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La Regione Sardegna tra cambiamento istituzionale e realtà politica Carlo Pala e Ilenia Ruggiu 1 in F. Palermo, S. Parolari (a cura di), Il futuro della specialità regionale alla luce della riforma costituzionale , Editoriale scientifica, Collana Ius Publicum Europaeum 1. La Sardegna tra la fine dell’Autonomia e la difesa della specialità? Ciò che pare caratterizzare la Sardegna dall’inizio del XXI secolo ad oggi è la critica dell’esperienza autonomistica e il futuro assetto istituzionale da trovare in relazione alle motivazioni della specialità. Il primo aspetto va osservato in una duplice prospettiva, al contempo storico-politica e istituzionale. La parola “Autonomia” assume nell’isola un significato che probabilmente non si trova nelle altre specialità italiane. I primi vagiti in tal senso, al di là di periodi antecedenti, possono essere fatti risalire al periodo post-unitario con l’affermazione dell’idea autonomista; idea ripresa dal Partito Sardo d’Azione che nel 1921, con la sua nascita, introdusse ufficialmente in Italia tale termine. Dall’Unità d’Italia il dibattito politico e istituzionale sardo ha avuto nel concetto di autonomia (spesso contrapposto a quello di federalismo o di indipendenza) un proprio pilastro. Dal punto di vista istituzionale, l’Autonomia ha coinciso soprattutto con l’elaborazione dello Statuto speciale del 1948, almeno formalmente. In effetti, è stato più un sistema di check and balances che spesso ha visto contrapporsi la Regione con lo Stato centrale. L’idea di uno Statuto «limitato» (specialmente in relazione ai poteri attributi ad altre Regioni speciali), come vedremo, appare una costante nell’analisi della specialità sarda. Infatti, ancora oggi, non sono applicate alcune parti del dettato statutario in conseguenza, soprattutto ma non solo, di contrasti interpretativi con lo Stato. Dunque, l’esperienza autonomistica si basa su un intreccio di aspetti politici e di reali assetti istituzionali che 1 Il presente lavoro è frutto di un impegno e di un’elaborazione comune. Nello specifico, I. Ruggiu ha redatto i parr. 3, 4, 7, 9 e 10; C. Pala i parr. 1, 2, 5, 6 e 8. 1

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La Regione Sardegna tra cambiamento istituzionale e realtà politica

Carlo Pala e Ilenia Ruggiu1

in F. Palermo, S. Parolari (a cura di), Il futuro della specialità regionale alla luce della riforma costituzionale , Editoriale scientifica, Collana Ius Publicum Europaeum

1. La Sardegna tra la fine dell’Autonomia e la difesa della specialità?

Ciò che pare caratterizzare la Sardegna dall’inizio del XXI secolo ad oggi è la critica dell’esperienza autonomistica e il futuro assetto istituzionale da trovare in relazione alle motivazioni della specialità. Il primo aspetto va osservato in una duplice prospettiva, al contempo storico-politica e istituzionale. La parola “Autonomia” assume nell’isola un significato che probabilmente non si trova nelle altre specialità italiane. I primi vagiti in tal senso, al di là di periodi antecedenti, possono essere fatti risalire al periodo post-unitario con l’affermazione dell’idea autonomista; idea ripresa dal Partito Sardo d’Azione che nel 1921, con la sua nascita, introdusse ufficialmente in Italia tale termine. Dall’Unità d’Italia il dibattito politico e istituzionale sardo ha avuto nel concetto di autonomia (spesso contrapposto a quello di federalismo o di indipendenza) un proprio pilastro. Dal punto di vista istituzionale, l’Autonomia ha coinciso soprattutto con l’elaborazione dello Statuto speciale del 1948, almeno formalmente. In effetti, è stato più un sistema di check and balances che spesso ha visto contrapporsi la Regione con lo Stato centrale. L’idea di uno Statuto «limitato» (specialmente in relazione ai poteri attributi ad altre Regioni speciali), come vedremo, appare una costante nell’analisi della specialità sarda. Infatti, ancora oggi, non sono applicate alcune parti del dettato statutario in conseguenza, soprattutto ma non solo, di contrasti interpretativi con lo Stato. Dunque, l’esperienza autonomistica si basa su un intreccio di aspetti politici e di reali assetti istituzionali che non possono essere disgiunti se si voglia comprendere al meglio il caso sardo.

Dopo la Legge Statutaria, approvata sotto la Giunta Soru2 (l. 10 luglio 2008, n. 1, Legge statutaria della Regione Autonoma della Sardegna) la cui promulgazione è stata annullata dalla Corte cost. con la sent. 149/2009 in sede di conflitto di attribuzione tra poteri dello stato, non si sono avuti altri tentativi di reinterpretazione dello Statuto vero e proprio, eccetto la legge regionale statutaria 12 novembre 2013, n. 1, Legge statutaria elettorale ai sensi dell'articolo 15 dello Statuto speciale per la Sardegna, detta impropriamente statutaria in quanto mera «legge» elettorale. L’autonomia e la specialità isolane restano, dunque, sospese tra la necessità di aprire un 1 Il presente lavoro è frutto di un impegno e di un’elaborazione comune. Nello specifico, I. Ruggiu ha redatto i parr. 3, 4, 7, 9 e 10; C. Pala i parr. 1, 2, 5, 6 e 8.2 La legge statutaria era stata approvata il 7 marzo 2007, a maggioranza assoluta, ma inferiore ai due terzi dei componenti il Consiglio regionale ai sensi dell'articolo 15, secondo comma, dello Statuto speciale. Era stata quindi sottoposta a referendum e promulgata l’anno successivo dal Presidente, ma poi bloccata come vedremo dalla Corte cost.

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grande dibattito tra la società civile e la politica sarda al fine di riscrivere lo Statuto e la volontà di superare tout court lo stesso, con l’ulteriore crescita ultimamente delle ipotesi indipendentiste e di quelle federaliste (che presupporrebbero, queste ultime, non solo una riscrittura totale dello Statuto, ma anche della stessa Costituzione italiana). In realtà, la vera sfida pare essere più quella del mantenimento delle specialità italiane (o almeno, di parte di esse) all’interno di una volontà, trasversale agli orientamenti politici, tendente al neocentralismo politico e istituzionale. La Sardegna non fa eccezione e, in effetti, le richieste di riprendere l’argomento “a difesa” della specialità (o meglio, delle cosiddette ragioni della specialità) paiono timidamente tornare d’attualità, più che altro in risposta ai vari attacchi a cui la medesima è sottoposta. Paradossalmente, ma non troppo, fautori dello stesso superamento della specialità sono i difensori più oltranzisti dell’autodeterminazione sarda, ovvero gli indipendentisti. Per i quali, e qui ne discende l’evidenza, ovviamente è incompatibile la presenza di uno Statuto che a loro dire negherebbe l’essenza stessa del popolo sardo. L’aspetto, forse pre-istituzionale e comunque certamente politico, più interessante è che non solo i cosiddetti partiti etnoregionalisti sardi, ma anche le forze operanti nell’isola espressione di partiti presenti a Roma esprimono la necessità di adeguare al Nuovo secolo uno statuto sostanzialmente fermo al 1948. Tale convergenza ripropone un bisogno, che è giuridico laddove prima è sociale e politico, di ritrovare le ragioni di quella specialità a fondamento dell’Autonomia sarda (molte delle quali, è bene anticiparlo, non sono neppure citate in Statuto).

Il compito di questo capitolo, richiamandone il titolo, diviene dunque quello di descrivere tale situazione di sospensione della realtà sarda tra esigenze politiche e cambiamento istituzionale con lo sfondo di una nuova ripresa, ancorché confusa, dell’ipotesi di mutazione totale della polity, ovvero dell’indipendenza dell’isola. Dall’analisi del sistema politico e partitico alle particolarità dello Statuto, passando per un esame delle principali policies, arriveremo alla definizione delle proposte di revisione statutaria e della, eventuale, partecipazione diretta dei cittadini sardi in questo progetto. Tenendo sempre ben presente il fatto che la società sarda risponde alle sollecitazioni sui temi della propria specialità ad ondate cicliche, nel fenomeno senz’altro esistente per la Sardegna che le scienze politiche e sociali chiamerebbero cleavage centro-periferia.

2. Il sistema politico e partitico e la forma di governo in Sardegna

Seguendo la definizione più in uso, il sistema politico è un insieme di interazioni in cui diversi attori e istituzioni entrano in contatto al fine di definire l’allocazione del potere e compiere le scelte in una determinata società3. In tale sistema, dunque, non assumono importanza solo le istituzioni politico-amministrative (prevalentemente, nel senso comune, quelle statali), ma un insieme di altri attori che definiscono gli spazi all’interno del sistema. Per quanto sia più complicato da immaginare, la spiegazione precedente può

3 D. EASTON, The Political System. An Inquiry into the State of Political Science, New York 1953.

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essere estesa senza dubbio a governance inferiori al livello centrale. Anche in Italia possiamo parlare di sistema politico in ambito regionale, tanto più in sistemi giuridici, come quelli delle regioni speciali, in cui i poteri attribuiti aumentano. La Sardegna non fa eccezione: delineare i tratti essenziali del suo sistema politico equivale a comprendere meglio la propria specialità e di conseguenza il futuro della stessa4. Ad un primo sguardo, gli aspetti essenziali del sistema politico sardo non mutano considerevolmente da quello italiano in senso stretto; eppure, vi sono comunque degli elementi che verranno qui anticipati e altri che saranno trattati in seguito (come ad esempio gli istituti di democrazia diretta e i processi partecipati dai cittadini) che contribuiscono a caratterizzare la specialità isolana.

Da un’analisi, anche superficiale, dello Statuto sardo, emerge per esempio che una dimensione essenziale del sistema politico in questione è legata ad un ambito di tipo economico. Quello cioè che da più parti è indicato come debolezza perché non sostenuto nella carta fondamentale isolana da altri aspetti (per esempio, gli elementi di carattere culturale e identitario che contribuiscono a definire la specialità sarda), si pone invece alla base dell’attribuzione stessa dei poteri speciali. Forse in nessun’altra regione speciale come la Sardegna lo Statuto, pur più volte disatteso, pone in evidenza il “bisogno” economico per l’isola presente in quasi tutto il Titolo III. Il complesso sistema di funzioni che potrebbe –usando non a caso il condizionale – scaturire dall’applicazione di alcuni articoli del detto Titolo (come in special modo e a titolo d’esempio, il nono, sull’accertamento e riscossione dei tributi, e il dodicesimo, sull’istituzione dei punti franchi in Sardegna) sarebbe una dimostrazione di quanto testé affermato. Un esempio storico, pur con tutti i limiti osservati, è quello sul cosiddetto Piano di Rinascita, costituito in risposta all’art. 13, vero e proprio punto dirimente della specialità sarda. Le condizioni economiche precarie dell’isola al momento dell’istituzione del regime di autonomia hanno spinto i vari legislatori dell’epoca a prevedere l’adozione «di un piano organico per favorire la rinascita economica e sociale dell’isola», attuato solo nel 1962 per la prima volta. In quel frangente il mondo dell’economia (molto più spesso d’oltre Tirreno che autoctono) ha suggellato un rapporto talmente stretto con la politica e le istituzioni, tale da compenetrarsi totalmente nel sistema politico isolano. E ad oggi si osservano ancora le conseguenze: buona parte di tutte le vertenze industriali, ed economiche in generale, dell’isola si affrontano con una partecipazione diretta o indiretta nel mondo politico. Ciò significa che gli attori economici (dagli industriali ai sindacati, e così via) non svolgono solo la loro opera di lobbying come farebbero in qualsiasi contesto territoriale; ma essi stessi si compenetrano nel sistema politico sardo, interagendo con esso in maniera strutturale.

La Pubblica amministrazione, al contrario, ha sempre costituito una sorta di tallone d’Achille del sistema politico isolano. I suoi problemi, mai risolti pur potendo la Regione legiferare nel merito, risalgono addirittura all’adozione dell’Autonomia. Il modello burocratico-weberiano, gerarchico, per assessorati e direzioni generali, ha replicato quanto già esisteva nei Ministeri a Roma, non 4 G. DEMURO, Legge statutaria e politiche istituzionali, in, Osservatorio sulla legislazione della Regione Sardegna. XIIII legislatura (2004-2009) e XIV legislatura (triennio 2009-2011), a cura di G. COINU e A. DEFFENU, Cagliari 2012, p. 32.

