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UNIVERSITA’ DEGLI STUDI DI TRIESTE Sede amministrativa del corso di dottorato Dipartimento di Scienze della Vita XXI Ciclo di Dottorato in Patologia Sperimentale e Clinica settore scientifico disciplinare: MED04 Tesi di Dottorato di Ricerca IL SISTEMA DEL COMPLEMENTO NELL’ABORTO SPONTANEO RICORRENTE INDOTTO DA ANTICORPI ANTIFOSFOLIPIDI Dottorando: Coordinatore del collegio dei Docenti: Dott.ssa Alessandra Debeus Prof. Pietro Dri Relatore: Dott.ssa Roberta Bulla Correlatore: Dott.ssa Chiara Agostinis ANNO ACCADEMICO 2009-2010

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UNIVERSITA’ DEGLI STUDI DI TRIESTE Sede amministrativa del corso di dottorato

Dipartimento di Scienze della Vita

XXI Ciclo di Dottorato in Patologia Sperimentale e Clinica settore scientifico disciplinare: MED04

Tesi di Dottorato di Ricerca

IL SISTEMA DEL COMPLEMENTO

NELL’ABORTO SPONTANEO RICORRENTE

INDOTTO DA ANTICORPI ANTIFOSFOLIPIDI

Dottorando: Coordinatore del collegio dei Docenti:

Dott.ssa Alessandra Debeus Prof. Pietro Dri Relatore:

Dott.ssa Roberta Bulla Correlatore:

Dott.ssa Chiara Agostinis

ANNO ACCADEMICO 2009-2010

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1. Introduzione………………………………………………………………………………....4

1.1 L’aborto spontaneo ricorrente………………………………………………...........5

1.2 La Sindrome da anticorpi antifosfolipidi…………………………………...……...6

1.2.1 Quadri clinici……………………………………………………………....................6

1.2.2 Criteri diagnostici…………………………………………………………….............9

1.2.3 Aspetti immunologici………………………………………………………………...10

1.3 Gli anticorpi antifosfolipidi…………………………………………………...........11

1.3.1 Gli anticorpi anti β2 glicoproteina I (β2 GPI)……………………………….......13

1.4 Possibili meccanismi che mediano l’APS………………………………………...14

1.4.1 Reazioni emostatiche………………………………………………………………...14

1.4.2 Interazione con cellule della cascata coagulativa…………………………........15

1.4.3 Il sistema de complemento nell’APS………………………………………….......16

1.5 APS e gravidanza……………………………………………………………............17

1.5.1 Meccanismi regolatori: molecole di adesione……………………………….......18

1.5.2 Il sistema del complemento…………………………………………………...........19

1.6 La placenta……………………………………………………………………………21

1.6.1 Struttura e sviluppo della placenta………………………………………………..21

1.6.2 Il trofoblasto villoso…………………………………………………………...........22

1.6.3 Il trofoblasto extravilloso…………………………………………………………...24

1.6.4 La decidualizzazione…………………………………………………………..........25

1.7 Il sistema del complemento………………………………………………………….27

2. Scopo………………………………………………………………………………………….33

3. Materiali e metodi…………………………………………………………………………..36

3.1 Analisi istopatologica e immunoistochimica………………………………………37

3.2 Attivazione del complemento su piastre di cardiolipina………………………….38

3.3 Isolamento di cellule endoteliali della decidua……………………………………39

3.4 Citofluorimetria a flusso……………………………………………………………….41

3.5 Saggio di permeabilità endoteliale in vitro ………………………………………...42

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3.6 Isolamento di trofoblasti umani da placenta ……………………………………….43

3.7 Immunofluorescenza su citocentrifugati di sinciziotrofoblasti…………………...45

3.8 Purificazione di IgG mediante colonna di affinità con proteina G……………….46

3.9 Modello murino di perdite fetali indotte da anticorpi antifosfolipidi…………….47

3.10 Raccolta e preparazione dei campioni per l’analisi di immunofluorescenza….48

3.11 Immunofluorescenza su sezioni………………………………………………………49

3.12 Purificazione e marcatura della β2-GPI…………………………………………….51

3.13 Protocollo di immunizzazione………………………………………………………...52

3.14 Imaging ottico………………………………………………………………………….54

4. Risultati………………………………………………………………………………………56

4.1 Storia clinica……………………………………………………………………………..57

4.2 Analisi istopatologica disezioni di decidue ottenute da pazienti con APS……….57

4.3 Evidenza del deposito di immunoglobuline in sezioni di decidue ottenute da

pazienti con APS………………………………………………………….……………………57

4.4 Evidenza dell’attivazione del complemento in sezioni di placente ottenute da

pazienti con APS …………………………………………………………….………………...59

4.5 Analisi istopatologica di sezioni di placente ottenute da pazienti con APS…..…62

4.6 Evidenza del deposito di immunoglobuline e di complemento a livello dei villi in

sezioni di placente ottenute da pazienti con APS ………..……………………….............62

4.7 Attivazione del complemento su piastre di cardiolipina…………………………..65

4.8 Deposito di immunoglobuline e complemento su cellule deciduali………………66

4.9 Deposito di immunoglobuline e complemento su trofoblasti……………………….70

4.10 Studi in vivo di inibizione dell’abortività indotta da anticorpi antifosfolipidi (aPL)

mediante l’utilizzo di anticorpi anti-C5…………………………………………………….73

4.11 Studi di localizzazione della β2-GPI mediante imaging ottico……………………..77

5. Discussione………………………………………………………………………………….85

6. Conclusioni………………………………………………………………………………….91

7. Bibliografia………………………………………………………………………………….93

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1. INTRODUZIONE

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1.1 L’ABORTO SPONTANEO RICORRENTE (RSA)

L’aborto è tradizionalmente definito “ricorrente” quando si manifesta in tre o

più episodi consecutivi clinicamente accertati, entro il primo trimestre o prima della

20° settimana di gestazione, con o senza una precedente gravidanza con parto vitale.

Viene classificato primario se ogni gravidanza ha dato esito a un aborto,

secondario se almeno una gravidanza ha portato alla nascita di un nato vivo.

Bisogna tener conto del fatto che il 50% dei concepimenti fallisce, per lo più in

epoca premestruale o mestruale (perciò non riconosciuti); il 15% delle gravidanze

riconosciute abortisce, per il 90% entro la 12a-14a settimana, mentre l’abortività

spontanea sporadica non consecutiva interessa il 10-20% delle donne. Soltanto il 2%

delle donne è interessata da 2 aborti e in special modo l’aborto ricorrente coinvolge

solo 0.5-1.5% delle coppie (nella maggior parte sono perdite pre-embrioniche, fino a 5

settimane, o embrioniche, 5-10 settimane).

Eziologia

Attualmente molti sono i fattori ritenuti potenzialmente in grado di determinare

un’interruzione ricorrente di gravidanza, anche se in un gran numero di casi, quasi nel

50%, non è possibile individuare un fattore determinante.

Riconosciamo: fattori genetici (trisomie, poliploidie, riarrangiamenti

strutturali)

fattori anatomici (congeniti o acquisiti, come anomalie

anatomiche dell’utero)

fattori endocrini (es. diabete, difetti dell’asse ipotalamo-

ipofisi-ovaio)

fattori infettivi (batteri, virus, parassiti, miceti)

fattori immunologici (si ritiene siano la causa più

frequente di RSA essendo responsabili del 60-70% dei

casi)

fattori tossici ambientali (chimici, raggi X, alcool, fumo,

droghe)

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1.2 LA SINDROME DA ANTICORPI ANTI-FOSFOLIPIDI

La sindrome da anticorpi anti-fosfolipidi (Anti-Phosholipid Sindrome, APS) è

una condizione morbosa caratterizzata da trombosi, aborto ricorrente e morte fetale

(1); a queste manifestazioni cliniche si associa la presenza in circolo di anticorpi anti-

fosfolipidi (aPL) dimostrabili mediante test di coagulazione (Lupus Anticoagulant,

LAC) o test immunoenzimatici in fase solida (ELISA Anti-cardiolipina, aCL (2) o anti

β2-GPI).

L’APS è stata originariamente osservata e studiata in corso di Lupus

Eritematoso Sistemico (LES), ma in molti casi i malati non presentano le

manifestazioni cliniche che soddisfano i criteri diagnostici del LES, pertanto per questi

ultimi casi si parla di APS primaria (Primary APS, PAPS), riservando il termine di

APS secondaria alle forme associate al LES o a sue varianti quali il Lupus Discoide,

il Lupus Cutaneo Subacuto e la Sindrome di Sjogren (3-5).

1.2.1 Quadri clinici

Le manifestazioni cliniche caratteristiche dell’APS sono per lo più riconducibili

ad uno stesso meccanismo patogenetico rappresentato da un danno vascolare di tipo

trombotico.

Le manifestazioni cliniche più importanti sono rappresentate da eventi

trombotici che possono riguardare sia i distretti arteriosi che quelli venosi (6). I vasi

che sono più frequentemente sede di trombosi venosa sono le vene profonde e

superficiali degli arti inferiori; va però detto che, nell’ambito della sindrome, le

trombosi venose possono essere potenzialmente ubiquitarie, causando quadri clinici

correlati all’organo danneggiato e pertanto molto disomogenei.

La sede che viene più frequentemente colpita da trombosi arteriose è quella

cerebrale ed il quadro clinico è generalmente quello dell’infarto cerebrale con danno a

carico della dell’area encefalica interessata. Come le trombosi venose, anche le

trombosi arteriose sono ubiquitarie e la manifestazione clinica dipende di conseguenza

dalla sede interessata.

Evidenze cliniche dimostrano che, nonostante gli eventi trombotici possano

riguardare sia la circolazione venosa che quella arteriosa, così come vari organi, essi

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tendono ad essere segregati, nello stesso paziente, a livello venoso o arterioso e nello

stesso organo. Ad esempio pazienti che presentano trombosi delle vene profonde

tendono ad ripresentare trombosi delle vene profonde, mentre pazienti con stroke

tendono ad avere stroke ricorrenti (7).

Benché la trombosi dei vasi di grosso calibro sia più frequente, anche i vasi di

calibro medio e piccolo possono essere coinvolti. Sono stati infatti descritti casi in cui

la trombosi delle arterie interlobulari e di arterie e capillari glomerulari provocano

un’alterazione della funzionalità renale caratterizzata da ipertensione e talvolta da

insufficienza renale (2).

Oltre alle manifestazioni cliniche classiche citate nella definizione di APS, ne

sono state individuate numerose altre rinvenibili in un numero minore di casi e

rappresentate da: manifestazioni dermatologiche, neurologiche, respiratorie,

cardiologiche e alterazioni renali riportate di seguito:

Manifestazioni dermatologiche Livedo reticolare

Sindrome di Sneddon

Ulcere cutanee, noduli sottocutanei

Manifestazioni neurologiche Stroke, TIA

Infarto cerebrale

Demenza multinfartuale

Cefalea, emicrania

Epilessia

Corea

Paralisi del nervo laringeo ricorrente

Deficit neurocognitivi

Manifestazioni oculistiche Trombosi dell’arteria retinica

Trombosi della vena centrale retinica

Neuropatia ottica

Manifestazioni otorino Disturbi audiovestibolari

Deficit uditivi

Manifestazioni cardiologiche Endocardite verrucosa

Valvulopatie

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Infarto acuto del miocardio

Trombosi intracardiache

Cardiomiopatia

Manifestazioni respiratorie Embolia, Infarto polmonare

Ipertensione polmonare

Emorragia polmonare/alveolite

Sindrome postpartum

Alterazioni renali Trombosi delle vene renali

Nefropatia da microangiopatia

Manifestazioni intestinali Ischemia focale

Trombosi mesenterica superiore

Ulcerazioni intestinali ricorrenti

Necrosi avascolare ossea

Manifestazioni ematologiche Trombocitopenia

Anemia emolitica

Aborto ricorrente e morte fetale rappresentano un'altra delle manifestazioni

cliniche peculiari dell'APS (8, 9). Numerosi studi hanno infatti documentato una

correlazione tra questo tipo di patologia ostetrica e la presenza in circolo di anticorpi

aPL, nonché con la loro concentrazione (2). La percentuale di perdite fetali nelle

donne con APS é compresa tra il 50 e il 75% ed é ancora più alta, fino al 96%, tra le

donne affette da LES che risultano aPL positive. Va comunque riportato che la terapia

attualmente in uso (eparina combinata con basse dosi di aspirina associati a prednisone

per le donne con APS secondaria) per il trattamento delle pazienti gravide con APS ha

drasticamente ridotto tale valore portando il tasso di perdite fetali al 20-30% (10).

Un quadro clinico peculiare che merita di essere ulteriormente segnalato é

quello che ha preso il nome di catastrophic antiphospholipid syndrome e che é

caratterizzato da grave collasso, trombocitopenia, adult respiratory distress syndrome,

trombosi multiple coinvolgenti più organi, ittero e possibile evoluzione fatale (11).

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1.2.2 Criteri diagnostici

I criteri di classificazione che vengono attualmente utilizzati (2) per definire

l’APS sono divisi in criteri clinici e di laboratorio (tabella 1): la classificazione

dell’APS richiede la combinazione di almeno un criterio clinico e uno di laboratorio

separati da non meno di dodici settimane e non più di 5 anni. Viene indicato un

intervallo di tempo di almeno 12 settimane tra due test positivi in quanto non è

infrequente trovare una presenza transiente di anticorpi aPL: risulta pertanto

estremamente importante la persistenza della positività per i test di laboratorio per non

incorrere in falsi positivi.

Tabella 1. CRITERI DI CLASSIFICAZIONE PER LA SINDROME DA ANTICORPI

ANTIFOSFOLIPIDI Criteri clinici

1. Trombosi vascolari

Uno o più episodi di trombosi arteriosa, venosa o dei piccoli vasi in qualsiasi organo

o tessuto

2. Patologie gravidiche

a) una o più morti non spiegabili di feti morfologicamente normali entro la decima

settimana di gestazione;

b) una o più nascite premature di neonati morfologicamente normali entro la 34esima

settimana di gestazione per: eclampsia, severa pre-eclmpsia o insufficienza

placentare;

c) tre o più aborti spontanei consecutivi non spiegabili prima della decima settimana

di gestazione, escludendo anormalità anatomiche e ormonali della madre, nonché

cause cromosomiche materne e paterne.

Criteri di laboratorio

a) Lupus anticoagulant (LA) presente nel plasma in due o più occasioni;

b) anticorpi anticardiolipina (aCL) nel siero o plasma di isotipo IgG e/o IgM presenti

a titolo medio o alto, in due o più occasioni, misurati mediante ELISA standardizzato;

c) anticorpi anti β2-glicoproteina I nel siero o plasma di isotipo IgG e/o IgM presenti

a titolo medio o alto, in due o più occasioni, misurati mediante ELISA standardizzato.

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Come si evince dalla tabella, nei criteri di classificazione vengono prese in

considerazione solamente le manifestazioni cliniche maggiori, ma non quelle minori,

che comprendono tutto lo spettro riportato precedentemente, e nemmeno altri tipi di

anticorpi come IgA aCL, IgA anti β2-GPI, antifosfatidilserina (aPS),

antifosfatidiletanolamina (aPE) o antiprotrombina (aPT). Nonostante essi si ritrovino di

frequente nei pazienti con APS e la loro associazione con l’APS sia riconosciuta, si

ritiene che includerli nei criteri per la diagnosi dell’APS possa ridurre la specificità

diagnostica: vanno pertanto considerati come criteri diagnostici indipendenti o “non

criteri”, riservando ai casi in cui essi sono presenti in assenza dei criteri classici il

termine di “APS probabile”.

1.2.3 Aspetti immunologici

La sindrome da anticorpi antifosfolipidi (APS) è caratterizzata da un quadro

clinico tipico: trombosi, aborti ricorrenti e morte fetale. Tale sintomatologia è

strettamente associata alla presenza degli anticorpi antifosfolipidi (aPL), evidenziabili

con test differenti: il test per l'attività del lupus anticoagulante (LA), il test in fase

solida per la ricerca degli anticorpi anticardiolipina (aCL) o degli anticorpi anti β2-

glicoproteina I.

Sebbene la maggiore parte dell'attenzione sia stata rivolta alla correlazione tra

APS e aPL, altri markers di autoimmunità coesistono con gli aPL (12, 13): non deve

sorprendere quindi il riscontro di autoanticorpi differenti dagli aPL e con diversa

prevalenza nel siero di pazienti con APS, come anticorpi anti-endotelio, anti-piastrine,

anti-mitocondrio e anti-nucleo. La frequenza dell'associazione non è uniforme ed è

variabile per le differenti popolazioni anticorpali.

In alcuni casi, le attività autoanticorpali contro antigeni cellulari o tissutali

diversi dai fosfolipidi rappresentano semplicemente una reattività degli aPL contro

epitopi fosfolipidici presenti su queste stesse strutture. Gli antigeni verso cui sono

diretti sono strettamente correlati alla stessa specificità degli aPL e sono probabilmente

coinvolti anche nei meccanismi patogenetici della sindrome.

Tuttavia, in altri casi, gli autoanticorpi non evidenziano una specificità

antigenica in comune con gli aPL e l'associazione potrebbe essere dovuta

semplicemente alla tendenza di questi pazienti a sviluppare fenomeni autoimmuni.

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1.3 GLI ANTICORPI ANTIFOSFOLIPIDI

Gli anticorpi antifosfolipidi (aPL) sono una classe eterogenea di

immunoglobuline che comprendono, tra gli altri, gli anticorpi anticardiolipina (aCL) e

l’anticoagulante lupico (LAC) (14).

La reazione con i fosfolipidi avviene in presenza di un cofattore proteico

plasmatico che è stato identificato nella β2 glicoproteina I (β2-GPI) (15) per quanto

concerne gli aCL e nella protrombina per gli anticorpi LAC (16).

La β2-GPI (conosciuta anche come apolipoproteina H) è una proteina

abbondante nel plasma (0,2mg/ml), con un peso molecolare di 54 KDa, prodotta a

livello epatico e placentare. È altamente glicosilata in quanto possiede quattro catene

laterali oligosaccaridiche che costituiscono il 15% del suo peso molecolare ed è

costituita da una singola catena polipeptidica organizzata in 5 moduli CCP

(complement control protein) o “sushi domains” denominati domini dal I al V (17-19),

di cui l’ultimo, il dominio V, è responsabile del legame con i fosfolipidi anionici (17).

La funzione(i) fisiologica è sconosciuta: il fatto che più del 60% sia legato a

lipoproteine suggerisce che essa possa avere un ruolo nel metabolismo lipidico (20).

Inoltre, in vitro, si comporta come un inibitore della coagulazione in quanto inibisce

l’attivazione da contatto della via estrinseca della coagulazione: blocca infatti

l’attivazione della protrombina da parte del complesso dei fattori Xa e Va della

coagulazione su superficie fosfolipidica e l’aggregazione ADP-dipendente delle

piastrine (21, 22).

