione di quello che succede intorno perché raccontato da persone diverse, con ottiche diverse.Come docente è fondamentale la co-

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noscenza e la competenza nella la pro-pria disciplina per svolgere al meglio il programma assegnato, ma è anche e forse più importante tenere presen-te le abilità degli alunni, il loro livello di preparazione, assumendosi anche la responsabilità di ridurre il program-ma, facendo magari brutta figura sul-la carta, ma assicurando agli studenti un’adeguata preparazione. Si aspettano gli ultimi, ma nel contempo si devono spronare le eccellenze.Il rispetto nei confronti degli alunni credo di averlo manifestato anche nel:- vederli come persone, con tutti i loro

problemi e le loro aspettative- non permettermi mai di entrare in

classe senza la voglia di lavorare, per-ché avrei privato gli studenti di un diritto

- non regalando voti, perché sarebbe stata una presa in giro, un illuderli sulle loro conoscenze

- sforzandomi di far capire che il voto non è il giudizio sulla persona, ma la comunicazione del livello di prepara-zione, che può sempre migliorare.

Attualmente presto servizio di volon-tariato in carcere, al maschile e al fem-minile, e partecipo ad un progetto di scuola in ospedale per un ragazzo di 17 anni affetto da tumore.In entrami i casi la mia funzione do-cente è innanzitutto quella di pro-muovere autostima, voglia di guarda-re avanti, di essere, nonostante tutto, sereni e progettuali, poi si passa alla matematica.

Luisa Klingler

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la parola alla scuola:

dirigenti scolastici

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Passione educativa e fede: l’esperienza nell’ambito della scuola dell’infanzia

L’educazione e l’insegnamento, se svolte con passione, sono attività

affascinanti e coinvolgenti.Come esperienza personale ho avuto la possibilità di dedicarmi con passione all’attività educativo-didattica, prima come insegnante e poi come dirigente-pedagogista nelle scuole dell’infanzia del Comune di Verona.L’esperienza e il ruolo svolto a livello professionale mi ha dato l’opportunità di accrescere con continuità una pre-parazione specifica, arricchita quoti-dianamente attraverso il contatto, l’in-terscambio di percorsi e progetti con insegnanti, bambini, genitori delle 31 scuole dell’infanzia comunali.L’ambito scolastico se vissuto con en-tusiasmo e professionalità rappresenta, come penso accada per molti altri tipi di lavoro, soprattutto quando sono ricchi di relazioni umane, è l’ambien-te ideale per vivere, senza dichiararla esplicitamente, anche la propria ap-partenenza religiosa e propri valori.Essa, infatti, come nel mio caso, è con-naturata nel modo di agire, nel com-portamento, nelle scelte, nelle parole dette e nel modo di dirle.La scuola dell’infanzia, in modo particola-re, ha alcuni ambiti e aspetti metodologi-ci dove un cristiano ha numerose oppor-

tunità di esprimere, vivere e testimoniare ciò che è, pur nella consapevolezza, come nel mio caso, di lavorare all’interno di una scuola pubblica dove convivono real-tà, ispirazioni, culture e idee diverse.Ma ambiente laico non significa man-canza di identità culturale, superfi-cialità, indifferenza etica, non ricerca della verità e di educazione integrale della persona.Ecco quindi che come dirigente del mondo della scuola, come responsa-bile e coordinatrice di progetti edu-cativi posso essere un testimone della mia fede nel massimo rispetto di tutti: bambini, genitori e insegnanti.Il proprio credo religioso se vissuto nel rispetto degli altri e nella serietà pro-fessionale non solo non toglie nulla al lavoro che uno fa, ma anzi diventa un valore aggiunto.Nel mio caso, ad esempio, vivere que-sto credo significa:- creare relazioni positive con gli altri,

cioè favorire in continuazione l’ascol-to, il dialogo, l’accoglienza

- riconoscere che nella vita c’è sempre qualcosa da imparare, essere in con-tinua ricerca, sapere di non possedere tutta la verità

- promuovere il benessere di tutta la comunità educante.

- vivere le differenze e le diverse abi-lità come occasione di crescita, pro-muovendo le singole potenzialità, integrandole nel contesto scolastico, familiare e sociale

- coltivare il rispetto delle persone, so-prattutto di quelle che la pensano in modo diverso

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- offrire continuità educative, ponti tra scuola, famiglia e so-cietà.

Questi atteggiamenti comportano scelte pratiche, esperienze condi-vise nella consapevolezza che “la fede cresce quando è vissuta come esperienza di un amore ricevuto e quando viene comunicata come esperienza di grazia e di gioia” (La Porta della Fede. Benedetto XVI, Motu Proprio, ottobre 2012, n. 9) e che “il cristiano non può mai pensare che credere sia un fatto pri-vato. … La, proprio perché è atto di libertà, esige anche la respon-sabilità sociale di ciò che si crede” (idem, n. 10).E sempre ascoltando le parole del Papa siamo chiamati a dare testimonianza del nostro essere cristiani là dove siamo posti dalla vicende storiche “nella famiglia, nella professione, nella vita pubblica, nell’esercizio dei carismi e ministeri” (idem).In definitiva, essere un dirigente scola-stico cattolico in ambito di una scuola pubblica, ma penso che questo valga per ogni tipo di scuola, significa:Essere professionisti dell’educazione seri, preparati e motivatiEssere consapevoli che la nostra profes-sione va oltre alla trasmissione di infor-mazioni, ma aiuta a costruire l’uomo e la donna in tutti i loro aspetti.Essere consapevoli che specie in questa fascia di età le famiglie ci “affidano” i figli e quindi la nostra responsabilità è massima.

Avere uno sguardo aperto sul mondo, cioè uscire dal piccolo particolare dei problemi dell’ala suola, ma prendersi a cuore l’altro, il vicino come il lontano, la mia casa come tutta la terra.Per concludere, penso che la nostra presenza nella scuola come insegnanti cattolici sia, come ha affermato Gio-vanni Paolo II in un discorso del lon-tano 1985 “una missione che ha come obiettivo di educare, amorevolmente e gradualmente l’uomo la propria ragione per renderla disponibile ad accogliere le verità di fede”

Roberta Zanella

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la parola alla scuola:

genitori

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Verona, 19 febbraIo 2013

anno della fede.riscoprire la gioiadi credere

In questo anno di grazia siamo chia-mati a chiederci cosa vuoi dire vive-

re da cristiani, a concentrarci sull’es-senziale cioè il rapporto con Gesù,a riscoprire il dono della fede perché per i credenti ma anche per tutti gli uomi-ni di oggi l’urgenza sta nel riscoprire la questione di Dio, perché la crisi che

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investe la società moderna è prima di tutto una crisi di Fede.- Scuola e famiglia quali luoghi privi-

legiati di relazioni: luoghi cioè dove è possibile e si è aiutati a fare domande, condividere intuizioni, osservazioni. Oggi la fatica più grande tra adul-ti è quella di confrontarsi, guardare in viso l’altro, mettere sul tavolo le proprie ragioni. Pare che la preoccu-pazione più grande sia quella dell’or-ganizzazione, del fare mentre occorre imparare insieme a mettere in rela-zione un’ operatività con delle idee per non ridurre il lavoro personale ad un fatto puramente organizzativo.

- avventura: educare è un’avventura occorre spirito di servizio e passione per l’uomo, per i genitori che incon-triamo, per gli educatori, per tutta la scuola. Lo spirito di servizio deve essere sempre caratterizzato da una grande passione che ti porta a con-dividere associativamente la preoc-cupazione educativa di tanti genitori in una bellissima avventura. Non sai mai bene dove ti potrà portare, sai da dove parti, con chi, ma poi nel ‘’viag-gio’’ molte volte incontri esperienze e volti diversi che ti si affiancano, a volte per curiosità, a volte in modo anche conflittuale e poi scompaiono. Ma poi ritornano, sono genitori che riscoprono attraverso un’amicizia con te un bisogno educativo a volte nascosto, poco sentito ma presente. A quel punto il gioco è fatto e si con-divide un lavoro educativo.

- appartenenza: per affrontare la sfi-da educativa occorrono solide radi-

ci. E quali sono queste radici oggi? La prima è l’affezione alla Chiesa, agli insegnamenti così puntuali e raffinati di Benedetto XVI e di tut-to il magistero. La seconda una fede grande nella famiglia come forma naturale di solidarietà sociale, luogo primario e privilegiato in cui la Tra-dizione viene conosciuta, trasmessa e verificata. Famiglia che si pone nella società civile come soggetto sociale che interpella e viene inter-pellato.

- Missionarietà: la nostra esperienza associativa e la stessa presenza nella scuola sono forme di volontariato e il volontariato è prezioso. La gratui-tà dei nostri gesti, del nostro operare rende la nostra esperienza umana e associativa una missione di vita. In questo momento storico non si può essere tiepidi, occorre osare, ridare coraggio e speranza a tanti genitori smarriti. Occorre costruire unità an-che se costa fatica, occorre tenerci, fare un lavoro personale e comunita-rio, occorre guardare avanti.

Conclusione: ritengo che il compi-to principale sia proprio lavorare per favorire in noi genitori la consapevo-lezza di quello che è il nostro ruolo all’interno della scuola, per aiutarci ad uscire da un ruolo individuale e avvertire l’esigenza di abbracciare una dimensione più aperta in cui l’educa-zione venga concepita come un bene sociale.