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provvedendo a una diversificazione della propria organizzazione resa maggiormente funzionale alla realtà sarda. Il personale risponde dunque a logiche che sono a volte molto distanti dal funzionamento della macchina regionale, ma piuttosto a regole e norme emanate da Roma. I dipendenti, assunti al momento dell’approvazione dello Statuto autonomo, erano impreparati, abituati – quei pochi che già lavoravano per le pubbliche amministrazioni del precedente regime fascista – a gestire comandi provenienti da Roma; dunque totalmente inesperti, al di là del titolo di studio di accesso (comunque sempre alquanto basso), a gestire una serie di poteri attribuiti ex novo alla Regione. Tale situazione ha riverberato i suoi effetti per diversi decenni successivi; praticamente fino alla fine degli anni ’80, l’amministrazione regionale era costituita in buona parte dalle stesse persone, dalla stessa filosofia organizzativa e dagli stessi valori che l’avevano caratterizzata all’atto della propria formazione. Questo significa che la burocrazia ha gestito fasi dirimenti per la Sardegna, come il già citato Piano di Rinascita, non avendo a disposizione i poteri (amministrativi) decentrati necessari per farlo, rispondendo quasi esclusivamente agli input derivanti da Roma. Oggi, malgrado i tentativi di «svecchiamento» della pubblica amministrazione, assistiamo a un perdurare del medesimo impianto organizzativo. L’organizzazione per Dipartimenti, tentata a metà degli anni ’90, non ha avuto successo, ad eccezione del caso dell’ARPAS (l’agenzia per l’ambiente sarda); la pubblica amministrazione isolana è fondamentalmente ancora costituita dalle direzioni generali e dal modello presente a livello centrale nei cosiddetti “Ministeri d’ordine” (Interno, Difesa, ecc.), fortemente gerarchico e subordinato ai poteri e prerogative delle sfere superiori.

A tutto questo discorso e prima di passare all’analisi della forma di governo e al decentramento interno, è importante legare la disamina del sistema partitico. Pur non raggiungendo evidentemente le peculiarità dei casi altoatesino e valdostano, il caso sardo evidenzia una presenza di un cleavage centro-periferia molto pronunciato, anche nei casi più radicali di volontà di cambiamento di polity (ossia, l’indipendenza), senza che questo paradossalmente abbia comportato una mutazione dello stesso sistema partitico. La formazione del Partito Sardo d’Azione (PSdAZ) nel 1921 faceva presagire un monopolio politico, visibile anche dai primissimi risultati elettorali, di quella formazione, in grado di ergersi a vero e proprio partito di massa nell’isola. L’esperienza del fascismo ne ha come ridimensionato la forza, finendo per rafforzare i partiti espressione del centro politico e ponendo l’isola come una delle regioni in cui era possibile osservare la replica del sistema partitico italiano. Il PSdAZ, per tutta una serie di vicende, non è riuscito a svolgere un ruolo «pivotale» nel sistema sardo, ben lungi da quanto avverrà in Alto Adige per la SVP e in Valle d’Aosta per l’UV. Dal 1948 fino alla fine degli anni ’70 il PSdAZ svolge un ruolo ancillare nei confronti della DC costituendo con essa, pur con alterne vicende e fortune, alleanze in un sistema che, a parte il PSI, era identico a quello presente a Roma. Per tutta una serie di trasformazioni socioeconomiche e politiche intervenute soprattutto negli anni ’80, l’identità stessa del PSdAZ andrà a modificarsi: l’ideale indipendentista e di recupero della propria identità isolana – sempre molto forte e superiore a quella italiana – finisce per un breve periodo nel politicizzarsi e produrre le proprie conseguenze a livello politico. Il Partito

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Sardo d’Azione, alleandosi con il PCI e inserendo ufficialmente nel suo statuto interno la finalità indipendentista dal 1981 mai più eliminata, riuscirà ad ottenere percentuali impensabili anche solo un decennio prima, sfiorando rispettivamente il 14% e il 13% nel 1984 e 1989. Quell’epoca, definita vento sardista, veniva in effetti accompagnata da un’affermazione di forze politiche indipendentiste. Da quel momento in poi la critica per l’esperienza autonomistica e per il ruolo del PSdAZ negli anni ’50 e ’60 si è fatta più strutturale, ciò che ha permesso di sviluppare teorie indipendentiste mai sopite del tutto e anzi recuperate proprio a partire dal XXI secolo. Con il passaggio alla cosiddetta Seconda Repubblica anche la Sardegna si conforma alla presenza di due poli e di un sistema politico ad essi adeguatosi. A partire dal 1994 tutte le elezioni regionali hanno visto una perfetta alternanza del centrosinistra (1994, 2004, 2014) e del centrodestra (1999, 2009) con il PSdAZ a volte alleato con gli uni o con gli altri e altre volte all’opposizione degli stessi in coalizione con altre forze politiche indipendentiste. Pertanto, recentemente è accaduto qualcosa di nuovo e di diverso: la nascita nel 2002 di iRS (indipendentzia – Repùbrica de Sardigna) sdogana l’ideale indipendentista con un linguaggio nuovo, con una teoria e prassi frutto dell’elaborazione di giovani intellettuali e con il coinvolgimento soprattutto delle allora nuove generazioni. iRS è riuscita ad ottenere consensi che l’hanno portata a sfiorare il 7% dei voti ma soprattutto ad affermare il principio indipendentista in Sardegna. Non solo, ma tutti i partiti etnoregionalisti si sono adeguati, per quanto spesso riottosamente, al linguaggio e alla modalità di fare politica di iRS. Lo stesso PSdAZ ne è stato toccato, perdendo diversi militanti confluiti poi in iRS. L’aspetto senza dubbio più importante è una sorta di effetto-contaminazione nel sistema partitico sardo. Ovvero, il successo e la presa nella società dell’ideale indipendentista ha contagiato i partiti espressione del centro, i quali hanno cominciato ad «inseguire» le forze regionaliste e indipendentiste nelle loro tematiche, spesso mutandone anche il linguaggio (come nel caso del sovranismo). Pur con tutte le scissioni e la formazione di nuove sigle politiche, il sistema partitico sardo può essere sintetizzato, per lo meno per la prima metà della seconda decade del XXI secolo, da una crisi alternativa delle forze politiche centrali le quali, sebbene mantengano ancora la guida tra le forze politiche preferite dai sardi, devono contrastare una disaffezione al voto come mai in passato l’isola ha vissuto5 e l’emergere delle forze regionaliste, sovraniste ed indipendentiste. La conseguenza di tale situazione, assieme ad una nuova affermazione dell’identità sarda declinata però anche in chiave politica, ha portato alle Regionali del 2014 all’ingresso per la prima volta di nove consiglieri regionali definibili indipendentisti; in più, alla presenza di una coalizione, guidata dalla scrittrice Michela Murgia, di chiara matrice indipendentista (perché promossa da un partito scissosi da iRS, ProgReS) e identitaria, fermatasi al 10,3% (ma non rappresentata in Consiglio per le disposizioni previste nella legge elettorale sarda). Tuttavia, questo risultato, sommato alle altre liste non alleate e a quelle di partiti indipendentisti e sovranisti in coalizione con centrosinistra o centrodestra,

5 La Sardegna, nella «mappa» del voto italiano, ha sempre costituito un caso deviante, non assimilabile né al sud e né al centro. I tassi di partecipazione elettorale hanno sempre registrato valori superiori anche a talune regioni del centro, così come l’alternanza politica e il ricorso, ad esempio, al voto di preferenza, decisamente minore che in altre regioni meridionali.

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porta l’insieme dei partiti etnoregionalisti sardi a circa il 25%. Ovviamente, i dati non possono essere letti come semplici somme, ma questo è sintomatico del fatto che il sistema partitico sardo sia in evoluzione.

Dal 2004, la Sardegna, non provvedendo a dotarsi di una propria legge elettorale e di altre norme in merito, vede modificare la sua forma di governo similmente a quella presente nelle altre regioni ordinarie. L’elezione diretta del Presidente della Giunta, le soglie della rappresentanza consiliare, il rapporto con le istituzioni locali, la relazione tra Consiglio, Giunta e Presidente, sono tutti aspetti tra i più significativi della mutazione della forma di governo isolana. Similmente a quanto avviene in altri contesti, in Sardegna è presente il principio del simul stabunt simul cadent così come previsto dalla l. cost. 1/1999: dunque il Presidente della Giunta (definito in seguito solo come Presidente della Regione), diversamente da prima, cessando per qualsiasi motivo dalle sue funzioni, provoca lo scioglimento del Consiglio e le dimissioni della Giunta medesima (art. 35 St. Sar.). In Sardegna tale procedura è stata applicata da Renato Soru, il quale, dimettendosi a dicembre del 2008, ha ottenuto le elezioni anticipate di qualche mese rispetto alla scadenza primaverile, nel febbraio del 2009. Certamente la forma di governo regionale sarda è parlamentare, se per questo s’intende il rapporto tra la Giunta e il Consiglio tramite il voto di fiducia (art. 37 St. Sar). La presenza di un voto di sfiducia con conseguente scioglimento del Consiglio regionale sardo produce una forte razionalizzazione al principio parlamentare ricordato, in quanto il Consiglio medesimo decade nel caso di voto positivo alla sfiducia. Nel’isola assistiamo piuttosto a un modello che, anche dopo le intenzioni della legge Statutaria del 2007 voluta da Soru e poi respinta, tende a rafforzare i poteri del Consiglio verso la Giunta, quasi in un’operazione di «moderazione» dell’elezione diretta del Presidente di regione. Infatti, il capo della Giunta illustra, in una sorta di relazione di metà mandato, lo stato dell’arte del suo programma e di quello della maggioranza. Il Consiglio discute nel merito pur non essendo obbligato a deliberare; ma, dal punto di vista politico, questa è l’occasione per una verifica politica dopo la quale, nel recente passato, sia il centrosinistra che il centrodestra hanno rivisto parte del programma e mutato gli assetti interni in Giunta, in funzione di un riequilibrio tra le varie forze partitiche. Inoltre, il lasso di tempo che intercorre tra la presentazione di eventuali dimissioni del Presidente (per propria scelta o per scelta del Consiglio) e discussione e votazione (non prima di 20 giorni dalla presentazione della mozione e non oltre i trenta la votazione) della mozione dà ampio spazio alle segreterie di partito per intervenire e provare a ricucire lo strappo tra i due organi. Piuttosto, nello St. Sar. non è chiaramente esplicitata la modalità di nomina/elezione della Giunta e dei suoi componenti assessori. L’art. 38 St. Sar. presuppone che i membri della Giunta possano assistere alle sedute del Consiglio pur non facendone parte; tale disposizione prevede una presenza di membri esterni al Consiglio. Sebbene non un obbligo, vi è poi la prassi di prevedere la presenza come assessori di esterni all’assemblea sarda. A parte questo, mancano nell’intero tit. IV St. Sar., dedicato agli organi della Regione, articoli sui poteri e le attribuzioni specifiche di Giunta e assessori. Anche per tale ragione si discute sulla riscrittura dello Statuto autonomo, proprio perché manchevole in diverse sue essenziali parti, ritenendo la

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giurisprudenza più diffusa che in mancanza di disposizioni specifiche, valgano i pronunciamenti delle sentenze della Corte cost.

