BARTEZZAGHI eDE MAJO Italia - la Repubblica

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LADOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 8 LUGLIO 2012 NUMERO 384 CULT La copertina BARTEZZAGHI e DE MAJO Short sellers: “ebook single” e libri, il successo dei racconti La recensione VALERIO MAGRELLI La memoria collettiva della guerra diventa romanzo All’interno L’intervista ANTONIO MONDA Robert Caro “Il potere visto dal presidente Lyndon Johnson” Il teatro ANNA BANDETTINI Festival di Spoleto sogni minacciosi con Bob Wilson e Luca Ronconi Il libro ALESSANDRO BARICCO Un certa idea di mondo: “L’accordatore e Glenn Gould” Viaggio nei segreti rosa shocking di Elsa Schiaparelli La storia NATALIA ASPESI e ANNAMARIA SBISÀ Storia di Katrin, orfana di Stato ai tempi della Stasi L’attualità ANDREA TARQUINI PARIGI Q uando il papa in persona sconsiglia di prendere i voti, che farà il novizio? «Alex, non farlo», disse una sera Hen- ri Cartier-Bresson all’orecchio di Alex Majoli, «sei an- cora in tempo... Non entrare in Magnum... Non sai co- sa t’aspetta...». Ma Alex se lo sognava la notte, da quando aveva quin- dici anni, di vedersi aprire le porte del paradiso dei fotografi. «Lo in- terpretai come il suo modo di darmi il benvenuto», e la mattina do- po prese i voti, i voti dei cardinali del conclave fotografico più famo- so del mondo. Era il 2001, e aveva solo trent’anni. Ma il novantenne fondatore aveva ragione. Alex non sapeva cosa lo aspettava. Ossia di- ventarne, dieci anni dopo, il presidente, di Magnum, la creatura di Cartier-Bresson, Capa, Seymour, Rodger, i quattro cavalieri di Da- guerre i cui ritratti vengono religiosamente posati su altrettante se- die vuote ad ogni assemblea generale della cooperativa. È forse il pre- sidente più giovane, di certo il primo presidente italiano. Eletto un MICHELE SMARGIASSI anno fa, riconfermato lunedì scorso dal meeting dei soci, convocato ad Arles. Magnum affida sessantacinque anni di storia a questo ro- magnolo con la coda di cavallo bionda, l’orecchino, la faccia da ra- gazzino che fa dubitare dei suoi quarantun anni e un portfolio di re- portage che fa impressione. Ma non è solo grazie a lui che oggi la vec- chia signora della fotografia mondiale parla italiano. Italiana è anche Lorenza Bravetta, torinese, a capo dell’ufficio per l’Europa conti- nentale. Italiano, con bisnonno greco, è Giorgio Psacharopulo, di- rettore generale. E da lunedì c’è un italiano, Paolo Pellegrin, anche nel board di cinque fotografi che affianca il presidente. Tutti fra i tren- tacinque e i quarant’anni, tutti arrivati ai vertici nell’ultimo anno. «The Italian mafia», scherzano i colleghi. Una rivoluzione geopoliti- ca, se si pensa che per i primi quarant’anni Magnum non aveva mai ammesso un solo fotografo italiano fra i soci. Sarà un segno di salu- te, se Magnum goes Italian, o di crisi, o di rilancio? Negli uffici di rue Hegésippe Moreau, a due passi dal cimitero di Montmartre, gli ita- liani di Magnum si schermiscono: «È solo una coincidenza». (segue nelle pagine successive con una testimonianza di Ferdinando Scianna) It al ia Magnum È l’agenzia fotografica più importante del mondo L’hanno fondata Cartier-Bresson e Robert Capa Ecco perché oggi ha scelto di farsi guidare da noi FOTO © MAGNUM/CONTRASTO Repubblica Nazionale

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LA DOMENICADIREPUBBLICA DOMENICA 8 LUGLIO 2012

NUMERO 384

CULT

La copertina

BARTEZZAGHI e DE MAJO

Short sellers:“ebook single”e libri, il successodei racconti

La recensione

VALERIO MAGRELLI

La memoriacollettivadella guerradiventa romanzo

All’interno

L’intervista

ANTONIO MONDA

Robert Caro“Il potere vistodal presidenteLyndon Johnson”

Il teatro

ANNA BANDETTINI

Festival di Spoletosogni minacciosicon Bob Wilsone Luca Ronconi

Il libro

ALESSANDRO BARICCO

Un certaidea di mondo:“L’accordatoree Glenn Gould”

Viaggio nei segretirosa shockingdi Elsa Schiaparelli

La storia

NATALIA ASPESI e ANNAMARIA SBISÀ

Storia di Katrin,orfana di Statoai tempi della Stasi

L’attualità

ANDREA TARQUINI

PARIGI

Quando il papa in persona sconsiglia di prendere i voti,che farà il novizio? «Alex, non farlo», disse una sera Hen-ri Cartier-Bresson all’orecchio di Alex Majoli, «sei an-cora in tempo... Non entrare in Magnum... Non sai co-

sa t’aspetta...». Ma Alex se lo sognava la notte, da quando aveva quin-dici anni, di vedersi aprire le porte del paradiso dei fotografi. «Lo in-terpretai come il suo modo di darmi il benvenuto», e la mattina do-po prese i voti, i voti dei cardinali del conclave fotografico più famo-so del mondo. Era il 2001, e aveva solo trent’anni. Ma il novantennefondatore aveva ragione. Alex non sapeva cosa lo aspettava. Ossia di-ventarne, dieci anni dopo, il presidente, di Magnum, la creatura diCartier-Bresson, Capa, Seymour, Rodger, i quattro cavalieri di Da-guerre i cui ritratti vengono religiosamente posati su altrettante se-die vuote ad ogni assemblea generale della cooperativa. È forse il pre-sidente più giovane, di certo il primo presidente italiano. Eletto un

MICHELE SMARGIASSI anno fa, riconfermato lunedì scorso dal meeting dei soci, convocatoad Arles. Magnum affida sessantacinque anni di storia a questo ro-magnolo con la coda di cavallo bionda, l’orecchino, la faccia da ra-gazzino che fa dubitare dei suoi quarantun anni e un portfolio di re-portage che fa impressione. Ma non è solo grazie a lui che oggi la vec-chia signora della fotografia mondiale parla italiano. Italiana è ancheLorenza Bravetta, torinese, a capo dell’ufficio per l’Europa conti-nentale. Italiano, con bisnonno greco, è Giorgio Psacharopulo, di-rettore generale. E da lunedì c’è un italiano, Paolo Pellegrin, anchenel board di cinque fotografi che affianca il presidente. Tutti fra i tren-tacinque e i quarant’anni, tutti arrivati ai vertici nell’ultimo anno.«The Italian mafia», scherzano i colleghi. Una rivoluzione geopoliti-ca, se si pensa che per i primi quarant’anni Magnum non aveva maiammesso un solo fotografo italiano fra i soci. Sarà un segno di salu-te, se Magnum goes Italian, o di crisi, o di rilancio? Negli uffici di rueHegésippe Moreau, a due passi dal cimitero di Montmartre, gli ita-liani di Magnum si schermiscono: «È solo una coincidenza».

(segue nelle pagine successive con una testimonianza di Ferdinando Scianna)

ItaliaMagnum

È l’agenzia fotografica più importante del mondo L’hanno fondata Cartier-Bresson e Robert Capa

Ecco perché oggi ha scelto di farsi guidare da noi

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DOMENICA 8 LUGLIO 2012

L

Alex Majoli, presidente. Giorgio Psacharopulo, CeoLorenza Bravetta, capo europeo. Paolo Pellegrin,consigliere. La più grande agenzia fotografica del mondo,fondata da Capa, HCB, Seymour e Rodger, oggi è guidatada nostri connazionali. Una rivoluzioneEcco chi sono e perché si fidano di loro

La copertinaMagnum

(segue dalla copertina)

orenza, del resto, è qui da quindicianni e ha cominciato dalla gavetta,stagista e anche centralinista. Primadi lei c’era, e c’è ancora, Enrico Mo-chi: cominciò stampando in cameraoscura i negativi di Salgado, adessoguida la camera chiara elettronicache entro l’estate finirà di digitaliz-zare il mezzo milione e passa di im-magini dell’archivio Magnum,comprese quelle che hanno fatto lastoria della fotografia. Curioso: allepareti di questa ex fabbrica di linge-rie, tre piani di mattoni rossi trapa-nati da una scala a chiocciola di ve-tro che sembra un enorme teleobiet-tivo, le foto celebri non ci sono, quel-le appese sembrano scelte per gustopersonale dei titolari della scrivaniasottostante. Del resto questa non èuna sala mostre ma un quartier ge-nerale operativo con venticinquepersone di staff.

Un caso, la Magnum degli italiani?«Forse», concede Lorenza, «ha pesa-to il fatto che quello italiano sia di-ventato il terzo mercato di Ma-gnum». È vero, conferma da RomaRoberto Koch di Contrasto, che di-stribuisce le immagini Magnum inItalia, ma lui ha un’altra spiegazione:«La fotografia italiana di reportage ècresciuta, i nostri giovani fotografivincono premi, pubblicano su gran-di testate, è finita un’era di subalter-nità e questo viene riconosciuto».

professionali Psacharopulo, primo ve-ro manager nella storia di Magnum. Loha imposto Majoli, appena nominato:«Noi sappiamo fare le foto ma non iconti». Infatti i conti due anni fa eranocosì spaventosi che sembrava giuntal’ora fatale. Fu in una tesissima assem-blea a New York che i “giovani» e “peri-ferici”, guidati dal nordico Bendiksen edal mediterraneo Majoli, presero il ti-mone, quasi un golpe. Ma Psacharopu-lo, bocconiano con una segreta passio-ne per l’arte, uno che si è fatto le ossanelle grandi banche americane, ha do-vuto sudare per sedare i dubbi dei“grandi vecchi”. «I pittori del Rinasci-mento erano manager, non capiscoperché il creativo debba essere anti-commerciale». Quanto alla giovaneetà, «quando Capa saltò su una mina inIndocina aveva un anno meno di me.Magnum nacque giovane e innovatricee lo è di nuovo».