La β2-GPI è capace di legare i fosfolipidi anionici: da tale legame deriva un

cambiamento conformazionale sia dei fosfolipidi, che passano da una struttura di tipo

lamellare a una di tipo esagonale (che si è dimostrata essere dotata di maggiori

capacità antigeniche), sia della stessa β2-GPI che espone nuovi epitopi antigenici. Di

fatto la stessa β2-GPI rappresenta un possibile bersaglio anticorpale, infatti, in molti

sieri di pazienti affetti da APS si riscontrano anticorpi anti β2-GPI.

Va ricordato che spesso gli stessi anticorpi aCL sono in grado di reagire con la

β2-GPI sia legata ai fosfolipidi anionici (15, 23), sia immobilizzata sulla superficie di

piastre ELISA gamma-irradiate o, comunque, ad alta intensità. In queste condizioni la

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β2-GPI funge quindi da antigene diretto per gli anticorpi aCL, che possono pertanto

essere considerati come anticorpi anti β2-GPI .

Al contrario, la β2-GPI libera non viene riconosciuta dagli anticorpi aCL, il che

spiega i livelli circolanti normali di questa proteina che si osservano nei pazienti con

anticorpi aPL (24).

Per spiegare la reattività degli aCL con la β2-GPI immobilizzata su alcuni tipi di

superficie anionica, sono state avanzate due ipotesi, che non necessariamente si

escludono a vicenda:

a) gli anticorpi aCL riconoscono dei neo-epitopi esposti dalla β2-GPI solo a

seguito del suo legame con un’appropriata superficie anionica (quale quella

rappresentata dai fosfolipidi o dalla plastica di alcune piastre ELISA) ma non la

molecola nativa (25);

b) gli anticorpi aCL sono anticorpi a bassa affinità per l’antigene, pertanto il

loro legame con la β2-GPI viene stabilizzato solo quando la densità di

superficie della glicoproteina è sufficientemente elevata, come avviene sulle

piastre ELISA gamma-irradiate o ad alta densità oppure sui fosfolipidi

anionici (26).

L’interazione tra gli anticorpi LAC e la protrombina presenta molte analogie con

quella descritta tra gli aCL e la β2-GPI. Infatti gli anticorpi LAC riconoscono

preferenzialmente la protrombina legata mediante ponti di calcio ai fosfolipidi anionici

oppure immobilizzata su particolari piastre ELISA (16, 27, 28).

Inoltre, attraverso il riconoscimento della protrombina legata ai fosfolipidi

anionici, si esercita l’attività anticoagulante espressa dagli anticorpi LAC. Una

differenza risiede invece nel frequente riscontro di anticorpi anti-protrombina libera nei

pazienti con anticorpi aPL, con conseguente riduzione dei livelli di protrombina

circolante (29).

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1.3.1 Gli anticorpi anti-ββββ2 glicoproteina I (ββββ2-GPI)

Nel 1990, gruppi differenti (15, 23) hanno dimostrato che per la reazione degli

anticorpi anticardiolipina (aCL) presenti nei pazienti con malattie autoimmuni è

necessaria una proteina serica identificata come β2-glicoproteina I. Già dal Workshop

di standardizzazione svoltosi nel 1986, il test per la ricerca degli aCL viene infatti

eseguito in presenza di siero fetale bovino contenente β2-GPI (la β2-GPI è una proteina

altamente conservata dal punto di vista filogenetico, in particolar modo nei mammiferi,

con gradi di omologia attorno all’80%, il che rende paragonabile l’utilizzo della

proteina bovina rispetto a quella umana). Il target degli aCL è stato quindi posto in

discussione, suggerendo che la β2-GPI e non i fosfolipidi rappresentino il vero

bersaglio degli anticorpi. Gli aCL veri e propri sarebbero quelli presenti nelle malattie

infettive e che non necessitano del cofattore; viceversa nei pazienti con APS l'attività

anticorpale verrebbe attribuita ad anticorpi anti β2-GPI, anche se questi ultimi non sono

relegati alle forme autoimmuni e sono stati in effetti anche segnalati in alcune forme

infettive come la lebbra o la sifilide (30, 31).

Nonostante il dibattito sia ancora aperto, la presenza degli anticorpi anti β2-GPI

viene ora indagata con una nuova metodica che utilizza come substrato antigenico la

sola β2-GPI (32).

I risultati dimostrano che nei pazienti con APS gli anti β2-GPI sono strettamente

associati agli aCL. Inoltre, studi effettuati nella stessa popolazione, hanno dimostrato

una più stretta correlazione degli anticorpi anti β2-GPI con trombosi, aborti ricorrenti e

morte fetale rispetto agli aCL, tanto da essere considerati un fattore di rischio

indipendente (33-36).

Recentemente è stato dimostrato un potenziale ruolo patogenetico degli anticorpi

anti β2-GPI. Infatti, anticorpi mono- e policlonali anti β2-GPI sono in grado di inibire

reazioni della coagulazione fosfolipido-dipendenti. Inoltre anticorpi policlonali anti β2-

GPI purificati per affinità sono in grado di attivare le cellule endoteliali come

dimostrato dall'espressione di molecole di adesione sulla loro superficie (37). Sono stati

infine condotti esperimenti con modelli animali che supportano ulteriormente il ruolo

patogenetico degli anticorpi anti β2-GPI. Topi normali BALB/C, immunizzati con la

β2-GPI umana, sviluppano APS evidenziabile sperimentalmente con aborti,

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trombocitopenia e prolungamento del tempo di tromboplastina parziale (PTT), associati

alla comparsa di anticorpi anti β2-GPI e aCL (38-41).

Nei pazienti con APS sono riscontrabili altri autoanticorpi diretti contro proteine

che legano fosfolipidi, quali anticorpi anti-protrombina, anti-proteina C e anti-proteina

S. Tuttavia, la loro prevalenza ed il loro possibile ruolo patogenetico sono ancora

oggetto di studio (42).

1.4 POSSIBILI MECCANISMI CHE MEDIANO L’APS

Clinicamente l’APS è considerata come una patologia con trombosi sistemiche,

sebbene la frequenza delle trombosi sia molto bassa nonostante la maggior parte dei

pazienti presenti alti e stabili livelli di aPL. Trombosi documentate si riscontrano infatti

solo nel 30% dei pazienti e, se ricorrenti, gli eventi sono generalmente separati da anni

di “silenzio”. Una spiegazione plausibile di questa condizione è rappresentata dal fatto

che gli anticorpi aPL non sono in grado di per sé di indurre trombosi, ma necessitano di

un secondo danno. Questa viene conosciuta come ipotesi del doppio insulto: gli

anticorpi aPL (primo insulto) aumentano il rischio di eventi trombotici che avvengono

però solo in presenza di un’altra condizione trombofilica (secondo insulto) (43).

Sono state avanzate molte ipotesi, che non necessariamente si escludono a

vicenda, per spiegare come agiscono gli anticorpi antifosfolipidi. Va detto infatti che

gli anticorpi aPL possono sia interagire con i fattori solubili della coagulazione che

modulare le funzione delle cellule coinvolte nell’omeostasi coagulatoria.

1.4.1 Reazioni emostatiche

Gli anticorpi aPL possono interferire con il sistema della proteina C, una delle

principali vie antitrombotiche fosfolipido-dipendenti, in molteplici modi. È stata

suggerita un’inibizione della formazione della trombina, dell’attivazione della proteina

C attraverso l’acquisizione di una resistenza alla proteina C attivata e di un deficit della

proteina C/S (44, 45).

Gli anticorpi aPL e la β2-GPI sono anche in grado di interferire con la via

fibrinolitica attraverso la trombomodulina, attivando l’inibitore della fibrinolisi

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trombina-inducibile e aumentando l’attività dell’inibitore I dell’attivatore del

plasminogeno (46).

1.4.2 Interazione con cellule della cascata coagulativa

Cellule endoteliali

Diversi studi in letteratura hanno dimostrato la capacità di sieri o plasmi positivi

per gli anticorpi aPL di alterare le funzioni delle cellule endoteliali, inducendo uno

stato proadesivo e procoagulante (47). È stato ipotizzato che tali effetti possano

rappresentare potenziali meccanismi patogenetici attraverso i quali gli aPL sono in

grado di indurre in vivo una diatesi trombotica. La β2-GPI può legarsi alle cellule

endoteliali sia attraverso i fosfolipidi sia attraverso l’annessina II, un recettore delle

cellule endoteliali per l’attivatore tissutale del plasminogeno (48).

La correlazione esistente tra l'attivazione endoteliale e la diatesi trombotica nei

pazienti con APS potrebbe essere sostenuta da uno stato procoagulante dell'endotelio

attivato o dall’aderenza di cellule mononucleate attraverso l'aumentata espressione

delle molecole di adesione. È stato dimostrato che gli anticorpi aPL sono in grado di

indurre un fenotipo endoteliale proadesivo attraverso una up-regolazione delle

molecole di adesione [E-selectina, ICAM-1, VCAM-1] e un’aumentata sintesi e

secrezione di citochine proinfiammatorie come l’IL-1β e l’IL-6 (47). In effetti,

l'adesione endoteliale è in grado di per sé di indurre un'attivazione leucocitaria che a

sua volta può indurre un'attività procoagulante in cellule mononucleate aderenti.

Gli anticorpi aPL inducono inoltre un fenotipo procoagulante: anticorpi umani

monoclonali anti β2-GPI sono infatti in grado di aumentare in vitro l’espressione si

mRNA del fattore tissutale nelle cellule endoteliali (49). Il fattore tissutale è una

lipoproteina transmembranale espressa da una varietà di cellule, comprese le cellule

endoteliali, che rappresenta il principale fattore d’innesco della coagulazione in vivo.

Non è chiaro se gli anticorpi anti β2-GPI inneschino la sintesi del fattore tissutale

direttamente o se le citochine proinfiammatorie indotte dagli stessi anticorpi giochino

un ruolo indiretto.

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Monociti

I monociti possono svolgere un’azione procoagulante, principalmente legata

all’espressione del fattore tissutale se incubati con sieri APS positivi (49). In sieri con

APS primitiva o secondaria sono stati trovati livelli plasmatici significativamente

elevati di tissue factor e di tissue factor pathway inhibitor, un regolatore fisiologico

dell’attivazione della coagulazione tissue factor-dipendente, suggerendo un’up-

regolazione in vivo della via del tissue factor (50).

Piastrine

Una lieve trombocitopenia viene riportata come una delle manifestazioni tipiche

dell’APS: essa viene attribuita ad un aumento dell’attivazione piastrinica in vivo e

collegata allo stato trombofilico. La capacità degli anticorpi aPL di attivare

direttamente le piastrine è ancora oggetto di discussione: in effetti gli anticorpi aPL

possono riconoscere i fosfolipidi a carica negativa sulle membrane piastriniche, ma

solo quando questi sono esposti sulla superficie esterna, cosa che avviene solo dopo

danno o attivazione. Nelle cellule non attivate i fosfolipidi carichi negativamente sono

invece presenti solo sul versante citoplasmatico della membrana cellulare e non sono

quindi disponibili agli anticorpi circolanti. Si è pertanto ipotizzato che la crossreattività

tra anticorpi aPL e piastrine non sia primaria ma costituisca piuttosto un evento

secondario all’attivazione o al danno delle piastrine determinati da altre cause, come il

rilascio di mediatori attivi da parte di altri tipi cellulari, quali le cellule endoteliali o i

monociti attivati dagli aPL, oppure di prodotti della cascata coagulatoria (51).

1.4.3 Il sistema del complemento nell’APS

Il possibile ruolo dell’attivazione complementare nell’APS è suggerito dalla

dimostrazione di un aumento dei prodotti di attivazione complementare nel plasma di

pazienti con APS a seguito di un evento di ischemia cerebrale rispetto a pazienti con

ischemia cerebrale ma senza APS.

Il modello internazionalmente riconosciuto per dimostrare il ruolo del

complemento nella patogenesi di questa sindrome è stato messo a punto nel nostro

laboratorio (52); da questo lavoro si evince che la formazione dei trombi necessita di un

“priming factor” e che il complemento è un mediatore determinante nella patogenesi

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dei trombi in questa sindrome. Il modello consiste nel trattamento con IgG policlonali,

purificate da pazienti con APS e da donatori sani, di ratti pretrattati con

lipopolisaccaride (LPS) (priming factor): la formazione dei trombi risulta essere indotta

solamente nei ratti che hanno ricevuto gli anticorpi aPL. Inoltre tale effetto viene

abolito utilizzando ratti C6 deficienti o trattati con un anticorpo che blocca il quinto

componente complementare.

1.5 APS E GRAVIDANZA

Lo spettro delle manifestazioni ostetriche associate all’APS va dalla perdita

fetale ricorrente durante il primo trimestre al mancato accrescimento fetale o alla morte

nel secondo o terzo trimestre.

Per comprendere gli effetti biologici degli aPL bisogna considerare il loro target

antigenico che deve essere espresso sulla superficie delle cellule bersaglio: i

componenti fosfolipidici principali delle membrane plasmatiche sono fosfatidilcolina

(PC), fosfatidiletanolamina (PE) e fosfatidilserina (PS) che normalmente non sono

accessibili agli anticorpi in quanto relegati alla superficie interna della membrana.

L’esternalizzazione fisiologica della PS durante la differenziazione del trofoblasto può

invece rendere conto del perché la placenta è così insolitamente sensibile alla presenza

degli aPL.

Un effetto dell’esternalizzazione della PS (es. piastrine attivate) è quello di

attivare la cascata della coagulazione; tuttavia in condizioni normali l’annessina V

viene esternalizzata assieme alla PS agendo da anticoagulante, bloccando la PS esposta

e prevenendo la formazione del complesso della protrombinasi.

L’espressione dell’annessina V sulla superficie del trofoblasto può essere

alterata dalla presenza degli aPL, infatti si assiste a una riduzione dei livelli di questa

proteina sulla superficie del trofoblasto in donne con APS e aborti spontanei ricorrenti

(53). Esperimenti in vitro (54, 55) hanno inoltre dimostrato che gli anticorpi aPL sono

in grado di scalzare l’annessina V presente sulla superficie cellulare, anche se

paradossalmente non sono in grado di inibire allo stesso modo il legame dei fattori

della coagulazione. L’ipotesi più accreditata è che gli anticorpi inibiscono la capacità

dell’annessina V di formare dei cluster sui fosfolipidi anionici, a cui è probabilmente

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dovuta la sua alta affinità, favorendo così sia il legame dei fattori della coagulazione,

sia la loro capacità di diffondere lateralmente.

I meccanismi d’azione degli aPL in gravidanza non sono ancora del tutto chiari e

con tutta probabilità sono molteplici. Molte manifestazioni cliniche dell’APS possono

essere correlate ad eventi trombotici, tuttavia le trombosi a livello placentare non

possono spiegare tutte le complicazioni che si verificano in donne con questa sindrome.

La teoria che la trombofilia non sia la sola causa delle complicazioni che si riscontrano

in questa patologia in gravidanza è supportata anche dall’osservazione che le terapie

atte a prevenire la trombosi hanno solo parzialmente successo nel prevenire le perdite

fetali.

É stato pertanto ipotizzato che gli aPL si leghino e danneggino direttamente il

trofoblasto villoso ed extravilloso attraverso il riconoscimento della PS esposta durante

la formazione del sincizio.

Studi in vitro (56, 57) riportano infatti che gli anticorpi antifosfolipidi si legano

al trofoblasto sia direttamente sia attraverso la β2-GPI presente sulla sua superficie,

alterando la secrezione di gonadotropina e inibendo le capacità invasive del trofoblasto:

si ipotizza che questo meccanismo contribuisca alle perdite fetali precoci. L’analisi di

placente ottenute da aborti entro il primo trimestre di pazienti con APS ha

effettivamente evidenziato una riduzione significativa dell’invasione intradeciduale del

trofoblasto endovascolare.

1.5.1 Meccanismi regolatori: molecole di adesione

In vitro i citotrofoblasti si aggregano e stabiliscono molteplici interazioni gli uni

agli altri attraverso la formazione di desmosomi e gap junction: gli aggregati cellulari

che ne derivano promuovono la differenziazione terminale e la fusione dei

citotrofoblasti in un sincizio multinucleato. Questi cambiamenti morfogenetici sono

mediati, almeno in parte, dalla regolazione dell’espressione di alcuni membri della

superfamiglia delle caderine, in particolare la E-caderina e la VE-caderina.

L’invasione del trofoblasto nello stroma deciduale implica l’up e down-

regolazione di specifiche proteine della matrice extracellulare e i relativi recettori

presenti sulla superficie cellulare (integrine): durante l’invasione si assiste prima a

un’up-regolazione dell’espressione di molecole che inibiscono questo processo

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(integrina α5 e recettore per la fibronectina) e poi di molecole che lo promuovono

(integrina α1, laminina, recettore per il collagene).

É noto che condizioni patologiche in cui l’invasione del citotrofoblasto non è

normale possono essere associate a scompensi a livello molecolare come effetto dello

squilibrio dei meccanismi regolatori che lo governano. In questo caso è stato dimostrato

che gli anticorpi antifosfolipidi regolano l’espressione delle molecole di adesione sul

trofoblasto (58), riducono i livelli di VE-caderina e aumentano quelli di E-caderina,

aumentano i livelli di integrina α5 e diminuiscono quelli di integrina α1.

I trofoblasti non esprimono quindi livelli normali di molecole di adesione in

presenza di aPL, il che indica che il fenotipo adesivo in queste cellule non è ottimale

per l’invasione.

1.5.2 Il sistema del complemento

L’attivazione del complemento può contribuire alle perdite fetali ricorrenti

associate all’APS, in particolare in situazioni caratterizzate dalla presenza di infiltrati

infiammatori in placenta.

Il modello in vivo che viene utilizzato per saggiare il coinvolgimento del

complemento in questo senso è rappresentato dall’infusione in femmine di topo gravide

di IgG policlonali purificate da pazienti con APS o anticorpi monoclonali diretti contro

i fosfolipidi anionici.

Topi knock out per i recettori del C5a non mostrano riassorbimenti fetali,

considerati l’equivalente murino dell’aborto negli umani (59). Poiché frammenti

F(ab)’2 di anticorpi aPL non sono in grado di determinare riassorbimenti fetali e poiché

topi C4-deficienti sono protetti dai danni fetali indotti dagli aPL, si evince che la

cascata complementare sia innescata attraverso la via classica, pur essendo

indispensabile anche l’attivazione della via alternativa per amplificare il sistema (59,

60).

Altri fattori importanti in questo processo sono costituiti da neutrofili e TNF-α

(61). Quest’ultimo può avere effetti deleteri sulla gravidanza sia in modo diretto che

indiretto. I recettori per il TNF-α espressi sul trofoblasto modulano la proliferazione e

la differenziazione in una gravidanza normale: studi in vitro hanno dimostrato che il

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TNF-α induce l’apoptosi dei citotrofoblasti, suggerendo che una sua espressione

aberrante potrebbe avere effetti deleteri sullo sviluppo e sulle funzioni della placenta.

