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UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI TORINO DIPARTIMENTO DI LINGUE E LETTERATURE STRANIERE E CULTURE MODERNE CORSO DI LAUREA MAGISTRALE IN LINGUE E LETTERATURE MODERNE CURRICULUM COMPARATISTICO Tesi di Laurea DECOLONIZZARE L’AVVENTURA: LOS VIAJES DE JUAN SIN TIERRA Relatrice: Candidato: Professoressa Veronica Orazi Claudio Maringelli, 329337 ANNO ACCADEMICO 2012/2013

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UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI TORINO

DIPARTIMENTO DI LINGUE E LETTERATURE STRANIERE E

CULTURE MODERNE

CORSO DI LAUREA MAGISTRALE IN

LINGUE E LETTERATURE MODERNE

CURRICULUM COMPARATISTICO

Tesi di Laurea

DECOLONIZZARE L’AVVENTURA:

LOS VIAJES DE JUAN SIN TIERRA

Relatrice: Candidato:

Professoressa Veronica Orazi Claudio Maringelli, 329337

ANNO ACCADEMICO 2012/2013

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INDICE

INTRODUZIONE ...................................................................................................................... 3

I. DECOLONIZZARE L’AMERICA ‘LATINA’ ...................................................................... 6

I.1. (NEO)COLONIALISMO E AMERICA LATINA. 6

I.2. LA PIPA DE MARCOS: STRATEGIE DECOLONIZZANTI NE LA REALIDAD DEGLI ZAPATISTI. 10

I.2.1. La trama. 10

I.2.2. Strategie di comunicazione (e non comunicazione). 13

I.2.2.1. Dal Chiapas ai media internazionali 13

I.2.2.2 I volontari stranieri 17

I.2.2.3. Il controllo delle informazioni 19

I.3. UNA PICCOLA DECOLONIZZAZIONE PRIVATA: LA ISLA DE NUNCA JAMÁS. 22

I.3.1. Riassunto del secondo volume, La isla de Nunca Jamás. 22

I.3.2. Il contesto storico. 24

I.4. RÍO LOCO E EN LA TIERRA DE LOS SIN TIERRA: LA TRAMA DEL TERZO E QUARTO VOLUME. 28

I.5. IL MOVIMENTO DOS SEM TERRA. 30

I.6. MESTIZAJE: IL PERSONAGGIO DI NAPO. 33

I.6.1. Américo/Laura/Napo. 33

I.6.2. Américo/Napo attraverso Borderlands/La forntera di Gloria Anzaldúa. 36

I.6.3. Le tribù in isolamento volontario. 41

I.6.4. Una nuova identità per l’America ‘Latina’. 44

II. DECOLONIZZARE L’AVVENTURA. ............................................................................. 49

II.1. I RIFERIMENTI LETTERARI. 49

II.2. LA ISLA DE NUNCA JAMÁS E PETER PAN. 50

II.2.1. Neverland come costruzione narrativa coloniale. 52

II.2.2. Immaginazione creatrice ad Ometepe. 55

II.2. RÍO LOCO E HEART OF DARKNESS 60

II.2.1. Il viaggio di Vasco e Marlow. 64

II.2.2. Vasco e Juan, Marlow e Kurtz. 70

II.2.3. Tenebre e spazi vuoti. 75

II.2.4. Il rapporto con i modelli. 77

III. DECOLONIZZARE L’EROE ............................................................................................ 83

2

III.1. LOS VIAJES DE JUAN SIN TIERRA E LE STORIE DI CORTO MALTESE. 83

III.1.1. Un rapporto ambiguo con l’avventura. 83

III.1.2. Vasco e Corto Maltese. 92

III.2. LA DISTRUZIONE DI UN PERSONAGGIO. 96

III.2.1. I miti di Juan. 99

III.2.2. Vasco e l’Amazzonia. 103

III.2.3. Il lupo della steppa e Siddharta. 106

III.3. LA SCOPERTA DELL’ALTRO. 113

III.3.1. Dialogo e sconfitta. 113

III.3.2. “Diversity as a universal project.” 122

BIBLIOGRAFIA .................................................................................................................... 129

SITOGRAFIA ........................................................................................................................ 132

FILMOGRAFIA ..................................................................................................................... 133

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INTRODUZIONE

Questa tesi presenta l’analisi di alcuni aspetti di Los viajes de Juan sin tierra, un romanzo

grafico in quattro volumi di Javier de Isusi, fumettista di Bilbao, pubblicati tra il 2004 e il

2010. I volumi narrano le avventure di Vasco in diversi luoghi dell’America meridionale,

Chiapas, Nicaragua, la foresta amazzonica tra Perù e Ecuador e alcune parti del Brasile,

durante le quali il protagonista si trova alle prese con personaggi e vicende di fantasia, che

tuttavia descrivono realtà sociali effettivamente esistenti nel continente americano. Il presente

lavoro cercherà di dimostrare e analizzare come, nel corso di questa narrazione, spesso

divertente e con spiccate caratteristiche di intrattenimento, de Isusi porti avanti un discorso di

decolonizzazione in tre livelli.

La prima modalità di decolonizzazione si ritrova nella rappresentazione del modo in

cui una serie di movimenti sociali dell’America meridionale stiano cercando di liberarsi dei

vari aspetti di ciò che Walter Mignolo definisce il complesso della modernità coloniale: il

sistema economico, politico e sociale su cui si regge la modernità, che nasce e si mantiene su

presupposti coloniali. La rappresentazione che de Isusi fa di questi tentativi di

decolonizzazione è penetrante e, sebbene l’autore si schieri dalla parte di questi movimenti, la

sua analisi non si appiattisce sulla lusinga incondizionata, ma cerca di metterne in luce gli

aspetti che più risultano significativi sotto l’aspetto politico, ecologico e sociale. In questo

modo, questi aspetti arrivano a rivestire un significato non solo locale ma universale: in

quanto metodi efficaci di uscire dalla modernità coloniale, o in quanto esempi di come questa

stessa modernità coloniale vada ad influenzare le vite di coloro che si trovano in posizione

subalterna. Per questa analisi ci si avvarrà di fonti storiche e giornalistiche che, negli ultimi

anni, hanno descritto le diverse situazioni sociali rappresentate, e del contributo teorico

offerto soprattutto dalle opere di Walter Mignolo e Gloria Anzaldúa.

In secondo luogo, Los viajes de Juan sin tierra rappresenta il tentativo di rielaborare

gli stilemi classici della narrativa di avventura. Questo intento viene portato avanti operando

all’interno degli stessi in modo da metterne in luce, prima, e decostruirne, poi, gli aspetti che

più affondano le loro radici in una visione coloniale del mondo: la narrativa di avventura,

infatti, nasce proprio dalla, cosiddetta, avventura coloniale, e dall’immaginario di

esplorazione ed esotismo che essa portava con sé. Per fare questo, de Isusi fa dialogare la sua

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opera con una serie di esempi tratti dalla letteratura, dal fumetto e dal cinema. Alcune di

queste opere rientrano in maniera evidente negli stilemi classici della narrativa esotica, e

vengono perciò citate essenzialmente per marcare una differenza, pur spesso venata di

nostalgia. Altre, invece, si presentano già come rielaborazioni dei modelli classici, verso una

tipologia testuale che, pur utilizzando quei modelli, li supera per portare il proprio discorso ad

aspetti diversi, e più significativi. È questo il caso di opere come Peter Pan, Heart of

Darkness e i fumetti di Hugo Pratt, ed è proprio con queste che Los viajes de Juan sin tierra

sviluppa un dialogo più continuativo e fecondo. In questi casi, quindi, si è cercato di

analizzare sotto quali aspetti de Isusi prosegua il lavoro di rielaborazione già in atto in queste

opere, e sotto quali aspetti invece se ne distacchi, all’interno di un’opera che mantiene sempre

la sua originalità. Per questa sezione il contributo principale a livello di critica letteraria viene

dal volume Luoghi di tenebra, lo spazio coloniale e il romanzo, di Paola Carmagnani.

Infine, nel corso dell’opera il lettore assiste ad un’evoluzione del personaggio

principale, Vasco, che, lentamente e dolorosamente, si distacca dalla figura di eroe

avventuroso, si arricchisce di sfaccettature ed arriva ad essere un personaggio a tutto tondo.

Quest’evoluzione rientra prima di tutto nel solco della rielaborazione degli stilemi classici

della narrativa di avventura descritta nel capitolo precedente, tra i quali la figura dell’eroe

riveste una particolare importanza. In questo senso, quindi, se si rielabora, spesso

distaccandosene, il modello classico dell’avventura di ambientazione esotica, si deve mutare

anche la figura del protagonista, proprio nel tentativo di decolonizzarla. Facendo questo,

tuttavia, l’autore è costretto ad abbandonare l’infallibilità del suo eroe, per decostruirne le

relazioni di potere con gli altri personaggi e con il contesto politico e sociale. Nell’ultimo

volume, perciò, l’avventura passa in secondo piano, e allo stesso modo mutano i modelli

letterari di riferimento, che sono qui soprattutto due romanzi di Hermann Hesse: Il lupo della

steppa e Siddharta.

Grazie a questa evoluzione del protagonista, che in ogni caso non perde mai la sua

portata politica, si assiste nel corso dei volumi ad un’apertura dell’eroe all’incontro con

l’Alterità rappresentata dagli altri personaggi, che guadagnano in rilevanza e spessore proprio

nella misura in cui l’eroe perde in infallibilità. In questi personaggi, infatti, vive una

descrizione originale e sorprendente di alcuni esempi di ribellione decolonizzante, e di fertile

ibridazione culturale. Nel protagonista, invece, nella sua evoluzione, ma anche nell’uso che

de Isusi fa delle molte opere letterarie con le quali dialoga, si può forse trovare una riflessione

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sul futuro dell’identità e della cultura del cosiddetto Nord del mondo. In questa analisi mi

avvalgo di diversi contributi teorici, tra i quali spiccano per importanza la riflessione di

Michael Wimmer sul concetto di ‘Estraneo’, e le idee espresse da Tzvetan Todorov in La

scoperta dell’America, il problema dell’altro.

Con il presente lavoro, il mio intento è prima di tutto quello di diffondere, per

quanto mi è possibile, la conoscenza di questo romanzo grafico, non ancora tradotto in Italia,

e che merita, a mio parere, tutta la fama possibile. In secondo luogo, il mio auspicio è che il

presente lavoro non si esaurisca nella decodificazione di un’opera che, in fondo, già è stata

scritta e disegnata, ed è quindi completa in se stessa. Vorrei, invece, che questa tesi

rappresentasse un lavoro originale, che attraverso una rete di comparazioni a livello letterario,

filosofico e politico possa far scaturire orizzonti di senso inaspettati. In fondo, è anche questo

un modo di scoprire l’Altro, in questo caso l’Altro racchiuso tra le pagine di un testo, o di

molti testi, e di lasciarsi scoprire. Il desiderio che guida questa tesi, quindi, è essenzialmente il

desiderio di cui parla Derrida:

La decostruzione dà piacere in quanto stimola il desiderio. Decostruire un testo

significa scoprire come questo funziona da desiderio, da ricerca della presenza e da

appagamento che viene rimandato interminabilmente. Non si può leggere senza aprirsi al

desiderio del linguaggio, alla ricerca di ciò che è assente e altro rispetto a sé. Senza un certo

amore per il testo, non sarebbe possibile nessun tipo di lettura. 1

1 Kearney, Richard, “Decostruzione e l’altro. Intervista a Jacques Derrida”, in Id., Lo spirito europeo, Roma,

Armando Editore, 1998, p. 215.

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I

DECOLONIZZARE L’AMERICA ‘LATINA’

I.1. (Neo)Colonialismo e America Latina.

Con i quattro volumi de Los viajes de Juan sin tierra di Javier de Isusi ci troviamo di fronte

ad un’opera dalle molte sfaccettature, e analizzabile sotto molteplici aspetti. Tra questi,

l’aspetto di narrazione sociale e politica si propone fin da subito come evidente. Con i quattro

volumi, infatti, troviamo presentati altrettanti movimenti di decolonizzazione del Sud

America: la lotta Zapatista nello stato messicano del Chiapas; una piccola storia di vendetta in

Nicaragua, che porta però con sé molto della storia del paese degli ultimi 30 anni; la lotta per

la sopravvivenza delle tribù isolate di indios nella foresta amazzonica tra Perù e Ecuador; e

infine, anche se solo sfiorato, il Movimento dos Sem Terra in Brasile, che lotta per una

riforma agraria e la rassegnazione di terre, contro il latifondismo.

Nel corso di questo capitolo ciascuna di queste situazioni verrà analizzata più nel

dettaglio, e soprattutto verrà analizzato il modo in cui questi fenomeni sociali vengono

raccontati nell’opera di de Isusi. Prima di tutto, però, è importante chiarire perché si parli di

“decolonizzazione” e non, per esempio, di lotte contro il sistema capitalista: perché, cioè, sia

necessario applicare a questa analisi proprio i concetti di colonialismo e decolonizzazione,

non solo, come vedremo nel corso del capitolo, per quanto riguarda le vicende narrate nelle

tavole ed al modo in cui questi fenomeni entrano prepotentemente a far parte dell’opera, ma

anche, più in generale, per i fenomeni sociali stessi, fuori dall’opera letteraria.

L’uso del termine “decolonizzazione” può infatti apparire inusuale se riferito ad

alcune delle tematiche storico-sociali affrontate, come anche al Sud America in generale,

formato da nazioni che, avrebbero, in teoria, già affrontato e concluso più di un secolo fa il

loro processo di emancipazione dalla dominazione spagnola. Tuttavia, non è così se

utilizziamo un’accezione più ampia del concetto di colonizzazione, che la intenda non

soltanto come il fenomeno della dominazione diretta di nazioni europee su ampie zone del

globo, fenomeno che si è praticamente concluso nel corso del XX secolo, ma come il

fenomeno fondante di ciò che chiamiamo modernità, e un fenomeno che continua ad

organizzare le vite di buona parte del genere umano. Come scrive Walter Mignolo:

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In the world making process we identify today as modernity/coloniality, the term

modernity does not stand by itself since it cannot exist without its darker side: coloniality. As I

conceive it here, the modern/colonial world goes together with the mercantile, industrial and

technological capitalism centered in the north Atlantic, both of which carry out the epistemic

mechanism of coloniality of power: classifying people around by color and territory, and

managing the distribution of labor and organization of society.1

Per due dei casi affrontati è in questo senso evidente la presenza di un contrasto tra elementi

definibili come colonizzatori e elementi di una resistenza a questa colonizzazione. Prima di

tutto, l’intervento degli Stati Uniti in Nicaragua, che è direttamente riconducibile all’influenza

neocolonialista nordamericana nei confronti del centro e del sud del continente2, e il suo

contrasto con i vari movimenti rivoluzionari o di liberazione nazionale: in questo caso contro

il movimento Sandinista nicaraguense, dopo la vittoria di quest’ultimo nel 1979 contro il

dittatore Somoza.