La rivoluzione di Magnum, insom-ma, è più concettuale che anagrafico-geografica. «Il mercato è cambiato, ocambiamo o si muore», insiste Majoli,«c’era da togliere un po’ di polvere e,qualche assopimento sugli allori». Si ci-ta spesso, qui, il saggio Abbas: «Il nostromaggior nemico è la mediocrità». «Ma-gnum nacque per imporsi al mercato enon per subirlo», Giorgio rassicura an-cora, «è una comunità di pensiero e nonuna merce, e io tratto Magnum conenorme rispetto per i suoi valori, comefarei, che so, con Greenpeace». La bri-scola si chiama M3, la terza via di Ma-gnum dopo la produzione di reportagee la gestione dei diritti d’archivio: un in-

MICHELE SMARGIASSI

ALEX MAJOLI

Nato nel 1971 a Ravenna, vive tra New York e MilanoHa documentato i conflittiin Jugoslavia, Kosovoe Albania. In Magnumdal 2001, è statoriconfermato presidenteCollabora con Newsweek,New York Times Magazine,National Geographic

PAOLO PELLEGRIN

È uno dei maggiorifotoreporter di guerra,insignito nel 2006della Robert Capa GoldMedal. Nato a Romanel 1964, collabora con testate comeNewsweek e New YorkTimes MagazineÈ in Magnum dal 2005

IN COPERTINA

Dall’alto: Corea, ’51 (Bischof); Spagna,’36 (Capa);Bruxelles, ’32(Cartier-Bresson);Salvador de Bahia,’95 (Majoli); il Che,L’Avana, ’63 (Burri);Jenin, 2002(Pellegrin); NewYork, ’74 (Erwitt);Jackie al funeraledi Kennedy (Erwitt);Ivry-sur-Seine, ’75(Franck); la tribùBachimbiri, ’48(Rodger); AndyWarhol a NewYork nel ’65 (Glinn);Parigi, ’68 (Barbey);Marilyn nel ’55(Arnold); East River,’86 (Scianna);Galles, ’73 (Hurn)© Magnum/Contrasto

RIUNIONE DI FAMIGLIA

1. Inge Bondi; 2. John G. Morris; 3. Barbara Miller; 4. Cornell Capa; 5. René Burri; 6. Erich Lessing; 7. Michel Chevalier; 8. Elliott Erwitt; 9. Henri cartier-Bresson; 10. Erich Hartmann;11. Rosellina Bischof-Burri; 12. Inge Morath; 13. Kryn Taconis; 14. Ernst Haas; 15.Brian Brake(Parigi, anni Cinquanta © Magnum/Contrasto)

FONDATORI

Qui sopra, Henri Cartier-Bresson a Parigi nel 1992A destra, dall’alto, David Seymour cofondatoredi Magnum all’hotel d’Inghilterra di Roma nel 1956;Robert Capa in un caffè parigino nel 1952© Magnum/Contrasto

Gli eredi italiani di Cartier-BressonImmeritata, la subalternità. Grandi

fotografi l’Italia ne ha avuti. Ma Ma-gnum era nata, nel ’47 (al ristorante delMoMa, attorno a una bottiglia ma-gnumdi champagne), come una speciedi Yalta della fotografia, un asse di re-porter francesi, inglesi, americani, losguardo umanista dei vincitori moralidella guerra; e l’Italia l’aveva persa, laguerra. Solo che quel modello “nord-atlantico” restò saldo per decenni. FuFerdinando Scianna il primo italianoche lo “bucò”, nell’89, invitato da unCartier-Bresson sedotto dalle sue fotosiciliane. Prima di lui, altri italiani eranogiunti fin sulla soglia di Magnum: lacandidatura di Romano Cagnonisfumò forse per qualche veto; GianniBerengo Gardin, invitato da ElliottErwitt, declinò dopo molte esitazioni;mentre Mario De Biasi, l’«italiano paz-zo» della rivolta d’Ungheria, era sottocontratto di Epoca. Scianna fu così il pri-mo italiano a scalare il cursus honorumquasi massonico (da contributore a so-cio effettivo, con garanti e votazioni aogni grado) di quell’anarchia funzio-nante che è sempre stata questa orche-stra di solisti gelosi e bizzosi, una con-grega di nemici fraterni che si riabbrac-ciano commossi una volta all’anno, emezz’ora dopo magari si tirano addos-so le sedie (è successo anche questo).

Magnum è la più longeva agenzia difotografi al mondo, difficile dire come cisia riuscita. Crisi finanziarie hanno ri-schiato di schiantarla fin dai tempi incui Bob Capa colmava le voragini di cas-sa della cooperativa scommettendo suicavalli. Adesso ci pensa con metodi più

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I grandi vecchi, Erwitt, Koudelka, lagenerazione di mezzo dei Peress, degliAbbas, lasciano fare. Si fidano di Alex,che si sente «un ponte fra le nostre di-verse anime». E qui, che si tratti di un ita-liano non è indifferente: «Sono una spe-cie di Svizzera neutrale, placo le gelosietra fotografi di diverso passaporto, tra lenostre quattro sedi di Londra, NewYork, Parigi e Tokyo». Solo a lui lascianodire che «bisogna sdrammatizzare ilmito della “foto Magnum” stile Leica-bianconero-istante decisivo», solo a luilasciano proporre, ogni giorno, sul sito,una foto «che non è la foto indiscutibi-le, eterna, da incorniciare, ma è parte diun racconto aperto, interrogativo». Sevuoi farlo infuriare, riportagli le critichesu Magnum relitto del passato... «Hoappena portato in Magnum tre ragaz-zi», insorge, «Bieke Depoorter che hasolo ventitré anni, Jérome Sessini, ZoeStrauss che è un’artista d’avanguar-dia... Magnum è anche questo, oggi».

Certo, la sfida resta paurosa. Due gi-ganti, Getty e Corbis, fanno incetta diagenzie naufragate, inglobano archivismisurati, puntano al monopolio. Dal-l’altro capo del mercato, la fotografiaubiqua dei fotocellulari vanifica quel«diaframma f:8, ed essere lì» che era unavolta il primo comandamento dei pro-fessionisti. «Non possiamo fare tutto néessere dappertutto», ammette Psacha-ropulo, «eppure Magnum c’è. Gioche-remo sulla eccellente scarsità: fare po-che cose, giuste, e farle benissimo. Sia-mo una goccia nel mare, ma una gocciascintillante».

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GIORGIO

PSACHAROPULO

Torinese, bisnonno greco,41 anni, ha studiato alla Bocconi e alla New YorkUniversity, laureato con unatesi sull’investimento nel mercato dell’arte e ha lavorato in importantibanche d’affari. È il direttoregenerale di Magnum

LORENZA BRAVETTA

È entrata in Magnumnel 1998 con uno stagenel settore commercialePoi ha fatto la centralinista,la responsabile del dipartimento pubblicitàe dal 2010 è direttore delle attività commerciali di Magnum per l’EuropaTorinese , ha 35 anni

QuandoFerdinando Scianna sbottò col direttore chieden-dogli «Che cosa mi dà in fondo Magnum?», la risposta fudisarmante: «Magnum non ti lascia in pace, non ti fa se-

dere». Il fotografo di Bagheria, primo italiano a entrare nell’O-limpo dell’agenzia, lo ribadisce oggi do-po trent’anni di militanza: «Magnum tiaccompagna come uno stimolo o forsecome un senso di colpa, perché nessu-no ha voglia di essere il primo a intac-care l’alto livello dell’agenzia». Scian-na, torniamo a quel 1982, quando,complice Henri Cartier-Bresson, leientrò alla Magnum: che cosa signi-ficò fare parte di quel gruppo?

«Magnum era un punto cardinalesin da quando avevo cominciato afare il fotografo, era un mito, e ov-viamente fu una grande soddisfa-zione. Io non avrei mai osato pro-porre la mia candidatura ancheperché non ero più un ragazzino. Vivevo a Parigi, L’Eu-ropeo era in crisi e volevo tornare in Italia ma Cartier-Bresson, di cui ero amico, mi disse: “Non te l’ho maidetto, ma adesso ti chiedo di presentare la tua candi-datura”. Andò tutto bene, fu una roba di cui non riu-scivo a misurare la portata. Il primo servizio, a Parigi,era dedicato al Natale dei diseredati, poi mi occupaidegli immigrati alla Renault».

Le rifaccio la domanda che lei rivolse al diretto-re dell’agenzia: che cosa le ha dato Magnum?

«Dal punto di vista professionale la possibilità dimisurarmi con fotografi che erano dei punti di ri-ferimento. Dal punto di vista umano, essendo si-ciliano ho una vocazione all’individualismo equindi non mi sento a mio agio nel gruppo. Pos-so fare mia la frase di Cartier Bresson che diceva:“In Magnum ho molti compagni e pochi amici”.Siamo una grande famiglia, infatti io non sop-porto la famiglia».

C’è un modo di essere fotografi che acco-muna quelli della Magnum?

«Non credo, più che altro i fotografi cooptano persone che re-cepiscono la loro stessa linea».

Che ricordo le è rimasto di Cartier Bresson?«Lo conobbi nel ’77, divenimmo amici. Avevo una venerazione

per lui e forse anche per questo era generoso con me. Io gli dicevoche era un siciliano come me, infatti sosteneva di essere stato con-cepito a Palermo. Parlavamo di politica, di letteratura, di musica,molto meno di fotografia. Ecco, mi manca quel Cartier Bresson,non il grande fotografo che posso ritrovare nei suoi libri».

Scianna.Che cosa ti dà?Non ti lascia mai in pace

MARIO DI CARO

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sieme di fortissima proiezione sul Web,proposta di prodotti complessi e inte-grati (reportage, ricerca, editoria, mo-stre, internet) e rapporto diretto con ilettori attraverso i social network, «ab-biamo 600mila follower tra Facebook eTwitter. Se il primo web, con l’inflazio-ne delle immagini a disposizione di tut-ti, ci ha quasi ammazzato, il web 2.0 cista resuscitando». Sintomo di vitalità:in pochi anni la quota di fatturato pro-dotta dal nobilissimo archivio storico èscesa da oltre metà al 35 per cento, rim-

piazzata dalle nuove produzioni. Negliuffici di Magnum ora «si respira un’ariadi stabilità efficiente. Altre agenzie nateper “rinnovare il modello Magnum” so-no scomparse, noi ci siamo ancora», ri-vendica con mite orgoglio Lorenza: «Ilcontrasto generazionale che alcuninon sopportavano ci ha tenuto vivi, ècome il legame fra nonni e nipoti. EveArnold, novantenne, ha partecipato fi-no all’ultimo e i ragazzi la adoravano.Siamo vivi perché abbiamo grandi radi-ci e rami robusti».