Maria Luisa Dal Castello

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la parola alla scuola:

studenti

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Quando parlo di fede, e soprat-tutto di come la vivo nei luoghi

che frequento maggiormente, quindi scuola e università, uso principalmen-te il termine esperienza di fede. Per-ché la fede viene coltivata e poi ma-tura quando si inizia probabilmente un percorso personale di ricerca che porta a scoperte diverse (per esempio la vocazione è una scoperta) a seconda dell’individuo.

Quando provo a raccontare della mia esperienza di fede ricordo sempre le parole del Santo Padre Benedetto XVI che qualche anno fa pronunciò. Il Papa disse che un buon cattolico non è colui che si limita a pregare o a frequentare ogni domenica la messa. Il cattolico si deve spingere ben oltre a questo, deve cercare anche un im-pegno pratico rivolto al prossimo e al bene comune. Queste parole sono ar-

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rivate proprio quando stavo cercando la risposta alla domanda: mai io sono un bravo cattolico? Sono un credente vero? Fortunatamente grazie alla mia famiglia ho conosciuto una fede sin-cera, ma a quel punto della mia vita sentivo che mancava qualcosa. Quelle parole di Benedetto XVI non racchiudono solo la mia esperienza di fede, ma penso che insegnino un mes-saggio che io vorrei condividere con la consulta in merito alla fede e che è se-condo me basilare. La fede e l’impegno sono due concetti che per un cattolico non possono essere separati, ma van-no insieme. Anche per il semplice fat-to che noi non siamo cattolici solo la domenica, ma dobbiamo esserlo tutta la settimana, tutti i giorni. Perché noi agiamo e compiamo azioni ogni gior-no, e queste azioni non possono rive-larsi in contrasto con la nostra fede, ma soprattutto in contrasto con la no-stra identità, che è quella cattolica ma che è soprattutto, mi auguro, l’identità di una “brava” persona, che si impegna per il bene comune. Per quanto mi riguarda io ho iniziato a impegnarmi all’interno della scuola. Mi è stato proposto di entrare a far parte di una associazione studentesca di ispirazione cattolica che si occupava di rappresentare tutti gli studenti ita-liani della scuola paritaria. Oltre a un compito puramente rappresentativo mi è stato chiesto di condividere un progetto che prevede dei giovani che diventano educatori nella scuola (oltre alle opportunità che la scuola già offre) per altri giovani. Lo scopo è formare

una coscienza civile, una formazione alla cittadinanza, trasmettere dei valo-ri. Tutto questo ispirandosi al Vangelo ma anche ai principi della Dottrina Sociale della Chiesa che sono a mio avviso profondamente laici, motivo per il quale non mi sento mai come se stessi imponendo un qualcosa di par-te, ma come se il mio consiglio avesse una valenza universale; per un cristia-no avere una visione universale del mondo è fondamentale. Detto questo io nell’associazionismo ho trovato un percorso personale di crescita, di im-pegno e quindi di rafforzamento nella fede. In conclusione la fede deve spo-sarsi con l’impegno e poi un cattolico non deve dimenticarsi quello che è; ciò che siamo deve risultare in quello cha facciamo: dal pensiero all’azione!

Stefano Bonetti

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la parola del teologo

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Per una “grammatica” della fede

Desidero cominciare questo no-stro incontro sulla fede parten-

do da quella che io chiamo una delle nostre preoccupazioni: definirla, darne una descrizione precisa, convinti che quando l’avremo definita, penseremo di aver risolto, almeno in buona parte, il nostro problema.È molto interessante andare all’espe-rienza diretta di Gesù, quella che co-nosciamo dal Vangelo: se ci pensiamo bene, Egli non pare preoccupato di dare una definizione precisa della fede, quanto piuttosto di riconoscerla.Ecco allora un primo richiamo per noi, un richiamo proprio a livello pastora-le: è importante riconoscerla più che definirla con precisione: occorre capir-la, coglierne la struttura, o meglio, in termini più ecclesiali, discernerla.A questo proposito ritengo che sia molto utile ripensare a quanto papa Benedetto XVI ci ha offerto almeno in due occasioni, nel suo Motu pro-prio “La porta della fede” che ha in-trodotto l’anno santo, e nel messaggio alla Conferenza Episcopale Italiana nel maggio 2012.Sulla base di queste suggestioni cer-cherò di delinearla utilizzando quelle sfaccettature che abbiamo intravisto nel nostro momento di preghiera ini-ziale, quando tutti insieme abbiamo

recitato il Salmo 26: “Ascolta, Signore, la mia voce”.Innanzitutto mi pare che si possa senz’altro dire che la fede è un evento di relazione; in altre parole il compito, l’esperienza vera della fede, si attua là dove c’è una relazione. Non si tratta di sapere delle cose su Dio, si tratta piuttosto di entrare in un’esperienza di incontro con Lui, di una relazione appunto, di una relazione di intimità e, aggiungerei, qualificata dall’amore.Per spiegarci meglio noi possiamo af-fermare che ci introduciamo alla fede nella misura in cui mettiamo noi stessi e le persone nella possibilità di fare un incontro. Per me, aver fede nella mia vita vuol dire allora avere un incontro, un incontro con Gesù Cristo.C’è poi un secondo elemento da te-ner presente: se la fede si configura come relazione e non ha al centro un libro, ma una storia di salvezza, allora ha come elemento generativo l’acco-glienza della Parola intesa non esclu-sivamente come Bibbia: la Parola di Dio, infatti, sorpassa la Bibbia. La Sa-cra Scrittura non è la totalità della sua parola.La prima Parola di Dio è il creato, Pa-rola di Dio poi è la storia, la sua rela-zione con il popolo di Israele. La Paro-la di Dio per eccellenza è Gesù Cristo; Parola di Dio è anche la Comunità cri-stiana ed ovviamente anche la Bibbia.Allora quando noi diciamo che la fede è generata dalla Parola non intendia-mo in modo riduttivo solo dalla Sacra Scrittura, ma che è generata dalla real-tà stessa nella quale Dio parla e cioè,

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come abbiamo sottolineato, dal crea-to, dalla storia, dall’incontro con Gesù Cristo, con la comunità ecclesiale e, ovviamente, con la Sacra Scrittura.Apriamo una piccola parentesi per uno spazio esperienziale. Non è diffi-cile quando si vive un’esperienza con i ragazzi in montagna, all’aprirsi di un panorama stupendo, collocare là un bel momento di preghiera. Lo dicono loro stessi: è più facile pregare là, in quella situazione, con quelle emozio-ni Realmente allora il creato è il luogo della Parola di Dio, suscita lo stupore, il concetto di bellezza, dell’eccedenza di Dio rispetto alle possibilità dell’uo-mo, e a questo proposito il Salmo ot-tavo canta magnificamente quanto ho cercato di dire.Possiamo quindi dire che la fede è ge-nerata dalla Parola e questo dà motivo alla consapevolezza dell’esistenza di diversi spazi di approdo alla fede delle persone.Se provassimo a capire, nella relazione con loro, come sono arrivate all’incon-tro con Gesù Cristo scopriremo che le esperienze possono essere le più di-verse. Chi si è trovato davanti ad un evento insolito, particolare, chi nella sua storia ha sperimentato un mo-mento di dolore, oppure di gioia; un altro leggendo un brano del Vangelo è stato colpito da un messaggio forte e singolare; un altro in una esperienza comunitaria ha trovato un motivo ger-minale per il suo crescere, un altro poi leggendo la Sacra Scrittura ha scoper-to l’orientamento per un certo vivere Allora quando diciamo che la fede è

generata dalla Parola riconosciamo che è generata da una molteplicità di realtà che ci portano alla relazione prima che è quella con Gesù Cristo.Se poi io guardo alla mia esperienza personale faccio fatica a dire che l’im-put, la causa principale è stata un’espe-rienza particolare, una riflessione o una folgorazione davanti alla bellezza del creato o perché ho letto il Vangelo o perché ho vissuto in un certo modo nella Comunità Probabilmente questi elementi stanno tutti insieme, oppure uno di questi “luoghi germinali” dell’ ascolto della Parola è stato quello che ha fatto nascere una relazione nuova.Penso davvero che la fede si esprima dentro la logica di un cammino, è la realtà di un cammino, ed è straordi-nario leggere nei Vangeli che i luoghi dentro i quali Gesù riconosce la fede delle persone, sono sempre collocati, anche fisicamente, dentro la realtà di un cammino, di una ricerca, di un ap-proccio.Tutto questo è simbolico rispetto al cammino dell’esistenza di ciascuno di noi: la nostra fede, proprio perché è dentro il cammino della nostra esi-stenza, è una fede che nasce ma che può anche morire: ecco perché biso-gna prendersi cura dei cammini della fede che sono legati all’esperienza, alla storia, ai vissuti delle persone che noi non possiamo gestire pienamente: ci sono a volte dei percorsi che nascono dentro un momento ordinario, poi si adombrano per riaffacciarsi in un altro momento, in situazioni o circostanze le più varie, diverse ed impensate.

