Universita del Salento - Istituto Nazionale di Fisica Nucleare La questione in gioco e la teoria...

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Universit ` a del Salento Facolt ` a di Scienze Matematiche Fisiche e Naturali Corso di Laurea in Fisica Gravit` a newtoniana in spazi curvi Calcolo della precessione del perielio di un pianeta Laureando: Federico Capone Relatore: Chiar.mo Prof. Francesco De Paolis Anno Accademico 2014-2015

Transcript of Universita del Salento - Istituto Nazionale di Fisica Nucleare La questione in gioco e la teoria...

  • Università del Salento

    Facoltà di ScienzeMatematiche Fisiche e Naturali

    Corso di Laureain

    Fisica

    Gravità newtoniana in spazi curvi

    Calcolo della precessione del perielio di un pianeta

    Laureando:Federico Capone

    Relatore:Chiar.mo Prof. Francesco De Paolis

    Anno Accademico 2014-2015

  • Indice

    Introduzione II

    1 La teoria della gravitazione universale 11.1 Le equazioni fondamentali . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 21.2 Il problema di Keplero . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 41.3 La precessione del perielio di Mercurio. Una breve incursione in

    relatività generale . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 8

    2 Geometria e Fisica 122.1 Spazi euclidei e spazi non euclidei . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 12

    2.1.1 Spazio euclideo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 132.1.2 Gli spazi curvi . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 152.1.3 Geometria estrinseca e geometria intrinseca . . . . . . . . . . 162.1.4 Metrica . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 182.1.5 Curvatura gaussiana di una superficie . . . . . . . . . . . . . . 23

    2.2 Curve e cinematica . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 242.2.1 Curve negli spazi euclidei . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 242.2.2 Curve negli spazi non euclidei . . . . . . . . . . . . . . . . . . 28

    3 Gravità newtoniana in uno spazio curvo 303.1 Posizione del problema . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 303.2 Un modello di spazio curvo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 343.3 Equazioni del moto . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 353.4 Perturbazione dell’orbita . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 403.5 Spazi a curvatura costante . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 423.6 La precessione del perielio di Mercurio . . . . . . . . . . . . . . . . . 43

    Conclusioni 46

    Bibliografia 48

    I

  • Introduzione

    Questo lavoro di tesi nasce dalla curiosità che la lettura del brevissimo articolo diAbramowicz [1] ha suscitato nel mio relatore e in me.

    La questione in gioco è la teoria della gravitazione universale di Newton e le sueprevisioni.

    Prima di specificare meglio il senso della precedente affermazione e prima diutilizzare lo spazio dell’introduzione per delineare la struttura e l’obbiettivo delpresente lavoro, vorrei raccontare brevemente la genesi e l’evoluzione dell’idea che siè poi materializzata in questo testo. Credo infatti di poter meglio spiegare lo scopodel lavoro se mi rifaccio alla sua evoluzione cronologica.

    Come detto, tutto nasce dalla proposta del prof. De Paolis di leggere - riportopiù o meno fedelmente le sue parole - “il simpatico articolo di Abramowicz” scrittonel 2012. Lo scopo era semplice: analizzare in dettaglio l’articolo e l’idea che nesta alla base, per poter guadagnare una posizione diversa da cui guardare alla fisicanewtoniana. Posizione diversa rispetto a quella ortodossa insegnata nei primi corsidi fisica. Inizialmente ho accolto la proposta con un po’ di scetticismo perché misembrava banale e riduttivo presentare come lavoro conclusivo del primo ciclo distudi la discussione della teoria newtoniana della gravità che è un compito affrontatonel primo anno di studi universitari; inoltre né la lunghezza dell’articolo né lasua bibliografia (praticamente assente) mi davano la certezza di fare un lavorosufficientemente articolato.

    Tuttavia il problema posto mi divertiva molto e l’ho da subito considerato una“spassosa curiosità”, come quei problemi che hanno per protagonista il barone diMünchhausen che si trovano di quando in quando sulle bellissime raccolte A Guideto Physics Problems, vol I, II ; dalla lettura di [1] sembra che lo stesso autoreabbia elaborato l’articolo come un passatempo. Infatti, l’articolo il cui studioera l’obbiettivo primo di questo lavoro, è stato scritto da Abramowicz durante unperiodo di ricovero e convalescenza in un ospedale di Varsavia. È sorprendentementesemplice l’idea da cui esso muove. Sembra che l’autore, non avendo avuto nulla dafare durante i lunghi e noiosi giorni passati nel letto dell’ospedale, sia voluto ritornareal passato sfogliando gli appunti presi a lezione da giovincello diversi anni fa. Su

    II

  • quegli appunti, che presumibilmente assomigliano agli appunti di ogni studente difisica alle primissime armi, c’era scritta l’equazione di Newton del moto di un puntomateriale di massa m in orbita circolare in un campo gravitazionale generato da unamassa M :

    GMm

    r2= m

    v2

    r

    La vista di questa equazione e la sua esperienza da fisico hanno portato il nostroautore ulteriormente indietro fino al primo foglio di cinematica in cui aveva scrittoche la r che compare nell’espressione dell’accelerazione centripeta è, in realtà, ilraggio di curvatura della traiettoria che coincide con il raggio della circonferenzasolo per traiettorie piane. Poi Abramowicz ha fatto uso delle sue conoscenze digeometria differenziale per aggiungere alla precedente affermazione quest’altra: ilraggio di curvatura e il raggio della curva sono la stessa cosa solo nel particolarissimocaso della geometria euclidea piatta, ma non possono essere identificati tra loro nellageometria non euclidea in cui noi viviamo. Questa è, immagino fantasiosamente, lagenesi dell’articolo [1]. Il resto segue dallo sviluppo di questa idea. In particolareAbramowicz si chiede se non sarebbe stato possibile per un fisico newtoniano,privo di ogni conoscenza di relatività generale, far cadere l’ipotesi che lo spaziosia euclideo - ipotesi fondante della fisica pre-einsteniana - e, conseguentemente,riuscire a calcolarne la curvatura. Una simile domanda riveste, mi pare, un interessestorico-filosofico su cui spenderò qualche parola in seguito.

    Tuttavia con il solo riferimento a questo articolo sarebbe stato molto difficilescrivere un lavoro di tesi triennale. Fortunatamente però la genesi delle idee diAbramowicz non è stata quella che ho esposto in precedenza (la quale è stata laprima idea che mi sono fatto). L’articolo [1] è una revisione dell’articolo del 2003[2] il quale, a sua volta, è l’estensione di un articolo del 1997 [3], in cui, per quantomi è dato sapere, si affaccia per la prima volta in Abramowicz e nei suoi colleghil’idea di dimostrare che, stando alla fisica newtoniana, si possono prevedere conuna certa precisione alcuni risultati che vanno sotto il nome di test classici dellarelatività generale. Questa scoperta bibliografica ha dato molte fonti su cui lavorareper cercare di cogliere appieno la derivazione di Abramowicz. Infine, lo sviluppopluridecennale di questa idea del fisico polacco, si è (per ora) concluso con l’articolo[4], pubblicato nel 2014, in cui viene dimostrato che per quel fisico newtoniano che sipone domande circa la curvatura dello spazio è anche possibile calcolare precisamentela precessione del perielio di Mercurio e l’angolo di deflessione della luce.

    A riprova del fatto che le idee espresse negli articoli oggetto dello studio non sonodelle semplici curiosità, si può citare la discreta attenzione che essi hanno ricevutoda parte di altri studiosi (si veda ad esempio [5]) che hanno visto nell’estensione

    III

  • della teoria newtoniana della gravità operata da Abramowicz e dagli altri autori del[4] il terreno fertile per la comprensione di una grande varietà di fenomeni quali ibuchi neri e gli wormholes.

    È opportuno, inoltre, spendere qualche parola per inquadrare l’articolo studiatonel panorama della letteratura scientifica. Il suddetto articolo, insieme a tutti glialtri ad esso legati (vedi bibliografia), non può rientrare in quella categoria di lavorisulle teorie alternative (rispetto alla teoria di Einstein) della gravitazione sebbeneun primo veloce sguardo potrebbe far ritenere il contrario. Non credo infatti chené Abramowicz né i suoi colleghi abbiano mai dubitato della RG a tal puntoda cercare una strada veramente alternativa. Questi articoli, invece, si collocanoall’interno di una riflessione più ampia sulle possibili spiegazioni dei vari fenomenicaratteristici della fisica gravitazionale. Trovare interpretazioni semplici, quasi intermini newtoniani, di fenomeni relativistici è una caratteristica presente in moltilavori di Abramowicz degli ultimi decenni.

    In questo lavoro mi soffermerò solo sullo studio dell’articolo [1] e di parte del [4] eprenderò in esame unicamente lo studio della precessione del perielio di Mercurio nelmodello di Abramowicz evitando alcuni aspetti molto avanzati di relatività generale.Questi compaiono in [4] e non potrebbero essere trattati in questa sede perchérichiedono estrema perizia nell’uso della geometria differenziale e nella conoscenzadella geometria ottica, un formalismo relativistico sviluppato da Abramowicz e daisuoi colleghi molti anni fa in [6], [7] (articoli che qui vengono citati con il solo scopodi referenza). Perdersi in discussioni di quel tipo avrebbe condotto questo lavoromolto fuori dall’obbiettivo che mi sono posto e dai tempi stabiliti.

    La tesi è divisa in tre capitoli. Nel primo si richiamano le note relazioni digravità newtoniana e si discute il problema della precessione del perielio di Mercuriorisolvendo l’equazione di Binet relativistica; nel secondo capitolo si discute ladifferenza tra lo spazio della meccanica classica - spazio piatto, euclideo - e lo spaziocurvo. Lo spazio curvo è il modello di spazio in cui, nel terzo capitolo, si studia ladinamica gravitazionale seguendo i lavori di Abramowicz. Si noti che si parlerà dispazio curvo e non di spaziotempo curvo, il tempo - negli articoli di Abramowicz -continua ad essere assoluto.

    Concludo questa introduzione evidenziando di aver trovato nei lavori diAbramowicz e dei suoi collaboratori, dei quali mi sono occupato, elementiinteressanti di carattere storico-filosofico, in particolare nel punto in cui essi sichiedono se un fisico che si muoveva nell’orizzonte newtoniano, però già forte delleconoscenze matematiche acquisite nell’800, poteva essere in grado di risolvere alcuniproblemi che sono stati poi risolti dalla relatività generale.

    All’interno del quadro generale dei vari modi di studiare la gravità, lo studiodella teoria newtoniana è importante perché può mettere in evidenza le peculiarità

    IV

  • di quella che è la teoria classica della gravità maggiormente accettata - la relativitàgenerale - e rimarcare le analogie e le differenze tra questa teoria e l’altra. Analogiee differenze tra la teoria newtoniana e quella einsteniana si presentano su due piani:un piano di calcolo e un piano concettuale e a tratti filosofico. Il primo pianoè quello che riguarda l’analisi del potere predittivo ed esplicativo delle due teoriee la ricerca dei loro limiti di applicazione. Sappiamo che la teoria newtonianafunziona mirabilmente bene all’interno del sistema solare o di altri sistemi di massein cui, usando un linguaggio tipico della relatività generale, il campo gravitazionaleè debole. Infatti la teoria della relatività generale riproduce nel limite dei campideboli la teoria della gravitazione universale.