Il TNF-α potrebbe inoltre indurre l’aborto anche indirettamente attivando cellule

endoteliali e leucociti: neutrofili e monociti stimolati dal TNF-α rilasciano mediatori

infiammatori, come specie reattive dell’ossigeno, enzimi proteolitici che creano un

danno tissutale diretto e amplificano il sistema mediante l’attivazione del complemento

con ulteriore attivazione di C5 e rilascio di nuovo TNF-α con conseguente aumento

dell’infiammazione locale.

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1.6 LA PLACENTA

La gravidanza è un evento fisiologico caratterizzato dall’instaurarsi di un

rapporto speciale tra madre e feto. La sopravvivenza del prodotto del concepimento

dipende dalla comparsa di un organo vitale di nuova formazione, la placenta (62).

La placenta e gli annessi fetali, infatti, sono strutture di fondamentale importanza

per lo sviluppo embrionale del mammifero in quanto separano il prodotto del

concepimento dalla madre, ma garantiscono il nutrimento e la protezione del nascituro.

La placenta è costituita da cellule specializzate che si formano precocemente e

ancorano l’embrione all’utero, formando le connessioni vascolari necessarie per il

trasporto dei nutrienti. Il processo che porta alla formazione della placenta viene

indicato con il termine placentazione e procede attraverso due stadi importanti:

l’attacco dell’embrione alla parete uterina (impianto) e le creazione delle connessioni

vascolari necessarie per permettere gli scambi di gas e di nutrimenti tra la circolazione

materna e quella fetale e l’eliminazione di cataboliti fetali nel sangue materno

(circolazione placentare).

1.6.1 Struttura e sviluppo della placenta

Nella struttura placentare si possono distinguere due componenti principali: una

parte fetale e una parte materna nota con il nome di decidua.

Placentazione

Dopo la fecondazione l’ovulo subisce un processo di segmentazione, ovvero una

serie successiva di divisioni mitotiche che lo portano a diventare una massa di 12-16

cellule detta morula. Circa quattro giorni dopo la fecondazione, tra le cellule situate in

posizione centrale nella morula appaiono degli spazi e subito in queste lacune fluisce

del liquido proveniente dalla cavità uterina. Questo liquido separa le cellule in due

gruppi:

• uno strato di cellule esterne, il trofoblasto (dal greco trophe – nutrizione) che

darà origine ad una parte della placenta;

• una massa di cellule centrali, detta massa cellulare interna, che formerà

l’embrione.

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A questo stadio di sviluppo il prodotto del concepimento prende il nome di

blastocisti. Circa 6 giorni dopo la fecondazione, la blastocisti aderisce all’epitelio

dell’endometrio, normalmente a livello del polo embrionale (zona prossima alla massa

cellulare interna) (63). A questo livello, infatti, avviene il differenziamento del

trofoblasto in: citotrofoblasto interno e sinciziotrofoblasto esterno, formato da una

massa di cellule multinucleate.

Microvilli presenti sulla superficie apicale del sinciziotrofoblasto si interdigitano

con microprotrusioni poste sull’epitelio uterino chiamate pinopodi, processo noto con il

nome di apposizione.

Nove giorni dopo la fecondazione nel sincizio appaiono lacune e vacuoli che si

dilatano rapidamente e si fondono tra loro. La formazione della circolazione utero-

placentare avviene quando i capillari venosi materni vengono erosi dal sincizio,

permettendo al sangue di fluire all’interno del sistema delle lacune. Circa 12 giorni dal

concepimento la blastocisti è completamente immersa nel tessuto stromale dell’utero e

l’epitelio endometriale ha totalmente ricoperto il sito d’impianto (63).

Dopo questa fase iniziale di impianto, si può considerare che il differenziamento

del trofoblasto avvenga attraverso due principali pathway: trofoblasto villoso ed

extravilloso. È utile considerare queste due pathway differenziative separatamente, in

quanto le funzioni e le cellule materne con cui questi vengono a contatto sono diverse.

Il trofoblasto villoso ricopre tutti i villi della placenta definitiva ed è implicato nel

trasporto di ossigeno e nutrienti dalla madre al feto. I villi sono immersi nel sangue

materno e quindi il loro unico contatto è con le cellule del circolo periferico della

madre. Diversamente, il trofoblasto extravilloso comprende tutte le sottopopolazioni di

trofoblasti invasivi che migrano in profondità all’interno della mucosa uterina, fino al

primo terzo del miometrio incontrando diversi tipi di cellule materne (64).

1.6.2 Il trofoblasto villoso

Il primo segno di sviluppo del villo, durante la seconda settimana di gestazione,

è la formazione di foci di cellule citotrofoblastiche che protrudono all’interno del

sincizio primitivo. All’inizio della settimana successiva in questi villi primari, va

depositandosi del mesenchima, che viene a costituire un asse centrale di tessuto

connettivo lasso. I villi a questo stadio, detti villi secondari, sono ramificati e

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rapidamente, alcune cellule mesenchimali localizzate al loro interno iniziano a

differenziarsi in capillari sanguigni che vanno quindi a costituire reti venose arterio-

capillari. Una volta avvenuto lo sviluppo dei vasi sanguigni all’interno dei villi, questi

vengono chiamati villi terziari. I vasi formatisi si collegano presto con i vasi fetali, così

che a partire dalla quarta settimana la circolazione feto-placentare risulta stabilizzata.

Durante il secondo e terzo mese di gestazione avviene una rapida espansione e

ramificazione dei villi che porta alla formazione della caratteristica struttura alberata

della placenta matura. Nel primo trimestre il villo è ricoperto da un doppio strato di

trofoblasti: quello più interno è costituito da cellule citotrofoblastiche che sono

appoggiate sulla membrana basale coperte da uno strato più esterno di

sinciziotrofoblasti. Sono quest’ultimi che ricoprono i villi fluttuanti nello spazio

intervilloso e che vengono a contatto con il sangue materno in modo simile alle cellule

endoteliali. I citotrofoblasti, uniti tra loro ed ai sinciziotrofoblasti mediante desmosomi,

sono cellule indifferenziate in grado di moltiplicarsi e trasformarsi in

sinciziotrofoblasti. Questo rappresenta lo stadio di differenziamento terminale, non

essendo mai stato dimostrato alcun evento mitotico a carico di queste cellule. Il

sinciziotrofoblasto rappresenta la maggior fonte di proteine prodotte durante la

gravidanza e secerne citochine e ormoni indispensabili per un regolare sviluppo

dell’unità feto-placentare. In particolare vengono secreti ormoni come la gonadotropina

corionica umana (hCG) e il lattogeno placentare (hPL) (65). Sostanze nutritive,

anticorpi, agenti infettivi e altre sostanze, per passare dalla circolazione materna a

quella fetale, devono attraversare lo strato continuo multinucleato del

sinciziotrofoblasto passando poi anche lo strato citotrofoblastico, il tessuto connettivo

lasso dell’asse dei villi e l’endotelio dei capillari fetali.

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Figura 1. Schema dell’organizzazione istologica dell’interfaccia materno-fetale a

metà del secondo trimestre di gravidanza (66).

1.6.3 Il trofoblasto extravilloso

Dopo la seconda settimana di gestazione le cellule del citotrofoblasto gemmano

attraverso il sincizio primitivo e, sulla parte apicale, si aggregano formando delle

strutture solide note come colonne cellulari citotrofoblastiche (figura 1). Questi villi

prendono il nome di villi ancoranti, in quanto fissano la placenta alla decidua. Le

colonne cellulari citotrofoblastiche si allungano lateralmente e si fondono con le

colonne confinanti a formare un guscio citotrofoblastico che circonda l’intero sacco

embrionico. Fin dalle prime settimane di gravidanza e per tutto il primo trimestre alcuni

citotrofoblasti apicali si staccano dal villo ancorante e migrano in decidua invadendo la

parete uterina. Più precisamente essi invadono sia l’endometrio, fino al terzo interno

del miometrio (un processo chiamato invasione interstiziale), sia i vasi uterini

(invasione endovascolare). Durante l’invasione interstiziale, i trofoblasti cambiano

morfologia: da cellule coesive rotondeggianti, diventano fusiformi e isolate. Oltre ad

una modificazione morfologica, i trofoblasti, durante questo processo cambiano il loro

assetto di molecole d’adesione, infatti down-regolano l’espressione dell’integrina α6β4

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(che lega la laminina) per aumentare l’espressione di α5β1 (recettore per la

fibronettina) e α1β1 (che lega il collagene). Quando raggiungono la porzione più

profonda della decidua e del miometrio diventano multinucleate e vengono chiamate

cellule giganti della placenta. Queste ultime rappresentano la tappa differenziativa

finale dei trofoblasti interstiziali e sono prive di attività invasiva.

Durante l’invasione endovascolare, invece, i trofoblasti migrano lungo la parete

interna delle arterie spirali in senso anterogrado rispetto al flusso del sangue. Questi

vanno a sostituirsi ad una buona parte dell’endotelio materno e penetrano nella tunica

media muscolare con un processo meglio noto come pseudovasculogenesi, oppure si

aggregano formando degli ammassi cellulari disseminati all’interno del lume del vaso

che viene parzialmente occluso nel punto in cui le arterie spirali si aprono nello spazio

intervilloso. La ridotta velocità del flusso ematico impedisce che il sangue vi giunga ad

una pressione così elevata da danneggiare le delicate strutture villose.

Il trofoblasto extravilloso invade la decidua dopo essere penetrato attraverso la

membrana basale dell’epitelio uterino. Si comporta come le cellule tumorali del

carcinoma in situ, che, trasformate in cellule di tipo invasivo, acquisiscono la capacità

di penetrare la membrana basale di un epitelio e di invadere lo stroma sottostante. A

differenza di quanto accade per le metastasi tumorali, il processo di invasione è però

limitato nello spazio (miometrio) e nel tempo (primo trimestre di gravidanza) (67-70).

1.6.4 La Decidualizzazione

La decidualizzazione è il processo di differenziamento morfologico e biochimico

dell’endometrio necessario per l’impianto dell’embrione. Consiste nell’aumento della

permeabilità vascolare dei vasi dell’endometrio, nei cambiamenti nella composizione

della matrice extracellulare e nella trasformazione delle cellule stromali in cellule

deciduali (71).

Nell’uomo lo sviluppo di un endometrio secretorio capace di supportare

l’impianto, e quindi una gravidanza, si ha quando l’utero viene esposto ad una

appropriata sequenza di estrogeni e progesterone. In particolare durante il ciclo

mestruale, sotto l’influenza di estrogeni, avviene una rapida proliferazione di cellule

stromali ed epiteliali (fase proliferativa). Dopo l’ovulazione iniziano ad aumentare i

livelli di progesterone, la fase proliferativa termina, e inizia il differenziamento (fase

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luteinica o secretoria) (72). Quindi la spontanea decidualizzazione dello stroma

endometriale inizia con il normale ciclo mestruale e prosegue anche in assenza di una

gravidanza. Tutti i cambiamenti morfologici che subisce la decidua durante la

gestazione avvengono per facilitare l’impianto e l’invasione da parte del trofoblasto

(72). Generalmente l’epitelio endometriale non è predisposto a far aderire altre cellule,

ma nel momento dell’impianto, sotto l’influenza di ormoni steroidei, l’epitelio diventa

recettivo. Le principali funzioni della decidua sono quindi garantire un fertile substrato

per lo sviluppo fetale, favorire l’annidamento e produrre sostanze nutritive per la

blastocisti. Infine, un altro importante ruolo è quello di controllare la migrazione

trofoblastica.

Nello spazio intervilloso circola il sangue materno destinato agli scambi feto-

placentari. Il sangue che circola liberamente tra i villi, proviene dalle arterie spirali per

poi rientrare attraverso le vene dell’endometrio. Nel corso dello sviluppo fetale queste

arterie vanno incontro ad un rimodellamento caratterizzato da profonde modificazioni

strutturali. Le arteriole della decidua basale si dilatano e diventano vasi di grosso

calibro, così facendo aumentano la portata del flusso sanguigno che si immette nello

spazio intervilloso.

Queste modificazioni vascolari sono conseguenza dell’invasione interstiziale ed

endovascolare dei trofoblasti in decidua. I vasi infatti, vengono aggrediti dai trofoblasti

sia dall’esterno che dall’interno. Affinché avvenga l’invasione trofoblastica, è

estremamente importante che prima sia avvenuta la decidualizzazione, perché le arterie

spirali presenti nella decidua hanno una ridotta muscolatura, sono poco elastiche,

condizione ideale affinché avvenga l’invasione da parte dei trofoblasti.

I trofoblasti che sostituiscono l’endotelio delle arterie spirali acquisiscono

funzioni ed espressioni fenotipiche endoteliali: diversi studi (73, 74) hanno infatti

dimostrato che il citotrofoblasto, quando abbandona i villi ancoranti e diventa

trofoblasto endovascolare, perde la capacità di esprimere E-caderina ed esprime invece

la VE-caderina, oltre che CD31 e VCAM-1.

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1.7 IL SISTEMA DEL COMPLEMENTO

Il sistema del complemento è un effettore dell’immunità umorale non-specifica

ed è costituito da un gruppo di circa 35 proteine che possono essere solubili nel plasma

o associate alle membrane cellulari (75). Le proteine complementari sono sintetizzate

da diversi tipi cellulari che includono epatociti, monociti, macrofagi tissutali,

fibroblasti, cellule endoteliali e adipociti. Cellule di vari tessuti mostrano anche loro

una secrezione di componenti complementari come le cellule del tratto

gastrointestinale, urogenitale, cellule epiteliali polmonari, sinoviociti e astrociti. Ad

esempio, l’endometrio umano secerne C3 e fattore B e la secrezione di C3 dalle cellule

epiteliali dell’endometrio di ratto pare essere regolata da estrogeni (76).

I componenti complementari vengono sintetizzati in forma di proenzimi e,

quando il sistema s’innesca, in una cascata finemente regolata, un componente agisce

sul successivo attivandolo mediante una scissione proteolitica che comporta la

rimozione di un frammento inibitorio e l’esposizione del sito attivo. Dal momento che

un’attivazione inappropriata può causare malattia, è richiesta una forte regolazione del

processo di attivazione al fine di prevenire danni tissutali.

Le funzioni di questo sistema sono molteplici:

� causa la lisi di agenti patogeni quali virus e batteri;

� promuove la fagocitosi di antigeni corpuscolari attraverso l’opsonizzazione;

� favorisce il processo infiammatorio;

� rimuove gli immunocomplessi dalla circolazione con la loro deposizione nel

fegato e nella milza.

L’attivazione del complemento avviene attraverso tre vie: classica, lectinica e

alternativa (Figura 2); tutte culminano nella formazione di C5b, indispensabile per

l’avvio della sequenza terminale e la formazione del complesso di attacco alla

membrana.

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Figura 2. Schema riassuntivo delle tre vie di attivazione del sistema

complementare

J. Cell. Mol. Med. Vol 12, No 4, 2008 (77)

La via classica è attivata da immunocomplessi o da anticorpi legati alla

superficie delle cellule bersaglio. Le classi anticorpali coinvolte nell’attivazione sono

le IgM ed alcune sottoclassi delle IgG, quali IgG1, IgG3, ed in minor misura IgG2, ma

l’attivazione avviene anche ad opera di altri attivatori non immunonogenici

riconosciuti dal C1q. Il C1q circola normalmente nel sangue con due proteasi seriniche

zimogene, C1r e C1s (78). Quando due IgG oppure una IgM pentamerica si legano ad

una superficie bersaglio, il complesso macromolecolare C1 (C1qr2s2 stabilizzato dallo

ione Ca2+) si lega al frammento Fc di questi anticorpi mediante la porzione globulare

del C1q. Questo legame causa una modificazione conformazionale del C1q che porta

ad una autoattivazione del C1r, la cui funzione serin-proteasica porta alla scissione e

conseguente attivazione del C1s. Questo, a sua volta, esplicando nuovamente

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un’attività serin-proteasica, idrolizza i due substrati C4 e C2. Il C4 viene scisso in due

frammenti: uno di piccole dimensioni, il C4a, che rimane solubile, ed un frammento

più grande, il C4b, che si lega alla superficie del bersaglio. Il C2 si lega ancora inattivo

al C4b e viene a sua volta attivato dall’azione proteolitica del C1s che lo scinde in due

frammenti: C2a e C2b. Il frammento C2a resta legato al C4b formando un complesso

enzimatico, C4b2a, noto come C3 convertasi della via classica, che attiva il C3

scindendolo in due frammenti, C3a e C3b.

Alcune molecole di C3b si legano al complesso C4b2a attivato formando la C5

convertasi. Il C3b di questo complesso, componente enzimaticamente attivo, si lega al

C5 alterandone la struttura in modo che il C4b2a possa scindere il C5 in C5a, che

diffonde, e C5b che espone il sito di legame per gli altri componenti. Altre molecole di

C3b si possono legare direttamente alle membrane cellulari contribuendo ad innescare

la via alternativa.

Essa è infatti normalmente innescata da diverse sostanze localizzate sulla

superficie di batteri, funghi, virus e parassiti o da prodotti di degradazione cellulare

che attivano il C3 senza l’intervento degli anticorpi. Questo componente è molto

instabile, tanto che può andare incontro ad idrolisi spontanea (tick-over). L’attivazione

del C3 comporta, anche in questo caso, la sua scissione in un frammento più piccolo

C3a, che rimane solubile, ed uno più grande, C3b, che si può legare covalentemente ai

bersagli come nella via classica. Al C3b, attraverso un legame mediato dal Mg2+, si

lega il fattore B, sul quale agisce il fattore D, una serin-esterasi sierica che stacca un

piccolo frammento (Ba) dal fattore B stesso originando il frammento Bb. Si forma così

il C3bBb, un complesso con attività C3 convertasica, che ha un’emivita estremamente

breve, ma che viene prolungata se il complesso viene stabilizzato dal legame con la

proteina sierica properdina.

La C3 convertasi, una volta formata, agisce su altre molecole di C3, alcune

delle quali si legheranno al fattore Bb dando origine al complesso C3bBb3b che svolge

attività C5 convertasica portando alla formazione del C5b (75).

La via lectinica, infine, viene attivata in seguito all’interazione della MBL

(mannose-binding-lectin) con carboidrati, quali N-acetilglucosamina, mannosio o

fucosio, esposti sulla parete cellulare di agenti patogeni (79, 80). Quando la MBL,

molecola che avvia l’attivazione di questa via, si lega a carboidrati presenti sulla

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superficie di microrganismi patogeni, si attivano le serinproteasi associate alla MBL,

MASP1 e MASP2 (mannan-binding-lectin associated serine protease) (81), che

agiscono in modo simile alle serin-proteasi C1r e C1s associate al C1q. Queste

scindono il C4 e il C2 in frammenti, due dei quali il C2a e il C4b si associano a

formare la C3 convertasi. La cascata di reazioni che seguono all’attivazione della C3

convertasi sono uguali a quelle della via classica e culminano anch’esse con la

formazione del C5b.