D’altra parte, anche il tentativo di sopravvivenza delle tribù isolate dell’Amazzonia

può essere visto quasi con un fenomeno anticoloniale prototipico, in quanto resistenza a

qualunque forma di “civilizzazione”, intesa in modo critico come l’accettazione, più o meno

supina, dei valori culturali, sociali ed economici del “primo mondo” (resistenza che non

significa, o non significa sempre, rifiuto totale di qualunque contaminazione culturale, come

si vedrà). Possiamo quindi parlare di resistenza alla colonizzazione nonostante i

nemici/civilizzatori non siano più (soltanto) le politiche imperialistiche degli stati europei, e

nemmeno degli Usa, ma le strutture culturali ed economiche che stanno alla base del

funzionamento attuale degli stessi paesi ex-colonie spagnole e portoghesi, ora stati

indipendenti.

In questo senso, è necessario riflettere sul processo di, supposta, decolonizzazione

che portò all’indipendenza i paesi del Sud America, e che fu portato avanti dalla popolazione

bianca o meticcia e pertanto privilegiò gli interessi di questo gruppo sociale, e quindi portò al

potere e sistematizzò tutta la sovrastruttura di stampo europeo che questo gruppo sociale

1 Mignolo, Walter, “The Zapatista’s Theoretical Revolution”, Review (Fernand Braudel Center), Vol. 25, No. 3,

Utopian Thinking, 2002, pp. 245-275. 2 Cfr. Fiorani, Flavio, “Postcoloniali noi? America Latina tra paradigmi eurocentrici e esperienza coloniale”, in

AA.VV. Gli studi postcoloniali, a cura di Shaul Bassi e Andrea Sirotti, Firenze, Le Lettere, 2012, p. 219.

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portava con sé, dal punto di vista culturale, politico, religioso ed economico.1 In questo senso,

si può dire, come scrive Walter Mignolo, che quel processo non fu una decolonizzazione,

bensì un cambio di vertice, che tuttavia continuò a portare avanti meccanismi di colonialismo

interno molto simili a quelli adottati dalla dominazione spagnola e portoghese. Di questo è un

simbolo il fatto che ancora oggi la parte centrale e meridionale del continente americano sia

definita, e si autodefinisca, America “Latina”.2

Seguendo questo stesso ragionamento, si possono vedere anche le altre due

tematiche sociopolitiche trattate nei volumi de Los viajes de Juan sin Tierra alla luce di un

concetto di decolonizzazione come ribellione alla sovrastruttura politico culturale di

quell’America che si definisce “latina”, e la rivendicazione di uno spazio sociale, politico e

culturale per coloro che, da cinquecento anni, sono esclusi dallo spazio pubblico e perciò

vittime di tipi differenti, ma per molti versi simili, di colonizzazione. Queste sono, infatti,

precisamente le rivendicazioni del Fronte Zapatista e dell’Esercito Zapatista de Liberación

Nacional attivi in Chiapas, che nasce con l’obbiettivo di trovare uno spazio sociale nel

Messico per gli indios di etnia Maya dello stato del Chiapas, ma che acquista presto un’ottica

internazionale, lottando per “un mundo donde quepan todos los mundos”, un mondo dove

possano coesistere tutti i mondi. Simili sono le rivendicazioni del Movimento dos Sem Terra

in Brasile, relative questa volta non ad un gruppo etnico ma ad un gruppo che condivide la

condizione economica di contadini senza terra, in uno stato con la presenza massiccia di

latifondi, a volte anche con grandi aree incolte.3

Ovviamente, quando si parla di sovrastruttura culturale e politica di stampo europeo

non la si intende come omogenea al suo interno. Di questa stessa sovrastruttura fanno parte

tutte quelle dottrine che si rifanno in maniera totale a modi di pensiero europei, quindi anche

tutte quelle dottrine rivoluzionarie di stampo marxista ortodosso, pur essendo queste in forte

contrasto con altre dottrine di stampo capitalista. Ne fanno parte per il fatto di essere radicate

in maniera indiscutibile in forme di pensiero di origine europea, che solo pesantemente

contaminate possono adattarsi alle differenze culturali e sociali presenti nel mondo (in questo

caso nel sud del continente americano). Senza questa capacità di contaminarsi, esse

rimangono, secondo la definizione di Mignolo, abstract universals, concetti astratti,

1 Ivi, p. 218.

2 Cfr. Mignolo, Walter, The Idea of Latin America, Malden, Blackwell, 2005.

3 Per un’analisi attuale sul MST cfr. ad esempio Reyes, Chantal, “’Sans terre’: les lopins d’abord”, in

Libération, 2 aprile 2012, tradotto da Internazionale come “La terra promessa”, traduzione di Andrea De Ritis, n.

998, 3/9 maggio 2013, pp. 52-54.

9

applicabili ad una realtà distante da quella per la quale sono stati inventati solo con un

qualche tipo di violenza. In questo senso Mignolo, contrapponendo a queste dottrine il

pensiero zapatista, che è, invece, un pensiero che nasce nel sincretismo, scrive: “The

Zapatista’s theoretical revolution allows us to understand that, in terms of the logic of abstract

universals, the difference between, say, the Shining Path and Alberto Fujimori was relatively

insignificant; it was the same logic with different content.”1

Un simile ragionamento si può applicare anche ad altri concetti che avrebbero,

almeno in teoria, un potenziale di liberazione dalla colonizzazione: pensiamo al concetto di

democrazia, o alla religione Cattolica, che nel continente americano, grazie alla Teologia

della Liberazione, si è caricato di un significato di emancipazione e riveste una grande

importanza in molti movimenti sociali. Tuttavia, se ciò è accaduto, è proprio grazie ad una

capacità di una dottrina di farsi contaminare con le culture e le necessità locali, per dare vita a

qualcosa di totalmente nuovo come è, ad esempio, il concetto di democrazia che nasce dal

movimento zapatista, come vedremo più avanti. Perché senza contaminazione, lo stesso

concetto di democrazia rimane un concetto coloniale, e un mezzo per imporre logiche

coloniali e capitalistiche, e che continua a tramandare l’idea che l’unica democrazia come

spazio politico sia nata nella tradizione greco-romana, e solo a questa ci si possa rifare nel

momento in cui si riflette sul futuro della democrazia, relegando qualunque altra tradizione,

spesso ben più radicata nel tessuto sociale, ad un ruolo secondario.2

In questo senso, ritornano alla mente con forza le parole di José Martí, che nel 1891

scriveva: “La historia de América, de los incas acá, ha de enseñarse al dedillo, aunque no se

enseñe la de los arcontes de Grecia. Nuestra Grecia es preferible a la Grecia que no es

nuestra. Nos es más necesaria. [...] Injértese en nuestras repúblicas el mundo; pero el tronco

ha de ser el de nuestras repúblicas.”3 Ancora una volta troviamo da una parte la difesa di un

senso “locale”, di una tradizione politica, sociale e culturale che deve essere liberata dal ruolo

secondario a cui è stata costretta nei cinque secoli di colonizzazione. D’altra parte, però,

ritroviamo forte anche il senso di una contaminazione, da realizzarsi in entrambi i sensi, che

1 Mignolo, Walter, “The Zapatista’s Theoretical Revolution”, cit., p. 250. Qui Mignolo usa due esempi tratti

dalla storia del Perù: da una parte il dittatore di destra Alberto Fujimori, e dall’altra il movimento terroristico e di

guerriglia Sendero Luminoso, di stampo marxista-leninista e maoista, tristemente celebre anche per le violenze

sui civili. 2 Cfr. Mignolo, Walter, “The Zapatista’s Theoretical Revolution, cit., p. 272.

3 Martí, José, “Nuestra America”, La revista ilustrada de Nueva York, 10/01/1891, da

http://www.analitica.com/bitblio/jmarti/nuestra_america.asp, consultato il 09/05/2013.

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possa rendere più ricca l’evoluzione di quella stessa tradizione, di quel “tronco”. Scrive

Flavio Fiorani: “Martì strappa dalla subalternità sociale e culturale le civiltà preispaniche e

rivaluta l’ibridismo culturale e etnico, […], inteso come la vera radice dell’identità

ispanoamericana."1

Nel romanzo grafico di de Isusi si possono ritrovare, in questo senso, molteplici

spunti di riflessione sulla decolonizzazione dell’America meridionale. Inoltre, il fatto non

trascurabile che l’autore, e il protagonista che egli sceglie per la sua opera, siano europei, fa

in modo che l’opera tocchi il tema del rapporto tra i cosiddetti Nord e Sud del mondo

riflettendo anche sulla posizione in cui la modernità coloniale pone gli occidentali. Se, infatti,

la realtà della modernità coloniale è innegabile dal punto di vista di chi è costretto a subirla

(pur nella soggettività delle possibili reazioni), essa è spesso un rimosso nella cultura di

coloro che si trovano in posizione dominante. Il contatto con l’altro colonizzato, e con le

infinite sfaccettature della società (post)coloniale offrono, quindi, l’opportunità di una

riflessione che investe anche, e con forza, le vite di coloro che vivono nel Nord del mondo,

sotto un duplice aspetto: da una parte, perché permettono di comprendere le ragioni profonde

di ciò che la storia ha configurato come una posizione di privilegio, e dall’altra perché aiutano

a comprendere gli effetti altrettanto devastanti che la modernità coloniale ha avuto, e sta

avendo, sulle società occidentali. Come scrive Flavio Fiorani:

Modernità e colonialismo sono fenomeni reciprocamente dipendenti: l’Europa

divenne ‘centro’ del sistema-mondo proprio in quanto la Spagna istituisce le sue colonie

americane come ‘periferia’. Elaborare una nuova ragione postcoloniale significa quindi

ristabilire il vero significato del nesso geopolitico tra conoscenza e potere come elemento

fondatore della modernità, svelando quanto la relazione gerarchica soggetto-oggetto creata dal

pensiero moderno sia incapace di dar conto delle molteplici declinazioni dello scambio

bidirezionale che si è instaurato tra dominatori e dominati.2

I.2. La pipa de Marcos: strategie decolonizzanti ne La Realidad degli

zapatisti.

I.2.1. La trama.

1 Fiorani, Flavio, “Postcoloniali noi?”, cit., p. 220.

2 Ivi, p. 225.

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La pipa de Marcos è il primo volume dei quattro che compongono Los viajes de Juan sin

tierra. In questo volume Vasco, il protagonista, arriva nel villaggio La Realidad (realmente

esistente) in cerca dell’amico Juan, del quale non ha notizie da anni. Dopo un breve incontro

con la polizia messicana, senza conseguenze, giunge nel villaggio, nel quale vivono, oltre alla

comunità indigena, una maestra di nome Silvia e quattro volontari dei campamentos por la

paz, di cui uno, di nome Ernesto, si comporta da responsabile per conto dell’EZLN, Esercito

Zapatista de Liberación Nacional.

Fin da subito Vasco si ritrova nel mezzo di una rete di segreti e intrighi, tessuti

soprattutto da Ernesto, che sospetta la presenza di spie nell’accampamento, e cerca di

utilizzare Vasco come propria spia per scoprirle, utilizzando come esca il fatto di essere a

conoscenza di cosa ne è stato di Juan; tutto ciò millantando contatti con il comando

dell’EZLN e trascorsi quanto mai avventurosi. Tutti questi segreti sono resi ancor più fitti

dalle regole ferree dei campamentos por la paz: il divieto cioè di parlare con gli abitanti della

comunità (nonché di bere alcolici). L’unica altra persona della comunità con cui Vasco riesce

ad avere qualche rapporto, sempre connotato comunque dall’incertezza e dalla difficoltà di

distinguere tra informazioni vere e inventate, è Olivio, un ragazzo tuttavia sicuramente più

simpatico e tranquillo di Ernesto.

Il lavoro di controspionaggio (mai preso troppo seriamente) di Vasco non porta

tuttavia da nessuna parte, se non a scoprire piccole e innocue stranezze dei volontari. Per il

resto, il tempo è scandito dalle frequenti visite dell’esercito regolare messicano (La Realidad

si trova al confine della zona controllata dalle comunità Zapatiste), che sconfinano, violando

gli accordi di San Andrés1, con il solo scopo di far percepire arrogantemente la propria

presenza. Durante queste visite agiscono i volontari stranieri, fotografando e documentando,

agendo da scudi umani e da testimoni, per di più da paesi “ricchi”: verso di loro, e davanti a

loro, l’esercito deve quindi mantenere un atteggiamento molto più prudente di quello che

avrebbe con le popolazioni indigene.

Tuttavia accade un evento che modifica totalmente il corso della vicenda: Ernesto

porta tutti i volontari a vedere una nuova turbina idroelettrica impiantata in un fiume poco

1 Gli accordi di San Andrés, del 1995/1996, stabiliscono una serie di accordi politici e militari tra il governo

messicano e le comunità zapatiste. Cfr. Le Bot, Yvon e Marcos, Il sogno zapatista, trad. di Tania Gargiulo e

Luisa Dalla Fontana, Milano, Mondadori, 1997, pp. 179 e 275.