    Il secondo piano, invece, non meno importante del primo, riguarda la discussionesui limiti di validità delle teorie e la discussione dei concetti di spazio, tempo, campi eforze1. Il limite di validità di una teoria non è mai esattamente delineato. Si pensi alproblema delle particelle puntiformi che apparve in elettrodinamica classica: furonotentate soluzioni a questo problema in molti e inconcludenti modi, fino a quandonon arrivò il paradigma della teoria quantistica dei campi che sembra abbia risoltoquesto problema. Da quel momento pochissimi studiosi sono rimasti a lavorare allasoluzione del problema in elettrodinamica classica e ci si “accontenta” della soluzionequantistica. Tuttavia niente e nessuno può garantire che non ci sia una soluzionea questo problema in elettrodinamica classica e non si può dire che questo sia ilconfine del campo di validità di tale bellissima e potentissima teoria. La stessa cosa,e forse anche in modo più accentuato, avviene nel dibattito sulla gravità. Tutte lestrade sono percorribili e ogni contributo trasversale alla comprensione di un aspettodi una teoria è ben accetto. In questo tipo di attività si inquadra anche parte dellavoro di Abramowicz, come detto in precedenza.

    1Credo che la bellezza della fisica risieda non solo nella capacità che essa ha di spiegarepotenzialmente tutti i fenomeni naturali (almeno quelli riguardanti la materia inerte), ma anchein tutta la serie di problemi intrinseci di ogni teoria, quali la ricerca del fondamento di questo oquel modello, oppure il loro confronto.

    V

  • Capitolo 1

    La teoria della gravitazioneuniversale

    Few theories can compare in the accuracy of their predictions withNewton’s theory of universal gravitation. The predictions of celestialmechanics for the positions of the major planets agree with observation towithin a few seconds of arc over time intervals of many years. The discoveryof Neptune, and the rediscovery of Ceres, are among the spectacular successesthat testify to the accuracy of the theory. But Newton’s theory is not perfect:the predicted motions of the perihelia for the inner planets deviate somewhatfrom the observed values. In the case of Mercury the excess perihelionprecession amounts to 43 seconds of arc per century. [8, p. 1]

    Questo è il miglior resoconto breve che io conosca sulla teoria newtoniana dellagravitazione. Ohanian e Ruffini, gli autori delle precedenti parole, continuano sullostesso tono per una pagina con lo scopo di descrivere l’obiettivo del loro bel libroe, in generale, della teoria einsteniana della gravitazione. Infatti il problema dellediscrepanze tra la teoria del moto di Mercurio e le osservazioni empiriche è stata lamolla che ha innescato la proliferazione di lavori teorici, a cavallo tra ′800 e ′900,volti a ricondurre il fenomeno della precessione del perielio di quel pianeta (e nonsolo1), tra cui quello di Einstein che è risultato risolutorio. Einstein è partito daquesto problema per formulare la grande teoria del 1915 2.

    In questo capitolo si rivede brevemente la teoria della gravitazione universale diNewton mostrando le previsioni classiche della teoria e la discrepanza che sorge nelmomento in cui si tenta di descrivere l’orbita di Mercurio in questi termini.

    1La precessione del perielio è presente nel moto di ogni pianeta ma è un effetto sensibilesoprattutto nel moto di Mercurio.

    2Si veda, ad esempio, quanto affermato a questo proposito in [3].

    1

  • 1.1 Le equazioni fondamentali

    Come Newton ricavi la cosiddetta legge di gravitazione universale è un lucidoesempio di un fine ragionamento teorico che non si può cogliere nella sola letturadei manuali di fisica ma è evidente nei suoi Principia. Newton inizia la discussionenel terzo libro assumendo un modesto gruppo di meno di dieci fenomeni, fa alcuneipotesi, utilizza alcune delle proposizioni sul moto dei corpi che aveva esposto nelprimo volume (tra cui il noto teorema di Newton sulla forza gravitazionale diuna sfera)3 e infine, con sette proposizioni nel terzo libro giunge alla conclusioneche la gravità appartiene a tutti i corpi, ed è proporzionale alla quantità dimateria in ciascuno (V II proposizione). Non si può in questa sede tratteggiareil percorso seguito da Newton perché questo richiederebbe anche una profondaanalisi del retroterra storico, culturale e filosofico in cui le speculazioni newtonianesi muovevano.

    Dalle prime due leggi di Keplero si conclude, con un ragionamento prettamentecinematico, che l’accelerazione di un pianeta in moto su un’orbita ellittica è direttaverso il Sole, ed è inversamente proporzionale al quadrato della distanza tra Solee pianeta. Giungere alla descrizione dinamica del moto dei corpi celesti è, però,tutt’altro che scontato. Innanzitutto si deve attribuire l’accelerazione dei pianeti auna forza agente su di essi; questo richiede già una grande capacità di astrazioneperché il concetto di forza nacque sulla base di esperienze quotidiane e “terrestri”(esperimenti di statica e dinamica, piani inclinati ecc.) insieme alle note tre leggifondamentali della Meccanica. Per poter applicare questi stessi concetti ai fenomeniastronomici bisogna assumere che le leggi valide nei laboratori terrestri siano valideovunque nell’Universo. Questo che oggi è un credo non era tale ai tempi dellacreazione della Scienza moderna e c’erano tutti i motivi per nutrire dubbi su unasimile astrazione, perché le ipotetiche forze tra corpi celesti non erano (e non sono)direttamente misurabili con gli strumenti sperimentali di cui si disponeva (e sidispone) sulla Terra. In secondo luogo, bisogna riconoscere che l’ipotetica forzache agisce sui pianeti non può che essere attribuita al Sole: ciò è conseguenzadella terza legge di Keplero. Infine, la gravitazione universale nasce affermando chequalunque massa posta nello spazio esercita una forza gravitazionale su qualunquealtra massa. Ciò è conseguenza del principio di azione e reazione (che viene estesooltre il dominio dei fenomeni terresti con un ulteriore grande procedimento diastrazione). Quest’ultimo passo è, forse, il più drammatico di tutti: si mette indiscussione il ruolo privilegiato che il Sole riveste nella teoria copernicana.

    Chiudiamo qui questa breve parentesi e passiamo alla discussione della teorianewtoniana in chiave contemporanea.

    3Una di queste proposizioni è però contenuta nel secondo libro.

    2

  • La legge di gravitazione universale afferma che due particelle massive siattraggono con una forza direttamente proporzionale al prodotto delle due masse einversamente proporzionale al quadrato della distanza tra di esse

    F = −GMmr3

    r (1.1)

    dove G è una costante di proporzionalità, la massa M (puntiforme) è postanell’origine delle coordinate e la massa m è nella posizione individuata da r.

    Si può porre la teoria newtoniana della gravità, che è tutta racchiusa nella (1.1)4

    nella forma di una teoria di campo, o meglio di una teoria del potenziale5.Si definisce una grandezza g = g(r) che rappresenti la forza gravitazionale per

    unità di massa (della massa di prova) e sia, in qualche modo, caratteristica dellamassa M :

    F = mg (1.2)

    g è detto campo gravitazionale e permea tutto lo spazio intorno alla massa Mche sarà chiamata, quindi, sorgente del campo gravitazionale. Evidentemente nelcaso di sorgente M puntiforme risulta g(r) = −GMr/r3. Il campo gravitazionalecos̀ı definito obbedisce al principio di sovrapposizione lineare. Calcoliamo il flussodi questo campo vettoriale attraverso una generica superficie chiusa Σ ottenendol’equazione di Gauss per il campo gravitazionale∫

    Σ

    g · dσ = −4πG∫V

    ρdV (1.3)

    essendo ρ la densità di massa contenuta nel volume V racchiuso dalla superficie Σ.Applicando il teorema della divergenza nel membro sinistro della (1.3) e osservandoche l’uguaglianza vale per ogni superficie chiusa otteniamo l’equazione del campogravitazionale newtoniano

    ∇ · g = −4πGρ (1.4)

    Il campo gravitazionale è conservativo (cioè ∇ × g = 0) per cui si può definireun potenziale scalare Φ = Φ(r) di cui il campo ne è il gradiente (cambiato di segno

    4Insieme, ovviamente, alle tre leggi fondamentali della dinamica.5Infatti, sebbene si definisca una grandezza chiamata campo gravitazionale, non credo che si

    possa dare a una semplice equazione l’appellativo di teoria di campo.

    3

  • per convenzione)

    g = −∇Φ (1.5)

    Confrontando questa con la (1.4) otteniamo l’equazione fondamentale della gravitànewtoniana

    ∇2Φ = 4πGρ (1.6)

    Questa definisce il potenziale gravitazionale data la distribuzione di materia; è unaequazione di Poisson e si riduce a quella di Laplace quando la densità è nulla. Percompletare la teoria del campo gravitazionale è sufficiente aggiungere la secondaequazione della dinamica che consente di determinare il moto di ogni corpo soggettoa un dato potenziale.

    Queste equazioni forniscono la base teorica per la descrizione kepleriana del motodei corpi celesti; infatti Newton pubblicò la sua teoria (1684) proprio quando fustuzzicato da una scommessa con gli scienziati Hooke, Halley e Wren, riguardola dimostrazione della dipendenza della forza responsabile delle leggi di Keplerodall’inverso del quadrato della distanza di un pianeta dal Sole.

    1.2 Il problema di Keplero

    Keplero studiò empiricamente il moto dei pianeti intorno al Sole. In questa sezionerichiameremo molto brevemente la nota soluzione newtoniana del problema diKeplero con lo scopo di indicare la discrepanza tra i risultati teorici classici e i datiosservativi del moto di Mercurio. Inoltre questa sezione servirà come referenza perapprezzare la differenza tra la soluzione classica del problema e quella di Abramowicze dei suoi colleghi presentata in [1] e in [4].

    Il problema della dinamica di due corpi di massem eM interagenti mediante unaforza che dipende solo dalla mutua distanza si riduce al problema di un solo corpodi massa ridotta µ che si muove nello spazio sotto l’azione di un campo centrale6.Non ci soffermiamo sulla nota dimostrazione di questo fatto.

    6Qui dovremmo essere rigorosi e dire che con corpo intendiamo un punto materiale e che ilcampo centrale è un campo caratterizzato da una forza diretta sempre come la congiungente tra ilpunto materiale e il centro dell’interazione. Per i corpi estesi la forza non è propriamente centralema dipende dall’orientamento dei corpi stessi. Tuttavia è un risultato noto che i corpi estesia simmetria sferica si comportano in questa situazione come oggetti puntiformi. I pianeti e ilsole sono sferici in prima approssimazione. La non sfericità è causa della presenza di momentidi multipolo che fanno deviare il comportamento dalla idealità. Parleremo molto brevemente diquesti effetti in seguito.

    4

  • Si abbia una particella P di massa µ (che si può riguardare anche come la massaridotta di due particelle puntiformi) in un campo esterno. Assumiamo che talecampo sia conservativo e che l’energia potenziale dipenda solo dalla distanza dellaparticella P da un punto O, fisso rispetto a un sistema di riferimento inerziale.Chiamiamo vettore posizione della particella r =

    −→OP e v = ṙ il vettore velocità e

    indichiamo con U = U(r) l’energia potenziale. Abbiamo allora:

    L =1

    2µv2 − U(r) (1.7)

    La forza agente sulla particella è

    F = −∇U(r) = −dU(r)dr

    r̂ (1.8)

    Essa è centrale e il centro della forza è il punto O.L’energia potenziale ha simmetria sferica, dunque il momento angolare della

    particella P rispetto a O si conserva. Quindi il moto si svolge in un piano, dettopiano dell’orbita, ortogonale alla direzione (costante) di L, sempre che L ̸= 0 (seL = 0, r è parallelo a p e il moto è unidimensionale).