Lo step finale della sequenza complementare è comune a tutte e tre le vie e

coinvolge C5b, C6, C7, C8 e C9 che, interagendo sequenzialmente, portano alla

formazione del complesso terminale (TCC) o complesso di attacco alla membrana

(MAC) che si inserisce nella cellula bersaglio causandone la citolisi (82).

Il C5b è particolarmente instabile e viene inattivato in meno di due minuti se

non viene stabilizzato dal legame con il C6. Quando il C5b6 lega il C7, il complesso

va incontro ad una transizione strutturale idrofilica-anfifilica, per cui vengono esposti

siti di legame per i fosfolipidi di membrana che consentono al complesso C5b67 di

inserirsi nel doppio strato lipidico. Quando il complesso C5b67 adeso alle membrane

lega il C8, penetra ulteriormente nel doppio strato lipidico. A questo punto il C5b678

lega il C9, che polimerizza formando un poro transmembranario molto simile a quello

costituito dalle perforine, di forma tubulare e del diametro di 70-100 Å, formato da 12-

15 molecole di C9. Il poro permette la libera diffusione di ioni e piccole molecole per

cui la cellula va incontro a lisi osmotica (75).

Poiché il sistema del complemento è un meccanismo di difesa aspecifico e

quindi in grado di attaccare anche le cellule dell’ospite, si sono sviluppati dei

meccanismi di controllo per indirizzare la reazione contro i bersagli voluti. Oltre alla

produzione di un certo numero di componenti estremamente labili che si inattivano

spontaneamente non appena diffondono lontano dalle cellule bersaglio, vi sono varie

proteine regolatrici che inattivano diversi componenti complementari.

La glicoproteina C1 inibitore (C1Inh) può formare un complesso con C1r2s2 ed

indurre la sua dissociazione dal C1q, prevenendo la successiva attivazione di C4 o C2.

Due proteine di membrana, il recettore per il complemento di tipo 1 (CR1) e la

proteina cofattore di membrana (MCP o CD46), assieme alla proteina legante il C4b

(C4bBP) solubile, sono fattori regolatori del complemento che fanno parte di una

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famiglia di proteine che interagiscono con il C3b e con il C4b, regolando l’attività C3

convertasica sia nella via classica che in quella alternativa. Vengono sintetizzate da

geni presenti sul cromosoma 1 in un locus denominato “regolatore dell’attivazione

complementare”, RCA, e contengono sequenze aminoacidiche ripetute di circa 60

residui dette “short consensus repeats” (SCR). Pur essendo strutturalmente differenti,

queste proteine agiscono in modo simile legandosi al C4b ed impedendo la sua

associazione con il C2a. Avvenuto il legame tra C4b ed una di queste proteine, un’altra

proteina regolatrice, il fattore plasma proteasico I scinde il C4b in C4d legato e C4c

solubile; una regolazione simile previene l’associazione della C3 convertasi C3bBb

della via alternativa. In questo caso CR1, MCP o un componente regolatore detto

fattore H si legano al C3b impedendo la sua associazione con il fattore B. Il fattore I,

quindi, scinde il C3b in un frammento iC3b legato ed un frammento C3d solubile. Il

primo viene ulteriormente degradato dal fattore I a C3c, che viene rilasciato, e C3dg

che rimane legato alla membrana (75).

Ognuna di queste proteine previene l’amplificazione dell’attivazione

complementare accelerando il decadimento della C3 convertasi mediante l’induzione

del rilascio del componente enzimaticamente attivo (C2a o Bb) dal componente legato

alla membrana (C4b o C3b) il quale, in seguito alla dissociazione, viene scisso

ulteriormente dal fattore I con l’inattivazione irreversibile della convertasi.

Poiché la possibilità che il complesso C5b67 venga rilasciato e possa causare la

lisi di cellule vicine rappresenta una seria minaccia, esistono anche due proteine di

regolazione presenti sulla membrana di molti tipi di cellule che bloccano la formazione

del MAC. Esse sono il fattore di restrizione omologo (HRF) e l’inibitore di membrana

della lisi reattiva (MIRL o CD59). Essi fanno parte di un gruppo di proteine

sintetizzate distintamente dal locus RCA ed in grado di proteggere le cellule dalla lisi

non specifica mediata dal complemento legando il componente terminale C8 ed

impedendo la polimerizzazione del C9 nonché la sua inserzione nella membrana

cellulare. Anch’essi sono ancorati alla membrana attraverso lipidi glicati, sono capaci

di restringere la loro attività solo ai componenti del complemento appartenenti alla

stessa specie della cellula bersaglio ed alle superfici cellulari alle quali sono integrati.

Per questa ragione si dice che sviluppano una restrizione omologa, dalla quale HRF

deriva il suo nome.

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É interessante notare che l’ancora di glicosilfosfatidilinositolo conferisce alle

proteine che la possiedono una maggior mobilità laterale sulla membrana cellulare e

ciò potrebbe essere importante per i veloci movimenti verso i siti di attacco del

complemento allo scopo di prevenire la formazione del MAC.

Allo stesso gruppo di proteine in cui si collocano CD59 e HRF appartiene anche

la proteina S o vitronectina, una glicoproteina sierica costituente il più importante

inibitore della sequenza terminale del complemento. E’ in grado di legarsi al C5b67

libero o al sito metastabile della sequenza terminale che si sta formando, inducendo

una transizione idrofilica che impedisce l’inserimento del complesso nella membrana

delle cellule contigue o prevenendo la polimerizzazione del C9 (75).

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2. SCOPO

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La Sindrome da anticorpi anti-fosfolipidi (APS) è una condizione morbosa

caratterizzata da un aumentato rischio di trombosi vascolari che coinvolgono la

circolazione venosa, arteriosa e placentare; in quest’ultimo caso, la patologia si

associa a complicanze ostetriche che comprendono aborti ricorrenti, possibile morte

fetale e ritardi nella crescita postnatale (2). Queste manifestazioni cliniche sono

causate dalla presenza in circolo di anticorpi anti-fosfolipidi (aPL), come dimostrato

dal fatto che il trasferimento passivo di immunoglobuline purificate da sieri umani

aPL-positivi è stato in grado di indurre perdite fetali e ritardi di crescita in femmine

di topo gravide, suggerendo pertanto un loro ruolo diretto nell’APS (38-39). La

patogenesi della sindrome rimane tuttavia non ancora completamente chiarita,

sebbene studi recenti abbiano dimostrato che l’attivazione del sistema

complementare sia un evento essenziale e determinante nella trombosi (52) e nelle

perdite fetali (60).

In particolare è stato dimostrato in un modello murino di APS che

l’attivazione del complemento gioca un ruolo chiave in questa patologia

determinando danno alla placenta e al feto in presenza di anticorpi antifosfolipidi

(60). Scopo iniziale di questa tesi è stato pertanto quello di verificare se una simile

associazione è riscontrabile anche nei tessuti umani e se è possibile riprodurre anche

in vitro un’attivazione complementare sulle cellule presenti in placenta.

Utilizzando il modello murino di APS abbiamo inoltre voluto verificare la

validità di un anticorpo ricombinante prodotto nel nostro laboratorio che, legandosi

al C5, ne blocca l’attivazione e di conseguenza impedisce lo svolgersi della fase

terminale della cascata complementare. Questo anticorpo è già risultato efficace in

precedenti studi, sia in vitro che in vivo (83): in particolare si è dimostrato molto

efficace nel bloccare l’insorgenza dei fenomeni trombotici in un modello animale di

APS (52). Poiché l’attivazione non controllata del complemento in placenta porta

alla morte del feto nell’utero (84), l’ipotesi che abbiamo voluto verificare è se

prevenendo l’attivazione completa del sistema complementare avremmo inibito gli

effetti legati alla presenza in circolo degli anticorpi antifosfolipidi nei casi di

gravidanza.

L’APS è una patologia di relativamente nuova scoperta, e sebbene sia stato

definito che la presenza in circolo di anticorpi anti β2-GPI sia una condizione

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necessaria per l’instaurarsi della sindrome, resta ancora da comprendere il motivo

per cui alcuni distretti vengono colpiti preferenzialmente rispetto ad altri. Un altro

obiettivo che ci siamo posti è stato quindi quello di indagare, mediante studi di

imaging ottico, la distribuzione della β2-GPI in presenza o meno di anticorpi anti

β2-GPI durante la gravidanza e non, utilizzando la stessa proteina opportunamente

coniugata con marcatori fluorescenti.

Scopo di questi tre anni di lavoro è stato quindi quello di chiarire il

coinvolgimento del sistema complementare nella sindrome da anticorpi

antifosfolipidi, focalizzando la nostra attenzione sulle problematiche legate alla

gravidanza.

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3. MATERIALI E METODI

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3.1 Analisi istopatologica e immunoistochimica

Reagenti e soluzioni

Tris-HCl/EDTA (acido etilendiaminotetracetico) (Dako)

dPBS (Dulbecco’s Phosphate Buffered Saline), soluzione salina tamponata, 137mM

NaCl, 2.7mM KCl, 8.1mM Na2HPO4·2 H2O, 1.47mM KH2PO4, pH 7.4 (Sigma)

Tampone di blocco (Novocastra)

Kit per lo sviluppo: Labeled StreptA-vidin Biotin (LSAB)+horseradisch peroxidase

(HRP) (Dako)

DAB diaminobenzidina (Dako)

Anti human IgM (Sigma) diluizione d’uso 1:50

Anti human IgG (Sigma) diluizione d’uso 1:200

Anti human C1q (Dako) diluizione d’uso 1:100

Anti human C3 (Dako) diluizione d’uso 1:200

Anti C9 neoantigen (donato dal Prof. Mollnes) diluizione d’uso 1:50

Procedimento

I campioni di placenta del primo trimestre sono stati raccolti da donne con aborto

spontaneo ricorrente che presentano la sindrome da anticorpi antifosfolipidi e da

interruzioni volontarie di gravidanza. I campioni sono stati fissati in formalina al 10%

e inclusi in paraffina. Le sezioni da 4µm sono state poi colorate con ematossilina-

eosina ed esaminate per la presenza di trombi, infiltrati linfocitari ed eventuali

anomalie strutturali. Per le analisi immunoistochimiche, i vetrini sono stati lavati tre

volte in tampone Tris-HCl/EDTA per 5 minuti, portati a temperatura ambiente e poi

lavati in tampone fosfato (dPBS). Dopo la neutralizzazione della perossidasi endogena

con H2O2 per 10 minuti, le sezioni sono state incubate prima con tampone di blocco

per 10 minuti e poi con l’anticorpo primario per 1ora a temperatura ambiente. Dopo

lavaggio con dPBS tre volte per 10 minuti ognuno, gli anticorpi legati sono poi stati

rivelati utilizzando un kit per lo sviluppo e la DAB come substrato.

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3.2 Attivazione del complemento su piastre di cardiolipina (85)

Reagenti e soluzioni

Cardiolipina (Sigma Chemical Co., St. Louis, Mo.): concentrazione d’uso 50µg/ml

Alcool etilico (Merck, Darmstadt, Germania)

FCS (foetal calf serum) (Hyclone, Utah, USA)

Tampone di lavaggio: PBS (phosphate buffered saline) tampone fosfato 10mM, NaCl

154mM, pH 7.4

Tampone di diluizione: PBS+FCS 10%

Anti human C1q (The binding site) diluizione d’uso 1:8000

Anti human C4 (The binding site) diluizione d’uso 1:4000

Anti C9 neoantigen (donato dal Prof. Mollnes) diluizione d’uso 1:1000

Tampone glicina: glicina 0.1M, MgCl2 0.1M, ZnCl2 0.1M, pH 9.6

PNPP: paranitrofenilfosfato disodico (Sigma) concentrazione d’uso 1mg/ml diluito in

tampone glicina

Procedimento

I pozzetti di una piastra da 96 in vinile (Costar, Cambridge, USA) vengono riempiti

con 25µl di cardiolipina diluita in etanolo assoluto; il solvente viene fatto evaporare

ponendo la piastra senza copertura a 4° per tutta la notte.

Dopo aver lavato due volte la piastra con PBS, i siti liberi della piastra vengono

saturati incubando per 90 minuti a 37°C con PBS contenente il 10% di siero fetale

bovino. Dopo aver aspirato il contenuto dei pozzetti, vengono distribuiti in duplicato i

sieri in esame diluiti 1:50. Dopo un’incubazione di 90 minuti a temperatura ambiente, i

sieri vengono aspirati e viene aggiunto, come fonte di complemento, un siero normale

diluito 1:100 in PBS e incubato per 30 minuti a 37°C in leggera agitazione.

L’eventuale attivazione complementare viene rivelata aggiungendo, dopo tre lavaggi,

un anticorpo diretto contro il C1q, il C4 o il C9 per un’ora a 37°C. Seguono tre lavaggi

e l’incubazione con il relativo anticorpo secondario marcato con la fosfatasi alcalina.

L’incubazione di un’ora si conclude con tre lavaggi e poi con l’aggiunta del substrato

cromogeno per la fosfatasi alcalina, il PNPP. La lettura spettrofotometrica viene

eseguita con lettore per piastre alla lunghezza d’onda di 405nm ad intervalli regolari.

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3.3 Isolamento di cellule endoteliali della decidua

Reagenti e soluzioni

HBSS (Hanks’ Balanced Salts Solution) (Sigma Chemical Company, St. Louis, MO)

con NaHCO3 0.35g/l a cui si aggiungono (HBSS 1):

- fungizone 250µg/ml (SIGMA) 1:1000

- penicillina 10000U/ml – streptomicina 10mg/ml (Sigma) 1:100

- EDTA (Acido etilendiamino tetracetico) 0.5M (Sigma) 1:500

- glucosio 2.5M (BDH, Laboratories Supplies, Poole; England) 1:500

dPBS (Dulbecco’s Phosphate Buffered Saline), soluzione salina tamponata, 137 mM

BSA (Bovine Serum Albumin) frazione V pura al 96-99% (Sigma)

NBCS (Newborn calf Serum; South America FDA approved) (Gibco BRL Life

TechnologiesTM, Mi, Italia)

Medium 199 (w/Hank’s salts, w/L-Glutamine, w/Na-Bicarbonate) (Euroclone Ldt.,

U.K.)

Collagenasi I da Clostridium histoliticum (Worthington Biochemical Corporation,

Freehold; New Jersey)

DNase I da pancreas bovino (Roche Diagnostics GmbH, Mannheim, Germany)

0.2mg/ml

Ficoll (Pharmacia LKB Bithechnology, Uppsala, Sweden), soluzione madre diluita con

HBSS 10X ed acqua apirogena (Diaco, Italia)

Glutamina 200mM (Sigma)

Dynabeads M-450, microsfere uniformi magnetiche di polistirene in sospensione, di

45µm di diametro (Oxoid), rivestite da Ulex Europeus Agglutinin 1 (UEA-1)

(Sigma)

ACCUMAXTM Cell Aggregate Dissociation Medium (eBioscience)

Wash solution costituita da RPMI 1640 e NBCS 10%

Endothelilal serum free basal medium (Gibco, Invitrogen BRL)

Human recombinant basic FGF (Gibco Invitrogen BRL)

Human recombinant EGF (Gibco Invitrogen BRL)

Fibronectina da plasma umano 50µg/ml (Roche)

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Procedimento

Le cellule endoteliali della decidua sono state isolate da placente del primo trimestre di

gravidanza, secondo una metodica messa a punto nel nostro laboratorio.

Il materiale viene posto in una capsula Petri e lavato in una soluzione di HBSS 1, pH

7.4, per il riconoscimento della decidua. Il tessuto così selezionato viene poi

sminuzzato in frammenti di 1-3 mm3 ed incubato over night a 4°C in 10ml di una

soluzione costituita da Medium 199, tripsina 0.5%, DNasi 50µg/ml, penicillina,

streptomicina e fungizone. Il giorno seguente si fa agire la tripsina a 37°C in agitazione

ancora per 1 ora. Scaduto questo tempo si sostituisce la soluzione di tripsina con una

soluzione di collagenasi 3mg/ml diluita in medium 199 per 30 minuti a 37°C in

agitazione. Si blocca quindi con il 10% di NBCS e si filtra attraverso una membrana

con pori da 100µm di diametro. Si centrifuga a 300xg per 5 minuti, si risospende il

pellet in 10ml di wash solution, si stratifica su gradiente di Ficoll e si centrifuga per 20

minuti a 800xg a 20°C. Al termine si recupera l’anello di cellule che vengono portate

ad un volume di 50ml con HBSS 1 e centrifugate a 500xg per 10 minuti. A questo

punto le cellule vengono risospese in 1 ml di ACCUMAX ed incubate per 30-40

secondi a 37°C: questo passaggio serve per disgregare i cluster cellulari eventualmente

presenti. La reazione viene bloccata con wash solution e le cellule centrifugate a 250xg

per eliminare la soluzione di lavaggio. Il pellet viene risospeso il dPBS con BSA 1% e

si procede alla selezione positiva mediante i beads magnetici ricoperti di UEA-1 (20

minuti a 4°C in ruota).

Dopo essere state sottoposte a diversi lavaggi con dPBS-BSA 1% per eliminare le

cellule contaminanti negative eventualmente presenti, le cellule vengono seminate in

flask ricoperte di fibronectina.

Il terreno di coltura è composto da Human Endothelial serum free medium, 10% siero

di gravida, bFGF 20ng/ml, EGF 10ng/ml, glutamina 2mM e penicillina-streptomicina

1:100.

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3.4 Citofluorimetria a flusso

Reagenti e soluzioni

dPBS (Dulbecco’s Phosphate Buffered Saline), soluzione salina tamponata, 137 mM

BSA (Bovine Serum Albumin) (Sigma)

Tampone di diluizione e di lavaggio: dPBS-BSA2%, CaCl2 0.7mM, MgCl2 0.7mM

PAF (paraformaldeide) (Sigma) 1%

Anti human IgG FITC (Dako) diluizione d’uso 1:200

Anti human C4 da goat (The Binding Site) diluizione d’uso 1:400

Anti C9 neoantigen diluizione d’uso 1:50

Anti goat FITC (Dako) diluizione d’uso 1:200

Anti mouse FITC (Dako) diluizione d’uso 1:100

Procedimento

Nei casi di prestimolo le cellule sono state stimolate ON con il sovranatante di coltura

dei trofoblasti diluito 1:3. Le cellule deciduali a confluenza sono state staccate dalla

flask di coltura con EDTA 5mM a 37°C, lavate e risospese in dPBS-BSA 2%. Le

cellule sono state contate con un contatore elettronico (Coulter Counter Mod. ZBI,

Couler Electronis Ldt, Luton, England) e sono state allestite le varie prove con un

numero di 5*105 cellule per prova.