12

lontano, lasciando così il villaggio privo di osservatori stranieri, tranne Vasco, che decide di

rimanere a La Realidad. Proprio in questo frangente arrivano tre elicotteri dell’esercito

messicano, e atterrano con un forte dispiegamento di soldati e intenzioni evidentemente

bellicose nei confronti degli abitanti (tutti civili) del villaggio. Vasco, dopo aver tratto un

bambino in salvo dalla caduta di un tetto di lamiera causata dagli elicotteri, si trova a dover

risolvere la situazione, e, seppur in preda al panico, costruisce una finta telecamera (con

scatole e lattine), che, dalla distanza a cui si trovano gli elicotteri, viene scambiata per il capo

dell’operazione militare (evidentemente un politico, vestito da civile) per una telecamera

vera, che sta probabilmente trasmettendo le immagini a qualche televisione. Preoccupato per

l’eventuale diffusione della notizia di quell’invasione (che viola i già citati accordi di San

Andrés), ordina alla truppa di tornare sugli elicotteri e di andarsene, non prima di aver detto al

megafono che si trattava di un’operazione di sopralluogo per la consegna di aiuti umanitari.

Al ritorno di Ernesto, Vasco lo accusa di essere la spia e di aver volutamente portato

via i volontari stranieri. La risposta di Ernesto è ancora una volta poco chiara, ma provoca in

ogni caso la sua incarcerazione da parte della comunità de La Realidad. Poco dopo giunge al

villaggio una delegazione della comandancia dell’EZLN, naturalmente con tutti i volti

occultati dai passamontagna, con a capo il maggiore Moisés (anch’egli realmente esistente).

Dopo aver ringraziato i volontari e Vasco per l’aiuto dato alla comunità, li richiama

all’ordine, cioè ad attenersi al loro compito di osservatori. Vasco gli chiede notizie di Juan,

ma Moisés non può rispondere alle sue domande per via della segretezza su cui si basa

l’EZLN (e anche del fatto che i membri dell’EZLN non conoscono l’uno il nome vero

dell’altro).

Vasco si rassegna a doversene andare senza aver scoperto nulla, ma l’ultima notte

decide di regolare un’ultima piccola questione: una volontaria dell’accampamento, Natalia,

perdutamente innamorata della figura di Marcos, lo aspetta ogni notte per riconsegnargli la

sua pipa, che lei avrebbe ritrovato poco fuori dal villaggio (ma che in realtà appartiene a

Vasco, e prima a Juan). Vaco si traveste perciò da Marcos, per darle la soddisfazione di aver

incontrato il suo eroe. Al termine dell’incontro, però, Vasco/Marcos scopre accanto a sé un

altro Marcos. Una volta smascheratosi, i due parlano, e Marcos gli racconta finalmente cosa

ne è stato di Juan, entrato nell’EZLN ma presto uscitone perché inadatto a quello che è,

dopotutto, un esercito, che agisce e vive come un esercito, seppure sui generis, e poi partito

per il Guatemala.

13

Vasco si congeda dal secondo Marcos, il quale però, dopo pochi istanti, incontra un

terzo Marcos. Dopo un breve dialogo il secondo Marcos si smaschera, e si rivela essere

Olivio. Il terzo Marcos, invece, tiene il suo passamontagna, contento di aver ritrovato la sua

pipa.

I.2.2. Strategie di comunicazione (e non comunicazione).

I.2.2.1. Dal Chiapas ai media internazionali

Il tema principale de La pipa di Marcos è indubbiamente la comunicazione, intesa a vari

livelli, in ognuno dei quali agiscono non solo elementi individuali, ma anche elementi sociali

e contestuali. Si potrebbe dire che il fumetto di de Isusi offra una rappresentazione narrativa

dell’uso complesso che il movimento zapatista ha fatto, nel corso degli anni, della

comunicazione verso l’esterno, un uso che si basa su un’appropriazione sovversiva dei metodi

di informazione capitalistici. Il concetto di appropriazione sovversiva deriva dalla critica

postcoloniale, e si può definire come: “A term used to describe the ways in which post-

colonial societies take over those aspects of the imperial culture – language, forms of writing,

film, theatre, even modes of thought and argument such as rationalism, logic and analysis –

that may be of use to them in articulating their own social and cultural identities.”1 Si vede fin

da subito come l’ambito della comunicazione sia il più interessato da questo fenomeno,

infatti: “Appropriation may describe acts of usurpation in various cultural domains, but the

most potent are the domains of language and textuality. In these areas, the dominant language

and its discursive forms are appropriated to express widely differing cultural experiences, and

to interpolate these experiences into the dominant modes of representation to reach the widest

possible audience.” 2

Il movimento Zapatista ha infatti, nella sua storia, una lunga serie di esempi in cui si

è “appropriato” di tecniche occidentali per dare alle proprie idee la più larga diffusione

possibile, con incontri “intercontinentali”, e un uso ampio del web come mezzo di

comunicazione: questo (insieme, naturalmente, alla natura delle idee espresse), fa sì che il

1 AA.VV, Key Concepts in Postcolonial Studies, New York, Routledge, 1998, p. 19.

2 Ibidem.

14

movimento zapatista sia assai famoso, tanto da diventare oggetto di un vero e proprio mito,

del quale Marcos è senza dubbio il protagonista, un mito che, ricalcando quasi le orme di

Ernesto Che Guevara, è diventato protagonista anche di una sua oggettistica, come soggetto,

ad esempio, di bandiere e magliette (nel fumetto viene scherzosamente definito Marquitos

superstar1). Nonostante il protagonista di questo mito si schermisca riguardo a questi

argomenti, è tuttavia evidente come questo mito sia stato sapientemente costruito, giocando

anche su una serie di simboli, primo fra tutti il passamontagna: in questo senso si può dire che

l’appropriazione messa in atto dal movimento zapatista nei riguardi della comunicazione

verso l’esterno non disdegni di arrivare fino al marketing.2 Vasco si esprime così nel fumetto

di de Isusi: “Le ha ganado al gobierno la batalla mediática con toda esa parafernalia

romántica del libertador enmascarado que fuma en pipa.”3

La pipa di Marcos da anche il titolo al fumetto di de Isusi, che si dimostra, quindi,

oltre che conscio della portata simbolica della sua narrazione, anche vittima,

consapevolissima, della narrazione zapatista. Lo stesso accade riguardo al simbolo del

passamontagna che, perennemente indossato dai comandanti, oltre allo scopo evidente di non

farli riconoscere, fa anche sì che chiunque si possa identificare con i comandanti zapatisti.

Questi due simboli dello zapatismo, e il loro gioco di specchi, riecheggiano nelle pagine finali

de La pipa de Marcos, in cui assistiamo alla comparsa di ben tre Marcos, due dei quali si

riveleranno poi falsi (e del terzo possiamo solo ipotizzare sia quello vero). Quando anche il

secondo Marcos si è rivelato essere Olivio, assistiamo a questo dialogo, tra lui e il Marcos

rimasto: “-Quería saber que se siente siendo Marcos.- -¿Y qué se siente?- -Mm... para mi que

es como la pipa. Es cálido pero raspa.- -Bueno... A todos nos toca ser Marcos en algun

momento.-”4

Nella realtà, questa celebrità arriva a colpire persino i protagonisti di altri movimenti

rivoluzionari, tanto che un guerrigliero delle FARC colombiane (peraltro dalle idee molto

diverse da quelle dell’EZLN, e per le quali può valere ciò che si è detto in 1.1 riguardo a

Sendero luminoso) arrivò a dichiarare: “Hanno combattuto per dodici giorni, occupando per

poche ore una manciata di remote borgate messicane. Noi ci battiamo da oltre trent’anni,

1 de Isusi, Javier, La pipa de Marcos, Bilbao, Astiberri, 2004, p. 41. D’ora in poi ci si riferirà a questo volume

come PdM. 2 Cfr. Le Bot, Yvon e Marcos, Il sogno zapatista, cit. Tutte le informazioni e le analisi sul movimento zapatista

presenti in questo capitolo devono molto a questo volume. 3 PdM, p. 41.

4 Ivi, p. 141.

15

controlliamo vaste regioni del territorio nazionale e colpiamo dove vogliamo. Eppure nessuno

si interessa alla nostra attività, mentre la loro azione ha suscitato un’ondata di simpatia in

tutto il mondo.”1

Questa celebrità ha come prima conseguenza il costante afflusso di volontari da tutto

il mondo nei cosiddetti campamentos por la paz, la cui utilità viene illustrata chiaramente nel

fumetto di de Isusi: fungere da scudo umano e da occhio e voce internazionale capace di

osservare e denunciare eventuali crimini dell’esercito messicano. Silvia, che nel fumetto è un

ponte saggio e tranquillo tra Vasco e il complesso gioco comunicativo de La Realidad, si

esprime con queste parole: “La triste realidad es que al mundo le da igual que maten a veinte

tojolabales, pero si se toca un pelo de un suizo o de un canadiense, lo que ahora no es más

que un conflicto ‘interno’ puede empezar a ser ‘externo’.”2 Nelle parole dello stesso Marcos:

“Quanto alle comunità, bisogna capire che il contatto con questo “zapatismo internazionale”

rappresenta soprattutto una protezione grazie alla quale esse sono in grado di resistere. È una

protezione più efficace dell’EZLN, l’organizzazione civile o lo zapatismo nazionale perché,

nella logica del neoliberismo messicano, si punta molto sull’immagine internazionale.”3 Ciò

che troviamo qui è un esempio evidente di ciò che può essere definito appropriazione

sovversiva: si riconosce la presenza di un fenomeno, per quanto contrario esso possa essere

alla decolonizzazione (in questo caso l’interesse per l’immagine internazionale del Messico

neoliberista), e ci si arrende ad esso, ma solo nella misura in cui lo si usa per i propri scopi.

Si innesca così un circolo virtuoso mediante il quale l’osservatore straniero,

richiamato anche grazie alla celebrità raggiunta dal movimento zapatista, viene usato proprio

in quanto osservatore privilegiato (perché straniero e, spesso, proveniente da paesi del primo

mondo), capace di diffondere ancora di più le notizie di ciò che accade in Chiapas, in una

dialettica che lo vede contemporaneamente oggetto e soggetto di processi di comunicazione e

creazione di immaginario. Questa particolare dialettica è rappresentata in una delle tavole de

La pipa de Marcos, dove Natalia, una ragazza dei campamentos, e un soldato a bordo di un

blindato si scattano reciprocamente una fotografia, documentando uno la presenza dell’altro.4

1 Le Bot, Yvon e Marcos, Il sogno zapatista, cit., p. 86.

2 PdM, p. 34.

3 Le Bot, Yvon e Marcos, Il sogno zapatista, cit., p. 181.

4 PdM, p. 68.

16

Ma la rappresentazione più emblematica dell’intreccio di strategie comunicative che

possiamo trovare nel volume è nella dinamica dell’assalto dell’esercito a La Realidad, nel

momento in cui il villaggio si trova privo di osservatori internazionali (che sono stati portati

via da Ernesto). In questo frangente, l’esercito messicano non si fa scrupoli di attaccare il

villaggio, abitato solo da civili, con tre elicotteri. L’operazione sembra controllata da due

persone, che vengono caratterizzate da de Isusi come un membro dell’esercito di alto grado e

un responsabile politico, senza divisa. Se il primo è evidentemente privo di ogni scrupolo, il

secondo è la rappresentazione della complessa strategia messa in campo dal governo

messicano nei confronti della ribellione chiapaneca, basata su aggressioni nascoste e

manifeste offerte di pace.1 Egli, infatti, si mostra d’accordo con l’attacco, seppur con il volto

rigato da gocce di sudore, fino al momento in cui non vede, in lontananza, la silhouette di un

uomo con una telecamera in spalla. Vasco infatti, unico “straniero” rimasto a La Realidad,

dopo aver salvato un bambino dal crollo di un tetto causato dagli elicotteri, si trova nella

situazione di dover fare qualcosa, e costruisce un simulacro di telecamera con due scatole,

lattine e un lungo giunco per fare l’antenna. Alla visione di questo ipotetico cameraman il

responsabile politico entra nel panico, rifiuta la proposta del capo militare di aggredire Vasco

e togliergli la camera e urla al militare: “-¿Pero no vio la antena? ¿Y quién nos asegura que

no está retransmitiendo ahorita? […] Esta mismita noche nos sacan en los noticieros de medio

mundo...”2 Dopodiché, parlando al megafono, dichiara che gli elicotteri sono arrivati per

un’ispezione per future distribuzioni di aiuti umanitari, e ordina ai militari di andarsene.

Questo passaggio mette in luce diversi aspetti della modernità, e della sua variante

particolare che si è costruita in Chiapas. L’azione di Vasco è indubbiamente molto

“fumettistica”: l’improbabilità della riuscita di un simile tentativo nella realtà, nonché il

tempo brevissimo (tra una vignetta e l’altra) in cui il protagonista costruisce la finta

telecamera fanno parte, in maniera assolutamente consapevole, di un mondo in cui all’eroe

del fumetto sono concessi abilità e presenza di spirito fuori dal comune. Tuttavia, ciò che è

interessante notare è lo strumento che l’eroe di un fumetto ambientato nel Chiapas del XXI

secolo deve usare per salvare il villaggio: un simulacro di telecamera. Corto Maltese, al quale,

come vedremo nel secondo capitolo, de Isusi si rifà di continuo, avrebbe usato ben altri

mezzi, per esempio una mitragliatrice (come effettivamente fa, in una situazione simile)3. Ma

il feticcio della comunicazione è ben più efficace, come dimostra Marcos stesso, a cui Vasco

1 Le Bot, Yvon e Marcos, Il sogno zapatista, cit., p. 169.

2 PdM, p. 79.

3 Cfr. Pratt, Hugo, “Samba con Tiro Fisso”, in Suite Caribeana, Milano, Rizzoli, 1990, p. 75.

17

si sostituisce momentaneamente come eroe mitico e ponte verso il mondo. I ruoli di ponte e di

finestra sono, infatti, quelli a cui Marcos dichiara di tenere di più.1

Se come arma la telecamera si dimostra più efficace di altre, bisogna tuttavia

osservare come essa porti solo ad una strana mezza vittoria: gli elicotteri se ne vanno, ma

nulla gli impedirà di tornare da un momento all’altro, se non la presenza di eventuali occhi

occidentali, che comunque non li sconfiggeranno, ma potranno solo tenerli sotto controllo. Se

quella in mano a Vasco fosse stata una vera telecamera, in fondo non avrebbe ripreso nulla di

importante, se non la preparazione di ipotetici lanci umanitari: il capo politico della missione,

insomma, può dichiararsi anch’esso vincitore. In tutto questo, le uniche vittime sono gli

abitanti, indios, de La Realidad: il bambino che ha rischiato la vita, e la comunità che, dopo il

rischio, si ritroverà a dover riparare le case danneggiate. Così nella realtà del Chiapas: gli

zapatisti hanno avuto varie strane mezze vittorie, che li hanno portati alla fama internazionale.