Infine, appare utile richiamare la situazione degli enti locali in Sardegna. Spesso, in una regione fortemente caratterizzata per il proprio senso di autonomia, si auspica da più parti che la stessa autonomia che Cagliari esige da Roma sia speculare a quella che gli enti locali debbano esigere da Cagliari. Infatti, tutte le modifiche sullo statuto sardo di autonomia e sulla forma di governo considerano che un passaggio fondamentale debba e possa essere quello della piena autonomia nella scelta del rapporto Regione/enti Locali6. Tuttavia, solo di rado la Regione ha provveduto a istituire un proprio sistema di enti locali, preferendo al contrario replicare il sistema di governance previsto a livello centrale. Così, la Sardegna ha replicato via via nel tempo il sistema provinciale, per breve tempo quello comprensoriale, per qualche decennio il sistema delle Comunità montane e solo di recente pare aver accolto il modello dell’Unione dei Comuni (e per la prima volta della Città Metropolitana di Cagliari). Il governo degli enti locali nell’isola pare attraversare ultimamente un momento di profondo rinnovamento che non soddisfa, in maniera trasversale, tutte le forze politiche rappresentate in Consiglio e tantomeno i territori. Con la l. reg. 9/2001 la Regione Sardegna ha provveduto alla creazione di quattro province (Olbia-Tempio, Ogliastra, Medio Campidano, Carbonia-Iglesias) a fianco delle quattro precedenti province “storiche” (Cagliari, Sassari, Nuoro, Oristano). Quel momento è l’inizio di una profonda discussione nell’isola sull’opportunità, o meno, di istituire nuovi enti locali, peraltro non riconosciuti dallo stato, e di riflettere sulla possibilità di decidere in maniera autonoma sull’organizzazione interna dei propri enti locali. Le nuove province hanno conosciuto appena due tornate elettorali (2005 e 2010) perché poi, con il referendum del maggio 2012, i sardi si sono espressi per l’abrogazione delle quattro province di nuova istituzione (e in un quesito referendario i sardi hanno espresso la volontà di cancellare anche le vecchie province, quesito peraltro consultivo). Il superamento (il 35,5%) del quorum previsto per la validità della consultazione (il 33,3%) è il viatico al cambiamento generale del sistema degli enti locali in Sardegna. La scadenza naturale del 2015 non ha visto alcun rinnovo dei Consigli provinciali perché, a fianco dei quattro enti abrogati, anche i precedenti enti sono stati “bloccati” da una normativa che prevedeva il riordino degli enti locali in risposta alla legge 7 aprile 2014, n. 56, Disposizioni sulle città metropolitane, sulle province, sulle unioni e fusioni di comuni (nota come Legge Delrio) e alle precedenti disposizioni del governo Monti. La maggioranza di centrosinistra guidata da Francesco Pigliaru approva la l. reg. 27 gennaio 2016, n. 176, Riordino del sistema delle autonomie locali della Sardegna che ridisegna il sistema degli enti locali in Sardegna7. Tale disposizione prevede l’istituzione 6 Al riguardo, cfr. A. DEFFENU, La forma di governo della Regione Sardegna, in L’autonomia positiva. Proposte per un nuovo Statuto della Sardegna, a cura di G. DEMURO, Cagliari 2007; A. DEFFENU, Come rafforzare l’autonomia regionale nella scelta di governo. Alcune proposte di modifica dello Statuto, in La riforma della regione Speciale: dalla legge Statutaria al nuovo Statuto Speciale, a cura di O. CHESSA e P. PINNA. Torino 2008.7 Occorre sottolineare che l’iter di questa legge, sia prima della sua approvazione che dopo e anche mentre si licenzia questo scritto, è stato alquanto travagliato. A parte un aspro confronto in Consiglio regionale tra maggioranza ed opposizione, infatti, sono i territori ad essersi opposti a un sistema ritenuto lesivo degli interessi di diverse zone della Sardegna. Il vero nodo del contendere è stata l’attivazione della Città metropolitana di Cagliari, la quale

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della Città metropolitana di Cagliari (formata da 17 comuni), l’approvazione del sistema delle Unioni dei Comuni (con minimo di 10.000 abitanti e almeno quattro comuni, coincidenti con le cosiddette “regioni storiche” della Sardegna), la cancellazione delle nuove province (e delle precedenti, ma non prima dell’entrata in vigore del referendum sulla riforma costituzionale previsto per l’ottobre del 2016) e l’adozione della Rete metropolitana di Sassari e hinterland, l’istituzione delle cosiddette Città medie con più di 30.000 abitanti e collocate in zone definite strategiche (quindi Nuoro, Oristano, Olbia; Carbonia e Iglesias solo se unite) che possono divenire Reti Urbane laddove vi sia una Unione dei Comuni con almeno una città metropolitana. Dunque, la cancellazione delle province per le Unioni dei Comuni, una Città metropolitana e una serie di reti urbane per rafforzare il ruolo dei capoluoghi storici dell’isola. È ancora troppo presto per fornire una valutazione empirica della riforma (l’entrata in vigore della norma è prevista per l’inizio giugno 2016); certo è che in Sardegna molti territori sono convinti che si tratti di un rafforzamento di un’area già più forte (Cagliari e comuni limitrofi), parzialmente di un’altra che contiene la seconda città dell’isola (Sassari), ma a detrimento di tutte le altre - Nuorese e Gallura, in testa - che, per motivi diversi, ritengono di uscirne danneggiate.

3. Tutela giuridica delle minoranze linguistiche

A differenza di altre regioni speciali, dove la diversità linguistica è riconosciuta nello Statuto, in quello sardo non si menziona alcuna peculiarità linguistica della Sardegna né tra le competenze, né altrove. Potrebbe destare stupore il fatto che la norma fondativa dell’autonomia non contenga alcun riferimento a quella che pure da molti sardi è ancora oggi percepita come una delle principali “ragioni” della specialità: la lingua neo-latina più conservativa, ricca di un sostrato pre-latino nuragico, studiata a livello internazionale e riconosciuta di pregio linguistico, e sicuramente nel 1948 tutt’altro che minoritaria (dove semmai ad esserlo era di gran lunga l’italiano), bensì ancora usata come lingua veicolare in tutta l’isola. L’assenza della lingua sarda dallo Statuto si spiega con il fatto che la matrice storica della specialità fu principalmente la condizione di arretratezza economica dell’Isola. Specialità significava, essenzialmente nel 1948, Piano di Rinascita8, ossia investimenti, come abbiamo visto, soprattutto nel campo dell’industria, mirati a portare fuori la Sardegna dal sotto-sviluppo e a proiettarla nella modernità come allora concepita. Dato tale contesto, la lingua sarda sarà oggetto di attenzione soltanto successivamente da parte della stessa Regione Autonoma e in via legislativa.

Si deve attendere il 1997 per avere una prima legge che organicamente disciplina la materia. Si tratta della l. reg. 15 ottobre 1997, n. 26 “Promozione e valorizzazione della cultura e della lingua della Sardegna”. L’art. 2 c. 1 le avrebbe finito per attirare – e questo ciò che viene ribadito dai suoi oppositori – buona parte delle risorse provenienti dall’Europa, lasciando di fatto fuori i territori che ne avrebbero più bisogno. Sassari, in primis, ma anche altri territori come la Barbagia tutta, la Gallura, l’Ogliastra e l’Oristanese si sono dichiarati contrari. 8 Si veda l’art. 13 dello Statuto: “Lo Stato col concorso della Regione dispone un piano organico per favorire la rinascita economica e sociale dell'Isola”.

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riconosce «pari dignità rispetto alla lingua italiana». Nonostante l’assenza di una precisa base statutaria, tale legge connette la questione linguistica alla specialità inaugurando una stagione, tuttora in corso, in cui specialità e lingua sono percepite come inscindibili. L’art. 2 c. 3 recita: «la Regione considera la cultura della Sardegna, la lingua sarda e la valorizzazione delle sue articolazioni e persistenze, come caratteri e strumenti necessari per l’esercizio delle proprie competenze statutarie in materia di beni culturali - quali musei, biblioteche, antichità e belle arti - di pubblici spettacoli, ordinamento degli studi, architettura e urbanistica, nonché di tutte le altre attribuzioni proprie o delegate che attengono alla piena realizzazione dell’autonomia della Sardegna». La l. reg. 26/1997 configura la situazione linguistica come monolingue (è protetta la lingua sarda) con però riconoscimento di altre lingue (rispetto al sardo) presenti sul territorio, quali il catalano o il tabarchino/genovese. E’ interessante, peraltro, che tali lingue non vengano poste in una situazione di minorità rispetto al sardo, ma siano egualmente riconosciute9.

Se la l. reg. 26/1997 ancor oggi rappresenta un punto di riferimento, va rilevato che un forte impulso alla tutela del sardo si è avuto con la l. 15 dicembre 1999, n. 482, “Norme in materia di tutela delle minoranze linguistiche storiche”. Tale legge, che dà attuazione all’art. 6 della Costituzione italiana, alla Carta europea delle lingue regionali o minoritarie del 1992 e alla Convenzione-quadro per la protezione delle minoranze nazionali del 1995 riconosce e protegge il sardo tra le 12 minoranze linguistiche nazionali. Tale legge, da un punto di vista regionalista, rischiava di «nazionalizzare» il sistema di protezione della lingua, in quanto consentiva soprattutto alle scuole di accedere direttamente a progetti di valorizzazione linguistica negoziati con lo Stato. Per restituire un ruolo di coordinamento alla Regione, nel dicembre 2015, dopo svariati anni (anche di non finanziamento del fondo governativo sulle minoranze linguistiche), è stata approvata la norma di attuazione che conferisce alla Regione un ruolo di coordinamento nelle politiche linguistiche effettuate a livello scolastico.

Se questo è il dato normativo, va segnalato che rispetto al passato il contesto socio-culturale sardo è cambiato, con una nuova sollecitazione verso rinnovate politiche linguistiche. Un’indagine sociolinguistica commissionata dalla Regione Sardegna e culminata nel rapporto finale, “Le Lingue dei Sardi”, condotta dalla Facoltà di Scienze politiche dell’Università di Cagliari e dalla Facoltà di Lettere dell’Università di Sassari10 fa emergere la scomparsa del senso di vergogna e di stigma che dal 1960 al 1990 ha sicuramente

9L’art. 2 c. 4, infatti, recita: «La medesima valenza attribuita alla cultura ed alla lingua sarda è riconosciuta con riferimento al territorio interessato, alla cultura ed alla lingua catalana di Alghero, al tabarchino delle isole del Sulcis, al dialetto sassarese e a quello gallurese». La l. reg. 26/1997 istituisce anche l’Osservatorio regionale per la cultura e la lingua sarda.

10 Le lingue dei sardi. Una ricerca sociolinguistica, a cura di A. Oppo, Rapporto finale della Ricerca sulla lingua sarda, Regione Autonoma della Sardegna, Università di Cagliari e Sassari 2007, in https://www.regione.sardegna.it/documenti/1_4_20070510134456.pdf

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accompagnato i parlanti sardo. Nella fase di modernizzazione e di “Rinascita” industriale vissuta dall’isola, infatti, l’italiano era divenuto lo strumento dell’emancipazione con conseguente interruzione della trasmissione intergenerazionale del sardo. Nella citata indagine del 2007, viceversa, è emerso che gli intervistati dichiaravano di conoscere il sardo, professando una competenza linguistica superiore a quella forse effettivamente posseduta. La conoscenza del sardo si atteggia, pertanto, attualmente quale elemento di prestigio e ricchezza culturale.

Contestualmente a tale mutamento che sicuramente valorizza il sardo e legittima le nuove politiche rivolte alla sua diffusione tra le pubbliche amministrazioni (es. numerosi corsi di lingua sarda) o nelle scuole, va però segnalato che, contrariamente a quanto spesso presentato nel dibattito pubblico regionale, “la lingua” non è l’unico o il principale elemento che sorregge la specialità sarda. In base ad un’indagine statistica condotta dalle Università di Cagliari e di Edimburgo nel 2012 allo scopo di accertare quali fossero le presenti ragioni della specialità11, è emerso che i sardi costruiscono il loro senso di specialità sui seguenti elementi: nell’ordine al territorio, alla cultura, alla storia, alla lingua, alle personalità importanti che hanno dato lustro all’isola (sono stati portati quale esempio Antonio Gramsci, Grazia Deledda, Sebastiano Satta, Gianfranco Zola), alla cucina, e, ultimo, con un forte distacco dai precedenti, al fatto di avere istituzioni politiche proprie. Su tale ultimo punto si tornerà. Ai fini di questo paragrafo, va rilevato che, a differenza della specialità della Catalogna dove la lingua gioca sicuramente il ruolo predominante, la specialità sarda è più plurale e composita e non fa della lingua il suo unico perno. Sicuramente, pertanto, la lingua meriterebbe una menzione nello Statuto per rafforzare la possibilità di azione della regione, ma non come unico elemento della specialità.

