Nibiru. Nicola Genovese / Sabina Grasso

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Booklet for the double solo show by Nicola Genovese and Sabina Grasso at Mars - Milan Artist Run Space. Text by Francesco Ragazzi and Francesco Urbano

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Era stagione di ciliegie. Ricordo che ne avevo preso un bel sacchetto e che erano scure e piene. Mi accompagnavano a passeggio in una notte con il cielo contrario, mentre cercavo di bruciare i pensieri con le azioni.In bocca, una ad una, ne spolpavo la carne. Sembravano fatte di sangue, come piccole ferite. A volte la frutta mi sembra viva ed è per questo che i centrifugati mi impres-sionano. Le strade erano vuote e la notte si faceva più densa. Cercavo di intercettare i fili di vento per farmi portar via. E facevo vela con il mio k-way nero. Ma l’aria era troppo debole e le nubi ancora salde su di me.

Nel viale vuoto davo vita alle ombre. Animavo gli angoli di figure bestiali, aspet-tando un impatto che mi lasciasse sguarnito. E allora alzavo il passo, incerto se sfuggire o andare incontro alle mie proiezioni. Una luce calda dall’interno di un pian terreno mi fermò. Intravidi la vita di una casa alla fine della giornata: una signora intenta a lavare i piatti, una giovane donna stesa sul divano a sfogliare un rotocalco.Mi sistemai di fronte, seduto su un gradino. Avevo trovato il posto dove finire le ciliegie. Entrando avrei potuto scoprire che le due donne erano frustrate e che quella era una famiglia piena di tristezza, ma, visto da lì, il loro focolare era perfetto. Era l’idea di casa.Mi prese un senso di intimità e quiete. Riuscivo a percepire un rumore sordo di piscina: quel sottofondo incessante del mondo che continua a dispetto di tutto.

Iniziò a piovere. Erano le prime gocce che annunciavano un temporale. Pensai che la pioggia arriva sempre inconfutabile. È la verità.Tornai a casa per sentirla in lontananza.

Francesco Urbano Ragazzi

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Bibliografia

M. si tolse gli occhiali con la mano sinistra e con la destra si strofinò energica-mente le palpebre e il naso. Aveva letto dieci pagine intere, la metà del primo capitolo, in un’ora esatta: il tempo medio che una persona adulta impiega a leg-gere quel numero di righe. Ma il foglio giallo a quadretti che pomposamente aveva intitolato FOGLIO DELLE IDEE era rimasto intonso.M. si rimise gli occhiali con la stessa mano e indugiò ancora una volta lungo la catena di pensieri negativi che lo aveva portato a stare dove stava, nel punto più immobile, pigro e tormentato della sua pur breve vita. Punto che durava da 2 anni e 7 mesi e che, secondo la geometria euclidea, sarebbe stato ormai più cor-retto chiamare segmento. Non più di 22 parole in 24 ore, non più di una frase al giorno era uscita da penne o tastiere da lui maneggiate. Fatto davvero inspiegabile per chi aveva redatto in appena 36 giorni una tesi di 89 pagine dal titolo “Elementi platonici nei Principi di Aritmetica di Gottlob Frege” e in meno del triplo del tempo la dissertazione “Falsità della poesia. Il concetto di senso secondario in L. Wittgenstein e D. David-son”: 203 cartelle che avevano ricevuto la dignità di pubblicazione dal senato ac-cademico, ma che sfortunatamente non erano mai state pubblicate per davvero. Poi più nulla. Come se la fontana interiore del suo genio si fosse prosciugata, come se una specie di avarizia culturale lo avesse colpito, spingendolo a non scommettere più sulla possibilità che le sue azioni producessero conseguenze di qualche tipo. Se lo schema generale dell’intenzionalità è espresso con la formula “M fa X per ottenere Y”, M. nella realtà oscillava tra 2 convinzioni adamantine. O si convince-va che non esisteva per lui alcuna Y, che la ricerca stessa di una Y fosse inutile e insensata, oppure arrivava a concludere che la consequenzialità necessaria a rag-giungere una Y di valore sufficiente fosse troppo lunga per ripagare davvero la fatica fatta, del tipo “M fa X per ottenere A e da A fa B per ottenere C e da C fa D per ottenere F” e così via. Lo schema dei suoi stati conativi si era dunque ridotto a “M ha espresso l’intenzione di fare Y” ma non vedeva - al di là di questi slanci puramente mentali- alcuna speranza concreta di riscossa, miglioramento, svolta o, appunto, di semplice azione materiale rilevante.