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E comunque si può vedere che die-tro c’è sempre un cammino e la fede, come abbiamo detto, è essa stessa un cammino per cui veramente nessuno può dirsi un arrivato. Ogni relazione non può essere, per così dire, possedu-ta, stabilizzata, ma ogni volta ti rimet-te in gioco in una maniera totalmente nuova. Paradossalmente non posso dire “io ho un amico”, ma devo dire che quell’amicizia va continuamente alimentata, vissuta e sperimentata: è un’amicizia non bloccata, cristallizzata in un momento, ma pronta ad aprirsi continuamente ad una crescita.La fede ci è consegnata molte volte dentro le biografie – e per biografia in-tendo il vissuto delle persone – e quin-di è strettamente legata alla vita di una persona; non c’è un cammino di fede standard che possa essere trasferito sic et simpliciter, così come sta, perché ogni cammino ha un volto particolare, perché raccoglie ed esprime una storia esclusiva, perché diventa espressivo di quella unicità, di quella singolarità che è propria di ciascuno.È interessante come nel Vangelo Gesù individui diverse persone che egli ri-conosce come uomo o donna di fede. Hanno cammini diversi, modalità diverse di vita, eppure sono indicati come uomini e donne di fede.Il rischio nostro qualche volta è quello di assolutizzare una figura di fede pen-sando che quella figura debba diven-tare paradigmatica per me, per la mia fede.È impossibile e lo comprendiamo a partire, o meglio rileggendo da dove

noi stessi abbiamo attinto la fede, dalle biografie delle persone a noi più vici-ne.Se io guardo il cammino che hanno percorso mio papà o mia mamma, posso dire senz’altro che la mia fede è maturata in relazione con loro, però è vero anche che la mia è molto diver-sa nella modalità di esprimersi, nella comprensione e nella sua assunzione.È anche vero che non posso dire che la mia è più fede rispetto alla loro, po-trò dare delle connotazioni per diver-sificarla, per caratterizzarla in modo diverso, per connotarla con studi più approfonditi; pur tuttavia devo ri-conoscere che la nostra esperienza di fede, nel bene e nel male, è stretta-mente legata alle biografie, ai vissuti nostri e delle persone che noi abbiamo incontrato.Anche nel Vangelo l’incontro con Gesù manifesta un modo nuovo di in-tendere la vita; così nella vita sempre, se un incontro è un incontro vero, ci cambia necessariamente.Dobbiamo allora sapere che la fede per sua natura si esprime come una rela-zione anzi, è una relazione.Racconto a tale proposito un piccolo aneddoto che è capitato a me. Quando ero in terza Teologia, durante gli eser-cizi spirituali ho avuto la fortuna di ascoltare come predicatore un uomo che ritengo eccezionale, il cardinale Ersilio Tonini. Alla fine del corso ci ha suggerito di fare sintesi di quanto ave-vamo sentito e di formulare un impe-gno per il futuro. Io avevo qualche idea e l’ultimo giorno, vedendo che nessu-

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no si era fatto avanti, presi il coraggio a due mani ed andai a parlargli. Egli fu molto caro e quando mi chiese se avevo pensato a qualche impegno personale io gli risposi che mi ero reso conto che spesso, quando pregavo, mi distraevo, in particolare durante la Liturgia delle Ore. Desideravo, perciò, impegnarmi, una volta arrivato al fondo del Salmo, se mi fossi reso conto che non l’avevo capito bene, di rileggerlo un’altra vol-ta. Lui sobbalzò sulla sedia e battendo forte il pugno sul tavolo esclamò: “Ma sei matto! Ma ti immagini? Se tu vai da un amico e dopo che sei stato lì a parlargli gli dici che devi ripetere tut-to quello che hai detto perché non hai piena coscienza di quello che hai appe-na finito di dirgli? Alla fine ti rimarrà la bellezza di essere stato con lui, por-tati via quello, cosa stai lì a cercare di ricordarti tutte le parole? Quello che importa è che alla fine la tua amicizia con lui si è rinvigorita”.Posso dire di aver capito in quell’in-contro che cos’era per me la preghiera, cioè entrare nella relazione con Dio. Nella fede dunque c’è una relazione ed è tanto più vera quanto noi la costru-iamo come relazione vera.Altra cosa importante è avvertire che la fede è generata dalla parola: se vuoi alimentarla, se vuoi viverla, devi fare in modo che la parola ti parli in tutta la sua pienezza ed in tutta la sua ric-chezza. È pur vero che devi collocar-la dentro un cammino, assumendo la fatica del cammino stesso e vivendola contemporaneamente come uno spa-zio di biografia, facendo in modo che

sia la tua vita a consegnare il volto del-la fede. Paradossalmente forse al tem-po del nostro morire sarà la parola che attesterà la fede per la quale abbiamo vissuto. È così anche nella morte di Gesù “il centurione vedendolo morire in quel modo disse: veramente costui era il figlio di Dio”.Un passo ulteriore è chiedersi quale sia la struttura della fede.A questo proposito ci sono vari testi che possono aiutarci: uno ben artico-lato è il primo capitolo di Giovanni quando si parla della chiamata, della prima chiamata. Quando il Battista indica: “Ecco l’Agnello di Dio”, e i di-scepoli seguono Gesù, egli chiede loro che cosa cercano ed essi a loro volta gli domandano dove abita ed in quell’abi-tare si genera un tempo nuovo. Vale la pena inoltre soffermarsi sulla figura di Maria perché al termine del Motu proprio di Benedetto XVI, facendo forse anche eco al testo della Lumen Gentium e più esattamente al capi-tolo ottavo che richiama Maria come figura della Chiesa, il Papa la definisce proprio “figura della fede”.Fermiamoci un attimo e pensiamo un po’ al testo dell’annunciazione. La sua struttura è quella della fede, in quanto il punto di partenza della fede è in-dubbiamente un annuncio.Per i discepoli era stata la frase pro-nunciata dal Battista, per Maria è quel “rallegrati piena di grazia, il Signore è con te”; e sappiamo che quell’annun-cio rivolto a Maria la ricomprende dentro una storia, una storia semplice e feriale, si parla di Nazareth “che cosa

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mai può venir fuori di buono da lì?”; si parla di una donna, quando alle don-ne era proibito dare il saluto; si parla di una storia fragile ma in quella storia viene offerto un annuncio grande: la traduzione più corretta del “rallegrati” è “amata gratuitamente e per sempre da Dio”. Al cuore dell’annuncio, dun-que, c’è l’amore di Dio, la grandezza di un Dio che ama immensamente la nostra storia, una storia segnata dalla sua presenza, un amore che tocca tutte le dimensioni della nostra vita.Quindi il punto di partenza della fede è sempre un annuncio e l’annuncio passa attraverso la parola dei testimoni: prima il Battista, poi l’angelo. E questo annuncio chiede di iniziare una ricerca, la fede appunto sollecita la ricerca ed è bello vedere come Maria stessa si col-loca e si comprende in questa ricerca, infatti “si domandava che senso avesse un tale saluto”. Chiedersi il senso del-le cose e domandarsi come quanto era stato annunciato fosse possibile è pro-prio della persona adulta, della perso-na matura. Il sì di Maria riconoscibile solo alla fine, dopo la ricerca, dopo la domanda di senso, sembra quasi sug-gerirci che non è possibile maturare un percorso vero di fede se non siamo completamente aderenti al cammino della ricerca del senso della vita. Una persona che non si domanda il senso difficilmente approda alla relazione con Gesù Cristo; occorre, pertanto, – e questa è una grande sfida – educare al senso delle cose, a collocarsi nella ri-cerca, al gusto della ricerca, non delle certezze. In effetti esiste una grande

fame di certezze, ed i mass media ce ne danno continuamente, ma sono fasul-le. Educare alla ricerca vuol dire anche far cogliere la sproporzione, dedicarsi alla pazienza, alla vigilanza, sapendo che non tutto è essenziale.Questa ricerca assume la sua valenza quando si ricolloca dentro una relazio-ne e la stabilizza: per Maria è il mo-mento in cui consegna il suo sì, per i discepoli di Giovanni è il momento in cui si fermano – erano circa le quattro del pomeriggio –.Ed infine la fede se vissuta come acco-glienza di un annuncio dentro l’espe-rienza di una ricerca, nella stabilità di una relazione, struttura necessaria-mente una nuova identità: non si è più come prima.L’incontro necessariamente cambia: “Avvenga di me secondo la tua paro-la”. Il tempo verbale è un ottativo, il tempo del desiderio, e questo spiega tante cose nel senso che è anche un tempo aperto, un tempo che apre. Così succede anche con Simone: “Ti chiamerai Pietro”, è la consegna di un nome sempre da accogliere, e qui il tempo è futuro, non “Adesso ti chia-mi Pietro”: se ci pensate bene, quando Pietro torna a pescare, Gesù lo chiama ancora Simone perché c’è sempre il ri-schio di ritornare indietro, di perdere quell’identità nuova che la fede ci ave-va consegnato.Pensate anche al testo di Matteo, quello dei Magi che si muovono spinti da una stella – l’annuncio della stella è un chia-ro riferimento all’annuncio di Dio – e cercano “Dov’è colui che è nato?”