4. Competenze

Le competenze della Regione Sardegna sono delineate negli artt. 3 (esclusive), 4 (concorrenti) e 5 (integrative-attuative) dello Statuto del 1948, nonché nelle disposizioni di maggior favore ricavabili dall’art. 10 della l. cost. 3/2001, la cosiddetta clausola di maggior favore del Titolo V del 2001. Com’è noto, questa clausola non ha operato in modo efficace, né per la Sardegna né per le altre regioni e, di fatto, sono state poche le materie effettivamente riconosciute alle regioni. Dal 2001 ad oggi sono state identificate per le regioni speciali le seguenti competenze di tipo residuale, sulla base dell’estensione della clausola di favore o di adeguamento automatico ex art. 10: lo “stato giuridico ed economico del personale” (sent. 274/2004); le “politiche sociali e l’edilizia residenziale pubblica” (sent. 118/2006); la “formazione professionale” (sent. 328/2006); la “disciplina dell’autonomia dell’organizzazione amministrativa” (sent. 159/2008); la “polizia amministrativa locale” (sent. 167/2010); la “utilizzazione delle acque pubbliche” (sent. 533/2002); la “agricoltura e commercio” (sent. 106/2006); la “organizzazione regionale” e la “industria e commercio” (sent. 326/2008). Ma

11 Identità e autonomia in Sardegna e Scozia, a cura di G. Demuro, F. Mola e I. Ruggiu, Bologna 2012.

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il numero di materie che la Corte cost. ha rifiutato di ricondurre all’art. 10 è di gran lunga maggiore12.

Quindi sotto il profilo della crescita della specialità può dirsi che il Titolo V poco ha aggiunto rispetto al quadro pregresso.

Questo dato trova riscontro a livello di produzione regionale. La Sardegna ha adottato soltanto quattro leggi in cui fa esplicito riferimento all’art. 10: la possibilità di contrarre mutui o prestiti per spese di investimento13; l’ordinamento degli enti locali14; l’indebitamento finanziario15; la valorizzazione dei beni culturali16, e il più delle volte ha usato tale articolo “ad adiuvandum” rispetto ad un’esistente competenza statutaria Anche quando si è trattato di difendere le proprie leggi di fronte alla Corte cost., la Regione 12 Sono state ritenute non riconducibili all’art. 10: la materia delle “case da gioco” ex art. 117 c. 4 (sent. 185/2004), la materia degli “appalti pubblici di servizi e forniture” ex 117 c. 4 (sent. 345/2004 il giudizio si è chiuso con rinuncia o cessazione del contendere); il “pubblico impiego” (sent. 390/2004, in questo giudizio la regione Valle d’Aosta aveva poi rinunciato); la “circolazione stradale” ex art. 117 c. 4 attribuita, viceversa, dalla Corte costituzionale alla competenza esclusiva dello Stato anche se non espressamente menzionata all’art. 117 c. 2, individuandone il fondamento nell’art. 120 (sent. 428/2004); l’“assistenza e beneficenza” che, invero, molte regioni speciali posseggono già per Statuto, ma che è stata rivendicata ex art. 117 c. 4 nell’inutile tentativo di far venire meno il regime dei limiti statutari (sent. 106/2005 in cui la Corte sussume l’ambito dentro l’ordinamento civile ex art. 117 c. 2 lett. m); l’“agricoltura” (sent. 285/2005) che le regioni hanno cercato di “sostituire” ai rispettivi titoli competenziali statutari, sempre con l’intento di evitare il regime dei limiti, ancora una volta senza risultato. O ancora il “diritto di accesso e diritto all’informazione dei privati” (sent. 399/2006) che è stato negato sulla base della sussistenza di una competenza statale fondata sull’art. 117 c. 2 lett. m), in tema di tutela del diritto di accesso del pubblico ai documenti amministrativi. Di nuovo l’“agricoltura” e il “turismo” (sent. 58/2007), la “caccia” (sent. 387/2008) compressa dall’esigenza di rispetto di standard minimi connessi alla tutela dell’ambiente, i “parchi naturali” (sent. 12/2009), negati per un giudizio di prevalenza sempre a favore dell’ambiente.13L.reg. Sardegna 29 aprile 2003, n. 3 Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale della Regione (legge finanziaria 2003), art. 1, c. 1.14L.reg. Sardegna 12 giugno 2006, n. 9 Conferimento di funzioni e compiti agli enti locali, art. 1. In tale disposizione, non è ben chiaro in riferimento a quali materie l’art. 10 sia evocato, ad ogni modo, a fondamento della legge è posta la materia “ordinamento degli enti locali” di origine statutaria.15L.reg. Sardegna 2 agosto 2006, n. 11 Norme in materia di programmazione, di bilancio e di contabilità della Regione autonoma della Sardegna. Abrogazione delle leggi regionali 7 luglio 1975, n. 27, 5 maggio 1983, n. 11 e 9 giugno 1999, n. 23, il cui art. 30 così recita: “Autorizzazione di finanziamenti e di prestiti obbligazionari 1. Ai sensi del comma 5 dell’articolo 5 e dell’articolo 10 della Legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3, l’autorizzazione e la contrazione di indebitamento finanziario della Regione a carico della stessa sono regolate dalle norme di cui al presente articolo ed all’articolo 31”. Anche in questo caso il richiamo dell’art. 10 è abbastanza generico e non si dettaglia la “nuova” materia che si starebbe attuando, lasciando intuire che ci troviamo di fronte all’espansione di materie già esistenti nel patrimonio competenziale della regione.16L.reg. Sardegna 20 settembre 2006, n. 14, Norme in materia di beni culturali, istituti e luoghi della cultura, il cui art. 4 così stabilisce: “Funzioni e compiti della Regione 1. La Regione esercita le funzioni di tutela e valorizzazione dei beni culturali ad essa attribuite dalla Costituzione, dalle intese ai sensi del comma 3 dell’articolo 118 della Costituzione, dall’articolo 10 della legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3, dallo Statuto speciale per la Sardegna e successive norme di attuazione, dal decreto legislativo n. 42 del 2004 e le funzioni di indirizzo, coordinamento, programmazione generale e valutazione in materia di beni, istituti e luoghi della cultura degli enti locali o ad essi affidati”. In questo caso, la nuova materia è individuata nella “tutela e valorizzazione dei beni culturali”, con l’ambiguità che in realtà il Titolo V attribuisce la tutela alla competenza esclusiva statale.

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Sardegna ha preferito usare, come parametro, norme statutarie o di attuazione piuttosto che l’incerto Titolo V.

L’art. 10 della l. cost. 3/2001 non ha trovato un efficace consolidamento neanche tramite le norme di attuazione. L’art. 1117 della l. 131/2003 contemplava la possibilità che le “nuove” materie spettanti alle regioni speciali in virtù dell’art. 10 della l. cost. 3/2001 sarebbero state sviluppate tramite tale strumento. Ma a partire dal 2001 la Sardegna ha adottato soltanto sette norme di attuazione e per quanto in esse menzioni genericamente l’art. 10, non è ben chiaro quale materia stia consolidando.

Se, dunque, la lista di competenze statutarie rappresenta tutt’oggi il punto di riferimento, si può effettuare una riflessione circa la sua congruità rispetto alle esigenze della specialità.

Alcune competenze risultano ben agganciate alla specialità e sono nate proprio con l’intenzione di affrontare le esigenze di differenziazione, oltre che il mero dato del sotto-sviluppo dell’isola. Ad esempio, la competenza esclusiva sugli “usi civici” dà voce al fatto che la Sardegna è ricca di terre in comune che necessitano una disciplina regionale18.

Interessanti sono anche i recenti tentativi di rileggere in chiave di specialità alcune materie “classiche”, quali l’agricoltura, in sintonia con la nuova ondata identitaria che ha investito l’isola dagli anni Novanta19 e che ha trovato concretizzazione legislativa in particolare nella XIII legislatura (26 giugno 2004-25 dicembre 2008) sotto la Giunta del Presidente Renato Soru. Ad esempio nella l. reg. 8 agosto 2006, n. 13, “Riforma degli enti agricoli e riordino delle funzioni in agricoltura. Istituzione delle Agenzie AGRIS Sardegna, LAORE Sardegna e ARGEA Sardegna”, l’art. 1 recita: “considerata l’importanza che il settore agricolo riveste per l’economia dell’Isola quale espressione del carattere della ruralità e del modo di essere fondamentale della cultura del popolo sardo”.

Anche materie quali l’urbanistica e l’edilizia sono state infuse di echi identitari. La l. reg. 4 agosto 2008, n. 13, Norme urgenti in materia di beni paesaggistici e delimitazione dei centri storici e dei perimetri cautelari dei beni paesaggistici e identitari, conia il concetto beni identitari e tende a leggere l’ambiente e il territorio come un aspetto dell’identità.

17 Esso così stabilisce: “2. Le Commissioni paritetiche previste dagli statuti delle Regioni a statuto speciale, in relazione alle ulteriori materie spettanti alla loro potestà legislativa ai sensi dell’articolo 10 della citata legge costituzionale n. 3 del 2001, possono proporre l’adozione delle norme di attuazione per il trasferimento dei beni e delle risorse strumentali, finanziarie, umane e organizzative, occorrenti all’esercizio delle ulteriori funzioni amministrative. 3. Le norme di attuazione di cui al comma 2 possono prevedere altresì disposizioni specifiche per la disciplina delle attività regionali di competenza in materia di rapporti internazionali e comunitari”. 18 L’abbondanza di usi civici è dovuta al fatto che la proprietà privata e la fine ufficiale del periodo medioevale ebbe luogo in Sardegna soltanto nel 1820 con l’Editto delle chiudende, una legge che dava titolo a chiunque avesse chiuso un terreno di divenirne proprietario, ma che lasciò diverse parti della regione scoperte.19 In concomitanza a un fenomeno europeo e nazionale evidenziato da Le regioni alla ricerca della loro identità culturale e storica, a cura di S. Bartole, Milano 1999.

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La l. reg. 25 novembre 2004, n. 8, Norme urgenti di provvisoria salvaguardia per la pianificazione paesaggistica e la tutela del territorio regionale, nota anche come “salva-coste”, stabilisce il divieto di costruzione di abitazioni a due chilometri dal mare ed è stata presentata nel dibattito pubblico sardo come una legge che preservava un elemento di unicità (la scarsa antropizzazione delle coste) la quale costituisce un tratto caratterizzante il territorio sardo quale elemento di identità dell’isola20.

Accanto a questi dati interessanti, va rilevato che, in linea generale, il sistema delle competenze sardo non corrisponde alle esigenze della specialità, né del 1948 né contemporanea. In parte perché sin da quando è stato scritto non ha considerato aspetti cruciali della specialità (es. la lingua), in parte perché è divenuto obsoleto nel tempo. Ci sono cioè competenze che, a nostro avviso, dovrebbero e potrebbero essere recepite. Dalla già richiamata indagine statistica condotta in Sardegna nel 2012 emerge, ad esempio, che il territorio è il primo fattore che delinea l’identità sarda. Questo giustificherebbe a nostro avviso una materia che consenta un assetto regionale della gestione del territorio.

Un’altra materia mancante è quella relativa alla continuità territoriale area e marittima, la finestra sul mondo della Regione. Paradossalmente sono di competenza primaria della regione “i trasporti su linee automobilistiche e tramviarie” (art. 3 lett. g), ma non quelli del collegamento aereo. Sicuramente nel 1948 la continuità aerea territoriale non aveva questa importanza, ma proprio per questo emerge l’esigenza di una riforma dello St. Sar. volta ad attualizzare e connettere maggiormente competenze e specialità.

5. L’ordinamento e il quadro finanziario della Sardegna

Dall’analisi dell’ordinamento finanziario della Sardegna si evince, in misura maggiore che per altre regioni e province speciali, la condizione di relativa autonomia propria allo Statuto sardo. Malgrado le recentissime disposizioni sulle norme di attuazione per la cosiddetta “vertenza entrate”, risalenti al dicembre del 2015, l’ordinamento finanziario sardo reca un vulnus con l’insieme della normativa in materia riguardante le autonomie speciali. Tanto che molti osservatori hanno indicato, proprio a partire dal caso dalla disamina dell’ordinamento finanziario, nel caso isolano, uno statuto ad autonomia relativa21, al pari di altre regioni la cui autonomia non pare più garantire i vantaggi di un tempo. Inoltre, il caso sardo è caratterizzato dalla presenza delle disposizioni finanziarie quasi esclusivamente nello St. Sar., al tit. III: sono rari e comunque contestati i tentativi attraverso leggi regionali di dare vita ad articoli dello statuto rimasti di fatto disattesi per diversi decenni. All’art. 7 St. Sar., dedicato all’autonomia finanziaria regionale (nel quale si

20 Su tale collegamento in generale si veda M. MALO, La forma delle regioni. La considerazione delle regioni per la propria cultura e tradizioni nella conservazione del territorio, in S. BARTOLE, op. cit., p. 137 s.