Le cellule sono state incubate con i sieri diluiti 1:10 per un’ora temperatura ambiente.

Nel caso si volesse documentare il deposito di immunoglobuline, le cellule sono state

lavate tre volte e incubate per 45 minuti in ghiaccio con l’anticorpo secondario. Nel

caso si volesse valutare l’attivazione del complemento, alle cellule è stato invece

aggiunto un siero normale come fonte di complemento diluito 1:2 per 30 minuti a

37°C in agitazione leggera. Al termine di questo passaggio le cellule sono state lavate

tre volte, fissate con PAF all’1% e poi incubate per un’ora a temperatura ambiente con

l’anticorpo primario; seguono tre lavaggi, l’incubazione con l’anticorpo secondario

marcato per 45 minuti in ghiaccio e ulteriori tre lavaggi. Al termine dell’esperimento

le cellule vengono fissate con PAF all’1% per 15 minuti al buio e analizzate per la

fluorescenza mediante uno strumento FACScalibur (BD Biosciences, Milan, Italy)

utilizzando un CellQuest software.

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3.5 Saggio di permeabilità endoteliale in vitro

Reagenti

BSA FITC (Sigma Chemical Co., St. Luois, Mo., USA) concentrazione d’uso 1mg/ml

Procedimento

Le cellule deciduali (2x104 cellule) vengono fatte crescere fino alla confluenza sul

filtro di policarbonato (6.5mm di diametro, 3µm di porosità) precedentemente rivestito

di fibronectina nell’inserto della camera di Boyden (Corning Costar, Cambridge, MA).

I filtri così preparati vengono usati 6 giorni dopo la semina delle cellule. La

formazione di un monostrato di cellule perfettamente confluente ed intatto su ogni

inserto viene monitorata aggiungendo nella camera superiore albumina bovina

fluoresceinata (BSA-FITC) e misurando la quantità di BSA-FITC passata nel

comparto inferiore della camera di Boyden mediante un lettore di fluorescenza

(Infinite200, Tecan, MI, Italy). Se la quantità di albumina nella camera inferiore è

trascurabile, le cellule vengono quindi stimolate con i sieri diluiti 1:10 o con il

sovranatante di coltura dei trofoblasti diluito 1:3 per 4 ore e poi con i sieri sempre

diluiti 1:10. La quantità di BSA-FITC viene monitorata dopo 5, 15 e 30 minuti.

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3.6 Isolamento di trofoblasti umani da placenta

Reagenti e soluzioni

HBSS (Hanks’ Balanced Salts Solution) (Sigma Chemical Company, St. Louis, MO)

con NaHCO3 0.35g/l a cui si aggiungono:

per i lavaggi (HBSS 1):

- fungizone 250µg/ml (Sigma) 1:1000

- penicillina 10000U/ml – streptomicina 10mg/ml (Sigma) 1:100

- EDTA (Acido etilendiamino tetracetico) 0.5M (Sigma) 1:500

- glucosio 2.5M (BDH, Laboratories Supplies, Poole; England) 1:500

2) per la digestione enzimatica (HBSS 2):

- fungizone 250µg/ml (Sigma) 1:1000

- penicillina 10000U/ml – Streptomicina 10mg/ml (Sigma) 1:100

- cloruro di magnesio (MgCl2·6 H2O) 0.5M (E.MERCK, D-6100, Darmstadt, F.R.,

Germany) 1:1000

- cloruro di calcio (CaCl2·2 H2O) 0.5M (Merck) 1:1000

dPBS (Dulbecco’s Phosphate Buffered Saline), soluzione salina tamponata, 137mM

NaCl, 2.7mM KCl, 8.1mM Na2HPO4·2 H2O, 1.47mM KH2PO4, pH 7.4 (Sigma)

NBCS (Newborn calf Serum; South America FDA approved) (Gibco BRL Life

TechnologiesTM, Mi, Italia)

tripsina 2.5% (Sigma) 1:10

DNase I da pancreas bovino (Roche Diagnostics GmbH, Mannheim, Germany)

0.2mg/ml

Lyses buffer (Beckman Coulter, Ireland)

FBS, siero fetale bovino (Gibco, Invitrogen, BRL, MI)

RPMI 1640 (Gibco, Invitrogen, BRL)

Procedimento

Le cellule di trofoblasto sono state isolate da placente del primo trimestre di

gravidanza provenienti da interruzioni volontarie operate tra l’ottava e la dodicesima

settimana di gestazione. La purificazione viene effettuata, secondo una metodica

messa a punto nel nostro laboratorio, su campioni di placente prelevate in condizioni

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di sterilità.

Il primo passaggio consiste nel separare i villi corionici dal materiale placentare di

partenza, sminuzzando finemente il campione con un bisturi. Per fare questo i

campioni vengono inizialmente posti in una capsula Petri sterile e ripetutamente lavati

con la soluzione di HBSS 1, pH 7.4, per rimuovere il sangue presente nel preparato. I

villi così isolati vengono quindi raccolti, centrifugati per 10 minuti a 250xg, risospesi

nella soluzione tripsinizzante (HBSS 2 con 0.25% tripsina, 0.2mg/ml Dnasi) ed

incubati per 20 minuti a 37°C, 5% CO2 in termostato. Al termine dell’incubazione si

blocca l’azione della tripsina con NBCS al 10% finale e si filtra il tripsinizzato

attraverso una membrana con pori da 100µm di diametro per una prima filtrazione

grossolana. In seguito si effettua una seconda filtrazione attraverso una membrana con

pori di 40µm: con questo passaggio si effettua una separazione tra i sinciziotrofoblasti,

che rimangono nel filtro, e i citotrofoblasti che passano invece attraverso. Il filtro

viene quindi lavato con dPBS, viene recuperato il materiale rimasto, centrifugato per

10 minuti a 500xg ed il fondello risospeso in RPMI + 10 % FBS. Le cellule ottenute

con l’estrazione vengono poi contate con un contatore elettronico (Coulter Counter

Mod. ZBI, Couler Electronis Ldt, Luton, England). Per questa operazione si utilizzano

50µl delle cellule, cui si aggiungono 10ml di soluzione fisiologica e 2 gocce di lisante.

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45

3.7 Immunofluorescenza su citocentrifugati di sinciziotrofoblasti

Reagenti e soluzioni

dPBS (Dulbecco’s Phosphate Buffered Saline), soluzione salina tamponata, 137mM

BSA (Bovine Serum Albumin) (Sigma)

Tampone di diluizione e di lavaggio: dPBS-BSA2%, CaCl2 0.7mM, MgCl2 0.7mM

PAF (paraformaldeide) (Sigma) 1%

Anti human IgG FITC (Dako) diluizione d’uso 1:200

Anti human C4 da goat (The Binding Site) diluizione d’uso 1:400

Anti C9 neoantigen diluizione d’uso 1:50

Anti goat FITC (Dako) diluizione d’uso 1:200

Anti mouse FITC (Dako) diluizione d’uso 1:100

Procedimento

Dopo l’isolamento i sinciziotrofoblasti sono stati risospesi in dPBS-BSA 2%, contati

con un contatore elettronico (Coulter Counter Mod. ZBI, Couler Electronis Ldt, Luton,

England) e sono state allestite le varie prove con un numero di 150.000 cellule per

prova. Sono stati quindi incubati con i sieri diluiti 1:2 per un’ora a temperatura

ambiente in agitazione, lavati tre volte e fissati con PAF all’1% per 15 minuti al buio.

Nel caso si voglia valutare la capacità dei sieri di attivare il complemento, dopo

l’incubazione con i sieri, le cellule sono state incubate per ulteriori 30 minuti a 37°C

con un siero normale fonte di complemento. Le cellule sono state poi lavate due volte

e risospese in un volume finale di 200µl per essere citocentrifugate. I vetrini sono stati

poi fissati in acetone per 15 minuti, asciugati, incubati con l’anticorpo primario per 45

minuti a temperatura ambiente, quindi lavati nuovamente tre volte per 5 minuti con

dPBS. Nei casi di utilizzo di un anticorpo secondario, i vetrini sono stati incubati per

altri 45 minuti a temperatura ambiente, lavati e infine montati. I vetrini sono stati

analizzati con microscopio Leica DM3000 (Leica, Germany) e le foto sono state

effettuate utilizzando una camera digitale Leica DFC320 (Leica).

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46

3.8 Purificazione di IgG mediante colonna di affinità con proteina G

Reagenti e soluzioni

Kit Mab Trap G II (Pharmacia Fine Chemicals, Upsala, Sweden): Hi Trap Protein G

column, 1ml

Tampone di lavaggio: PBS (phosphate buffered saline) tampone fosfato 10mM, NaCl

154mM, pH 7.4

Tampone di eluizone: glicina-HCl 0.1M, pH 2.7

Tampone di neutralizzazione: Tris-HCl 1M, pH 9

Procedimento

Le immunoglobuline vengono purificate dal siero utilizzando la colonna Hi Trap

Protein G che sfrutta le specificità di legame tra il frammento Fc delle

immunoglobuline e la proteina G estratta dalla parete di E.coli, geneticamente deleta

del sito di legame dell’albumina. La proteina G è covalentemente legata a sferule di

sefarosio fornite già impaccate in colonnine da 1ml.

La colonna viene equilibrata con tampone lavaggio, quindi viene caricato il siero

diluito una volta con lo stesso tampone. Le proteine non legate vengono quindi

eliminate lavando abbondantemente la colonna. Le immunoglobuline vengono staccate

dalla colonna con il tampone di eluizione e il pH dell’eluito viene immediatamente

riportato a valori fisiologici aggiungendo 100µl/ml di tampone di neutralizzazione. La

frazione di IgG così purificata viene dializzata contro PBS.

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47

3.9 Modello murino di perdite fetali indotte da anticorpi

antifosfolipidi

Procedimento

Gli studi sugli animali sono condotti seguendo le normative di legge vigenti in Italia

(D. L.vo 116 del 21/02/1992, successive integrazioni e Raccomandazione della

commissione dell’Unione Europea n. 2007/526/CE) e in accordo con “Guide for the

Care and Use of Laboratory Animals, DHHS Publ. No (NIH) 86-23. Bethesda, MD:

NIH, 1985”.

Femmine di topo (2-3 mesi di età) di ceppo BALB/c vengono fatte accoppiare con topi

maschi precedentemente isolati: la presenza di un tappo vaginale viene considerata

come evidenza di una gravidanza e identifica il giorno 0 di gestazione.

Al giorno 0 le femmine di topo vengono trattate, mediante iniezione endovenosa nella

vena della coda, previa anestesia locale, con 50µg/100µl di IgG umane purificate da

pazienti affetti da APS e contenenti anticorpi antifosfolipidi, oppure IgG di controllo

purificate da donatori sani, oppure soluzione salina utilizzando 10 animali per gruppo.

Il trattamento con l’anticorpo anti-C5 ricevuto da alcuni topi è stato effettuato ogni 3

giorni a partire dal giorno 3 di gestazione.

I topi sono sacrificati al quindicesimo giorno di gravidanza, mediante dislocazione

cervicale; l’utero viene sezionato, i feti pesati ed è calcolata la percentuale di feti

riassorbiti (numero riassorbiti/numero totale di feti formati e riassorbiti x100).

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48

3.10 Raccolta e preparazione dei campioni per l’analisi di

immunofluorescenza

Reagenti

Matrice gelatinosa biocompatibile a base di alcool polivinilico 10% e

polietileneglicole 4% (OCT) (Diagnostic Division, Miles, Inc.)

Acetone (Carlo Erba, Milan, Italy)

Procedimento

Gli organi sono rapidamente inglobati in una matrice gelatinosa biocompatibile,

congelati e conservati a -80°C. Da questi preparati vengono poi ricavate delle sezioni

di 7µm mediante l’uso di un criostato (mod. Frigocut 2700, Reichert Jung, Germany)

dotato di microtomo a retrazione e lama in tungsteno, in ambiente interno di -25°C. Le

sezioni ottenute vengono poi fissate in acetone per 15 minuti, asciugate all’aria e

congelate a -20°C. Le sezioni sono poi utilizzate per le analisi di immunofluorescenza.

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3.11 Immunofluorescenza su sezioni

Reagenti e soluzioni

Triton X-100 (Merck, Darmstadt, Germany)

Tampone di lavaggio: dPBS, NaCl 0.9%, Triton X-100 1‰

Tampone di saturazione e di diluizione: dPBS, siero dell’animale in cui è stato

prodotto l’anticorpo marcato al 4%

Anti IgG di topo coniugato FITC (MP Cappel, Solon, USA) diluizione d’uso 1:100

Anti C1q di topo: anticorpo monoclonale da ratto (clone 7H8) (Hycult Biotech, Uden,

NL)

Anti C3 di topo coniugato FITC (MP Cappel, Solon, USA) diluizione d’uso 1:50

Anti C9 di topo da rabbit (concesso gentilmente dal prof. M. Daha, Leiden, NL)

diluizione d’uso 1:30

Anti-citocheratina (CK) da rabbit (Dako, Milan, Italy) diluizione d’uso 1:50

Anti fattore di von Willebrand (vWF) da rabbit (Dako, Milan, Italy) diluizione d’uso

1:100

Anti-rabbit IgG coniugato FITC (Dako, Milan, Italy) diluizione d’uso 1:200

Anti-rat IgG coniugato FITC (Dako, Milan, Italy) diluizione d’uso 1:200

Montante: glicerolo-antifading (antifading sciolto in 20mM Tris-HCl pH 8, glicerolo

80%)

Procedimento

I vetrini con le sezioni, tenuti a -20°C, vengono scongelati per 5-10 minuti a

temperatura ambiente e reidratati con dPBS, NaCl 0.9% avendo cura di non

raggiungere l’essicamento del preparato. I campioni vengono bloccati in tampone di

saturazione per 30 minuti a temperatura ambiente. Rimosso l’eccesso di tampone, le

sezioni sono incubate con l’anticorpo primario diluito in tampone di diluizione per

un’ora a temperatura ambiente in camera umida. I preparati vengono poi lavati (una

volta in dPBS e due volte in tampone di lavaggio 10 minuti ciascuno) e asciugati. Le

sezioni vengono quindi incubate con l’anticorpo secondario diluito in tampone di

diluizione per un’ora a temperatura ambiente in camera umida. I vetrini vengono poi

lavati, montati e osservati al microscopio.

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Per i campioni trattati con il DAPI per colorare i nuclei cellulari, prima di montare i

vetrini i campioni sono stati incubati con il DAPI per 10 minuti a temperatura

ambiente.

Le immagini dei vetrini sono state acquisite usando un microscopio invertito (Axiovert

200, Carl Zeiss GmbH, Jena, Germany) con un obiettivo 10x usando filtri FITC, DAPI

e Cy5.5. Le immagini sono state raccolte con camera CCD a 12-bit con una

risoluzione di 1392x1040 pixel (DVC-1412AM, DVC Company Inc., Austin, USA).

Le immagini FITC e DAPI sono state raccolte per 1 secondo, mentre quelle Cy5.5 per

60 secondi.

I vetrini esaminati per il deposito di IgG e componenti complementari (coniugati

FITC) sono stati esaminati con microscopio per fluorescenza Leica DM2000 (Leica,

Germany).

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3.12 Purificazione e marcatura della ββββ2-GPI

Reagenti e soluzioni

HiTrap Heparin HP (GE Healthcare, Milan, Italy)

Resource-S (GE Healthcare, Milan, Italy)

Cianina 5.5 (Cy5.5) (Amersham Biosciences, FluorolinkTM Cy5.5 Monofunctional

Dye 5-pack)

Tampone carbonato: sodio carbonato 0.1M, pH 9.3

Procedimento

La β2-GPI umana è stata purificata mediante trattamento con acido perclorico di un

pool di sieri umani sani seguita da purificazione per affinità su colonna di eparina

(HiTrap Heparin) e cromatografia per scambio ionico (Resource-S).

Per gli esperimenti in vivo la β2-GPI è stata marcata con l’estere N-idrossisuccinimide

della cianina 5.5: una soluzione di cianina (0.05mg/ml) in tampone carbonato è stata

aggiunta alla β2-GPI (1mg/ml) in un rapporto volumetrico di 1:1 e incubati in leggera

rotazione a temperatura ambiente per un’ora. La cianina non legata in eccesso è stata

rimossa con una dialisi overnight contro tampone fosfato pH 7.4. Il rapporto finale

cianina/proteina è stato calcolato misurando l’assorbanza rispettivamente a 678nm e

280nm. La concentrazione molare della cianina e della β2-GPI è stata calcolata

basandosi su un coefficiente di estinzione molare di 250000 M-1 cm-1 a 678nm per la

cianina Cy5.5 e di 42727 M-1 cm-1 per la β2-GPI. Il rapporto tra questi due valori, che

rappresenta una stima delle molecole di marcatore legate a ciascuna molecola di

proteina, nella nostra preparazione risulta essere di 0.8.

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3.13 Protocollo di immunizzazione

Reagenti e soluzioni

Piastre in polistirene γ-irradiate (Maxi-Sorp Nunc-Immunoplates;VWR International

s.r.l., Milan, Italy)

Tampone bicarbonato: bicarbonato di sodio 0.1M, pH 9.6

Albumina bovina sierica (BSA, Sigma-Aldrich)

Femmine di topo di ceppo BALB/c (Harlan, San Pietro al Natisone, Udine, Italy)

Procedimento

Gli studi sugli animali sono condotti seguendo le normative di legge vigenti in Italia

(D. L.vo 116 del 21/02/1992, successive integrazioni e Raccomandazione della

commissione dell’Unione Europea n. 2007/526/CE) e in accordo con “Guide for the

Care and Use of Laboratory Animals, DHHS Publ. No (NIH) 86-23. Bethesda, MD:

NIH, 1985”.

Durante tutto l’arco della sperimentazione i topi sono mantenuti alla temperatura di

20-24 °C, con umidità relativa del 50-70% e illuminazione artificiale attiva ogni 12 ore

alternate da 12 ore di buio, con dieta alimentare in pellets a basso indice di

fluorescenza.

Femmine di topo di ceppo BALB/c di 6-8 settimane sono state immunizzate mediante

iniezione sottocutanea di 10µg/100µl di β2-GPI umana in soluzione salina sterile

emulsionata con un egual volume di adiuvante completo di Freund (CFA, Sigma-

Aldrich), seguita da un’iniezione intradermica di richiamo a distanza di tre settimane

con la stessa quota di proteina diluita in adiuvante incompleto di Freund (IFA). Il

gruppo di controllo comprende femmine di topo BALB/c immunizzate con il solo

adiuvante o non immunizzate. A distanza di un mese e mezzo dopo la prima iniezione

gli animali vengono controllati per valutare i livelli sierici di anticorpi anti β2-GPI

mediante prelievo di 100µl di sangue dalla guancia. La risposta anticorpale

all’antigene utilizzato per l’immunizzazione viene misurata mediante sistema ELISA

utilizzando delle piastre in polistirene γ-irradiate ricoperte ON con la β2-GPI umana

purificata (10µg/ml) in tampone bicarbonato, bloccate con 1% di albumina sierica

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bovina e incubate con diluizioni seriali dei sieri in esame per 90 minuti a temperatura

ambiente. Gli anticorpi legati vengono rilevati utilizzando un anticorpo anti mouse-

IgG coniugato con la fosfatasi alcalina (Sigma-Aldrich) diluito 1:4000 e la reazione

viene sviluppata utilizzando il p-nitrofenil fosfato (PNPP, Sigma-Aldrich) come

substrato e letta a 405nm.

