Verona è - Agosto 2011

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Quinta Parete V erona cultura e società mensile on-line www.quintaparete.it Anno II - n. 8 - Agosto 2011 Diretto da Federico Martinelli Libri Armi, acciaio e malattie Teatro Teatro in malga in Lessinia Viaggi Route 66: un nome, una leggenda Come il Vecchio Continente è riuscito a dominare il mondo intero, in 400 pagine. Suggestiva la possibilità offerta. Teatro ed enogastronomia al Rifugio Valbella. Una strada che ha segnato un’epoca, attraversando luoghi, culture e persone. Per oltre 3000 chilometri. a pagina 15 a pagina 5 a pagina 18 Harvey, una commedia per due che finisce rinchiusa è proprio Veta! L’errore viene presto sco- perto, ma rimettere a posto le cose non è così semplice: c’è Elwood, con la sua disarmante imperturbabilità, e poi … e poi c’è questo coniglio sempre tra i piedi … E allora? Allora è me- glio lasciar stare, perché in fon- do, chi è veramente normale? Senza contare che i cosiddetti “normali” sono spesso irosi, scortesi … e pericolosi. Scritto verso la metà degli anni ’40 dalla drammaturga ameri- cana Mary Chase, “Harvey” ebbe da subito un grande suc- cesso, ripetuto negli anni a se- guire, tanto da diventare un classico della drammaturgia contemporanea.. Si tratta di una commedia di- vertente e di spessore (all’autri- ce valse il premio Pulitzer per la drammaturgia nel 1945), poi- ché fa ridere e contemporanea- mente riflettere sull’idea, spesso preconcetta, di normalità, sulla percezione del diverso e della realtà. Insomma, un condensato di contenuti, insospettabile a pri- ma vista. Con questi presupposti non è improbabile che capiti di as- sistere a messe in scena anche molto diverse tra loro, a secon- da dell’aspetto che più colpisce la sensibilità del regista. E il caso ha voluto che, per una cu- riosa coincidenza, la rassegna di Teatro nei Cortili, vedesse la Segue a pag. 2 Per Elwood P. Dowd la cosa è tanto semplice e naturale quan- to per altri incomprensibile. D’altronde, sarà pure simpatico per i suoi modi gentili, ma quel- la storia del suo amico Harvey, nientemeno che un coniglio bianco alto un metro e ottanta- sette (che ovviamente vede solo lui), non è certo una cosa nor- male! E il peggio è che lo pre- senta a chiunque gli capita di incontrare. Con buona pace di sua sorella Veta, ormai incapa- ce di tollerare l’imbarazzo. Non c’è altra soluzione: Elwood va chiuso in manicomio. Ma chi l’avrebbe detto che distinguere i normali dai pazzi sarebbe sta- to così difficile? Così, almeno in un primo momento, quella www.ewakesolutions.it Progettazione e realizzazione web Realizzazione software aziendali Web mail - Account di posta Via Leida, 8 37135 - Verona Tel. 045 82 13 434 Ne hanno viste di cose, questi occhi di Paolo Corsi GTV Niù e Micromega con due diverse rappresentazioni del testo di Mary Chase Un’immagine di scena del GTV Niù Ho passato quasi quarant’anni a combattere contro la realtà, ma alla fine ho vinto io, uscendone fuori …

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Il numero di agosto 2011 di Verona è cultura e società

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Q u i n t a P a r e t eVeronacultura e società

mensile on-linewww.quintaparete.it

Anno II - n. 8 - Agosto 2011 Diretto da Federico Martinelli

Libri

Armi, acciaio e malattieTeatro

Teatro in malga in LessiniaViaggi

Route 66: un nome, una leggendaCome il Vecchio Continente è riuscito a dominare il mondo intero, in 400 pagine.

Suggestiva la possibilità offerta. Teatro ed enogastronomia alRifugio Valbella.

Una strada che ha segnato un’epoca, attraversando luoghi, culture e persone. Per oltre 3000 chilometri.

a pagina 15a pagina 5 a pagina 18

Harvey, una commedia per dueche finisce rinchiusa è proprio Veta! L’errore viene presto sco-perto, ma rimettere a posto le cose non è così semplice: c’è Elwood, con la sua disarmante imperturbabilità, e poi … e poi c’è questo coniglio sempre tra i piedi … E allora? Allora è me-glio lasciar stare, perché in fon-do, chi è veramente normale? Senza contare che i cosiddetti “normali” sono spesso irosi, scortesi … e pericolosi.Scritto verso la metà degli anni ’40 dalla drammaturga ameri-cana Mary Chase, “Harvey” ebbe da subito un grande suc-cesso, ripetuto negli anni a se-guire, tanto da diventare un classico della drammaturgia contemporanea.. Si tratta di una commedia di-vertente e di spessore (all’autri-ce valse il premio Pulitzer per la drammaturgia nel 1945), poi-ché fa ridere e contemporanea-

mente riflettere sull’idea, spesso preconcetta, di normalità, sulla percezione del diverso e della realtà. Insomma, un condensato di contenuti, insospettabile a pri-ma vista.Con questi presupposti non è improbabile che capiti di as-

sistere a messe in scena anche molto diverse tra loro, a secon-da dell’aspetto che più colpisce la sensibilità del regista. E il caso ha voluto che, per una cu-riosa coincidenza, la rassegna di Teatro nei Cortili, vedesse la

Segue a pag. 2

Per Elwood P. Dowd la cosa è tanto semplice e naturale quan-to per altri incomprensibile. D’altronde, sarà pure simpatico per i suoi modi gentili, ma quel-la storia del suo amico Harvey, nientemeno che un coniglio bianco alto un metro e ottanta-sette (che ovviamente vede solo lui), non è certo una cosa nor-male! E il peggio è che lo pre-senta a chiunque gli capita di incontrare. Con buona pace di sua sorella Veta, ormai incapa-ce di tollerare l’imbarazzo. Non c’è altra soluzione: Elwood va chiuso in manicomio. Ma chi l’avrebbe detto che distinguere i normali dai pazzi sarebbe sta-to così difficile? Così, almeno in un primo momento, quella

Società13Novembre 2010eronacultura e società

V èQ u i n t a P a r e t e

Omologati in TV. Peggio, omoge-neizzati. No, non mi riferisco aiprogrammi televisivi, che sem-brano tutti “fatti con lo stampino”da almeno dieci anni, peggio an-cora dei vari telegiornali che sonoproprio tutti uguali.Sto parlando dei concorrenti delGrande Fratello, tutti conformi a unmodello standard tristissimo, quellodella volgarità estrema. Sì, la volga-rità dei gesti, delle parole, degli at-teggiamenti è il denominatorecomune che unisce, tra loro, quasitutti i reclusi della “casa”. E li uni-sce anche alla presentatrice, Alessiaa gambe sempre aperte Marcuzzi. Mapossibile che nessuno abbia maifatto notare a questa povera ra-gazza – addirittura capace la scorsaedizione di sedersi sul pavimentodello studio, sempre rigorosamentea gambe aperte, spalancandoun’ampia panoramica sulle propriabiancheria intima – che, in video,assume delle posture che fanno a

pugni con un minimo di eleganzae di buon gusto? Oddio, non è chesiano tanto più signorili gli autoridella trasmissione, che ricordano aogni piè sospinto il premio finale dialcune centinaia di migliaia euro,come fosse l’unica molla a spingerequesta variopinta umanità aesporre le proprie miserie alla vistadi qualche milione di guardoni. Equi cominciano le rogne vere, per-ché sarebbe necessaria una com-missione di psicologi, sociologi eantropologi per cercare di capireche cosa possa indurre alcuni mi-lioni di persone normali ad abbrut-tire il proprio spirito davanti alleincredibili esibizioni dei “ragazzidella casa”. Forse la solita voglia disentirsi migliori?A farci respirare, fortunatamente,c’è la Gialappa, che non ne lasciapassare una sia alla conduttrice siaai concorrenti. Di più, per farci ca-pire il livello di squallore (o di cru-deltà?) dell’ufficio casting del

programma, non ha mancato diproporre una selezione – mamma-mia! Una selezione… Chissà glialtri! – dei provini, dove quasi nes-suno dei candidati, per esempio, hasaputo dare una risposta sensata, oalmeno non insensata, alla richiestadi dichiarare il proprio “tallone diAchille”.A ben pensarci, coloro che neescono meno peggio sono proprioi reclusi del Grande Fratello. Perchéfanno pena, fino alla tenerezza. Ab-bagliati dal miraggio di diventareVip, e di guadagnare un sacco diquattrini, si prostituiscono fino a unpunto di non ritorno, rimanendomarchiati a vita da quel suffisso –“del Grande Fratello” appunto –che li accompagnerà per tutta lavita. Pochi finora hanno avuto lacapacità di affrancarsene, e di fardimenticare questa squallida ori-gine mediatica. Per tutti, Luca Ar-gentero; e pochi altri che si possonocontare sulle dita di una sola mano.Non ritengo sia indenne da questobaratro di volgarità l’editore ditanto spettacolo. Vorrei chiedergli – se mai fosse per-sona abituata a rispondere alle do-mande – se sarebbe contento di farassistere i suoi figli adolescenti, o isuoi nipoti, a una porcheria simile.Ma forse conosco la risposta, diret-tamente ispirata dal dio denaro.Mi sono sempre ribellato a ogniforma di censura, come espressionedella più proterva volontà di an-nientare, nella gente, il senso e lacapacità di critica. Ma devo dire

che, di fronte a questo osanna allavolgarità, comincio a capire quellastriscia di carta bianca, incollata, aitempi della mia adolescenza, suimanifesti e le locandine dei film edegli spettacoli più “sconvenienti”,che prescriveva «V.M. di 16 anni».Forse, adesso, sul cartellone delGrande Fratello si dovrebbe scrivere«V.M. di 99 anni»…Per continuare con il giro di volga-rità e stupidità sui media di oggi, virimando all’ultima pubblicità diMarc Jacobs. Ma tenetevi forte, eh!

Tutti vediamo la volgarità del GrandeFratello, ma nessuno ne parla

Sono in video, ergo sumdi Silvano Tommasoli [email protected]

Vi diremo qualsiasi cazzata vorrete sentire

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Ne hanno viste di cose, questi occhidi Paolo Corsi

GTV Niù e Micromega con due diverse rappresentazioni del testo di Mary Chase

Un’immagine di scena del GTV Niù

Ho passato quasi quarant’anni a combattere contro la realtà,

ma alla fine ho vinto io,uscendone fuori …

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Agosto 20112 Teatro

Segue dalla prima

Segue dalla prima

rappresentazione di questo stes-so testo da parte di due diver-se compagnie: GTV Niù (con la regia di Roberto Adriani) e Micromega (con la regia di Andrea Di Clemente e Renato Biroli). Non si è trattato affatto, tuttavia, di due spettacoli foto-copia. Al contrario, il taglio in-

terpretativo è stato molto diver-so e ciò forse proprio grazie alla particolarità del testo, con le sue molteplici chiavi di lettura.GTV Niù ha fatto riferimento alla versione italianizzata, dal titolo “Amilcare”, dandone una rappresentazione simbolica, marcatamente grottesca e sur-

reale. La scenografia è scarna e stilizzata, con prevalenza del nero, e con elementi scenici al-tamente simbolici: uno su tutti, il quadro che avrebbe dovu-to rappresentare la madre di Elwood (qui, Elio Santi) sostitu-ito poi dal ritratto del coniglio, è una cornice bianca, vuota,

pendente dal soffitto in mezzo alla sala e dietro alla quale si vanno a disporre i personaggi. Il trucco è volutamente esage-rato su visi pallidi e disuma-nizzati, più caricature di certa umanità che persone in carne ed ossa. I costumi sono svin-colati dalla funzione di conno-

tazione dei personaggi e sono anch’essi strani, dalle fattezze e colori improbabili. In mezzo a questa anormalità, spicca la normalità (“una dolce figura umana”) di Elio Santi, proprio colui che il testo vorrebbe paz-zo e visionario.Una provocazione che mira a ribaltare i ruoli, mettendo sot-to accusa la paura del diverso, quando in realtà siamo tutti di-versi per qualcun altro.L’idea è interessante ed anche coraggiosa, certo non la scelta più scontata e a ciò va dato me-rito. Si tratta però anche della più impegnativa, perché esige rigore registico ed interpreta-zione intensa, che molto si af-fida al linguaggio non verbale. Da questo punto di vista la per-formance non ha convinto del tutto. Alcune approssimazioni registiche e qualche impaccio scenico non hanno giovato al meccanismo congeniato, la-sciando lo spettatore disorien-tato tra la linearità della vi-cenda dettata dal testo e la sua rappresentazione simbolica. Rimane comunque un lavoro apprezzabile ed una scelta da incoraggiare.Micromega si è affidata invece di più al testo, assecondandolo nella maniera più lineare e rea-

listica, scegliendo un approccio diretto, con poco spazio a me-diazioni concettuali, lasciando che il messaggio emergesse in maniera spontanea dal testo. La scenografia è realistica (i mobi-li sono mobili e i quadri sono quadri …) e particolareggiata. I costumi danno l’immediata connotazione ai personaggi (i medici hanno il camice ed an-che gli altri sono vestiti come in fondo ci si aspetta). Gli attori si sono mossi con disinvoltura, chiamati ad azioni quotidiane e ad una recitazione naturale, solo con qualche difficoltà ini-ziale a prendere il ritmo giusto. Insomma, una rappresentazio-ne di tipo tradizionale, ma ben curata e ben condotta, con una regia molto ordinata e attenta anche ai momenti secondari, come i cambi scena e i saluti finali. Tra gli interpreti di que-sta compagnia hanno suscitato particolare apprezzamento En-rico Pasetto (Elwood) e Ilaria Duzzi (Veta).In definitiva, quella che poteva essere solo una sfortunata coin-cidenza, si è rivelata una ghiot-ta occasione di approfondimen-to di un testo che evidentemen-te ha ancora molto da dire.

