Uomini e dei - Il '600 genovese dei collezionisti

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13 “PER ORNAMENTO DELLE PROPRIE CASE E PALAZZI” IL SEICENTO GENOVESE DEI COLLEZIONISTI Anna Orlando “Le loro case abbellite de Pitture preggiatissime” “Radunando insieme le opere de più stimati Pittori a costo d’un tesoro, adorne & ammirabili se ne rendono le proprie Gallerie”. Sono i “Gentiluomini” genovesi “intendenti di Pittura” ricordati qua e là nel volume di Raffaele Soprani, Le Vite de’ Pittori, Scoltori, et Architetti Genovesi..., stampato nel 1674 1 . Egli accenna al ruolo del collezionismo privato, lasciando intendere, già a partire dal suo testo introduttivo “A chi legge”, come esso abbia costituito una componente fon- damentale per alimentare e far crescere la scuola pittorica locale, al pari della committenza pubblica. Nei capitoli di queste importanti biografie artistiche, che il Soprani stila perché ha “voluto per animar li Pittori al ben operare” ... “protegger(li) contro il tempo, che li divorava”, com’egli stesso spiega nel Proemio, sono complessivamente rari i casi i cui conosciamo il nome del committente per una specifica opera. Per lo più, lo storiografo descrive i quadri visibili in pubblico e decide, per non “tediare” il lettore, di evitare lunghi elenchi, accennando solo o alludendo alla ricca produzione per la committenza privata, in vario modo e con diverse espressioni. “Si come di troppo tedio al lettore se tutte le opere nominar’io volessi di questo Pittore, così d’inestimabil gusto sarà all’istesso d’andarle vedendo dove framischiate con le altre de’ più valorosi adornano i palaggi più nobili e i musei più curiosi. Perloche tralascierò di narrar agli orecchi, ciò che agl’occhi d’ognuno le stesse sue tavole palesano”, scrive a proposito di Sinibaldo Scorza 2 . “Oltre di che riuscirebbe di troppo tedio al Lettore al quale sarà di maggior diletto l’andarle di mano un mano vedendo ne’ più preggiati Gabinetti, e famose Galerie”, afferma nella biografia del miniatore Giovanni Battista Castello 3 . Per non annoiare chi legge dunque, ma anche perché l’elenco dei dipinti a destinazione privata sarebbe troppo lungo e incompleto. Non si contano quelle di Bernardo Castello: “Fece inoltre quantità innumerabile di tavole ad oglio, che per non essere in luoghi pubblici tralascerò di nominarle, bastando solo il dire, che pochi sono coloro, che dilettandosi di pittura, non habbino ricche le loro stanze di qualche tavola del Castello” 4 . Idem per Giovanni Andrea De Ferrari: “Non penso già di tutte queste sue fatiche di-

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Per ornamento delle proprie case e palazzi pp. 13 - 37 Anna Orlando

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“PER ORNAMENTO DELLE PROPRIE CASE E PALAZZI”

IL SEICENTO GENOVESE DEI COLLEZIONISTI

Anna Orlando

“Le loro case abbellite de Pitture preggiatissime”“Radunando insieme le opere de più stimati Pittori a costo d’un tesoro, adorne &ammirabili se ne rendono le proprie Gallerie”. Sono i “Gentiluomini” genovesi“intendenti di Pittura” ricordati qua e là nel volume di Raffaele Soprani, Le Vite de’Pittori, Scoltori, et Architetti Genovesi..., stampato nel 16741.Egli accenna al ruolo del collezionismo privato, lasciando intendere, già a partire dalsuo testo introduttivo “A chi legge”, come esso abbia costituito una componente fon-damentale per alimentare e far crescere la scuola pittorica locale, al pari dellacommittenza pubblica. Nei capitoli di queste importanti biografie artistiche, che il Soprani stila perché ha“voluto per animar li Pittori al ben operare” ... “protegger(li) contro il tempo, che lidivorava”, com’egli stesso spiega nel Proemio, sono complessivamente rari i casi i cuiconosciamo il nome del committente per una specifica opera. Per lo più, lostoriografo descrive i quadri visibili in pubblico e decide, per non “tediare” il lettore,di evitare lunghi elenchi, accennando solo o alludendo alla ricca produzione per lacommittenza privata, in vario modo e con diverse espressioni.

“Si come di troppo tedio al lettore se tutte le opere nominar’io volessi di questoPittore, così d’inestimabil gusto sarà all’istesso d’andarle vedendo dove framischiatecon le altre de’ più valorosi adornano i palaggi più nobili e i musei più curiosi.Perloche tralascierò di narrar agli orecchi, ciò che agl’occhi d’ognuno le stesse suetavole palesano”, scrive a proposito di Sinibaldo Scorza2.

“Oltre di che riuscirebbe di troppo tedio al Lettore al quale sarà di maggior dilettol’andarle di mano un mano vedendo ne’ più preggiati Gabinetti, e famose Galerie”,afferma nella biografia del miniatore Giovanni Battista Castello3.