Una parte delle femmine trattate (3-4 mesi di età) sono poi fatte accoppiare e la

presenza di un tappo vaginale viene considerata come giorno 0 di gestazione. Lo

studio prevede l’analisi mediante imaging ottico della distribuzione della β2-GPI

marcata in femmine gravide e non. In ognuna di queste due condizioni verranno presi

in considerazione animali immunizzati con β2-GPI e animali non trattati. Nelle

femmine gravide la sonda marcata è stata iniettata il decimo giorno di gravidanza.

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3.14 Imaging ottico

Procedimento

Il modello in vivo è stato caratterizzato sfruttando l’imaging ottico, un approccio

sperimentale non invasivo che permette di seguire la distribuzione di molecole

opportunamente marcate mediante uno strumento Explore Optix (GE) per analisi in

fluorescenza NIR e per analisi in bioluminescenza in vitro e in vivo. Grazie a questa

tecnica la sperimentazione animale può essere effettuata su un numero limitato di

soggetti poiché questi potranno essere seguiti nel tempo senza essere sacrificati, in

quanto preventivamente sottoposti ad anestesia gassosa durante tutto l’esperimento di

acquisizione d’immagini. Gli animali stono stati anestetizzati utilizzando un sistema ad

anestesia gassosa (Biological Instruments, Italy) basato sull’isofluorano miscelato

0.5% di ossigeno 1% di protossido di azoto (Siad, Trieste, Italy) e posti nello

strumento contenente 1% di isofluorano. Il minor numero di animali richiesto negli

studi longitudinali permetterà un’analisi statistica dei fenomeni più accurata.

L’addome degli animali viene depilato prima dell’acquisizione delle immagini per

evitare lo scattering del laser causato dal pelo. Una prima immagine che funge da

bianco viene acquisita prima della somministrazione della proteina marcata che viene

iniettata nella vena della coda (50µg corrispondenti a 1nmol di Cy5.5). L’animale,

sempre mantenuto in anestesia, viene poi inserito nella camera ottica (small-animal

time-domain eXplore OptixTM* pre-clinical imager) per le successive riprese al laser

della localizzazione della sonda a tempi diversi: il primo giorno vengono effettuate

riprese a intervalli di un’ora per un tempo complessivo di 6 ore. L’animale, al di fuori

del tempo necessario per le riprese, è tenuto in gabbia. La stessa procedura è eseguita

nei 6 giorni successivi per effettuare un’unica scansione e verificare

l’accumulo/”clearance” della sonda iniettata il primo giorno. In tutti gli esperimenti di

imaging ottico è stato utilizzato un diodo laser pulsante a 670nm con una frequenza di

ripetizione di 80MHz e un tempo di risoluzione della luce pulsante di 12ps.

L’emissione di fluorescenza è stata raccolta a 700nm e rilevata attraverso un tubo

fotomoltiplicatore e un sistema di conta dei singoli fotoni tempo-correlato altamente

sensibile. La potenza del laser, il tempo di integrazione e il passo delle scansioni è

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ottimizzata in base al segnale emesso. Le immagini vengono poi ricostruite come

intensità di fluorescenza e lifetime di fluorescenza.

I topi sono sacrificati al termine dell’indagine (corrispondente per le femmine gravide

al diciassettesimo giorno di gravidanza), mediante dislocazione cervicale e vengono

prelevati gli organi di interesse quali fegato, milza, polmoni, cervello, cuore, reni e

utero. Gli organi vengono lavati con PBS, quindi analizzati con un eXplore OptixTM

con un intervallo di lifetime di 1.3-1.8ns onde rilevare un segnale specifico ed

eliminare il background.

Per gli animali trattati con lipopolisaccaride (LPS) è stato seguito lo stesso protocollo

con l’aggiunta di un’iniezione intraperitoneale di LPS batterico da Escherichia coli

O55:B5 (5mg/Kg di peso corporeo) (Sigma-Aldrich) 20 minuti dopo la

somministrazione della β2-GPI marcata. La distribuzione della proteina in questo caso

è stata seguita per quattro ore, poi gli animali sono stati sacrificati per l’analisi ex vivo

degli organi come già riportato.

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4. RISULTATI

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4.1 Storia clinica

Le placente nonché i sieri APS positivi sono state ottenute dal Prof. Meroni

dell’Istituto Auxologico di Milano, mentre i casi di controllo sono costituiti da

placente ottenute da interruzioni volontarie di gravidanza (IVG) effettuate presso

l’Istituto IRCCS “Burlo Garofolo” di Trieste tra l’8a e la 12a settimana di gestazione. I

sieri provengono invece dalla Banca del sangue dell’Ospedale Maggiore di Trieste da

donatori di sangue volontari.

4.2 Analisi istopatologica di sezioni di decidue ottenute da

pazienti con APS

L’analisi morfologica delle sezioni di decidua ottenute da aborto spontaneo di

pazienti con anticorpi antifosfolipidi (figure 4.1 e 4.2) dimostra la presenza di

numerosi vasi trombotici con fuoriuscita di globuli rossi nello stroma attorno ai vasi.

Sul piano istopatologico si nota la presenza di multipli foci di infiltrazione linfocitaria

prevalentemente in sede peri-vascolare e diffusi nello stroma. L’attenta analisi

morfologica delle cellule infiltranti dimostra la presenza di numerosi neutrofili, oltre

che di linfociti e monociti.

In tutti i casi analizzati non si evidenziano significative alterazioni del

rimodellamento dei vasi deciduali.

4.3 Evidenza del deposito di immunoglobuline in sezioni di

decidue ottenute da pazienti con APS

L’analisi immunoistochimica di sezioni di decidua ottenute da pazienti con APS

per la presenza di IgG e di IgM (figura 4.1) dimostra la presenza di IgG a livello delle

cellule endoteliali dei vasi deciduali e (ove presenti) sulla superficie dei trofoblasti

endovascolari, mentre si può osservare solo una blanda positività nei vasi di decidue

non patologiche.

L’analisi delle IgM a livello locale dimostra un deposito di tali

immunoglobuline solo a livello delle cellule endoteliali dei vasi deciduali, mentre le

decidue di donne sane risultano completamente negative.

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Nelle sezioni di decidua ottenute da pazienti con APS si può inoltre osservare

come la presenza di depositi di IgG e di IgM sia diffusa anche a livello dello stroma

deciduale, cosa che non si riscontra nelle decidue normali.

FIGURA 4.1. Deposito di immunoglobuline in sezioni di decidua. Vengono riportati sulla sinistra, con relativo dettaglio, i depositi di IgM (nel riquadro in alto) e di IgG (nel riquadro sottostante) in decidue ottenute da pazienti con APS; sulla destra vengono invece riportati i relativi controlli costituiti dal deposito di immunoglobuline in sezioni di decidua ottenute da interruzioni volontarie di gravidanza di donne sane.

IgM

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4.4 Evidenza dell’attivazione del complemento in sezioni di placente

ottenute da pazienti con APS

Avendo osservato il deposito di IgG e IgM nei vasi e nello stroma deciduale, ci

siamo chiesti se in tali tessuti fosse possibile dimostrare un possibile deposito di

componenti complementari. Abbiamo pertanto analizzato decidue normali e

patologiche con anticorpi anti C1q, anti C3 e anti C9/TCC mediante un’analisi

immunoistochimica.

L’osservazione di tali sezioni (figura 4.2A) rivela un’intensa colorazione per il

C1q a livello dei vasi deciduali. Avendo però precedentemente dimostrato che le

cellule endoteliali deciduali sono in grado di produrre tale componente e di legarlo

sulla membrana cellulare (86), è difficile determinare se tale C1q derivi dalla quota

prodotta dalle cellule endoteliali o da un deposito derivato dall’attivazione della via

classica del complemento. É da notare però che l’intensità della colorazione è molto

più marcata nelle placente patologiche rispetto alle placente sane, il che depone a

favore di un deposito ulteriore del primo componente complementare su queste cellule.

La dimostrazione dell’attivazione del complemento a livello locale deriva peraltro

dall’osservazione della presenza di C3 (figura 4.2B) sempre a livello delle cellule

endoteliali, cosa che non si osserva nelle placente sane.

Nei vasi deciduali di placente patologiche troviamo anche reattività per il

C9/TCC, il complesso terminale di attivazione del complemento. Questo, a differenza

del C3, è prevalentemente localizzato in sede sub-endoteliale anche se non sembra

confinato alla membrana basale. In prossimità dei vasi si notano inoltre cellule con

reattività citoplasmatica al C9/TCC che morfologicamente sembrano essere cellule

monocito-macrofagiche.

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A.

B.

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C.

FIGURA 4.2. Deposito di componenti complementari in sezioni di decidua. Vengono riportati nelle immagini in alto e in basso a sinistra con i relativi dettagli, i depositi di componenti complementari in sezioni di decidua ottenute da pazienti con APS; in basso a destra vengono invece riportati i relativi controlli costituiti dal deposito di componenti complementari in sezioni di decidue ottenute da interruzioni volontarie di gravidanza. A. Deposito di C1q; B. Deposito di C3; C. Deposito di C9.

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4.5 Analisi istopatologica di sezioni di placente ottenute da

pazienti con APS

L’analisi morfologica delle sezioni di villi placentari ottenuti da aborto

spontaneo di pazienti con anticorpi antifosfolipidi (figure 4.3, 4.4, 4.5) dimostra la

presenza di numerosi trombi intervillari. Per quanto riguarda le alterazioni

istopatologiche riscontrate, queste comprendono nodi sinciziali, infarti villosi e segni

di “villite”.

4.6 Evidenza del deposito di immunoglobuline e di complemento

a livello dei villi in sezioni di placente ottenute da pazienti con APS

Il deposito di immunoglobuline e di componenti complementari a livello dei

villi, in placente di pazienti con APS, presenta un quadro relativamente più complesso

rispetto a quanto si rinviene in decidua.

L’analisi immunoistochimica di sezioni di villi (figura 4.3) dimostra infatti

depositi di IgM sulla superficie del sinciziotrofoblasto ed accumuli nello spazio

intervilloso in corrispondenza dei depositi di fibrina.

Per quanto concerne il deposito di IgG (figura 4.3), si può notare dalla figura

come anch’esse siano depositate sulla superficie del sinciziotrofoblasto, a cui si

aggiunge peraltro anche un deposito a livello dell’asse dei villi e sull’endotelio dei vasi

villari.

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FIGURA 4.3. Deposito di immunoglobuline a livello del trofoblasto villoso. Vengono riportati, sulla sinistra, i depositi di IgM (nel riquadro in alto) e di IgG (nel riquadro sottostante) a livello del trofoblasto villoso in sezioni di placente ottenute da pazienti con APS; sulla destra vengono invece riportati i relativi controlli costituiti dal deposito di immunoglobuline in placente ottenute da interruzioni volontarie di gravidanza.

Analoga situazione si può riscontrare per quanto riguarda il deposito di C1q e di

C3 (figura 4.4): la distribuzione di questi componenti ricalca infatti quella delle IgG,

essendo depositati sulla superficie dei sincizi e nell’endotelio dei vasi villari.

Interessante notare come il complesso terminale (figura 4.5), di contro, è

presente esclusivamente nella sede di deposizione delle IgM, ovvero sulla superficie

dei sincizi ma non a livello dell’endotelio dei vasi villari.

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FIGURA 4.4. Deposito di componenti complementari a livello dei villi placentari. Vengono riportati in alto i depositi di C1q e in basso di C3 a livello del trofoblasto villoso. Sulla sinistra vengono riportati, con relativo dettaglio, le sezioni di placente ottenute da pazienti con APS, mentre sulla destra vengono riportati i relativi controlli costituiti da placente ottenute da interruzioni volontarie di gravidanza.

FIGURA 4.5. Deposito di C9 a livello dei villi placentari. La figura riporta il deposito di C9 a livello del trofoblasto villoso in placente ottenute da pazienti con APS. In basso a destra viene riportato il relativo controllo costituito da una placenta ottenuta da interruzione volontaria di gravidanza.

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65

4.7 Attivazione del complemento su piastre di cardiolipina

Visti i risultati ottenuti dalle indagini immunoistochimiche che indicano un

netto deposito di componenti complementari sia a livello del trofoblasto villoso che a

livello deciduale, abbiamo voluto provare a riprodurre questi risultati in vitro.

A tale scopo è stata inizialmente analizzata una batteria di sieri con nota

positività per gli anticorpi anticardiolipina (dati non mostrati) provenienti da donne

con aborto spontaneo ricorrente, al fine di valutarne la capacità di fissare il

complemento in vitro. Utilizzando un modello validato (85) è stata valutato il deposito

di C1q, C4 e C9 su piastre ELISA ricoperte da cardiolipina, incubate con i sieri in

questione e successivamente con un siero AB+ come fonte di componenti

complementari.

I grafici riportati nella figura 4.6 mostrano come, mediamente, i sieri patologici

siano in grado di determinare un maggior deposito di componenti complementari in

piastra. Come si può notare il deposito di C1q e di C4 è superiore a quello di C9, in

quanto l’attivazione complementare non necessariamente è sempre in grado di

giungere fino alla formazione del complesso terminale. Va sottolineato inoltre come

non tutti i sieri in questione, pur esibendo una netta positività per la presenza di

anticorpi aCL, siano in grado di attivare il complemento.

FIGURA 4.6. Attivazione del complemento su piastre ricoperte da cardiolipina. La capacità di attivare il complemento da parte dei sieri aPL viene valutata su piastre ELISA ricoperte da cardiolipina; dopo il legame degli anticorpi all’antigene viene aggiunto un siero normale come fonte di complemento. L’avvenuta reazione viene rivelata utilizzando un anticorpo diretto contro il primo (C1q), il quarto (C4) o il nono (C9) componente complementare.

C1q C4

C9/TCC

0.00

0.25

0.50

O.D

. 405n

m

0

1

2

O.D

.405n

m

3

0

1

2

3

O.D

. 405n

m

� aPL+

� aPL-

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66

4.8 Deposito di immunoglobuline e complemento su cellule

endoteliali deciduali

Data la capacità dei sieri di pazienti con APS di attivare in vitro il

complemento, abbiamo cercato di ricreare tale risultato anche su cellule in coltura. A

tale scopo sono state purificate e coltivate cellule endoteliali deciduali (DEC) isolate

da placente del primo trimestre di gravidanza. Tali cellule sono state quindi utilizzate

per valutare la capacità di alcuni dei sieri che si sono dimostrati capaci di attivare il

complemento in piastra di legare gli anticorpi aPL e di fissare il complemento. Inoltre,

poiché le cellule endoteliali deciduali fisiologicamente si trovano a stretto contatto con

i trofoblasti extravillosi, abbiamo voluto ripetere gli stessi esperimenti anche

utilizzando cellule deciduali prestimolate con il sovranatante (SN) di coltura dei

trofoblasti; lo stimolo è stato aggiunto nell’ipotesi che questo potesse determinare un

cambiamento nelle cellule deciduali tale da indurre un diverso legame degli anticorpi.

Il deposito di IgG, C4 e C9 su tali cellule è stato valutato tramite un test di

citofluorimetria a flusso. I grafici riportati in figura 4.7 sono esemplificativi dei

risultati ottenuti dall’analisi di circa 6 sieri positivi e 3 negativi presi in esame. Tali

risultati offrono un quadro significativo della situazione che si è presentata

costantemente, ovvero i sieri con anticorpi antifosfolipidi (aPL+), se confrontati con

un siero di donatore sano, si legano in misura variabile alle DEC, misura che riflette la

quota di immunoglobuline presenti nel siero e rivelabili mediante sistema ELISA. Tale

legame risulta inoltre essere ampiamente aumentato quando le cellule deciduali

vengono prestimolate con il SN di coltura dei trofoblasti.

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A) CELLULE NON STIMOLATE

B) CELLULE PRESTIMOLATE

FIGURA 4.7. Analisi citofluorimetrica del deposito di IgG su cellule endoteliali

deciduali (DEC). Le DEC sono state incubate con i sieri aPL positivi (aPL+) o negativi (aPL-) e il legame degli anticorpi è stato rivelato utilizzando un anticorpo che riconosce le IgG umane coniugato FITC. Nel pannello in alto è rappresentato il legame degli anticorpi in condizioni basali, ovvero in assenza di stimolo, mentre nel pannello in basso le cellule sono state precedentemente stimolate con il sovranatante di coltura dei trofoblasti.

Per analizzare la capacità degli anticorpi di fissare il complemento su queste

cellule, le DEC sono state dapprima incubate con i sieri aPL positivi o negativi e

quindi con un siero fonte di complemento. Poiché, come già accennato, le cellule

deciduali producono e legano il C1q, è stato possibile valutare unicamente il deposito

di C4 e di C9. Nella figura 4.8A sono riportati, sovrapposti per il confronto, i risultati

ottenuti utilizzando cellule in condizioni basali, ovvero in assenza di stimolo, mentre

nella figura 4.8B con cellule prestimolate. Anche qui possiamo notare che la capacità

di fissare il complemento è variabile e dipende dal siero preso in esame; si assiste

aPL+1 aPL- aPL+2

aPL- aPL+1 aPL+2

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68

inoltre ad un maggior deposito di complemento a seguito della prestimolazione delle

cellule deciduali, molto probabilmente quale conseguenza di un maggior legame degli

anticorpi.

Come mostrato in figura 4.8C, non siamo riusciti a documentare un deposito di

C9 per nessuno dei sieri utilizzati; la figura riporta i risultati ottenuti in condizioni

basali, ma un risultato analogo è stato ottenuto anche con cellule prestimolate. Va

sottolineato che un risultato paragonabile è stato osservato anche nell’analisi

immunoistochimica delle sezioni di decidua di pazienti con APS, dove si assiste a un

deposito di C9 unicamente in sede sub-endoteliale ma non sulle cellule dell’endotelio

deciduale. Abbiamo pertanto ipotizzato che gli anticorpi antifosfolipidi determinassero

un aumento della permeabilità vascolare, in conseguenza della quale il complesso

terminale non si deposita sulle cellule deciduali stesse, quanto piuttosto al di sotto

delle medesime.