La sera in riva al fiumeTeatro nell’angolo più bello di Verona

di Stefano Campostrini

Appuntamenti culturali

Quella del Teatro Impiria nel contesto della sua arte scenica è una delle realtà più prolifiche e dinamiche sul territorio della città. Il Circolo Ufficiali di Castel-vecchio rappresentato in parti-colare dal Gen. Modaudo, in-sieme ad Andrea Castelletti di Impiria hanno organizzato per i mesi di luglio e agosto quattro serate teatrali da apprezzare nella splendida cornice della Terrazza sull’Adige. Tre han-no già avuto luogo: il 12 luglio è iniziata la rassegna con “Il ponte sugli oceani. Amori” di Raffaello Canteri e la regia di Castelletti. Presentata da Tea-tro Impiria con Acoustic Duo,

ha fatto rivivere l’epopea di una famiglia di emigranti ita-liani attraverso quattro gene-razioni fino ad oggi. Grandi e piccole avventure che i nostri antenati hanno vissuto in giro per il mondo, tra gioie e dolori, sogni e sofferenze.Il 26 luglio è stata la volta di “Copenhagen” di Michael Frayn, proposta dalla Com-pagnia La Betulla di Brescia per l’adattamento e la regia di Bruno Frusca. L’incontro e il confronto nel 1941 tra il fisico danese ed ebreo Bohr e il suo allievo Heisenberg, disposto a collaborare col regime nazi-sta per continuare le ricerche. Una riflessione sul potere della

scienza e le conseguenze degli atti umani in un periodo stori-co così tragico.La terza data, il 2 agosto scor-so, ha visto in scena “La Gran-de Guerra” scritta e diretta da Carlo Bertinelli. Teatro Ortaet di Padova ha scelto di ricordare invece il primo con-flitto mondiale, con una serie di frammenti storici coniuga-ti in proiezioni video e audio multimediali, affascinanti ed emozionanti per i contenuti e la resa visiva. Lettere, discorsi, proclami, voci e suoni di un’e-poca per molti versi tristemen-te indimenticabile.Di questa proposta culturale tra Impiria e il Circolo Uffi-

ciali manca un’ultima serata il 23 agosto. Chiuderà proprio la compagnia di Andrea Castel-letti, regista di “Sognavamo di vivere nell’assoluto” di Raffa-ello Canteri. Anche in questo caso grande storia protagonista con le vicissitudini realmente accadute di un gruppo di ar-tisti aderenti al futurismo. Le giovani passioni dei protagoni-sti in contrasto con le dittature e la guerra poi incombente che avrebbe purtroppo cancellato le loro opportunità e nel caso di uno di loro, avrebbe tolto la vita. Entusiasmi e drammi per una rievocazione da non perde-re, opportunità al Circolo Uffi-ciali di Castelvecchio.

Informazioni utili

info@teatroimpiria.netwww.teatroimpiria.net340.5926978Prenotazioni in Segreteria al numero 045.8002868Ingresso 10€, soci 8€

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Dalla Commedia dell’Arte a Shakespeare

Per questioni anagrafiche non ho avuto il piacere di assistere a uno spettacolo di Ezio Maria Caserta, scomparso prema-turamente nel 1997. In molti, però, mi hanno parlato della sua personalità e di quel “toc-co” in più che dava ai lavori originali o agli adattamenti che realizzava. A lui è dedicato “La Tempesta. Pre/Testi”, vera perla dell’Estate Teatrale Vero-nese. Accanto a una stagione al Teatro Romano che ha fatto dell’innovazione il fil rouge (con un Otello a dir poco imbaraz-zante), lo spettacolo del Teatro Scientifico/Laboratorio, per la regia di Yana Balkan e Isabella Caserta, fa della ricerca storica il punto di forza, affiancando alle parole del drammaturgo di Stratford, quelle dei canovacci della Commedia dell’Arte a cui proprio Shakespeare si sareb-be ispirato per “La Tempesta”. Nello scorrere ritmato dello spettacolo, emergono continua-

mente rimandi e somiglianze tra i personaggi dei canovacci e quelli shakesperiani: il Mago sembra essere l’antenato di Prospero, così come il Selvati-co quello di Calibano, oppure, sempre agli occhi di chi l’ha visto (e sentito), lo Zanni “vene-ziano” sembra il futuro Trincu-lo shakespeariano. La regia, at-tenta, a non dimenticare il testo shakesperiano, ha enfatizzato in più quadri e momenti teatra-li, i punti salienti di questa “ma-gica” commistione, restituendo un lavoro di una coralità asso-luta, in cui a emergere è -oltre alla validità delle scene, dell’al-lestimento e degli effetti specia-li- la bravura degli attori. Non c’è protagonista principale. Nemmeno la presenza impor-tante di un eccellente Roberto Vandelli (Prospero), è offuscata da quella di Calibano, imper-sonato con intelligenza e argu-zia da Francesco Laruffa, così come l’istrionico Andrea de

Manincor che veste i panni, a rotazione, cambiando postura, voce, timbri e accento dei vari Nostromo, Trinculo e Zanni, non mette in seconda luce la presenza scenica di Maurizio Perugini (Stefano e Pantalone). Unica donna in scena, poliedri-ca e garbatissima nelle sue mo-venze, è Elisa Bertato (Miran-da e Ninfa). Ma se a tessere le sorti dei “malcapitati” sull’isola è la magia, ecco apparire, sotto forma di led, Ariel, spirito imper-sonato dalla voce suadente e ipnotica di Isabella Ca-serta. Fanno da corollario g i o c o l i e r i , acrobati e t r a mpol ie r i che colorano l’isola anche

La tempesta: eccellente Teatro Scientifico“Fuoco incrociato”: due opinioni sullo stesso spettacolo

Agosto 2011 3Teatro

nei momenti in cui il mare in burrasca rende tutto grigio. A “narrare” la vicenda è un gio-vanissimo Luigi Vandelli che apre e chiude lo spettacolo con prologo ed epilogo, a testimo-nianza di quanto il teatro fac-cia bene farlo e vederlo fin dalla più giovane età.

Federico Martinelli

Ne hanno viste di cose, questi occhi

L’incanto ha rivestito la sce-na nello spettacolo del Teatro Scientifico:“La Tempesta, Pre-testi” in replica l’1 e il 2 agosto pres-so la nuova sede nello spazio dell’Arsenale.Spazio teatrale che si è fatto mare, isola, bosco, che diven-ta luogo virtuoso nel momento in cui il vero bosco all’esterno diventa scena, nel momento in cui la rappresentazione è veri-tà contestualizzata in un luo-go, appunto, non deputato alla finzione (il bosco in un vero bosco). L’itinerante con il pub-blico che fa parte dell’impian-to drammaturgico, potrebbe essere “film già visto”, certo nulla toglie alla sua efficacia.Partitura compiuta nella sug-gestione del suggestivo in cui l’aggiungere non ha creato sovrabbondanza ma fluidità e ritmo. La messinscena si è rivelata efficace nel porre in luce la contaminazione tra

alcuni frammenti della Tem-pesta shakespeariana e alcuni canovacci della Commedia dell’arte: gioco di alternanze nelle corrispondenze tra i due generi che hanno dato vita ad una continuità espressiva dai toni freschi, dando credibilità al confronto tra i due linguag-gi. Un buon lavoro di ricerca che dell’integrazione ha fatto il suo cavallo di battaglia, che ha saputo, nonostante alcune ingenuità, fare virtù dell’arte dell’improvviso, di cui comun-que il Teatro Scientifico è ma-estro: personaggi che entrano, escono, si cambiano in scena, volteggiano, piroettano.Soluzione registica molto inte-ressante che di Ariel, lo spirito amico di Prospero, ne ha fatto un mobilissimo led proiettato in sala e su di uno schermo a fondo scena che si muove e si esprime attraverso la voce fuo-ri campo di Isabella Caserta che con maestria ed intensità

si connota di sonorità oniriche e sensuali, creando stupore ed aspettative più emotive che conoscitive, che è presenza e ponte di collegamento, di-mensione incantata senza so-luzione di continuità. E che dire di Calibano che con le sembianze di un Gollum vie-ne descritto come arrabbiato nel suo dialogo con Prospero,

ma anche nella dimensione dialettica con il Selvatico della Commedia dell’Arte? Il gioco regge e regala agli spettatori una lettura di collegamento tra i due generi che come in un’orchestra, pur mantenendo integre le diverse sonorità de-gli strumenti, si compongono in un’unica armonia.

Paola Bellinato

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Un’estate di teatro, alle porte di VeronaParona: nove anni di spettacoli e successi…Aspettando le dieci candeline

Nove anni di grande teatro e musical a Parona di Valpolicel-la, frazione del comune di Ve-rona che ci ha abituati a spetta-coli di alto livello. Parona, un tempo importante porto affacciato sull’Adige, ha alle spalle una storia da vera protagonista: è stata un’antica porta d’accesso a Verona per le merci provenienti dal Nord Europa, così antica che le pri-me notizie scritte inerenti al suo territorio risalgono al 954. Controllato dall’Abbazia di San Zeno, il paese diventa, nel 1165, proprietà della famiglia Monticali, una delle più poten-ti nel veronese. Adagiata sulla strada romana Claudia Augu-sta Padana, Parona ha sempre sfruttato la sua posizione stra-tegica, puntando all’espansio-ne delle proprie attività econo-miche e commerciali, come la lavorazione della pietra e della lana.Mille anni più tardi, in questa cittadina alle porte della Valpo-licella, si sceglie di investire nel-la cultura, come dimostra il fit-to programma della 9° edizione di “Estate Teatro Parona”, la rassegna di teatro e musical che intrattiene veronesi (e non solo) in queste sere d’estate. Un cartellone ricco di spetta-coli per quindici appuntamenti suddivisi nei mesi di Luglio e Agosto: nel giorno del debutto, il 1 Luglio, la Compagnia “Le contrade di Settimo”, accanto-nato l’impegno civile, ha pre-sentato una commedia leggera dal titolo “E il nonnetto, dove lo metto?”. Risate amare suscitate da una trama ricca di complot-ti, intrighi politici (e intrugli diuretici) nella villa di campa-gna della famiglia Orsi, dove tutti si recano per festeggiare il compleanno del centenario “nonnetto”, spinti da un sincero attaccamento. All’eredità.