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Una ricerca che vuol dire confronto e dialogo, perfino con Erode, una ricerca che matura nella stabilità di un incon-tro: la stella si ferma su un bambino e quel percorso nuovo è segnato dal pro-strarsi nell’adorare ed aprire gli scrigni – dove aprire gli scrigni va letto come il consegnare la propria vita come dono – e poi tornare. Questa struttura di analisi funziona con tutti i cammini descritti nel Vangelo.In conclusione non possiamo dimen-ticare che la fede non è qualcosa che si può trattenere; è bella l’espressione di Giobbe, alla fine della sua lunga lot-ta, dopo che il Signore ha ascoltato il suo lamento, tutto il suo travaglio e gli dice: “Ma dov’eri tu quando io creavo le stelle?” Se ci pensiamo, è un po’ in-quietante sentirsi chiedere dove si fosse quando Lui ci intesseva nel grembo di nostra madre; e Giobbe dice: “Signore, mi tappo la bocca e non parlo più”.Probabilmente la modalità più vera dentro la quale maturare e vivere la fede è la qualità di quel silenzio che non è “vuoto di parole”, ma piuttosto la disponibilità a percepire la presenza di Dio anche dentro i vuoti della no-stra storia con una sorta di linguaggio apofatico; come quando noi andia-mo lungo una spiaggia e leggiamo la presenza da un vuoto: diciamo che è passato un bambino dal vuoto delle orme che questi ha lasciato. Questa è la grande capacità dell’uomo di fede: saper abitare la presenza dentro i tem-pi del vuoto e del silenzio.Mi piace molto pensare all’atteggia-mento di Maria alle nozze di Cana

quando dice: “Non hanno più vino Fate quello che Egli vi dirà” poi non parla più. Ma la sua non è assenza, alla fine la troviamo ai piedi della croce. Lei è indicata all’inizio ed alla fine del-la missione di Gesù.Ora torniamo a Giobbe, quando parla con Dio e si mette la mano sulla bocca affermando che non parlerà più; dice il testo: “il Signore benedisse il futuro di Giobbe più del suo passato”. Mi si conceda allora una provocazione: noi che abbiamo parlato e sparlato tanto della fede, nel momento in cui la ricon-segneremo con quelle testimonianze e biografie di vita che forse la rendono più accessibile e credibile, non pensia-mo che proprio il silenzio, – ripeto – il silenzio, non il vuoto, il silenzio con-templativo, che è capacità di parte-cipazione vera alla storia dell’uomo, con la stessa delicatezza di Gesù nei confronti dei due di Emmaus o di Fi-lippo nei confronti dell’etiope questo silenzio non ci renderà maggiormente riconoscibili, come testimoni efficaci di un’esperienza di fede? Spesso noi ci offriamo come guide agli altri, ma sono gli altri che devono poter riconoscere in noi una possibile guida al loro cammi-no e testimoni che possono consegnare loro un processo di vita autentico.Mi piace richiamare a questo punto un passo della Gaudium et spes, al nu-mero 41, dove si dice in che cosa oggi consista la grande sfida pastorale che ci attende rispetto alla nuova evange-lizzazione e all’esperienza di fede: Chi segue Gesù Cristo, uomo perfetto, di-venta egli stesso più uomo.

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Questa è la vera grande sfida pastora-le che ci attende: dire che il Vangelo è in grado di umanizzare la nostra vita. Dentro la complessità delle ri-sposte sul senso della vita dell’uomo, il Vangelo ha una significanza di uma-nizzazione. Il Vangelo, se accolto, è in grado di dare un profilo alto di qualità umana al nostro vivere. Penso che se i ragazzi che accostiamo, accedendo alla

nostra esperienza di vita e chiedendo-ci che cosa ci abbia reso più uomini e più donne, potessero sperimentare che il Vangelo può dare questo risultato, avremmo già fatto un grandissimo ser-vizio all’annuncio ed alla realtà stessa del Vangelo.

Ezio Falavegna

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la parola del filosofo

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arte, fede, trascendenza.appunti per una lezione

La fede non può essere trasformata in oggetto d’insegnamento perché

non si fonda su ragionamenti logici e reiterabili; questo è anche uno dei significati dell’agostiniano credo quia absurdum. La fede infatti è fondata semmai su facoltà dell’animo più mi-metiche e meno concettuali come, per esempio, l’immaginazione. A queste ul-time si rivolge l’arte innanzitutto, ben-ché non in modo esclusivo. In modo molto generale si potrebbe definire la fede come capacità di percepire oriz-zonti d’apertura che, in ultima analisi, riguardano la dimensione trascenden-te. Tale trascendenza, tuttavia, è og-getto di un’esperienza pluristratificata: dalla dimensione divina a quella etica e politica fino a quella dell’alterità o della propria capacità di trascendere se stessi crescendo e maturando attraver-so processi d’esperienza. Proprio que-sta capacità oggi incontra numerosi e considerevoli ostacoli che costringono a parlare di “povertà d’esperienza”. Un individualismo cieco impedisce di fare esperienza dell’altro così come impe-disce di fare esperienza di mondo. Se dunque la fede non può essere inse-gnata, si può tuttavia cercare di dis-seppellirla, di rivolgere l’attenzione a questa capacità di fare esperienza e di

aprire i suoi orizzonti. Infatti, la fede è presente in ogni atto quotidiano, non fosse altro che come fiducia; allo stesso modo è presente anche il senso per la trascendenza. Ogni volta, ad esempio, che si stabiliscono rapporti con altri, si deve poco a poco vincere la lontananza dell’inizio trascendendo se stessi; più tale lontananza, all’inizio, si è dispie-gata e più completamente, in segui-to, è stata superata, più solido sarà il rapporto. Il contrario è rappresentato da un rapporto in cui, fin dall’inizio, si cercano immediatezza e vicinanza, perché la relazione sarà illusoria e in-stabile. Inoltre, in ogni pur piccola e poco significante scelta, decisione o azione è presente una idealità proget-tuale che può riguardare solo la propria individualità, ma anche la sfera etica e politica e deve sempre confrontarsi con la dimensione collettiva, anche là dove si crede di poter fare da soli. Già in questi piccoli gesti è presente uno degli elementi che fin da Aristotele de-finisce l’arte, ovvero la sua capacità di aprire gli orizzonti della trascendenza all’interno della realtà, perché l’arte non rappresenta il mondo così com’è, bensì così come potrebbe essere, non actualiter ma potentialiter.Occorre dunque dischiudere, dis-seppellire la capacità di aprire simili orizzonti e l’arte vi può contribuire in quanto si rivolge primariamente all’immaginazione e perché l’intero problema non è un problema esclu-sivamente logico, razionale o concet-tuale. Inoltre, tra sensibilità e razio-nalità non c’è soluzione di continuità;

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i termini che denotano le facoltà lo-giche, infatti, sono molto affini alla sfera sensibile: sapere e sapore condi-vidono la stessa radice latina sapio, la parola “idea” è riconducibile al verbo vedere, teoria significa osservazione o contemplazione e lo stesso logos rap-presenta l’atto di legare insieme (lat. colligere). Attraverso l’arte è possibile avviare il tentativo di educare (dal lat. educare, da ex e ducere: condurre fuo-ri e all’aperto) e di formare tre facoltà dell’animo strettamente legate all’im-maginazione: sensibilità, affinità e at-tenzione. Educare la sensibilità signifi-ca innanzitutto formare i singoli sensi per trasformarli in altrettanti canali attraverso i quali fare esperienza di sé, degli altri e del mondo: essere dotati di sensibilità significa saper guardare, osservare e contemplare e non soltanto vedere; significa saper ascoltare, a vol-te auscultare, e non soltanto sentire; saper percepire in modo differenziato e approfondito altri corpi attraverso il tatto nonché i sapori attraverso il gu-sto e gli odori e i profumi attraverso l’olfatto. L’affinità può essere definita come la capacità di percepire il simile nel dissimile ed è dunque strettamen-te legata a sentimenti quali l’amicizia e l’amore, ma anche all’immedesima-zione, sentimento fondamentale non solo per la fruizione artistica – si pensi solo alla teoria aristotelica della trage-dia e al concetto di catarsi – ma anche per la vita in quanto tale. A loro volta, sensibilità e affinità dipendono dall’at-tenzione che, da parte del mondo della tecnica e dei mezzi di comunicazione

di massa, viene erosa dalla distrazione. Quest’ultima influenza fortemente gli atteggiamenti nel mondo di oggi provocando povertà d’esperienza in quanto impedisce largamente il costi-tuirsi della memoria, la costruzione di rapporti umani profondi e duraturi e l’agire etico e politico secondo un’idea, un ideale e una convinzione fondata e perseguita con costanza. Viene eroso, in ultima analisi, ogni processo d’espe-rienza fondato in un continuum spazio-temporale. In confronto la definizione che Malebranche dà dell’attenzione è profonda e precisa: l’attenzione è la preghiera naturale perché, come la preghiera rivolta a Dio, anche quella naturale è attenta a ogni pur piccolo particolare possa aiutare a costruire il rapporto con l’altro e con la natura ov-vero il mondo di tutte le creature. Una simile attenzione caratterizza l’opera di Franz Kafka. Riguardo all’attenzione è proprio un’opera musicale contemporanea a poter aprire orizzonti inaspettati. Si tratta del primo di alcuni esempi mu-sicali, artistici e letterari molto diversi tra loro e lontani nel tempo, che sono stati scelti per tentare da più lati una ri-flessione sulla problematica in questio-ne. 4’33’’ è il titolo di una sonata per pianoforte di John Cage composta nei tre movimenti classici durante i quali però, e per la durata dell’intera com-posizione non accade nulla di ciò che tradizionalmente si ritiene sia musica.La prima di 4’33” si tenne il 29 agosto 1952 a Woodstock, New York, duran-te un recital di musica contemporanea