MARILYN

Eve Arnoldmentre fotografaMarilyna Los Angelesnel 1960La foto è statascattatada Dick Rowa© Magnum/Contrasto

FOTO DI GRUPPO

Qui sopra, tuttoil gruppo Magnumimmortalatoin occasionedei 65 annidalla fondazionedell’agenziaad Arles nel 2012© Magnum/Contrasto

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KENNEDY

Sopra, Elliott Erwitt mentrefotografa il presidente Kennedya Washington nel novembre 1961:foto di Seymour LindenA sinistra, Eugene Smith e HenriCartier-Bresson a New Yorknel 1959. La foto è di René Burri© Magnum/Contrasto

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Arrivavano con Lada scure e cappottoni neri Così gli agenti della Ddr venivano a prendere i genitori “poco fedeli” al regime e affidavano

i figli a un’altra famiglia. Ora, quarant’anni dopo, una di quelle bambine ha fondato un’associazione che aiuta quelli come lei a ritrovare il proprio passato

“Quel mattinosulle prime tentai

di scaldarmi sotto le coperte,

poi capiiLoro ci stavanoportando viala mamma

Avevo quattroanni”

L’attualitàMuri

BERLINO

«Era un gelido mat-tino d’inverno,quel grigio, buiosette febbraio del

1972, quando “Loro”, poco prima del-l’alba, bussarono gridando rabbiosi al-la porta nel nostro appartamento. Iosulle prime tentai di scaldarmi sotto lecoperte, solo dopo capii quel che stavaaccadendo. “Loro”, lo Stato, ci stavanoportando via la mamma. Avevo quattroanni. Mi chieda quel che vuole, vorreisolo raccontarle la mia storia. Una sto-ria tra decine di migliaia, allora nelloStato chiamato Ddr». Katrin Behr sorri-de energica e gentile, mi offre un caffè,gioca col suo simpatico cane bassotto,mentre la ascolto là a un piano alto del-l’ex palazzo-città della Stasi. Là doveper decenni la “Gestapo rossa” sorve-gliò un popolo, oggi al pianterreno c’èun museo della repressione. E al sestolavora lei, con la sua Ong di soccorso:aiuta gli orfani di Stato, gli adottati perforza, un popolo nascosto allora a Estdel muro della vergogna, un popolo cheancora oggi non si conosce a vicenda enon sa riscoprire l’identità strappata.Solo da lunedì scorso il potere federalee i cinque Stati dell’Est hanno varato unnetwork di aiuti per tutti i reduci dai fa-migerati orfanotrofi della Ddr, con qua-ranta milioni di euro a disposizione persoccorsi e risarcimenti.

«Era una direttiva dall’alto», mi spie-ga Katrin Behr, «i bambini nati nel so-cialismo reale dovevano stare con la fa-miglia solo se la famiglia era fidata. Semamma e papà erano sospettati di con-tatti col dissenso, o peggio ancora di vo-glia di fuga in occidente, allora la pote-stà parentale veniva abrogata d’un col-po, senza diritto d’appello. I bimbi ve-nivano strappati alle famiglie, parcheg-giati in brefotrofi e orfanotrofi, poi affi-dati in adozione a famiglie di provata,devota, incondizionata fede al regime».

I ricordi di Katrin corrono indietroveloci. «Bussavano rabbiosi, urlavanodi aprire, altrimenti avrebbero buttatogiù la porta. Io gridai, mamma ci disse divestirsi in fretta, poi urlò verso la portapresa a spallate da quelli: “Subito, unmomento, il tempo di vestirsi!”. Nonvolevo infilare la pesante calzamaglia inlana rozza, pungeva. Mamma mi dette

uno schiaffone pesante, la guancia mifece male a lungo. Mirko, mio fratellomaggiore, mi consolò. Capimmo d’untratto che non avremmo festeggiato ilsuo compleanno imminente».

Katrin è fredda e precisa quando ri-corda e racconta, trattiene ogni emo-zione. «Mamma aprì, entrarono in sei osette, tutti con quel macabro, famosocappottone nero, e dietro di loro unadonna esile che prendeva appunti. Ciportarono via, pochi minuti appena perraccogliere il minimo in pochi bagagli.Scendemmo spinti di corsa dalle scaledel vecchio palazzo del centro di Geradove abitavamo. Ci sospinsero circon-dandoci anche in strada, a passo di cor-sa verso l’antica piazza del mercato».Era prestissimo, quasi nessuno in stra-

da, un passante vide tutto e protestò,«non potete maltrattare così una fami-glia». Lo minacciarono, mostrandogli iltemuto distintivo con la spada e lo scu-do sormontati dalla stella rossa, dalmartello e dal compasso emblemi na-zionali della Ddr: la Stasi, spada e scudodel Partito-Stato. «Sparisca, una paroladi più e portiamo via anche lei».

Le Lada nere con targa speciale e ve-tri bruniti li attendevano con i motoriaccesi. «Forza, bambini, congedatevida vostra madre», dissero gli agenti.Senza dire altro, senza spiegare perché.“Mamma, che cosa hai fatto, non voglioperderti”, gridai io mentre la guanciami doleva ancora per lo schiaffo. Mi ag-grappai disperata alle sue braccia, poialle caviglie, mentre la spingevano nel-

la prima delle Lada. Lei mi carezzò,tentò di abbracciarmi un’ultima volta,e dal suo abbraccio sentii che l’avevanoammanettata. Da quel momento, nonla vidi più per decenni».

Il primo Stato socialista in terra tede-sca, leggiamo oggi su dossier, atti pub-blici derubricati e manuali di storia, siprendeva dannatamente sul serio. Do-veva crescere una generazione nuova,sradicata dal passato borghese. Nonera proprio il progetto Lebensbornnazi-sta dei perfetti bimbi ariani, ma il ricor-do sinistro è quello. «Solo dopo il 1989,dopo la caduta del Muro, fu possibileper me e per tanti altri ricercare, chie-dere, trovare indizi delle nostre origini efamiglie negate», narra Katrin. «Nel1991 potei leggere i dossier della Stasi sudi me. All’inizio ero in collera, poi capiiche ira e rabbia non mi avrebbero aiu-tato. Mi portarono solo disturbi cardia-ci. Sapevo di essere stata una bambinaadottata, ma solo allora scoprii il per-ché. Trovai appunti e lettere dellamamma adottiva, in cui lei scrivevachiaramente: “Non ebbi mai contatticon la mamma naturale di Katrin, sape-vo che era un caso di sicurezza, che siparlava di un caso di pericolo di fuga il-legale dalla Repubblica».

Le leggi ispirate da Margot Honeckererano durissime. Margot, moglie delcapo, la bella malvagia regina della not-te, come Elena Ceausescu. Ministrodella Famiglia, temuta dai bimbi come“il drago viola” (dal colore con cui ama-va tingersi i capelli). Per lei c’erano sul-le piste di Berlino Est i Tupolev di Statosempre pronti a voli di shopping a Pari-gi, per i nemici presunti del suo sociali-smo l’esproprio della prole. C’era an-che il paragrafo 249 del diritto penale:chi è definibile come asociale non abbiaalcun aiuto dello Stato sociale, gli ven-gano tolti i figli. Bastava poco, nel climatardostaliniano dietro il Muro, per ve-nire classificati come asociali: ragazzemadri, che non trovavano lavoro per-ché avevano bisogno di tempo per ibimbi. «Ragazze come mia mamma,che una volta pare si lasciò sfuggire unafrase di sfogo, “vorrei andarmene daquesta realtà che odio”. Aveva sottova-lutato la forza della delazione, fu la suacondanna. Mi lasciarono pochi giornida nonna, poi mi assegnarono a unbrefotrofio. Poi fui adottata da una fa-miglia fedele al regime». Infanziaconforme per forza: il giuramento dei

ANDREA TARQUINI

I DOCUMENTI

Da sinistra,il dossier del ’91che fa il puntosulle adozioniforzate; l’attoche riabilitala madre naturale;lettera della madreadottivache raccontadell’affido di Katrin

Katrin e gli orfani della Stasi

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gliaia. In un paese che su sedici milionidi abitanti ebbe tra trecentomila e cin-quecentomila prigionieri politici, i cal-coli prudenti di Frau Behr parlano di al-meno 75mila bambini strappati alle lo-ro famiglie. Ti tolgo i figli, era la vendet-ta di Stato contro chi veniva sospettatodi idee critiche o di voglia di fuga o di vo-glia di democrazia, niente differenzia-zioni contro il Klassenfeind, il nemico diclasse registrato allora come il Rassen-feind (nemico razziale) decenni primadall’altra dittatura. I genitori adottivisapevano o intuivano, ma col bimbo af-fidato loro dovevano tacere, per non ri-schiare loro stessi. Alcuni erano gentili,altri corrotti o alcolizzati.

«Cercando negli archivi, ritrovai lamia vera mamma», narra Katrin cer-cando di non commuoversi. Era ridot-ta al relitto di se stessa, legata a una se-dia a rotelle, appena capace di espri-mersi. «Katrin, mein Kind» (Katrin,bimba mia), disse la madre alla figlia, ri-conoscendola subito. Si ritrovarono,

Katrin si godette gli ultimi anni di vitadella mamma ritrovata. Quanti bimbidi allora abbiano sofferto come lei, losanno solo le ceneri dei dossier brucia-ti mentre il regime cadeva o i fogli ta-gliati in strisce da un millimetro dallemacchine distruggi-documenti che laStasi usò fino all’ultimo minuto. Quelpopolo disperso degli orfani per forzacomincia adesso a scoprirsi, a trovarela sua identità: Katrin Behr e il suo grup-po li conducono per mano, indietro neltempo alla ricerca di quel passato di vi-te strappate e famiglie distrutte. Mar-got Honecker vive tranquilla in Cile, inuna villa offertagli per onesta gentilez-za vecchio stile dal Partito comunistacileno. In una recente intervista alla tvtedesca, ha definito «poveri stronziquelli che rischiavano la morte per pas-sare il confine» e si è lamentata dellapensione (1.500 euro mensili netti, unafortuna in Cile) che riceve ancora oggida Berlino.

giovani pionieri, punto primo, l’amoreper la Ddr e solo dopo l’affetto per i ge-nitori.