    Supponiamo che L ̸= 0 (L costante). Il sistema ha due gradi di libertà,considerato che il moto avviene in un piano. Possiamo, pertanto, esprimere lalagrangiana in coordinate polari:

    L =1

    2µ(ṙ2 + r2ϕ̇2)− U(r) (1.9)

    L’equazione di Lagrange per la coordinata ϕ esprime la conservazione del momento

    coniugato a tale coordinata∂L

    ∂ϕ̇= µr2ϕ̇ (infatti è evidente che ϕ sia ciclica)7.

    Invece, l’equazione di Lagrange per la coordinata r

    d

    dt

    ∂L

    ∂ṙ− ∂L

    ∂r= 0 ⇐⇒ µr̈ − µrϕ̇2 + ∂U(r)

    ∂r= 0 (1.10)

    7Si noti che 12Lµ =

    12r

    2ϕ̇ è la cosiddetta velocità areolare ed è una costante del moto. Si è

    cos̀ı ottenuta la seconda legge di Keplero: il vettore posizione della particella (o di un pianetaconsiderato puntiforme) rispetto al centro dell’orbita (o centro della forza) spazza aree uguali inintervalli di tempo uguali.

    5

  • può scriversi come

    µr̈ − L2

    µr3− F = 0 (1.11)

    dove abbiamo introdotto per semplicità F := −∂U(r)∂r

    , componente radiale della

    forza (la sola non nulla), e dove abbiamo utilizzato l’osservazione sulla conservazionedel momento coniugato a ϕ che consente di scrivere

    µrϕ̇2 =L2

    mur3(1.12)

    Ricapitolando, le equazioni del moto sono

    µ(r̈ − rϕ̇2) = F e ddt(µr2ϕ̇) = 0 (1.13)

    Dalla prima delle (1.13) otterremo l’orbita nella forma u = u(ϕ), mentre dallaseconda il movimento nella forma ϕ = ϕ(t). Usualmente si risolvono queste dueequazioni ponendo u = 1/r. In particolare si ha subito

    ϕ̇ =Lu2

    µ(1.14)

    Utilizzando (1.14) nella prima delle (1.13) insieme al suddetto cambio di variabiliotteniamo

    d2u

    dϕ2+ u = − µF

    L2u2(1.15)

    detta equazione di Binet. Infatti si ha

    du

    dϕ=

    du

    dr

    dr

    dϕ= − 1

    r2dr

    dϕ,

    dr

    dt=

    dt

    dr

    dϕ=

    L

    µr2dr

    dϕ= −L

    µ

    du

    dϕ,

    d2r

    dt2= −L

    µ

    d

    dt

    du

    dϕ= − L

    µ2u2

    d2u

    dϕ2(1.16)

    L’equazione di Binet consente di determinare la forma polare dell’orbita se ènota la forza F e viceversa di ricavare F se è nota la forma polare dell’orbita.

    Nel caso della forza di gravitazione newtoniana esercitata da una massa M su

    6

  • una massa µ abbiamo F = −µku2 dove k = G(M +m) se µ è la massa ridotta di unproblema a due corpi, e k = GM se si può trascurare la correzione apportata dallamassa M nella definizione della massa ridotta (in modo da considerare µ = m).L’equazione di Binet è

    d2u

    dϕ2+ u =

    kµ2

    L2(1.17)

    definendo il momento angolare per unità di massa L come L = µL abbiamo, indefinitiva

    d2u

    dϕ2+ u =

    k

    L2(1.18)

    Questa è una equazione armonica con il secondo membro costante. La sua soluzionesi trova immediatamente ponendo

    U = u− kL2

    (1.19)

    in modo da ottenere

    d2U

    dϕ2+ U = 0 (1.20)

    La soluzione è U = A cos(ϕ− ϕ0), con A e ϕ0 costanti. Quindi abbiamo

    u =k

    L2+ A cos(ϕ− ϕ0) =

    k

    L2[1 + e cos(ϕ− ϕ0)] (1.21)

    dove e =AL2

    k. Infine otteniamo la nota equazione delle sezioni coniche in coordinate

    polari

    r =p

    1 + e cos(ϕ− ϕ0)(1.22)

    con e eccentricità della sezione conica e p =L2

    kparametro della conica. Cos̀ı

    concludiamo che nella teoria newtoniana le orbite sono delle sezioni coniche, quindinel caso di sistemi legati tali orbite possono essere solo ellissi o circonferenze. Questeorbite sono perfettamente chiuse, cioè il pianeta torna nella sua posizione iniziale(ϕ0) dopo una variazione di ϕ pari a un multiplo intero 2π.

    7

  • Osservazione

    Può l’equazione di Binet giocare davvero il ruolo di equazione fondamentale delladinamica planetaria?

    L’equazione (1.17) è ideale per almeno due motivi: è stata ricavata supponendoche siano solo due i corpi a interagire e che essi siano puntiformi o perfettamentesferici. Evidentemente la (1.17) sarebbe rigorosamente valida in un universo idealecomposto da solo due corpi. Il fatto che in un sistema planetario come il sistemasolare non ci siano solo due oggetti massivi che interagiscono è causa di alcuneperturbazioni del moto planetario descritto dalla equazione (1.17) alle quali siaggiungono quelle dovute alla non perfetta sfericità dei corpi interagenti8. In primaapprossimazione la (1.17) è una buona equazione che può essere corretta inserendonella discussione i suddetti effetti. Principalmente questi effetti perturbativi fannos̀ı che l’orbita di un pianeta non sia un’ellisse chiusa ma, piuttosto, una ellisse il cuiperielio precede molto lentamente. Questo fenomeno è rilevabile solo osservando ilmoto di un pianeta per lungo tempo ed è particolarmente evidente solo per il pianetapiù interno, Mercurio.

    L’avanzamento secolare del perielio di Mercurio ammonta a 574′′ d’arco, cioèdopo un secolo il perielio dell’orbita planetaria sarà spostata di 574′′ d’arco rispettoalla posizione che occupava il perielio cento anni prima. La teoria delle perturbazionigravitazionali newtoniana tiene conto di 532′′ d’arco per secolo; come detto nellacitazione di inizio capitolo, i restanti 43′′ d’arco per secolo hanno costituito un grossoproblema per la teoria newtoniana fino all’avvento della relatività generale.

    1.3 La precessione del perielio di Mercurio. Una

    breve incursione in relatività generale

    Un’eccedenza di 43′′ d’arco per secolo nelle osservazioni dello spostamento delperielio di Mercurio rispetto alla teoria newtoniana: questo valore è mirabilmenteottenuto risolvendo il problema di Keplero in relatività generale e quindi questoeffetto è considerato uno dei più importanti test sperimentali della teoria di

    8Quest’ultimo effetto perturbativo è molto più debole del precedente.

    8

  • Einstein9. In RG si giunge alla seguente equazione

    d2u

    dϕ2+ u =

    k

    L2+ 3ku2 (1.23)

    che possiamo chiamare equazione di Binet relativistica. Essa differisce dalla (1.18)per la presenza dell’ultimo termine. Una volta trovata, l’equazione si risolve senzaalcun ricorso a concetti relativistici10.

    Il termine addizionale 3ku2 è molto piccolo per cui si può risolvere la (1.23) con ilmetodo delle approssimazioni successive. Scriviamo la soluzione u come u = u0+u1dove u0 è la soluzione dell’equazione di Binet non relativistica. Allora

    d2(u0 + u1)

    dϕ2+ (u0 + u1) =

    k

    L2+ 3k(u0 + u1)

    2 (1.24)

    Tralasciando l’ordine zero dell’approssimazione, che è il termine newtoniano,abbiamo

    d2u1dϕ2

    + u1 ≈ 3ku20 = 3k[k

    L2(1 + e cos(ϕ− ϕ0))

    ]2(1.25)

    perché (u0+u1)2 ≈ u20. Sviluppiamo arrestandoci ai termini di ordine non superiore

    a e

    d2u1dϕ2

    + u1 ≈ 3k3

    L4+ 6

    k3

    L4e cos(ϕ− ϕ0) (1.26)

    Questa è nella forma

    d2U1dϕ2

    + U1 = A cos(ϕ− ϕ0) (1.27)

    dove U1 = u1 − 3k3

    L4e A = 6

    k3

    L4e. La soluzione di (1.27) è

    U1 =Aϕ

    2sin(ϕ− ϕ0) = 3

    k3

    L4ϕe sin(ϕ− ϕ0) (1.28)

    9Per correttezza indichiamo che nella comunità scientifica c’è anche chi pensa che questo valoresia troppo piccolo rispetto al totale 574′′ d’arco per secolo perché possa essere ritenuto come unvero trionfo per la teoria di Einstein.

    10Nella prosecuzione seguiremo [9].

    9

  • da cui

    u1 = 3k3

    L4ϕe sin(ϕ− ϕ0) + 3

    k3

    L4(1.29)

    La soluzione della (1.23) si ottiene aggiungendo alla soluzione newtoniana la (1.29).Si ha

    u =k

    L2(1 + e cos(ϕ− ϕ0)) + 3

    k3

    L4ϕe sin(ϕ− ϕ0) + 3

    k3

    L4(1.30)

    I primi due addendi possono essere scritti come segue

    k

    L2[1 + e cos(ϕ− ϕ0 − δϕ0)] =

    k

    L2[1 + e cos(ϕ− ϕ0) cos δϕ0 + e sin(ϕ− ϕ0) sin δϕ0]

    (1.31)

    ponendo cos δϕ0 ≈ 1 e sin δϕ0 ≈ δϕ0 scriviamo la (1.30) come

    u ≈ kL2

    [1 + e cos(ϕ− ϕ0) + e sin(ϕ− ϕ0)δϕ0] + 3k3

    L4(1.32)

    Confrontandola con la (1.30) otteniamo

    δϕ0 = 3k2

    L2ϕ (1.33)

    Da qui si vede che ad ogni variazione di 2π di ϕ la posizione del perielio si sposta diuna quantità costante pari a

    6πk2

    L2= 6π

    (GM

    L

    )2(1.34)

    se k = GM .Scriviamo questa relazione per l’avanzamento della posizione del perielio di

    un’orbita ellittica con semiasse maggiore a. Il perielio è il punto di minimoavvicinamento al centro di forza e la sua posizione si ottiene dalla (1.22) percos(ϕ− ϕ0) = 1. Dalla geometria analitica si sa che

    rmin =p

    1 + e= a(1− e) (1.35)

    10

  • La (1.22) valutata in rmin è allora

    1

    rmin=

    1 + e

    p=

    k

    L2(1 + e) =

    1

    a(1− e)(1.36)

    da cui

    GM

    L2=

    1

    a(1− e2)(1.37)

    Quindi la posizione del perielio precederà per ogni rivoluzione di

    6πGM

    a(1− e2)(1.38)

    Osserviamo che per rendere le relazioni (1.34) e (1.38) adimensionali (come siconviene per gli angoli), è necessario esprimerle nel seguente modo

    ∆ϕ = 6π

    (GM

    cL

    )2(1.39)

    e

    ∆ϕ = 6πGM

    a(1− e2)c2(1.40)

    Infatti (GM/L)2 ha le dimensioni di c2.