Ma anche il governo messicano, rinunciando a vere azioni di guerra (ma non mantenendo gli

accordi di pace) continua a tenere le comunità in una situazione di “pace armata” che rende

estremamente difficile la progettazione di un qualunque futuro.2 Nel mentre si mantiene una

continua battaglia comunicativa, in cui gli stranieri giocano un ruolo fondamentale.

I.2.2.2 I volontari stranieri

I volontari stranieri che agiscono ne La pipa de Marcos sono tre: un italiano, Giorgio; un

ragazzo di nome Gorka e Natalia, una ragazza proveniente dall’America latina (utilizza il

voseo), ma evidentemente bianca (particolare che denota una probabile origine benestante).

Questi tre personaggi, sicuramente secondari nella vicenda, rispondono ad altrettanti

stereotipi. Giorgio è, infatti, un hippie con i dreads, pacifista, il che lo porta a continue

discussioni con Gorka, più aggressivo, riguardo all’uso della violenza. Natalia si trova lì,

invece, per un solo motivo: è innamorata della figura di Marcos, e darebbe tutto pur di poterlo

incontrare. Si può osservare come i tre personaggi siano stati richiamati da tre aspetti

fondamentali dello zapatismo, quelli che ne compongono l’immagine sfaccettata: l’essere un

movimento armato (e vincente nelle sue, pur poche, azioni militari), la teorizzazione di una

1 Le Bot, Yvon e Marcos, Il sogno zapatista, cit., p. 113.

2 Ivi, p. 201.

18

forma di democrazia partecipativa e non violenta, e l’aura mitica del suo capo (la “strategia

comunicativa” del movimento). Scrive Le Bot:

La forza degli zapatisti è la non violenza, la loro originalità sta nell’avere inventato

un nuovo rapporto fra violenza e non violenza, consistente nel tenere viva la tensione senza

rimbalzare nella violenza. La crescita di potenza di una violenza contenuta e repressa per

decenni, o meglio per secoli, [la violenza scatenata dalle angherie subite dalla popolazione

maya del Chiapas] si traduce in una strategia di non violenza armata messa al servizio della

produzione di significato, dell’invenzione simbolica e politica.1

Questa tensione, non priva di una certa indeterminatezza, risulta estremamente attraente agli

occhi dell’opinione pubblica internazionale (o perlomeno ad una parte, schierata, di essa), ed

è capace di attrarre sia persone come Gorka e sia persone come Giorgio. Per tornare al

fumetto, Silvia si esprime così: “Aquí llega todo tipo de gente, desde el misionero al

guerrillero pasando por románticos y acabados” e ancora “-Los zapatistas han aparecido

como una utopía hecha realidad.- -¿Tanto?- -Hombre, desde luego la revolución más

coherente que he conocido, y también la más inteligente, ha sabido administrar bien la

violencia.-”2

Tuttavia, una tale risonanza internazionale ha dei rischi, primo fra tutti quello di una

dipendenza dagli aiuti esterni, che potrebbe comportare una colonizzazione di un tipo

sicuramente diverso da quello imperialistico, ma comunque legata allo svuotamento di un

senso locale della rivolta, e del nuovo tipo di democrazia che essa porta con sé, in favore

degli stimoli internazionali. In altre parole, è come se stessimo parlando di una bilancia, in cui

i due piatti devo essere equilibrati, altrimenti si incappa in due diversi rischi: l'isolazionismo

(e la conseguente sconfitta), oppure in una situazione che nel libro di Le Bot viene definita

una “locanda spagnola”, un luogo in cui ognuno va e porta ciò che vuole, senza badare al

luogo in cui è: “Se l’attenzione internazionale avesse soltanto la funzione di fare da scudo,

potrebbe nascere la tentazione di assumere atteggiamenti un po’paternalistici, di protezione e

di assistenza, ma io credo che lo zapatismo possa evitare questo rischio in quanto crea una

possibilità di ricomposizione.”3 Da una parte, quindi, si cerca di fare in modo che con i

volontari internazionali ci possa essere uno scambio, e non si riceva soltanto: “Lo zapatismo

resiste perché riesce a scogliere le vecchie categorie, e perché è in grado di trasformare

1 Le Bot, Yvon e Marcos, Il sogno zapatista, cit., pp. 85-86.

2 PdM, p. 41.

3 Le Bot, Yvon e Marcos, Il sogno zapatista, cit., p. 181.

19

coloro che lo avvicinano in misura pari o superiore rispetto a quanto questi ultimi riescano a

trasformarlo.”1 Su quella che Le Bot definisce come una possibilità di ricomposizione,

Marcos si esprime così: “Forse lo zapatismo li ha solo aiutati a ricordarsi che vale la pena di

lottare, che è necessario.”2

Dall’altro, i contatti tra i volontari e le comunità vengono limitati, come a

proteggere un “cuore” che deve rimanere intatto. Su questo, Marcos si esprime chiaramente in

più punti dell’intervista: “[il movimento internazionale] Non possiamo chiamarlo realmente

zapatismo, lo zapatismo è il punto in comune, o il pretesto per una convergenza.”3 Altrove:

“Per noi è importante essere lucidi su questo punto: non dobbiamo tentare di creare una

dottrina universale, di metterci alla guida di una nuova internazionale o cose del genere.”4 Nel

fumetto questo concetto è espresso chiaramente dal maggiore Moisés, accorso a La Realidad

per parlare con i volontari dopo l’attacco dell’esercito: “Ustedes no vinieron a visitar turbinas

ni a desenmascarar traidores... ni siquiera vinieron a solucionar nuestros problemas. [...]

Señores, su mision es simplemente estar presentes; no deben dejar nunca vacío el

Campamento por la Paz...Ya vieron lo que puede ocurrir. Vinieron como observadores, y

como tales les necesitamos; por favor, no quieran convertirse en protagonistas.”5 D’altra

parte, lo stesso Vasco (“protagonista”), rinuncia al suo ruolo di giudice nel rimettere ogni

decisione riguardo ad Ernesto nelle mani della comunità (dopo aver però dato all’ipotetico

traditore un, molto classico, pugno).

I.2.2.3. Il controllo delle informazioni

Se nel fumetto troviamo, quindi, ben delineata la strategia decolonizzante zapatista per quanto

riguarda i volontari stranieri, troviamo anche due esempi di controllo delle informazioni, e del

modo in cui di queste i personaggi facciano un uso che, ancora una volta, ci riporta

all'appropriazione dei metodi imperialistici, seppur in modi assai diversi. Il primo esempio è

Ernesto, che nel corso di tutta la vicenda ostenta comportamenti paranoici da

controspionaggio, basati sulla sfiducia verso tutti e sulla necessità di un controllo spietato

delle informazioni, usate come moneta di scambio: propone infatti a Vasco di controllare, per

1 Ivi, p. 80.

2 Ivi, p. 181.

3 Ibidem.

4 Ibidem.

5 PdM, p. 90.

20

lui, i movimenti degli altri volontari, in cambio di informazioni su Juan (che probabilmente

non ha, ma millanta di avere). Come giustificazione per questo suo comportamento porta la

condizione di guerra in cui il Chiapas si trova, e la necessità di farvi fronte comportandosi

come un vero esercito. Egli, tuttavia, cade vittima delle sue stesse paranoie: sebbene il suo

comportamento non venga spiegato chiaramente, Ernesto mette infatti a rischio La Realidad

privandola di osservatori internazionali, ed è probabilmente in contatto con l’esercito

messicano, che infatti compie l’attacco proprio in quel momento. Tuttavia, da quello che

riferisce di lui il maggiore Moisés dopo averlo interrogato, non risulta chiaro se è egli stesso il

traditore o se, appunto, è solo talmente paranoico da aver tradito involontariamente. In ogni

caso, ciò che è interessante è che Ernesto è un esempio di appropriazione totale dei metodi di

un esercito (fino al ridicolo di “potenziare la sua visione notturna”), priva però dell’elemento

di sovvertimento delle logiche imperialistiche che sottostanno ai modi in cui gli eserciti

utilizzano le informazioni in loro possesso. Pur ostentando un’ammirazione totale per

Marcos, si può dire che Ernesto cade nell’errore di trasformare lo zapatismo in ciò che

Mignolo chiama un “abstract universal”, qualcosa in nome del quale si può scendere a

qualunque bassezza.

Questo non significa che, sia nei fatti che nel fumetto, l’EZLN non si comporti come

un esercito, di cui porta anche il nome. Al contrario, tra i suoi metodi annovera, come si è

detto, un uso assai rigido delle informazioni riguardanti l’esercito stesso che filtrano verso

l’esterno. Ne La pipa di Marcos, questo si riflette nel comportamento tutt’altro che aperto di

Olivio nei confronti di Vasco, ma nemmeno il maggiore Moisés si dimostra in grado di dare a

Vasco nessuna informazione riguardo a Juan. Olivio, da parte sua, gioca con Vasco nel dargli

una serie di informazioni ingannevoli (prima fra tutte il suo stesso nome, il che provoca non

pochi fraintendimenti): non c’è esitazione, quindi, nell’utilizzare il controllo della

comunicazione e anche, in certa misura, l’inganno nei confronti di elementi esterni. Dove

possiamo individuare, quindi, la differenza tra l’abstract universal di Ernesto e

l’appropriazione sovversiva dei metodi imperialistici del controllo delle informazioni messa

in campo dall’EZLN (nell’opera di de Isusi prima, e nella realtà in secondo luogo)?

In primo luogo, dal fatto che il gioco del mistero, se è solo un gioco, può avere una

conclusione: così è da parte di Olivio nei confronti di Vasco, nel momento in cui Vasco si

conquista, con le sue azioni, la fiducia, personale prima ancora che politica (al contrario dello

spionaggio di Ernesto, che non è assolutamente un gioco, e non ha mai fine). In secondo

21

luogo, l’atteggiamento umano con cui questo gioco viene portato avanti, ossia mantenendo un

punto fisso nella propria individualità, come vediamo nel corso di un dialogo che si ripeterà,

variato, altre volte nel corso degli altri volumi dell’opera. Vasco chiede ad Olivio: “-¡A ver si

vas a ser tu el que quiere ser espía!- -Ja ja ja... ¡No!- -Pues a ver, dime, ¿Qué te gustaría ser?-

-Yo sólo quiero ser lo que ya soy.-”1

Lo scopo dell’occultamento delle informazioni, dei cambi di nome (i membri

dell’EZLN si scelgono un nome nuovo, e non conoscono i rispettivi nomi originari), dei

segreti e dei passamontagna, quindi, non è più quello di cambiare identità, di fingere di essere

qualcuno che non si è, ma, al contrario, quello di proteggere il cuore della propria identità dal

gioco delle interpretazioni esterne, almeno fino a che queste sono poco informate, o in mala

fede, o fuorviate dalla comunicazione di massa. Non si cambia nome, quindi, per poterne

avere un altro, ma per custodire il proprio vero nome e proteggerlo dallo sfruttamento,

esattamente come ha fatto Marcos con la sua vera identità, anche dopo che essa è stata

rivelata, in maniera probabilmente realistica, da parte del governo Messicano, con l’intento di

rompere il gioco di specchi creato dal mistero. Ma quel gioco è continuato, e Marcos

continua, effettivamente, a proteggere la sua vera identità dagli occhi del mondo, ma anche a

proteggere lo zapatismo dalla sua vera identità, rifiutandosi di diventare un leader pur

continuando ad essere un simbolo.

Una dialettica simile la si può ritrovare anche nella stessa esistenza di quello che,

per sua stessa definizione, è un esercito a tutti gli effetti, e in quanto esercito non è certo ne un

organo democratico, ne esente da gerarchie, ordini e un certo grado di imposizioni, insomma

a tutta una serie di compromessi con metodi imperialistici. Ma la differenza tra l’EZLN e un

qualunque esercito è nel precetto di comandare obbedendo (mandar obediciendo) sempre alle

comunità che protegge e ai loro metodi democratici, di essere cioè strumento e non scopo, e

con l’obbiettivo, un giorno, di non esistere più, di terminare cioè la propria esistenza in

quanto strumento di appropriazione di logiche altrui, allo scopo di sovvertirle.2 Ma ciò può

accadere solo nel momento in cui queste logiche perdono la loro egemonia culturale, sociale

ed economica. Finché ciò non accade, bisogna fare i conti con questa egemonia,

trasformandola: rifacendosi al concetto di egemonia in Gramsci: “Ogni elemento imposto sarà

1 PdM, p. 86.

2 Le Bot, Yvon e Marcos, Il sogno zapatista, cit., p. 245.

22

da ripudiarsi a priori? Sarà da ripudiare come imposto, ma non in se stesso, cioè occorrerà

dargli una nuova forma che sia propria del gruppo dato.”1

Che questo discorso trovi un’applicazione così forte proprio nell’ambito della

comunicazione, nell’opera di de Isusi, è assai evocativo di come il discorso della conoscenza,

della comunicazione, dell’informazione come strumento e dell’egemonia culturale stia al

cuore del rapporto tra il Sud America e la modernità (post)coloniale. Mignolo conclude una

conferenza del 2010 a Bogotà con queste parole:

El punto fundamental de lucha y de ataque es el control del conocimiento y por

consiguiente la posibilidad de descolonizar la subjectividades que han sido y siguen siendo

controladas por quien controla el conocimiento, puesto que si no se controla el conocimiento, si

no se pueden establecer y reproducir gerarquías de inferioridad, ya no es posible dominar,

porque no se puede dominar a un egual. Para poder controlar y para poder dominar es necesario

hacerlos inferiores, y de ahì el concepto fundamental de desenganche, delinking: el punto

fundamental de los procesos de descolonización es salir de las reglas del juego [...] y construir

otros mundos paralelos y coexistentes.2

La differenza tra Olivio e Ernesto, e tra la configurazione attuale dell’EZLN e un qualunque

esercito, sta quindi nell’orizzonte in cui le regole del gioco della conoscenza e

dell’informazione vengono utilizzate: un orizzonte che, nel caso di Olivio e dello zapatismo,

deve per forza consistere nello sganciarsi, un giorno, da quello stesso gioco, nel lavorare per

non essere più utili come strumento, e per poter tornare alla propria vera identità, occultata e

difesa nell’epoca della lotta.