Per non annoiare chi legge dunque, ma anche perché l’elenco dei dipinti a destinazioneprivata sarebbe troppo lungo e incompleto.Non si contano quelle di Bernardo Castello: “Fece inoltre quantità innumerabile ditavole ad oglio, che per non essere in luoghi pubblici tralascerò di nominarle,bastando solo il dire, che pochi sono coloro, che dilettandosi di pittura, non habbinoricche le loro stanze di qualche tavola del Castello”4.Idem per Giovanni Andrea De Ferrari: “Non penso già di tutte queste sue fatiche di-

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scorrere, sia perché son in tal numero, che troppo longo sarei a raccontarle tutte,come perché non sono queste a mia notizia, e basterà palare solo di alcune (che nonsaran poche) che sono esposte in publico”5.

Perché sarebbe noioso e lungo elencarle tutte, ma anche perché lo stesso biografonon le ha viste tutte e preferisce invitare il lettore ad andare personalmente a vederlee goderne: “soddisfarsene”.“Sono diverse le tele historiate, che si vedono in case private, quali non essendo a metutte note, lascerò che il curioso habbi campo di sodisfarsene e solo dirò... le tavoleesposte in pubblico”, annota a proposito di Anton Maria Vassallo6.

Sono numerosi i passaggi in cui si ricorda la destinazione domestica dei dipinti degliartisti genovesi. “Il che vedendo alcuni Gentiluomini Genovesi, presero animo di ordinarle moltetavole, che poi mandarono a Genova per ornamento delle proprie case e palazzi”,scrive a proposito di Domenico Fiasella di Sarzana7. Gioacchino Assereto “Altr’operedi qualità andò anche facendo per ornamento delle più principali sale e Gallerie diGenova”8.

Per i “Signori di qualità”I pittori, specie alcuni, non lavoravano solo per chiese, conventi, oratori, ma ancheper quelli che oggi chiamiamo “privati” e che il Soprani chiama preferibilmente“Gentiluomini” o “cavalieri”. Ma anche “Signori di qualità”.Bartolomeo Biscaino “in poco s’avanzò a tavole grandi historiate molte delle quali sivedono nelle case de Signori di qualità per Genova”9. E a proposito di Antonio Travi:“Tale fu l’applauso per questa perfetta maniera del nostro virtuoso (il Travi) cheglorioso suonava da ogni parte il di lui nome, ond’hebbe incombenza di servire aprincipali Cavalier & a Signori di qualità”10.

Chi sono questi “Signori di qualità”? Sono gli “Intendenti di pittura”, i collezionisti. Tra tutti spicca certamente la figura diGio. Carlo Doria, “promotor dell’Accademia del disegno”11, “che a proprie spese e apro degli studiosi manteneva”12, e nella quale “furono introdotti solamente Pittori dimerito”13. Un vero e proprio circolo elitario di cultura artistica, frequentato anche dapoeti e letterati14. Ma oltre al Doria, definito “gentil’uomo curiosissimo e vero amatore dell’arte dellapittura”15, erano tanti altri coloro che si appassionavano di arte o che comunque ri-tenevano che l’acquisto di dipinti potesse costituire un valido investimento, se nonaltro d’immagine16.

Tra gli amanti delle arti vi erano ovviamente gli stessi pittori. Il Soprani ricorda chedi opere “se ne vedono adornate le Chiese, & i Palazzi de Principi, e de Nobili,appresso de quali non è chi possa ignorare in qual stima sii la pittura, essendo chenon solo si vedono le loro case abbellite de Pitture preggiatissime, ma molti sonoancora, che d’avervi li stessi Pittori, pare che in certo modo si honorino”17.Nella biografia dello Scorza, di nobili natali come il suo maestro Giovanni BattistaPaggi, si legge: “S’incamminava a gran passi per toccar quanto prima la meta dellagloria: & erano le sue picciole tavole sì accette, e desiderate da ognuno, che anche glistessi Pittori ammirandone l’esattezza, procuravano di averne alcune ne’ lorogabinetti, imitati in ciò da molti signori, e da tutti gl’Intendenti di Pittura, i quali agara qualche disegno o tavolina di Sinibaldo per ornamento delle loro stanze ostudioli li procacciavano”18.

Leggendo dunque in alcune dichiarazioni esplicite, ma anche tra le righe dellafitta documentazione offerta dalle Vite del Soprani, riusciamo con lui a entrare in“case private”, “palazzi”, “gallerie”, “gabinetti”, “studioli”, “stanze”, “sale” e addirittura“musei curiosi” dei “Principi”, “Nobili”, “Gentiluomini”, “Cavalieri”, “Signori” e“Intendenti di Pittura”19. Poi toccherà agli eruditi locali o ai viaggiatori accompagnare davvero per mano illettore di casa in casa, di palazzo in palazzo, con le guide dei secoli XVII e XIX, scritteda veri e propri ciceroni di penna20.Oggi, il lavoro storico critico condotto negli ultimi anni di indagine attenta neimeandri del collezionismo privato di allora e di adesso, offre molti dei suoi risultaticon le mostre21. Già a partire da quelle organizzate da Antonio Morassi nell’immediatodopoguerra22, per passare a quelle importantissime su Genova nell’Età Barocca diEzia Gavazza e Giovanna Rotondi Terminiello nell’anno colombiano 199223, e VanDyck. Grande pittura e collezionismo con una regia a più mani nel 199724; si giungealla mostra L’Età di Rubens. Dimore committenti e collezionisti genovesi ideata daPiero Boccardo e curata anche da me per l’anno di Genova capitale Europa dellacultura nel 2004, dedicata ancor più esplicitamente al ruolo del collezionismo e delmecenatismo nella Genova della prima metà del Seicento25.A queste si aggiunga la mostra di cui questo catalogo rende conto anche per ilfuturo, con tutta la modestia che è d’obbligo e la consapevolezza che questo piccolocontributo è poca cosa rispetto alla mole consistente di lavoro che la precede. Conquest’ultima mostra, tuttavia, nella sequenza di una sessantina di dipinti passati dimano in mano e oggi eccezionalmente fruibili per il pubblico, è possibile tracciareper sommi capi un breve excursus sulla storia della pittura genovese a destinazioneprivata nella sua stagione aurea. E se il catalogo, per ovvie esigenze di consultazione, pone le opere in sequenzaalfabetica per artista, la mostra le raggruppa per temi in modo da toccare, intrecciati