    11

  • Capitolo 2

    Geometria e Fisica

    Alla base della fisica ci sono i concetti di spazio e tempo e le leggi fisiche,almeno quelle classiche, sono equazioni che determinano l’evoluzione di oggettimacroscopici nello spazio e nel tempo. Nel precedente capitolo si è assunta l’usualestruttura galileiana dello spazio-tempo della meccanica classica [10]. Questa è stataradicalmente modificata dalla struttura spaziotemporale della relatività di Einstein.Se nella prima spazio e tempo erano grandezze distinguibili, con Einstein una taledistinizione non può più essere fatta.

    In questo capitolo non si discuterà la geometria dello spaziotempo cos̀ı comedovrebbe essere fatto in un testo di relatività generale ma, continuando a considerarecome entità separate lo spazio e il tempo, discuteremo la differenza tra spazi piattie spazi curvi. Questo servirà per introdurre gli articoli [1] e [4] studiati nel capitolosuccessivo. Conseguentemente si introdurranno alcuni importanti concetti comequello di metrica e curvatura in maniera particolare, e in un certo senso, euristica equesto potrebbe causare alcuni fraintendimenti. Ad esempio ci riferiremo agli spazipiatti come se fossero spazi euclidei, ma è a tutti noto che uno spazio può esserepiatto senza essere euclideo (si pensi allo spazio di Minkowski). Questa terminologiaè giustificata dal fatto che, come detto prima, si considererà la geometria dello spazioe non dello spaziotempo.

    Crediamo che questa presentazione sia la più adatta per gli scopi di questo lavorononostante non sia del tutto generale né estremamente formale.

    2.1 Spazi euclidei e spazi non euclidei

    Uno spazio si dice euclideo se in esso valgono gli assiomi e i postulati della geometriaeuclidea. Uno spazio non euclideo è uno spazio per cui non valgono tali assiomi epostulati. In particolare, è la validità del cosiddetto quinto postulato d’Euclide che

    12

  • discrimina tra la natura euclidea e quella non euclidea dello spazio. La formulazionemoderna del quinto postulato è la seguente: data una retta per due punti A e B eun punto C non giacente sulla stessa retta, si può tracciare per questo punto unaseconda retta parallela alla precedente. Da questo segue che la somma degli angoliinterni di un triangolo è pari a un angolo piatto in uno spazio euclideo.

    In seguito si riprenderà questo discorso per introdurre la curvatura. Ora simostra, invece, come alcune strutture algebriche caratterizzino la natura euclidea onon euclidea dello spazio.

    2.1.1 Spazio euclideo

    Si è detto che lo spazio euclideo è uno spazio in cui valgono gli assiomi e i postulatidella geometria euclidea; i punti di tale spazio sono indicati da coordinate (in numeropari alla dimensione dello spazio; lo spazio fisico classico è tridimensionale) e ladistanza tra due punti P e Q, rispettivamente di coordinate (x1, x2, x3) e (y1, y2, y3),è data da

    s2 = (x1 − y1)2 + (x2 − y2)2 + (x3 − y3)2 =3∑

    i=1

    (xi − yi)2 (2.1)

    Associare coordinate ai punti di uno spazio è una capacità quasi innata, lo si faquotidianamente fuori dall’ambito scientifico e la tecnica consiste nello scegliere unaorigine rispetto cui riferire le posizioni, cioè le distanze degli oggetti (ovvero deipunti) da quella origine.

    Possiamo dire che lo spazio fisico in sé non è euclideo1 ma diventa euclideoin seguito a un decreto stabilito nel momento in cui si introduce un’origine dellecoordinate, un punto privilegiato, e la distanza (2.1).

    In modo formale diciamo, seguendo [10], che lo spazio euclideo tridimensionaledella fisica classica R3 è uno spazio affine A3 in cui viene fissata una origine dellecoordinate e viene introdotta la nozione di distanza tra due punti come (2.1) che,vedremo, è indotta da un prodotto scalare. Il concetto di prodotto scalare è postoa fondamento della geometria2.

    Uno spazio è detto affine se

    - ogni coppia ordinata di punti P e Q nello spazio determina un vettore uespresso simbolicamente come u = Q− P ,

    1Qui non si vuole affermare già che esistono anche le geometrie non euclidee, ci si limita ancoraalla discussione dello spazio della meccanica classica.

    2Ovviamente tutte le definizioni e i concetti che esprimeremo qui per gli spazi tridimensionalisono in realtà estendibili agli spazi con dimensione maggiore.

    13

  • - ∀P e ∀u: ∃| il punto Q t.c. Q = P + u,

    - se P,Q,R sono punti dello spazio e Q−P = u, R−P = v allora R−P = u+v.

    In un simile spazio non è definita alcuna nozione di distanza o di angolo tra vettori.Questi sono, però, i concetti cardine per poter fare fisica.

    Fissata una origine O nello spazio affine A3 gli spostamenti rigidi P − O, conP punto dello spazio, costituiscono uno spazio vettoriale V 3 che indicheremo anchecon R3 (perché i due spazi sono isomorfi)3.

    Lo spazio vettoriale da noi considerato è a dimensione finita e tale sarà sempre.Ciò vuol dire che esiste un insieme finito di vettori che possono generare, con lorocombinazioni lineari, tutti i vettori dello spazio. Se questi vettori generatori sono aloro volta linearmente indipendenti sono detti vettori di base di V . Indicheremo ivettori di base con ei, i = 1, ..., n dove n è la dimensione dello spazio.

    Dall’algebra lineare sappiamo che è possibile munire uno spazio lineare di unaulteriore struttura algebrica detta prodotto scalare. Il prodotto scalare consente didare significato alle nozioni di distanza tra due punti, lunghezza di un vettore eangolo tra due vettori. In particolare definiamo la lunghezza di un vettore o normacome

    ∥u∥ =√

    (u, u) (2.2)

    e l’angolo tra due vettori come

    cosα =(u,v)

    ∥u∥∥v∥α ∈ [0, π] (2.3)

    Il prodotto scalare consente di definire anche l’ortogonalità tra vettori. Duevettori (non nulli) u e v il cui prodotto scalare è nullo sono detti ortogonali.In uno spazio vettoriale euclideo è sempre possibile trovare una base ortonormaleei (i = 1, ..., n), cioè una base di vettori di norma unitaria e ortogonali. In simboli

    (ei, ej) = δij (2.4)

    dove δij = 1 se i = j e δij = 0 se i ̸= j. Questa base è detta base canonica.3Ogni spazio lineare V su un campo K di dimensione n è isomorfo a Kn. Infatti, fissata una

    base in V si può scrivere ogni vettore v ∈ V come v = viei dove i numeri vi (i = 1, ..., n) sonodetti coordinate di v rispetto alla base di vettori ei. Allora al vettore v ∈ V corrisponde il vettore(v1, ..., vn) ∈ Kn; viceversa, ∀(u1, ..., un) ∈ Kn si associa il vettore u = uiei ∈ V . Da questaosservazione discende che tale associazione stabilisce una corrispondenza tra V e Kn che preservala struttura di spazio vettoriale, cioè a v + u corrisponde (v1 + u1, ..., vn + un) e a λv corrispondeλ(v1, ..., vn).

    14

  • Consideriamo ora due vettori x e y. Se (x1, ..., xn) e (y1, ..., yn) sono lecomponenti dei due vettori relativamente alla base canonica, definiamo il prodottoscalare standard o euclideo come

    (x,y) := x · y := xiyi i = 1, ..., n (2.5)

    e poniamo la seguente

    Definizione 2.1 (Spazio euclideo). Uno spazio euclideo è uno spazio vettoriale Rndotato della metrica euclidea che è la metrica indotta dal prodotto scalare standard.

    In questo modo abbiamo formalizzato quanto detto all’inizio del paragrafo. Ilprodotto scalare induce, infatti, una norma ∥ · ∥

    ∥x∥ =√x · x (2.6)

    e la norma definisce la metrica o distanza d(·, ·) in (Rn, d):

    d(x,y) = ∥x− y∥ (2.7)

    che è l’usuale distanza euclidea tra due punti P = {xi} e Q = {yj} con i, j = 1, ..., n

    s =

    √√√√ n∑i=1

    (xi − yi)2 (2.8)

    In particolare, possiamo immaginare di scrivere il prodotto scalare (2.5) come

    x · y = δijxiyj (2.9)

    dove δij sono gli elementi di matrice della matrice identità. Questa relazione consentedi distinguere tra spazi piatti e spazi curvi come si cercherà di spiegare nel seguitodel capitolo.

    2.1.2 Gli spazi curvi

    Cos̀ı come un piano è il più semplice esempio di spazio euclideo, cos̀ı una superficiebidimensionale costituisce lo spazio non euclideo più semplice e quello su cui ciconcentreremo qui e nei prossimi paragrafi per esemplificare le differenze tra unospazio curvo e quello piatto euclideo.

    15

  • 2.1.3 Geometria estrinseca e geometria intrinseca

    Non è difficile descrivere la geometria di una superficie bidimensionale se la siconsidera immersa in uno spazio euclideo tridimensionale4. Infatti una superficienello spazio (euclideo) tridimensionale può essere definita in tre modi distinti:

    1. con una condizione di vincolo: f(X,Y, Z) = 0 (con X, Y, Z intendiamo lecoordinate nello spazio tridimensionale),

    2. come il grafico di una funzione: Z = h(X,Y ),

    3. in forma parametrica: X = X(x1, x2) Y = Y (x1, x2) Z = Z(x1, x2);nel seguito indicheremo in modo abbreviato R = R(x1, x2) l’insieme delletre condizioni (x1, x2 sono dette coordinate gaussiane e sono parametri chedescrivono un dominio definito nel piano (x1, x2), libere e senza alcun vincoloin tale dominio).

    Queste tre definizioni sono del tutto equivalenti nell’intorno di un punto nonsingolare P = (X0, Y0, Z0). Infatti, se P è un punto non singolare per la superficieF (X, Y, Z) = 0, si ha per definizione che F (P ) = 0 e ∇F |P ̸= 0, allora per ilteorema del Dini sulle funzioni implicite, l’equazione F (X,Y, Z) = 0 può essererisolta in Z (se vale ∂F

    ∂Z|P ̸= 0) e ottenere cos̀ı una funzione Z = h(X,Y ) che

    definisca la superficie nell’intorno del punto non singolare P . Evidentemente questapuò essere scritta parametricamente come Z = h(x1, x2), X = x1, Y = x2. Viceversase P è un punto non singolare per la superficie parametrica X = X(x1, x2) Y =Y (x1, x2) Z = Z(x1, x2) si può provare che in un suo intorno la superficie può esseredefinita mediante il grafico di una funzione o mediante l’equazione F (X, Y, Z) = 05.

    La terza definizione di superficie, posta per la prima volta da Gauss, è intrinsecaalla superficie stessa: non ha la forma di un vincolo sulle coordinate di uno spazioa dimensione maggiore. La geometria intrinseca è quella sperimentata da ipoteticiabitanti bidimensionali della superficie bidimensionale che stiamo considerando. Lageometria intrinseca, allora, è quella che dobbiamo usare per descrivere il nostrospazio (o spazio-tempo): noi non possiamo uscire fuori da questo spazio e porci inuno spazio con una dimensione in più per vedere dall’esterno la forma dell’universo.Misuriamo distanze e angoli all’interno dello spazio in cui viviamo senza avere alcunapossibilità di uscirne fuori. Quello che si farà nel seguito è la descrizione metricadello spazio dal punto di vista intrinseco. Ci limiteremo al caso di una superficie

    4Questo vale in generale, uno spazio di dimensione N può essere facilmente descrittoestrinsecamente considerandolo immerso in uno spazio a dimensione N + 1.

    5Si veda [11, p.72].