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per pianoforte. David Tudor si sedette al pianoforte, aprì il coperchio della tastiera e lo richiuse immediatamente, ripetendo il gesto per segnalare l’inizio e la fine di ciascuno dei tre movimenti. Cage stesso, riguardo a que-sta esecuzione e la reazione del pubblico, disse: “Alcu-ni credevano fosse silenzio, poiché ignoravano come ascoltare, in realtà c’erano tantissimi suoni accidentali. Durante il primo movimen-to si poteva sentire il vento che soffiava dall’esterno. Durante il secondo movi-mento gocce di pioggia co-minciavano a picchiettare sul tetto, e durante il terzo la gente stessa produceva ogni genere di suono inte-ressante parlando o uscendo dalla sala”3. In quanto questa composizione disattende le aspettative del pubblico, in-dirizza la loro attenzione su ciò che di solito non si ascol-ta. Si aprono così nuovi modi d’ascolto e la difficoltà del pubblico di corrispondervi è già il primo passo per imparare ad indirizzare e utilizzare la propria attenzione in modo diverso e più attivo. Inoltre però, questa com-posizione aiuta a comprendere un’al-tra caratteristica dell’arte che si rivelerà essenziale proprio per una sua possi-bile funzione pedagogica e formativa. 4’33’’ non forma la coscienza propo-

3 Cfr. Richard Kostelanetz, Conversing with John Cage, Routledge, New York 2003, p. 231.

nendo contenuti, bensì in quanto non propone nulla; questa composizione non fa altro che aprire altri orizzon-ti lasciando all’ascoltatore il compito di come corrispondervi. In maniera

radicale, certo, Cage sfrut-ta quella peculiarità dell’ar-te che consiste nel non dire mai tutto, il minus dicere, e di lasciare, di conseguenza, al fruitore il compito di im-parare a porre l’attenzione su ciò che l’arte né dice né tace, cui però, potremmo dire con Eraclito, accenna4.L’arte dunque non porta nella trascendenza perché, in quanto sempre legata alla dimensione estetica ovvero alla percezione sensibile, essa può solo portare davanti alla soglia, come fa Beatrice con Dante. Dal momento che non può né vuole profanare ciò che le sta più a cuore por-tare ad espressione, l’arte lo dice obliquamente attraverso cenni, indizi, simboli e allego-

rie e il concetto che meglio descrive un simile procedimento è quello dell’iro-nia. L’arte non sarà mai esemplificazio-ne di contenuti estranei ad essa, siano essi politici, etici oppure religiosi; le sue capacità di espressione si arrestano di fronte a questi contenuti e lasciano al fruitore il compito di dischiuder-

4 Si badi bene che Cage non usa mezzi che si potrebbero considerare come extramusicali; al contrario, egli compone 4’33’’ facendo leva su uno degli elementi essenziali di ogni composizione musicale, ovvero il silenzio (tacet).

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li. L’arte però possiede la capacità di aprire il senso per la trascendenza e lo fa attraverso la simbolizzazione, per mezzo della quale i contenuti consueti e quotidiani acquisiscono un senso e un significato diverso dal solito. Così l’arte avvia un processo di idealizzazio-ne che spinge a trascendere la realtà la quale, di fronte a questo processo, di-mostra di non corrispondere in pieno a ciò che invece potrebbe essere, ovve-ro alla propria idea. Metaforicamente parlando l’arte rappresenta nient’altro che il mondo presente, ma spostato di poco. In quanto mette il mondo di fronte alle sue possibilità, l’arte impli-citamente crea e perpetua valori. Essa dunque crea sempre anche una comu-nità, non solo quella degli ascoltatori, dei lettori e degli spettatori, ma anche una comunità più ampia e fondata sull’ethos oltre che sull’oikos. Tuttavia ciò non avviene attraverso una procla-mazione diretta, come se l’imperativo categorico potesse essere espresso da una poesia, bensì attraverso le leg-gi che governano i procedimenti e le tecniche che l’artista mette in atto per creare la propria opera. Dal momento che tali leggi riguardano un materiale sensibile, tale comunità non sarà fon-data su valori condivisi razionalmente o almeno non in modo esclusivo. La comunità che l’arte è chiamata a creare è fondata su un comune sentire prima che su contenuti razionalmente con-divisi; la sua comunità si caratterizza dunque come koine aisthetike.Tuttavia, dopo che le capacità formati-ve dell’arte sono state brevemente cir-

coscritte, occorre ora confrontarsi con i problemi che una simile concezione dell’arte oggi pone. Un’arte così con-cepita infatti si scontra con la società di massa, se non altro perché si rivolge ad un pubblico che sarà sempre nume-ricamente limitato5. Un altro momen-to di scontro consiste nel fatto che il rapporto tra opera e fruitore sarà ne-cessariamente fondato sulla lontanan-za, laddove le masse richiedono invece una massima vicinanza. Dal punto di vista estetico-sensibile ciò comporta una prevalenza del senso della vista rispetto agli altri, soprattutto a quel-lo del tatto, il senso della vicinanza. A questo riguardo Benjamin propone una eloquente contrapposizione, ovve-ro quella tra il mago e il chirurgo; dove il primo cura attraverso l’apposizione delle mani e la propria autorevolezza come mago e medico che lascia intat-to il paziente, il secondo penetra col bisturi nel corpo vivo distruggendo la lontananza. Alla maniera di quest’ul-timo opera l’arte di massa per eccel-lenza, ovvero il cinema al quale oggi si è aggiunta la televisione. Durante la visione di un film non c’è tempo per la contemplazione raccolta che per-mette allo spettatore di perdersi nel proprio flusso associativo interiore. Il rapporto contemplativo fondato sulla lontananza viene distrutto dal cinema col ritmo dei decimi di secondo con il quale le sue immagini penetrano negli

5 Il riferimento è qui al noto saggio di Walter Benjamin, L’opera d’arte nell’epoca dalla sua riproducibilità tecnica e in particolare alla sua prima stesura pubblicata recentemente in Benjamin, Aura e choc, a cura di Andrea Pinotti e Antonio Somaini, Einaudi, Torino 2012.

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spettatori privandoli della possibilità di riflettere, giacché per la riflessione è necessario che il suo oggetto possa venir posto a distanza. Queste circo-stanze e il fatto che l’attore cinemato-grafico reciti non di fronte a un pub-blico, bensì di fronte a una macchina, portano Pirandello a contrapporre alle ombre senza carne delle immagini sul-lo schermo il corpo vivo e la carne viva dell’attore teatrale, che recita sempre di fronte al suo pubblico con il quale di conseguenza intesse rapporti molte-plici. Risultato di questi cambiamenti nei processi percettivi è la frammenta-zione della continuità dell’esperienza con conseguente perdita in capacità di attenzione e concentrazione e caduta in balia della distrazione. Le problemati-che descritte vengono raccolte da Ben-jamin attraverso due contrapposizioni concettuali: quella tra il valore cultuale e il valore espositivo delle opere d’arte e quella tra aura e choc. Quanto alla prima, l’arte è da sempre legata al cul-to, dalle pitture rupestri di un’arte al servizio del culto religioso, attraverso il culto rinascimentale della bellezza, fino all’arte per l’arte che celebra se stessa. La riproducibilità tecnica e le due arti ad essa legate, la fotografia e il cinema, distruggono questo legame ponendo in primo piano la necessità che l’ope-ra venga esposta. Prima di definire il concetto di aura, soffermiamoci su un’altra opera, questa volta pittorica, nella quale le due contrapposizioni s’intrecciano: La Madonna Sistina di Raffaello (1512/14), oggi esposta a Dresda, Staatliche Kunstsammlungen,

Gemäldegalerie Alte Meister6.Nel 1922 lo storico dell’arte Hubert Grimme si chiese: che cosa significa l’asse in primo piano, su cui si appog-giano i due putti e come mai Raffaello ha ornato il cielo con due tendine? La sua ricerca portò alla conclusione che l’opera era stata commissionata in oc-casione dell’esposizione della salma di Papa Giulio II (1443 – 1513), al se-colo Giuliano Della Rovere e nipote di Papa Sisto IV (1414 – 1484) che si può vedere in primo piano e dal qua-le deriva il titolo del dipinto. Sul suo pluviale nonché sulla tiara papale ap-poggiata ai suoi piedi è visibile la tipica ghianda roveresca. L’esposizione della salma del Papa avvenne in una cappel-la laterale di San Pietro e il quadro di Raffaello era stato esposto appoggiato sulla bara, in fondo alla nicchia della cappella. In questo modo si spieghe-rebbero sia i putti appoggiati sull’asse di legno – che in realtà è la bara – sia le tendine che riproducono quelle del-la cappella stessa. In questo modo la Madonna esce dallo sfondo della nic-chia delimitata dalle due tende com-piendo un movimento che parte dallo sfondo in alto e si dirige verso la bara del Papa in primo piano in basso, mo-vimento rafforzato dalla posizione dei putti e dalla mano destra di Sisto che sembra indicare la comunità dei fedeli. L’intero dipinto è composto secondo

6 Nella sua ricostruzione della storia di questo dipinto Ben-jamin segue una ipotesi che oggi è diventata secondaria; inoltre egli scambia il nome di Papa Giulio II con quello di Sisto V (1520/21 – 1590). Tuttavia, al di là di tali impreci-sioni, questa versione esemplifica bene l’intreccio tra valore cultuale, aura e valore espositivo.