Come c’era finito mani e piedi in questo pantano? Fosse stato per lui, M. avrebbe saputo rispondere a botta sicura. Era colpa di quell’immondo pezzo di merda che tanto poco aveva in comune con lui, ma che così tanto aveva interferito nel suo destino 2 anni e 7 mesi fa: una persona che ancora adesso gli bruciava così tanto ricordare da non aver mai più pronunciato il suo nome né in pubblico né in privato nemmeno una volta. Nemmeno quando il discorso si faceva così diretto e circostanziato che i suoi tentativi di evitare l’argomento lo facevano apparire come un ritardato completo. Purtroppo però, nessuno di coloro che avevano as-sistito all’evolversi degli eventi poteva avvalorare la sua tesi, giudicando piut-tosto l’accaduto come una lite per futili motivi tra due amici troppo orgogliosi. Non che i fatti non fossero evidenti di per loro. Era solo che nessuna delle fre-quentazioni di M. in quel periodo aveva la finezza psicologica per comprendere e stigmatizzare il subdolo sentimento di invidia di cui lui era stato vittima. Nel biennio trascorso quasi per intero nel proprio appartamento al sesto piano di uno stabile appena ristrutturato M. non era riuscito a far diminuire il desiderio di cavare gli occhi dalla testa grossa e sproporzionata di quel suo nemico assoluto.

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Anzi, l’immagine di se stesso con un cucchiaio da minestra in mano che scavava i due bulbi flaccidi per farli cadere a volte sull’asfalto ghiaioso, a volte in un poz-zanghera lo rinfrancava a tal punto che sentiva il bisogno di ripeterla e ripeterla e ripeterla ancora dentro di sé.La sua psicologa gli aveva fatto notare che di solito le fantasie sadiche sono strutturate dalla mente umana come punizioni di contrappasso. Esse hanno la funzione di ristabilire, almeno a livello simbolico, la giustizia che si percepisce calpestata. La psicologa esortò quindi M. a domandarsi se l’ossessione per gli oc-chi della persona che era obbligato ad odiare non fosse dovuta al fatto che lui stesso sentiva di essere stato “accecato” da quella persona. La sua vita, forse, era stata precipitata in una fitta oscurità che gli rendeva impossibile agire. Di cosa, in quella situazione piena di spigoli nel buio, poteva ancora avere fiducia? Si arrivava così al tema del tradimento, al punto della catena di pensieri negativi oltre cui M. non procedeva senza essere invaso da una rabbia feroce. Rabbia che si manifestava con sintomi precisi: sentiva la materia grigia contenuta nel suo cranio come trasformarsi in un bicchiere d’acqua che vibra sempre più forte sotto le scosse di un terremoto. E non serve dire che durante quei terremoti la sua vista effettivamente si annebbiava. “Cazzo!” M. sussurrò a quel punto nella stanza vuota. Talvolta infatti i suoi pens-ieri peggiori si facevano così persistenti che la sua mente aveva bisogno di stac-carsi subito da loro e risalire alla realtà. Immaginate allora una caffettiera las-ciata sul fuoco che, se non sbrodola fuori il suo liquido nero, salta in aria come un proiettile: così, come il liquido nero, erano le parole sussurrate da M. di tanto in tanto. Tornato padrone di sé attraverso quel richiamo verbale, M. ricontò le pagine lette dal libro che aveva davanti. Era un saggio di Jacques Derridà del 2003 intitolato Spettri di Marx: l’unico testo che M. avesse mai preso in mano da 2 anni e 7 mesi a questa parte. Com’era evidente, non ne aveva nemmeno superato la metà.Il suo progetto originario era di usare alcuni concetti espressi nel primo capitolo per scrivere un articoletto da pubblicare su una rivista specializzata. Sarebbe sta-to, pensava, il suo atto d’abiura alla filosofia analitica per passare a interessarsi di ermeneutica. In 2 anni e 7 mesi però era riuscito a scrivere solo 2 cartelle e venti righe in Times New Roman, dimensione 12, interlinea doppia, bordi standard. Sapeva di non aver raggiunto quello scarso risultato per pigrizia: la maggior par-te dei giorni, il suo non far nulla era colorato da una tensione talmente alta che al calare della sera i muscoli delle sue mani e dei piedi doloravano sonoramente.L’ombra di quella sensazione terribile lo fece trasalire. M. si affrettò a cambiare argomento nella sua testa e, per dimostrare a se stesso di aver imparato a control-larsi, si mise a ripassare i dati che aveva collezionato per scrivere il suo articolo.Di Spettri di Marx ad M. piaceva quest’idea: l’idea che il capitalismo organizza il mondo in funzione dei morti (le merci) piuttosto che dei vivi (gli esseri umani). M. trovava la similitudine tra spettri e oggetti di consumo efficacie per un incipit incisivo. E questa era la parte del testo che aveva già scritto.Non sapeva ancora come, ma M. era certo che a partire da lì si sarebbe legato ad alcuni appunti presi durante una lezione di Hélène Cixous che aveva seguito a Parigi. Era rimasto colpito in particolare da due argomentazioni:1) Nell’Amleto di Shakespeare è presente una allitterazione della vocale “o” che a livello di significante rafforza la presenza del fantasma prima ancora che questosi manifesti nella trama, cioè a livello del significato. “O” è infatti il suono