I.3. Una piccola decolonizzazione privata: La isla de Nunca Jamás.

I.3.1. Riassunto del secondo volume, La isla de Nunca Jamás.

Seguendo le scarse notizie riguardanti Juan che gli sono state fornite da Marcos, Vasco arriva

in Guatemala, sul lago Atitlán, dove Paola, una ragazza italiana, gli riferisce che Juan, dopo

1 Gramsci, Antonio, Quaderni dal carcere, quaderno 16, 1933-1934: 21 bis, Apud Lo Piparo, Franco, Lingua

intellettuali egemonia in Gramsci, Roma-Bari, Laterza, 1979, p. 121. 2 Evento Accademico per “Sentir-Pensar-Hacer”, realizzato nel novembre 2010 nella Facultad de Artes ASAB,

della Universidad Distrital Francisco José de Caldas. Bogotá, disponibile sul sito

http://www.youtube.com/watch?v=mqtqtRj5vDA , consultato il 28/05/2013, trascrizione mia.

23

una breve permanenza nella sua casa, stanco dell’afflusso di turisti ha deciso di proseguire per

il Nicaragua. Paola regala poi a Vasco una collana con un proiettile esplosivo e un sacchettino

con un estratto secco di funghi allucinogeni.

Una volta in Nicaragua viene indirizzato sull’isola di Ometepe, nelle acque del lago

Nicaragua, dove potrebbe essersi stabilito Juan. Sbarcato, Vasco si dirige verso un

hotel/fattoria, la ‘Finca Mariana’, ma si perde, solo, nelle foreste dell’isola. Ormai nel cuore

della notte, affamato, si ferma in una radura, dove nota un cane che mangia alcuni funghi

selvatici. Credendoli commestibili, li ingerisce anche lui, ritrovandosi così immerso in un

lungo e inquietante viaggio allucinatorio, dal quale esce solo al mattino, grazie all’aiuto di un

giovane di nome Chico.

Chico lo porta nella casa in cui vive con altri ragazzi come lui, fuggiti anni prima da

un orfanotrofio, la fondazione Holly Roger. Questi ragazzi cercano di coinvolgere Vasco in

una rapina ai danni dell’orfanotrofio stesso, descritto da loro come dominato da un malvagio

direttore: Don Jaime. Nel piano, Vasco avrebbe un ruolo da protagonista in quanto bianco, e

perciò sicuramente ben accetto dal direttore. Vasco tuttavia rifiuta e si dirige verso la Finca

Mariana, dove trova alloggio e rincontra un giovane scrittore argentino che aveva conosciuto

in Nicaragua, Héctor, appassionato di storie di mistero e terrore, e una simpatica ragazza, che

Vasco chiama Wendy, che gestisce l’albergo.

Vasco apprende che Juan è effettivamente passato dall’isola, dove ha lavorato per un

certo periodo come insegnante nella Holly Roger. Dirigendosi verso l’orfanotrofio, si imbatte

in Chico e i suoi amici che fuggono dopo aver rapinato il direttore, inseguiti dal fuoristrada

dei sorveglianti, che, aizzati dal direttore stesso, non si fanno scrupolo di sparare con l’intento

di uccidere. I ragazzi però riescono a rifugiarsi nella foresta, anche grazie all’aiuto di Vasco,

che fa esplodere una gomma del fuoristrada. Don Jaime, dopo aver tentato inutilmente di

corrompere la polizia locale affinché arresti i ragazzi, fa esplodere per vendetta la loro casa.

Nonostante il successo della rapina, i ragazzi si vedono quindi spinti ad una nuova

vendetta, a causa dall’atto di Don Jaime, e Vasco inizia a capire che tra i ragazzi, e soprattutto

tra Chico, e il direttore sia accaduto qualcosa di misteriosamente grave, che probabilmente ha

coinvolto anche Juan. Viene così preparato un nuovo piano, questa volta in concomitanza con

la visita alla Holly Roger del reverendo Hooker, capo della congregazione religiosa che

24

finanzia l’orfanotrofio con soldi provenienti da numerosi donatori statunitensi, che saranno

anch’essi presenti alla cerimonia.

Il giorno del ricevimento Vasco e Wendy si fingono giornalisti, e vengono invitati a

partecipare all’evento. Una volta dentro, Wendy fa in modo che Chico e i ragazzi possano

entrare, mentre Vasco, non visto, mette la polvere di funghi allucinogeni nel cibo di Don

Jaime. Chico sale quindi sul palco e racconta a tutti i presenti la sua storia, il suo segreto:

durante la guerriglia degli anni ’80 tra il Fronte Sandinista e i Contras finanziati da denaro

americano, Don Jaime serviva da ponte tra i finanziatori e i guerriglieri, che venivano pagati

per le vittime che facevano tra i civili. Chico, bambino, assistette involontariamente a uno di

questi incontri; venne però scoperto e violentato da uno dei contras, sotto gli occhi di Don

Jaime che non fece nulla, e, forse, prese parte alla violenza. Successivamente, Don Jaime

cercò, con un qualche successo, si far credere a Chico che fosse tutto frutto della sua fantasia,

e che non era mai successo nulla, finché non fu proprio Juan, parlando con Chico dopo alcuni

anni, a far riemergere gli avvenimenti e a far cambiare visione a Chico, che fuggì insieme ai

suoi amici. In seguito a questo episodio, Juan venne cacciato e si diresse verso l’Ecuador.

I padrini assistono scandalizzati a questo racconto, e una volta terminato si scagliano

contro Hooker e Don Jaime chiedendo spiegazioni. Quest’ultimo però è sconvolto, oltre che

dagli avvenimenti, anche dai funghi allucinogeni, e si avventa fisicamente contro Chico,

peggiorando la sua situazione. Lui e Hooker vengono quindi arrestati, e anche se sull’esito del

processo nessuno si fa troppe illusioni, la fondazione e l’orfanotrofio sono costretti a

chiudere. Dopo questa vittoria, Vasco saluta e si dirige, insieme ad Héctor, verso Quito, dove

spera di trovare altre notizie di Juan.

I.3.2. Il contesto storico.

Se il primo volume delle avventure di Vasco faceva precipitare il lettore nel complesso

mondo della lotta zapatista, anche in questo secondo volume la contestualizzazione nel

mondo del colonialismo, e delle sue varianti moderne, è chiara fin dall’inizio: nella prima

pagina del volume, dopo due inquadrature di una statua incatenata sulla facciata di un edificio

di Granada, in Nicaragua, Vasco riflette brevemente sulla storia di William Walker: “De la

conquista española a las ocupaciones estadounidenses; sin embargo nadie igualó en

25

destrucción al pirata Walker… ¡quiero decir, aquí, en Granada! […] El filubustero

estadounidense, invadió Nicaragua, se proclamò presidente, decretó la esclavitud e incendió

Granada. Un encanto, vaya...”1 Questo, tuttavia, è solo il primo episodio di colonialismo

statunitense descritto nel volume, come anticipato dalla prima frase pronunciata dal

protagonista. In un flashback Paola, un’amica di Vasco e Juan che vive in un’isola sul lago

Atitlán, in Guatemala, racconta brevemente, ad esempio, la travagliata storia recente di quel

paese: “Yo no estaba acá cuando el genocidio de los 80, pero fue terrible. Comunidades

indígenas enteras fueron literalmente exterminadas con tácticas que no podrías creer. [...] El

ejército superó todos los límites de la crueldad, y hoy sus generales siguen sueltos y

presentándose a las elecciones... no es raro, los amparaba la CIA, que hasta les facilitaba

armas prohibidas.”2 Questi due accenni alla storia più o meno recente del centro America

introducono il lettore al tema che diventerà il cuore della vicenda narrata: la vendetta (non

violenta) di un gruppo di ragazzi contro la fondazione americana che dirige l’orfanotrofio in

cui sono cresciuti.

Seppure la storia si sviluppi seguendo il filo di una vendetta privata, in questa

narrazione si aprono però ampi spiragli sulla storia recente del Nicaragua, soprattutto sulla

guerra civile degli anni ‘80 tra Frente Sandinista de Liberación Nacional e la Contra, il

movimento di guerriglia finanziato dagli Stati Uniti per minare la stabilità del governo del

FSLN, e, all’interno di questo periodo storico, soprattutto sul legame tra sette religiose

cristiane e il finanziamento alla guerriglia reazionaria. Nella postfazione al volume, curata da

Luciano Saracino, scrittore e sceneggiatore di romanzi grafici argentino, troviamo un breve

ma espressivo quadro storico:

En las zonas de Centroamérica (sobre todo) se asentaron un sinnúmero de

organizaciones (más que nada sectarias) que tenían la cabeza en Estados Unidos y que bajaban

línea hacia el sur lo que se “aconsejaba” hacer. Con la velada misión de contrarrestar a la

Teología de la Liberación, su trabajo consistía en adormecer a la población a través de un

trabajo más doctrinal que humanitario y una financiación no siempre clara. La secta Moon es tal

vez el ejemplo que más cerca estuvo del poder en aquellos años. Famosa por sus bodas

multitudinarias, sentía una fuerte preferencia por los gobiernos militares (el genocida argentino

Emilio Eduardo Massera estuvo ligado a ella) y puso sus ojos en Latinoamerica a través de la

asociación CAUSA (Confederación de Asociaciones para la Unidad de Sociedades

1 de Isusi, Javier, La isla de Nunca Jamás, Bilbao, Astiberri, 2009 (2), p. 11. Da ora in avanti ci si riferirà al

volume con la sigla IdNJ. 2Ivi, p. 21.

26

Americanas). Esta asociación, creada en Nueva York en 1980, financió las campañas

electorales de Ronald Reagan en 1980 y 1984 y justificó al teniente coronel Oliver North,

principal protagonista del escandalo conocido como ‘Irán-Contra’ (el dinero que se obtenía de

la venta de armamento a un enemigo declarado como Irán en su guerra contra Irak se utilizaba

para sufragar la Contra nicaragüense).1

È evidente quindi come questa vicenda tocchi alcuni dei nodi fondamentali del

neocolonialismo, che viene collegato da de Isusi al colonialismo “classico” mediante

l’utilizzo del riferimento letterario di Peter Pan, di Barrie, come si vedrà nel dettaglio nel

secondo capitolo. Per il momento può essere sufficiente osservare come l’autore faccia

combaciare la figura di entrambi i rappresentanti della setta cristiana rappresentata ne La isla

de Nunca Jamás con la figura, tipica dell’esotismo e dell’avventura coloniale, del pirata,

creando così un collegamento immediato tra la variante moderna e quella classica del

colonialismo: tra i due poli del collegamento si situa così la figura di William Walker, con

cui, some abbiamo visto, si apre il volume, vero e proprio punto di passaggio in quanto pirata

statunitense, ma in un periodo, la seconda metà del XIX secolo, in cui il sistema delle colonie

stava rapidamente cambiando. Non a caso Walker cercò sostegno guardando più al nuovo

impero statunitense che ai vecchi imperi europei:

The Anglo-American's love of excitement and adventure, his belief that it is the

manifest destiny of his race to control the whole American continent, and the desire of the slave

states for a southward expansion of American territory-these indeed were potent factors in

producing the phenomena of filibustering; but these alone do not account for Walker's

remarkable career of two years in Central America. To accomplish his purpose of

"regenerating" the isthmus and founding there a military empire, Walker needed not only an

army, but also ships and money; and these two necessities were not supplied by zealous

champions of territorial expansion or slavery propagandism, but by a syndicate of New York

and San Francisco capitalists, who hoped to use the filibuster general for furthering their

interests in Nicaragua.2

Pur non essendo Walker direttamente collegato al governo statunitense (se non in brevi

periodi), in questa analisi troviamo chiaramente i segni del passaggio verso il neocolonialismo

di stampo nordamericano: da una parte l’espressione della volontà coloniale statunitense (il

‘manifesto destino’ degli Usa, che li avrebbe portati a dominare il continente americano), e

1 Saracino, Luciano, “Ometepe, realidad entre ficciones”, in IdNJ, p. 182-183.

2 Scroggs, William Oscar, “William Walker and the Steamship Corporation in Nicaragua”, The American

Historical Review, Vol. 10, N. 4, 1905, p. 792.

27

dall’altra le modalità nuove con cui questo colonialismo si sviluppa, basandosi soprattutto

sulla potenza economica e sulle ricchezze di ricchi rappresentanti del capitalismo americano.

È anche interessante notare come in La isla de Nunca Jamás Don Jaime, prima

ancora che il lettore sappia chi è, ovvero quando Vasco lo incontra per caso sul traghetto

verso l’isola di Ometepe, venga presentato come un personaggio ossessionato dalla

televisione, e soprattutto dal suo uso più collegato alla conoscenza, ma una conoscenza

utilitaristica e direttamente collegata al potere, come afferma esplicitamente nel momento in

cui Vasco lo asseconda dandogli ragione sulla assenza di animali pericolosi nel lago

Nicaragua: “-Claro, hombre, ya se lo decía yo. ¿No ve que yo veo mucha televisión?- -Ya, ya

veo. Así sabe usted tanto.- -Bueno, la verdad es que sí. Sé mucho. ¡El saber es el poder! Y

hoy en día el poder está en la televisión. ¡Se lo digo yo!-.”1

Nonostante in questa scena prevalga l’aspetto comico e ridicolo della supponenza di

un personaggio che il lettore non conosce ancora in tutti i suoi aspetti (non tutti ridicoli ed

innocui), questo dialogo ci permette di precisare le caratteristiche dell’evoluzione del

colonialismo, suggerendo l’importanza odierna dei mezzi di comunicazione nella creazione di

un cosiddetto ‘pensiero unico’ ed egemonico, e di un particolare tipo di conoscenza ad esso

connessa, che effettivamente rappresenta, molte volte, il segno del potere, invidiato da chi non

vi ha accesso.2 Ancora una volta, quindi, è evidente l’intento di de Isusi di contestualizzare la

vicenda narrata, per quanto avventurosa, per quanto piccola e privata (qui più che nel primo

volume) in un contesto molto preciso: i rapporti tra il cosiddetto Nord e Sud del mondo.