21 G. MACCIOTTA, Competenze e finanziamento delle regioni a statuto speciale e delle forme di autonomia differenziata, in astrid-online, 2006.

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afferma che la Regione Sardegna ha una propria capacità finanziaria, sebbene coordinata con quella dello stato centrale), ci si riferisce come articolo alla base dell’autonomia speciale finanziaria sarda. Tuttavia, è con l’art. 8 seguente da cui deriva l’applicazione concreta dell’autonomia finanziaria e al contempo la fonte del principiale dissidio sulla sua realizzazione determinato appunto dalla cosiddetta «vertenza entrate»22. Prevedendo quali siano le principali entrate della regione, l’art. 8 stabilisce fondamentalmente le quote di compartecipazione al gettito erariale previste per la Sardegna ma anche di un piccolo numero di tributi propri. Lo St. Sar., su questo punto, ha avuto, dalla sua approvazione nel 1948, solo due cambiamenti: nel 1983, quando è stato novellato con l’ingresso del gettito derivante dalle imposte sulle persone fisiche e giuridiche (l’ex IRPEF), nonché da quelle di bollo e registro e sulle successioni e donazioni, prima non previste per l’isola; e poi nel 2006, quando la Giunta Soru con il Governo Prodi, sulla base della constatazione della vertenza tra la Sardegna e lo Stato, avevano previsto una diluizione del pagamento delle compartecipazioni dello stato alla Sardegna, ma con l’ingresso, tra le quote spettanti, della compartecipazione dell’imposta sul valore aggiunto (l’IVA) incassata sul territorio regionale, anch’essa non prevista precedentemente per l’isola.

L’ordinamento finanziario dell’isola risulta – ancora – influenzato nella prassi da ciò che è stato definito vertenza entrate. Ovvero, lo stato incamera il totale delle compartecipazioni previste per i vari punti elencati in art. 8 ma non ha provveduto, oramai dalla fine degli anni ’90 del secolo scorso, a girare alle casse dell’isola il corrispettivo spettante. Da qui un dissidio profondo che, seppur analizzabile politicamente sotto diversi punti di vista23, ha segnato e continua a segnare i rapporti tra lo stato e la regione almeno, e soprattutto, negli ultimi quindici anni. La fonte del dissenso è la mancata corresponsione delle entrate spettanti alla Regione. Per l’isola – ma non così per altre autonomie speciali – lo stato prevede di incamerare l’intero ammontare e non solo la quota risultante, lasciando quanto indicato in statuto direttamente in Sardegna. Le percentuali di riscossione per la Sardegna vanno dai cinque decimi delle imposte sulle donazioni e successioni fino ai nove decimi sulle imposte di bollo, registro ed energia elettrica, sull’imposta di fabbricazione e sulle imposte erariali dei monopoli dei tabacchi. A parte i canoni sulle concessioni idroelettriche, non vi è mai la piena e totale riscossione (i dieci decimi) per alcuna delle compartecipazioni previste, così come le più importanti, oltre ad essere state previste più in là nel tempo e successivamente a quanto concesso ad altre realtà territoriali, si fermano ai sette decimi (come per l’IVA, che addirittura va a determinarsi anno per anno d’intesa tra stato e regione, e per la compartecipazione sul reddito delle persone fisiche e giuridiche).I tributi e le tasse che la Regione può autonomamente (almeno in teoria) proporre e dunque incamerare totalmente alle sue entrate nell’ordinamento finanziario riguardano il turismo, il demanio e il patrimonio e specifici contributi per opere pubbliche e infrastrutturazione 22 C. PALA, La Sardegna. Dalla « vertenza entrate » al federalismo fiscale ?, in Le Istituzioni del Federalismo, I, 2012, pp. 213-243.

23 C. PALA, Politica sarda e autonomia finanziaria, in Sardegna tra resistenze e rinunce, a cura di AA.VV., Cagliari 2013, pp. 29-40.

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previste dallo stato. Per tutte le compartecipazioni, lo stato dichiara che non vi siano delle norme attuative per trasferire materialmente al patrimonio regionale le quote spettanti; esso provvede dunque ad inscrivere sul proprio bilancio una serie di somme che poi con una certa discrezionalità (non) attribuisce all’isola. Dalla lotta che venne fatta a partire dal 2005 da Renato Soru, infatti, la Regione, pur non continuativamente, ha richiesto allo stato le quote spettanti. Gli accordi del 2006 tra la Regione e il governo centrale di Prodi preventivavano inoltre che la Sardegna avrebbe assommato a sé la totale copertura della sanità e dei trasporti: due fattori-chiave della propria gestione finanziaria, per ragioni diverse. Di conseguenza la grave difficoltà dell’isola che attualmente copre il 100% del fabbisogno sanitario e delle spese derivanti dalla condizione di insularità, senza che lo stato – oramai non più partecipe di tali spese – trasferisca le quote spettanti all’isola. Gli accordi del dicembre 2015 sulle norme attuative tra la Giunta Pigliaru e il Governo Renzi dovrebbero poter risolvere il problema reale dei trasferimenti, sebbene, nel momento in cui si licenziano queste righe, manchino tuttavia le linee di indirizzo e i tempi paiono ugualmente dilatarsi di molto. La stima all’inizio della vertenza (nel 2005) si fermava a circa 10 miliardi di Euro; gli accordi del 2006 riducono del 50% il dovuto dello stato, ma con l’impegno di inserire l’IVA e di corrispondere per dieci anni la somma di 500 milioni all’anno, con l’ulteriore impegno ad aumentare i tributi erariali. Nulla di questo è stato fatto, sia per continui cambi di governo, i quali obbligavano a una ricontrattazione continua, e sia perché la Regione non provvedeva ad attuare una medesima politica continua di richieste, ambivalenti a seconda del colore politico di Roma e Cagliari. Alle accuse di incostituzionalità verso lo stato, da una parte, si è risposto, dall’altra, con la denuncia di una mancanza delle norme attuative. Infine, l’unico tentativo, peraltro recente, di applicazione di tributi propri è stato opera sempre della Giunta Soru, la quale ha inserito le cosiddette “tasse sul lusso” con l. reg. 4/2006 (sulle seconde case turistiche e sui mezzi da diporto e aeromobili), definita parzialmente incostituzionale con una sentenza della Corte (la 102/2008)24. È significativo sottolineare come la Regione Sardegna, da quel tentativo, non abbia più provato a ricorrere, per timore della bocciatura della Corte ma soprattutto per ragioni di opportunità politica, nell’istituire tributi propri.

L’ordinamento regionale sardo sulle finanze spesso non è esaminato nell’art. 9 St. Sar. Esso è considerato come un mero elemento attuativo di quanto previsto sia in precedenza che successivamente, per cui è considerato da un punto di vista meramente “tecnico”; al contrario, noi riteniamo abbia un risvolto politico-giuridico importante, in quanto vi è prevista la possibilità da parte della Regione di attribuire agli organi dello stato la riscossione, ma prima l’accertamento, dei tributi erariali. Si badi come la possibilità presupponga la presenza di un organismo regionale, quando la realtà al contrario implica siano le agenzie statali sul territorio regionale (tra tutte, l’Agenzia delle Entrate) a farlo. Dopo una raccolta di firme che ha superato di poco le 30.000 (quando bastava raggiungerne 15.000), il comitato Fiocco Verde nel 2012 ha inteso raccogliere il consenso dei sardi al fine di discutere

24 A. DEFFENU, Tributi propri delle Regioni speciali e armonia con i principi del sistema tributario statale tra rationes contraddittorie e discriminazioni irragionevoli, in Le Regioni, III, 2008, III, pp. 729-738.

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una proposta di legge mirante a istituire l’Agenzia Sarda delle Entrate. Solo nel luglio 2015 si intravede la concreta possibilità di istituzione dell’organismo che attualmente è in fase di istruttoria da parte della Regione. Dunque, tale agenzia potrebbe sostanziare, a partire dal 1948, l’art. 9 St. Sar. Anche l’art. 10 è stato di recente (nel 2013) modificato al fine di prevedere agevolazioni fiscali, detrazioni, esenzioni e deduzioni su base imponibile, con totale carico sul bilancio regionale; inoltre, può modificare le aliquote regionali arrivando fino ad azzerarle del tutto, ma non superando i limiti previsti dallo stato. Nell’art. 11 viene inoltre prevista la possibilità di emettere prestiti interni, sempre a totale onere della Regione, per investimenti di carattere permanente senza che questi superino tuttavia le entrate ordinarie del bilancio regionale. Con l’art. 12 viene posto un freno ulteriore all’autonomia fiscale regionale: infatti, viene disposto che il regime doganale sia competenza esclusiva dello stato (a differenza delle Province autonome di Trento e di Bolzano e parzialmente della Sicilia, dove le tariffe doganali di interesse regionale possono essere discusse con lo stato). Tuttavia, il secondo comma del precedente art. prevede che la Sardegna possa istituire nell’isola punti franchi25. Con il d.lg. 78/1998 la Sardegna individua alcuni punti franchi (specificamente, i porti dell’isola) e i decreti attuativi per poterli effettivamente realizzare, sebbene sia lo stato centrale che la Regione medesima non abbiano mai discusso in un tavolo paritetico sulla realizzazione della norma. Seppur attuate, a differenza dell’art. 12, le disposizioni previste nell’art. 13 St. Sar. hanno contribuito a disegnare buona parte della storia contemporanea dell’isola. Nell’articolo veniva indicato il concorso della Regione con lo stato per la predisposizione di un Piano organico per la rinascita socioeconomica della Sardegna. Si consideri che è previsto puntualmente un ruolo prioritario dello stato con l’eventuale consorzio della Regione nella predisposizione di tale strumento. L’esperienza storica del cosiddetto Piano di Rinascita, che vede finalmente la luce nel 1962, mostra l’incapacità dello strumento, sospeso tra la volontà della Regione di ottimizzare le scelte e la necessità dello stato a centralizzare – soprattutto per motivi di ordine politico – le decisioni medesime. A meno di ulteriori e poco credibili velleità in tal senso, possiamo affermare senz’altro che la stagione di una programmazione come quella prevista nel 1948 ed attuata poco più di un decennio dopo, sia da intendersi definitivamente chiusa26.Per chiudere l’analisi sull’ordinamento finanziario regionale, l’art. 14 St. Sar., il quale prevede che la regione succeda sul suo territorio nei beni e nei diritti patrimoniali immobiliari e demaniali (al di là del demanio marittimo), così come lo stato rimane detentore dei beni e diritti connessi a usi e servizi di

25 Tale possibilità è prevista al pari della Sardegna, anche per la Valle d’Aosta, unica altra autonomia speciale. Ad ogni modo, però, la possibile istituzione di punti franchi, al di là dei recenti dibattiti mai sopiti sulla creazione di una zona franca integrale per l’isola, appaiono solamente sulla carta. 26 In quell’articolo dello St. Sar. era insito un duplice aspetto. Il primo era relativo all’insufficienza delle risorse che la Sardegna sarebbe andata a desumere dalla sola compartecipazione prevista nell’art. 8, al di là di quanto occorso in seguito con la vertenza entrate. Il secondo riguarda la concezione di uno strumento integrativo dell’autonomia statutaria che di fatto, nella sua prassi storica, si è rivelato essere più un potente mezzo di controllo dello stato centrale sulle scelte da fare nell’isola, piuttosto che uno strumento di programmazione quantomeno coordinata tra centro e periferia.

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competenza statale, ad esclusione dei beni immobili non riconducibili ad un preciso proprietario, i quali divengono patrimonio della regione.