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con gli aspetti meramente iconografici, alcuni punti salienti delle dinamiche connesseal mercato delle opere. E dunque, alla loro fruizione domestica, e ancor prima allaloro ideazione funzionale a un godimento intimo, magari in un ambiente riservatocome un “gabinetto” e perché no talvolta con le tele più scabrose celate da unacortina. E infine opere pensate per una devozione che mi piace immaginare a manigiunte tra il profumo di un cero e la penombra di una stanza o di una piccolacappella domestica.

Non me ne vorrà lo studioso se il testo che segue assume un registro ora semplicementedidattico, al fine di illustrare brevemente i contenuti della mostra a un pubblico nonspecialistico, lasciando a questo l’invito di approfondirne i contenuti scientifici nelleschede delle singole opere che seguono.

La lezione fiamminga. Dipingere il presenteTra i notevoli apporti offerti alla cultura artistica locale da due generazioni di pittorifiamminghi presenti a Genova, dalla fine del XVI secolo alla metà del successivo, vi èsenza dubbio la nuova attenzione al presente, al dato naturale colto dal vero, alsingolo oggetto ritratto con attenzione e meticolosa fedeltà al reale. Nella Superba, oltre ai ben noti soggiorni di pittori della levatura di Rubens e VanDyck, ve ne sono altri certamente “minori”, ma altrettanto importanti per determinareun sostanziale cambiamento nella tradizione pittorica locale, tale da potersi definiresenza ritorno.

Nasce grazie ai nordici, e con loro inizialmente si diffonde, la cosiddetta “pittura digenere”, cioè quella che si fonda su temi e soggetti non aulici, né di storia né sacri, masemplicemente tratti dalla vita quotidiana. Sono di straordinaria genuinità e digrande bellezza le testimonianze che artisti come Cornelis de Wael lasciano dellaGenova del Seicento, come sequenze di un film che si andava registrando per lestrade di città, nelle campagne, negli interni di case e chiese, ospizi e oratori. In mostra il Matrimonio (tav. 1; cat. 28) e il Teatrino in piazza (cat. 29) offrono unospaccato fedele del tessuto sociale di allora: nobili e gentiluomini, ma anche poveri,indigenti, mendicanti, in una visione corale che non scade nella retorica, ma resta fe-delmente ancorata al vero.

Con la nascita e diffusione dei “generi”, all’inizio del XVII secolo, si viene definendola figura del pittore specializzato, che si dedica alla rappresentazione di determinatitemi, come i paesaggi o le nature morte, sia come soggetti unici della tela, sia comeinserti più o meno vasti in quadri di vario soggetto.Diventa consuetudine che “figurista”, “naturamortista”, “fiorante” e “paesaggista” si ta

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spartiscano i compiti e realizzino ciascuno i brani della tela a sé più congeniali,cercando di armonizzare i propri linguaggi espressivi. Così era consuetudine nellebotteghe fiamminghe, come dimostra lo splendido Viaggio di Rebecca di PieterBoel (tav. 2; cat. 9) eseguito a due mani, una per gli animali, l’altra per le figure.Un’analoga prassi operativa si diffonde negli atelier che ho voluto definire “fiam-mingo-genovesi”, come quelle dei fratelli De Wael, quello di Jan Roos con ilcognato fiammingo Giacomo Legi e l’allievo ligure Stefano Camogli, quello diVincenzo Malò, trasferitosi da Anversa e che accolse presso di sé il giovane genoveseAnton Maria Vassallo.Come non accadde forse in nessuna altra regione con questa intensità e con taledurata, con questa qualità di risultati, con tale specificità di esito, nella Genovadel Seicento pittori nostrani e artisti del Nord lavorano insieme, in un dialogosenza sosta; condividono gli spazi di una bottega e finanche della stessa tela, asse-gnandosi reciproci ambiti di specializzazione: chi le figure, chi gli inserti dinatura morta, chi i fiori o gli animali. Il successo di questa formula fu allora enorme. Ciò che rimane, frammenti ebrandelli di un tessuto culturale e artistico ben più ricco, ne restituisce almeno l’idea.