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una chiara e armonica lateralizzazione strutturale costruita su una specie di triangolo7: Dapprima l’occhio muo-ve lungo la diagonale ascendente dal basso a sinistra verso l’alto seguendo lo sguardo di Sisto e, di seguito, scende lungo la diagonale discendente dall’al-to verso il basso a destra condotto da-gli occhi di Santa Barbara il cui sguar-do viene, infine raccolto dai due putti. Inoltre, anche il grigio-blu della so-praveste di Maria e il verde scuro della tendina destra descrivono, attraverso la veste e la sopravveste di Barbara, un movimento verso il basso a destra. Tale procedimento permette a Raffaello di conferire a questo dipinto una forte aura. Dopo l’esposizione in occasio-ne della cerimonia funebre il dipinto non avrebbe più dovuto essere oggetto di culto e, in linea di massima, lo si sarebbe dovuto distruggere per man-tenere il suo valore cultuale. Dal mo-mento però che questo quadro è sta-to esposto durante un culto che, con ogni probabilità, poteva contare su un gran numero di visitatori, si è venuta a creare anche una certa ambiguità tra il suo valor cultuale e quello espositivo. Infatti, il dipinto fu commissionato da Giulio II innanzitutto per essere espo-sto ma, attraverso il culto, esso acqui-sisce una forte denotazione spaziale e temporale, essenziale, come vedremo, per il costituirsi di un’aura. Se la curia

7 A proposito del problema della lateralizzazione si consi-glia: Andrea Pinotti, Il rovescio dell’immagine. Destra e sinistra nell’arte, Tre Lune, Mantova 2010, pp. 51, 102. Il volume contiene anche il saggio di Heinrich Wölfflin, Destra e si-nistra nell’immagine (pp. 179 ssg.) che apre proprio con la discussione della lateralizzazione della Madonna Sistina.

decise di tollerare che il quadro conti-nuasse ad essere esposto, ciò non av-venne solo per il buon prezzo ottenu-to. Il compromesso infatti tiene conto sia del valore espositivo sia del valor di culto: da un lato il dipinto fu trasferito al convento dei Frati Neri a Piacenza, una città di provincia lontana da Roma e solo poco tempo prima conquistata dallo Stato della Chiesa, dall’altro però il dipinto fu sistemato proprio sull’al-tare maggiore. Nonostante questa am-biguità, il quadro si contraddistingue per il suo alto valore cultuale che, di conseguenza, avrebbe dovuto limitare il suo valor espositivo al minimo e ciò gli conferisce un’aura imparagonabile, così come la posseggono tutte le opere delle quali è più importante sapere che esistono piuttosto che effettivamente vederle.Inoltre, l’aura può appartenere a de-terminati grandi personaggi: Pitagora insegnava per anni dietro a una tela prima che i suoi discepoli potessero ve-derlo e, nella Chiesa ortodossa, il pope celebra la prima parte della messa na-scosto dietro l’iconostasi. Ancora oggi alcune statue vengono esposte solo durante determinati giorni dell’anno. In generale dunque, più è alto il valor di culto, più forte è l’aura e più bas-so è il valor espositivo di un’opera. È ora possibile definire più distintamen-te il concetto di aura come momento fondamentale del rapporto tra opera e fruitore. L’aura si definisce come ap-parizione unica di una lontananza per quanto sia vicino l’oggetto che la su-scita. Oltre all’unicità, essa si distingue

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attraverso il fatto che il rapporto tra fruitore e opera sia esclusivo e dunque solo limitatamente condivisibile con altri nello stesso tempo e nello stesso luogo; l’opera risulta dunque essere, in linea di massima, inavvicinabile ov-vero è impossibile impossessarsene e l’esperienza compiuta con essa in un determinato momento e in un deter-minato luogo è irripetibile. L’aura è dunque legata a determinati spazi e tempi, che costituiscono lo hic et nunc di ogni opera d’arte, e un quadro di-pinto per l’esposizione in occasione di una cerimonia funebre o per un altare maggiore ne perde se, come è il caso della Madonna Sistina oggi, viene tra-sferito in un museo. Si tratta dunque di un insieme paradossale di vicinanza e lontananza e di tempo e spazio che sottende un rapporto d’esperienza in continuo divenire. L’aura di un’opera rappresenta il lato misterioso all’inter-no della realtà che dunque non è da cercare in un aldilà; il mistero si trova nella realtà e, di fronte alle opere aura-tiche, si fanno sempre nuove esperien-ze in presenza delle stesse immagini, là dove, nel caso dei prodotti dell’in-dustria culturale, si fanno sempre le stesse esperienze di fronte a immagini che sono solo apparentemente nuove. L’esperienza auratica nasce dunque dal desiderio di conoscere di più e da più vicino ma, quando si tenta di avvicina-re l’oggetto dell’esperienza, questo si allontana. Paradossalmente l’aura rap-presenta dunque un meno di esperien-za e tale carattere paradossale ha come conseguenza che l’esperienza rimanga

sempre aperta e inconcludibile, tale cioè da richiedere continuamente che la si ripeta. Il mistero dell’esperienza auratica consiste dunque, come quello della bellezza e quello dell’arte, in un minus dicere che lascia, in chi la com-pie, tracce che richiedono di essere let-te e completate sempre di nuovo e in modo sempre diverso. Eugenio Mon-tale lo ha colto in una poesia d’amore: “[…] M’hanno chiesto chi sei. Se lo sapessi | lo direi a gran voce. E sarei chiuso | tra quelle sbarre donde non s’esce più”8. Infatti, il rapporto aura-tico condivide molti tratti con quello amoroso.Oggi, tuttavia, la riproducibilità tec-nica e la società di massa distruggono l’aura; prima di vedere dal vivo un quadro, lo si è già visto in centinaia di riproduzioni in luoghi e tempi diversi. Con ciò perde il suo carattere di essere un unicum e un originale che possiede un proprio hic et nunc e il cui rapporto con il fruitore è fondato sulla lonta-nanza. Le opere non sono più irrag-giungibili ai più e in ciò può senz’altro consistere il lato positivo della ripro-ducibilità, ma si paga un prezzo molto alto. Così come le statue escono dai templi, i dipinti e le messe in musi-ca dalle chiese, così l’arte, negli ultimi duecento anni, è uscita dalla società. Non a caso è allora che, soprattutto ad opera di Hegel, si è cominciato a par-lare della fine o della morte dell’arte. Di fronte a questa situazione occorre chiedersi in che modo l’arte possa an-

8 Eugenio Montale, Poesie disperse III, in Id, Tutte le poesie, a cura di G. Zampa, Mondadori, Milano 1997, p. 851.

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cora contribuire a creare una comu-nità, una koine aisthetike attraverso un comune sentire; come è possibile che possa ancora avere un ruolo nella fondazione e diffusione di valori etici e politici; come possa, infine, essere fattore di trascendenza e permettere all’uomo di trascendere se stesso e la società in cui vive. Non occorre cerca-re subito risposte; è più importante ac-quisire un’approfondita coscienza del problema per poterlo porre nel modo più complesso possibile. È infatti l’in-dustria culturale con i suoi mezzi di comunicazione di massa ad avere sem-pre la risposta pronta, molto spesso senza che qualcuno abbia mai posto una domanda. Occorre vivere nel pro-blema, piuttosto che correre subito alle soluzioni, anche perché l’unico modo per risolvere un problema consiste nel saperlo porre in modo adeguato. La soluzione non sta al di là del problema bensì nella sua immanenza. Analoga-mente occorre anche sottolineare che, in passato, l’arte come mediatrice tra immanenza e trascendenza è sempre stata considerata in modo piuttosto problematico; basti pensare al Conci-lio II di Nicea o alla Riforma di Lutero che, da frate agostiniano, non ammise più alcuna mediazione esterna tra Dio e i fedeli. Tuttavia, se Lutero bandì la scultura e la pittura dalle chiese, pre-parò allo stesso tempo l’ingresso della grande musica che, in quanto arte più spirituale rispetto alle altre due, poteva ora accompagnare il culto. L’arte – si è detto – non dischiude la trascendenza in quanto tale ma, attraverso il minus

dicere e il suo carattere auratico, può accompagnare il fruitore fin sulla so-glia oltre la quale la trascendenza possa aprirsi. Di questa capacità dell’arte gli esempi che seguono intendono fornire qualche testimonianza; varcare la so-glia è compito del fruitore.I prossimi esempi – ai quali, per vici-nanza tematica e linguistica, si è deciso di riservare ampio spazio – sono tratti dal Paradiso di Dante e rappresentano i tentativi del poeta di rendere visibile il non visibile, di parlare della luce di-vina che non ammette parola. Si tratta di un fallimento, ma di un fallimen-to che al lettore apre nuovi orizzonti, ovvero la dimostrazione di poter attin-gere il trascendente viene fornita attra-verso un fallimento poetico che ricor-da l’agostiniano fallor ergo sum9.

“Parìemi che ‘l suo viso ardesse tutto;e gli occhi avea di letizia sì pieni,che passar mi convien sanza costrutto”

(Canto XXIII, vv. 22-24)

Nel volto di Beatrice si riflette obli-quamente la luce di Dio; tale obliquità costituisce l’unica forma di manife-stazione che la parola poetica può co-gliere. Tuttavia, alla fine, di fronte alla bellezza di questa apparizione il poeta si deve convincere che è meglio non tentarne la descrizione.

9 Sia notato qui solo a margine che, nel Novecento, questo topos di Agostino era molto caro a Samuel Beckett che di Dante si era occupato molto da giovane e che, a suo modo e con le dovute differenze, si è trovato di fronte al problema di non poter dire ma di dover, allo stesso tempo, continuare a dire l’indicibile.