    16

  • bidimensionale per esemplificare alcuni concetti che sono facilmente riferibili a spazicon dimensioni superiori.

    Prima di continuare è utile mostrare con esempi pratici la differenza tra geometriaestrinseca e geometria intrinseca.

    Geometria estrinseca e intrinseca di una superficie sferica

    Per definire la geometria estrinseca immaginiamo che la sfera di raggio R sia immersain uno spazio tridimensionale di coordinate X, Y , Z (si noti che questo concettodi raggio assume significato solo grazie all’immersione della superficie in uno spazioa dimensione maggiore). L’equazione della sfera è X2 + Y 2 + Z2 = R2 oppureZ = ±

    √R2 −X2 − Y 2.

    Grazie alla precedente discussione possiamo cercare un opportuno sistema dicoordinate intrinseche alla superficie (legate a X, Y, Z come nel precedente punto 3)immaginando di definirle in modo operativo (si veda la 2.1).

    Il procedimento è il seguente: si prende un qualsiasi punto sulla sfera, chechiameremo polo, e si immagina di tracciare un meridiano (che chiameremoprincipale), cioè un grande cerchio (è il nome tecnico per definire un cerchio sullasfera che contiene il centro stesso della sfera). Possiamo in questo modo individuareun punto sulla sfera mediante due coordinate: la “distanza” misurata lungo unmeridiano r∗ e la distanza del meridiano lungo cui abbiamo misurato la distanza r∗rispetto al meridiano principale ϕ. Il sistema di coordinate cos̀ı definito è (r∗, ϕ) conr∗ > 0 e ϕ ∈ [0, 2π].

    Avremmo potuto anche considerare la coordinata θ := r∗/R e avremmoottenuto l’usuale sistema di coordinate sferiche (θ, ϕ) con θ ∈ [0, π] e ϕ ∈ [0, 2π]legato al sistema cartesiano nello spazio tridimensionale dalle note relazioni X =R sin θ cosϕ, Y = R sin θ sinϕ, Z = R cos θ.

    Infine, l’altra possibilità sarebbe quella di adottare coordinate cilindriche (r̃, ϕ)dove

    r̃ = R sin θ = R sin(r∗/R) (2.10)

    e r̃ ∈ [0, R] definite evidentemente da X = r̃ cosϕ, Y = r̃ sinϕ, Z = ±√R2 − r̃.

    Geometria estrinseca e intrinseca di una superficie a simmetria assiale

    L’esempio precedente ci fa da guida per definire le coordinate gaussiane di unaqualsiasi superficie bidimensionale a simmetria assiale. Seguendo esattamente il

    17

  • Figura 2.1: Coordinate su una sfera.

    procedimento di costruzione delle coordinate sulla superficie già esposto, possiamoindicare ogni punto di tale superficie mediante le coordinate (r∗, ϕ).

    Potremmo anche considerare i sistemi di coordinate (θ, ϕ) e (r̃, ϕ) ma il passaggiodal sistema di coordinate cartesiane a questi non è più espresso dalle semplicitrasformazioni riportate nel precedente paragrafo. Questo fatto comporta la nonvalidità della (2.10) e in generale dovremmo esprimere r̃ come una generica funzionedi r∗

    r̃ = r̃(r∗) (2.11)

    Questo tipo di superficie sarà assunta come modello di spazio curvo in cui studiarela dinamica gravitazionale.

    2.1.4 Metrica

    Si introduce una struttura aggiuntiva, chiamata metrica, che è essenziale per poteresprimere i concetti di misura di lunghezze e di angoli, fondamentali in fisica.

    La metrica di uno spazio euclideo è già stata sostanzialmente introdotta quandosi è introdotto il prodotto scalare. Non abbiamo però visto nulla del genere nelcaso delle superfici. In questo paragrafo comunque non entreremo nei dettaglidella geometria delle superfici ma faremo ricorso a un ragionamento analogicoper introdurre la metrica delle superfici che nei nostri scopi dovrebbe servire aesemplificare il significato generale della metrica per qualsiasi spazio6.

    6Si dovrebbe parlare di varietà per essere rigorosi e per essere più attinenti al linguaggio della

    18

  • Si distingue tra metrica riemanniana e metrica pseudoriemanniana. La metricaeuclidea è un particolare tipo di metrica riemanniana. Possiamo dare la seguente

    Definizione 2.2 (Metrica riemanniana). Sia V uno spazio vettoriale sui reali. Unametrica riemanniana è una forma quadratica definita positiva sui vettori di talespazio.

    Si osservi che la metrica è definita in uno spazio vettoriale. Questo è difondamentale importanza per definire la differenza tra la metrica di uno spaziopiatto e quella di uno spazio curvo, cioè, ad esempio, la metrica di un foglio e quelladi una sfera. In uno spazio generico la metrica è una funzione puntuale.

    In generale, una forma quadratica sullo spazio V (su campo R o generico) è unpolinomio omogeneo di secondo grado in un numero di variabili pari alla dimensionedello spazio. Cioè se u è un vettore di V allora la forma quadratica è aiju

    iuj e inumeri aij ∈ R sono gli elementi di una matrice quadrata [aij] simmetrica di ordinepari alla dimensione dello spazio.

    È facile vedere che il concetto di metrica è strettamente legato a quello diprodotto scalare tra vettori. Infatti data una forma bilineare su uno spazio vettorialeV , quale il prodotto scalare (·, ·), si può associare ad essa una forma quadratica cheassocia ad ogni vettore u ∈ V il numero (u,u) come

    (u,u) = aijuiuj (2.12)

    La richiesta che la forma quadratica che definisce la metrica sia definita positivaassicura che il prodotto scalare tra due vettori u e v non nulli sia sempre maggioredi zero. Se si lascia cadere l’ipotesi che la metrica sia definita positiva si ottengonole metriche pseudoriemanniane (es. metrica di Minkowski)7.

    Tutto questo discorso generale si trasporta esattamente nel caso in cui i vettoriconsiderati siano degli spostamenti infinitesimi, ciò che consente di valutare le

    geometria differenziale. Tuttavia non si vuole essere formali perché ciò condurrebbe troppo fuoridagli scopi e dagli spazi di questa tesi. Tutte le idee che esprimiamo in questo capitolo sonofunzionali al nostro lavoro ma si fermano molto prima di tutto ciò che è necessario per fare relativitàgenerale.

    7Notiamo, a onor del vero, che lo spazio di Minkowski, o meglio lo spaziotempo di Minkowski,è uno spaziotempo piatto pur non essendo euclideo. Con ciò si vuole dire che nel seguito, quandocontrapporremo agli spazi piatti gli spazi curvi, in realtà penseremo sempre uno spazio piattocome un foglio euclideo e non penseremo, come pure sarebbe legittimo in una discussione piùcompleta che consideri anche il tempo, allo spazio piatto di Minkowski. Nel seguito parleremo dispazi piatti riferendoci allo spazio euclideo (soprattutto tridimensionale ma anche bidimensionale)perché considereremo solo le superfici bidimensionali come esempi di spazi curvi. Quindi spazioeuclideo sarà, per noi, sostanzialmente sinonimo di spazio piatto.

    19

  • distanze tra i punti in uno spazio, che è la conoscenza che serve per fare fisica.In tal caso scriviamo

    ds2 = gijdxidxj (2.13)

    questo è il quadrato dell’elemento di lunghezza di una curva e quando si vuoleassegnare la metrica di uno spazio si dà proprio questa formula8.

    Una metrica riemanniana non è necessariamente la metrica di uno spazioeuclideo. La natura euclidea dello spazio, cioè la metrica euclidea, è definita dauna ulteriore condizione. La metrica riemanniana [gij] si dice euclidea se esistealmeno un sistema di coordinate in cui essa assume la forma diagonale [δij] in ognipunto9. Se una tale trasformazione globale non esiste allora lo spazio non è euclideo.

    Si noti, quindi, che gli elementi di matrice gij dipendono dal sistema di coordinatescelto per mappare lo spazio ma la possibilità di ridurre la matrice [gij] alla matriceidentità globalmente è peculiarità degli spazi euclidei. Un esempio chiarirà il punto.

    Consideriamo la metrica ds2 = dr2 + r2dϕ2. La matrice gij(r, ϕ) nonè, evidentemente, nella forma δij e dipende dalla posizione. Tuttavia con latrasformazione x = r cosϕ, y = r sinϕ giungiamo al sistema di coordinate in cuigij(x, y) = δij. Il piano resta un piano “piatto” indipendentemente dal sistema dicoordinate scelto per indicarne i punti. Il sistema di coordinate del piano in cui lametrica è diagonale e costante è il sistema cartesiano mentre il sistema inizialmenteconsiderato è, evidentemente, quello cilindrico.

    Ribadiamo che la differenza tra uno spazio curvo e uno spazio piatto stanell’impossibilità di trasformare globalmente la metrica [gij] nella metrica piatta [δij]per mezzo di un cambiamento di coordinate. Questo può però avvenire localmentenell’intorno di un qualsiasi punto. In particolare nell’intorno di un qualsiasi punto Pdello spazio curvo si possono trovare delle coordinate xi per cui la metrica diviene,espandendo al secondo ordine

    gij(x) = gij(P )∂gij∂xk

    |P xk +∂2gij∂xk∂xl

    |P xkxl + ... ≈ δij +∂2gij∂xk∂xl

    |P xkxl (2.14)

    Questa affermazione costituisce un teorema che si dimostra nell’orizzonte più vastodella geometria differenziale [12]; per gli scopi di questo lavoro è un risultato

    8Osserviamo che per assegnare una metrica è sufficiente assegnare gli elementi gij della matrice[gij ], cos̀ı in seguito, quando si parlerà di metrica, ci riferiremo alla matrice suddetta.

    9Questo vuol dire che la matrice jacobiana della trasformazione di coordinate deve essere nonsingolare in tutti i punti dello spazio (o del dominio considerato). Cioè, se x1, ..., xn sono lecoordinate del sistema in cui la metrica è [gij ] e se y

    1, ..., yn sono le coordinate in cui la metrica è

    diagonale, la legge di trasformazione delle coordinate è tale per cui det ∂yi

    ∂xj ̸= 0.

    20

  • interessante da citare perché dimostra come a caratterizzare la natura di uno spaziocurvo non sia il valore della metrica in un punto, giacché in un punto la metrica puòsempre essere posta in forma euclidea (cioè lo spazio può essere approssimato a unospazio piatto), quanto la derivata seconda della metrica. Vedremo in seguito chea questa derivata seconda è legato, nel caso delle superfici, un’importante quantitàscalare, detta curvatura, che caratterizza intrinsecamente la natura dello spazio.

    Qui abbiamo considerato solo la possibilità che uno spazio piatto sia euclideo,ciò non è del tutto generale. Si pensi allo spaziotempo di Minkowski, adesempio. Più in generale potremmo dire che in un punto P si può semprescegliere una base ortonormale tale che g(ei, ej) = 0 se i ̸= j e g(ei, ej) =±1 altrimenti. I numeri di + e − definiscono la cosiddetta segnaturadella metrica. Metriche definite positive sono dette riemanniane (segnatura+...+) e quelle con almeno un − sono dette pseudoriemanniane. Quindi, inrelatività generale in ogni punto si può scegliere la metrica pseudoriemannianadi Minkowski. Nel nostro contesto, in cui teniamo separati spazio e tempo, inogni punto di una superficie possiamo scegliere la metrica euclidea, riemanniana.