Il Vassallo fu un vero e proprio specialista di quella che amo definire “la naturamorta animata fiammingo-genovese”, come dimostra la straordinaria Tavola im-bandita (tav. 3; cat. 50) sempre nella prima sala in mostra. Il Vassallo è, come diceil Soprani (1674), “pittore universale”, cioè capace di destreggiarsi in qualsivogliagenere pittorico. Ma indubbiamente è maestro nel descrive gli oggetti con notevoleverisimiglianza: si vedano i funghi in primo piano. “Dipinger col vero avanti”, come dicono le fonti, diventa prassi consolidata e gliartisti, oltre ad attingere da vari repertori di immagini – per esempio le stampe –escono dalla bottega per dipingere all’aperto, utilizzando come supporto la carta,piccole tele o tavolette. In alternativa assemblano oggetti nell’atelier – frutti, cibi, metalli, libri, fiori,animali domestici – per esercitarsi nella più fedele trascrizione dal vero, fino aiminimi dettagli.Approntano così dei taccuini o album, oppure piccoli dipinti da tenere in bottega,per utilizzare l’immagine anche in future occasioni: in mostra diversi esempi delgenovese Sinibaldo Scorza (cat. 44), del pittore olandese Pieter Mulier detto ilTempesta (cat. 37), e del suo amico ligure Carlo Antonio Tavella (cat. 46). La bellaAllegoria del Vassallo della collezione di Banca Carige è il frutto di un elegante e ta

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sapiente assemblaggio di oggetti e animali che possiamo documentare dipintiprima in piccole “telette da bottega” (cat. 51).

L’accostamento di oggetti nelle nature morte genovesi ha talvolta una ragionesimbolica; cela cioè un significato ulteriore rispetto alla semplice resa del naturale:un richiamo alla Vanitas, un memento mori, un monito della caducità della vitaterrena, come nel caso della tela con gufo e civetta dello Scorza (cat. 44), o nella piùcomplessa Allegoria già ricordata del Vassallo (cat. 51).Ma questo succede a Genova con meno insistenza che altrove; prevale inverol’aspetto puramente descrittivo in funzione decorativa e anche per questo la naturamorta genovese ha una sua ben precisa specificità. Una particolare situazioneclimatica, economica e politica si riflette in pittura e la cultura figurativa genovese,lontana dalla fissità precisionista della pittura nordica salvo rare eccezioni, maturapiuttosto un gioioso gusto per la narrazione.Si tratta di una “natura morta animata”, che di rado prescinde dalla presenza di unao più figure, di uno o più animali vivi che movimentano la scena. Vi è quasi sempreuno spunto narrativo: non solo descrivere, ma raccontare, cioè. L’opulenza e la vivacità che queste scene descrivono vogliono anche rifletterequella di una società, quella aristocratica della Superba, con un misto di naturalezzae di fierezza. Restituendo cioè appieno il più intimo, sincero, e secolare spirito delGenovese.All’inizio del Seicento, gli abitanti della Repubblica aristocratica Ligure si trovavanoall’apice della loro ricchezza. Desiderosi di celebrare una posizione sociale recentementeacquisita, vivono in dimore sontuose ed eleganti e le loro ville suburbane sonocelebri per la vegetazione rigogliosa che le circondava.

Armonie e dissonanze. L’uomo e la naturaDipinger “col vero avanti” voleva dire anche uscire dagli atelier, come si è visto, equindi osservare la natura. Anche questo dà impulso, sempre sull’ondata del consensocollezionistico dei dipinti nordici, alla nascita del genere del “paesaggio”. Non è uncaso, per esempio, che il primo vero e proprio paesaggista della scuola ligure,Antonio Travi, natio di Sestri e formatosi a Genova con lo Strozzi, sia entrato prestoin contatto con il tedesco Goffredo Wals, che è documentato a pigione dallo Strozzinel 162326 e ricordato dalle fonti come “insigne ne’ paesi piccioli, e particolarmentein rottami”27. Le opere note di Wals confermano la prossimità stilistica tra loro,soprattutto in quelle di piccolo formato, laddove in quelle di più ampio respiro, ilTravi giunge a esiti di grande poesia, coniugando le qualità di uno specialista delgenere, capace quindi di cogliere le luci e le atmosfere, unendo però alla visione dellanatura l’interesse per l’uomo. Se la prima caratteristica si appezza in opere come ilta

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Piccolo paesaggio con rovine e figure al chiaro di luna (cat. 49), dove il rudere assurgea una dimensione quasi monumentale rispetto all’esiguità delle comparse umane,l’attenzione a queste si vede più marcata in opere di maggiore impegno, come lacoppia con Rovine, contadine e viandanti (tav. 4; cat. 47) e il suo pendant dove alladonne che portano ceste di patate si sostituiscono alcuni pastori (tav. 5 e fig. 1 a cat.47). La figura del viandante, che erra sereno in una natura incontaminata colta intutta la sua semplicità e asprezza tipicamente ligure, c’è quasi sempre, come asigillare il legame indelebile tra l’uomo e la natura che nel Seicento sentivano cosìvivo. Anche il tema sacro, come per esempio Il ritrovamento di Mosè (cat. 48), ètrattato dal Sestri come fosse un fatto quotidiano: quasi che potesse accadere aciascuno di noi, in un giorno qualsiasi, un fatto che ci faccia toccare con mano lapresenza del divino.