L’associazione di aiuto agli orfani perforza Katrin l’ha fondata nel 2009, masoltanto in quest’ultimo anno la rete divolontari sta ottenendo i primi incorag-gianti risultati. Aiuta i suoi compagni disventura a ritrovarsi, ad aiutarsi a vi-cenda, li assiste nella difficile ricerca ne-gli archivi della disciolta Ddr. Li aiuta aincontrarsi e confortarsi scambiandosii racconti delle loro tragiche vite conquei momenti d’infanzia spezzata dal-le irruzioni all’alba della Stasi a casa.Quanti furono, gli orfani per forza? Mi-gliaia, probabilmente decine di mi- © RIPRODUZIONE RISERVATA

IL LIBRO

Qui sopra, la copertina del libro di Katrin Behrnell’edizione olandese: il titolo è Il giorno in cui la Ddr mi strappò via mammaA destra, la piccola Katrincon i genitori adottivi

ADOTTATA

Sopra e sotto,due scattiche ritraggonoKatrin bambinadurante la vitacon i genitoriadottivi

L’ULTIMO SALUTO

Sopra, la piazza del mercatodella città di Gera, in Turingia,dove gli agenti intimaronoalla piccola Katrin e a sua madredi salutarsi per l’ultima volta

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Scappò da Roma per Parigi, fondò l’atelier che cambiòla moda negli anni Trenta e Quaranta. Bastava il suo cognome,Schiaparelli, a far pensare subito ai suoi amici: Dalì, Man Ray,Giacometti. Ora la maison ha riaperto grazie a Della ValleSiamo andati nell’archivio che conservai ricordi di quei capolavori dell’haute couture

La storiaMuse

PARIGI

Divano e pareti fucsia, lascritta “Shocking” sullospecchio, rosa ovunque,rosa dappertutto, rosa

mischiato al rosso magenta. È l’omaggioalla miscela che aveva inondato Parigi e ilmondo intero, anche attraverso l’omo-nimo profumo con boccetta sagomatasul busto di Mae West. L’aveva inventatolei, Elsa Schiaparelli, italiana emigrata inFrancia per trovare il suo destino, per pla-care l’inquietudine della ragazza nata inuna famiglia troppo borghese per lei. Inquel rosa c’è tutto il suo spirito, come lodefinì lei stessa: «Il colore di tutta la lucedel mondo, di tutti gli uccelli e di tutti i pe-sci riuniti, della Cina e del Perù, ma nondell’Occidente». Era l’anno 1936.

Primo luglio 2012: con un cocktail d’i-naugurazione nei saloni al terzo piano,riapre la Maison Schiaparelli. Ora, su ap-puntamento, chiunque potrà entrarenella sede del marchio mitico prima an-cora che storico, acquistato e rimesso invita dal gruppo Della Valle. Siamo a Pari-gi, al numero 21 di Place Vendôme, nellapiazza più elegante del mondo, esatta-

mente nel luogo da cui Elsa Schiapa-relli ha dominato la scena internazio-

nale negli anni Trenta e Quaranta,con un’estetica intrisa d’arte e di

coraggio, convinta che «per avereil senso della storia bisogna pre-

cederla». Questa era Elsa, questo il

senso di Elsa per lo shocking.Cresciuta nel barocco di

Palazzo Corsini e del cen-tro di Roma, la futura

stilista incomincia

presto a mostrare il suo spirito ribelle.Esordisce con un libro di poesie e la fami-glia la spedisce in convento per punizio-ne. Lei non smette di lottare e alla fine, di-vorziata e con una figlia piccola, conqui-sta il pianeta con il marchio che porta ilsuo nome, portando talmente avanti ilsuo discorso sulla moda da essere anco-ra — basti la mostra in corso al Metropo-litan Museum di New York, le ImpossibleConversations tra Prada e Schiaparelli —ammirata, citata, venerata.

A Parigi, nell’atelier completamenterinnovato, l’insieme non deve confonde-re: il fuoco sono i dettagli. È lo spirito delnuovo corso: massima cura e riservatez-za, massima attenzione per chi varcheràla soglia. Passato il verde — lavanda e lat-tuga erano le altre sue passioni cromati-che — che fodera l’ingresso, ecco il suorosa. Non sarà stato, allora, il colore del-l’Occidente, ma è ora quello del packa-ging, dei sacchetti ordinatamente sparsinell’atelier, delle cartellette rigide,shocking nel formato e nel contenuto,bozzetti e foto d’archivio che incantanoper voluttuosa modernità e per glamourd’epoca. Infine è shocking il corridoio deiprofumi, alle pareti i disegni di MarcelVertès, il suo illustratore. Tra sinuosi e fa-mosi flaconi, l’occhio cade su quello dauomo: “Snuff”, una pipa come boccetta,Salvador Dalí come designer. A fianco,fucsia, gli occhiali a spirale di Man Ray.

Schiaparelli era circondata dagli artistie viveva in prima persona il surrealismo,nel suo essere temeraria. E inafferrabile,come lo è oggi la sala con le pareti a spec-chio, giunture dorate come a Versailles,piazza e cielo e nuvole multiriflesse, ineterno movimento. Questo per ricorda-re il suo esordio da stilista: maglie trom-pe l’oeil, come è un trompe l’oeil il corri-doio che sembra un capitonné e condu-ce al bagno che pare un salotto, a guar-darti negli occhi un busto di cervo: Elsaaveva una mania per le sculture di ani-mali. Tra questi, la sua adorata sfinge

che fa riaffiorare, insieme alla lettera Scome superstizione che dava forma alsuo divano preferito, il suo lato esoteri-co. Sotto la sfinge, nella sala più chiara,una cassettiera fa eco alla Donna concassettidi Dalí — quadro qui presente —da cui era nato un celebre vestito. E an-cora, altre citazioni si rincorrono tra pre-sente e passato: la cassettiera è a formad’aragosta, altra dalímania, posizionatanella primavera 1937 sull’abito biancosubito indossato da una cliente, nomeWallis Simpson. Sono bianchi i torchondei posaceneri di Alberto Giacometti, apuntellare un candore in cui le farfallesotto vetro sul camino danno l’idea dipoter volare via.

Poi si entra nello studio. Qui la co-smopolita Elsa poteva passare un’inte-ra serata sola, un turbante in testa, il ca-gnolino sulle ginocchia, circondata da-gli amici che le sorridevano dalle foto-grafie. Quelle tuttora appese sopra lespecchiere che furono di Yves Saint Lau-rent e che riflettono dettagli preziosi:porta cipria a forma di telefono di Dalí,occhiali di Man Ray, disegni di JeanCocteau, schizzi di Elsa che tratteg-giano abiti da regina. Nel corridoiopieno di studi e bozzetti che con-duce in cucina, si intravedonodegli spilli. È la citazione piùimportante: indossando unabito tenuto su con gli spilli,fermando la forma e i tem-pi del suo primo ballo aParigi, la giovane Elsaaveva aperto la portasulla stanza dellasua assoluta indi-pendenza.

ANNAMARIA SBISÀ

La ragazza ribelleche colorò il mondo di rosa

ShockingElsa

ROSSETTO

Altre due illustrazioni di Vertès:qui sopra, la pubblicitàdel rossetto di Schiaparelli

SAN VALENTINO

Illustrazione di Peynetper il profumo “Succès Fou”,

edizione di San Valentino

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Chi, al posto di Giacometti, disegnerà ifavolosi bottoni della risorta couturefirmata Schiaparelli? Chi inventerà

nuovi impressionanti cappellini, sostituen-do l’improntitudine di Dalí, e gli erotici mi-steriosi ricami allora disegnati da Cocteau?Non c’era Raul Dufy, la settimana scorsa, aimmortalare con i suoi schizzi l’inaugura-zione della risorta Maison nel palazzo se-centesco di Place Vendôme 21, composta inquel 1936 da 98 stanze. Non ci sarà tra le fu-ture prestigiose clienti una duchessa diWindsor fotografata nel 1937 da Cecil Bea-ton, e chissà chi lancerà i nuovi sontuosiprofumi, pensando al fumineo successomondiale di Shocking! e del suo flacone di-segnato da Leonor Fini, ispirato, su richiestadella creativa Elsa, al busto opulento dell’i-ronica diva Mae West.

Spodestati dal tempo il Surreali-smo, il Dada e le beau monde, di-ventata indigesta l’ironia in-telligente, accantonata dalledonne la provocazione ele-gante, a chi ricorrerà il fa-stoso marchio sottratto al-l’oblio dal coraggio prag-matico di un imprenditoreitaliano come Diego DellaValle (era italiana, nata a Ro-ma, anche la signora Schia-parelli, sposata poi allo squat-trinato e fascinoso teosofofranco svizzero conte Wilhelm deWendt de Kerlor e poi naturalizzatafrancese)? Gli artisti di oggi, mettiamo Da-mien Hirst o Marina Abramovich, Cattelano Grayson Perry, tendono al gigantismo e aun eccesso di dollari, quindi l’arte della nuo-va Schiaparelli dovrà rinunciare a servirsidell’arte come pareva tanto facile e diver-tente ai tempi della vecchia Schiaparelli: chea New York, subito dopo la nascita dell’uni-ca amata figlia Gogo e la separazione dal ma-rito, formò un sodalizio con Man Ray, Du-champ e Picabia: ma adesso Duchamp eMan Ray, oltre ad altri celebri artisti non so-lo di quegli anni, sono esposti in una mostraveneziana curata da Germano Celant pro-mossa dalla Fondazione Prada.

Il che conferma quello che la grande mo-stra al Metropolitan Museum di New YorkSchiaparelli & Prada: Impossible Conversa-tions sta raccontando da maggio: già esisteuna Signora, Miuccia Prada, che pur non es-sendo certo un’epigone di Schiaparelli, leassomiglia nell’invenzione del fascino del-la jolie laide, la bruttina graziosa e «nell’am-bizione sovrana di essere unica», come scri-ve Judith Thurman nel catalogo della mo-stra, e nella passione per l’arte del loro tem-po. Schiaparelli promuovendo la moda co-me una forma d’arte e collaborando con iSurrealisti, Prada tenendo ben separate

moda e arte, e usando i profitti della prima»per finanziare un’avventurosa collezionedi arte contemporanea». A trentadue anniElsa torna a Parigi e inaugura il suo primoatelier in rue de Seine per poi trasferirsi inrue de la Paix, e scegliendo di abitare primain rue de l’Université, poi in Boulevard StGermain infine in un palazzetto di 18 stan-ze in rue de Berri. Il suo subitaneo successonegli anni Trenta la fa diventare non soloconcorrente, ma antagonista della già affer-mata Coco Chanel, che la chiama «quell’i-taliana che fa vestiti», mentre Elsa la giudi-ca «una triste piccola borghese che ricordaun cimitero».