    La dipendenza puntuale della metrica di una superficie è evidente se si considerache, a differenza del piano euclideo R2 o dello spazio euclideo generico Rn, unasuperficie non può essere considerata globalmente uno spazio vettoriale. Per ognipunto non singolare della superficie si può definire un piano tangente che è unospazio vettoriale di dimensione pari alla dimensione della superficie e quindi si puòdefinire il prodotto scalare tra vettori solo all’interno di questi spazi tangente10.Formalizzeremo questa idea nell’ultimo paragrafo del capitolo, quando parleremodelle curve. Nasce allora un’altra interpretazione degli elementi gij(x) (con xindichiamo un generico insieme di indici che rappresenta un punto sulla superficie)come il peso di ogni componente di un vettore in un dato punto.

    Costruzione della metrica di una superficie. Esempi

    La metrica di ogni superficie giacente in uno spazio (euclideo) a dimensione superiorepuò essere costruita come metrica indotta dalla metrica dello spazio più grande.Propriamente questa sarà detta una metrica indotta.

    Ad esempio, la metrica di una superficie sferica bidimensionale si puòtrovare semplicemente per immersione della superficie in uno spazio euclideotridimensionale. Si è già detto che si possono scegliere come coordinate gaussianesulla superficie, gli angoli (θ, ϕ). Queste non sono altro che due delle tre coordinate

    10Questa osservazione è alla base del calcolo differenziale sulle superfici e in generale sulle varietà.

    21

  • sferiche (r, θ, ϕ) e se la sfera ha raggio R l’equazione della sfera in questo sistemadi coordinate è r = R. Ora, poiché la metrica euclidea in coordinate cartesiane èds2 = dX2 + dY 2 + dZ2, sostituendo in questa le relazioni di trasformazione tra idue sistemi di coordinate, abbiamo la metrica della sfera

    ds2 = R2dθ2 +R2 sin2 θdϕ2 (2.15)

    con ϕ ∈ [0, 2π] e θ ∈ [0, π]11.Si può utilizzare un procedimento diverso per costruire la metrica di una

    superficie sferica, immedesimandosi in un ipotetico abitante che abiti questasuperficie e che voglia misurare le distanze su di essa. Questo individuo costruirebbeun sistema di coordinate (θ, ϕ). Mantenendosi sempre sullo stesso meridiano(dθ = 0) misurerebbe la distanza (tra due meridiani infinitamente vicini) lungoun parallelo in un intorno del punto in cui si trova e troverebbe un certo valoreds|ϕ; spostandosi in un altro parallelo, misurerebbe nuovamente ds|ϕ e si renderebbeconto che questa è diversa dalla precedente. Dopo una serie di misure arriverebbealla relazione ds|ϕ = R sin θdϕ. Utilizza lo stesso procedimento per misurare piccoledistanze lungo un meridiano (δϕ = 0) e trova ds|θ = Rdθ. Poiché le misure eseguiteintorno ad ogni punto sono state fatte in piccole aree intorno al punto considerato,l’abitante della superficie può applicare senza troppe preoccupazioni il teorema diPitagora e scoprire che ds2 = R2dθ2 +R2 sin2 θdϕ2. Si noti che in questa assunzioneè implicito il fatto che il sistema di coordinate sia ortogonale. Ma, come abbiamodetto in precedenza con altri termini, il fatto che in uno spazio si possano introdurrecoordinate ortogonali non implica necessariamente che lo spazio sia euclideo, perchéper esserlo questo sistema di coordinate deve essere trasformato globalmente inquello cartesiano. Come si vede, la metrica di una sfera in coordinate gaussianedipende dalla posizione (in particolare dalla coordinata θ nel nostro esempio) e nonpuò essere ridotta a una forma indipendente dal punto. Questo ci dimostra che lasfera è globalmente non euclidea. Infatti questo è anche evidente se si guarda allegeodetiche della sfera, cioè i cerchi massimi: due cerchi massimi che partano paralleliall’equatore si intersecano nei poli della sfera. Questo è in aperto contrasto con ilquinto postulato di Euclide. Un’ulteriore prova, collegata a questa, è presentata nelprossimo paragrafo.

    Consideriamo ora la metrica di un cilindro di raggio di base R. La metrica delcilindro è ds2 = dz2 + R2dθ2. Le coordinate (z, θ) sono ortogonali e in più esisteuna trasformazione globale che porta la metrica del cilindro data sopra alla metricaeuclidea ds2 = dz2 + dx2. Basta porre, infatti, z → z e x → Rθ. La metrica di uncilindro è in realtà una metrica piatta e quindi il cilindro, a differenza della sfera, è

    11I punti con θ = 0 e θ = π sono singolari in coordinate sferiche.

    22

  • uno spazio piatto, sostanzialmente euclideo: geodetiche parallele su un cilindro nonsi incontrano mai (le geodetiche di un cilindro sono delle eliche cilindriche).

    2.1.5 Curvatura gaussiana di una superficie

    Riprendiamo il quinto postulato di Euclide espresso all’inizio. Negli spazi euclideila somma degli angoli interni di un triangolo è pari a un angolo piatto. Se α1, α2,α3 sono i suddetti angoli interni, abbiamo

    α1 + α2 + α3 = π (2.16)

    Negli spazi curvi le linee rette sono le geodetiche12 e se consideriamo in uno spaziocurvo un triangolo geodetico e ne misuriamo la somma degli angoli interni, troviamo

    α1 + α2 + α3 ̸= π (2.17)

    Possiamo allora definire una quantità ∆ che misura di quanto lo spazio non è euclideocome

    ∆ = α1 + α2 + α3 − π (2.18)

    Questa quantità è direttamente legata all’area del triangolo, un’altra grandezzadirettamente misurabile intrinsecamente alla geometria della superficie. Se siconsidera una sfera di raggio R (si noti che questo è un concetto estrinseco) e untriangolo sferico su di essa, è facile provare13 che

    1

    R2=

    A(2.19)

    Il rapporto a sinistra è misurabile indipendentemente da R ed è un’informazionedi quanto una superficie, nel nostro caso la sfera, è curva perché si riduce a 0 seR → ∞. Si definisce curvatura gaussiana della superficie il seguente limite

    G = limA→0

    =∆

    A(2.20)

    L’aver definito la curvatura gaussiana come il limite del rapporto tra eccesso angolaree area della superficie per l’area che tende a zero, indica che la curvatura è un

    12Le linee geodetiche sono linee rette per gli abitanti dello spazio che consideriamo ma nonappaiono tali a osservatori immersi in uno spazio a dimensione maggiore. I grandi cerchi sonogeodetiche della sfera anche se dallo spazio tridimensionale da cui le osserviamo appaiono curve.

    13Si veda ad esempio [9] oppure [12].

    23

  • concetto puntuale. La formula precedente è la nostra prima definizione di curvaturadi una superficie in un punto.

    La formula seguente, detta formula di Gauss, è una forma particolare del TeoremaEgregium, dimostrato da Gauss nel 1827, che consente di calcolare in modo molto piùsemplice la curvatura G di una superficie. In particolare il teorema di Gauss affermache la curvatura è un’invariante, indipendente dallo spazio in cui la superficie èimmersa, cioè stabilisce definitivamente che la curvatura di una superficie può esseredirettamente misurata dagli “abitanti” della superficie. Per una metrica diagonaleg12 = g21 = 0 il teorema è racchiuso nella seguente formula:

    G = 12g11g22

    {− ∂

    2g11∂(x2)2

    − ∂2g22

    ∂(x1)2+

    1

    2g11

    [∂g11∂x1

    ∂g22∂x1

    +

    (∂g11∂x2

    )2]}

    +1

    2g11g22

    1

    2g22

    [∂g11∂x2

    ∂g22∂x2

    +

    (∂g22∂x1

    )2] (2.21)

    Possiamo calcolare, in base alla formula (2.21) per G, la curvatura della superficiecon metrica gab = diag(1, r̃

    2(r∗)). Abbiamo

    G = 12r̃2

    [−∂

    2r̃2

    ∂r2∗+

    1

    2r̃2

    (∂r̃2

    ∂r∗

    )2]= −1

    ∂2r̃

    ∂r2∗= −1

    d2r̃

    dr2∗(2.22)

    Questa relazione sarà usata nel prossimo capitolo.

    2.2 Curve e cinematica

    Di seguito si dimostreranno alcune relazioni utili per il capitolo successivo.

    2.2.1 Curve negli spazi euclidei

    Una curva nello spazio (curva sghemba) è un’applicazione continua γ : I → Rn doveI è un intervallo della retta reale. Si può esprimere la curva in termini di equazioniparametriche

    γ(t) = {xi = f i(t)} i = 1, ..., n ; t ∈ I (2.23)

    Considereremo sempre curve regolari, cioè differenziabili (per i nostri scopi almenodue volte) con derivate prime non tutte nulle contemporaneamente.

    24

  • Il vettore

    v(t0) :=

    (dx1

    dt, ...,

    dxn

    dt

    )=: γ′(t) (2.24)

    è un vettore tangente alla curva nel punto t0 ed è chiamato anche vettore velocità.Dividendo questo vettore per la sua norma otteniamo il versore tangente τ̂ . Lacondizione di regolarità della curva garantisce l’esistenza di un unico versore tangentealla curva in ogni suo punto.

    Si definisce lunghezza di una curva l’integrale della lunghezza del vettore tangentead essa

    L =

    ∫ ba

    ∥v(t)∥dt (2.25)

    questa è invariante per riparametrizzazione. Molto spesso risulta convenienteparametrizzare la curva in termini della lunghezza della curva stessa, questoparametro è detto ascissa curvilinea (o parametro naturale) s ed è tale per cui

    il vettore velocità è unitario. Ciò implica∫ ba∥γ′∥ds = a− b. Geometricamente s è la

    lunghezza del segmento percorso lungo la curva. Per una curva nello spazio euclideotridimensionale γ(t) = (x1(t), x2(t), x3(t)) la definizione del parametro naturale è

    s(t) =

    ∫ tt0

    [dxi

    dt′dxidt′

    ]1/2dt′ (2.26)

    Si può definire una velocità scalare come

    vs =ds(t)

    dt(2.27)

    il vettore velocità sarà dato allora da (in componenti)

    vi =dxi

    dt= vsτ

    i (2.28)

    dove abbiamo notato la presenza del versore tangente alla curva nel punto di ascissas

    τ i =dxi(s(t))

    ds(2.29)

    Consideriamo lo spazio euclideo tridimensionale e una curva γ regolare di classe

    25

  • C2 riferita al parametro s. Se τ̂ (s) è il versore tangente alla curva γ nel punto s ∈ Iabbiamo, dalla definizione di τ̂ e dalla definizione di ascissa curvilinea, che

    τ̂ (s) = γ′(s) (2.30)

    infatti ∥γ′(s)∥ = 1 identicamente. Inoltre si ha(dτ̂

    ds, τ̂

    )= (γ′′(s), γ′(s)) = 0 (2.31)

    e quindi

    dτ̂

    ds=: a (2.32)

    è per ogni s un vettore ortogonale al versore tangente τ̂ che sarà chiamatoaccelerazione. La curva è detta biregolare se questo vettore è non nullo per ognis. La norma del vettore accelerazione cos̀ı definito prende il nome di curvatura e siindica con k

    k(s) =

    ∥∥∥∥dτ̂ (s)ds∥∥∥∥ = ∥γ′′(s)∥ =

    √dτ i

    ds

    dτids

    (2.33)

    Questa quantità scalare è una misura della deviazione puntuale della curva γ in sdalla retta tangente.