La tab. 1 seguente illustra le entrate per la Regione per le annualità 2014, 2015 e 2016:

Tab. 1 quadro delle entrate della Regione Sardegna per le annualità 2014, 2015 e 2016 (milioni di Euro)Entrate 2016 2015 2014Entrate tributarie, extratributarie, alienazioni, mutui 6.951 6.611 6.004di cui, Tributi propri e compartecipazioni 6.133 5.818 5.953 Entrate extratributarie 66 44 46 Alienazioni 23 50 5 Mutui, prestiti 729 700 -Trasferimenti correnti dallo Stato 176 158 141Trasferimenti in Conto capitale dallo Stato 171 850 1.237di cui, Fondo di Sviluppo e Coesione (FSC) 2007-2013 109 676 1.209Cofinanziamento POR 2014-2020 44 129 -POR 2014-2020 71 197 -di cui, FESR 62 127 -FSE 70 -Trasferimenti correnti dall’UE 35 1 2Totale entrate manovrabili 7.404 7.818 7.383Accantonamenti 681 682 578Partite di giro 155 115 115Totale generale 8.240 8.616 8.077Fonte: nostra rielaborazione suhttp://www.consregsardegna.it/XVLegislatura/Disegni%20e%20proposte%20di%20legge/DL297-S-A%20(finanziaria%202016).pdf

Come si evidenzia nella tabella sopra, la Regione Sardegna prevede per il 2016 un bilancio di poco più di sette miliardi di Euro (7.404.000.000), come entrate manovrabili (ovvero, direttamente spendibili) nella gestione finanziaria; assommando a queste gli accantonamenti e le partite di giro, ovvero voci non immediatamente esercibili al patrimonio regionale, il totale generale del bilancio della Sardegna per il 2016 ammonta a poco più di 8 miliardi di Euro (per la precisione, 8.240.000.000). Se consideriamo le compartecipazioni così come descritte dall’art.8 St. Sar., esse costituiscono,

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con poco più di sei miliardi di Euro (6.133 milioni di Euro), l’82,8% dell’intero bilancio manovrabile e il 74,4% del bilancio nel suo complesso. Poco meno di sette miliardi di Euro costituiscono il bilancio regionale sardo composto da entrate proprie (che sappiamo non tutte disponibili o comunque, tramite la vertenza entrate, non presenti per quanto dovrebbero). Rispetto all’anno precedente (8.616 milioni di Euro), la manovra finanziaria appare ridimensionata, ma superiore agli otto miliardi del 2014; in questo caso, vi è il pagamento di una quota delle compartecipazioni al gettito che lo stato ha deciso di versare (per circa 300 milioni di Euro) alla Sardegna nella finanziaria 2015: più o meno, il passaggio in bilancio tra la somma di compartecipazioni del 2015 e del 2016. Sono in leggera crescita anche i trasferimenti correnti dello stato, che nel 2016 non superano comunque i 176 milioni di Euro. Mentre i finanziamenti in Conto capitale, visto il termine della pluriannualità 2007-2013 del FSC, si riducono, passando da 1 miliardo e 200 milioni del 2014 a 109 milioni di Euro nel 2016. La conferma che la Sardegna ha una certa capacità di spesa delle risorse finanziarie europee la si evince indirettamente dalle voci del POR Sardegna, che oramai costituiscono da diversi anni parte importante del bilancio regionale. Infatti, per la programmazione 2014-2020, di fatto non ancora entrata nel vivo, l’isola non sconta situazioni particolarmente gravose di mancata spendita che avrebbero prodotto un’iscrizione a bilancio rispetto al FESR e FSE di somme decisamente inferiori. Infine, ad incidere in modo gravoso sul bilancio regionale sono gli accantonamenti, previsti dallo stato per ogni regione in funzione del risanamento del debito pubblico nazionale, i quali incidono per 681 milioni di Euro che la Regione Sardegna non può spendere, pur dovendo far fronte a spese aggiuntive interamente a carico del proprio bilancio regionale (come la sanità e i trasporti) che per altre regioni lo stato provvede a coprire.

La tab. 2 mostra invece la previsione di spese per il 2016 per principali aree di policy:

Tab. 2 Previsioni di spesa nelle principali aree di policy per il 2016 (milioni di Euro)Aree di policy Da bilancio

della RASDa

programmaz. RAS-

UE

Totale generale

Istruzione 123,8 128,3 252,1 (3%)

Lavoro 83,4 128,8 212,2 (2,5%)

Sistema produttivo 306,2 205,5 511,7 (6,1%)

di cui, Imprese 57,9Agricoltura 155,9Turismo, cultura e sport 92,4Sanità 3.365,8 57,5 3.423,4

(40,8%)Servizi sociali 243,2 20,3 263,5

(3,1%)18

Ambiente 397,5 56,1 453,6 (5,4%)

Infrastrutture, lavori pubblici, informatizzazione 151,0 361,4 512,4 (6,1%)

Trasporti e mobilità interna 441,3 96,5 537,8 (6,4%)

Autonomie locali 629,8 - 629,8 (7,5%)

Servizi istituzionali generali, personale, gestione finanziaria

1.599,2 - 1.599,2 (19,0%)

Totale generale 7.341,2 1.054,5 8.395,7Fonte: nostra rielaborazione suhttp://www.consregsardegna.it/XVLegislatura/Disegni%20e%20proposte%20di%20legge/DL297-S-A%20(finanziaria%202016).pdf

I dati esposti nella tabella precedente mostrano immediatamente da cosa sia costituita la principale voce delle uscite nel bilancio sardo per il 2016. La sanità, al pari di tutte le altre regioni, sicuramente costituisce il più importante capitolo di spesa pubblica del sistema di decentramento amministrativo e politico italiano. La Sardegna non fa dunque eccezione: con i suoi 3.423,4 milioni di Euro, la sanità copre il 40,8% del bilancio sardo. Ad ogni modo, come si anticipava prima, occorre rilevare un aspetto. A seguito degli accordi del 2006 sulla vertenza entrate, la Regione ha ottenuto il controllo esclusivo della spesa sanitaria sarda – compreso ovviamente il suo pieno e totale finanziamento; tuttavia, senza un ingresso certo delle risorse, il bilancio regionale sardo è stato quello ad essersi maggiormente indebitato, soprattutto a causa della sanità27. La Sardegna ha vissuto e vive tuttora la paradossale situazione di avere accollata interamente la spesa della sanità (e dei trasporti) ma non ha le compartecipazioni derivate dallo stato. La terza colonna della tabella, per un totale di poco più di un miliardo di Euro, attiene alla programmazione congiunta di fondi regionali con fondi derivanti da programmi di interventi europei specifici (FEASR, PAC, FSE, FESR, FSC): si tratta di risorse aggiuntive al bilancio di stretta emanazione regionale, le quali incidono comunque in maniera considerevole, soprattutto su settori quali le infrastrutture e i lavori pubblici, l’agricoltura e il sistema produttivo in genere, il lavoro, l’istruzione. La seconda voce più importante, per settore, nella spesa pubblica regionale per il 2016 è quella prevista per la «macchina regionale», pari a 1.599,2 milioni di Euro. Qui non è previsto solo ciò che attiene alla spesa per il funzionamento degli organi (le cosiddette spese della democrazia e della politica, le quali comunque incidono in maniera relativa), o per il personale della Regione; sono inserite le spese di funzionamento degli enti strumentali e tutta la macchina di gestione finanziaria attinente ai prestiti e ai debiti, ai cosiddetti oneri non attribuibili (ammortamenti di spesa, fondi di riserva, interessi maturati col passare del tempo) e alla finanziaria regionale (SFIRS). Tutto questo incide nel bilancio per il 19%. Passando all’analisi delle aree di policy vere e proprie, constatiamo che la Regione intende maggiormente sostenere le spese per le autonomie locali (629,8 milioni di Euro pari al 7,5% del bilancio totale), i trasporti e la mobilità in generale (537,8 milioni di Euro pari al 6,4% dell’intero bilancio), le infrastrutture (comprese quelle legate al web) e i lavori pubblici (512,4% che corrisponde al 6,1%) e il sistema produttivo (soprattutto l’agricoltura e il turismo), per un totale di 511,7% pari anch’esso al 6,1% del bilancio totale della Regione. Altro 27 PALA, La Sardegna. Dalla « vertenza entrate » al federalismo fiscale?, cit., pp. 227-229.

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settore importante, in forte crescita rispetto alle gestioni finanziarie fino a qualche anno fa, è l’ambiente, che raggiunge la somma di 453,6 milioni di Euro, corrispondente al 5,4% del bilancio. Dedicheremo nel prossimo paragrafo una rassegna di alcune aree di policy ritenute significative per il caso sardo, entrando più nello specifico dei singoli aspetti trattati per singolo settore di intervento.

Infine, un rapidissimo cenno all’indebitamento della Regione sarda. Per l’anno 2016, la Regione prevede un indebitamento totale pari a 1.849.045.519,85 Euro, che diminuisce a poco più di un miliardo e mezzo di Euro per il 2017 e ancora, per il 2018, a 1.477 milioni di Euro28.Tali debiti sono preventivati soprattutto per il rientro dal passivo nella sanità, che è previsto in miglioramento anche in funzione della (incerta) risoluzione della vertenza entrate.

6. Una (breve) analisi di politiche pubbliche esemplificative del caso sardo recente

Negli ultimi venti/trenta anni, la politica sarda ha rivisto parte delle sue priorità in termini di politiche pubbliche. Le esigenze, peraltro sempre attuali, presenti al momento dell’avvio dell’esperienza autonomistica sono state affiancate da nuove sensibilità e nuovi problemi, che hanno finito inevitabilmente per collocare nell’agenda politica sarda nuovi settori di intervento, prima secondari. Lo sviluppo turistico degli anni ’60, la consapevolezza ambientale, la salvaguardia delle coste, la maggiore presenza di installazioni militari in Italia, un diverso approccio all’agricoltura, sono solo alcuni dei settori di policy che si uniscono a quelli «tipici» della specialità sarda come i trasporti e la mobilità, l’energia e il gas, l’insufficiente industrializzazione. Lo Statuto sardo è stato determinante per investire risorse su alcune aree di politiche pubbliche, in misura maggiore nel recente passato ed evidentemente in proporzione, di quanto non accadesse in generale in tutto il Paese. A titolo esemplificativo, l’istruzione e la ricerca scientifica assieme all’università, nella Giunta Soru di centrosinistra, dal 2004 al 2009, sono stati settori importanti di investimento pubblico regionale, non solo da un punto di vista finanziario; oppure, i tentativi per ottenere fiscalità di vantaggio, così come previsto in St. Sar., dalla Giunta Cappellacci di centrodestra, dal 2009 al 2014, hanno costituito la base per la nuova campagna elettorale della coalizione di centrodestra guidata sempre da Ugo Cappellacci, per le Regionali del 2014. A mo’ di esempio e nell’economia di questo lavoro, sceglieremo, per l’annualità 2016, tre differenti policies non tanto per la propria dotazione finanziaria ma perché, allo stesso tempo, incarnano una tendenza di sviluppo recente in Sardegna indipendentemente dalla guida politica, caratterizzando comunque l’attuale maggioranza di centrosinistra guidata dal Presidente Francesco Pigliaru: ambiente, lavori pubblici e informatizzazione, servizi sociali.

28 Dati tratti da http://www.consregsardegna.it/XVLegislatura/Disegni%20e%20proposte%20di%20legge/DL298-A%20(Bilancio%202016-2018).pdf

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L’ambiente costituisce senza dubbio un’area di policy che nell’isola ha visto un’importanza sempre più crescente negli ultimi decenni per due ordini di ragioni: la prima, in quanto legata a un sistema di gestione “esterno” del territorio sardo che vede nelle cosiddette servitù militari e nelle conseguenze da esse provocate il suo più visibile esempio; la seconda, legata senza dubbio alla comprensione diffusa nella società sarda che la protezione dell’ambiente e del territorio siano basi insopprimibili per ulteriori due aree più direttamente «economicizzabili» (come l’agricoltura e il turismo). L’ambiente è passato in poco meno di dieci anni – dall’esercizio finanziario 2007 a quello 2016 – ad incidere sul bilancio regionale dal 3,4% del 2007 al 5,4% del 2016, due punti percentuali e una dotazione che è passata rispettivamente da 269 milioni di Euro a superare leggermente i 450 milioni di Euro. L’ambiente è divenuto dunque sempre più centrale e strategico come area di policy, indipendentemente dalla guida politica in Regione. Un aspetto importante da sottolineare, a conferma dell’interesse che la politica sarda pone sul settore, lo si desume dalla scomposizione dell’intero ammontare previsto: ben l’88% circa è di provenienza esclusiva del bilancio regionale, mentre il restante 12% deriva da risorse comunitarie. All’interno della voce generica “ambiente”, possiamo analizzare gli ambiti specifici di intervento. Quasi la totalità dei fondi previsti sono impiegati per le aree forestali e quelle protette e di particolare pregio ambientale (per circa 185 milioni di Euro), compresi il funzionamento dell’Ente Foreste della Sardegna, le aree marine ed altri (183 milioni di Euro) per aspetti più operativi riguardanti la gestione dei rischi ambientali, il delicato assetto idrogeologico, il clima e la protezione civile. La difesa dell’ambiente vera e propria, ossia la lotta contro l’inquinamento, le bonifiche, il funzionamento dell’ARPAS (Agenzia Regionale di Protezione dell’Ambiente della Sardegna) assorbe circa 45 milioni di Euro. I restanti interventi sono invece previsti per la sostenibilità ambientale (comprese le azioni di sensibilizzazione dei cittadini) a cui è legata la raccolta differenziata che permette all’isola di raggiungere l’ottavo posto nazionale come miglior regione, per un totale di 28 milioni di Euro. Le particolari conseguenze, anche in termini di vite umane, derivanti dalle alluvioni del novembre del 2013 hanno accelerato la spesa di finanziamento rispetto alla prevenzione dei rischi e alla protezione dell’ambiente in generale. Recentemente, poi, l’isola si è dotata di uno strumento specifico, assieme di sintesi e di direzione politica, costituito dal PAAR (Piano di Azione Ambientale Regionale), il quale delinea le principali linee di indirizzo nel settore, cui si conformano le azioni politiche indicate nelle specifiche azioni previste in bilancio.