Le spalle larghe, la vita stretta, il tocco diironia negli accessori entusiasmano le don-ne più indipendenti e civette, e i costumisti

di Hollywood si ispirano a quella nuova,spiritosa moda, arrivando, come

Adrian, a quel capolavoro dellafrivolezza femminile d’epoca,

che è Donne, diretto nel 1939da George Cukor, con tutte ledive del momento e neppu-re un uomo, (rivisto qualchesera fa in televisione). Quan-do alla fine della guerra Elsatorna in Francia, il mondo, lamoda, le donne, tutto è cam-

biato, i suoi abiti costanotroppo e ormai il giovane Chri-

stian Dior ha sconvolto l’imma-gine femminile con il new look.

Nel febbraio del 1954, mentre Chanelriapre il suo atelier perché il mondo ha già

dimenticato il suo collaborazionismo coinazisti durante l’occupazione di Parigi, inPlace Vendôme 21 Schiaparelli fa sfilare lasua ultima collezione, che ha chiamato “Li-nea fluida”. Riesce a evitare la bancarottaonorando negli anni i suoi debiti con i pro-venti dai profumi. Vivrà tra Parigi e Ham-mamet, si vestirà da Balenciaga e dal giova-ne Saint Laurent, farà la nonna di Barynthiae Marisa Berenson (la meravigliosa signoradi Barry Lyndondiretto da Stanley Kubrick).Muore nel sonno a ottantatré anni, nel 1973,due anni dopo la rivale Coco.

Oggi Schiaparelli torna dopo decenni adabitare la moda, un marchio che non ha al-cun legame col passato e con Elsa, ma chetroverà certamente spazio in quel mercato diipotetico lusso che malgrado la crisi conti-nua a trionfare nel mondo. Il prossimo gen-naio, cinquantotto anni dopo l’ultima pas-serella di Schiaparelli, dovrebbe sfilare la pri-ma nuova collezione, ma ancora non si sa chine sarà responsabile. Si fanno i nomi del ge-niale John Galliano, licenziato dalla MaisonDior per antisemitismo, e di Rodolfo Paglia-lunga, ex direttore creativo di Vionnet dopoessersi formato, guarda caso, da Prada.

La difficile ereditàsulle macerie del “beau monde”

NATALIA ASPESI

CALENDARIO

Elsa Schiaparelli ogni anno facevaun calendario con Sergio Matta:questo è del 1967. Sotto, la stilistain un ritratto di Horst del 1937;un suo schizzo. Sopra, altri bozzetti

ASTROLOGIA

Sopra, disegno di Bérard apparso su Voguedel 1938: tre vestiti da sera colorati con il solee i segni zodiacali ricamatiTutte le immagini di queste pagine provengonodall’archivio Schiaparelli (diritti riservati)

DALÍ

In alto, in biancoe nero il disegnooriginale di Dalíper il tailleurcon i cassettiLa collezionedell’inverno ’36-’37segna la primacollaborazionetra Dalíe SchiaparelliA sinistra,un disegno di Brugaillère

per la lineacosmetica“Shockiery”

PROFUMI

Disegni di Vertèsper il profumoShocking lanciatonel ’37: la formaviene dal busto di Mae West,alla diva la stilistaavevaconfezionato i vestitiper EveryDay’sa Holiday

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L’ultimo a farcela è stato Scrat, il roditore ossessionatoda una ghianda, che sarà protagonista assolutodell’“Era glaciale 4” in anteprima in questi giorniMa prima di lui la walk of fame dei cartoon è piena di divi che hanno fatto la gavetta

A partire da Popeye e un certo papero vestito alla marinara

SpettacoliSpin-off

PARIGI

Datemi una leva e vi solle-verò il mondo. Datemiuna ghianda e ve lo di-sintegrerò. È Scrat la

nuova mitologia planetaria: terrore de-gli equilibri terrestri, grimaldello di sto-riche e preistoriche sicurezze geologi-che. Minuscolo pulviscolo animaledentro i gigantismi dell’Era glacialen. 1,2, 3, 4, zampette adunche e febbrili ca-lamitate da quello sfacciato oggetto deldesiderio, sempre beffardo e sfuggen-te, Scrat, Tantalo della ghianda, è l’an-nuncio fatale di comiche, seriali apoca-lissi di cartoon. Da dieci anni è il prota-gonista più atteso della saga glaciale,suo recidivo eroe perdente. Puntutamascotte e logo glorioso della Blue Skydi New York, Scrat è entrato nei giorniscorsi, divo tra i divi, al Musée Grévin,mausoleo delle cere a Parigi, scortatodal suo disegnatore, Peter de Sève. Con-sacrazione finale e assicurazione d’im-mortalità per un personaggio immagi-nario che non doveva esistere, comun-que chiamato all’ultimo minuto arinforzo d’un film già terminato.

«Al momento del varo della primaEra glaciale— ricorda William H. Frake,animatore dello Studio newyorchese— la tecnologia non ci consentiva direalizzare la sequenza iniziale già con-cepita. Anzi, sì, ma ci avrebbe richiestoun anno di lavoro per soli tre minuti difilm. Rinuncia immediata e una do-manda: se qualcuno ha un’ideuzza perla scena d’apertura, si faccia avanti».Scrat. Che sarebbe divenuto il timbrodoc della Blue Sky. Moscerino peloset-to e insignificante a tu per tu con l’enor-mità metafisica dei ghiacci, unicamen-te attratto dalle anguste golosità dighiande-miraggio, Scrat è la riduzioneal ridicolo, o all’ “umano”, del maesto-so mistero delle origini: un piccoloCharlot della fame, straccioncello digiornata, effimero fai-da-te tra le ormepesanti della storia. Ideale personaggiodell’universo animato, cui dal 2002vengono riservati corti da protagonista,da Gone Nutty al recente The Scratist(parodia muta e in bianco e nero del-l’Oscar The Artist), Scrat s’è guadagna-to il privilegio, da star, della «partecipa-zione straordinaria», con tre rutilanticameos, nel n.4 dell’Era glaciale (suinostri schermi in settembre, in antepri-ma il 22 al Festival di Giffoni e poi al Fa-

mily Film Festival di Fiuggi). Scrat, che sullo schermo ruba la sce-

na a tutta la zoologia antenata, è il casopiù recente di una costante nella storiadel cartoon: il protagonista per caso oper errore, la promozione da spalla astella di un personaggio inizialmenteprevisto come riempitivo. Il cinemad’animazione è un’avventura infinitadi self made characters, personaggimarginali che si sono fatti da sé, cene-

rentole a matita assur-te a star, per immediata

simpatia o inatteso con-senso popolare, come i

pinguini in Madagascar (dapasseggeri clandestini al primo turno atecno-registi di destini nel n.3) o il Gat-to con gli stivali in Shrek o la deliziosaCampanellino del Peter Pandisneyanoo gli accattivanti complici di Kung FuPanda.

Ma insieme a Scrat, la palma di starex-sommersa va assegnata a al-

tri quattro personaggi dell’e-ra d’oro, ormai glaciale, del-l’animazione Usa: BettyBoop, Braccio di Ferro, Bugs

MARIO SERENELLINI

Quelle comparsediventatele vere star di carta

BETTY BOOP

Creatadai fratelliFleischer,compareper la primavolta,sotto formadi barboncina,il 9 agosto 1930in Dizzy DishesÈ la spalladel cagnettoBimboIl successoarriva nel 1931quando divienela vedetteBetty Boop

BRACCIO DI FERRO

Appare per la prima voltain un episodio di Betty Boop

Nel 1928 è protagonistadel fumetto

comico The Thimble Theatre

PAPERINO

L’antieroe di Walt Disneyappare nel ’34nelle Silly SimphoniesIl 9 gennaio 1937, la prima seriecome protagonista: Don Donald

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Bunny, Paperino. Betty Boop, provo-cante brunetta, nonnina glamour diMarilyn Monroe, con cui condividerà laseduzione affettata di poo-poo-pee-doo, antenata del karaoke in film a tec-nica mista (dal vero e animazione) confantasiosi adattamenti jazz, come Min-nie the Moocher di Cab Calloway, daisottotitoli ritmati dal pallino a rimbalzo,è la prima diva di cartoon. Ma prima didiventare sex-symbol a matita, ha fattoanticamera un anno intero nei FleischerStudios, anonima “spalla” del cagnetto-star Bimbo, in una dozzina d’episodianimati inaugurati il 9 agosto 1930 daDizzy Dishes. Agli inizi, orecchie penzo-loni e mille moine, la sua identità è so-

spesa tra la cagnetta antropomorfica e lateen un po’ spudorata. È nel 1931 cheesplode, diventando vedette con il no-me di Betty Boop: è il suo momento dicelebrità e di censura, per la gonnellinaattillata troppo corta, che le infligge unasospensione in celluloide (il tempo ne-cessario agli Studios di allungarle la sot-tana). A sua volta, Betty Boop fa da staf-fetta di celebrità a un’altra star anniTrenta, Popeye/Braccio di Ferro. È leiche lo tiene a battesimo in uno dei suoiepisodi di mini-diva. A Popeye, bastaun’apparizione, anzi, un glu-glu di spi-naci, per farsi amare dal pubblico, chene reclamerà avventure autonome amisura della sua pozione vegetale.

Altro ortaggio, altra star. La carota ècomplice fin dalle prime apparizioni,opache e di supporto, della futura ma-scotte della Warner Bros, suo simboloe logo, Bugs Bunny, coniglio indolen-te e insolente, nona star più rappre-

sentata nel cinema mon-diale. Ma prima di tantagloria, lunga gavetta. Ap-parso anonimo, la primavolta, in Porky’s HareHunt (30 aprile 1938), as-sume tratti definitivi eruolo di protagonista dueanni dopo con Tex Averyin A Wild Hare, prodottoda Chuck Jones. Inizial-mente si doveva chiama-re Happy Rabbit. Come ilnome anche la morfolo-gia passa per successivirestyling, cinque, doveBugs da bianco diventagrigio e orecchie e musos’arrotondano e s’allun-gano. Unica costante, lacarota, che Bugs tiene tra

le dita come il sigaro di Groucho Marx,suo gemello dal vero, che il coniglio in-carnerà in numerosi cartoons, da SlickHare a Wideo Wabbit. Dal coniglione

baffuto dei Marx Brothers la copia amatita ricava anche l’aria infingarda,con il tormentone-feticcio «Eh, what’sup, doc?» («Quali nuove, dottore?») esoprattutto la pacifica minaccia: «Tucapisci bene che questo significaguerra».