Tuttavia, con questo volume ci troviamo di fronte ad un approccio diverso alla

materia trattata, meno legata ad un fenomeno realmente esistente come era La pipa di Marcos:

La isla de Nunca Jamás è, infatti, essenzialmente una storia di fantasia e sulla fantasia, come

scrive de Isusi stesso nella già citata intervista a se stesso: “Si en La pipa de Marcos el marco

en que se desarrollaba la historia era tan potente que hasta el lugar se llamaba “La realidad”,

en La isla de Nunca Jamás el marco servía para adentrarnos en el mundo de la ficción, y ver

cómo la realidad y la ficción siempre se mezclan.”3 Questo diverso approccio non significa

che il secondo volume non sia potentemente pervaso anch’esso da un intento decolonizzante,

ma che questo intento riguarda più il funzionamento dell’immaginazione e della fantasia e del

1 IdNJ, p. 28.

2 Cfr., per esempio, Baudrillard, Jean, L’agonia del potere, traduzione di Marcello Serra, Milano, Mimesis, 2009.

3 Cfr. http://www.astiberri.com/entrevistas.php?ident=7

28

rapporto di esse con le relazioni di potere del mondo neocoloniale. In più, questo intento

viene portato avanti dall’autore anche attraverso una fitta rete di riferimenti intertestuali: per

questi motivi si rimanda perciò al secondo capitolo del presente lavoro un’analisi più

approfondita delle strategie decolonizzanti messe in campo dall’autore sotto il profilo

letterario ne La isla de Nunca Jamás.

I.4. Río Loco e En la tierra de los sin tierra: la trama del terzo e quarto

volume.

A Quito Vasco e Héctor incontrano Claudio, un italiano che aveva condiviso con Juan e un

tedesco di nome Jürgen il viaggio dal Guatemala all’Ecuador e poi nella selva amazzonica.

Dalle sue parole Vasco apprende, infatti, che Juan si era recato tra le comunità del Rio Napo,

oltre Iquitos, in cerca di tribù che vivessero ancora in modi estranei alla modernità. Claudio

dirige quindi Vasco e Héctor verso Iquitos, dove potranno parlare con Jürgen. Per arrivare in

quella città, tuttavia, li aspetta un lungo viaggio in battello dalla città di Coca. Qui, in attesa

della partenza, Vasco conosce prima una ragazza di nome Laura, e poi salva un giovane

indio, che poi rincontra sul battello, di nome Américo.

Dopo un interminabile viaggio, i due arrivano a Iquitos, dove incontrano Jürgen, che

gli racconta che Juan, stanco della società di Iquitos era partito in cerca di tribù di indios in

isolamento o incontattate, perché sperava di incontrare lì esseri umani ancora puri. In quel

viaggio, si era fatto guidare proprio da Américo, che è cresciuto a Borja, ai limiti con la selva.

Vasco, Héctor, Jürgen e Américo si recano, quindi, a Borja, da dove Juan era partito verso la

selva guidato, fino ad un certo punto, da un certo Leandro, un uomo senza scrupoli e

dipendente dall’alcool che aveva abbandonato Juan nel bel mezzo della selva. Di ciò che è

accaduto dopo a Juan non si sa nulla, e il ritrovamento del suo zaino non fa pensare a nulla di

buono. Vasco in ogni caso riesce, con la violenza, a fare in modo che Leandro porti lui e

Héctor fin dove aveva abbandonato Juan.

In un clima di profonda sfiducia e conflittualità tra Vasco e Leandro, i tre partono in

canoa e si addentrano poi nella selva. Tuttavia, dopo alcuni giorni Leandro li abbandona,

dopo averli fatti camminare in tondo, a loro insaputa. I due rimangono così persi e si

ritengono spacciati, quando Héctor trova una canoa con un remo, apparsa dal nulla. Tuttavia,

29

Vasco non torna con lui verso Borja, e decide invece di continuare da solo, nel cuore della

selva, fino alla tribù cercata da Juan.

Questo viaggio si dimostra estremamente difficile, anche sotto il profilo psicologico,

e dopo alcuni giorni Vasco, smarrito e in preda alle visioni, tocca una rana dardo. Cerca

inutilmente di tagliarsi la mano col machete, che però aveva smarrito nel cammino, e sviene,

convinto di morire. Dopo una lunga visione, tuttavia, si risveglia, debolissimo, e scopre che è

stato salvato dalla tribù che stava cercando, grazie al fatto che Américo lo ha seguito per tutto

il tempo (sempre lui aveva fornito a Héctor la canoa). Américo, infatti, anche chiamato Napo,

è un membro di quella tribù, inviato nel mondo “esterno” per assumere conoscenze che

aiutino il suo popolo a salvarsi. Juan, tuttavia, non ha mai messo piede in quel villaggio.

Il quarto volume si svolge su diversi piani temporali. Da una parte vi è narrato il

lungo percorso di iniziazione di Vasco, all’interno della tribù di Napo. Vasco vive con loro

vari mesi, infatti, e segue un percorso iniziatico che lo porta a mutare profondamente la sua

visione della vita. Una volta uscito dalla selva, legge una mail di Héctor, che lo informa che

Juan è vivo, e si trova in un accampamento del Movimento dos Sem Terra (MST), in Brasile.

Vasco parte quindi per il Brasile, dove riesce a sapere esattamente dove si trovi Juan,

nell’accampamento del MST a Amanajú.

Nel frattempo, il lettore apprende la storia precedente di Vasco e Juan. Cresciuti

insieme come fratelli, erano sempre stati inseparabili, pur avendo caratteri diversi, e

soprattutto nonostante la vita perennemente ribelle e insoddisfatta di Juan. Vasco, divenuto

marinaio, aveva conosciuto il grande amore della sua vita, Marinela, con la quale, tuttavia,

non riusciva ad avere una relazione serena a causa di causa di ciò che Juan rappresentava,

ossia la possibilità di una vita diversa e più libera.

Non senza dubbi e difficoltà, si dirige quindi verso l’accampamento, dove avviene

l’incontro fra i due. Questo incontro, tuttavia, nasconde una sorpresa sconvolgente per Vasco,

che ritrova nello stesso accampamento Marinela, il suo amore del passato, incinta di Juan.

Tutta, la vicenda, infine, è descritta come se fosse narrata da Vasco a un coreografo brasiliano

conosciuto nell’aeroporto di Rio de Janeiro.

30

I.5. Il Movimento Dos Sem Terra.

Il Movimento dos Sem Terra brasiliano, l’MST, occupa, ne Los viajes de Juan sin tierra,

poche pagine nel quarto volume, En la tierra de los sin tierra. Tuttavia, vari aspetti

conferiscono a questo movimento una particolare evocatività all’interno dell’opera. Primo fra

tutti il nome, che dà il titolo al quarto volume, ma richiama anche il titolo generale dell’opera,

che è, d’altra parte, il titolo di una canzone di Victor Jara, la quale descrive la condizione di

un contadino messicano che, dopo tante rivoluzioni finite male, ha ormai perso ogni speranza

per un vero cambiamento della società. In questo senso, il legame tra il testo di questa

canzone con gli scopi del MST è potente, così come è potente, al di là del nome, la portata

simbolica di questo movimento all’interno della lotta alla modernità coloniale. Noam

Chomsky, nel discorso al World Social Forum del febbraio 2003, definì l’MST come “the

most important and exciting popular movement in the world”, sottolineando il collegamento

esistente tra la concentrazione delle terre e il problema delle favelas.1

L’MST nacque nel 1984, e si batte da allora per una redistribuzione delle terre a

favore dei quattro milioni e mezzo di famiglie di mezzadri, braccianti e piccoli contadini

cacciati dalle campagne a causa della modernizzazione delle tecniche agricole, e che si

trovano di fronte un Brasile in cui, ad oggi, le differenze sociali sono enormi, e nell’ambito

dell’agricoltura prendono la forma di enormi latifondi, spesso poco sfruttati. È però

importante notare come questa condizione sia un lascito diretto del colonialismo: “In Brasile

la concentrazione della terra, simbolo di disuguaglianze enormi, è una delle più alte al mondo.

Metà dei terreni agricoli brasiliani è controllata da meno del 2% dei proprietari. Questi

privilegi risalgono all’epoca coloniale, quando la corona portoghese concedeva ai nobili delle

“capitanerie” per popolare l’immenso territorio brasiliano.”2 L’importanza di questi

proprietari terrieri all’interno della società brasiliana, inoltre, non si ferma all’ambito

economico, ma mantiene anche forti legami con la politica: “Lo schieramento dei proprietari

terrieri, o ruralista, è ben organizzato. Con 240 deputati appartenenti a diversi partiti, il

blocco ruralista controlla la metà dei seggi in parlamento e si oppone alla riforma [agraria].”3

1 Cfr. http://www.chomsky.info/interviews/199704--.htm , consultato il 23 luglio 2013.

2 Reyes, Chantal, “’Sans terre’: les lopins d’abord”, in Libération, 2 aprile 2012, tradotto da Internazionale come

“La terra promessa”, traduzione di Andrea De Ritis, n. 998, 3/9 maggio 2013, p. 52. 3 Ivi, p. 54.

31

Questo potere, e l’assenza di una vera riforma agraria, sembrerebbe in

contraddizione con la situazione politica del paese, che vede al potere, dal 2003 ad oggi, il

Partido dos Trabalhadores, un partito di sinistra che dovrebbe essere vicino alle necessità e

alla sensibilità di un movimento come l’MST. Per certi versi, in effetti, è così: molti membri

del MST votano per il PT, e l’ex presidente Lula si è più volte dichiarato a favore delle

rivendicazioni del MST. Tuttavia, sia durante il suo mandato che durante quello di Dilma

Rousseff non c’è mai stata una vera riforma agraria, ma soltanto redistribuzione di terre

spesso di proprietà dello stato, oppure comprate dai grandi proprietari a prezzo di mercato, e

in ogni caso in misura sempre più ridotta. In alcuni casi, addirittura: “La riforma agraria si è

trasformata nella semplice occupazione di spazi vuoti dell’Amazzonia, aggravando il

disboscamento del paese.”1

Il motivo principale di questa distanza del governo dalle rivendicazioni del MST ci

porta al cuore del passaggio da un colonialismo di stampo classico, e dalle sue conseguenze

che ancora oggi si fanno sentire nella società e nella politica brasiliana, al neocolonialismo

della modernità/coloniale: “Secondo Rodrigues [dirigente del MST], Lula e Dilma Rousseff

hanno deciso di puntare sull’agricoltura industriale, un settore in espansione che crea poca

occupazione e sfrutta le grandi estensioni, ma che è molto redditizio: 370 miliardi di euro

incassati in dodici anni.”2 Oltre a questo, “Più dell’80 per cento dei brasiliani vive in città,

sottolinea Zander Navarro, sociologo. Inoltre il Brasile è diventato una potenza agricola in

grado di produrre abbastanza da sfamare la sua popolazione. Perché dovrebbe aumentare il

numero dei produttori?”3

Ciò a cui si assiste, quindi, è al confronto simbolico tra due modi totalmente opposti

di guardare alla politica agraria, pur provenendo entrambi da quella che dovrebbe essere la

stessa area politica. Da una parte una visione basata su piccoli produttori, il contrasto ai

latifondi, alla meccanizzazione eccessiva dell’agricoltura e alle grandi opere.4 Dall’altra una

visione basata sulla rincorsa al successo economico all’interno del mercato globale, che, pur

garantendo una qualche forma di redistribuzione delle ricchezze (come la bolsa familia, un

aiuto finanziario alle famiglie più povere), non sposta nessuno dei paradigmi della

modernità/coloniale, mantiene le disuguaglianze, e, come si è visto, mette in serio pericolo il

1 Ibidem.

2 Ibidem.

3 Ibidem.

4 Cfr. http://www.mst.org.br/

32

patrimonio ambientale del paese (e del pianeta), in una maniera che non sembra arrestabile,

dal momento che si porta come giustificazione l’efficienza produttiva di un paese la cui

condizione economica è in netta crescita, e in cui molti abitanti, ma non tutti, risentono

favorevolmente di questa crescita.

La popolarità del MST, infatti, ha risentito di alcuni bruschi contraccolpi, causati,

oltre che da avvenimenti particolari come i saccheggi realizzati da alcuni suoi membri, da un

disinteresse dell’opinione pubblica, più interessato alla crescita, apparente o reale,

dell’economia del paese che alle lotte di sem terra.1 Nel fumetto stesso appare

un’organizzazione alle prese con evidenti problemi pratici, senza troppe speranze di ottenere

vittorie, ma più che altro impegnato a mantenere e difendere gli accampamenti abusivi,

principale strumento del MST per reclamare la redistribuzione di terre incolte. Alla proposta

di Vasco di collaborare, infatti, rispondono non entusiasti chiedendogli che cosa sappia fare e

in che modo possa aiutarli. Alla risposta impacciata di Vasco, la responsabile risponde: “Mire,

ayer veinte pistoleros encapuchados desalojaron a un campamento matando a uno de nuestros

hombres. Tenemos que prepara antes del viernes toda la documentación para legalizar ante il

Incra [istituto pubblico per la politica agraria] otros cuatro campamentos. Y las compañías

eléctrica y telefónica nos están saboteando. Como ve ahora mismo estamos sin electricidad.”2

Con questa breve conversazione viene presentato il lavoro e la situazione del MST.

Se, quindi, non ci si fa illusioni sulla reale difficoltà della battaglia portata avanti da questo

movimento, è tuttavia proprio questa difficoltà e questo isolamento all’interno della maggior

parte dell’opinione pubblica brasiliana a far assumere al MST una particolare portata

simbolica all’interno dell’opera di de Isusi, che non a caso sceglie proprio una manifestazione

del MST come luogo dell’incontro finale tra Vasco e Juan. Ma, soprattutto, è un

accampamento del MST il luogo in cui Juan, dopo tanti viaggi e dopo essere venuto a contatto

con tante diverse situazioni di lotta alla modernità coloniale, dichiara di sentirsi a casa.