Grande attesa anche per i mu-sical in programma: l’8 Luglio è stata la serata del Piccolo Teatro del Garda con “Sugar – A qualcuno piace caldo”, basa-to sull’omonimo film di Billy Wilder del 1959, trasformato in musical qualche anno più tardi. Il 15 Luglio è toccato a “Misura per misura”, adattamen-to moderno, con canzoni di Zucchero, della famosa opera di William Shakespeare. Musi-ca e risate sono state il filo con-duttore anche della serata del 22 Luglio: il musical “Due padri di troppo”, liberamente ispirato a “Mamma Mia”, è garanzia di un successo assicurato grazie alla musica degli Abba e agli in-trighi amorosi. In “Jesus Christ Superstar”, in programma per il 5 Agosto, le vicende dell’ultima settimana della vita di Gesù sono rivisitate in chiave mo-

Agosto 20114 Teatro

derna, mantenendo inalterati i testi (in inglese), la composi-zione musicale e la narrazione biblica. Tra gli altri appuntamenti ago-stani, “El Tano e la Cesira en tele-vision” della compagnia “I Got-turni” (sabato 6 agosto), per ri-dere (e perché no, per riflettere) della nostra TV, dei divanetti e delle poltrone, degli ospiti e de-gli esperti, degli applausi finti e delle lacrime facili; ancora dia-letto veneto con “Veci se nasse no se diventa” e “Meio tardi che mai”, in programma rispettivamente il 19 e il 20 di Agosto. Chiu-dono la rassegna, venerdì 26 e sabato 27 Agosto, “I shake you” del Teatro Impiria e “Harvey”, la storia di Elwood, un gen-tiluomo di mezz’età convinto di vedere Harvey, un grosso coniglio bianco alto un metro e ottantasette centimetri. No-

nostante il coniglio Harvey non esista, vale la pena dire qualche parola in più su quest’opera te-atrale. “Harvey” nasce nel 1943 dalla pena della scrittrice ame-ricana Mary Chase, debutta a Broadway lo stesso anno e nel 1944 fece vincere il premio Pulitzer alla sua autrice. Dopo soli 7 anni, le repliche dello spettacolo ammontano a 1775. Figuratevi se Harvey esistesse veramente…

Accontentiamoci di dire che il teatro, come la vita, è un sogno, senza preoccuparci

troppo della menzogna

Jean-Louis Barrault

Ne hanno viste di cose, questi occhidi Alice Perini

Così parlò Eatwood

Che gusto c’è a ridere via sms per le sventure altrui? Eat-wood lo fa, spesso. Infreddo-lito, ripiegato su me stesso e pregno di umidità, gioco con il cellulare al concerto di Battiato che, dalla distanza in cui l’osservo appare come un atomo indefinito. Chissà perché ma sento la presenza di Eatwood nell’aria. Come è possibile, in piedi, a parec-chie decine di chilometri di distanza da casa sua? (…e dal palcoscenico?) Mentre l’or-chestra suona arrangiamenti da musica rock, mi avvicino al chiostro delle patatine e rifletto…vabbè, una porzione senza salse, non farà male a nessuno. Patatina dopo pata-tina ripercorro i miei ultimi 1095 giorni. Decido di chia-marlo per fargli ascoltare una canzone e per avere gli ultimi aggiornamenti sulle elezioni dei vescovi d’Italia. Rispon-de ansimante, sono basito… la sua voce trasmette un’an-sia che non gli appartiene. Sarà mica andato a correre alle 23.30 e poi…quando mai aveva avuto la passione per qualche attività che non fosse il volantinaggio estremista o il bigottismo massimalista e radicale? Chiedo spiegazioni ma non ottengo risposta. Vo-lendo approfondire gli faccio video chiamata e…lo vedo intento a mangiare carne ros-sa in un circolo di sovversivi laici. Ahn, dimenticavo. Tutto questo succedeva un venerdì.

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tradizionali comportamenti di campagna si misurano con la grande città in espansione. A concludere la rassegna, il 14 agosto, “Voria cantar…Berto”, uno spettacolo scritto e diretto da Mauro dal Fior. Un percor-so a ritroso nella vita di Berto Barbarani, attraverso poesie, aneddoti e canzoni.Gli spettacoli inizieranno alle 16.30. Giusto il tempo di acco-modarsi in un luogo affascinan-te dopo una passeggiata fra le alture della Lessinia.

Informazioni utili

Biglietto d’ingresso: 10 euro.Rifugio Valbella:tel. 349/3618702.Il programma dettagliatoè consultabile sul sitowww.teatroimpiria.net

Agosto 2011 5Teatro

Non vado mai al cinema, la vita è troppo breve

A teatro con la “pancia piena”Parole, musica e cibo: ecco gli ingredienti del Rifugio Valbella in Lessinia

di Daniele Adami

Il teatro è un’esperienza che coinvolge più sensi. Lo sguar-do si volge a ciò che avviene sul palco, l’udito afferra, racchiude e custodisce i suoni, il tatto ci porta a sentire sulla pelle il luo-go concreto della rappresenta-zione, il naso scopre odori nuovi o nascosti da tempo.Al Rifugio Valbella, sui prati della Lessinia a pochi passi da Erbezzo, il 10 luglio scorso ha preso il via la prima edizione di “Storie a pancia piena”, una rassegna di sei racconti teatrali organizzata dal Teatro Impiria. Pertanto, come ci suggerisce il titolo, anche il quinto senso, il gusto, avrà qui un ruolo molto importante. Infatti, chi acquista il biglietto potrà mangiare del pane con una fetta di salame fatto in casa, accompagnando il tutto con un sorso di vino. Un modo diverso per assaporare questo mondo.Ma torniamo, ora, agli altri sensi. Lo scenario dell’evento è incantevole: una vecchia malga in stile cimbro. Si annuseran-no gli odori di un passato non troppo lontano, quando il “mal-garo” badava alle mandrie e si nutriva con quel poco che ave-va a disposizione. Il pubblico si adagerà su balle di fieno su cui è stata sistemata una seggiola di legno. L’atmosfera si complete-

rà grazie alle voci degli attori e ai suoni degli strumenti musi-cali che li seguiranno nel corso degli spettacoli.Domenica 10 luglio, data del primo appuntamento, Fon-dazione Aida ha presentato “Il lungo viaggio”, una riela-borazione alla maniera della commedia dell’arte di uno dei capolavori di Dario Fo, “Joan Padan alla descoverta delle Americhe”. Una storia, questa, che affronta sia il tema della scoperta di una nuova terra che (e soprattutto) lo svelare di una visione più ampia e aperta della propria esistenza.Il 17 luglio, sul palco del rifugio è stata rappresentata “Il ponte sugli oceani. Amori”, la prima delle tre opere che compon-gono la cosiddetta “Trilogia della Lessinia” dello scrittore veronese Raffaello Canteri. La prosa del racconto, che narra le vicissitudini di quattro generazioni di una famiglia di emigranti della Lessinia, viene trasformata in spettacolo teatrale ac-compagnato dalla musica dell’Acoustic Duo (Stefano Bersan e Antonio Canteri).La domenica successiva, invece, l’artista trevigiano Gigi Mardegan ha pre-sentato la sua ultima pro-duzione: “Diese franchi de aqua de spasemo”. La scena è ambientata in una stalla divenuta ambulato-rio, dove un medico con-dotto di campagna illustra

l’umanità contadina veneta del-la prima metà del secolo scorso.Nell’ultimo giorno di luglio, il secondo capitolo della “Trilo-gia”. In quest’opera Raffaello Canteri rievoca la vera storia del pittore Verossì e del suo gruppo di giovani artisti, che nella prima metà del Novecen-to hanno cercato nuovi modi per esprimere l’arte attraverso la pittura, la letteratura, la mu-sica e la scultura. Una vicenda che ha dato vita a “Sognavamo di vivere nell’assoluto”.Domenica 7 agosto, terzo e ultimo capitolo: “America”. Un viaggio nel tempo, ancora scandito dalle note dell’Acou-stic Duo. Una famiglia che da Sant’Anna d’Alfaedo si sposta in California, a Hollywood, e che diviene miliardaria. An-cora un racconto che poggia sulla realtà, in cui i semplici e

Uno spettacolo si può prepa-rare in un mese. Improvvisare,

invece, richiede una vita

Pino Caruso

L’interno della malga e uno scorcio della meravigliosa Lessinia

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di Lorenzo Magnabosco

Appuntamenti culturali

Teatro nei Cortili: continuaProgramma del mese di agosto

Anche in agosto interessanti e numerosi sono gli appunta-menti con la Rassegna “Tea-tro Nei Cortili’’, organizzata e promossa dall’Assessorato alla cultura del Comune di Verona. Presso il Chiostro di Sant’Eu-femia il 3 (fino al 12) agosto la Compagnia Teatro Armathan presenta “Buon Compleanno’’ di Massimo Meneghini. Una coppia scopre che il sentimento di un tempo si è ormai spento. Per rianimarlo servono novità, nuovi stimoli che portino nuo-va vita in un rapporto in via d’esaurimento. Carlo, uno dei protagonisti, si trova invischia-to in un gioco dove si alterna-no passione e divertimento, e coinvolge Adele, la compagna di vita, in situazioni che risul-teranno per entrambi indimen-ticabile. Dal 13 al 21 agosto sarà la volta della compagnia Lavanteatro con la commedia “Cognate disperate (L’amaro sapore della verità)’’ scritta da Eric Assous. Tre cognate molto diverse tra loro: Mathilde, in-tellettuale disingannata, Chri-stelle, immobiliarista un po’ snob e l’ingenua Nicole, che attira su di sé l’antipatia delle altre due. Prosegue la rassegna la compagnia La Pajeta dal 24 al 28 agosto con “Hotel-ma’’, opera di scrittura collettiva dell’intera formazione che si presenta con lo pseudonimo di Paul Putcho. Nell’improbabile alberghetto veneziano, Hotel-ma, si sono dati appuntamento tutti i più celebri personaggi shakespeariani. Un delitto vie-

ne a turbare im-provvisamente la serenità dell’hotel e la soluzione del mistero farà sorge-re sordide trame e intrecci imprevedi-bili. La compagnia S c a c c i a p e n s i e r i presenterà dal 30 agosto al 2 settem-bre con un lavoro di Neil Simon dal tito-lo “La strana cop-pia’’. Oscar, abitua-to ormai a vivere da single, accoglie in casa Felix, cacciato di casa dalla mo-glie. Quest’ultimo soffre per l’abbandono coniugale e cerca di ricostruire con l’amico un ambiente familiare svolgendo instancabilmente tutti i lavori e di casa e sforzandosi di met-tere norme di educazione al padrone di casa e ai suoi amici di squallide serate a poker. La convivenza e l’amicizia tra i due sono messe a dura prova. Nel Chiostro di Santa Maria in Organo, dal 2 al 10 agosto, gli spettacoli iniziano con “Un nemico del popolo’’ di Henrik Ibsen, interpretato dagli atto-ri di Trixtragos. Questo testo è ambientato nell’800 in uno stabilimento termale di una piccola cittadina norvegese. Il dottor Stokmann si accorge che l’acqua su cui si regge l’e-conomia cittadina è inquinata. Essendo risoluto a prendere ri-soluzioni drastiche per evitare la diffusione di malattie , fini-

sce con lo scontrarsi con l’in-tera comunità che arriverà ad isolarlo. La regia fa emergere con vigore l’attualità dei temi trattati. Il CMT- Musical The-atre Company è in scena dal 13 al 22 agosto con “Aida’’ di Elton John e Tim Rice, musi-ca basata sul celebre libretto di Giuseppe Verdi. La vicenda è attualizzata in epoca moderna ritrovando i grandi conflitti di civiltà e culture e le grandi pas-sioni amorose. La musica spa-zia dal gospel, al pop, fino al rock melodico, avvalendosi an-che della presenza importante di cori. La compagnia Tabula Rasa dal 24 fino al 29 porta sul palcoscenici “E se tornassimo all’isola che non c’è?’’ di Sara Callisto. Partendo dal roman-zo di Barrie, con una trama e una collocazione temporale diversa, viene raccontata la necessità di raccontare la gio-

ia della scoperta il desiderio di giocare e non prendersi troppo sul serio. Apre le rappresenta-zione al Cortile dell’Arsenale l’Estravagario con “Balera Pa-radiso’’ di Alberto Bronzato e Riccardo Pippa. Lo spettacolo, liberamente tratto dal fil “Bal-lando ballando’’ di Ettore Sco-la, ripercorre in un’ora e mez-za cinquant’anni di vita in una balera del Nord Italia. Solo musica, balli, rituali del sabato sera o domenica pomeriggio; non vi sono dialoghi o parole tra le persone e sullo sfondo il tempo che passa inesorabile. Conclude il mese di agosto in Arsenale la Compagnia Ei-naudi-Galilei, dal 23 al 28, con “Arrivi e partenze’’ di Thotn-ton Wilder. Vi sono molti temi cari all’autore americano che sa cogliere la povera poesia del quotidiano e la sublime bellez-za delle stelle.