Per confermare questa ipotesi è stato allestito un saggio di permeabilità

endoteliale utilizzando un modello transwell a doppia camera, in cui le cellule

endoteliali vengono coltivate su un filtro in policarbonato con pori del diametro di

1µm. Quando le cellule, seminate nella camera superiore, giungono a confluenza

formando un monolayer, vengono stimolate e viene aggiunto, sempre nella camera

superiore, un marcatore fluorescente (BSA-FITC): la quota di marcatore che si

rinviene nella camera inferiore, misurato ad intervalli regolari, rappresenta un indice

della permeabilità endoteliale. Le DEC sono state quindi incubate con i sieri dei

pazienti con sindrome da anticorpi antifosfolipidi e con sieri di donatori sani e la

medesima procedura è stata seguita in parallelo prestimolando le cellule. La figura 4.9

riporta, in termini di unità di fluorescenza, le curve che misurano il passaggio del

marcatore nella camera inferiore dopo 5, 15 e 30 minuti. Come si può notare, non

esiste differenza tra sieri patologici e donatori sani; quello che si riscontra è piuttosto

un aumento generale della permeabilità endoteliale di circa il 40% in seguito alla

stimolazione delle cellule deciduali con il SN di coltura dei trofoblasti.

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A.

FIGURA 4.8. Analisi citofluorimetrica del deposito di componenti complementari su cellule deciduali (DEC). Le cellule deciduali sono state incubate con i sieri aPL positivi (aPL+) o negativi (aPL-) e poi con un siero fonte di complemento. A) La figura riporta il deposito di C4, rivelato utilizzando un anticorpo anti-C4 FITC; i risultati ottenuti con un siero negativo (in verde) e con due sieri aPL positivi (in nero) sono stati sovrapposti per il confronto. B) La figura riporta il deposito di C4 su DEC prestimolate con il sovranatante di coltura dei trofoblasti. Sono riportati, sovrapposti per il confronto, i risultati ottenuti con un siero positivo e uno negativo, in condizioni basali (rosa) e a seguito del prestimolo (verde), onde evidenziare la differenza che tale trattamento determina nel deposito di C4. C) La figura riporta il deposito di C9 in condizioni basali, deposito rivelato utilizzando un anticorpo anti-C9 neoantigen seguito da un anticorpo secondario anti-mouse FITC; i risultati ottenuti con un siero negativo (in verde) e con due sieri aPL positivi (in nero) sono stati sovrapposti per il confronto.

B.

C.

aPL- vs

aPL+1

aPL- vs

aPL+2

aPL+ no stim

aPL+ stim SN

EVT

aPL- no stim

aPL- stim SN

EVT

aPL- vs

aPL+1

aPL- vs

aPL+2

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FIGURA 4.9. Saggio di permeabilità endoteliale con modello transwell a doppia

camera. Le DEC, seminate nella camera superiore, sono state incubate con sieri con sindrome da anticorpi antifosfolipidi e con sieri di donatori sani. Il riquadro di sinistra mostra i risultati ottenuti con cellule in condizioni basali, mentre il riquadro di destra con cellule prestimolate con il sovranatante di coltura dei trofoblasti. In figura sono riportate le curve che misurano il passaggio del marcatore fluoresceinato dalla camera superiore a quella inferiore dopo 5, 15 e 30 minuti.

4.9 Deposito di immunoglobuline e complemento su trofoblasti

Discorso parallelo a quello fatto per le cellule deciduali è stato fatto a proposito

dei trofoblasti: anche per questo tipo di cellule abbiamo quindi voluto riprodurre i

risultati ottenuti nelle indagini immunoistochimiche. Non essendo possibile effettuare

studi di citofluorimetria a flusso con queste cellule a causa delle loro dimensioni

(ricordiamo che il trofoblasto villoso si presenta come sinciziotrofolasto

multinucleato), dopo l’estrazione dei trofoblasti, sono stati fatti dei citocentrifugati e

su di questi le indagini di immunofluorescenza atte a documentare il deposito di

immunoglobuline e componenti complementari.

La figura 4.10A mostra come il deposito di immunoglobuline (IgG) su

sinciziotrofoblasti isolati sia praticamente nullo quando le cellule vengono incubate

con sieri di donatori sani e molto netto quando si utilizzano invece sieri di pazienti con

APS. Le figure 4.10B e 4.10C mostrano che, parallelamente, si assiste anche a un netto

deposito di C4 e di C9, ad indicare che i sieri con APS hanno attivato la cascata

complementare fino alla formazione del complesso terminale.

no stimolo

0 10 20 30 40 0

2500

5000

7500

aPL+2

time

aPL-2

aPL+1

aPL-1

stimolo SN EVT

0 10 20 30 40 0

2500

5000

7500 aPL+1

aPL+2

aPL-1

aPL-2

time

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aPL+1 aPL+2

aPL-2 aPL-1

aPL-1 aPL-2

aPL+2 aPL+1

A.

B.

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FIGURA 4.10. Analisi del deposito di IgG, C4 e C9 su trofoblasti isolati mediante

immunofluorescenza. Trofoblasti isolati da placente ottenute da interruzioni volontarie di gravidanza sono stati incubati con sieri aPL positivi (aPL+) e negativi (aPL-), quindi indagati per il deposito di immunoglobuline di classe IgG (figura 4.10A). Alle cellule è stato poi aggiunto un siero da donatore sano quale fonte di complemento ed è stato quindi valutato il deposito di C4 (figura 4.10B) e di C9 (figura 4.10C).

Al fine di ottenere dei dati quantitativi, le immagini del deposito di C9 sui

trofoblasti sono state analizzate tramite un software per la quantificazione dei pixels

(Analitica Lite). Il grafico in figura 4.11 mostra come la differenza qualitativa rilevata

nelle immagini mostrate in figura 4.10 si traduca anche quantitativamente in una netta

e significativa differenza di attivazione complementare tra i sincizi incubati con i sieri

aPL+ e quelli incubati con i sieri negativi.

Figura 4.11. Analisi quantitativa del

deposito di C9 su trofoblasti isolati. Le immagini del deposito di C9 su trofoblasti isolati incubati con sieri aPL positivi o negativi sono state analizzate tramite un software per la quantificazione dei pixel e riportate in grafico.

aPL- aPL+1 aPL+2

aPL-2 aPL-1

C.

aPL+

aPL-

0

500

1000

1500

Pix

el n

um

ber

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4.10 Studi in vivo di inibizione dell’abortività indotta da anticorpi

antifosfolipidi (aPL) mediante l’utilizzo di anticorpi anti-C5

È dimostrato che gli anticorpi antifosfolipidi sono una delle cause note

principali di aborto spontaneo ricorrente: abbiamo quindi voluto ricreare, in femmine

di topo gravide, il modello (38-39) dell’abortività che insorge a seguito della presenza

in circolo di anticorpi antifosfolipidi. Lo studio ha avuto come obiettivo l’inibizione

di questo processo mediante l’utilizzo di un anticorpo ricombinante αC5 (sigla

MB12/22) diretto contro il quinto componente complementare. Tale anticorpo,

legandosi al C5, ne blocca l’attivazione e di conseguenza impedisce lo svolgersi della

fase terminale della cascata complementare.

Il modello utilizzato si basa sull’infusione, in femmine di topo gravide, di IgG

purificate da pazienti con APS e da donatori sani al fine di valutare la percentuale di

riassorbimenti fetali (l’equivalente murino dell’aborto che si verifica nell’uomo) in

queste condizioni; la metà dei topi è stata poi trattata con l’anticorpo ricombinante

anti-C5. I topi sono stati sacrificati il quindicesimo giorno di gravidanza, sono stati

pesati i feti ed è stata calcolata la percentuale di feti riassorbiti. Sono stati inoltre

prelevati gli uteri, congelati e sezionati e su di questi sono stati svolti degli studi di

immunofluorescenza.

La figura 4.12B mostra l’utero rappresentativo di un topo trattato con anticorpi

aPL, in contrasto con la figura 4.12A che mostra un utero trattato con IgG di

controllo, mentre nel pannello sottostante di questa figura vengono mostrati i relativi

feti isolati dall’utero. La figura mostra un quadro caratteristico di quello che

generalmente si osserva, ovvero si possono notare tre riassorbimenti fetali completi

(indicati dalle frecce rosse) e un riassorbimento incompleto (indicato dalla freccia

verde) contraddistinto da un placenta formata, ma dall’assenza del feto. Si può notare

inoltre come globalmente i feti e gli annessi fetali in figura 4.12D si presentino più

piccoli rispetto ai controlli.

La figura 4.13A riporta invece la percentuale di feti riassorbiti in seguito al

trattamento con le IgG umane, patologiche e di controllo, e con l’anticorpo bloccante

anti-C5. Come si evince dalla figura, il trattamento con aPL-IgG determina un

incremento di circa tre volte nella frequenza dei riassorbimenti fetali, incremento che

viene abolito a seguito del trattamento con l’anticorpo bloccante. Va detto che in una

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gravidanza murina si possono riscontrare nell’utero fino a 10-15 feti e che di norma

uno o due di questi vengono normalmente riassorbiti. Non deve quindi stupire che

anche nei topi trattati con IgG purificate da donatore sano o con il solo anticorpo anti-

C5, ci sia una certa percentuale di riassorbimenti fetali, che risulta però paragonabile

a quella che si rinviene nei topi non trattati.

Il trattamento con anticorpi antifosfolipidi determina anche un ritardo nella

crescita dei feti che sopravvivono che risulta in una diminuzione del peso dei feti,

mentre nei topi trattati con aPL-IgG e con l’anticorpo anti-C5 il peso dei feti diventa

paragonabile a quello dei topi di controllo (figura 4.13B).

FIGURA 4.12. Riassorbimenti fetali indotti dall’infusione di anticorpi

antifosfolipidi. Femmine di topo BALB/c gravide sono state trattate con IgG purificate da pazienti con anticorpi aPL o da donatori sani. I topi sono stati sacrificati il quindicesimo giorno di gravidanza e sono stati prelevati gli uteri. Nel pannello in alto vengono mostrati degli uteri rappresentativi prelevati da topi trattati con IgG normali (A) o con aPL-IgG (B), mentre nel pannello in basso vengono mostrati i relativi feti e annessi fetali isolati dall’utero. Le frecce rosse indicano dei riassorbimenti fetali completi, mentre la freccia verde indica un riassorbimento fetale incompleto contraddistinto da un placenta formata ma dall’assenza del feto.

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0

10

20

30

40

50

IgG+ IgG+

+antiC5

IgG- IgG-

+antiC5

anti C5 NT

% r

iass

orbim

enti

0,29

0,31

0,33

0,35

0,37

0,39

0,41

IgG+ IgG+

+antiC5

IgG- IgG-

+antiC5

anti C5 NT

peso

in

gram

mi

FIGURA 4.13. L’anticorpo bloccante anti-C5 migliora le complicazioni legate alla

gravidanza indotte dagli anticorpi antifosfolipidi. Femmine di topo gravide di ceppo BALB/c sono state trattate con IgG purificate da pazienti con APS (IgG+), IgG umane di controllo (IgG-) o non trattate affatto. Alcuni topi hanno poi ricevuto l’anticorpo bloccante anti-C5. I topi sono stati sacrificati il quindicesimo giorno di gravidanza, l’utero sezionato, sono stati pesati i feti (pannello B) ed è stata calcolata la percentuale di feti riassorbiti, espressa come numero di riassorbimenti/numero di feti vivi+numero di riassorbimenti.

Dopo il sacrificio dell’animale, i siti d’impianto sono stati rimossi e

rapidamente congelati, dopodichè sono state eseguite delle sezioni e su di queste delle

indagini istologiche e di immunofluorescenza (figura 4.14). Nei topi trattati con

anticorpi aPL la decidua si presenta fisiologicamente anormale, con apoptosi, necrosi

focale e infiltrazione di neutrofili, mentre nei topi trattati con IgG di controllo, così

come in quelli trattati con l’anticorpo anti-C5, non ci sono infiltrati infiammatori e la

decidua e gli embrioni hanno una morfologia normale.

L’analisi delle decidue mediante immunofluorescenza dimostra che, a distanza

di quindici giorni dall’infusione degli anticorpi, non è possibile rinvenire traccia del

deposito di immunoglobuline umane in sede (dati non mostrati). Nonostante questo, è

possibile comunque documentare un notevole deposito di C3 e di C9 a livello

deciduale nei topi trattati con anticorpi antifosfolipidi, cosa che non avviene nei topi di

controllo. La figura 4.14 mostra inoltre come anche nei topi trattati con anticorpi aPL e

poi con l’anticorpo anti-C5 ci sia deposito di C3, ad indicare che c’è stata

un’attivazione complementare in loco, bloccata però a livello del quinto componente

complementare, cosicché non è possibile riscontrare un deposito di C9.

A.

. B.

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76

FIGURA 4.14. Deposito di complemento in sezioni di placenta murina. Femmine di topo gravide di ceppo BALB/c sono state trattate con IgG purificate da pazienti con anticorpi aPL o da donatori sani. I topi sono stati sacrificati il quindicesimo giorno di gravidanza e sono stati prelevati gli uteri. Sulle sezioni ottenute da questi ultimi è stato valutato il deposito di componenti complementari (C3 e C9). Alcune sezioni sono state colorate con ematossilina-eosina per studi istologici (quadri sulla sinistra).

C3 Istologia C9

aPL+ IgG

aPL- IgG

aPL+ IgG

anti-C5

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4.11 Studi di localizzazione della ββββ2-GPI mediante imaging ottico

L’APS è una patologia di relativamente nuova scoperta e non si sa ancora

perché alcuni distretti vengano colpiti preferenzialmente rispetto ad altri. La maggior

parte dei dati riguardanti il legame della β2-GPI a diversi target cellulari è stata

ottenuta da studi in vitro, con il monito che le cellule in coltura possono andare

incontro ad alcuni cambiamenti rispetto a quelle di partenza. Le uniche informazioni

riguardanti il legame in vivo della β2-GPI alle cellule riguardano il deposito sul

trofoblasto villoso documentato ex vivo su placente a termine (87, 88).

Utilizzando l’imaging ottico abbiamo cercato di capire quale sia la distribuzione

della β2-GPI utilizzando la stessa proteina opportunamente coniugata con marcatori

fluorescenti. Abbiamo inoltre indagato se tale distribuzione è influenzata o meno dalla

presenza in circolo di anticorpi antifosfolipidi e se le modificazioni ormonali che si

verificano in gravidanza possono alterare i siti di deposito di tale proteina. A tale

scopo è stato utilizzato un modello murino in cui la produzione di anticorpi diretti

contro la β2-GPI umana è stata indotta a seguito dell’immunizzazione con la proteina

stessa (40). Il modello è stato caratterizzato sfruttando l’imaging ottico, un approccio

sperimentale non invasivo che permette di seguire la distribuzione di molecole

opportunamente marcate. L’approccio sperimentale consiste nell’iniettare endovena

nell’animale anestetizzato la sonda fluorescente (β2-GPI-cianina), dopodichè

l’animale, sempre mantenuto in anestesia, viene inserito nella camera ottica per le

riprese al laser della localizzazione della sonda a tempi diversi. La medesima

procedura viene eseguita nei giorni successivi per verificare l’accumulo/”clearance”

della sonda iniettata il primo giorno.

Biodistribuzione della ββββ2-GPI in topi naïve

La prima serie di esperimenti è stata effettuata per valutare la localizzazione

della β2-GPI, in topi selezionati per lo studio, al fine di comparare la distribuzione

della proteina in femmine gravide o meno. Per escludere un legame non specifico della

proteina marcata, un gruppo di topi ha ricevuto il marcatore fluorescente seguito da

una scansione in vivo dell’intero corpo dell’animale. Come ci si aspettava, il marcatore

è stato rapidamente eliminato in circa 20 minuti attraverso le urine (dati non mostrati).

A seguito dell’iniezione, la β2-GPI marcata viene rapidamente captata dal fegato e

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gradualmente eliminata, in particolare attraverso le urine (figura 4.15 pannello in alto).

La rimozione di una quota sostanziale di β2-GPI può essere giustificata dal suo

elevato grado di glicosilazione che rappresenta approssimativamente il 20% del peso

totale della molecola e ne favorisce l’eliminazione.

Una valutazione più dettagliata della distribuzione tissutale della β2-GPI

marcata è stata effettuata sugli organi isolati dagli animali sacrificati a distanza di una

settimana dall’iniezione: la proteina si presenta abbondantemente distribuita nel

fegato, confermando i risultati ottenuti in vivo, ma si può osservare un segnale distinto

anche nell’utero, che rappresenta quindi un terreno elettivo di deposito della proteina,

mentre non è possibile rinvenirne la presenza in nessuno degli altri organi esaminati

(figura 4.15 pannello in basso), compreso il cervello, che costituisce invece uno degli

organi più colpiti dalle trombosi nella sindrome da anticorpi antifosfolipidi.

L’analisi delle sezioni di tessuto mediante microscopio a fluorescenza ha poi

confermato la presenza della β2-GPI nel fegato e nell’utero, sebbene con un diverso

pattern di distribuzione. La proteina localizzata a livello del fegato mostra infatti una

localizzazione intracellulare con un aspetto granulare, aspetto compatibile con la sua

clearance da parte delle cellule epatiche, a differenza di quanto avviene nell’utero dove

si assiste ad un deposito sull’endotelio vascolare, come dimostrato dalla

colocalizzazione con il fattore di von Willebrand (vWF), un marker delle cellule

endoteliali (figura 4.16).

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Figura 4.15. Analisi della distribuzione della ββββ2-GPI in femmine di topo mediante

imaging ottico. Nell’animale anestetizzato è stata iniettata endovena la sonda fluorescente (β2-GPI-cianina), dopodichè l’animale è stato inserito nella camera ottica per le riprese al laser della localizzazione della sonda a tempi diversi. La medesima procedura viene eseguita nei giorni successivi per verificare la ”clearance” della sonda. Dopo l’iniezione è possibile rinvenire rapidamente il segnale nel fegato, dove persiste per 48 ore e passa progressivamente nella vescica (in alto). I riquadri in basso rappresentano le immagini ex vivo degli organi isolati dall’animale sacrificato a una settimana di distanza dall’iniezione e mostrano come il segnale sia rinvenibile solo a livello di fegato e utero.

Figura 4.16. Analisi delle sezioni di organi diversi per il rilevamento della ββββ2-GPI

marcata. Si può notare l’assenza di segnale nel cervello e il differente pattern di distribuzione nel fegato, dove si presenta con un aspetto granulare, e nell’utero, dove invece colocalizza sull’endotelio vascolare con il vWF, un marker delle cellule endoteliali.

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L’analisi a corpo intero di femmine di topo gravide che avevano ricevuto la β2-

GPI marcata non ha mostrato molte differenze se comparata con femmine non gravide.