I lavori pubblici e l’infrastrutturazione rappresentano da tempo uno dei principali punti deboli dell’isola che ha, in molti suoi territori, tra gli ultimi, se non gli ultimi, indici più bassi in Italia per infrastrutture. A questo limite, di poco mutato nel tempo, la Regione cerca di supplire (anche) con un aumento della capacità delle reti informatiche. Sebbene ancora in via di principio, la regione intende dotare l’isola di reti informatiche in alcuni casi in grado di sopperire alla particolare condizione dell’isola, poco densamente abitata e ricca di condizioni orografiche spesso limitanti. Per il 2016, con una dotazione di 512,4 milioni di Euro (pari al 6,1% del bilancio regionale come visto in precedenza), tale settore si configura come uno tra i più curati dalla politica regionale. Per questo settore e a differenza del precedente, la buona parte

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delle risorse sono di provenienza comunitaria (il 71%), mentre un restante 29% è tratto dal bilancio proprio della Regione; all’interno di tale ripartizione i dati relativi alla presenza di risorse statali sono ancora limitate e laddove presenti, derivano sostanzialmente da fondi CIPE, non iscrivibili a bilancio perché destinati appositamente ad opere gestite spesso da aziende statali (come l’ANAS). Dunque, per le opere pubbliche l’isola pare dipendere in larga parte dall’Unione Europea. L’area di policy in questione è ulteriormente suddivisa al proprio interno, per l’esercizio finanziario 2016, in questo modo: la stragrande maggioranza delle risorse (pari a 463 milioni di Euro) sono destinate al Piano Regionale delle Opere Pubbliche, il quale definisce le priorità sulle opere relative all’assetto idrogeologico e al sistema integrato dell’acqua (dighe, argini di fiumi, opere di contenimento ad eventi franosi, ecc.), opere relative al miglioramento della vivibilità dei centri urbani, al sistema viario e dei collegamenti interni (particolarmente carenti, per i quali da solo è previsto il finanziamento di 42 milioni di Euro sempre per il 2016), alla dotazione energetica degli edifici pubblici, all’edilizia popolare, così come alle opere pubbliche nei piccoli comuni (attività d cantieristica relativa al decoro urbano, e così via). Sempre da tale suddivisione occorre ritagliare due degli aspetti infrastrutturali che ultimamente hanno visto la Regione particolarmente impegnata: la strada di collegamento Sassari-Olbia e il Piano Sulcis a seguito della crisi industriale nel sud-ovest della Sardegna. Infine, è importante sottolineare come la Sardegna abbia da tempo intrapreso una politica attenta alle reti informatiche, definita «agenda digitale». Pur essendo storicamente la terra ad aver dotato l’Italia del suo primo internet provider, l’isola sconta ancora dei disagi nella diffusione delle reti informatiche, limitate e ostacolate dall’insularità e dalla poca convenienza economica nel cablare zone isolate e poco popolate. La Regione investe a questo riguardo circa 60 milioni di Euro, destinati nello specifico ad adeguare e potenziare la rete telematica regionale con la banda larga e ultra-larga a disposizione dei cittadini e del mondo imprenditoriale; inoltre, altro ramo importante è determinato dal completamento e messa a regime di tutto il servizio informativo regionale, basilare per l’informatizzazione della pubblica amministrazione sarda.

Terzo e ultimo settore analizzato in questa sede è quello relativo ai servizi sociali. Sebbene possa ingannare la relativamente limitata disponibilità di risorse (comunque superiore, ad esempio, all’istruzione), pari a 263,5 milioni di Euro corrispondenti al 3,1% del bilancio regionale, da sottolineare sono la tipologia di gestione dei fondi e le leggi di settore che spesso hanno fatto dell’isola un modello in ambito nazionale (soprattutto per le policies relative alle cure domiciliari, al servizio per i malati gravi con il fondo per le disabilità e non autosufficienze, ai malati affetti da patologie mentali, al progetto “Ritornare a Casa”, modello per altre legislazioni di altre regioni italiane relativo al rientro a casa o in strutture di carattere sociosanitario di persone con malattie croniche e patologie e disabilità particolari). In questo ambito sono previste diverse voci relative al sostegno alle povertà estreme e al sostegno alle infermità così come le associazioni no profit (le associazioni, le cooperative sociali e il volontariato in genere), particolarmente sostenute nella programmazione regionale. In particolare, i PLUS (Piani Locali Unitari dei Servizi), sistemi di gestione della programmazione socio-assistenziale e

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sanitaria in ambito locale, rispondono ad una precisa filosofia regionale, volta, tramite i cosiddetti Piani Locali Sociali, ad intervenire nelle tematiche di cui sopra in maniera capillare nel territorio.

7. Cenni sulla giurisprudenza costituzionale riguardante la Regione

La fase successiva all’entrata in vigore del Titolo V ha visto la crescita del contenzioso costituzionale in Sardegna, così come in molte altre regioni. Abbiamo visto come la vertenza entrate possa essere considerabile la «madre» di tutti i recenti contenziosi tra stato e Regione Sardegna.

A parte i già segnalati casi in cui il contenzioso ha interessato conflitti di attribuzione o questioni di legittimità di tipo politico (sent. 149/2008 sulla legge statutaria e sent. 365/2007 sulla Consulta per la sovranità del popolo sardo), la maggior parte di esso ha avuto luogo per questioni competenziali.

L’andamento del contenzioso ha dimostrato una tendenza, già segnalata, da parte della Regione a poggiarsi su materie statutarie, in special modo per difendere le proprie competenze, mentre un uso più ridotto è stato fatto delle norme di attuazione quali parametri di costituzionalità a causa della scarsa implementazione di tale strumento nella regione.

La prevalenza delle norme statutarie usate come parametro di costituzionalità di successo di fronte alla legislazione statale è massima nella materia degli enti locali. Si pensi, ad esempio, alla sent. 397/2006 che riconosce poteri sostitutivi nei riguardi delle Comunità montane della Sardegna in base all’art. 3, lettera b dello Statuto il quale conferisce alla regione potestà primaria in tema di “enti locali”.

Tra le altre numerose questioni competenziali, la materia ambiente è stata quella maggiormente sensibile, in quanto si interseca con il territorio che in Sardegna, prima ancora della lingua, è considerato, come detto, il primo elemento della specialità. La materia ambiente di competenza nazionale è prevalsa con la sent. 536/2002, che nega alla Sardegna la possibilità di modificare il proprio calendario venatorio per estendere la caccia al cinghiale; ma anche sulla possibilità di dichiarare l’isola de-nuclearizzata.

In generale, il contenzioso costituzionale rivela un andamento simile a quello delle altre regioni sia ordinarie che speciali: una prima stagione di forte attivismo regionale, che ha portato a numerosi annullamenti di leggi regionali, seguito da una più dichiarata svolta centralista da parte della Corte Costituzionale che per le Regioni speciali è stata di meno impatto in quanto, pur non potendo beneficiare dell’allargamento di autonomia previsto dal Titolo V, hanno potuto agganciare la difesa delle proprie competenze al parametro statutario che, a quel punto, è tornato di moda rispetto al troppo incerto art. 117 combinato con la clausola di maggior favore ormai scarsamente operativa.

8. Cenni sugli istituti di democrazia diretta e partecipativa23

La disciplina della democrazia diretta in Sardegna assume dei tratti paradossali. Nella lettura e nell’analisi dello St. Sar. non vi è alcuna disposizione specifica, ma in alcuni artt. (come il 15, ove si fa espressamente riferimento alla possibilità di indire referendum consultivi, propositivi e abrogativi; il 43, relativo alla possibilità delle popolazioni di poter decidere sui confini provinciali; il 54, sulla revisione dello St. Sar.) si evince chiaramente la possibilità di ricorrervi; a dire il vero, l’art. 32 St. Sar., attualmente abrogato, disciplinava i referendum popolari. Quell’articolo è stato appunto abrogato perché la l. cost. 2/2001, all’art. 3, prevedeva che fosse una legge statutaria regionale a disporre la disciplina sui referendum di tipo consultivo, propositivo e abrogativo29. Tuttavia la cosiddetta «legge statutaria» (la l. reg. statutaria n. 1/2008), voluta durante la Presidenza Soru, non è stata promulgata perché annullata dalla sent. 149/2009 della Corte cost. in fase di conflitto di attribuzione30. Non vi è dunque più alcun effetto giuridico di quella legge, la quale prevedeva – tra le altre cose - una norma precisa sui referendum come disciplina di democrazia diretta. Il paradosso (non) pare chiudersi con il fatto che l’attuale legge vigente riguardante i referendum è particolarmente vetusta, risalendo addirittura al 1957. Infatti, per i referendum svolti dopo il 2001, anno della l. cost. citata, i referendum sardi hanno dovuto seguire la norma prevista nella l. reg. 20/1957, recante “Referendum popolare in applicazione degli articoli 32, 43 e 54 dello Statuto speciale per la Sardegna”.

La legge in esame si riferisce principalmente alle tipologie di referendum previste: in Sardegna allo stato attuale possono svolgersi solamente consultazioni popolari di tipo consultivo e abrogativo, ma non propositivo e per la modifica delle circoscrizioni provinciali. Per l’aspetto abrogativo, in specie, la norma prevede che a domandarne l’indizione siano la Giunta regionale, oppure un terzo dei componenti il Consiglio regionale o almeno 10.000 elettori. Quella della raccolte delle firme dei cittadini alla base dell’indizione dei referendum è stata la strada perseguita in tutti i referendum tenuti nell’isola dopo la cancellazione dell’art. 32 St. Sar. nel 2001: nel 2005 (sulla possibilità di introdurre in Sardegna rifiuti da trattare come materie prime), nel 2007 (appunto, sulla legge statutaria), nel 2008 (sul servizio idrico integrato e sul Piano paesaggistico), nel 2011 (sull’installazione in Sardegna di centrali nucleari e sullo stoccaggio nell’isola di scorie radioattive), nel 2012 (con vari quesiti, tra cui l’abolizione delle nuove quattro province, questo abrogativo, e sulla cancellazione delle vecchie, di carattere consultivo). Aspetto altresì importante, la l. reg. 20/1957 stabilisce che il referendum è dichiarato valido se si raggiunge un terzo degli elettori, ovvero il 33,3%. I referendum citati che hanno raggiunto e superato tale soglia sono quelli del 2005, del 2011 e del 2012. Nella l. reg. 20/1957, all’art. 18, si prevede che in caso di non abrogazione di una legge da parte dei cittadini, debbano passare

29 S. ARU e A. DEFFENU, Partecipazione a livello regionale, in Diritti e autonomie territoriali, a cura di A. MORELLI e L. TRUCCO, Torino 2014, pp. 40-53.30 Il relativo referendum istituito per la legge statutaria era stato promulgato dall’allora Presidente Soru sull’incertezza dell’esistenza di un quorum su referendum relativi a leggi di carattere statutario. La sentenza annulla quindi la promulgazione e la relativa vigenza della legge. Da quel momento, nessuna forza politica ad oggi ha proposto un nuovo testo legislativo statutario nell’isola, anche se l’attuale Assessore alla Riforma della Regione, Demuro ha annunciato di preparare un testo di statutaria.