    Se la curva è biregolare si può definire in ogni punto un versore normale associatoalla curva:

    n̂(s) =γ′′(s)

    ∥γ′′(s)∥=

    γ′′(s)

    k(s)(2.34)

    Da questa osservazione segue immediatamente una delle tre formule di Frenet (el’unica che considereremo qui):

    dτ̂ (s)

    ds= k(s)n̂(s) (2.35)

    la quale asserisce che il versore normale è in ogni punto proporzionale alla derivatadel versore tangente e quindi, come visto prima, è ad esso ortogonale. Osserviamoche nello spazio non si può dare un segno alla curvatura14; noi però assumeremo che

    14Nel piano invece, potendo orientare la normale, si può dare un segno convenzionale allacurvatura

    26

  • il versore normale sia diretto verso l’“esterno della curva”, cioè verso l’infinito15.Il piano passante per γ(s), generato dai versori n̂ e τ̂ , è detto piano osculatore;

    il cerchio giacente in tale piano con centro sulla retta individuata da n̂, passanteper γ(s) e con raggio pari a 1/k(s) è detto cerchio osculatore. Il reciproco dellacurvatura

    R = 1k(s)

    =

    [dτ i

    ds

    dτids

    ]−1/2(2.36)

    è detto raggio di curvatura.Derivando rispetto a t la (2.28) otteniamo l’accelerazione del punto materiale

    che si muove lungo la curva

    ai =dvsdt

    τ i + vsdτ i

    dt=

    dvsdt

    τ i + vsdτ i

    ds

    ds

    dt=

    dvsdt

    τ i + v2sdτ i

    ds(2.37)

    Il terminedvsdt

    è comunemente chiamato accelerazione scalare as. Ricodiamo che il

    vettore di componentidτ i

    dsè ortogonale al versore τ̂ (s).

    Utilizzando la formula di Frenet possiamo scrivere, in definitiva,

    ai = asτi +

    v2sRni (2.38)

    Questa è una formula molto nota: l’accelerazione di una particella è costituita dadue componenti, una componente - accelerazione tangenziale - avente la direzione,ma non necessariamente il verso, della tangente alla curva e una componente direttanormalmente punto per punto alla curva e detta accelerazione centrifuga, in seguitoalla nostra convenzione definitoria del verso della normale.

    Esempio

    Una circonferenza di raggio r nel piano euclideo può essere espressa mediante leequazioni parametriche (parametro s):

    γ(s) = (x0 + r cos(s/r), y0 + r sin(s/r)) (2.39)

    15Verso l’infinito partendo dal “centro fisico, ad esempio dal centro della distribuzione di massa.

    27

  • e ha curvatura

    k = ∥γ′′(s)∥ = 1r

    (2.40)

    Questo semplice esempio mostra che nel caso di curve in uno spazio euclideonon c’è differenza tra il raggio di curvatura R definito mediante le (2.33), (2.36) eil raggio r definito come “perimetro della circonferenza diviso 2π”. Non sarà cos̀ınegli spazi non euclidei come cercheremo di mostrare prossimamente.

    2.2.2 Curve negli spazi non euclidei

    Una curva su una data superficie, immersa in uno spazio tridimensionale edefinita parametricamente da R = R(x1, x2), può essere espressa come R(t) =R(x1(t), x2(t)). Per analogia a quanto fatto nel paragrafo 2.2 definiamo un vettorevelocità come

    Ṙ(t0) =∂R

    ∂x1ẋ1 +

    ∂R

    ∂x2ẋ2 (2.41)

    con

    ∂R

    ∂x1=

    (∂X

    ∂x1,∂Y

    ∂x1,∂Z

    ∂x1

    )e

    ∂R

    ∂x2=

    (∂X

    ∂x2,∂Y

    ∂x2,∂Z

    ∂x2

    )(2.42)

    Se il punto R(t0) è non singolare, i vettori (2.42) sono linearmente indipendentie costituiscono una base del cosiddetto spazio tangente nel punto dato. Nel casoda noi considerato di una superficie bidimensionale, lo spazio tangente è un pianotangente (nel punto) bidimensionale (la stessa dimensione della superficie, questo èun risultato generale dipendente dalla condizione di non singolarità). Le grandezzeẋ1 e ẋ2 sono le componenti del vettore velocità in un punto rispetto alla suddettabase del piano tangente nello stesso punto.

    Ora possiamo procedere in maniera formalmente analoga a quanto fatto nelparagrafo (2.2) per ricavare le formule cinematiche del moto di una particella inuno spazio curvo. L’osservazione fondamentale è che la metrica sulla superficieè un mezzo di calcolo delle lunghezze delle curve in coordinate gaussiane (x1, x2)sulla superficie stessa. Con questa osservazione, immaginando che la formula peril ds2 euclideo sia moltiplicata per una matrice metrica che è proprio l’identità,l’estensione delle formule al caso non euclideo si fa considerando l’espressionegenerica ds2 = gijdx

    idxj. Allora otteniamo l’espressione del parametro naturale

    28

  • analogamente alla (2.26) nella forma

    s(t) =

    ∫ tt0

    [gij

    dxi

    dt′dxidt′

    ]1/2dt′ (2.43)

    Le formule che definiscono le velocità e le accelerazioni sono esattamente le stesseche sono state ricavate nel paragrafo 2.2. Quando nel prossimo capitolo ci riferiremoa tali formule le intenderemo sempre espresse nello spazio curvo.

    29

  • Capitolo 3

    Gravità newtoniana in uno spaziocurvo

    3.1 Posizione del problema

    È possibile scrivere le equazioni della dinamica newtoniana in uno spazio curvo?Certamente s̀ı. Già nell’Ottocento alcuni matematici, cercarono di estendere leteorie classiche della fisica matematica, come la meccanica e le teorie del potenzialee dell’elasticità, agli spazi non euclidei utilizzando metodi e procedure propri dellageometria differenziale. Sarebbe stato possibile, allora, per un fisico pre-einstenianoprevedere che lo spazio in cui viveva - e in cui noi viviamo -(il sistema solare, adesempio) è curvo? Cosa avrebbe potuto giustificare lo sforzo necessario a formularele leggi della meccanica in uno spazio la cui curvatura è diversa da zero?

    Per fare un’analisi concreta consideriamo l’equazione newtoniana del moto di unpunto materiale di massa m in orbita circolare in un campo gravitazionale generatoda una massa M

    GMm

    r2= m

    v2

    r(3.1)

    Banalmente questa afferma che “la forza di gravità agisce sulla particella causandoun’ accelerazione centripeta che lo mantiene in orbita circolare attorno al centro diforza”. In realtà, come tutte le equazioni, deve essere analizzata con attenzione e inrealtà fu analizzata profondamente dai fisici newtoniani che la scrissero per primi.Non è per nulla banale che a destra e a sinistra compaiano solo due “masse”, Me m, che sono distinte concettualmente solo per il loro differente valore numerico enon per motivi “concettuali”. A questa conclusione si giunse già nei primi tempidell’avventura della fisica. Inoltre ai nostri occhi non è nemmeno banale che nel

    30

  • membro destro e sinistro compaia la stessa lettera r ad indicare una non meglioprecisata distanza dal centro di forza. Invece i filosofi naturali fino all’800 nonavevano alcun dubbio sul fatto che non vi fosse differenza tra la r di destra e la r disinistra.

    Esiste una sola massa?Riassumere criticamente la concezione newtoniana della massa non è lo scopo

    di questo lavoro, ma non è neanche fuori luogo in quanto possiamo anche vederlocome esempio di come si possa discutere il significato dei termini di una equazione egiustificare anche l’atteggiamento che assumeremo - con Abramowicz - per spingerela discussione della (3.1) fino a comprendere il significato delle lettere r che in essacompaiono.

    Quando guardiamo un’equazione come la (3.1) non ci preoccupiamo di esplicitareil significato delle varie masse perché abbiamo la consapevolezza che esse sono lastessa cosa. Dimostrare questo fatto non è stato però semplice. In effetti dovremmoriconoscere tre masse diverse nella (3.1): nel membro di destra compare la massam che chiamiamo massa inerziale, una misura della resistenza che un corpo opponea un agente (una forza) che tende a cambiarne lo stato di moto; nel membro disinistra compare una massa M e una massa che abbiamo anche indicato con mma che, nello spirito della presente discussione, indicheremo con µ ad indicarela differenza concettuale tra questa e quella del membro destro. La massa M èuna misura della “forza” del campo gravitazionale prodotto dall’oggetto sorgentedel campo e chiameremo massa gravitazionale attiva1 mentre la massa µ misurala reazione del corpo all’azione del campo gravitazionale e la chiameremo massagravitazionale passiva. Possiamo tradurre quanto espresso a parole in termini diformule matematiche

    F = ma Φ = −GMr

    F = −µ∇Φ (3.2)

    Grazie al noto esperimento di Galileo sulla caduta libera di oggetti diversisappiamo che in un campo gravitazionale l’accelerazione di tutti i corpi è la stessaindipendentemente dalla loro struttura interna. Con questa assunzione sperimentale,uguagliando la prima e la terza delle precedenti equazioni per ogni coppia di corpi diprova, otteniamo (induttivamente) che m=µ (questa uguaglianza è stata verificatafino a una parte su 1012).

    La prova della uguaglianza tra M e µ procede nello stesso modo anteponendol’osservazione che ogni “pezzo” di materia produce un campo gravitazionale e subisce

    1Usiamo qui la terminologia introdotta in[13].

    31

  • l’azione di tale campo. Uguagliando la seconda e la terza equazione e utilizzando ilprincipio di azione e reazione si conclude che M=µ e quindi per transitività si puòdire che per ogni corpo le proprietà di opporsi a una forza, generare e subire unaforza gravitazionale sono la stessa cosa e questa cosa è stata chiamata massa.

    È un dato di fatto, però, che i matematici dell’800 quali Gauss e Lobachevskiiavessero iniziato a prendere coscienza del fatto che la geometria euclidea non è l’unicapossibile e su questa strada si mosse Riemann e ancor più Clifford il quale affermòin On the Space-Theory of Matter (letto alla Cambridge Philosophical Society nel1870 e pubblicato postumo nel 1882 in Mathematical Papers of William KingdomClifford redatto da Robert Tucker) che tutte le proprietà materiali e tutti gliavvenimenti possono essere spiegati in termini della curvatura dello spazio e deisuoi cambiamenti2.

    Dunque nella seconda metà dell’800 i matematici avevano effettivamente lapossibilità di provare a estendere la fisica newtoniana nel senso che abbiamo espressocon le domande a inizio paragrafo. Ma perché si sarebbe dovuto fare questo sforzo?Quali evidenze empiriche si potevano apportare per mostrare la curvatura dellospazio? Ebbene, come si legge in [3], un possibile sprone a questa ricerca sarebbepotuta venire dalle discrepanze osservate nel moto di Mercurio rispetto alle previsioninewtoniane. Infatti già nel 1859 Le Verrier aveva osservato un valore di precessionedel perielio di Mercurio che, pur considerando tutti i possibili effetti perturbativi daparte dell’interazione con gli altri pianeti, eccedeva di 42′′ d’arco per secolo rispettoalla previsione teorica.