Quando si incontrano, Vasco gli chiede: “-Te he interrumpido. Ibas con esa gente a algún

sitio.- -Sí, a pedir justicia. Los fazendeiros pretenden negarnos el acceso al agua. Ayer sus

pistoleiros casi matan a dos de nuestros hombres.- -¿Nuestros hombres? ¿Has llegado al fin,

Juan?- -¿Adónde?- -A donde fuera... a tu lugar en el mundo...-”3

1 Cfr. Reyes, Chantal, “La terra promessa”, cit., p. 54.

2 de Isusi, Javier, En la tierra de los sin tierra, Astiberri, Bilbao, 2010, p. 126. Da ora in avanti ci si riferirà al

volume con la sigla TdlST. 3 Ivi, p. 135.

33

L’accampamento del MST di Amanajú diventa, quindi, il luogo di arrivo del

lunghissimo viaggio di Juan, che, al contrario che in tutti i luoghi precedentemente visitati,

trova qui una sua serenità. Se questa serenità è indubbiamente connessa a motivi personali e

sentimentali, è anche evidente però come essa si inscriva anche in un contesto di lotta, che,

pur avendo abbandonato ogni mitizzazione, assume tuttavia le caratteristiche di un quotidiano

impegno per migliorare la vita di coloro che sono, non solo simbolicamente, i sin tierra, gli

ultimi in un sistema che li dimenticherebbe volentieri.

I.6. Mestizaje: il personaggio di Napo.

I.6.1. Américo/Laura/Napo.

Nel corso del terzo e quarto volume, Río Loco e En la tierra de los sin tierra, la ricerca di

Juan porta Vasco nella parte della foresta amazzonica al confine tra Perù ed Ecuador, alla

ricerca di una tribù di indios isolati, che evitano qualunque contatto con l’uomo bianco. Nel

corso di questa ricerca Vasco conosce un personaggio, Napo, estremamente singolare.

Inizialmente Vasco conosce a Coca una giovane e spigliata ragazza, di nome Laura, che

chiede una sigaretta a Vasco. Successivamente, lo stesso Vasco, attratto da urla femminili, ha

uno scontro con tre uomini nel porto di Coca, i quali stavano cercando di violentare non una

ragazza, bensì un giovane dai tratti indigeni. Lo stesso giovane si presenta con il nome di

Américo, e si imbarca con Vasco sul traghetto per Iquitos. Durante questo lungo viaggio i due

approfondiscono la loro conoscenza, non senza qualche screzio: la prima notte, Américo

cerca infatti di entrare nell’amaca di Vasco, che reagisce inizialmente con ira. Tuttavia, nel

corso del viaggio il loro rapporto di fa più sereno, e Vasco scopre una delle grandi passioni di

Américo: le canzoni di Laura Pausini. Infine, nell’El Dorado, una discoteca di Iquitos, Vasco

rincontra la stessa ragazza che aveva conosciuto all’inizio, e un gesto, proprio durante una

canzone di Laura Pausini, gli fa capire che quella ragazza e Américo sono la stessa persona:

Américo infatti, secondo le sue stesse parole, ha varie identità, e una di queste è Laura, che fa

spettacoli di trasformismo nella discoteca. La loro conoscenza però non finisce qua, ma anzi

si fa sempre più profonda, dal momento che proprio Américo farà da guida a Vasco e altri

verso il villaggio di Borja, e poi salverà Vasco e lo guiderà verso la sua tribù, dove tutti lo

chiamano Napo. Napo è, infatti, un membro di una tribù di indigeni amazzonici incontattati,

mandato fin da piccolo a vivere nel mondo dei bianchi in modo da sviluppare una conoscenza

34

del mondo “esterno”, che gli permetta un giorno di proteggere il suo popolo, come capo

villaggio.

Il personaggio di Napo, quindi, riporta il discorso su quel gioco di identità del quale

si è già parlato a proposito di Marcos e del personaggio di Olivio ne La pipa di Marcos. Qui,

però, oltre al travestimento ed al cambio di nome per proteggere un’identità profonda, che

non si vuole esporre alla violenza del mondo, ci troviamo di fronte ad una vera e propria

identità molteplice, sia sotto l’aspetto culturale che sessuale, all’interno della quale i vari poli

convivono serenamente: le difficoltà provengono infatti più da un mondo incapace di

accettare queste diverse identità, che dalla frammentazione dell’identità stessa. Laura/Napo

dice infatti a Vasco, parlandogli della discoteca “El Dorado” quando ancora lui la crede una

ragazza “normale”: “Si vas a Iquitos, no dejes de acudir, esa discoteca está llena de

extranjeros que hacen allá lo que no se atreven a hacer en sus países. En El Dorado no

necesitas fingir, puedes ser quien realmente eres por dentro.”1 Quando poi Vasco collega le

diverse identità, proprio nella discoteca di Iquitos, dice a Laura/Napo che ora comprende il

significato di quelle parole: lì Napo può essere ciò che è davvero. Ma Napo risponde che non

è così:

-Pero no me refiría a mí. Ya ves que yo dejo salir a Laura allá donde esté, me da

igual que sea Coca o Iquitos.-

-¿Sabes? Eres valiente-

-¿Valiente?¡Ja, ja!-

-¿De qué te ríes?-

-Ji, ji... Ay... Es que normalmente me llaman de otras maneras menos bonitas. La

verdad es que probablemente soy todo esto que me llaman... pero sí, también valiente, por qué

no... Me gusta... Además todos somos un poco todo. Un poco valientes, un poco codarde… un

poco ombre, un poco mujeres… cada uno somos muchos a la vez, ¿no crees? Como el río... el

agua que pasa siempre está cambiando, pero el río es siempre el mismo. Siempre distinto y a la

vez siempre el mismo río loco.-2

Troviamo qui l’espressione dei due poli principali della questione che Napo permette di

affrontare: da una parte la costruzione, complessa ma serena, di una identità complessa (più

che molteplice), che esce dai binari considerati consueti, sia dal punto di vista della

tradizione, appunto, culturale, sia da quello della tradizione sessuale. Dall’altra parte, però,

1 de Isusi, Javier, Río Loco, Bilbao, Astiberri, 2009, p. 13. Da ora in avanti ci si riferirà al volume con la sigla

RL. 2 Ivi, pp. 60-61.

35

troviamo la reazione che il mondo, la società, o meglio le società, hanno nei confronti di

questa costruzione identitaria.

Una delle caratteristiche di questa reazione è la morbosità, intesa come quella

mescolanza vorticosa di attrazione e repulsione che gli individui che si riconoscono come

“normali” provano verso l’alterità.1 Nel fumetto, questo atteggiamento si rivela nel momento

del tentato stupro ai danni di Napo. I tre uomini, infatti, mentre cercano di denudare il

ragazzo, fanno riferimento ad un precedente incontro, in cui apparentemente Napo aveva

acconsentito, in qualche modo, in cambio del passaggio della frontiera. Uno dei tre, infatti,

sembra portare addosso una qualche divisa, e si comporta da capo: “-La pasamos muy bien en

la frontera, ¿verdad?- -¿Cómo pagaste el visado esta vez?- -Venga, si fue idea tuya, ¡a ti te

gustó más que a nosotros!-”2 Dopo che Vasco riesce a mettere fuori gioco i tre uomini, vede

Napo che cerca di rialzarsi, e si stupisce, non trovandosi di fronte a una ragazza: “-Anda…

Pero si no eres una… Quiero decir que…-” e a questo Napo risponde: “-¡No eres una, no eres

un! ¡A ver si se ponen de acuerdo y me dejan en paz!-”3 Da questa risposta, e

dall’atteggiamento abbastanza calmo con cui viene pronunciata, sembra trasparire una certa

abitudine a trovarsi in situazioni come quella.

Sono, tuttavia, le parole dei violentatori a rivelare un certo modo di reagire di fronte

alla diversità, in questo caso la diversità sessuale incarnata da Napo. Un modo che mescola

l’insulto, come segno di distanziamento tra la normalità dalla quale viene pronunciato e

l’anormalità alla quale è rivolto, e l’attrazione sessuale, della quale però si dà la colpa al

diverso, attribuendo a lui stesso il desiderio, all’interno di uno schema di attrazione morbosa

che viene attribuito quasi automaticamente all’oggetto della violenza, invece che al soggetto.

Tutta questa dinamica, naturalmente, non è mai disgiunta dalle dinamiche sociali e dai

rapporti di potere, anche minimi, che le segnano: in questo caso, infatti, si fa riferimento (non

si sa quanto veritiero, ma d’altra parte Napo non nega) ai problemi che Napo ha con i

documenti, non avendo una cittadinanza ne ecuadoriana ne peruviana (ma il lettore lo

scoprirà solo in seguito). Di questa condizione di marginalità sociale, quindi, coloro che si

trovano in una qualche, seppur poco rilevante, situazione di potere, possono approfittarsi, e si

può quindi vedere come marginalità sociale e sessuale siano indissolubilmente legate, nella

relazione che il soggetto di questa marginalità instaura con il mondo che lo circonda.

1 Cfr. Bhabha, Homi, “Of Mimicry and Men”, in The Location of Culture, New York, Routledge, 1994, p. 91.

2 RL, p. 24.

3 Ivi, p.26.

36

I.6.2. Américo/Napo attraverso Borderlands/La frontera di Gloria Anzaldúa.

Riguardo al complesso rapporto tra identità sessuali ed etniche all’interno di un ambiente

sociale che si ritrova in posizione subalterna all’interno della modernità coloniale, può essere

fruttuoso analizzare il personaggio di Napo mediante l’opera di Gloria Anzaldúa

Borderlands/La frontera, la cui autrice si definisce “scrittrice femminista chicana tejana

patlache (parola nahuatl per lesbica) di Rio Grande Valley, nel Sud del Texas.”1 Si vede

quindi fin da subito come il complesso gioco identitario, culturale e sessuale, sia il tema

principale del libro, il quale però dimostra, soprattutto, come dalle infinite difficoltà create

dagli incroci, dalle frontiere tra culture e tra generi, da quello che l’autrice chiama mestizaje,

possa nascere, non nonostante ma proprio grazie alle difficoltà, una cultura, finalmente,

decolonizzata e decolonizzante. Le difficoltà, da una parte, non mancano:

Perché io, mestiza

Non faccio che uscire da una cultura

Ed entrare in un’altra,

Perché io sono in tutte le culture allo stesso tempo,

alma entre dos mundos, tres, cuatro,

me zumba la cabeza con lo contradictorio.

Estoy norteada por todas las voces que me hablan

Simultáneamente.

L’ambivalenza di questo scontro di voci produce stati di perplessità morale ed

emotiva. Il conflitto interiore produce insicurezza e incertezza. La personalità duplice o

molteplice della mestiza è affetta da irrequietudine psichica.

Nel suo stato mentale di nepantilismo (una parola azteca che vuol dire lacerata fra

vie diverse), la mestiza è un prodotto de trasferimento dei valori spirituali e culturali di un

gruppo ad un altro. […]

Cresciuta in una cultura intramezzata fra due culture, collocata a cavallo di tutte e

tre le culture e dei loro sistemi di valori, la mestiza patisce una battaglia della carne, una

battaglia di confini, una guerra interiore.2

1 Zaccaria, Paola, Prefazione a Anzaldúa, Gloria, Terre di confine/La Frontera, Bari, Palomar, 2000, p. V.

2 Anzaldúa,Gloria, Terre di confine/La frontera, cit., p. 120.

37

Se per Anzaldúa le tre culture sono quella chicana (cioè di americana di etnia messicana),

quella messicana e quella nahuatl, la stessa triplice appartenenza la possiamo riscontrare nel

personaggio di Napo, già a partire dai tre nomi che assume: Laura nella discoteca di Iquitos,

Américo nel mondo fuori dalla selva, e Napo nella selva. Ma anche nella sua storia troviamo

tre luoghi: la selva, Iquitos (che rappresenta un ambiente urbano abbastanza ampio) e il

villaggio di Borja. La sua tribù, infatti, lo inviò tra i “bianchi” quando era ancora bambino, e

crebbe con la tía Lastenia nel villaggio di Borja, che per quanto piccolo e situato ai margini

della selva, è comunque un luogo culturalmente lontanissimo dalla vita delle tribù incontattate

della selva, segnato com’è da vari lasciti del periodo coloniale, tra i quali l’alcolismo e una

certa avidità, rappresentate dal personaggio di Leandro.

L’accoglienza della zia Lastenia è, infatti, assai rivelativa della vita complessa, dal

punto di vista culturale e della morale sessuale, che Napo deve aver vissuto a Borja. De Isusi

ci mostra infatti la stessa inquadratura della palafitta di Lastenia in cinque vignette: Américo

entra, saluta la zia, e nella vignetta dopo questa urla: “¡Fuera de esta casa! ¡Depravado!

¡Degenerado! ¡Eres la vergüenza de la familia!”1 Dimostrando così il giudizio morale della

comunità sulla condotta di Américo. Nei fatti, tuttavia, sia la zia che la piccola società del

paese si dimostrano poi abbastanza affettuosi verso Américo: quelle urla sono seguite infatti

da: “¡Oh, mi pequeño niño! ¡Ven aquí, pobrecito mío! ¡Si supieras la cosas que dicen de ti!”2

In queste espressioni della zia troviamo ben espressa la dialettica tra riprovazione e

compassione nei confronti del diverso a cui gli emarginati sono spesso sottoposti.

Queste sono, quindi, le tre culture che si contendono Napo, il quale esprime

chiaramente come la sua vita sia spesso assai complicata, tanto da lasciarsi anche andare alle

lacrime ripensando al perché la sua tribù abbia voluto mandarlo tra i bianchi, pur senza mai

mettere in dubbio l’utilità e la giustizia di questa decisione, la cui origine viene in ogni caso

attribuita alla dea protettrice della tribù, che ha comunicato con il capo villaggio, Amaru.