E intanto, in Casa Disney? Uno deisuoi personaggi più fortunati — sulloschermo — ma lo sfortunato per anto-nomasia, Paperino, è un brutto ana-troccolo fin dalla nascita. È forse l’uni-co caso di disegno animato nato attor-no a una voce e non viceversa: la vocedi un imitatore di suoni e versi d’ani-mali, Clarence Nash, scoperto duran-te un provino da Walt Disney, che nel1933 lo sceglierà per il personaggio an-cora da inventare di un’anatra parlan-te. Dopo le prime apparizioni da com-parsa, ma già vestito alla marinara, nel1934 nelle Silly Simphonies(non anco-ra nei film con Topolino), Paperinoavrà il 9 gennaio 1937 nascita ufficialecon la prima serie da protagonista,Don Donald, su script di Carl Barks, “ilpapà dei paperi”, che gli appioppa laspigolosa fidanzata (Donna, non an-cora Daisy): retaggio fatale e segno diriconoscimento di ogni vera star.

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BUGS BUNNY

Il coniglio simbolo della Warner Brosappare nel 1938 in Porky’s Hare HuntDue anni più tardi, è già l’interpreteprincipale in A Wild HareDa quel momento diventa la nona star più rappresentatanel cinema mondiale

CAMPANELLINO

La piccola fata alatainnamoratadi Peter Pan apparenel 1953nel capolavorodi DisneyNel 2008 le vienededicato Trilly

IL GATTO CON GLI STIVALI

Ispirato all’omonimo personaggiodella celebre favola, apparenel 2004 in Shrek2, secondoepisodio della saga con la vocedi Antonio Banderas. Il successoè tale che nel 2011 esce lo spin-offIl Gatto con gli stivali

SCRAT

Al centrodella paginae qui a sinistra,Scrat, il roditoredell’Era glacialenato per casonel primoepisodio e orastar assolutadel quartoGli schizzi sonogli studi originalifatti dal suocreatorePeter de Sève

I 5 CICLONI

Apparsi nel 2008 in Kung Fu Pandanel 2009 ritornano nello spin-offI segreti dei cinque cicloni

I PINGUINI

I pinguini erano personaggi di spallanel primo episodio di Madagascardel 2005. Ma la loro tenaciaviene premiata con una serie tvtutta loro nel 2008

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NextRiserva

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el Gibson ha sbagliato incubo. In Interceptor,il secondo episodio della saga di Mad Max, lastar di Hollywood si aggirava in un angoscian-te mondo del futuro dove bande di esseri uma-ni si combattono per impadronirsi dell’ultimabenzina rimasta. Un errore comprensibile: lafine della disponibilità del petrolio è stato il fi-lo conduttore di molti film catastrofici, ma sitratta di una profezia che per un altro paio disecoli pare destinata ad andare smentita. Da-vanti all’umanità rimangono un’infinità di sfi-de, ma almeno quella di restare a breve senzacarburante sembra pronta per l’archivio.

Negli ultimi decenni è fiorita una vasta let-teratura scientifica sul “peak oil”, ovvero sulmomento in cui i giacimenti di greggioavranno raggiunto il punto di produzionemassima oltre il quale la quantità di oro neroestratto potrà andare solo diminuendo, se-gnando “l’inizio della fine”. C’è chi è convin-

to che il “picco del petrolio” sia già stato pas-sato, c’è chi crede sia in corso esattamenteora e chi ci concede ancora qualche anno ditempo. Una banda di pessimisti di cui nonfanno parte solo ambientalisti ansiosi dispingere il mondo verso le rinnovabili, maanche pezzi di establishment come il Penta-gono. Secondo il Joint Operating Environ-ment 2010, già nel 2015 la differenza fra unadomanda al galoppo e una produzione asfit-tica potrebbe aver raggiunto dieci milioni dibarili al giorno. Ma mentre nella comunitàdei geologi il dibattito sulla data esatta del“peak” si andava accendendo, l’industriadelle perforazioni ha messo a segno una se-quenza di straordinari avanzamenti tecno-logici in grado di rimescolare tutte le carte.

Ragionare in termini di pozzi di greggio, co-me da iconografia saudita o texana, non ha piùtanto senso. La nuova promessa (o minaccia,come vedremo più avanti) si chiama shale, o,in italiano, scisto. Si tratta di una particolare

roccia argillosa dalla struttura a lastre che im-prigiona al suo interno petrolio o gas naturaliche possono essere estratti sottoponendolaalla violenta pressione di un fluido, un proces-so chiamato “fracking” (fratturazione idrauli-ca). Questi giacimenti nascosti sono noti dadecenni, ma fino a poco tempo fa petrolio abasso costo e strumenti arretrati ne scoraggia-vano lo sfruttamento. Un quadro che è oracompletamente cambiato.

«Lo sfruttamento in Usa del greggio nonconvenzionale sta vivendo una fase di splen-dore sia grazie all’alto prezzo del barile, chegiustifica l’utilizzo di tecnologie costose per lasua estrazione, sia grazie al boom dello shalegas, che avendo fatto crollare i prezzi del gas na-turale, spinge le società upstream a convertirele tecnologie per la sua estrazione con altre ingrado di sfruttare l’unconventional oil», spiegaMarcello Colitti, a lungo consigliere dell’Eni ecommentatore per Staffetta Quotidiana.

«Le nuove scoperte in questo campo — ag-

M

Scisto, il pozzo senza fine

È una roccia argillosa che contiene gas o bitume,

il sottosuolo ne è pieno, ma era troppo difficile da estrarreFinora. Perché ormai l’alto prezzo del greggio tradizionale e le nuove tecnologie stanno rendendo lo “shale oil” competitivo I maggiori vantaggi?Per gli Usa. I danni? Tutti per l’ambiente

ED MORSE

economista, a capodella ricerca

mondialesulle materie prime

a Citigroup

Per la primavolta dal 1949gli Stati Unitisono diventati

esportatoridi prodottipetroliferi

Il NordAmerica

hail potenzialeper diventare

un nuovoMedio Oriente

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VALERIO GUALERZI

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Sono idrocarburi solidicontenuti in scistibituminosi dai qualiè possibile ottenerepetrolio attraversoprocedimenti chimici

Shale oil

È metano prodotto da scisto, derivato dalla decomposizioneanaerobica di materiaorganica contenuta in argille

Shale gas

È lo sfruttamentodella pressione di un fluido per crearee poi propagare una frattura in uno strato roccioso

Fracking

Una combinazionedi argilla, sabbia,acqua e bitume da cui si estrae una sostanza convertibile in petrolio

Tar sands

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giunge — portano a classificare tre tipi digreggio non convenzionale: lo shale oil(argilla petrolifera), rocce sedimentarie

che contengono idrocarburi solidi chia-mati kerogene; l’oil shale (greggio ottenuto

dallo scisto), che può essere ottenuto proces-sando kerogene; il tight oil, idrocarburi liquidiche possono essere estratti attraverso l’hydro-fracturing di scisto. Il loro sfruttamento spin-ge a rivedere i dati sulle risorse petrolifere inUsa al punto che spesso ormai si sente dire daipolitici in campagna elettorale che il sottosuo-lo degli Stati Uniti contiene più petrolio del-l’Arabia Saudita».

Insomma, non è sbagliata solo l’idea di fu-turo portata sullo schermo da Mel Gibson, mac’è un’intera filmografia di Hollywood dovegli americani sono impegnati a tramare per ilpetrolio del Medio Oriente che rischia di fini-re in soffitta. «Per la prima volta dal 1949 gliStati Uniti sono diventati un esportatore diprodotti petroliferi, e hanno superato la Rus-

sia come maggior esportatore di prodotti pe-troliferi. Gli Stati Uniti sono diventati l’area incui la produzione di petrolio e di gas crescepiù rapidamente. Aggiungendo il Messico e ilCanada si ottiene un tasso di crescita più altodi quanto possa sostenere l’Opec», scrive EdMorse in un dossier del marzo scorso per Ci-tigroup dal significativo titolo “Energy 2020:North America, the New Middle East?”. Unostudio che mette nel conto anche lo straordi-nario contributo dello shale gas, ovvero il me-tano estratto per fratturazione proprio comeil petrolio.

«A livello mondiale, le riserve sono gigante-sche: quelle convenzionali sono di 180milamiliardi metri cubi, mentre quelle non con-venzionali sono superiori di 4 volte, oltre800mila miliardi. Se si riuscisse a sfruttare que-ste immense potenzialità, le riserve di gas pas-serebbero dall’attuale durata di 58 anni, a oltre200 anni, molto di più dei 47 anni del petrolio edei 120 anni del carbone», spiega il presidente

di Nomisma energia Davide Tabarelli. Una minoranza degli analisti, a iniziare da

Michael Leibreich di Bloomberg New EnergyFinance, si sforza ancora di mettere in guardiadal fatto che si tratta di proiezioni basate supresupposti sballati. «Tutti parlano di riserve enessuno di prezzi», sottolinea pronosticandovita breve per questa “isteria” mano a manoche i costi di estrazione e del gas andranno lie-vitando. Ma sta di fatto che con la percezionedi questa nuova abbondanza si rischia di pas-sare dall’incubo di finire a secco a quello dicontinuare a produrre allegramente unaquantità di anidride carbonica sufficiente a in-nescare un devastante riscaldamento globale,passando per un vasto assortimento di altrigravissimi guai ambientali che vanno dalla si-smicità indotta dal fracking all’inquinamentodelle falde acquifere.

«È indubbio che le fonti fossili non con-venzionali stiano minando la percezione an-che psicologica che la transizione alle rinno-

vabili sia imperativa, ma occorre distingue-re», ragiona Massimo Tavoni, lead authornelprossimo rapporto dell’Ipcc, l’organizzazio-ne delle Nazioni Unite che studia e sintetizzai risultati scientifici sui rischi del cambia-mento climatico. «Se lo shale gas va a sosti-tuire il carbone, può essere un’utile fonte ditransizione visto che bruciando produce cir-ca un terzo delle emissioni di CO2, ma certoesiste il rischio di lock-in, che ci si leghi ovve-ro a un sistema di infrastrutture dal quale nonsi riesce più a uscire».