Umano e divino, terreno e ultraterreno s’intrecciano come trama e ordito di untessuto pittorico che in età barocca non ne vuole indicare in modo netto la differenza,ma che preferisce piuttosto, nell’esuberanza pari a quella di un broccato, farnegoderne anche visivamente.La Danza di amorini di Valerio Castello (cat. 19) è la vera trascrizione di un partituradi musica barocca, che si può udire se guardiamo con la capacità di sintonizzarsi conla grazia spensierata di questi angioletti, a cui la natura fa semplicemente da fondalescenico. Le alucce che Valerio traccia con un pennello veloce e leggero sui loro dorsi,come nelle altre straordinarie composizioni con amorini esposte nella stessa sala(tav. 6 ; catt. 14 e 15).Il Cupido che suona il tamburello di Stefano Magnasco (cat. 36) ha un richiamoesplicito alla musica, e tutti insieme, anche nella coralità che l’accostamento inmostra rende eccezionalmente efficace, ci fanno comprendere un concetto fondamentaleper il sentimento umano di allora: quello di armonia. Il rapporto intimo, spensierato, armonico appunto, tra uomo e natura, si vedrànella pittura di paesaggio in Liguria a lungo, come intendono dimostrare le dueincursioni improprie che ho concesso a questa antologia inserendo due tele mera-vigliose e mai viste prima in pubblico di Giuseppe Bacigalupo, eccellente pittoreneoclassico (catt. 4 e 5).

In punta di pennello. Opere minute e “picciole tavole”La trascrizione del dato naturale nella pittura di paesaggio del Seicento genovese è, aseconda dei casi, più o meno meticolosa. Sinibaldo Scorza, nativo di Voltaggio, sul-l’Appennino che allora era entro i confini della Repubblica, è definito dal Sopraninon a caso “Pittore e Miniatore insigne”. Egli è attento come pochi altri al dato dinatura, che conosce da uomo di campagna, più di pittori cresciuti invece tra gli ta

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scogli o tra i moli del porto. La sua formazione è incentrata sulla pratica del disegno,anche per la frequentazione dell’Accademia che il suo maestro Giovanni BattistaPaggi aveva avviato a casa del mecenate Gio. Carlo Doria. Conosciamo i suoi numerosi disegni, ma anche la straordinaria serie di piccoli ramiesposti in mostra – quello firmato dell’Accademia Ligustica (tav. 7; cat. 41) e iquattro provenienti da due diverse raccolte private cat. 42) – che offrono la provatangibile della sua straordinaria capacità di dipingere davvero alla nordica, in puntadi pennello. Lo fa anche, in mancanza di una costosa lastrina di rame, su uncoperchio di una scatola di legno, come attesta il tondino esposto nella stessa vetrina(cat. 43).

Rispetto alla maggior parte degli artisti genovesi e italiani del suo tempo, nellostudio “dal naturale” lo Scorza predilige oltre alla figura umana quei temi – animali,piante e paesaggi – più caratteristici della cultura figurativa fiamminga, che egliconosceva non solo attraverso dipinti presenti nelle raccolte genovesi che certamentefrequentò, dalle stampe che poteva consultare nella ricca biblioteca del suo maestroPaggi, e poi dal vero, per le tante ore trascorse nella campagna della natia Voltaggio.

Nell’universo delle fiabe. Storie, miti, allegorieUn’opera di Scorza nella sezione precedente, il Paesaggio bucolico dell’AccademiaLigustica (tav. 7; cat. 41), dove il giovinetto al centro del piccolo rame è statovariamente interpretato come pastorello o Orfeo, ci introduce in un altro aspettofondamentale della cultura barocca: quello della tangenza tra realtà e mito. E se lì lafavola, cioè l’aspetto narrativo, soccombe rispetto alla prepotenza del dato di natura,più avanti nei decenni, gli artisti genovesi si distingueranno per la capacità difondere nel racconto la naturalezza che avevano appreso dai fiamminghi conl’esuberanza dei colori e delle forme, in ampie orchestrazioni scenografiche dove lastoria viene narrata con tutta l’eloquenza della pittura barocca.

Il testo di riferimento, da cui il pittore trae la sua ispirazione e talvolta segue comefonte precisa per comporre la propria scena dipinta, può essere sacro, letterario otrattarsi di un vero manuale di iconologia. Vediamo in mostra il caso della storiabiblica dell’Incontro tra Giacobbe e Rachele che l’estro barocco di Giovanni BenedettoCastiglione detto il Grechetto è capace di trasformare in una scena galante dalsapore profano, in una sinfonia dolce che presagisce addirittura certi umori rococò(tav. 8; cat. 21). Oppure quelli di due favole ispirate al testo delle Metamorfosi diOvidio: il Bacco e Arianna di Gregorio De Ferrari (tav. 9; cat. 24) e Il Ratto di Europadi Domenico Piola (tav. 10; cat. 39). I due pittori, suocero e genero, maestro e allievo,sono tra i massimi interpreti della stagione del barocco maturo a Genova e in questi ta

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due capolavori inscenano il loro racconto ponendo al centro dell’interesse la forma,quindi la figura trattata nella sua plasticità e potenza scultorea, ma anche della suafluidità di movimento in uno spazio che si apre con energie centrifughe, condiagonali incrociate, nello svolazzar di panneggi e nella convulsa gestualità deipersonaggi. È segno della loro grande modernità l’idea di far prevalere su tutto lapittura. Come faranno nel Novecento i più arditi innovatori, anche i pittori barocchiazzardano di portare agli estremi il piacere della pittura, al di là del racconto.