Agosto 20116 Teatro

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di Lorenzo Magnabosco

Appuntamenti culturali

Agosto 2011 7L’evento

Rievocazione battaglia di Rivoli V.seHa rivissuto un momento importante della storia locale

214 anni fa, Verona e il terri-torio veronese si trovarono al centro dello scacchiere politico e militare europeo, essendosi combattute sul suo territorio le due decisive battaglie (quella di Arcole, del novembre 1796) e quella di Rivoli del 14-15 gen-naio 1797, che determinarono la vittoria di Napoleone Bona-parte sulle armate imperiali d’Austria, nella prima campa-gna d’Italia. All’epoca Verona faceva parte integrante della Serenissima Repubblica di Ve-nezia e le popolazioni non man-carono di far sentire il proprio affetto in favore del legittimo governo veneto con una serie d’insurrezioni popolari anti-francesi di vasta portata, deno-minate insorgenze, di cui la più celebre e fra le più importanti in Italia furono le Pasque Vero-nesi, scoppiate tre mesi dopo la battaglia di Rivoli, nell’aprile 1797.E proprio a Rivoli Veronese, con la partecipazione di grup-pi storici di fanteria, artiglieria e cavalleria francese, austria-ca e veneziana di fine ‘700, si è tenuta sabato 9 e domenica 10 luglio, una grande rievo-cazione storica della battaglia napoleonica ivi combattuta e delle insorgenze antifrancesi e antinapoleoniche che costel-larono il territorio circostante, insorgenze scoppiate in difesa della Serenissima Repubbli-ca di Venezia e della religione cattolica profanata dai giacobi-ni. L’evento, patrocinato dalla Regione del Veneto, è stato re-

alizzato dal Comune di Rivoli Veronese, in collaborazione con il consorzio di Comuni B.I.M.A., con l’associazione napoleonica Armée d’Italie e con il Comitato per la celebra-zione delle Pasque Veronesi.

Caratteristica di questa rievo-cazione è stata non soltanto la fedele ricostruzione della de-cisiva battaglia fra due grandi eserciti europei, ma la volontà di ribadire la presenza delle milizie venete sul campo, in un territorio che all’epoca fa-ceva parte integrante della Se-

renissima; altra particolarità, l’attenzione alle popolazioni e agli altri fatti d’arme accadu-ti, vale a dire alle spontanee sollevazioni popolari contro i rivoluzionari francesi di Bona-parte, documentate anche con

una mostra fotografica al forte di Rivoli dedicata appunto alle Pasque Veronesi.Di particolare suggestione la battaglia notturna ricostruita in centro del paese e che ha avuto luogo sabato sera, all’im-brunire: sono stati rievocati dapprima scontri fra insorgenti

per San Marco e truppe napo-leoniche (nelle divise blu repub-blicane); quindi l’intervento a favore degl’insorti veronesi, affiancati da soldati veneti, da parte delle truppe dell’Impera-tore d’Austria, nelle loro candi-de uniformi. Infine la reazione rabbiosa dei rivoluzionari fran-cesi, che arrestano gl’insorgenti, li fucilano al muro di una chie-sa, mentre gl’indomiti patrioti veneti gridano sino alla fine, mentre cadono sotto il piombo nemico, Viva San Marco! e la loro fedeltà al governo veneto.Domenica 10 luglio, invece, la rievocazione della vera e pro-pria battaglia di Rivoli, dap-prima in paese poi sotto il forte: si sono affrontati, con armi e cannoni ad avancarica in tutto simili a quelli del tempo, cen-tinaia di militi storici austriaci e francesi, con in più quelli ve-neziani chiamati a presidiare il territorio veneto.La folla di abitanti e di turisti accorsi dalle vicine sponde del Lago di Garda ha potuto così ammirare, oltre alle armi d’e-poca, al brillio delle spade e al fragore dei cannoni durante le evoluzioni militari, anche l’at-tendamento dei soldati a Rivoli, con visite guidate all’accampa-mento, abbinando così vacanze e cultura, riposo e un tuffo nel passato.

Per informazioni e contatti: [email protected].: 347.3603084

è on-line il nuovo sito di Verona èwww.quintaparete.it

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Agosto 20118 Arte

Il Palazzo Reale di Milano ospita dal 6 luglio, per tutto il mese di agosto e fino all’11 settembre, una retrospettiva di Nag Arnoldi, lo scultore sviz-zero più apprezzato a livello internazionale. Nell’occasione si potranno ripercorrere gli ultimi trent’anni di carriera dell’artista elvetico attraver-so le 50 opere presentate. L’e-sposizione è curata da Rudy Chiappini, sotto l’Alto Patrona-to della Presidente della Confe-derazione Svizzera Micheline Calmy-Rey, col sostegno della Pro Helvetia, sponsor Société Générale. L’allestimento, cura-to da Mario Botta, è organiz-

zato secondo un vero e proprio percorso tematico, capace di affrontare le tendenze artisti-che che hanno ispirato le opere dello scultore dal 1980 a oggi. Particolare attenzione sarà ri-servata al Ciclo degli Astati e dei Guerrieri, con una predi-lezione anche per le opere ispi-rate al mondo animale, con le sculture del Ciclo dei Cavalli, dei Tori e dei Minotauri, questi ultimi caratterizzati da dimen-sioni monumentali, che rag-giungono anche i tre metri di altezza. Troveranno spazio an-che alcune opere di tema sacro.Lo scultore vanta grandissima fama a livello internazionale.

Le sue opere sono state espo-ste nei più importanti musei del mondo come, tra gli al-tri, il Museo National de Arte di Città del Messico (1964) il Museo di San Diego in Cali-fornia (1968), Palazzo Strozzi a Firenze (1981) e Palazzo dei Diamanti a Ferrara (1990), il Museo Olimpico di Losanna (1999) e il Museo di San Pie-troburgo (2003). Grandissimo successo anche con l’ultima grande antologica nel sugge-stivo scenario del Castelgrande di Bellinzona nel 2008, dove la mostra ha ottenuto grandissi-mo riscontro di pubblico, con oltre 300 mila visitatori.

Nag Arnoldi al Palazzo Reale di MilanoNella città lombarda retrospettiva sulle opere dello scultore svizzero

Informazioni

NAG ARNOLDI SCULTURE 1980 - 2010 6 luglio – 11 settembre 2011

Orari mostra: Lunedì ore 14.30 – 19.30 Martedì, mercoledì, venerdì, domenica ore 9.30 – 19.30 Giovedì e sabatoore 9.30 – 22.30 Ultimo ingresso un’ora prima della chiusura

INGRESSO GRATUITO

di Francesco Fontana

La vita non imita l’arte, imita la cattiva televisione

è on-line il nuovo sito di Verona èwww.quintaparete.it

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Agosto 2011 9Cinema

Marco Bellocchio sarà premiato alla 68a edizione del festival lagunare

di Francesco Fontana

Visto abbastanza?

Leone d’Oro per Marco BellocchioIl regista sarà premiato alla prossima Mostra di Venezia

Un giusto riconoscimento per uno dei più grandi registi italia-ni contemporanei. Il cinema di Marco Bellocchio si è da sem-pre fatto riconoscere per la de-nuncia sociale esplicita, forte e intelligente, espressa soprattut-

-ticolar modo tra gli anni Ses-santa e Settanta, denunciavano la condotta riprovevole di una borghesia arrogante e ipocrita, che piegava la verità al proprio volere attraverso l’uso della re-pressione. Diplomato in regia al Centro Sperimentale di Cinematogra-

Bellocchio esordisce sulla sce-

primo lungometraggio I pugni in tasca (1965). Il periodo cal-do, delle contestazioni, delle lotte operaie e della guerriglia urbana, suggerisce al giovane regista i temi di molti dei suoi

-conformismo e sulla denuncia delle disdicevoli abitudini delle classi al potere. Pellicole sul ge-nere sono La Cina è vicina (1967)

Il popolo calabrese ha rialzato la testa. Dopo

Nel nome del padre (1972), capola-voro assoluto attraverso il quale il regista racconta la propria infanzia, arriva nello stesso anno Sbatti il mostro in prima pa-gina, pellicola eccellente per il coraggio e la forza con la quale mette in scena il funzionamen-to malato di certi meccanismi.

-

importante giornale di destra -

dattore, interpretato dall’icona del cinema di impegno politi-co-civile Gian Maria Volonté – di manipolare l’informazio-ne e la realtà in relazione a un omicidio, per fornire in pasto alla folla un colpevole, in real-tà innocente, preconfezionato e “politicamente” comodo. Nel-la pellicola si mescolano real-

della guerriglia urbana nella prima sequenza alternate alla

che merita di essere men--

do che porta con sé una

metafora, sin troppo evi-dente, della borghesia e della società governata da prepotenza e menzo-gne. A questa pellicola ne seguiranno molte di assoluto valore come,

tv Il Gabbiano (1977), Gli occhi, la bocca (1982), Dia-volo in corpo (1986), Il sogno della farfalla (1994), L’ora

di religione (2002) e Buongiorno, notte (2003). Con quest’ultimo il regista affronta la delicata tematica del Sequestro Moro e, capovolgendo la prospettiva, ci mostra la vicenda attraverso gli occhi di Chiara, una delle bri-gatiste coinvolte nel rapimento, interpretata magistralmente da Maya Sansa, che prova com-passione per il suo prigioniero e ne sogna la fuga.Così alla Sessantottesima Mo-stra Internazionale d’Arte

il regista piacentino sarà pre-miato con il Leone d’Oro alla carriera. È un ritorno a Vene-zia quello di Marco Bellocchio, che era già stato premiato nella città lagunare con La Cina è vi-cina, premio della giuria, e ave-va poi presenziato negli anni successivi con Matti da slegare, Vacanze in Valtrebbia, Il sogno della farfalla, Buongiorno, notte e, fuo-

Vengono sempre dopo ciò che è stato vissuto. È il primato della vita con le sue passioni e i suoi

fallimentiMarco Bellocchio

ri concorso, con Sorelle mai nel 2010. Nell’occasione sarà anche presentata una nuova versione di Nel nome del padre, pellicola ri-visitata e proposta nelle nuove vesti (più breve rispetto all’ori-ginale) dallo stesso Marco Bel-locchio.

Edito daQuinta Parete

Via Vasco de Gama 1337024 Arbizzano di Negrar, Verona

Direttore responsabileFederico Martinelli

Coordinatore editorialeSilvano Tommasoli

Assistente di redazioneStefano Campostrini

Hanno collaboratoDaniele AdamiPaolo AntonelliPaola Bellinato

Anna Chiara BozzaStefano Campostrini

Giulia CerpelloniPaolo Corsi

Francesco FontanaLorenzo MagnaboscoFederico Martinelli

Ernesto PavanAlice Perini

Silvano Tommasoli

Stefano Campostrini

Autorizzazione del Tribunale di Veronadel 26 novembre 2008

Registro stampa n° 1821

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Metti una sera d’estate. Met-ti che in casa c’è un caldo che ti senti in prigione, tipo L’isola dell’ingiustizia – Alcatraz. Met-ti che ti dicano che è in corso una rassegna – metti, anzi, un festival – di cortometraggi, che tutti chiamano i corti. Metti poi una delle piazze più suggestive di Verona, che è una delle città più suggestive del mondo.Non metterci altro, sei già sedu-to lì, seconda fila e programma in mano. Anche se…Anche se sono molti anni che non frequento più i festival e le rassegne di corti, che inclu-dono anche gli ultracorti. Cioè film che non durano più di tre minuti. Sono tutti gli spot pub-blicitari da 30”, e anche gli spot più lunghi – li chiamiamo “spottoni” – che appunto ar-rivano ai 180”. Sono stato in giuria una dozzina di volte e ne

avrò visti un diecimila…Torniamo al nostro festival. Sono seduto in seconda fila – mai in prima fila, mi è capitato di “agitarmi” e di essere visto e poi coinvolto in una polemica fastidiosa con uno dei capataz della critica cine italiana – ma dopo trenta-minuti-trenta mi capita di agitarmi. E mi ricor-do perché sono molti anni che non frequento ecc. ecc. Perché mi altero ogni volta e mi rovino la digestione. Farli alle nove di mattina questi festival, no eh? Che tuttalpiù mi si arresta sul-lo stomaco il cornetto. Quello buono con la crema, però, che prendo sempre. Perché mi sono agitato? Perché questi corti, molto spesso, troppo spesso, sono uno strumento fornito agli esibizionisti della macchina da presa (oggi telecamerina digi-tale, te la regalano anche se ti

associ ad Altroconsumo) per far vedere che loro ce l’hanno, la macchina da presa, confi-denzialmente m.d.p. E basta! Non hanno quasi altro: poco d’idea, pochissimo di soggetto, niente di sceneggiatura.Vedi della buona fotogra-fia, questo sì, perché spesso la strada è quella, dalla fotoca-mera alla m.d.p. Ma le storie che raccontano sono, troppo spesso, inesistenti. Eppure, un film, corto o lungo che sia, deve raccontare una storia di senso compiuto, deve dare uno straccio di emozione che non si fermi a livello degli oc-chi. Deve toccare il cuore e/o la mente dello spettatore, per non essere uno sterile esercizio di stile dell’Autore. Meglio, una sega mentale, come dice Claudio Giacobbe che ci ha pure fatto un libro e un mucchio di soldi.