    La questione ha iniziato a interessare Abramowicz già negli anni ’90 (si veda [3])e a nostro avviso non è priva di significato. Chiedersi se un fisico pre-einsteniano

    2Per questo motivo Clifford è considerato uno dei maggiori precursori della relatività generale,forse più di Riemann (da cui, comunque, è stato influenzato). Per rendersi conto del motivo diquesto giudizio basta leggere il seguente passo tratto dall’articolo citato precedentemente

    I wish here to indicate a manner in which these speculations [di Riemann]may be applied to the investigation of physical phenomena. I hold in fact:1. That small portions of space are in fact of a nature analogous to littlehills on a surface which is on the average at; namely, that the ordinary lawsof geometry are not valid in them. 2. That this property of being curvedor distorted is continually being passed from one portion of space to anotherafter the manner of a wave. 3. That this variation of the curvature of space iswhat really happens in that phenomenon which we call the motion of matter,whether ponderable or etherial. 4. That in the physical world nothing elsetakes place but this variation, subject (possibly) to the law of continuity.

    Altre referenze bibliografiche si possono trovare in [3].

    32

  • sarebbe stato in grado di formulare una teoria gravitazionale in uno spazio curvo èinteressante sia da un punto di vista prettamente scientifico (si veda il commentodi Lemos e Luz in [5]), sia da un punto di vista storico. E quest’ultimo motivodi interesse è alimentato proprio dal fatto che nell’800 si iniziavano ad acquisire iconcetti delle geometrie non euclidee e si iniziavano a raccogliere dati che minavano,anche se debolmente, la costruzione newtoniana della gravità.

    Credo che senza questa, forse minima, motivazione storica la domanda - “un fisiconewtoniano poteva discutere la gravità in spazi curvi?” - non avrebbe senso. Sarebbestato molto difficile abbandonare il panorama euclideo della fisica newtoniana senzaalcuni buoni motivi che facessero sospettare della inadeguatezza della teoria.

    Oltre a rispondere positivamente alle suddette domande e a dimostrare che inquesto modo si può giungere a un valore corretto della precessione del perielio diMercurio, Abramowicz e i suoi colleghi, negli articoli [1] e [4], e prima ancora in[3] e [2], si spingono oltre e dimostrano che nello stesso quadro concettuale si puòottenere un valore per l’angolo di deflessione della luce in pieno accordo con quelloottenuto relativisticamente.

    Conviene sottolineare a questo punto, per fugare ogni dubbio, che lo scopo deilavori citati non è quello di formulare una teoria alternativa della gravitazione inchiave newtoniana che si sostituisca alla relatività generale, ma semplicemente dareun’ interpretazione più immediata dei due fenomeni sopra citati, che vengono spessoattribuiti alla compresenza di tre cause: la curvatura dello spazio tridimensionale,le correzioni dinamiche provenienti dalla relatività speciale e la non linearità delleequazioni di campo di Einstein. Questi tre aspetti sembra che non abbiano tutti lostesso grado di rilevanza. Sonego e Lanza [14] fanno notare, infatti, che nel sistemasolare le velocità dei pianeti sono molto minori della velocità della luce cos̀ı che lecorrezioni provenienti dalla relatività speciale non dovrebbero rivestire una grossaimportanza. In particolare è facile vedere questo fatto quantitativamente. Dire chegli effetti relativistici sono trascurabili vuol dire anche che il potenziale gravitazionale- avente le dimensioni di una velocità al quadrato - in cui si muove un oggetto è,in valore assoluto, molto minore di c2 (velocità della luce al quadrato). Da questacondizione otteniamo una condizione sulla distanza massima dal centro attrattoreentro cui non sono trascurabili gli effetti relativistici

    |Φ| GMc2

    (3.3)

    Nel Sistema solare il maggiore centro di attrazione è ovviamente il Sole, aventemassa dell’ordine di grandezza M ≈ 1030kg. Sapendo che c ≈ 108m/s e G ≈10−11Nm2/kg2 abbiamo: r ≈ 103m (usando i valori esatti r = 1.5 km), una

    33

  • distanza abbondantemente all’interno del Sole3. Cos̀ı anche la non linearità delleequazioni di campo è un effetto trascurabile nel sistema solare, dove il campogravitazionale prodotto dalla massa solare è relativamente debole4. In [3] simette chiaramente in evidenza che è solo la curvatura dello spazio tridimensionale,senza necessità di considerare aspetti particolari della geometria dello spazio-tempoquadridimensionale, a giustificare i fenomeni suddetti. Che gli autori non voglianoproporre una teoria generale sostitutiva della teoria di Einstein è tra l’altro intuibiledallo stesso modo di procedere nei loro lavori, almeno in [3] e nel successivo [2], in cuifanno continuo riferimento alla relatività generale e, in particolare, alla geometriaottica, un formalismo relativistico che nasce con l’articolo [6].

    3.2 Un modello di spazio curvo

    Nel precedente capitolo abbiamo messo in luce le differenze tra geometria euclideae geometria di uno spazio curvo, considerando come esempio di spazio non euclideouna generica superficie bidimensionale. In questo capitolo discutiamo la dinamicanewtoniana, in particolare quella di una particella sottoposta alla gravità, in unasuperficie bidimensionale a simmetria assiale. Questo è il più semplice esempio checi consente di apprezzare in cosa differisce la dinamica newtoniana in uno spazionon euclideo rispetto alla dinamica newtoniana “euclidea”. Seguendo la notazionedegli articoli di Abramowicz scriveremo la metrica di questo spazio come

    ds2 = dr2∗ + r̃2(r∗)dϕ

    2 (3.4)

    questa forma consente di cogliere la differenza tra i tre raggi caratteristici di uncerchio: il cardine di tutto il ragionamento svolto da Abramowicz e dai suoi colleghista nel riconoscere questa cruciale differenza. Citiamo dall’abstract dell’articolo [1]

    Three radii are associated with a circle: the “geodesic radius” r∗ which isthe distance from circle’s center to its perimeter, the “circumferential radius”r̃ which is the length of the perimeter divided by 2π and the “curvature radius”R which is circle’s curvature radius in the Frenet sense.

    3Osserviamo che se il nostro Sole fosse un buco nero di Schwarzschild la nostra approssimazionenon relativistica continuerebbe a valere al di fuori dell’orizzonte degli eventi che, per il Sole, siattesta a una distanza di 3 km dalla singolarità centrale.

    4In particolare la discussione in [14], che attribuisce il fenomeno della precessione del perieliodi Mercurio a un cambiamento nell’espressione della forza centrifuga, segue dalla definizione diuna geometria, chiamata optical reference geometry (geometria ottica), fatta nell’articolo [6] cherappresenta, in definitiva, la base formale di tutte le discussioni che sono state fatte da Abramowiczsu questo argomento. Noi non possiamo, in questa sede, discutere le caratteristiche del formalismodi Abramowicz e nella nostra presentazione del problema non ne faremo riferimento.

    34

  • Figura 3.1: Embedding diagram che rappresenta il significato dei tre raggi di unacirconferenza r∗, r̃ e R su una superficie bidimensioanale, tratto da [1]

    Chiameremo, traducendo la nomenclatura inglese: r∗ raggio geodetico, r̃ raggio(della circonferenza) e R raggio di curvatura. Alla luce della metrica introdotta5, ledefinizioni matematiche di queste tre grandezze sono:

    r∗ :=

    ∫ r∗0

    ds|ϕ=ϕ0 (3.5)

    r̃ :=1

    ∫ 2π0

    ds|r∗=r∗0 (3.6)

    dove ϕ0 e r∗0 sono costanti. Invece il raggio di curvatura è definito dalla (2.36). Unautile relazione è

    1

    R=

    1

    (dr̃

    dr∗

    )(3.7)

    3.3 Equazioni del moto

    Sappiamo che per stabilire la lagrangiana di una particella in moto libero è sufficientetrovare il quadrato della lunghezza dell’elemento d’arco nel sistema di coordinatecorrispondente [15, p.35]. L’affermazione è vera anche per il moto di una particella

    5Nel secondo capitolo questa metrica è stata confrontata con la più comune e nota metrica diuna sfera e quella discussione ci pare essere esplicativa del significato dei termini di Abramowicz.

    35

  • su una superficie curva e, in generale, in uno spazio curvo. Questo termine è iltermine cinetico della lagrangiana. Nel caso di una particella non libera bisognasottrarre al primo termine l’energia potenziale.

    Da queste osservazioni possiamo ricavare la lagrangiana del punto materiale inmoto sulla superficie curva con metrica (3.4) e quindi scrivere le equazioni del moto.La funzione di Lagrange è

    L =1

    2m[gabẋ

    aẋb]− U(r∗) =1

    2m[ṙ2∗ + r̃

    2(r∗)ϕ̇2]− U(r∗) (3.8)

    dove U dipende da r∗ e non anche da ϕ per motivi di simmetria.Le equazioni di Lagrange

    d

    dt

    ∂L

    ∂ẋa− ∂L

    ∂xa= 0 (3.9)

    sono

    d

    dt

    ∂L

    ∂ṙ∗− ∂L

    ∂r∗= 0 ⇐⇒ mr̈∗ −mϕ̇2r̃

    dr̃(r∗)

    dr∗+

    dU(r∗)

    dr∗= 0 (3.10)

    e

    d

    dt

    ∂L

    ∂ϕ̇− ∂L

    ∂ϕ= 0 ⇐⇒ ∂L

    ∂ϕ̇= costante ⇐⇒ mr̃2(r∗)ϕ̇ = costante (3.11)

    Definiamo la velocità angolare e il momento angolare per unità di massa

    v = r̃ϕ̇ =: r̃Ω (3.12)

    L := r̃2ϕ̇ = r̃2Ω = costante (3.13)

    Usando L e la (3.7) riscriviamo la (3.10) come

    mr̈∗ = mΩ2 r̃

    2

    R− dU

    dr∗(3.14)

    cioè

    mr̈∗ = mL2

    r̃2R− dU

    dr∗(3.15)

    Infine possiamo eliminare la massa m scrivendo l’energia potenziale gravitazionale

    36

  • U in termini del potenziale Φ

    r̈∗ =L2

    r̃2R− dΦ

    dr∗(3.16)

    Possiamo considerare questa come l’equazione del moto di una particella in un’orbitagenerica attorno al centro di attrazione gravitazionale. Nel caso particolare in cuil’accelerazione radiale è nulla, il moto avverrà proprio lungo una circonferenza el’equazione del moto sarà

    dr∗=

    L2

    r̃2R(3.17)

    Per uniformarci alla notazione degli articoli oggetto di studio scriviamo

    ni∇iΦ =L2

    r̃2R⇐⇒ ∇iΦ = L

    2

    r̃2Rni (3.18)

    dove abbiamo sostituito senza problemi d/dr∗ con l’operatore gradiente perché Φdipende solo da r∗. n

    i è un versore normale uscente, in senso assoluto, dal centroverso l’infinito.

    Possiamo determinare ni∇iΦ nel seguente modo.Consideriamo una distribuzione sferica di massa. Sappiamo che l’equazione per

    il potenziale gravitazionale Φ in assenza di materia si riduce all’equazione di Laplace

    ∇ · (∇Φ) = 0 (3.19)

    Integriamo l’equazione su un volume V contenuto tra due superfici sfericheconcentriche S1 e S2, concentriche a loro volta con la distribuzione di massa e taliche S1 sia interna rispetto a S2 .∫∫∫

    V

    ∇ · (∇Φ) = 0 (3.20)

    applichiamo il teorema della divergenza e otteniamo∫∫S1

    ∇Φ · dσ1 +∫∫

    S2

    ∇Φ · dσ2 = 0 (3.21)

    dove gli elementi di superficie orientata hanno ovviamente versi opposti, per cuipossiamo concludere che l’uguaglianza sussiste solo se i due integrali assumonolo stesso valore in va