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che la nostra cultura associa agli spettri, come empiricamente dimostrato dall’espressione dell’uomo in primo piano ne L’Urlo di Edward Munch e da centinaia di altri esempi. 2) Il termine “spectrum” condivide l’etimologia di “speculum” e “speciale”, en-trambi aventi significati secondari riferiti a donne, omosessuali o artisti.

Un terzo appunto sul Don Giovanni di Mozart fece fare ad M. una considera-zione nuova. Si era sempre immaginato i fantasmi come corpi gassosi che, se non trattenuti dal classico lenzuolo bianco, si sarebbero dispersi o avrebbero saturato l’ambiente intorno a loro entrando nei polmoni della gente come fumo di sigarette. L’esatto contrario del convitato di pietra attorno a cui ruotava il plot dell’opera lirica. M. si chiese se non sarebbe riuscito a inserire, da qualche parte nel suo articolo, un excursus storico sulla rappresentazione metaforica degli spettri nella cultura europea. Si chiese in particolare se avrebbe trovato altri esempi di fantasmi de-scritti attraverso materie solide.Certo, questo ulteriore passaggio avrebbe reso ancor più difficoltoso rintrac-ciare un nesso con l’ultima parte del suo scritto: un’analisi della passività come nozione positiva in alcuni filosofi del XX secolo. Finora aveva individuato tre casi studio:- il saggio L’Abbandono di Martin Heidegger, trascrizione di una conferenza del 1955;- l’espressione “se deprendre de soi-même” formulata da Michel Foucault du-rante qualche corso al Collège de France di cui M. non ricordava il titolo;- la nozione di vulnerabilità nella teoria etica di Judith Butler.A ciascuno di questi autori aveva poi associato tre fenomeni letterari che ne dovevano rappresentare la controparte negativa. Erano sicuramente nella lista Gli Indifferenti di Alberto Moravia e La Nausea di Jean-Paul Sartre, ma spettava al terzo romanzo il gran finale del ragionamento.Non si trattava dell’Oblomov di Ivan Alexandrovic Goncharov, a cui segreta-mente M. aveva paura di somigliare, ma del Bartleby di Herman Melville, il cui protagonista era di certo più anarchico e raffinato del collega russo. Bastava gustare la piena sonorità della frase che lo aveva reso celebre “I would prefer not to” di cui l’enunciato italiano era il calco perfetto: “Avrei preferenza di no”.Avrei preferenza di no. Una frase così garbata e inoppugnabile che M. si era ripromesso di usarla, appena se ne sarebbe presentata l’occasione.

Non fece in tempo a ricordarsi chi era l’autore di quella splendida traduzione che il telefono squillò, facendo crollare come un castello di carte il complicato edificio teorico del saggio. M. si alzò dalla sedia e già al terzo squillo afferrò l’apparecchio per rispondere. Dal tono che aveva assunto si capiva che doveva essere una conversazione di lavoro, o comunque formale. M. assentì con un breve mmh per cinque volte e poi concluse con - Volentieri! - prima di congedarsi e riattaccare. Se solo si fosse sentito! Gli sarebbe bastato sentire quel volentieri detto in modo così affermativo per capire che aveva fatto altre scelte e tutti quei pensieri non lo riguardavano più da molto tempo. Sareb-be stato subito meglio.

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This booklet has been printed for Nicola Genovese and Sabina Grasso’s show “Nibiru” at MARS, an artist run space in Milan, in May 2012.

Inner text: Francesco Ragazzi Urbano

Nicola Genovese thanks:Ebay.com and Marta Rampazzo

Sabina Grasso thanks:Space Beam Community (South Korea)Organhaus Art Space (China)Chrome Milano

printed in 50 copies

marsmilano.com