Ce lo dicono sempre:non è la misura che conta

E allora, corto o lungo, che un film sia un film.

Visto abbastanza?

Forse perché fare un film di tre minuti che abbia un senso compiuto è molto, ma molto, più difficile che fare un lun-go di 75’. Provare per credere; ma anche non provare, e star-sene in silenzio, se non se ne è capaci.Comunque, belle le serate e magico lo scenario, al San Giò. E bravissimo Ugo Brusaporco, che organizza tutto con le po-chissime risorse a sua disposi-zione.

di Silvano Tommasoli

Agosto 201110 Cinema

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Verso l’infinito e oltre

Il grande Paul Simon“So Beautiful Or So What” è l’ultimo disco dell’ex dei Simon & Garfunkel

di Francesco Fontana

vita, la morte e l’amore trovano spazio in un disco di ampio re-spiro, assolutamente fuori dal comune. Il racconto si snoda in dieci brani e spazia nei generi musicali più differenti come il gospel, il blues e, addirittura, il rap nel brano di apertura Getting Ready For Christmas Day. Simon utilizza un gran nume-ro di strumenti musicali, dosati con grande eleganza e cura, so-stenuti dalla consueta cura per l’armonia e la melodia. Bellissima The Afterlife, canzo-ne allo stesso tempo profonda

Dopo l’apprezzato cofanet-to pubblicato lo scorso mar-zo sotto etichetta Columbia, celebrativo dei quarant’anni da quell’ultimo “Bridge Over Troubled Water”, con il quale il duo newyorchese composto da Paul Simon e Art Garfunkel concludeva nel 1970 la breve e brillante collaborazione, arriva “So Beautiful Or So What”,

l’undicesimo disco da solista di Paul Simon: un sorprendente concept album che riflette su tematiche esistenziali, su Dio, sulla morte e sulla bellezza del-la vita in generale. La carriera dell’artista aveva trovato il grande successo pro-prio nei primi anni Sessanta, dopo il fortunato incontro con Art Garfunkel. Il primo disco del duo è del 1964 e si intito-la “Wednesday Morning, 3 A.M.”, sorretto dalla stupen-da e celebratissima The Sound of Silence. Proprio quest’ulti-mo brano, rivisitato in chiave differente rispetto alla prima versione acustica, darà il nome al successivo album intitolato proprio “Sounds of Silence”. Nel 1966 esce poi “Parsley, Sage, Rosemary and Thyme” e a seguire “Bookends” (1968), il

quarto disco che anticipa l’ulti-mo sensazionale lavoro: “Brid-ge Over Troubled Water”, allo stesso tempo maggior successo e congedo di Simon & Garfun-kel. Inizia da questa separazio-ne la carriera da solista di Paul Simon che, dal primo album intitolato “Paul Simon” (1972), arriva sino a oggi con “So Be-autiful Or So What”: l’ennesi-ma prova di grandissima qua-lità e sperimentazione del can-tautore americano. I pensieri, le suggestioni e le riflessioni di un grande artista su Dio, la

La musica aiuta a non sentire dentro il silenzio che c’è fuori

Johann Sebastian Bach

Agosto 2011 11Musica

e spensierata nelle riflessioni e nel racconto fantastico e ironi-co sull’aldilà e su come, dopo la morte, ci ritroveremo ancora a compilare assurdi moduli e que-stionari per passare dall’altra parte. Il ritmo di Dazzling Blue, con tanto di percussioni e cori che ricordano molto da vicino il gospel, si affianca alla sono-rità acustica di Rewrite. Love And Hard Times è invece una stupen-da ballata, con il pianoforte e gli archi che accompagnano la voce di Simon. La strumentale Amulet, Questions For The Angels,

assolutamente suggestiva, Love And Blessing e So Beautiful Or So What completano il quadro di un lavoro composito e assoluta-mente vario.Un album interessante, che spinge con semplicità verso la complessità. Molto lontani dalla leggerezza delle argo-mentazioni, i toni sono però chiaramente sereni e, a trat-ti, quasi allegri e spensiera-ti (vedi il modo con il quale tratta l’argomento della morte in The Afterlife). Sembra essere un momento importante per la carriera di Paul Simon, che offre, nuovamente, dimostra-zione della propria versatilità e curiosità nello sperimentare qualcosa di nuovo, mescolando generi apparentemente lontani e confrontandosi con temi im-pegnati.

Paul Simon oggi e con Art Garfunkel a destra, sotto la copertina del suo ultimo album

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I tre Pooh rimasti si rimettono in gioco, con un nuovo album (sotto, la copertina)

Agosto 201112 L’opinione

Il re è nudodi Silvano Tommasoli

Nella formazione “tre con” non li avevo ancora sentiti. Mi ero fatto l’idea che, con l’uscita di D’Orazio, I Pooh non fossero più la stessa cosa. Così, ho evi-tato con cura i loro concerti, an-che quello di apertura del tour estivo “Dove comincia il Sole”, giovedì 23 giugno, al Teatro Ro-mano di Verona.Poi, il 17 luglio di prima mat-tina, ho capitolato a certe insi-stenze e ho accettato di andare quella sera stessa al Vittoriale, a Gardone Riviera, per un con-certo dei nostri quattro. No, dei nostri tre. Anzi, dei nostri sei: i tre con.Aver aspettato il diciassettesimo giorno di un mese qualsiasi non dev’essere stata un’idea brillan-te, fin dal principio. Anche se, di solito, a queste cose non ci credo proprio, devo dirvi subito che la prima goccia di pioggia sul pub-blico del concerto è caduta alla prima nota del primo brano, e l’ultima all’ultima nota dell’ulti-mo pezzo. Prima e dopo, un sec-co della Madonna. Mah! Che fosse un segno dell’Altissimo?Formazione a sei, dunque. Con l’inserimento di Phil Mer alla batteria, di Ludovico Vagnone alla chitarra e di Danilo Ballo alle tastiere, la stessa forma-zione della tournée inverna-le appena conclusa. Phil Mer (nome d’arte di Philip Mersa) è il figliastro di Red, è stato bat-terista per Pino Daniele, Patty Pravo, Noa e Malika Ayane; Vagnone, chitarrista, produtto-re e arrangiatore, ha prodotto molti pezzi dei Pooh, proprio come Ballo, che ha cominciato con loro nel 2000, con “Cento di queste vite”. La soluzione è quindi piuttosto “casalinga”, ma, nell’insieme, non disprezza-bile. Anche se ci si chiede subito perché, per sostituire agli occhi e alle orecchie del pubblico un batterista, siano stati chiamati un batterista, un chitarrista e un tastierista. Forse i Pooh si sono accorti, solo adesso, che la for-mazione “a quattro” non è mai andata bene – malgrado i suc-cessi riscossi per una quarantina d’anni! – oppure, hanno pensa-

to che per sostituire Stefano, un batterista – certo, meno bravo e meno spettacolare nell’esibizio-ne, ma con tanti anni di palco-scenico in meno – da solo non potesse bastare. La regia dello

spettacolo è stata curata diretta-mente dai Pooh e le luci da Fa-brizio Crico, mentre il progetto acustico è curato dal “solito” Renato Cantele.La prima delusione è data proprio dalle scene. Nel cor-so dell’ultimo terzo di secolo, i quattro ci hanno abituato a sce-ne molto ricche e curate. Anzi, è giusto ricordare che sono stati proprio loro, i Pooh, a imporre a tutti gli altri gruppi italiani la

tendenza di realizzare sceno-grafie molto complesse e spet-tacolari, con l’aiuto di macchi-ne in grado di movimentare il palco con effetti fantasmagorici. Negli anni, abbiamo visto sul

palco, assieme ai Pooh, non solo le “solite” luci e volute di fumo, ma di tutto, fino ai cannoni che sparavano fiamme.Al Vittoriale, invece, malgra-do l’impegno di Crico che dal banco di regia comandava l’im-pianto luci Clay Paky, di spetta-colare non abbiamo visto nulla. A parte la pioggia, naturalmen-te! Comunque, a un concerto ci si reca, prevalentemente, per ascoltare la musica, e questo

avevano pensato i circa seicento spettatori che affollavano la pla-tea e le gradinate dello stupendo teatro del Vittoriale.La musica, dunque. Va detto che le sonorità dei nuovi brani ha rituffato i Pooh, e anche i loro appassionati fan, ai tempi di Parsifal (1973) e di Tropico del Nord (1983), anche se, oggi, man-cano gli inserimenti d’orchestra e, soprattutto, gli assolo, i lunghi brani che, con virtuosismi stru-mentali ed esibizione spettaco-lare, hanno arricchito i concerti degli anni ruggenti. Quando dal palco si sono diffuse proprio le prime note di Parsifal, in pla-tea gli spettatori si aspettavano un’esecuzione tradizionale, in-vece il pur bravo Phil Mer si è guardato bene dal cimentarsi in uno di quegli assolo che hanno fatto amare moltissimo Stefano dal suo pubblico. Il brano, quin-di, è risultato più breve e più “leggero”, di minor respiro stru-mentale e lirico. Ma il problema più significativo è sembrato un altro, in alcuni pezzi – soprat-tutto Uomini soli e La donna del mio amico – nei quali la voce di Roby non è sembrata più all’al-tezza. E anche Red, in un paio di occasioni, ha permesso al pubblico di accorgersi che, ogni tanto, nei toni alti si può sentire il segno del tempo passato. Solo Dodi ha messo in mostra la voce fluida e senza tentennamenti di sempre. Tutto questo senza di-menticare che, ai cursori della console, c’era, come al solito, il magico Cantele.Viene spontaneo pensare a Ste-fano, che ha lasciato in un mo-mento (ancora) di splendore, e viene spontaneo chiedersi per-ché, dopo quarantacinque anni di grandi successi, i tre “super-stiti” non facciano altrettanto, lasciando nei loro fan un ricordo senza zone d’ombra. Qualcuno dovrebbe dire ai Pooh che an-che i più grandi possono mettere insieme brutte figure e rischia-re di cadere nel ridicolo. Basta pensare alle figuracce che, ogni domenica, Michael Schuma-cher rimedia sulle piste di tutto il mondo…

Chi fermerà la musica: forse l’età?Una riflessione sui “nuovi” Pooh

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di Silvano Tommasoli

Vi diremo qualsiasi cazzata vorrete sentire

Agosto 2011 13Società

Vita da vip, vita da... biipNon è tutto oro quel che luccica

Quando comincia l’estate, co-mincia il tormentone. Alimen-tato dalla caccia frenetica da parte di certi giornaletti, che si scatenano alla ricerca di becca-re il cosiddetto vip. Il vip sulla spiaggia, il vip a cena con gli amici, il vip in tutte le pose e in tutte le situa-zioni. A parte che ci sarebbe da discutere su come certi buzzur-ri – veramente, oggi sarebbe di moda chiamarli tamarri – pos-sano assurgere al ruolo di vip, ma questo è un altro film, ci sono persone che vivono nel mondo dello spettacolo a pieno titolo e, soprattutto durante l’e-state, fanno una vita d’inferno. Qualche anno fa, ho visto con i miei occhi giovani donne bruciarsi una settimana di ferie dal lavoro per stazionare, notte e giorno, sulla scala interna del pa-lazzo che ospitava gli uffici milanesi di un gruppo musicale allo-ra molto noto, e ora in decomposizione. Lo scopo? Vederli, toc-carli, rivolgere loro la parola, strappare un sorriso o, meglio, una qualche memorabilia (un bottone della ca-micia?) da far vedere, trofeo preziosissimo, alle amiche e corre-ligionarie di questa infatuazione mediatica.In quegli anni, con questi mu-sicisti ci lavoravo e trascorre-vo con loro tutti i lunedì. Una giornata di lavoro interrotta dal dramma della pausa pran-zo, quando solo uno dei quattro se la sentiva di uscire, scendere le scale e infilarsi nel ristoran-tino con ingresso nell’androne del palazzo stesso, dove poteva-mo mangiare tranquilli perché blindato e inviolabile da parte delle fan. Il problema vero con-sisteva nel superare, in andata e ritorno, il passaggio forzato delle scale – l’edificio era un loft industriale ristrutturato, senza ascensore e con scale obbliga-