Saremo in grado di fare la scelta giusta? «Ilpetrolio è nel cervello degli uomini», era solitodire il pioniere dell’industria estrattiva ameri-cana Wallace Pratt per ribadire come le riser-ve di greggio fossero legate alle illimitate capa-cità dell’ingegno umano. Ora che il petrolio loabbiamo trovato si tratta di utilizzare lo stessoingegno per evitare al Pianeta conseguenzedevastanti.

IL POZZO

Un dettaglio del pozzo dove avviene la fratturazione

© RIPRODUZIONE RISERVATA

5.

Il fluido provoca tantepiccole fessurenello scisto liberandoil gas che può cosìrisalire in superficie

1.

Il pozzo vieneperforatoorizzontalmentetra i 914e i 1.524 metri

2.

Nella perforazione si inserisce un tubo rivestitodi cemento

3.

Vengono fatte esploderedelle cariche all’internodi un perforatorecreando piccoli forinello scisto

4.

Un mix di acqua, sabbiae sostanze chimicheviene pompatonel pozzo al ritmo di 15.900 litri al minuto

È una rocciametamorfica formatadalla pressione sugli strati di argillatendente a sfaldarsi in lastre sottiliG

LO

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Scisto

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I saporiAlternativi

Al pecorino o al peperone,al prosciutto o al cetrioloChi ha detto chesorbetti e granitedevono per forza

essere dolci?Eccocome grandi chef e non solotrasformano coni e coppettein ricette rinfrescanti

Il tempo dei gelati diversi. Le porte spalan-cate dell’estate fanno entrare caldo, mala-voglia e bisogno di cibi rinfrescanti. Il gela-to divide gli appassionati — una percen-tuale impressionante di popolazione, tra-sversale per censo, età e geografia — in tifo-

si delle creme (che dovrebbero essere invernali) eirriducibili dei sorbetti (allegramente estivi). Mauna categoria di terzi incomodi si sta facendo lar-go tra fiordilatte e albicocca, non discriminandotra base latte e base acqua, abolendo piuttosto (oriducendo al minimo) lo zucchero. A scorrere l’e-lenco dei gusti, il palato si inquieta: pecorino, pro-sciutto, peperone poco si attagliano al concetto dicomfort food. E invece i gelati salati possono rapi-re i sensi, trasformando coni e coppette in una se-quenza di pura gioia gustativa. Il guaio è che an-cora fatichiamo a pensare il cibo, liberandolo daabitudine e pregiudizi. Il gelato deve essere perforza zuccherato? In realtà, il gusto dolce se nonsuper equilibrato è un micidiale attivatore dellasete. Mangiamo un gelato, di quelli goderecci, perpoi bere, bere, bere. Colpa di additivi chimici edolcificanti, che uniformano i sapori, nasconden-do la qualità mediocre delle materie prime.

I gelati salati sono più difficili da truccare. Unsorbetto di limone e capperi disseta quanto e piùdi una limonata, quello di pomodoro rinfresca estimola l’appetito. Ancora una volta, la qualità fala differenza: a Firenze, Simone Bonini elabora ungelato con i caprini biologici della fattoria ales-

sandrina “Le Ramate”, mentre il bolognese An-drea Bandiera usa la mortadella Favola per il suogusto più tentatore.

Non è solo questione di gusti. Il gelato ancoranon riesce a superare la schiavitù del meteo. Legelaterie d’inverno sono chiuse, o deserte, e co-munque tristanzuole. Le versioni salate care aiprotagonisti della nuova cucina d’autore sonoun bell’esempio di destagionalizzazione. Gliesempi si moltiplicano, dal sorbetto di zenzero,wasabi e ricci di mare di Antonio Guida al Pelli-canodi Porto Ercole a quello d’ostrica del torine-se Alfredo Russo, dal gelato al coniglio di ErnestoIaccarino del Don Alfonso a Sant’Agata sui dueGolfi alla granita di salicornia dell’uruguaiano-milanese Matias Perdomo. Certo, i gelati salatidegli chef — al di là di quelli serviti a mo’ di inter-mezzi o pre-dessert — fanno parte di piatti piùcomplessi, dove rappresentano un punto diequilibrio o un tocco di seduzione. Ma la diffi-coltà di farsi accettare estrapolati dalle ricette —mi dà un cono di acciuga? — potrebbe diventarela leva per sollevare il mondo della gelateria. Pro-ponendo delle vaschette da gustare a casa, a sup-porto dell’aperitivo: sorbetto di cetriolo, gelatoall’olio, granita di pistacchio salato. Oppure tra-sformando le gelaterie in gastro-gelaterie, doveassaggiare il prosciutto crudo col sorbetto di fi-chi, il gelato di fave con schegge di pecorino, lacaprese col gelato di mozzarella o la brioche sa-lata, farcita con gelato al gorgonzola e noci. Chiu-sura con un boccone di tartufo gelato (trent’an-ni quest’anno). Per festeggiarlo, è stata creatauna ricetta nuova, col tartufo chiuso in un guscio.Di pistacchio dolce-salato, of course.

Se il palatorimanedi ghiaccio

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A tavola

Provatelo al parmigiano

PistacchioPistacchi freschi — gusto delicato e colore verdino — o tostati in forno (sapore deciso e color beige). Acqua, e non latte,con quelli meravigliosi di Bronte

PomodoroSorbetto amato dai cuochi per la versatilità nei piatti estivi a base di mozzarella, melanzane,peperoni. Dolcezza e sapidità in base alla varietà scelta

Cioccolato al saleSapienza e mano equilibrata per evitare gli spigoli dei tannini(soprattutto con il fondente)Al posto di quello normale, sale in fiocchi, semplice o affumicato

ExtravergineDalla ricetta semplificata — fiordilatte condito con un girod’olio e fleur de sel — al gelatomantecato, da abbinare a pescealla griglia, crudité, pizzette

CastagnaccioLa torta di castagnedell’Appennino toscano si trasforma in gelato, lasciandointatto il profumo di rosmarino, in contrasto con l’uvetta

Ricotta e capperiL’acidità del siero di latte regalafreschezza, i capperi un ricordo di salsedine: ideale per rendereestiva la pasta al pomodoro o farcire una brioche

SedanoTandem col gorgonzola (o, a ruoliinvertiti, gelato di formaggioservito nell’incavo del gambo) per un aperitivo originale Buono anche in versione sorbetto

Caramello salatoGusto trasgressivo, l’estremo del gusto zuccherino incontra il sale, purché dolce, che ne rileva il lieve sentore amarognoloPerfetto in beata solitudine

Parmigiano Sfizioso come una scheggiaspuntata dalla forma, setoso e saporito. Si serve con cialdesalate, battezzato con acetotradizionale balsamico di Modena

BirraDue ricette: con latte e tuorlid’uovo, per un gelato elegante,oppure con bianchi montati per la versione sorbetto, da offrirecome intermezzo nella cena

LA RICETTA

Ingredienti per 4 persone

600 gr di filetto di branzino tagliato a tartare250 gr di mollica di pane a cubetti4 pomodori maturi4 peperoncini100 gr di zuccheroExtravergine qb5 foglie di basilico1 spicchio di agliosale e pepe

Per il sorbettoTagliare in quattro i pomodori, frullarli salare e pepare,

passare nel colino per eliminare i semi. Aggiungere pane,aglio, basilico e lasciare in ammollo 10’. Togliere gli aromie frullare ancora con un filo d’olio. Mettere in gelatiera (o in un contenitore d’acciaio in freezer) girando ognimezz’ora fino a raggiungere la consistenza di un sorbetto

Per il peperoncino canditoTagliare in quattro i peperoncini, eliminare i semi e la parte

bianca interna. Ridurre in cubettini, coprire con acqua freddae portare a ebollizione, scolare e ripetere. Miscelare 100 gr

di zucchero con 200 ml di acqua, quando bolle aggiungere il peperoncino. Spegnere la fiamma, lasciar raffreddare, scolare

Assemblaggio del piattoPorre al centro la tartare di branzino condita con sale e olio, adagiarvi sopra il sorbetto di panee pomodoro, decorare con il peperoncino candito, zucchine grigliate e fette di pane tostato

L'avellinese Carmine Calòdirige le cucine di due splendidirelais: Palazzo Vittoria, storicohotel veronese recentementeristrutturato, e il Salviatino,affacciato sulla collina di Fiesole. Cucina di prodotto e leggerezza firmano i suoimenù, come nella ricetta ideata per i lettori di Repubblica

FERRAN ADRIÀ

Il mondo del gelato salato ha avuto un ruolo molto importante nel-la cucina del “Bulli”. In realtà, l’introduzione di sorbetti, granite egelati salati all’interno dei nostri menù risale al 1992. La prima in

assoluto fu una granita di pomodoro e biancomangiare (tradizionaledolce al cucchiaio spagnolo con mandorle e cannella ndr). In scia aquella prima ricetta, che piacque molto ai nostri clienti, ci applicam-mo nella ideazione di nuovi gelati salati. Il parmigiano, uno dei pro-dotti-feticcio della nostra cucina, non poteva che diventare uno deglielementi più importanti nella ricerca. A parte le originalissime qualitàorganolettiche, ad affascinarci fu la sua capacità di mantenere gustointenso e marcata fragranza anche in versione gelata, malgrado lepreparazioni fredde tendano a esprimere con meno potenza le lorocaratteristiche gustative.

Infatti, due anni dopo decidemmo di usarlo come ingrediente in ungelato di riso. In quel caso, utilizzammo un latte semplicemente pro-fumato con il celebre formaggio italiano. Ma volevamo andare oltreper creare un vero gelato al gusto di parmigiano. E alla fine ci riuscim-mo. Era il 1997 e il Corte helado de parmesano (wafer gelato di parmi-giano) divenne rapidamente uno dei nostri snack più celebrati. Si trat-tava di una crema di latte infusa con parmigiano, fatta riposare, mon-tata, e infine congelata per ottenere la consistenza del gelato. Lo ser-vivamo sotto forma di wafer, con le cialde a loro volta aromatizzate colformaggio. Negli anni successivi, le nostre texturasgelate a base di par-migiano si sono moltiplicate, dalla polvere ghiacciata alla granita, alsorbetto istantaneo fatto con l’azoto liquido. Però el Corte resta il pri-mo, quello a cui siamo più affezionati e che ci lega a quel grande pae-se gastronomico che è l’Italia.