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“e per la viva luce traspareala lucente Sustanza tanto chiaranel viso mio, che non la sostenea. […]Ella mi disse: ‘Quel che ti sobranzaè virtù da cui nulla si ripara’.[…]la mente mia così, tra quelle dapefatta più grande, di se stessa uscìo,e che si fesse rimembrar non sape”

(Canto XXIII, vv. 31-45)

La luce è insostenibile e la virtù divina soprafa il poeta. Di fronte a quelle vi-vande spirituali (le dape) la mente po-etica deve estendersi fino al punto da uscire da se stessa, tanto da non riusci-re nemmeno più a ricordare quel che ha fatto; si tratta di una sorta di estasi (gr. ek-stasis: essere fuori di sé) che, allo stesso tempo, però rimane lucida.

“Se mo sonasser tutte quelle lingue[…]Per aiutarmi, al millesmo del veronon si verria, cantando il santo risoe quanto il santo aspetto facea mero.E così, figurando il Paradiso,convien saltar lo sacrato poema,come chi trova suo cammin riciso”

(Canto XXIII, vv. 55-63)

Se anche risuonassero i versi di tutti i poeti ispirati dalle Muse, non riusci-rebbero a dire nemmeno un millesimo di quella verità che “il santo aspetto” rendeva chiaro. Il termine “aspetto” è qui da intendere sia come atto del ve-dere da parte del poeta sia come figu-ra vista, ovvero il viso di Beatrice che obliquamente riflette la luce divina. Il

poeta vuole descrivere il paradiso, ma trova la strada barrata. Infatti, non è possibile sciogliere la potenza dell’im-patto visivo istantaneo della luce-im-magine nella discorsività di una de-scrizione poetica. Dal momento però che qualsiasi forma espressiva umana – poetica, visiva, musicale o concettua-le – per dispiegarsi, è intrinsecamente legata al tempo, di fronte all’immedia-tezza – contemporaneamente istanta-nea ed eterna – conviene abbandonare tali forme. L’istante e l’eternità infat-ti, pur costituendo i fondamenti del tempo, lo trascendono. Tuttavia, il termine “saltare” indica anche nuova-mente l’unico atteggiamento che l’arte può tenere: quello obliquo e indiretto. In questo modo, infatti, Dante parla della Sacra Famiglia e quindi di Dio, quando dice che era:

“tanto distante, che la sua parvenza,là dov’io era, ancor non appariva:però non ebber gli occhi miei potenzadi seguitar la coronata fiammache si levò appresso sua semenza”

(Canto XXIII, vv. 116-120)

Dio dunque è distante e la sua lonta-nanza fonda l’immensa auraticità del-la sua manifestazione (“parvenza” che qui vale senz’altro anche “aspetto”). Il poeta infatti nemmeno lo vede e pur tuttavia quest’aura acceca talmente i suoi occhi da renderli incapaci di se-guire i movimenti di Maria coronata dalla luce dell’arcangelo Gabriele (“la coronata fiamma”) e di Gesù (“sua Se-menza”).

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“a poco a poco al mio veder si stinse;per che tornar con gli occhi a Beatricenulla vedere ed amor mi costrinse.[…]La bellezza ch’io vidi si trasmodanon pur di là da noi, ma certo io credoche solo il suo Fattor tutta la goda.Da questo passo vinto mi concedopiù che giammai da punto di suo temasoprato fosse comico o tragedo; ché, come sole in viso che più trema,così lo rimembrar del dolce risola mente mia da me medesmo scema.Dal primo giorno ch’io vidi ‘l suo visoin questa vita, insino a questa vista,non m’è il seguire al mio cantar preciso;ma or convien che mio desir desistapiù dietro a sua bellezza, poetando,come all’ultimo suo ciascuno artista.Cotal qual io la lascio a maggior bandoche quel della mia tuba, che deducel’ardua sua matera terminando,[…]Come sùbito lampo che discettigli spiriti visivi, sì che privadell’atto l’occhio di più forti obbietti,così mi circonfuse luce viva;e lasciammi fasciato di tal velodel suo fulgor, che nulla m’appariva”

(Canto XXX, vv. 13-51)

Dopo i tentativi falliti di guardare e di descrivere la luce divina, Dante si vede costretto a rivolgersi di nuovo a Beatrice, suo amore e musa ispiratri-ce della sua poesia, perché possa per l’ultima volta dargli la forza di parlare. La bellezza di ciò che ha visto, infatti, trascende la comprensione, tanto che egli è indotto a credere che la possa go-dere unicamente colui che l’ha creata, ovvero Dio stesso. Il poeta invece si dà per vinto più di qualunque altro prima

di lui. Dal primo momento della sua vita in cui vide il viso di Beatrice fino alla vista della luce divina, a Dante è sempre stato possibile cantare la sua bellezza. Ma ora ha raggiunto il limite e non può più descrivere l’aspetto di Beatrice illuminato dalla luce divina. Di fronte all’impossibilità di parlare di ciò che non si riesce a guardare – pur trattandosi di luce e quindi di ciò che rende visibile ogni cosa – cambia anche la sfera estetico-percettiva, e dalle im-magini e parole si passa ai suoni della musica (“lascio a maggior bando | che quel della mia tuba”). La vista infatti si disperde e “nulla m’appariva”. Eppure, una cosa è il fallimento poetico, un’al-tra sono le parole che il poeta trova per descriverlo, perché con queste ultime egli non solo parla del fallimento ma, obliquamente e indirettamente, anche della sua causa e dunque, in ultima istanza, della trascendenza divina che diventa tanto più eloquente quanto meno la poesia ne parla direttamen-te. Nonostante sostenga insistente-mente la sua incapacità – e forse in-direttamente questa insistenza è già indice del contrario di ciò che sostie-ne – Dante, infatti, non si dà affatto per vinto e, alla fine, per descrivere il paradiso invoca lo stesso Dio: “dam-mi virtù a dir com’io il vidi!” (v. 99). Tale invocazione naturalmente sposta il piano da una impossibile descrizio-ne oggettiva al modo in cui il poeta vide il paradiso (“dir com’io il vidi”); e con ciò lo stesso linguaggio cambia e, d’ora in avanti, non sarà più poetico, bensì filosofico e teologico. Di fronte

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all’impossibilità di dire l’inesprimibile, la poesia ricorre a mezzi più spirituali e meno estetici.I prossimi esempi sono tratti dall’ope-ra di Friedrich Hölderlin, poeta che, nella crisi seguita al fallimento della Rivoluzione francese di costituire un ordine sociale equo e giusto, per gli ul-timi trentasei anni della sua vita si era ritirato in una sorta di esilio interiore fatto di silenzio e solitudine. Il pri-mo esempio rappresenta il tema della trascendenza sotto forma di incipit al romanzo Iperione che Hölderlin rica-va dal lungo epitaffio che si legge sulla tomba di Ignazio di Loyola:

“Non coerceri maximo.contineri minimo,divinum est”.

Tradotto letteralmente significa: “non essere limitato da ciò che è più grande, essere contenuto da ciò che è minimo, questo è divino”. Ma Hölderlin inter-preta nel modo seguente: “il tendere ad ampliare i confini del proprio io sino all’universo e, nello stesso tempo, essere contenuto in ciò che è minimo, costituisce l’armonia fra l’uno e il tut-to, fra il finito e l’infinito”. Se nella tra-duzione letterale viene in primo piano l’intreccio auratico tra lontananza e vicinanza, Hölderlin accentua, nella prima parte, le istanze moderne in-centrate sull’io e sui suoi limiti e, nella seconda, quelle antiche dell’armo-nia fra l’uno e il tutto (hen kai pan). L’infinito trascendente diviene per un istante percepibile in forma finita at-

traverso un io capace di ampliarsi – e dunque trascendere la propria limi-tatezza egoistica di persona confinata nel privato – fino a ricomprendere in sé l’universo. In questo istante, che è profondamente ironico, la realtà viene trascesa diventando ideale e l’ideale, per un attimo, entra a far parte della realtà. Tale armonia tra l’uno e il tut-to, tra il finito e l’infinito, tra il reale e l’ideale però non può durare e ciò rende l’ironia profondamente tragica. Tuttavia, il passaggio istantaneo lascia delle tracce e ora, all’interno della re-altà, si sono aperti nuovi orizzonti di trascendenza.Il secondo esempio è tratto dall’inno Patmos, del quale riportiamo i primi versi:

“Nah istUnd schwer zu fassen der Gott. Wo aber Gefahr ist, wächstDas Rettende auch”10. “Vicino èE difficile da afferrare il Dio.Ma dove c’è pericolo, cresceAnche ciò che salva”.