torie – e scansare quelle mani avide di toccare. Visto dalla parte di questi vip, e considerando che a me il pro-blema non importava per nien-te (sono stato spettatore sbigot-tito di qualche teatrino che, più che divertente, definirei, degra-dante), questo assalto al perso-naggio mi è sempre sembrato ingiusto ed eccessivo. Ma per quel che ne so, non tutti i vip sono atterriti così dai loro fan. Un giorno, mi portavo a spasso per Milano, in automo-bile, un presentatore piuttosto conosciuto, che conduceva – la domenica pomeriggio – una

trasmissione Rai di calcio e intrattenimento. A un semafo-ro, un tizio, fermo accanto a noi alla guida della sua auto e, dunque, dal lato del mio pas-seggero, l’ha riconosciuto e gli ha fatto cenno di abbassare il finestrino. Abituato con i quat-tro del gruppo pop, pensavo che si sarebbe nascosto sotto il sedile o, se possibile, mimetiz-zato da Arbre magic. Lui, invece, sorridente, ha fatto scendere il cristallo, ha scambiato due parole e firmato un po’ di auto-grafi, spiegandomi che non po-teva che considerare questi fan come una benedizione, dopo tutta la fame che aveva patito

in gioventù. Senza lavoro, sen-za successo e senza fan. A quanto pare, un vip è vip in s.p.e., servizio permanente effettivo. Ma, questo povero cristo, avrà ben diritto a uno straccio di vita personale, no?No, sembra proprio di no. Così è nata l’esigenza di farsi circon-dare dalle guardie del corpo, i body-guard, quasi sempre ragaz-zoni formato armadio a quat-tro ante, che evidenziano la loro fisicità acquistando abiti di una taglia più piccola di quella che indossano e, di solito, han-no il cervello di dimensioni in-versamente proporzionali alla

larghezza delle loro spalle. Pensandoci un momento, cre-do che tutti ci possiamo chie-dere come si possa avere un’e-sistenza normale quando essa è attraversata dall’invadente presenza di questi body-guard. Ma è interessante anche consi-derare l’altro aspetto di questa storia: come ci vede, noi comu-ni mortali, il vip tenuto sotto vetro dalle sue guardie perso-nali?Qualche sera fa, ho partecipa-to, tra il numerosissimo pubbli-co, a un concerto del pianista Giovanni Allevi. Bravissimo come esecutore, fantasioso come compositore. Mi sono

sentito all’ascolto di un affasci-nante trait d’union tra la compiu-ta eleganza delle sonate mozar-tiane e la moderna improvvisa-zione del jazzista Keith Jarrett.Finito il concerto, si è diffusa la voce che il Maestro avrebbe incontrato il pubblico in un an-golo della platea, protetto dai suoi body-guard. Qualche mi-nuto e Allevi è sceso in platea, in questo spazio delimitato da transenne e dai soliti armadi a quattro ante. Dopo una breve intervista a una rete TV locale, è rimasto indietro di alcuni me-tri, mentre il boss delle guardie personali minacciava di far ac-

costare il Maestro al lato opposto di quella specie di ring se gli estimatori non fossero stati tranquilli. Fan, in questo caso, mi sembra affatto inade-guato, dal momento che stiamo parlando di non più di un cen-tinaio di persone di ogni età – non molti i giovanissimi invero – piuttosto composte ed eleganti. Nessuno spingeva e tutti se ne stavano in silenzio. Insomma, forse bi-sognava rispettare il gioco delle parti, no? La star protetta dal-le guardie ringhianti davanti a un’orda di fan scatenati, come

nelle migliori tradizioni rock. Mancava solo l’orda di fan scatenati… Ecco, in quel mo-mento, ho avuto l’impressione di incrociare gli occhi di Gio-vanni Allevi e di coglierne uno sguardo smarrito. Come se il Maestro si chiedesse perché fosse lì, in quel momento, e che cosa volessero da lui quelle gen-tili persone, e ancora perché dovesse fare la star protetta dai body-guard anziché chiedere a quella brava gente «Ragaz-zi, chi viene a bere una birra con me, così facciamo quattro chiacchere di musica?»Ho guadagnato l’uscita il più rapidamente possibile.

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Sconfiggere il soprannaturalenon è mai stato tanto economico

Esoterroristi: un gioco che unisce indagini, mostri e formato elettronico

Esoterroristi (di Robin D.Laws, Janus Design, €24,90) è un gioco le cui radici affondano in classici dell’investigazione come Il Richiamo di Cthulhu, ma si pone l’obiettivo di superare uno dei difetti più gravi di quei prodotti: i continui momenti di stallo dovuti al fatto che gli indizi necessari al prosegui-mento delle indagini non erano garantiti ai personaggi (e dun-que ai giocatori), ma andavano conquistati tramite il tiro dei dadi, col risultato che un colpo di sfortuna poteva paralizza-re una sessione. Esoterroristi (o meglio, il sistema GUMSHOE – termine che in Inglese equi-vale a “piedipiatti” - su cui è basato) supera questo problema attraverso il proprio sistema di abilità: qualunque personaggio competente nel campo adegua-to (Archeologia, Medicina lega-le, ecc) trova automaticamente gli indizi pertinenti ed è in grado di ottenere informazioni aggiuntive “investendo” parte delle proprie risorse in gioco. È un’idea semplice, anche banale, che tuttavia non ha mancato di suscitare accese discussioni in Italia, dove per molti aspetti i giocatori sono ancora legati a un impianto tradizionale: gli indizi “automatici” sono stati visti come una pericolosa in-terferenza del “metagioco” sul “gioco”, capaci addirittura di rovinare l’immersione e la stes-sa esperienza ludica. Per fortu-na, questa scuola di pensiero non sembra essersi affermata.Esoterroristi, in realtà, somiglia per molti aspetti a un gioco tra-dizionale. C’è una divisione in ruoli fra giocatore e Game Ma-ster, con i giocatori responsabili ciascuno di un personaggio e il GM che si occupa delle com-parse e dell’introduzione delle scene; ci sono degli scenari, ossia dei background complessi su cui si basano le avventure vis-sute dai protagonisti; e si pre-sume che questi ultimi agisca-no in gruppo. Qui finiscono le

analogie, perché in Eso-terroristi il concetto di “scenario” non implica una storia predetermi-nata a la librogame, con i giocatori che di fatto possono solamente mo-dificare alcuni dettagli: lo scenario si limita a stabilire la cornice in cui si è svolto il delitto su cui sono chiamati a indagare i personaggi e a fornire una pista di indizi che spetta ai giocatori interpretare e sulla base dei quali è compito dei giocatori decidere le reazioni dei proprio personaggi. L’ambientazione del gioco è moderna. I protagonisti sono mem-bri dell’Ordo veritatis, un’organizzazione segreta che combatte stregoni e demoni coi mezzi della segretezza e dell’astuzia piuttosto che guer-reggiando per le strade a colpi di mitragliatrice (non che ci sarebbe stato nulla di male in questo, ma in Esoterroristi non accade). Ciascuno possiede di-verse Abilità, divise in due ca-tegorie: Investigative e non. Le Abilità hanno valori numerici e funzionano come “pozzi” di risorse a cui attingere duran-te il gioco: “spendendo” punti (che si possono recuperare in vari modi) si ottengono van-taggi relativi ai campi in cui il personaggio è più competente. Le Abilità investigative sono utilizzate per trovare gli indizi e funzionano sempre; “spen-dendo” si possono ottenere informazioni ulteriori su de-terminati dettagli descritti dal game Master. Quelle non inve-stigative sono relative ad altro e richiedono spesso un tiro di dadi, con la “spesa” che forni-sce bonus o vantaggi specifici e il successo fissato solitamente a un risultato di 4 o più (con un dado a sei facce); tra queste ci sono anche la Tempra fisica e

la Stabilità mentale dei prota-gonisti.Il modo in cui funzionano le Abilità investigative costitu-isce, in parte, una debolezza del GUMSHOE: se il Game Master si dimentica quali sono quelle possedute dai personag-gi, o questi ultimi sono creati dopo lo scenario, c’è il rischio che gli investigatori siano inca-paci di proseguire nelle indagi-ni per manifesta incompetenza! Anche le Abilità non investiga-tive pongono dei problemi, per-ché il Game Master non deve dichiarare la difficoltà dei tiri e i giocatori devono “spende-re” prima di vedere il risultato: una miscela che può causare diversi disagi. Sono problemi che si possono evitare e, a di-spetto di essi, il GUMSHOE

pare un sistema solido, anche se inevitabilmente limitato a un certo tipo di esperienza (che comun-que può piacere a molti). Esoterroristi ha però un vantaggio: è disponibile in formato PDF (elettro-nico) a soli 10 euro, alla pagina web http://shop.janus-design.it/catalogo/esoterroristi-pdf. Il file, completamente privo di DRM (se sapete cosa sono sarete contenti, al-trimenti siatelo lo stesso: ve lo diciamo noi!), non richiede un investimento gravoso ed è di ottima qualità: un buon modo di procurarsi un gioco che, tutto sommato, non è af-fatto male.Esoterroristi ha un “fratel-

lo”: si tratta di Trail of Cthulhu (di Kenneth Hite), basato sullo stes-so sistema ma ispirato ai Miti di Cthulhu dello scrittore Howard Phillips Lovecraft. Il gioco, di-sponibile anche in Italiano (ma è consigliato l’acquisto in Ingle-se: la traduzione è pessima e le qualità di stampa e rilegatura non sono delle migliori), si pre-senta come un tomo ben più vo-luminoso del sottile Esoterroristi e contiene, oltre alle regole del gioco (con alcune varianti), an-che una trattazione dettagliata dei Miti e numerosi elementi di colore. Per gli appassionati di Lovecraft, Trail of Cthulhu è forse un acquisto più indicato di Esoterroristi; per tutti gli altri, il più agile e leggero prodotto importato da Janus Design è probabilmente migliore.

di Ernesto Pavan

Nessun uomo è un fallito se ha degli amici

L’angolo della segnalazione intelligente

Dopo Esoterroristi, Janus prosegue la propria politica editoriale im-prontata ai PDF di basso costo con Polaris, il gioco di amore e trage-dia di Ben Lehman, disponibile anch’esso a 10 € sul sito della casa editrice. Anche questo file è completamente libero da DRM e, vista la provenienza, non ci aspettavano altro. Recensiremo Polaris nel futuro prossimo, ma anticipiamo che chi volesse acquistare il PDF non farebbe un cattivo affare.

Agosto 201114 Tempo libero

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Agosto 2011 15Libri

Nella recensione de La rivolu-zione militare di Geoffrey Par-ker abbiamo detto come quel saggio spieghi le ragioni della supremazia dell’Europa sul re-sto del mondo nel periodo che va dal 1492 al 1914 circa. Ma quali furono le origini remo-te di tale superiorità? Perché, quando invasero le Americhe, erano gli europei ad avere co-razze e spade in acciaio e armi da fuoco, mentre i nativi erano fermi alla pietra o al bronzo? Come mai furono le poche mi-gliaia (all’inizio centinaia) di soldati del Vecchio Continen-te ad attraversare l’Atlantico, sterminando in pochi decenni popoli dalla storia millenaria, e invece non furono i nativi americani a sbarcare in Europa con le loro armate di centinaia di migliaia di guerrieri (numeri che in Europa furono raggiungi

solo verso la fine del Diciotte-simo secolo)? Jared Diamond risponde a queste domande con un saggio in puro stile divul-gativo anglosassone, partendo dalla Preistoria per spiegare le cause della “partenza anticipa-ta” grazie alla quale l’Europa fu in grado di sviluppare una civiltà tecnologicamente avan-zata; una spiegazione che non lascia spazio alle teorie razziste della “superiorità genetica”, ma nemmeno a quelle determini-ste.All’origine di tutto, spiega Dia-mond, sta l’agricoltura. Grazie a un clima favorevole e all’im-portazione di piante comme-stibili dalla Mezzaluna Fertile, l’Europa fu in grado di produr-re un surplus alimentare che consentì la nascita di classi so-ciali non produttive (sacerdoti, guerrieri, studiosi) e di conse-

guenza la costruzione di società complesse, in cui era più probabile l’inven-zione di nuove tecnologie; ma sopratutto consentì l’urbanizzazione e, con essa, l’insorgere di epide-mie che, seppur devastanti a breve termine, a lungo termine fornirono gli euro-pei di armi molto più mi-cidiali delle spade e degli archibugi (si calcola che la maggior parte dei popoli colonizzati fu sterminata dalle malattie importate dagli inva-sori). Questo è il quadro gene-rale, che l’autore approfondisce nei minimi dettagli tramite esempi provenienti dall’ambito archeologico, ecologico e socio-logico; il risultato è un testo plu-ridisciplinare, che non trascura nessun aspetto dell’argomento, ma è facilmente accessibile a

chiunque grazie allo stile chiaro e al fascino dei suoi argomenti.Armi, acciaio e malattie non può mancare nella biblioteca di chiunque sia anche solo mini-mamente interessato alla storia dell’Età Moderna.