Anche in questo caso l’analisi dei vari organi ha rivelato un segnale specifico della

proteina sia nel fegato che nell’utero. Molto interessante a tal proposito è notare come

il segnale si localizza a livello dei siti d’impianto, mentre non è rinvenibile nei feti

(figura 4.17). Per identificare il target cellulare della β2-GPI, le sezioni dei siti

d’impianto sono state marcate con la citocheratina (CK), un marker dei trofoblasti, e

con il fattore di von Willebrand, già utilizzato per riconoscere le cellule endoteliali

(figura 4.18): comparando il pattern di distribuzione delle tre proteine si può affermare

che la β2-GPI si deposita sia sui trofoblasti che sulle cellule endoteliali.

Figura 4.17. Analisi della distribuzione della ββββ2-GPI in femmine di topo gravide

mediante imaging ottico. I riquadri in alto mostrano le scansioni dell’intero animale a vari intervalli di tempo dopo l’iniezione della β2-GPI marcata. I riquadri in basso rappresentano le immagini ex vivo degli organi isolati dall’animale sacrificato a una settimana di distanza dall’iniezione e mostrano come il segnale sia rinvenibile a livello di fegato e utero. Da notare che il segnale nell’utero si trova a livello dei siti d’impianto e del cordone ombelicale ma non nei feti.

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Figura 4.18. Analisi delle sezioni dei siti d’impianto isolati da femmine di topo

gravide a cui è stata iniettata la ββββ2-GPI marcata. Si può notare la colocalizzazione della β2-GPI con il vWF sulle cellule endoteliali e con la CK sul trofoblasto. I nuclei cellulari sono stati colorati con il DAPI.

Biodistribuzione della ββββ2-GPI in topi immunizzati

Per valutare il contributo degli anticorpi aPL alla localizzazione tissutale della

β2-GPI, un gruppo di topi è stato immunizzato con la proteina umana purificata. Questi

animali hanno sviluppato anticorpi contro l’antigene con un titolo che varia da 1:10000

a 1:30000 al momento degli esperimenti in vivo.

Il pattern di distribuzione della β2-GPI nei topi immunizzati si è presentato

essenzialmente paragonabile a quello rilevato nei topi naïve (figura 4.19), compresa la

localizzazione a livello dei siti d’impianto nelle femmine di topo gravide, il che

significa che la presenza degli anticorpi anti β2-GPI non ha alcun effetto sulla

biodistribuzione della proteina. La sola ma singolare differenza rilevata è stato un

sostanziale aumento delle perdite fetali negli animali immunizzati, che passa da un

valore del 6% nei topi naïve a circa il 60% in quelli immunizzati. Tale aumento è

associato ad un marcato deposito di C3 e di C9 a livello dei siti d’impianto, non

riscontrabile nelle femmine gravide naïve né nell’utero di femmine immunizzate non

gravide (figura 4.20).

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Figura 4.19. Analisi della distribuzione della ββββ2-GPI in femmine di topo

immunizzate gravide e non mediante imaging ottico. Scansione in vivo dell’intero corpo di una femmina immunizzata non gravida (A) e di una immunizzata gravida (C). Il pattern di distribuzione della β2-GPI nei topi immunizzati si presenta essenzialmente paragonabile a quello rilevato nei topi naïve, compresa la localizzazione a livello dei siti d’impianto nelle femmine di topo gravide. B-C) Immagini ex vivo degli organi isolati dall’animale sacrificato a una settimana di distanza dall’iniezione.

A.

Femmina di topo immunizzata non gravida

Femmina di topo immunizzata gravida

B.

C.

D.

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C3 C9

Figura 4.20. Effetto degli anticorpi anti-ββββ2-GPI sul deposito di complemento a

livello dei siti d’impianto in femmine di topo gravide. Gli animali sono stati sacrificati il 17esimo giorno di gestazione, una settimana dopo l’iniezione della proteina marcata ed è stato valutato il deposito di C3 e di C9 in topi immunizzati (immagini in alto) e naïve (immagini in basso) a livello dei siti d’impianto.

Biodistribuzione della ββββ2-GPI in topi pretrattati con LPS

Avendo rilevato dai primi esperimenti di imaging ottico che l’endotelio di tutti

gli organi esaminati, ad eccezione dell’utero, non mostra un segnale della presenza

della β2-GPI, sia nei topi immunizzati che in quelli naïve, abbiamo preso in

considerazione l’ipotesi che le cellule endoteliali possano richiedere un’attivazione per

legare la proteina. A tale scopo femmine non gravide sono state trattate con LPS 20

minuti dopo l’infusione della proteina marcata, monitorati per 4 ore ed infine

sacrificati. Né l’analisi in vivo, né quella ex vivo degli organi isolati ha fornito

informazioni utili a causa dell’elevato background nel momento del picco massimo di

β2-GPI marcata circolante (dati non mostrati). Per ovviare a questo problema, sono

state esaminate delle sezioni di tessuto di vari organi, rilevando una chiara

localizzazione della β2-GPI sull’endotelio vascolare dell’intestino e del cervello

(figura 4.21). La distribuzione della proteina risulta essenzialmente la stessa nei topi

naïve e in quelli immunizzati, con l’unica differenza che in quest’ultimo caso la

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proteina legata è associata al deposito di IgG, C1q e C9, a suggerire un’attivazione

locale del complemento (figura 4.21).

Figura 4.21. Distribuzione di ββββ2-GPI, IgG e componenti complementari in vari

tessuti raccolti da animali trattati con LPS 20 minuti dopo l’infusione della

proteina marcata. Gli organi sono stati prelevati dopo il sacrificio dell’animale quattro ore dopo l’infusione della β2-GPI e analizzati per il deposito della stessa, di IgG, C1q e C9.

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5. DISCUSSIONE

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Negli ultimi anni la proteina serica β2-GPI ha attirato una particolare attenzione

in seguito alla scoperta che essa rappresenta il maggior target degli anticorpi

antifosfolipidi che sono associati allo sviluppo di trombosi vascolari e problemi legati

alla gravidanza. I dati sui target cellulari della proteina e i meccanismi attraverso cui

gli anticorpi esercitano la loro azione risultano tuttavia ancora scarsi o incompleti: i

risultati ottenuti negli studi svolti cercano invece di offrire un quadro più chiaro di

entrambi questi aspetti.

Nella prima parte della tesi è stato documentato un incremento nel deposito dei

fattori complementari C1q, C3 e C9 nelle placente di pazienti con APS, deposito che

risulta associato a cambiamenti istopatologici. Il deposito di prodotti di attivazione

complementare a livello dei villi e della decidua depone a favore di un ruolo

determinante del complemento nell’induzione dei danni ai tessuti placentari in

presenza di anticorpi aPL. Malgrado una potenziale attivazione continua, la placenta è

protetta dall’attivazione spontanea del complemento grazie alla presenza di proteine

regolatorie quali DAF, MCP e CD59, che sono altamente espresse sui citotrofoblasti

(89). Poiché le placente di pazienti con APS mostrano un notevole deposito di prodotti

di attivazione complementare, si può supporre che la protezione delle proteine

regolatorie venga sopravalicata dall’esposizione agli aPL. Poiché la via classica del

complemento è attivata direttamente da complessi antigene-anticorpo, è logico pensare

che l’osservazione del deposito di prodotti complementari sia dovuta ad un aumento

dell’attivazione del sistema, piuttosto che alla deplezione o all’inattivazione delle

proteine di controllo.

Il particolare deposito di C9, sia a livello deciduale, che dei trofoblasti villosi,

merita alcune considerazioni. Per quanto concerne i trofoblasti, abbiamo ipotizzato una

mancata produzione di questo componente complementare a livello fetale per spiegare

come mai esso sia evidenziabile unicamente sulla superficie dei villi, ma non

nell’endotelio dei vasi. Discorso a sé stante merita invece il deposito di C9 a livello

deciduale: qui infatti esso è presente unicamente in sede subendoteliale. La

spiegazione che abbiamo dato a questa osservazione è che il complemento si attivi su

queste cellule, come dimostrato dal deposito di C3, ma che le proteine regolatorie

impediscano che la cascata giunga fino alla formazione del complesso terminale.

Poiché è comunque possibile trovare quest’ultimo in sede subendoteliale, abbiamo

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supposto che il complesso sia presente in soluzione e che si depositi sotto le cellule

grazie ad un’azione permeabilizzante degli anticorpi antifosfolipidi. In effetti è

possibile documentare (dati non mostrati) una quota maggiore di TCC nel sovranatante

di cellule trattate con anticorpi antifosfolipidi, ma l’azione permeabilizzante non

sembra essere dovuta agli anticorpi aPL, quanto piuttosto alle molecole secrete dai

trofoblasti presenti a contatto con le cellule deciduali, come dimostrato negli

esperimenti di permeabilità. Lo schema d’azione che è stato ipotizzato è pertanto: a)

gli anticorpi aPL attivano il complemento sulle cellule deciduali; b) la cascata

complementare non giunge fino alla formazione del complesso terminale sulle cellule

a causa di molecole regolatrici, ma c) si libera in soluzione e si deposita sotto

l’endotelio vascolare deciduale che d) è reso permeabile dall’azione delle molecole

secrete dal trofoblasto.

Oltre all’azione permeabilizzante, il trofoblasto determina anche altri

cambiamenti nelle cellule deciduali, tali per cui lo stimolo con il sovranatante di

coltura dei trofoblasti determina un maggior legame degli anticorpi aPL e un

conseguente maggior deposito di complemento su di esse. Questi cambiamenti nel

fenotipo dell’endotelio deciduale rappresentano probabilmente la logica conseguenza

del processo di invasione endovascolare del trofoblasto in decidua, rendendo tuttavia

le cellule maggiormente suscettibili all’azione degli anticorpi antifosfolipidi.

Come dimostrato negli studi di attivazione del complemento su piastre di

cardiolipina, vi è un’elevata frequenza di anticorpi aPL capaci di fissare il

complemento nell’APS, sebbene vi sia una notevole varietà tra siero e siero.

Nonostante ciò alcuni sieri, sebbene positivi per la presenza di anticorpi

anticardiolipina, non attivano affatto il complemento. Va detto però che nei pazienti

con APS, gli anticorpi aPL tendono ad essere di isotipo IgG, anche se si riscontrano

spesso anche IgM e IgA; in particolare, le sottoclassi di IgG più frequenti sono IgG2,

IgG1 e IgG4. Ricordiamo che IgG2 e IgG4 hanno un’abilità relativamente bassa di

attivare il complemento attraverso la via classica, il che spiega il motivo per cui non

tutti i sieri fissano il complemento.

Nonostante queste considerazioni dovute, il ruolo determinante del sistema

complementare nella genesi di questa sindrome è stato documentato nel nostro

laboratorio sia per quanto concerne le trombosi sistemiche (52), sia per le

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problematiche legate alla gravidanza. Recenti studi hanno dimostrato che l’attivazione

non controllata del complemento in placenta porta alla morte del feto nell’utero (84):

pertanto, prevenendo l’attivazione completa del sistema del complemento, abbiamo

inibito gli effetti complemento-mediati legati alla presenza in circolo degli anticorpi

antifosfolipidi.

Nel modello murino di APS indotto dal trasferimento passivo di anticorpi umani

aPL, abbiamo dimostrato infatti che il blocco del complemento a livello

dell’attivazione del C5 previene le perdite fetali ed i ritardi nella crescita. Lo studio

dimostra che, nonostante la natura degli antigeni riconosciuti dagli anticorpi aPL sia

chiaramente importante, l’attivazione del complemento rappresenta il maggior

meccanismo effettore attraverso cui questi anticorpi mediano il danno tissutale. La

generazione del C5a, attraverso l’attivazione della via classica del complemento,

amplifica gli effetti degli anticorpi aPL in placenta. Il C5a, infatti, attrae e attiva

neutrofili, monociti e mast cellule e stimola il rilascio di mediatori infiammatori come

citochine, chemochine, enzimi proteolitici, così come altri componenti complementari.

Gli studi di imaging ottico hanno inoltre messo in luce che l’utero rappresenta un

terreno di deposito elettivo per la β2-GPI, cosa che non avviene per nessun altro organo,

eccezion fatta per il fegato deputato al suo smaltimento. Il non aver rilevato il deposito

della proteina sull’endotelio di nessun altro distretto è stato sorprendente alla luce dei

dati pubblicati sull’interazione della β2-GPI con le cellule endoteliali. Sono stati infatti

riportati numerosi recettori per questa molecola espressi dalle cellule endoteliali

attivate da anticorpi specifici (90). Non è facile conciliare i dati in vitro e quelli in vivo,

anche se i risultati in vitro sono stati ottenuti utilizzando cellule endoteliali isolate da

cordone ombelicale (HUVEC) che non necessariamente rappresentano le cellule

endoteliali dei grossi vasi e quelli della microcircolazione nella vita adulta. È anche

possibile che le cellule mantenute in coltura subiscano delle modificazioni tali da

renderle distinte dalle cellule originarie e anche che cellule endoteliali appartenenti a

differenti distretti dell’albero vascolare siano diverse e quindi in grado di legare in varia

misura la β2-GPI. Questo può spiegare il perché negli studi di imaging ottico le cellule

endoteliali uterine sono state le uniche a mostrare un chiaro segnale per questa proteina.

Inoltre il segnale rilevato a livello del cordone ombelicale sembra suggerire un

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particolare tropismo della β2-GPI per l’endotelio dei vasi ombelicali, in linea con i dati

ottenuti dagli studi in vitro.

Di contro non si assiste a nessun deposito nel cervello, che rappresenta invece

uno degli organi che vengono colpiti con maggior frequenza dalle trombosi nell’ambito

di questa patologia. Ricordiamo a tal proposito la teoria del secondo insulto, secondo

cui gli anticorpi antifosfolipidi (primo insulto) aumentano il rischio di eventi trombotici

che però avvengono unicamente in presenza di un’altra condizione trombofilica

(secondo insulto) come traumi o stimoli infiammatori. Nel modello di trombosi messo a

punto nel nostro laboratorio (52) avevamo infatti dimostrato che la formazione dei

trombi è complemento dipendente e richiede un “priming factor” che nello specifico

era costituito da LPS che rappresenta una buona opzione di secondo insulto alla luce

della ben nota associazione fra APS e infezioni batteriche. Nello studio avevamo inoltre

documentato il deposito di componenti complementari a seguito del doppio stimolo in

vari distretti, e in particolar modo a livello cerebrale. Alla luce dei risultati ottenuti con

l’imaging ottico possiamo quindi dedurre che, in assenza del secondo stimolo, non si

assiste ad attivazione complementare proprio perché non si ha nessun legame degli

anticorpi in quanto non è presente l’antigene (β2-GPI) sulle cellule stesse. Il secondo

insulto determina evidentemente una perturbazione nel fenotipo cellulare tale da far

legare la proteina e renderla quindi disponibile agli anticorpi. Anche in questo caso le

indagini ex vivo hanno documentato la presenza di IgG, C1q e C9 sull’endotelio

vascolare a seguito del trattamento con LPS. Nonostante questi risultati non è stato

possibile documentare la formazione di trombi nei diversi organi analizzati, ma si può

supporre che il tempo di osservazione dopo l’infusione dell’LPS sia troppo breve per

poter osservare la formazione di trombi visibili. Degno di nota è il dato che il deposito

di IgG e componenti complementari si possa riscontrare in organi quali cervello,

intestino e cuore, ma non nei reni, che è compatibile con il raro coinvolgimento renale

nell’APS.

Discorso a parte va fatto invece per quanto avviene in gravidanza: abbiamo

dimostrato infatti che al di là della presenza o meno degli anticorpi aPL, la placenta

lega la β2-GPI, e questo spiega il motivo per cui in gravidanza non c’è bisogno di un

secondo insulto per dar luogo alle complicazioni che si osservano normalmente nella

storia clinica delle pazienti con APS. La percentuale di perdite fetali nelle donne con

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APS é infatti compresa tra il 50 e il 75% ed é ancora più alta, fino al 96%, tra le donne

affette da LES che risultano aPL positive, mentre le trombosi si riscontrano solo nel

30% dei pazienti e, se ricorrenti, gli eventi sono generalmente separati da anni di

“silenzio”. Inoltre, la mancanza di segnale nei feti concorda bene con le osservazioni

cliniche secondo cui solo occasionalmente l’APS colpisce i neonati nonostante il

passaggio transplacentare delle IgG dalla madre al feto e dell’elevato stato trombofilico

del neonato rispetto all’adulto.

L’immunizzazione dei topi ci ha infine permesso di valutare il contributo degli

anticorpi alla biodistribuzione della β2-GPI correlandola alle manifestazioni cliniche

osservabili nei pazienti con APS. È pertanto emerso che la distribuzione della proteina

non varia in presenza di anticorpi circolanti, cosicché non si può osservare un suo

legame negli organi esaminati, eccezion fatta per utero e siti d’impianto. Il contributo

degli anticorpi è invece decisivo nel determinare i danni tissutali che risultano in un

aumento del tasso di riassorbimento fetale, dato che riproduce quindi i risultati che si

osservano in seguito al trasferimento passivo di anticorpi in femmine di topo gravide.

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6. CONCLUSIONI

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Il lavoro svolto in questi tre anni di dottorato ha permesso di produrre nuove

evidenze che dimostrano che gli anticorpi antifosfolipidi attivano il complemento e

che questo gioca un ruolo chiave nell’aborto spontaneo ricorrente che si verifica nella

sindrome.

In particolare è stato dimostrato sia ex vivo che in vitro che la placenta, ed in

particolare il sinciziotrofoblasto e la decidua, rappresentano un target per gli anticorpi

aPL, per cui gli anticorpi si legano su queste cellule ed attivano il complemento.

Inoltre è stato dimostrato in vivo che il blocco della cascata complementare

previene le perdite fetali causate dalla presenza in circolo di anticorpi aPL e questo

potrebbe gettare le basi per un eventuale approccio terapeutico. È impensabile

supporre di bloccare la cascata complementare a livello sistemico per tutta la durata

della gravidanza, poiché verrebbe meno un effettore dell’immunità umorale non

specifica, ma potrebbe invece essere ragionevole farlo solamente a livello locale.

È stato infine dimostrato mediante gli studi di imaging ottico che la β2-GPI si

localizza preferenzialmente sull’endotelio dei vasi uterini e a livello dei siti d’impianto

sia sulle cellule endoteliali che sul trofoblasto. Abbiamo inoltre dimostrato che il

pattern di distribuzione di questa molecola non è modificato dalla presenza in circolo

di anticorpi che sono associati invece ad un aumento della tasso di perdite fetali.

Questi dati depongono quindi a favore di un particolare tropismo della β2-GPI per i

tessuti placentari e di un ruolo locale degli anticorpi anti-β2-GPI nelle manifestazioni

ostetriche dell’APS. Abbiamo infine ottenuto nuove evidenze sperimentali che ci

permettono di affermare che l’LPS è necessario per la localizzazione della β2-GPI in

fegato, cervello e intestino. Il legame caratteristico della β2-GPI in vivo rafforza quindi

ulteriormente l’ipotesi che un secondo insulto infiammatorio è cruciale per scatenare

gli effetti degli anticorpi aPL sull’endotelio.

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7. BIBLIOGRAFIA

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