La traduzione interlineare qui tentata cerca, almeno in parte, di rendere con-to, non solo ritmicamente ma anche grammaticalmente, dell’operazione po-etica compiuta: il soggetto gramma-ticale viene posto alla fine della frase, ma anche alla fine del secondo verso. Ciò, da un lato, toglie la centralità al soggetto Dio, estraniato anche attra-

10 Friedrich Hölderlin, Patmos, in Id, Poesie, a cura di G. Vigolo, Einaudi, Torino 1958, p. 406 [trad. nostra].

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verso l’uso dell’articolo, ma, dall’altro, questa centralità viene accentuata poe-ticamente in quanto non solo ritmica-mente il peso maggiore viene a cadere su questa parola, ma la fine del secon-do verso introduce anche una sorta di cesura sia dal punto di vista del conte-nuto sia da quello poetico. Come per Dante, anche per Hölderlin, più Dio è vicino più diventa difficile descriverlo; tuttavia, vi è anche una differenza che consiste nella contraddizione secondo la quale più aumenta il pericolo, più cresce anche la speranza di salvazione e redenzione. Ciò non solo introduce la dialettica nella poesia hölderliniana, e con ciò un momento di filosofia della storia, ma tale momento è anche for-temente caratterizzato in senso escatologico. Si aprono, infatti, nuovi orizzonti perché, grazie alla dialettica, la trascendenza ovvero la redenzione può essere raggiunta con mezzi immanen-ti che si trovano all’interno del-la realtà. Per quanto il rapporto tra pericolo e salvazione così concepito possa anche sembra-re paradossale, esso non è affat-to nuovo. Nonostante non lo avesse concepito in modo dia-lettico, già Paolo infatti, nella Seconda lettera ai Tessalonicesi, parla in questi termini del rap-porto tra l’Anticristo, l’Avver-sario (ho antikeimenos) e il Si-gnore che, “con il soffio della sua bocca” (2, 8), lo distruggerà. Prima della parusia del Signore, infatti, “dovrà venire l’apostasia e l’apocalisse dell’uo-

mo dell’anomia, il figlio dell’apoleia” (2, 3). In Paolo il paradosso anzi si ac-centua perché, prima che possa avveni-re l’Apocalisse, e quindi durante il pro-cesso di contrapposizione, opera anche un’altra forza che trattiene (to katechon) l’Avversario e i cui contorni non sono affatto chiari11.L’ultimo esempio poetico è tratto dalla tragedia La morte di Empedocle; si trat-ta del discorso finale che Empedocle tiene di fronte al popolo di Agrigen-to prima di togliersi la vita gettandosi nell’Etna e dunque ricongiungendosi con le forze primarie della “Natura di-vina”.In modo analogo a Dante, anche Höl-derlin, di fronte alla verità somma,

11 Cfr., per quanto riguarda questa problematica, Massimo Cacciari, Il potere che frena, Adelphi, Milano 2013.

“Cari, non vi lascio disperati.Non temete! Solitamente i mortalirifuggono da quanto è nuovo e a loro estraneo,ma aspirano a rimanere immobili nella loro sedesolo le piante e gli animali felici.Costretti nel loro breve cerchiosono unicamente tesi a sopravvivere,e altro non sanno. Eppure alla fine, trepidi,devono uscirne e riunificarsi,morendo, agli elementi, per rinnovarsi,come in un bagno, in una giovinezza nuova.All’uomo invece è data la grande gioiadi ritrovare la gioventù da se stesso.E dalla morte purificatrice che essihanno scelto nel tempo adatto, rinascono,come Achille dallo Stige, i popoli.Assecondate la natura prima che s’impadronisca di voi!Da tempo avete sete dell’insolito; come da un corpogravemente infermo l’anima di Agrigentovuole abbandonare gli antichi schemi.

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ricorre a un linguaggio che, rispetto a quello poetico, è più spirituale; se il primo impiega concetti teologici e filosofici, il secondo ricorre a concet-ti politici e filosofico-storici. Tuttavia, pur essendo poco metaforico e con-cettualmente piuttosto chiaro, anche

questo discorso crea in-torno a sé una grande aura dovuta soprattutto alla forma poetica oltre che al contenuto. Nelle parole di Empedocle risuonano gli ideali della Rivoluzione, la libertà non solo dalle co-strizioni, ma soprattutto la libertà per l’incontro con l’altro, mio pari e fratello. La realtà così come è data viene trascesa interamente e il futuro viene fortemen-te simbolizzato. Ritornano e s’intrecciano in questo discorso tutte e quattro le capacità caratteristiche dell’arte e ancora una volta si rintraccia anche il mi-nus dicere. Pur con tutta la chiarezza dei concetti po-litici, Empedocle, infatti, non parla del modo in cui costruire concretamente la nuova comunità, non parla di ciò che potrebbe trovarsi oltre i limiti trascendentali, accenna soltanto alle azioni da compiere qui e ora.In conclusione si può dun-

que dire che l’arte non dà a vedere ciò che più intimamente vuole, ma vi ac-cenna in quel particolare modo che abbiamo cercato di circoscrivere come minus dicere. Vi accenna e quindi si sottrae così come, nel mito platonico, Bellezza che si vela per pudore e che fugge per timore, perché Eros la segua sia come amante sia come intelletto. * Hölderlin, La morte di Empedocle, trad. di E. Pocar,

Garzanti, Milano 1998, pp. 103-105 [trad. mod.].

Coraggio, osate! Ciò che avete ereditato, le vostreconquiste, ciò che i padri vi hanno detto e insegnato,leggi e costumi, nomi di antichi dèi,tutto dimenticate con ardimento, e rinascendoalzate gli occhi alla Natura divina.E quando alla luce del cielo lo spiritos’infiamma, e un tenero soffio di vitavi gonfia il petto come al primo giorno, e le selve, cariched’aurei frutti, stormiscono e sgorganosorgenti dalla roccia: quando la vita universale,spirito di pace, vi conquista e come sacracantilena culla la vostra anima;allora, trasparendo dalle delizie e dall’alba bella,splenderà più luminosa la terra verdeggiante,e il monte, il mare, e stelle e nubi, e nobilienergie, come essenze eroiche, sorgerannodinnanzi a voi, e il vostro pettocome di chi si prepara alla battaglia,palpiterà, con bramosìa di agire,in un mondo bello e vostro.Allora stringetevi le mani, stipulate un patto, i beni dividetee, come Dioscuri fedeli, dividete azioni e gloria.Siano tutti uguali. Sopra giuste normecome agili colonne, riposi nuova vitae sia la vostra unione saldamente cimentata dalla Legge.E allora, o geni della Naturae delle sue metamorfosi, voi che,così sereni in abissi e altezzescoprite la gioia, e sotto forma di penae di felicità, di pioggia e di sole,la recate da un mondo infinitamente lontanoalla mente degli umili mortali – il popolo liberovi invita alle sue feste, ospitale e devoto,poiché, quando ama, l’uomo dona il suo meglio, se la schiavitù non gli serra e imprigiona il petto …” *

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La loro fuga termina soltanto sull’al-tare della verità, dove Eros e Bellezza si congiungono nell’amore. L’intreccio tra verità e amore è qui da intendere nel senso che l’educazione e l’istruzio-ne coinvolgono sempre anche l’emo-tività e l’affettività che vanno portate al punto di maturità tanto quanto le nozioni e i saperi. È infatti solo all’in-terno di una cornice anche affettiva, emotiva e sentimentale che è possibile

parlare di un eventuale compito peda-gogico e didattico dell’arte che potreb-be configurarsi nel modo seguente: insegnare, attraverso l’idealizzazione e la simbolizzazione, a trascendere in-nanzitutto se stessi, ex-ducere il singolo fuori dal suo falso individualismo12 e verso la comunità, verso orizzonti di senso condivisi. L’arte non è strumento

12 Per parlare di qualcuno che pensava di realizzare i suoi interessi senza il concorso degli altri o di qualcuno che non aveva le capacità di partecipare alla vita consociata, i Greci usavano il termine idotes, che i latini hanno reso con quello di privatus, da dove anche l’italiano privato, da privare, to-gliere o mancare di qualcosa.

di mediazione della trascendenza, ma può aiutare a disseppellire le capacità dei singoli di aprirne gli orizzonti. Le sue tecniche e forme, riassumibili nel minus dicere, non aprono la dimensio-ne della trascendenza in quanto tale, bensì soltanto i suoi orizzonti di possi-bili altri sensi e significati.Così come si è aperta la serie degli esempi con un’opera musicale cer-cando di commentare il suo silenzio,

ora intendiamo chiuderla con un’al-tra composizione, la Sarabanda della Quinta Suite per Violoncello solo di Jo-hann Sebastian Bach13, che però prefe-riamo lasciar parlare da sola per quanto riguarda la sua capacità di dischiudere gli orizzonti della trascendenza.

Markus Ophälders

13 Si consiglia di ascoltare questo brano nell’interpretazio-ne registrata dal vivo di Mario Brunello: Johann Sebastian Bach, Sei Suites per violoncello solo, DARP, Milano 1995.

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Indice

Presentazione a cura di don Domenico Consolini . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 3

la parola dello psicologo Gli adolescenti e la fede a cura di Amedeo Bezzetto . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 5

la parola alla scuola: insegnante scuola primaria a cura di Antonio Rocca . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 15

la parola alla scuola: insegnante scuola secondaria Come un professore può vivere la propria fede a cura di Luisa Klinger . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 21

la parola alla scuola: dirigenti scolastici Passione educativa e fede: l’esperienza nell’ambito della scuola dellìinfanzia a cura di Roberta Zanella . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 25

la parola alla scuola: genitori Verona, 19 febbraio 2013: Anno della Fede. Riscoprire la gioia di credere a cura di Maria Luisa Dal Castello . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 29

la parola alla scuola: studenti a cura di Stefano Bonetti . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 33

la parola del teologo Per una “grammatica” della fede a cura di Ezio Falavegna . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 37

la parola del filosofo Arte, fede, trascendenza. Appunti per una lezione a cura di Markus Ophälders . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 45

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Quaderni della consulta - 1I Edizione, settembre 2008II Edizione, gennaio 2009

Quaderni della consulta - 2I Edizione, settembre 2009

Quaderni della consulta - 3I Edizione, settembre 2010

Quaderni della consulta - 4I Edizione, settembre 2011

Quaderni della consulta - 5I Edizione, settembre 2012

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