Non altrimenti può dirsi anche per Bartolomeo Guidobono, in mostra con un verocapolavoro di grazia rococò che pare panna montata, zucchero filato, caramello chesi scioglie al calore di una raggio di sole. La sua Allegoria dell’Innocenza (cat. 33)attinge a piene mani dall’Iconologia di Cesare Ripa (1603), testo di riferimento pergli artisti seicenteschi e ci aiuta a capire come nel Barocco l’allegoria trionfiaccompagnata da questo gusto per l’ambivalenza, per la sospensione di significato, ilmistero, il dubbio, l’incerto, l’insolito, il magico, il terribile, il meraviglioso.Non è forse capace di destare meraviglia quella magia di panni che leggeri si levanonell’aria e lì rimangono nei secoli? Non è forse terribile quel diabolico simbolo delmale che la candida purezza di una giovane e di un putto riescono a sconfiggere solocalpestandolo? Non è questa magia?

Uomini e Dei. Tra sacro e profanoLa mostra si apre al visitatore con un’opera fuori percorso. È uno straordinarioinedito di Giulio Benso con La cacciata dei mercanti dal tempio (cat. 7 e immagine dicopertina).A di là del gusto, diffuso tra gli storici dell’arte, di presentare al pubblico qualcosa dimai visto e di sottrarre all’anonimato un’opera dimenticata per secoli senza che nefosse rimasta traccia dell’autore, l’ho scelto perché emblematico di molti dei temiche la mostra vuole trattare. La sua scenografica composizione, animata da un’acce-lerazione dinamica di chiaro stampo barocco ne fa un manifesto di quest’epoca, chea Genova significò entusiasmo, opulenza, energia. La presenza della figura di Cristo,Dio fattosi uomo, in mezzo alla gente, ai cattivi come ai buoni, ai farisei sordi ai suoimoniti e ciechi di fronte alla sua luce, alle donne e ai bambini a cui lui stesso haregalato la vita e regalerà la salvezza, mi pare sia proprio il tema centrale di questarassegna che con il titolo Uomini e dei vuole ricordare i veri protagonisti della favolabarocca. Dio, in tutte le sue forme e manifestazioni, e l’essere umano, nel bene e nelmale, ricco e povero, santo o infedele. Anche in questo caso i confini della pittura possono non essere per nulla netti edefiniti. Ne sono esempi le opere esposte in questa sezione che degli dei dell’antichitàci mostrano gli aspetti più umani; altre narrano favole bibliche con il gusto per una ta

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descrizione che indugia sulle ricchezze materiali – si veda il bellissimo Esther eAssuero di Andrea Ansaldo (cat. 2) –; alcune infine trattano il tema del piacere contoni decisamente ambigui tra il lecito e lo scabroso.

Si osservino allora sotto tale luce e con questa chiave di lettura la bella Maddalena diLuca Cambiaso (cat. 10), pittore “bacchettone” in piena controriforma, dove la figurapudica nasconde alla nostra vista le sue parti del corpo più intime, ma la cui posturatradisce invero tanta sensualità. Si guardino quanto siano donne le due Veneri uscitedal pennello di Giovanni Battista Paggi (cat. 38) in due “quadri da stanza” cherasentano, pensiamo a quei tempi, punte di vero erotismo. All’eros rimanda anche lastoria di Lot e le figlie che nell’esemplare di Domenico Fiasella in mostra è resa inmodo tutto sommato composto e severo (cat. 30), ma che sappiamo alludere all’incestotra il padre e le figlie che per scongiurare la fine della loro stirpe, dopo l’incendio diSodoma e Gomorra, ubriacano il padre perché non abbia piena coscienza della lorotremenda unione.

Il Barocco, come la vita, è terribile e meraviglioso. Gli dei dell’antichità, le cui storiefondano la nostra cultura classica, sono crudeli ma anche giocosi. Uno dei temiricorrenti nella pittura di quest’epoca sono i cosiddetti “baccanali”, cioè le feste inonore di Bacco, come quella che racconta il sottile pennello di Guidobono nella teladi un Baccanale con menadi, satiri e baccanti (cat. 32). Il tema torna nella tela diGiovanni Andrea Podestà, uno degli inediti più interessanti di questa mostra, conquesto Sileno ebbro così umano nella fragilità e leggerezza regalatagli dal troppo vino(cat. 40).

Regole e licenze. Narrare il divinoUna delle conquiste del Rinascimento è la centralità dell’uomo nel cosmo. In etàbarocca, dopo la rivoluzione introdotta da Copernico (nel 1543), con il pullularedelle eresie strenuamente combattute dal Concilio di Trento (1545-63), con losviluppo delle scienze che svelavano aspetti nuovi di realtà prima sconosciute, questacentralità perde la sua forza e dell’uomo emerge piuttosto tutta la fragilità. Quelladel suo corpo, dei sentimenti, del pensiero che lo tiene vivo, ma che è fluido e imper-cettibile. Così, al di là delle regole che la religione imponeva, soprattutto con gli anniseveri della Controriforma, i pittori raccontano il sacro sottolineandone spessoquegli aspetti di vicinanza tra Dio e l’uomo.