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Tartare di branzino con sorbetto di pane e pomodoro

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Nella sua compagnia recitano matti,barboni, sordomuti. Il suo cinemaè una denuncia continua della “paurache abbiamo di ogni cosa, anchedi essere liberi”. Ora che prepara

la sua ultima sfidanella liricacon la “Cavalleriarusticana” al San Carlodi Napoli, il registacontinua

a urlare al mondola sua malattia, “perchéil privato è politico”

NAPOLI

Nasce da una densa seriedi storie d’amore l’i-dentità di Pippo Delbo-no, regista teatrale tra i

più originali, estremi e applauditi delnostro tempo, oltre che attore (anchein film di registi quali Bernardo Berto-lucci, Marco Risi e Peter Greenaway),cineasta, fantasioso girovago, sapienteprovocatore su temi politici e sociali (èautore di molti articoli e libri) e perso-naggio “forte” a tutto tondo. La sua vi-cenda esistenziale e artistica coincidecon passioni inesauribili, nutrienti e“maledette”. Sono un amore per la vitaattraversata con quotidiana intensitàdi esperienze, un amore per l’arte sen-tita come dimensione esorcizzante esalvifica, un amore per le debolezze e ivizi dell’umanità, indagata sulla scenasenza pregiudizi. E anche un amore to-talizzante per il teatro, esplorato anchenelle sue forme più tradizionali, comela lirica, che Delbono affronta ora per laprima volta mettendo in scena al SanCarlo di Napoli (debutto il 13 luglio) Ca-valleria rusticanadi Mascagni. Gli pia-ce definire quest’opera «un lamentoeccitante e tremendo, perché il libret-to, la musica e il canto, nella Cavalleria,ci ricordano la parte più buia e rischio-sa dell’essere umano, quella che arrivaa uccidere per amore. Non riuscire a ot-tenere il tuo oscuro oggetto del deside-rio può condurti a qualsiasi violenza, el’anima della Cavalleria è l’alterazionepassionale. Per questo lo spettacolosarà incorniciato da un infernale spa-zio rosso sangue».

Tra i frenetici amori di Pippo ce n’èuno, il più inusuale e «scriteriato» ditutti, che ha contribuito molto alla na-

tura della sua estetica teatrale. È l’amo-re per gli individui apparentementestrani o disadattati, e in verità intelli-gentissimi (scenicamente parlando),che partecipano al successo delle sueperformance. Oltre ad attori e a danza-tori professionisti, formano infatti laCompagnia Pippo Delbono alcuni in-terpreti anomali, “evasi” da destinimarginali e sofferti, come Bobò, un pic-colo uomo sordomuto e analfabeta“rubato” al manicomio di Aversa,dov’era stato recluso per quarantacin-que anni, e divenuto la star del gruppo,geniale e silenziosamente eloquentenella sua espressività da clown arcano.Oltre a lui ci sono Nelson, ex clochardche spicca sulla scena con il suo corpodisseccato e un’allure decisamente si-gnorile, e il down Gianluca, ampio,morbido e paffuto come un Buddha.

«Ma non c’è mai stato qualcosa dicompiaciuto pietisticamente o di ela-borato intellettualmente nella mia de-cisione di lavorare con loro», spiega ilregista. «Questi artisti sono portatori diuna bella energia teatrale e di prospet-tive nuove e radicali sull’esistenza. Hoavuto la fortuna d’imbattermi in lorodurante un periodo travagliato dellamia vita e sono convinto che questo ri-spettivo riconoscimento nel dolore siastato la mia salvezza. Ammiro la loro fi-sicità straordinaria e la loro cura osses-siva del dettaglio. In scena eseguonoogni sequenza con rigore e sono preci-si in modo maniacale. Recano in séistintivamente i segni del teatro e delladanza, espressi in certe sospensioni, inuna gestualità priva di retorica, in unaspeciale capacità di virare i movimentiin repentini cambi di tempo. Io ne se-guo e ne rispetto le dinamiche e i ritmicome un direttore d’orchestra.Quand’è in palcoscenico Bobò, non sipuò fare a meno di guardarlo. Ha un ca-risma che conquista. Sembra possede-re, come dote acquisita, i princìpi delteatro orientale che io ho appreso inlunghi anni di training. Ormai è onni-presente nei miei spettacoli, e persinoqui a Napoli, nella Cavalleria rusticana,prevedo una sua apparizione».

È anche grazie a questi incontri coi“diversi” che lo scatenato Pippo, liguredi Varazze, nato nel ’59, lottatore pervocazione, arrabbiato per scelta, pla-smato da esperienze giovanili con l’O-din Teatret e con Pina Bausch, ha co-struito un mondo teatrale prepotente-mente fuori norma, estraneo a consue-tudini estetiche e retoriche, sospinto

da un decisivo sguardo politico e mo-rale e giocato sui territori dell’ironia,dell’affanno e della tenerezza, oltre chein grado, pur nella fisionomia “alterna-tiva” e trasgressiva, di raccogliere plau-si ovunque.

La peculiare troupe di Delbono (re-sidente a Modena e prodotta dall’Ert,l’Emilia Romagna Teatro) può vantar-si oggi di essere l’ensemble italiano chefa il maggior numero di spettacoli al-l’estero, con una stagione annuale aParigi e presenze fisse al Festival di Avi-gnone; e in Italia viene ospitata dai piùprestigiosi teatri stabili, come il Picco-lo di Milano e l’Argentina di Roma.Inoltre, a conferma di un fenomenonon classificabile e trasversale sia sulversante del pubblico che della critica,sono stati numerosi i riconoscimentimeritati da Delbono, dagli onori delPremio Europa per il Teatro (2009) altributo che, nel mese scorso, gli ha de-dicato la manifestazione Futuro Pre-

sente a Rovereto, in Trentino.I suoi spettacoli, che hanno titoli co-

me La rabbia (ispirato dall’amatissi-mo Pasolini), Barboni, Guerra, Esodo,Urlo, Questo buio feroce, La menzognae Dopo la battaglia, sono luoghi di vi-sioni oniriche, di presenze buffe o te-nebrose, di narrazioni non conse-quenziali, d’intrecci di musiche, testi,danze e video, di flussi d’immagini cheparlano d’ingiustizie e disagi, di squar-ci esilaranti e paradossali sui guastidella vita d’ogni giorno, di quesiti sul-l’amore, sulla morte, sulla poesia e sulmale che aggredisce il corpo. Un tema,questo, che incalza Delbono da quan-do, negli anni Novanta, scoprì la pro-pria sieropositività: «Il privato è politi-co. Bisogna avere il coraggio di parlaredi noi e dichiarare apertamente chisiamo, anzi gridarlo forte, come faccionel monologo autobiografico Raccon-ti di giugno, che porto da anni sulle sce-ne di tutto il mondo. Vi espongo quel-lo che è stato il mio cammino: incoe-rente, tormentato, pieno di errori maanche ricco di scoperte, passato attra-verso gli sconvolgimenti nella droga erapporti creativi o distruttivi. La perso-na che sono oggi, il lavoro che faccio, ilteatro in cui mi rifletto, sono frutti an-che di quel viaggio. Ha un senso, per-ciò, dire a tutti che ho una malattia im-pronunciabile e dannata come l’Aids.Non m’interessa scioccare tanto perscioccare, ma penso che sia inevitabi-le confrontarsi con le zone più scure epericolose di sé. Me ne infischio delloscandalo fine a se stesso, ma se nelloscandalo c’è una verità ben venga. Mipare necessario spogliarsi dalle bugieche riempiono la nostra vita e sma-scherare finzioni politiche e teatrali».

Un atto politico è anche il cinema diDelbono, cineasta sui generis, incensa-to spesso da premi e accolto in festivaldi rilievo come quello di Locarno nel2009. Il suo film più noto è La paura, gi-rato interamente con un cellulare: sfidaper dimostrare la possibilità di realizza-re, a un costo irrisorio, un’opera pergrandi schermi e grandi platee. Emer-ge, in quest’affresco sul razzismo, le tra-gedie dell’immigrazione, le perversionidel consumismo e la pervasività dellapseudo-cultura televisiva, la potenza«della paura che invade e impregna tut-to, nel nostro tempo», afferma Delbo-no. «Paura dell’altro, paura della crisieconomica, paura di perdere una situa-zione di comando o di controllo. Pauradi amare e timore della propria fragilità.

Paura di essere liberi e di pensare con lapropria testa».

Anche il suo film più recente, Amoree carne, è stato girato con un cellulare,«e narra soprattutto incontri e amori:Bobò, Pina Bausch, mia madre… Èmorta qualche settimana fa: è stata lei lapersona più importante della mia vita.Mi ha lasciato addosso una gran vogliadi creare uno spettacolo morbido, feli-ce, affettivo, che sia fonte di gioia. Perora ho in mente solo il titolo: Orchidee.Il debutto è fissato per il prossimo mag-gio». Delbono insiste nel segnalare chela sua malattia è stata «una bellissimaoccasione per guardare più lucida-mente il mondo. La nostra è una societàche nasconde ogni forma di morte: laocculta, la considera motivo di vergo-gna, la vede sempre e solo come perdi-ta. Una cattiva religione te la fa conside-rare solo come un vuoto o come laproiezione in qualcosa di esterno che sichiama paradiso o inferno, che invecestanno dentro la vita, qui e ora».

Ma il suo parlare della morte è sem-pre allegro e vitale. A dispetto della suacarica di anatemi e di furori, Pippo è unuomo caldo, esuberante e ottimista,che sa godere a fondo delle proprie gior-nate e che ha un genuino senso dell’u-morismo: «Quando la sovrintendentedel San Carlo Rosanna Purchia m’in-vitò a discutere il progetto di Cavalleriarusticana, io non ricordavo affatto latrama dell’opera. Mi sono nascosto inbagno per leggerla su Internet, e mi so-no detto: niente male. Ora mi piace chequi in teatro chiunque mi chiami “mae-stro”. È un appellativo rituale e fa pen-sare all’Estremo Oriente. Ti perdi nei la-birinti del San Carlo, e tutti arrivano asalvarti e a guidarti. Sei un gran maestroe al tempo stesso sei un bambino daprendere per mano».

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L’incontroNon allineati

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Non mi interessascioccare tantoper scioccarené fare scandaloMa se nello scandaloc’è una verità,ben venga

Pippo Delbono

LEONETTA BENTIVOGLIO

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