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almeno quattro anni prima che si possa presentare nuovamente una simile richiesta. Nella norma non sono previste altre particolari e rilevanti disposizioni sull’istituto referendario in sé. Dalla lettura della legge è evidente il retaggio di un’epoca storica (e politica) oramai molto lontana: diversi artt., per esempio, sono riferiti al tipo di carta e di schede elettorali da sottoporre agli elettori, così come ai modi di votare o alle incombenze del Presidente della Corte d’Appello in merito ai risultati o alla convocazione dei comizi elettorali per mezzo del Presidente della Giunta regionale.

In attesa di conoscere nuove disposizioni sul principale istituto di democrazia diretta, pare al contrario più interessante la prassi relativa alle forme di democrazia partecipativa. Mancano in Statuto dispositivi specifici, per cui sono solo alcune proposte di legge recenti (attività della Giunta rivolte in tale senso a partire dal 2015 e un referendum con un tema assimilabile) ad aver inaugurato anche nell’isola una – possibile – nuova stagione di democrazia partecipativa dei cittadini. Il primo esempio in tal senso, relativo alla possibilità di selezionare un candidato alla carica di presidente della Regione da parte dei cittadini sardi attraverso elezioni primarie normate per legge, faceva parte dei vari referendum (in tutto dieci) previsti per il 2012. Pur avendo superato il quorum (con la percentuale del 35,5% degli aventi diritto) e registrandosi la prevalenza dei sì a tale possibilità (con ben il 96,6% dei votanti espressisi in maniera positiva), trattandosi evidentemente di un referendum consultivo e quindi non dotato di forza cogente nei confronti di qualsivoglia organo regionale, esso non ha comunque avuto alcun seguito politico di un certo rilievo. Nella direzione della politica partecipativa dei cittadini è il progetto “Sardegna ParteciPA”, promosso dalla Giunta Pigliaru a partire dal 2015. Tale piattaforma, raggiungibile sulla home page del sito internet della Regione, si configura come un vero e proprio esempio di e-democracy in chiave sarda. Si prevede la possibilità che tutti i cittadini possano partecipare on line ad esprimere opinioni, proporre modifiche, intervenire su diverse proposte di legge o progetti che la Giunta intenda mettere in campo e sui quali desideri avere il parere dei cittadini su particolari processi di interesse sociale, economico e istituzionale-amministrativo. Con temi diversi, dalla scuola all’Agenzia delle Entrate sarda già vista, fino al Piano Energetico Ambientale e ai procedimenti di semplificazione amministrativa31, sempre più cittadini sembrano muoversi nella direzione della partecipazione dell’espressione dei propri pareri. Inoltre, è possibile dalla piattaforma partecipare a forum tematici con altri cittadini ed esperti, vedere se le proprie proposte (non) sono state accolte e perché, addirittura essere invitati a tavoli tematici a determinati momenti. Pur mancando ancora una disciplina completa sugli istituti di democrazia partecipativa, presenti ad oggi in sole tre regioni italiane32, anche l’isola pare

31 Su questo aspetto, proprio nell’agosto del 2015, è stata presentata una proposta di legge sulla qualità delle norme e sulla semplificazione dei procedimenti amministrativi la quale, all’art. 11, prevede, al fine di favorire la partecipazione dei cittadini su leggi regionali di una certa importanza e di valenza regionale, che la Giunta possa prevedere l’istituzione di un dibattito pubblico (con le diverse modalità ritenute più congrue, ma in genere in modo telematico) al fine di arrivare a una decisione la più condivisa possibile. 32 Nello specifico, in Emilia Romagna, in Umbria e in Toscana. Cfr. ARU e DEFFENU, Partecipazione a livello regionale, in Diritti e autonomie territoriali, cit., pp. 48-50.

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muoversi faticosamente verso il versante del coinvolgimento dei cittadini isolani nella discussione e decisione della cosa pubblica.

9. Ruolo delle Commissioni paritetiche e delle norme di attuazione.

La fonte sulla produzione delle norme di attuazione nella Regione Sardegna è l’art. 56 St. Sar. che così recita:

“Una Commissione paritetica di quattro membri, nominati dal Governo della Repubblica (e dall’Alto Commissario per la Sardegna sentita la Consulta regionale), proporrà le norme relative al passaggio degli uffici e del personale dallo Stato alla Regione, nonché le norme di attuazione del presente Statuto. Tali norme saranno sottoposte al parere (della Consulta o) del Consiglio regionale e saranno emanate con decreto legislativo”.

A livello normativo sono due le caratteristiche degne di rilievo: il fatto che la Commissione paritetica abbia un potere propositivo, spesso assente in altre Regioni speciali, e la presenza di un parere del Consiglio regionale. Ma va subito rilevato che la norma, analogamente a quelle degli altri Statuti speciali, è estremamente generica e indeterminata per cui per ricostruire il funzionamento dell’istituto è inevitabile ricorrere alle prassi che si sono accumulate nel tempo.

Pressoché tutta la vita della Commissione paritetica sarda è regolata da “prassi”, alcune delle quali costanti tali da potersi parlare di consuetudini, altre mutanti nel tempo33.

E’ una prassi costante quella del rinnovo della Commissione paritetica ad ogni legislatura. Anche se sul punto va segnalato che la Sardegna è restata per anni in assenza di una Commissione paritetica. Visto che la Commissione non è un organo permanente, effettivamente non esiste alcun obbligo giuridico di istituirla, ma il dato dice molto sulla debolezza di tale strumento di negoziazione bilaterale. Forse in tutte le specialità, la Sardegna è quella dove l’istituto ha funzionato in modo meno significativo.

Un’altra prassi è quella per cui l’input ai lavori della Commissione paritetica proviene sempre dalla Giunta regionale, con cui la parte regionale della Commissione ha un raccordo costante34. Questo dato di fatto ha neutralizzato il ruolo propositivo della Commissione paritetica. Lo scenario in cui sia la Commissione paritetica nella sua collegialità a “proporre” delle norme di attuazione, da sottoporre previamente alla Giunta regionale, non si è mai realizzato. La Giunta regionale è il dominus e la Commissione paritetica

33 M. SIAS, Le norme di attuazione degli statuti speciali. Dall'autonomia differenziata all'autonomia speciale, Napoli 2012.34 Il rapporto tra la parte regionale della Commissione e la Giunta è molto forte al punto che spesso, anche per apportare modifiche ad un testo in discussione in paritetica, la componente regionale preferisce effettuare un previo passaggio in Giunta ed ottenerne una delibera.

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interviene con un ruolo prettamente tecnico, di scrematura del testo, di aggiustamento e coordinamento interno.

Un’altra prassi, di recente formazione, è quella che vede la nomina anche dei membri statali tra soggetti che hanno collegamenti e legami con la Regione. Tale prassi si è rafforzata con la nomina dell’ultima Commissione paritetica dove tutti i quattro rappresentanti sono sardi. Si tratta di una prova che l’attività di rappresentanza degli interessi statali è affidata direttamente ad organi esterni alla Commissione: i funzionari della burocrazia nazionale che di volta in volta vengono auditi dalla Commissione e che forniscono il loro parere sulle singole norme di attuazione da presentare.

Per quanto riguarda le norme di attuazione approvate nel corso dei decenni della specialità va segnalato un diverso uso delle stesse. Durante gli anni 1970 e 1980, le norme di attuazione sono state utilizzate per il mero trasferimento di beni, servizi e personale e solo successivamente hanno visto crescere il loro ruolo di norme autonomamente utilizzabili per consolidare l’autonomia.

In generale l’istituto è stato sotto-utilizzato rispetto alle sue potenzialità.

10. Progetti di revisione dello statuto

La revisione dello Statuto sardo è un tema che attraversa costantemente il dibattito politico isolano, senza aver mai trovato una sua concretizzazione.

Il tentativo recente più importante è stato quello che prevedeva l’istituzione di una Consulta per la sovranità del popolo sardo realizzato con l. reg. 23 maggio 2006, n. 7: Istituzione, attribuzioni e disciplina della Consulta per il nuovo statuto di autonomia e sovranità del popolo sardo. La legge è stata annullata dalla Corte cost. con sent. 365/200735 che ha ritenuto l’uso del termine sovranità incostituzionale.

La Sardegna è, peraltro, attualmente priva anche della legge statutaria. Abbiamo accennato in precedenza, infatti, che la l. 10 luglio 2008, n. 1, Legge statutaria della Regione Autonoma della Sardegna, pur approvata e promulgata, non è potuta entrare in vigore, avendo la Corte costituzionale, con la sent. n. 149/2009 annullato, in sede di conflitto di attribuzione, la promulgazione della legge, privandola di efficacia giuridica.

In questo quadro, il cosiddetto “diritto costituzionale della Sardegna”36 appare sicuramente bisognoso di implementazione.

D’altra parte, va anche rilevato che l’assenza di processi di riforma dello Statuto partecipati deriva dal fatto che la natura datata della carta statutaria non è percepita come la vera causa del mancato decollo dell’autonomia. Nell’indagine statistica già citata, svoltasi nel 2012, alla domanda “La Regione

35 O.CHESSA, La resurrezione della sovranità statale nella sentenza n. 365 del 2007, in www.giurcost.org, 2007. 36 P. PINNA, Il diritto costituzionale della Sardegna, Torino 2003.

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Sardegna ha difficoltà a gestire la sua autonomia?”, il 95% dei sardi ha risposto sì. Richiesto poi di individuare le cause di tale difficoltà tra uno spettro di sei possibili risposte, il risultato che emerge è il seguente: disinteresse da parte dei politici sardi (27%); poco impegno delle diverse giunte regionali (25%), debolezza dei partiti regionali (20%), opposizione dello Stato nazionale all’autonomia sarda (14%); assenza di partiti veramente indipendentisti (11%); lo Statuto è datato e non permette maggiore autonomia (8%).

Le difficoltà della specialità sono individuate dai sardi nelle stesse istituzioni sarde: i partiti regionali e le diverse Giunte, mentre il fatto che lo Statuto risalga al 1948 non è considerato un elemento di arresto dell’autonomia. Su questa visione, che in qualche modo contribuisce all’emergere di movimenti che dal basso richiedono la riforma dello statuto, preme anche la convinzione che lo Statuto non sia stato attuato interamente in modo da consentire all’autonomia di esprimere tutte le sue potenzialità.

Non intravvediamo al momento alcuna possibilità di riforma se dovesse concretizzarsi il nuovo Titolo V della Costituzione (Boschi-Renzi): da un lato, la specialità tornerà ad essere un punto di forza, di sicurezza, grazie all’inserimento della clausola di salvaguardia che eviterebbe l’applicazione del nuovissimo Titolo V alle Regioni speciali; dall’altro ci sarà un forte disincentivo a riformare gli Statuti per evitare corse al ribasso dell’autonomia, anziché al rialzo. Ciò potrebbe bloccare la conversazione costituzionale interna alle regioni sulla riforma statutaria.

Sono tre le ragioni che giustificano uno stato regionale asimmetrico: differenziazione; democraticità; efficienza. Uno Stato regionale non ha senso di esistere se non può produrre al suo interno politiche differenziate; deve inoltre far sì che queste politiche siano definite/gestite in modo più democratico in quanto elaborate nel livello di governo più vicino ai cittadini e in modo più efficiente.

Sotto il profilo della differenziazione lo Statuto sardo è sicuramente carente di alcune materie (es. lingua e identità, continuità territoriale, immigrazione e diverse altre ancora) sulle quali si potrebbe aprire la contrattazione con lo Stato. Sotto il profilo della democraticità, l’adozione di una legge statutaria completa sicuramente riporterebbe “a casa” la decisione sulla forma di governo e favorirebbe un maggior controllo regionale. Sotto il profilo dell’efficienza una lista di competenze “blindate” ossia scritte in modo dettagliato o nello statuto (sulla scorta del modello catalano e scozzese) o in norme di attuazione ridurrebbe il contenzioso con la Corte cost. e favorirebbe una maggiore efficienza nella gestione delle politiche, ma come osservato nel par. 6 essa è questione ben più complessa di una mera riforma statutaria e necessita di una pluralità di sinergie.

In ogni caso, sono la politica e la società sarda a dover iniziare un processo più volte dichiarato e sempre rimandato. In questo momento, tuttavia, le condizioni esistenti a Roma più che a Cagliari, per una volta, sembrano fare da argine, a meno che il cleavage centro-periferia si ripoliticizzi in misura via via crescente e, al di là delle ipotesi indipendentiste, ridiventi lo strumento del cambiamento per lo Statuto sardo.

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