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Houston, abbiamo un problemadi Alice Perini

Quanti colori dietro l’angolo!Tra le tre isole e le “tre sorelle”, nel sud della Francia è questione di sfumature

Provence - Alpes - Côte d’Azur: ovvero, come avventurarsi oltre il blu, il giallo e l’arancione di questa regione della Francia su-dorientale per scoprire un pae-saggio semplicemente luminoso e variopinto. Il verde brillante dei pascoli della Camargue, un’area di paludi, saline e lun-ghi tratti sabbiosi vasta più di 112 mila ettari che si estende

lungo il delta del fiume Roda-no; piccole macchie di rosa che si muovono lungo gli innume-revoli stagni, quei fenicotteri diventati uno dei simboli pro-prio della Camargue; il bianco delle montagne di sale marino, preziosa risorsa per gli abitan-ti di questa zona. E ancora, gli immensi campi di lavanda, che dipingono di viola e lilla l’orizzonte, e il blu profondo e l’azzurro cristallino del Medi-terraneo. Un’inesauribile tavolozza di co-lori a portata di mano. Eppure, siamo proprio sicuri di essere a conoscenza di tutte le sfumatu-re che questa terra può offrirci? Non è forse più comodo fermar-si appena al di là del confine e accontentarsi di Menton, Nice, Antibes, Cannes e Saint - Tro-pez? Perché perdersi l’oro di Hyères e delle sue tre isolette? A questo punto, dal momento che nessuno di voi mi sa dare una risposta, direi che non ci resta che partire.

In auto, circa 6 ore di viaggio da Verona, o in treno, grazie al collegamento tra Tolone e la rete delle Ferrovie dello Stato, Hyères rimane pur sempre un arcipelago dorato dietro l’an-golo, meta ideale anche per chi opta per le vacanze settembri-ne: infatti, si tratta della locali-tà balneare più meridionale di tutta la Costa Azzurra, un an-golino adorato anche dal sole, che qui splende per almeno 300 giorni all’anno. Nel caso il sole non vi bastasse e vogliate sapere i precedenti illustri che

hanno pensato bene di fare una capatina a Hyères, spero vo-gliate accontentarvi della Regi-na Vittoria e degli scrittori Ro-bert Louis Stevenson, Tolstoj e Edith Wharton. Il centro di Hyères, la cui prin-cipale attrattiva sono le strette stradine medievali della Vieille Ville (la Città vecchia), è la par-

te più pittoresca: un sistema di case antiche, alcune delle quali risalenti al XIII secolo, e un in-treccio di vie che ci riporta al Medioevo, un’epoca assai den-sa di importanti avvenimenti per questa cittadina. Legata da patti commerciali con i geno-vesi per circa quarant’anni, dal 1139 al 1174; teatro di scontri per la successione al castello di Hyères alcuni anni più tardi; venduta e ricomprata più volte in base alle disperate finanze di chi deteneva il controllo dei suoi possedimenti. Un castrum

grandement peuplé nel 1200, in cui l’attività agricola era già di-versificata e “all’avanguardia”: vigne, olivi, colture cerealicole. Fanno notizia la sapienza mo-strata dagli abitanti nel costrui-re una valida rete d’irrigazione regolata da chiuse e la consa-pevolezza di dover mantenere in ordine tale infrastruttura

pubblica, come dimostrano gli elenchi delle sanzioni previste in caso di comportamenti lesi-vi per la comunità. Ecco come già 800 anni fa, qualcuno ave-va capito che non era un bene per la comunità deviare i corsi d’acqua per favorire il proprio orticello.Una passeggiata nella panora-mica Place St. Paul, dove sorge l’omonima chiesa gotica, una camminata verso la cima della collina, dominata da ciò che re-sta delle mura turrite della cinta fortificata di origine medievale; un salto a Place Massillon, sede di un colorato mercato giornalie-ro, una visita agli Scavi Arche-ologici di Olbia, cittadina (il cui nome in greco significa “for-tunata”) fondata nel IV secolo a.C. dai marinai greci, per poi salpare, finalmente, alla volta di un mare da Papillon Bleu d’Euro-pe (una sorta di Bandiera Blu). Del resto, se nel 1254 Luigi IX, Re di Francia, sbarca a Hyères di ritorno dalla settima crocia-ta, perché non imbarcarsi alla volta del piccolo arcipelago delle “Isole d’oro”? Un breve viaggio, circa un quarto d’ora, per raggiungere Porquerrolles, Port-Cros e Île-du-Levant, oasi selvagge poco battute dal tu-rismo di massa. Scordatevi la macchina (su tutte le isole ne è vietata la circolazione), scorda-tevi anche la bicicletta, che po-trete usare solo a Porquerolles, la più grande delle tre. Coperta da un manto di pini e da una vegetazione molto varia pro-veniente dai paesi esotici, Por-

Agosto 201116 Viaggi

Non c’è blu senza il giallo e senza l’arancione

Vincent Van Gogh

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querrolles offre chilometri di sentieri sterrati che si snodano nella macchia mediterranea e incantevoli scorci sul mare. Questa lingua di terra dalla forma di croissant, dove dal 1820 soggiornarono quei soldati delle truppe di Napoleone che si era-no distinti per il servizio reso, è una delle aree più salvaguarda-te al mondo dal punto di vista

ambientale: oltre al divieto di spostarsi in auto, è proibito edi-ficare, campeggiare e fumare all’aperto. Piuttosto, sedetevi in uno dei piccoli bar di Place d’Armes, chiedete un bicchiere di pastis, un aperitivo alcolico profumato all’anice tipico del sud della Francia, e osservate i pochi abitanti del paese gio-care a pétanque, una variante “provenzale” del gioco delle bocce. Ovviamente, potete (e dovete) rilassarvi in una delle spiagge “colorate” di Porquer-rolles: più riparate e accessibili quelle della costa settentriona-le, isolate e più esposte al vento quelle della costa meridionale. Plage d’Argent, per la sfumatu-ra argentea della sabbia, Plage Noir, tinta di rosso-scuro per le scorie di una vecchia fabbrica di soda e separata da un istmo dalla Plage Blanche. E per rima-nere “in colore” è proprio gra-zie a Madame Blanche se Port-Cros, la perla più piccola delle tre, è diventata Parco Marino Nazionale già dal 1963, data che rende quest’area protetta la prima in Europa: 700 ettari di flora e fauna terrestre e 1300 ettari di mare e fondali da tutelare. Niente bici, solo gambe e braccia per un tuffo nella natura: pensate che, per

Houston, abbiamo un problema

caso che le abbazie dell’Ordine Cistercense conoscano il loro periodo d’oro proprio nei due secoli in cui anche la fortuna dell’Ordine dei Templari rag-giungeva il suo apice; così come non è un caso che alla soppres-sione del secondo, anche le pri-me si trovino catapultate in una fase assai critica. Oggi, dopo notevoli interventi di ristrutturazione, le “tre so-relle” godono di ottima salute: ciò nonostante, potreste dedica-re loro qualche ore della vostra vacanza per una visita. Nel caso non vi sia rimasto più tempo (perché voglio immaginare lo abbiate sfruttato per crogiolarvi sulla sabbia dorata di Hyères), salutatene almeno una delle tre. Un suggerimento? Se volete concludere questo viaggio così com’è iniziato, tra i colori, pas-sate da Sénanque, dove le sfu-mature del viola e del lilla sono di casa. Come la lavanda.

Agosto 2011 17Viaggi

chi volesse cambiare “il punto di vista”, esiste perfino un percorso panoramico a nuoto di circa 300 metri.Infine, vale la pena visitare i giardini pubblici e il Sentiero della Natura dell’Île-du-Le-vant, una striscia larga 1 Km e lunga 8, famosa per essere la più antica colonia naturista france-se (il villaggio di Héliopolis ven-

ne fondato già nel 1931 e il nudismo è praticato fin dagli anni Trenta).Dopo le tre isole, il consiglio è di non riprendere il cam-mino verso casa senza aver prima visitato le “tre so-relle”. Abbaye du Thoronet, Abba-ye de Silvacane e Abbaye de Sénan-que, le tre abbazie cistercensi della Provenza, nate ri-spettivamente nel 1136, 1144 e 1148. Nei racconti di vita delle “tre so-relle”, molte sono le somiglianze. Tutte, infatti, co-noscono circa due secoli di tranquil-lità e splendore, seguiti da lunghi periodi di declino e abbandono, tan-to che l’Abbazia di Thoronet, già nel 1600, rischia di cadere a pezzi. Simili vicissitudi-ni per Silvacane, il monastero che

sorge sulla riva sinistra del fiu-me Durance, nei pressi di un antico canneto cui deve il suo nome (silva cana, ovvero foresta di canne): la decadenza, inizia-ta verso la fine del XIII secolo, culmina con le guerre di reli-gione e la Rivoluzione, quando la chiesa viene sfruttata come azienda agricola. Stessa sorte per la più giovane delle “tre so-relle”, Sénanque (sagn-anc, gola paludosa), che dopo aver rag-giunto il suo apogeo tra il 1200 e il 1400 (possedimenti terrieri in tutta la Provenza, malghe e mulini), cade in rovina e viene saccheggiata da bande di ugo-notti. Al di là del vincolo di parente-la, sembra che il brusco declino di questi e altri conventi, sia in Francia che in altri Paesi euro-pei, possa essere intrecciato alle vicende dell’Ordine Templare, il quale aveva un suo “quartier generale” a Lorgues, altro pae-sino della Provenza: non è un

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La Route 66 è una strada, o meglio era una strada che col-legava Chicago a Los Angeles, che da circa trent’anni è stata cancellata dalle mappe stradali del continente americano. Solo il nome rappresenta qualcosa di magico, rievoca la sensazio-ne di viaggio, l’andare verso qualcosa, non semplicemente spostarsi.Partendo dall’Illinois si snoda per 2400 miglia, attraversa ben tre fusi orari, e otto stati. Si può dire che inizia sulle sponde del lago Michigan e termina sulle spiagge dell’oceano Pacifico. Il suo tracciato passa attraver-so alcune delle più belle aree del continente, dal Missouri al Texas, dagli altopiani del New Mexico ai canyon dell’Arizona. In cinquant’anni di storia è di-ventata qualcosa di più di un semplice nastro d’asfalto che unisce le due coste del con-tinente americano. Oltre ad attraversare alcuni dei luoghi più interessanti degli Stati Uniti, lungo il suo percorso si ritrova tutta la storia di questo paese e la sua evo-luzione. Non solo, fin dall’i-nizio la Route 66 acquista nell’immaginario degli americani una sorta di fuga verso l’ovest, una cor-sa verso il sole e la libertà, una specie di Eldorado. La meta più ambita era sicura-mente la California con il suo sempre presente mito hollywoodiano. Le gomme erano sottili, non c’erano stazioni di ser-vizio, Gps o Mp3. Le con-dizioni difficili ne facevano un’avventura, un viaggio di conquista. Nel periodo tra le due guer-re milioni di automobilisti la percorsero nella speran-

di Anna Chiara Bozza

Giro giro tondo, io giro intorno al mondo

Stati Uniti coast to coastRoute 66 un mito per coloro che apprezzano lo spirito del viaggiare

za di trovare condizioni di vita migliori, o solo per sfuggire alla grande depressione e ai disastri ecologici causati dall’indu-strializzazione selvaggia e dalla coltivazione intensi-va delle smisurate praterie del Mid-West. Era la strada più impor-tante d’America. Era Will Rogers e Woody Guthrie; era un soldato che torna a casa in autostop per Nata-le; una famiglia di povera gente dell’Oklahoma in cerca di una vita migliore; era un’epoca prima che l’America diventasse fred-da e insipida, dove i motel non accettavano prenotazioni e dove fare l’autostop non era pe-ricoloso. Era una strada di cur-ve ingannevoli, corsie strette e deviazioni.Divenuta sinonimo di avven-tura questa strada fu celebrata da scrittori e musicisti. Woody Guthrie vi scrisse le sue bal-late “on the road”, Steinbeck vi ambientò il suo capolavoro “Furore” e Kerouac, divenuto scrittore simbolo del movimen-to hippie, vi collocò le sue opere migliori. Negli anni Settanta la costru-zione della nuova rete stradale