Tra i soggetti più intensi, declinati all’infinito da tanti pittori del Seicento a Genovacome altrove, è quello dell’Ecce Homo, ispirato anche a celebri testi che gli artistilocali probabilmente avevano visto, ossia l’Ecce Homo di Caravaggio (oggi nei Musei ta

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di Strada Nuova a Palazzo Bianco) e quello di Antoon van Dyck conservato pressol’Università di Birmingham. La possibilità di affiancarne in mostra tre diverse inter-pretazioni, da parte di Gioacchino Assereto, Valerio Castello e Orazio De Ferrari(catt. 3, 16, 27), e poi quella resa con più senso della narrazione rispetto al focus sullafigura dolente di Cristo, da Bartolomeo Biscaino (cat. 8), è un’ottima opportunitàper cogliere davvero il pathos che gli artisti erano capaci di infondere al soggetto,ciascuno a proprio modo e con il proprio stile. Al sacrificio di Cristo che si è fatto uomo allude anche lo splendido Ragazzo conagnello di Bartolomeo Guidobono (tav. 11; cat. 31), perché chi osserva quel giovanecon il filtro del sentimento di un uomo del Seicento, non potrà che cogliere una sim-bologia cristologica nell’animale solitamente offerto in sacrificio e qui appena ucciso,in procinto di versare il suo sangue.

È un invito a meditare, con il linguaggio della pittura. Più esplicitamente invitano aquesto anche tele come il San Gerolamo di Orazio De Ferrari (cat. 26) e una dellatante “fraterie” di Alessandro Magnasco (cat. 34), dove il santo con i testi sacri nelsuo studio e i monaci eremiti in preghiera devono fungere da chiari exempla. Tali sono anche i santi: uomini che si sono distinti per la loro capacità di imitareGesù, e quindi di avvicinarsi a Dio. Tanta pittura seicentesca racconta dei loromartiri, delle loro estasi o visioni. Si vedano, due tra i tanti esempi possibili, la telacon Santa Teresa d’Avila saettata dall’angelo sgorgata dal pennello generoso diBernardo Strozzi (cat. 45), il piccolo rame con La comunione di santa Caterina daSiena di Giovanni Andrea Carlone (cat. 11); o, ancora, il Supplizio di san Clemente diCarlone padre, Giovanni Battista (cat. 12), bozzetto per una delle tre grandi paled’altare che la famiglia Lomellini aveva commissionato a questo capace colorista.

A mani giunte. Pathos, sentimento, devozione In questo cammino che ci ha accompagnato attraverso la spensieratezza della vitaquotidiana colta nella sua semplicità, ci ha immerso nella magia di una naturaritratta con poesia e fedeltà, per poi passare nella magica trasposizione nelmondo fantastico del mito e della fiaba, il tema sacro, centrale nella Genova delSeicento cattolica e austera, non è sempre trattato con freddo rigore. Anzi, sipresta a svelare i sentimenti più intimi dell’uomo di allora e ci consente di entrarenell’anima dei pittori che in modo passionale riuscivano ad affrontare il soggettosacro. Ci offre al contempo l’opportunità di capire come la religiosità potevaessere vissuta, al di là delle convenzioni e delle regole, degli schemi e dei contestipubblici, nell’intimità di una camera dove inginocchiarsi a mani giunte di frontea un’immagine. D’innanzi a Dio.Nell’ultima sezione della mostra sono presentate opere di piccole dimensioni che ta

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per tema e formato erano intese come immagini devozionali. Tali erano le moltissimeminiature che venivano richieste a Giovanni Battista Castello, di cui si presenta unaCrocifissione (cat. 13) che ha la caratteristica non solo di essere uno dei soggetti da luipiù replicati, ma anche di conservare integra la cornice fatta con le sue stesse mani. Ilpittore, che era stato orefice prima di passare alla pittura, confezionava questepiccole opere interamente con pazienza e forte delle sue speciali doti manuali.Inseriva l’immagine, dipinta con un pennello minuscolo a tempera su un foglio dipergamena, in una cornice che talvolta abbelliva con una decorazione in laminad’argento sbalzata e cesellata, come nell’esemplare esposto.