rese più agevole il traffico au-tomobilistico, ma condannò inesorabilmente il mondo nato e cresciuto attorno alla Route 66. Strade veloci, che non at-traversano più i centri urbani e non hanno nessun contatto con il territorio circostante, hanno comportato un bisogno sempre minore di motel e ristoranti dove poter fermarsi. In un de-cennio scomparve un mondo, uno stile di vita poiché cambiò soprattutto il modo di viaggia-re. Dove non c’era un’uscita dell’autostrada i paesi si spopo-larono e spesso morirono, mol-

to presto la Route 66 fu punteg-giata di città fantasma simili a quelle della corsa all’oro nel selvaggio West. Alcuni soprav-vissuti continuano a lavorare ai bordi della vecchia strada, spesso più per nostalgia che per convenienza. Ripercorrendo l’antico trac-ciato, dove ancora è rimasto agibile, si rimane colpiti da un mondo, un modo di vivere fat-to ancora di rapporti umani, di personaggi semplici e picco-le cose che si credevano ormai estinte nell’era dei grattacieli. Oltre allo splendido paesaggio,

non ancora invaso dal turi-smo di massa, la Route 66 regala ancora emozioni al viaggiatore non frettoloso. Il rullino fotografico non basta mai. Sfondi dei we-stern, cactus, paesaggi che cambiano colore, il Cadil-lac Ranch cantato da Bru-ce Springsteen, e il Grand Canyon sono soltanto alcu-ni dei luoghi che non si può evitare di immortalare.Ma tutto sommato la Rou-te 66 attuale resta una stra-da di fantasmi e di sogni lasciati da tutti quelli che l’hanno percorsa, è la liber-tà di viaggiare lungo oriz-zonti sterminati, dove l’im-portante non è la meta, ma la certezza di avere sempre qualcosa da scoprire dietro ogni curva.

Agosto 201118 Viaggi

Seligman, punto di partenza del tracciato storico

Qual è la tua strada amico?... La strada del santo, la strada del pazzo, la strada dell’arco-

baleno, la strada dell’imbecille, qualsiasi strada. È una strada

in tutte le direzioni per tutti gli uomini in tutti i modi

Jack Kerouac

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I volti di un atleta che combatte per la sua dignità

Gli atleti, in ogni branca dello sport, sono tutti uguali fra loro? Difficile da dire con certezza. Basta posare lo sguardo sulle caratteristiche fisiche per ac-corgersi delle diversità: il gioca-tore A è alto e biondo mentre B è magro e ha i capelli castani.

Differenze negli stili di allena-mento, nelle pratiche adottate per scaldare i muscoli prima di una gara importante, nello stes-so abbigliamento indossato al momento dell’inizio della sfida. Tuttavia, alla base di tutto que-sto deve trovarsi un sostrato, anche implicito, di uguaglian-za: ognuno ha il diritto di ten-tare, di provarci. Un elemento, questo, che non deve (o dovreb-be?) andare di pari passo con la brama di una vittoria.Nella mia dissertazione per la laurea triennale ho affrontato proprio il tema sopracitato. Ho messo a confronto le Olimpia-di e le Paralimpiadi. In que-ste ultime la partecipazione è “riservata” solo agli atleti non normodotati. Ossia, persone che presentano delle caratteri-stiche fisiche per le quali non

Pistorius: la vittoria dello sportI Mondiali e le Olimpiadi diventeranno realtà. Bravo Oscar, e grazie davvero

è possibile affrontare i concorrenti “normali”. All’interno di questa “ca-tegoria” rientrava Oscar Pistorius, il giovane su-dafricano che, affetto sin dalla nascita da una rara malattia a entrambe le gambe (la mancanza del perone), fu costretto a subirne già da molto giovane l’amputazione. Questa grave mancanza non gli ha impedito di praticare sport e di ap-prodare, infine, all’atleti-ca leggera.Poche righe fa ho scritto

“rientrava”, e ora desidero illu-strare tale motivazione.In questi ultimi anni Pistorius ha collezionato svariate me-daglie d’oro, molte delle quali alle Paralimpiadi. Dietro le sue spalle, però, si è innescato un contrastato dibattito sulle protesi in fibra di carbonio che utilizza, le gambe che gli per-mettono di correre. Il motivo di tutto ciò? Il suo desiderio di poter partecipare ai Giochi Olimpici. Si è pensato che tali mezzi potessero conferirgli un vantaggio strutturale sugli altri atleti, su quelli che corrono con le scarpe. Se questo fosse vero, il fondante principio dell’u-guaglianza delle condizioni di partenza sarebbe crollato. Nel gennaio del 2008 alcuni test effettuati dall’Università di Colonia avevano riscontrato il

manifesto vantaggio che Oscar avrebbe ottenuto se avesse cor-so con le persone “normali”. Il 16 maggio dello stesso anno, invece, il Tas (Tribunale di arbitrato sportivo) di Losanna stabilisce che al momento non vi sono certezze scientifiche per il riscontro di un vantaggio dato dalle sue protesi. Pertan-to, l’ammissione o meno a una competizione internazionale, come un Mondiale o un’Olim-piade (si badi bene, non Para-limpiade) sarebbe dipesa dai risultati ottenuti sul campo. Ha tentato di approdare alle Olim-piadi di Pechino del 2008, ma non è riuscito a ottenere i tempi

necessari per una qualificazio-ne.Pochi giorni fa, a Lignano Sab-biadoro, il ragazzo di Johanne-sburg, nella gara dei 400 metri, ha fermato il cronometro sui 45’’07, tempo che gli consente sia la partecipazione ai prossi-

mi Campionati del Mondo in Corea del Sud che ai Giochi Olimpici di Londra 2012. Si trattava dell’ultimo tentativo a disposizione per cercare di rag-giungere quei prestigiosi obiet-tivi. Ce l’ha fatta. Le sue gambe in fibra di carbonio hanno resi-stito alla tensione.Quella di Oscar, insomma, è una vittoria ancor prima di ga-reggiare. Ha vinto una difficile battaglia. Contro se stesso, pri-ma di tutto, ma anche contro chi non credeva in lui e nelle sue capacità. Contro chi si era fissato sul “vai veloce solo gra-zie alle protesi”, contro le ma-lelingue che aleggiavano sulla

sua testa. Parole che lo tratta-vano come uno sportivo diver-samente abile (o non normo-dotato) e non come un atleta. Semplicemente un atleta. Una person a che vive di sport. Gra-zie allo sport.

All’inizio di una gara capisco che ci possa anche essere

curiosità, ma basta un giro di pista per far cambiare il modo

di pensare degli spettatori. Alla fine, l’ho sentito tutte le volte che ho corso, vedono

solo l’atleta

Oscar Pistorius

di Daniele Adami

Quando il gioco si fa duro

Agosto 2011 19Sport

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Quando il gioco si fa duro

Desmo16-15-14-13-12-11-10…3-2-1?Valentino Rossi e la sua Ducati: per migliorare servono tempo e duro lavoro

ha tagliato il traguardo nono. Sette posizioni guadagnate. E ora? Sotto con la gara di Lagu-na Seca, negli Stati Uniti. Un circuito amato dal pilota roma-gnolo della Ducati. Una curva, il famoso “cavatappi”, che nel corso degli anni lo ha visto pro-tagonista di splendidi sorpassi. Un tentativo per risollevare sia la classifica che il morale. Do-potutto, siamo al giro di boa della stagione. Lo scorso mese, in questa stessa rubrica, si era scritto un articolo in difesa dei risultati di Michael Schuma-cher, ancora all’asciutto di un podio da quando è ritornato a correre. Valentino, quest’anno, è salito sul podio. Una volta, in Francia. Un episodio isolato,

questo, che però non lo allonta-na dal “sentirsi vicino” alla si-tuazione del campione tedesco. Situazioni di difficoltà manife-sta, ma dalle quali si può usci-

re. Con il lavoro, l’impegno, il sacrificio e la speranza. Con la speranza, per il dottore, che il sedici rimanga unicamente il nome della sua moto.

Desmosedici, questa è la moto di Valentino Rossi. Rossa, come il fuoco, ma la benzina che ne riempie il serbatoio sem-bra non voler dare al suo cen-tauro quella spinta necessaria per stare al passo con gli altri. Con chi, ora, sta andando più forte di lui. Stoner, Lorenzo, Dovizioso, Pedrosa e Simon-celli sono decisamente lontani. Il campione di Tavullia, tut-tavia, si sta impegnando con forza ed entusiasmo nella nuo-va avventura italiana, e questo non possiamo ignorarlo. Tanti problemi, forse alcuni inaspet-tati, sono all’ordine del giorno, e trovare una soluzione o una spiegazione a tutto è spesso complicato. Torniamo alla pri-ma parola del nostro articolo. Osserviamo la seconda parte, quella che contiene il numero. Sedici, esatto, come la posizio-ne occupata da Valentino, sulla griglia di partenza, nel Gran Premio svoltosi lo scorso 17 lu-glio. Un risultato (quello delle qualifiche) illustrato dallo stes-so Rossi con grande delusione e rammarico, dicendo, con un grosso pizzico di rassegnazio-ne negli occhi, che più veloce di così non si poteva andare e che la maneggevolezza del mez-zo era assai limitata e difficile. Le sue parole e il suo sguardo non erano indirizzati a cercare scuse. Probabilmente, c’era solo quello da dire. In gara, ricor-diamolo, le cose sono andate meglio. In lotta fino all’ultimo giro nel gruppetto che tentava di aggiudicarsi il settimo posto,

di Daniele Adami

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Agosto 201120 Sport

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Agosto 2011 21Cucina

Ogni anno, in occasione della festività di Sant’Antonio Abate, frazione di Soave, si svolge la Sagra dei Rufioi. Il “rufiolo’’ è un dolce nato nei poveri deschi contadini , in origine cotto nel brodo con ingredienti di scar-to e di recupero delle verdure. Solo successivamente si è tra-sformato e lo troviamo nella forma attuale. La preparazio-ne avviene in tre fasi. Prima di tutto si prepara il ripieno, che può essere composto, a pia-cere, da amaretti, uva appas-sita, carne tritata, mandorle, zucchero, uova, pinoli, rhum e noce moscata. E’ possibile anche sperimentare nuove so-luzioni, dando libero sfogo alla propria creatività. La pasta è fatta di farina, uova, latte, sale,

ben miscelati e fatti riposare almeno 24 ore, dopodiché si stende il composto creando una sfoglia sottile. Si formano poi delle piccole mezzelune, all’interno delle quali si mette il ripieno desiderato, che ven-gono poi fritte in abbondan-te olio di semi. Il rufiolo deve essere fritto, ma non ne deve dare l’impressione, per questo è consigliabile lasciarlo asciuga-re. Si presenta essenzialmente come un raviolo dalla forma e dal contenuto particolare. Ge-neralmente si consuma a fine pasto, accompagnato da un recioto di Soave DOCG. Può essere consumato sia caldo che tiepido. Dal 2004 è riconosciu-to come prodotto agroalimen-tare tradizionale.

di Lorenzo Magnabosco

Serviti il pasto, cowboy

Rufioi di CosteggiolaPrepariamo insieme un dolce della tradizione locale

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[email protected]. 349 6171250

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Via Spighetta 1537020 Torbe di Negrar, Verona

Tel/fax: +39 045 750 21 88www.casalespighetta.it

Casale Spighetta, un nuovo spazio, un sorprendente gioco architettonico di salette che si intersecano pur rimanendo raccolte

nella loro intimità. L'atrio Nafura, il Lounge panoramico Gioia & Gaia, la cantina del Trabucco, il Coffee Lounge tutti con arredi eleganti, diversi, con un tocco d'oriente legati da toni materiali ed

effetti di luce e colore che rispecchiano alla logica di mirabili equilibri.

Il Casale la Spighetta è un ristorante collocato nelle colline della Valpolicella a Verona, i suoi ambienti eleganti sono indicati per cene

romantiche, banchetti e cene aziendali. Dal giardino estivo si può godere di un meraviglioso panorama.

Le sale esprimono un’atmosfera ariosa ed elegante perfettamente in linea con la cucina dello Chef Patron. Un’esigenza per chi, come lo Chef Angelo Zantedeschi va al di la dell’arte culinaria, un grande amore per la tradizione e l’arte moderma.

... dove la cucina tradizionale italianaviene rivisitata con un sapore d'Oriente ...

R I STORANTE

Casale Spighetta