La passione di Cristo, e in particolare l’episodio che culmina nella Crocifissione, ètema ricorrente in questo tipo di opere. Per la prima volta è questa l’occasione diesporre l’una accanto all’altra tre versioni che ci regala il geniale estro barocco delCastiglione (cat. 22), vicino a un suo San Francesco in adorazione del Crocifissoaltrettanto intenso (cat. 23). Al di là dell’aspetto iconografico il conoscitore potràapprezzare la disinvoltura con cui il Grechetto passa da una tecnica all’altra, con lafoga di un coraggioso sperimentatore che sappiamo essergli propria. Due esemplarisono a olio su tela, due sono invece dipinti a olio su carta, e quest’ultima è applicatain una caso su tela, nell’altro su una tavoletta. Accanto a questi soggetti sono affiancati una commovente Pietà di Valerio Castello(tav. 12; cat. 17), un pittore che qui dà prova della modernità del suo stile, che risultaancor più evidente dal confronto con la teletta che le è accanto, dipinta circa mezzosecolo dopo da Alessandro Magnasco (cat. 35). La pittura corsiva e un ductus leggeroe veloce accomunano questi due pittori, da annoverarsi tra i massimi protagonisti diquesta scuola. Si veda il piccolo San Gerolamo che il Castello esegue su rame (cat.18), e si noti poi quanto è speciale Valerio anche quando affronta un tema dei piùconvenzionali come la Madonna col Bambino (cat. 20) e si vedrà come riesca semprea essere intenso, accattivante, dolce, commovente. Più convenzionale, ma capace di essere struggente, Simone Barabino nel suo piccoloCompianto sul Cristo morto (cat. 26) dalle tinte acide e squillanti a confronto a quellecupe di Valerio e del Lissandrino, ma le cui figure dolenti non sono meno cariche dipathos. Di segno ancora diverso, il barocco maturo di Gregorio De Ferrari, qui presente contre piccoli rami, mai esposti l’uno accanto all’altro (cat. 25). Sono preziosetestimonianze di come anche il più leggiadro pittore rococò a cui la Liguria abbiadato i natali riesca a svelare, in queste operine da godersi nell’intimo di una cappelladomestica o di una camera da letto, le pieghe in ombra di un’epoca trionfante. Diuna Genova capace di godere della ricchezza accumulata nei secoli, che da lì abreve avrebbe iniziato a svanire, ma capace anche di stare in silenzio. Commuoversi.E pregare.

1 R. Soprani, Le vite dé Pittori, Scoltori, et Architetti Genovesi, e dé Forastieri, che in Genova con alcuniRitratti de gli stessi. Opera postuma..., Genova 1674.2 Soprani 1674 cit., p. 130.3 Soprani 1674 cit., p. 138.4 Soprani 1674 cit., p. 117.5 Soprani 1674 cit., pp. 256-257.6 Soprani 1674 cit., p. 228.7 Soprani 1674 cit., p. 246.8 Soprani 1674 cit., p. 172.9 Soprani 1674 cit., p. 202.10 Soprani 1674 cit., p. 243.11 Soprani 1674 cit., p. 180.12 Soprani 1674 cit., p. 23713 Soprani 1674 cit., p. 168.14 Su di lui cfr. V. Farina, Giovan Carlo Doria, promotore delle arti a Genova nel primo Seicento,Firenze 2002.15 Soprani 1674 cit., p. 128.16 Cfr. L’Età di Rubens. Dimore, committenti e collezionisti genovesi, catalogo della mostra di Genova,a cura di P. Boccardo e A. Orlando, Milano 2004.17 Soprani 1674 cit., Proemio. 18 Soprani 1674 cit. pp. 129-130.19 Questi termini sono tutti utilizzati qui e là nel suo testo.20 Tra le guide più note e importanti si ricordano qui: C.G. Ratti, Instruzione di quanto può vedersi dipiù bello in Genova in pittura, scultura ed architettura, Genova 1780; Descrizione della città di Genovada un Anonimo del 1818, a cura di E. e F. Poleggi, Genova 1969; F. Alizeri, Guida artistica per la cittàdi Genova, 3 voll., Genova 1846-1847; F. Alizeri, Guida illustrativa del cittadino e del forastiero per lacittà di Genova e sue adiacenze, Genova 1875; per arrivare a W. Suida, Genua, Leipzig 1906. 21 Al di là delle mostre, ho piacere di ricordare i volumi che ho dedicato proprio al frutto delle miericognizioni di anni nel collezionismo privato, senza i quali questa stessa mostra non sarebbe statapossibile: Genova e il collezionismo del Novecento. Studi nel centenario di Angelo Costa, a cura di A.Orlando, Torino 2001; Dipinti genovesi dal Cinquecento al Settecento. Collezione Koelliker, a cura diA. Orlando, Torino 2006; Il Palazzo Pallavicino e le sue raccolte, a cura di P. Boccardo e A. Orlando,Torino 2009; A. Orlando, Dipinti genovesi dal Cinquecento al Settecento. Ritrovamenti dal collezionismoprivato, Torino 2010; A. Orlando, Pittura fiammingo-genovese. Nature morte, ritratti e paesaggi delSeicento e primo Settecento. Ritrovamenti dal collezionismo privato, Torino 2012; Barocco genovese daVilla Giulietta: opere del XVII e XVIII secolo, a cura di A. Orlando, casa d’aste Boetto, Genova 2014.22 Per l’epoca che qui interessa: Mostra della pittura del Seicento e Settecento in Liguria, catalogo dellamostra di Genova, a cura di A. Morassi, Milano 1947.23 Genova nell’Età Barocca,catalogo della mostra di Genova, a cura di E. Gavazza e G. RotondiTerminiello, Bologna 1992. 24 Van Dyck a Genova: Grande pittura e collezionismo, catalogo della mostra di Genova, Milano 1997,ebbe come curatori S. Barnes, P. Boccardo, C. Di Fabio e L. Tagliaferro.25 L’Età di Rubens. Dimore, committenti e collezionisti genovesi, a cura di P. Boccardo, con lacollaborazione di C. Di Fabio, A. Orlando, F. Simonetti, Milano 2004.26 L. Alfonso, Liguri illustri: Bernardo Strozzi, in “La Berio”, XXI, 1981, n. 3, p. 16.27 Soprani 1674 cit., p. 242.