Napo narra così questa storia: “Ella [la dea protettrice della tribù] le dijo a Amaru que yo

debía ir a donde los blancos porque nuestro pueblo va a necesitar un jefe que conozca los dos

mundos. [...] Amaru dice que yo tengo el don.”3

Di questo dono si parla anche nell’opera di Anzaldúa:

1 RL, p. 69.

2 Ibidem.

3 Ivi, p. 174.

38

C’era una muchacha che viveva vicino a casa mia. La gente del pueblo mormorava

che fosse una de las otras, “una degli Altri”. Dicevano che per sei mesi era una donna con una

vagina che sanguinava ogni mese, e che per gli altri sei mesi era un uomo, con il pene, che

faceva pipì stando in piedi. La chiamavano mezza e mezza, mita’ y mita’, ne l’una ne l’altro,

ma uno strano doppio, una deviazione della natura che metteva orrore, una creatura dalla natura

invertita. Ma c’è un aspetto magico nella anormalità e così detta deformità. Persone menomate,

pazze e diverse sessualmente sono considerate in possesso di poteri soprannaturali nel pensiero

magico - religioso delle culture primitive. L’anormalità, infatti, secondo queste culture, era il

prezzo che una persona doveva pagare per il suo straordinario dono innato.1

Questo dono consiste, infatti, nel rappresentare un superamento del dualismo imposto dalle

varie culture tradizionali:

C’è qualcosa di avvincente nelle creature che sono maschio e femmina allo stesso

tempo, che hanno la possibilità di entrare in entrambi gli universi. Contrariamente a quanto

affermano alcune dottrine psichiatriche, i mezzo e mezzo non hanno una identità sessuale

confusa, né soffrono per una confusione di genere. Ciò di cui noi soffriamo è un dispotico

dualismo assoluto, che sostiene che si può essere soltanto l’uno o l’altro. Sostiene che la natura

umana è limitata e non può evolvere in qualcosa di meglio. Ma io, come altre persone

omosessuali, sono due in un corpo solo, sia maschio che femmina. Sono la personificazione

dello hieros gamos: il convergere di opposte qualità interiori.2

Troviamo qui uno dei nuclei fondamentali della riflessione contenuta in Bordelands/La

frontera: il concetto di come il mestizaje, con il suo carico di difficoltà e conflitti con i vari

ordini tradizionali, rappresenti un’opportunità di decostruire i confini e i limiti tradizionali e

costruire una nuova comunità che abbia nel mestizaje non un difetto ma il proprio cuore

pulsante. Questo vale per le forme di marginalità sessuale, ma anche per tutte le altre forme di

marginalità, dal momento che il vivere ai margini (qualunque margine) permette di sviluppare

un diverso modo di osservare il mondo e gli altri, e di (non) giudicarli, una capacità che

Anzaldúa chiama la faculdad:

La faculdad è la capacità di vedere nei fenomeni superficiali il significato di realtà

più profonde, di vedere la struttura profonda al di sotto della superficie. È un “sensitire”

momentaneo, una rapida percezione a cui si giunge senza un ragionamento cosciente. […] Chi

possiede queste sensitività vive il mondo in maniera estremamente intensa.

1 Anzaldúa, Gloria, La frontiera/La frontera, cit., pp. 47-48.

2 Ivi, p. 48.

39

Coloro che sono allontanati dalla tribù in quanto diversi è probabile che diventino

più sensitivi (sempre che non siano brutalizzati fino all’insensitività). Coloro che non si

sentono fisicamente o psicologicamente al sicuro nel mondo hanno maggiori possibilità di

sviluppare questa capacità. Coloro che più sono vittime di soprusi la possiedono in forma più

acuta – le donne, gli omosessuali di tutte le razze, i neri, i rinnegati, i perseguitati, gli

emarginati, gli stranieri.

Quando siamo messi al muro, quando dobbiamo subire ogni sorta di oppressione,

siamo costretti a sviluppare questa facoltà in modo da sapere quando riceveremo il prossimo

colpo o quando verremo di nuovo rinchiusi.1

In queste parole si può ritrovare un’analisi che si applica perfettamente alla figura di

Americo/Napo nell’opera di de Isusi, come figura destinata ad acquisire un’esperienza del

mondo profondamente diversa da quella ‘normale’ della sua tribù, una capacità di esperire il

mondo che gli proviene dall’esperienza ai margini di più culture e dell’identità sessuale

tradizionale. Tuttavia, è come se de Isusi ribaltasse, in un certo senso, i termini della

questione, in quanto lo sviluppo della faculdad per Napo non è una conseguenza di una

segregazione dalla tribù causata dal suo orientamento sessuale, bensì è come se la sua tribù,

nel momento della scelta di allontanarlo, si appropriasse dello strumento della

marginalizzazione per i propri scopi, ossia avere un futuro capo che gli permetta di

sopravvivere. Si assiste, quindi, all’analisi da parte di de Isusi di un’appropriazione

sovversiva di un aspetto della modernità, cioè il contatto culturale, e la marginalizzazione di

uno dei poli che molto spesso esso porta con sé. Un’appropriazione che, come nei casi già

analizzati, non è esente né da sofferenza, né da sacrifici, ma il cui frutto, ibrido e ai margini, è

la possibilità di un futuro diverso da quello a cui la modernità coloniale costringerebbe gli

indios dell’Amazzonia. Questa visione ibrida coinvolge anche l’orientamento sessuale che

qui, come in Anzaldúa, appare come un’apertura alla marginalità, alle infinite frontiere, intese

come luogo fertile per la nascita di una visione nuova:

La paura sviluppa il senso di prossimità della faculdad. Ma c’è un altro aspetto, più

profondo, di questa facoltà. Qualsiasi cosa urti contro il modo usuale di percezione, provoca

una rottura nelle difese e nella resistenza dell’individuo, qualsiasi cosa si distacchi dal terreno

abituale porta la profondità ad aprirsi, provoca un mutamento della percezione.2

Possiamo analizzare il modo in cui la marginalità porta a sviluppare questa faculdad come

‘decostruzione’ dell’ambiente circostante, prima come difesa, ma poi come punto di vista. Si

1 Ivi, p. 73.

2Ivi, p. 74.

40

può utilizzare qui il termine ‘decostruzione’ nell’accezione datagli da Derrida, che, in

un’intervista fattagli da Richard Kearney, che verteva proprio sul rapporto tra la

‘decostruzione’ e il rapporto con l’altro, si esprimeva in questi termini: “Intendo dire che la

decostruzione, in sé, è una risposta positiva a un’alterità che necessariamente la chiama, la

cita, la motiva. La decostruzione è quindi vocazione – una risposta a una chiamata.”1 Non per

questo però essa è un processo semplice e sereno, e, per quello che riguarda il rapporto fra le

culture, Derrida afferma, nella stessa intervista: “Ogni cultura e ogni società hanno necessità

di una critica interna o decostruzione come parte essenziale del proprio sviluppo. […] Ogni

cultura ha bisogno di un elemento di auto-interrogazione e di prendere le distanze da se

stessa, se vuole trasformarsi. Nessuna cultura è chiusa in se stessa, specialmente ai giorni

nostri quando l’impatto della civilizzazione europea è così invasivo”, e, più avanti: “Ogni

cultura è tormentata dai suoi altri.”2 La dialettica interna a una cultura fra l’essere

‘tormentata’, e il bisogno e l’opportunità di decostruire se stessi mediante il rapporto con

un’alterità possono essere viste alla luce delle parole di Anzaldúa:

In questo processo di iniziazione perdiamo qualcosa, qualcosa ci viene tolto: la

nostra innocenza, la nostra inconsapevolezza, la nostra ignoranza sicura e facile. […]

Confrontarsi con qualcosa che lacera il tessuto della nostra consueta modalità di coscienza e

che ci lancia in un senso della realtà meno letterale e più psichico aumenta la consapevolezza e

la faculdad.3

Nel caso di Napo, questa decostruzione agisce nel renderlo capace di una visione profonda

sulla vita umana, come dimostra un dialogo con Vasco, nel momento in cui quest’ultimo

rinviene nel villaggio:

-Ah… Américo… Perdón… Napo… o Laura… ¿Por qué tienes tantos nombres?

-Ji ji, porque me gusta, es el juego loco de la representación. Me divierte cambiar de

personaje.

-Aaay… ¿Por qué?

-¡Porque todo es un juego! Tener varios personajes sirve para verlo más claro.

Nunca viste mi espectáculo de la Capitana América? Era uno striptease, pero un poco especial:

1 Kearney, Richard, “Decostruzione e l’altro” (intervista a Jacques Derrida), in Id. Lo spirito europeo, Roma,

Armando Editore, 1998, p. 207. 2 Ivi, p. 205.

3 Anzaldúa, Gloria, La frontiera/La frontera, cit., p. 74.

41

con cada prenda que me quitaba aparecía un personaje diferente. ¡Eran cinco personajes sobre

una única persona!1

Ancora una volta può essere interessante confrontare queste parole con ciò che scrive

Anzaldúa:

Questo mutamento della percezione rende più profondo il modo in cui si guardano

gli oggetti concreti e le persone; i sensi diventano talmente acuti e penetranti che si riesce a

vedere attraverso le cose, a vedere in profondità ciò che accade, un’acutezza che arriva fino al

mondo sotterraneo (il regno dell’anima).2

Nel caso di Napo, è, quindi, come se il mutamento della percezione che gli deriva dalla sua

molteplice identità sessuale gli permettesse di decostruire non soltanto questo aspetto del suo

essere nel mondo, ma anche tutti gli altri, partendo naturalmente dalla complessità che deriva

dalla sua molteplice identità culturale, e di usare questa decostruzione ai fini di migliorare le

condizioni di vita proprie, nell’ambito del suo rapporto col mondo, e della sua tribù,

nell’ambito della lotta che essa porta avanti contro le distruzioni della modernità coloniale.

I.6.3. Le tribù in isolamento volontario.

Se la figura di Napo rappresenta l’interculturalità e il trionfo del mestizaje, ad una prima vista

sembrerebbe che la sua identità costituisca una scelta opposta rispetto a quella delle comunità

di indios che, soprattutto nel territorio amazzonico, decidono di mantenere un isolamento

volontario nei confronti di qualunque manifestazione della modernità coloniale.3 Tuttavia,

questa sarebbe un’interpretazione superficiale, come esplicitato dalla postfazione del terzo

volume de Los viajes de Juan sin tierra, curata da Asier Martinez de Bringas, docente di

diritto presso la Università di Deusto, Bilbao, ed esperto di diritti dei popoli indigeni.

Martinez de Bringas scrive infatti:

El no contato de ciertas comunidades indígenas es interpretado y valorado como

una espersión de pureza identitaria: el deseo inmarchitable y autoconsciente de ciertos grupos

humanos de mantenerse aislados, sin contactos ni relaciones que lo contaminen. [...] Sin

1 RL, p. 168.

2 Anzaldúa, Gloria, La frontiera/La frontera, cit., p. 74.

3 Per una panoramica sul fenomeno delle tribù incontattate cfr. http://www.uncontactedtribes.org/ , sito gestito

dalla onlus Survival.

42

embargo, esta comprensión no es más que un síntoma de la fabulosa imaginación que la

colonialidad del poder ha venido exhibiendo para comprender la realidad de los pueblos

indígenas. La realidad del retiro y el aislamiento, como se apunta al final de la novela, es el

resultado de un fatal encuentro intercultural de estos pueblos con la realidad no indígena, con la

realidad de otros pueblos. La experiencia de convivencia de los pueblos en aislamiento con

otras comunidades ha resultado ser una relación traumática de de privación y desposesión, de

descomposición y aniquilación de sus practicas de vida; ello los ha determinado hacia el

aislamiento, la desconexión, la incomunicación, como estrategia necesaria para poder vivir.1

Una esperienza di colonizzazione che va avanti da cinquecento anni, seguendo varie strategie,

da quelle dell’invasione spagnola e del genocidio, per arrivare a “las expresiones

contemporáneas y postmodernas en que éstas se expresan en territorio indígena: la acción de

las empresas hidrocarburíferas (gas, petroleo, carbón).”2 In questo senso, quindi, la volontà di

isolarsi non è da intendersi come un desiderio di evitare qualunque contatto, bensì come una

difesa successiva ad un contatto, ormai estremamente duraturo, che si è però dimostrato

devastante per la loro parte. Secondo Martinez de Bringas, infatti, anche dal punto di vista

ideologico la visione identitaria di molte popolazioni amazzoniche non è da intendersi come

chiusa, bensì “híbridas, convivientes, pero con una comprensión diferente y distinta de la

realidad, de la cosmovisión y de los derechos.”3

Le diverse concezioni dello spazio/tempo e dei diritti rappresentano, infatti, il

nucleo fondamentale del fallimento, fino ad oggi, di qualunque contatto tra queste

popolazioni e la modernità coloniale. Alla concezione dello spazio basata sulla proprietà

privata e sul suo sfruttamento, tipica della modernità, si contrappone una concezione basata

sul territorio comune, e soprattutto sulla conservazione dell’ecosistema come spazio vitale.

Questa contrapposizione viene esemplificata da de Isusi nel momento in cui giungono notizie

che al villaggio di Napo sono giunti dei bianchi, e la tribù si mette rapidamente in cammino

per fuggire. Vasco, stupito, chiede: “Y así… Tan rápido… dejáis todo… Vuestra tierra…” e a

queste parole Napo risponde: “No hemos dejado nuestra tierra, Vasco. Sólo hay una tierra, y

no es de nadie.”4 È però evidente come una simile concezione non sia compatibile con il

moderno sfruttamento delle risorse di stampo capitalista: il riconoscimento dei diritti degli

1 Martinez de Bringas, Asier, “Otros códigos, otros derechos. Los pueblos indígenas ante el reto de la

interculturalidad”, in RL, pp. 187-188. 2 Ivi, p. 186.

3 Ivi, p. 189.

4 TdlST, pp. 49-50.

43

indigeni, infatti, dovrebbe portare con sé il riconoscimento del diritto al territorio, che i

governi della modernità coloniale son ben difficilmente disposti a concedere:

Existe, por tanto, una incapacidad cultural para considerar el territorio indígena, y

todo lo que éste contiene, como ámbito provilegiado para poder garantizar el derecho a la vida,

individual y colectiva de estos pueblos. Sin derecho al territorio, en última instancia, no existe

el derecho a la vida indígena. Y el derecho al territorio conlleva, además, un conjunto de

prácticas sostenibles, respetuosas con la biodiversidad y los recursos que el territorio indígena

encierra. Por tanto, el reconocimiento de la territorialidad indígena, tan alergico a la

sensibilidad occidental, supone, paralelamente, una garantía de protección de los derechos

medioambientales.1

Vediamo qui come la questione dei diritti dei popoli indigeni portino con sé una concezione

del mondo e dei diritti che potrebbe rappresentare, facendo uno sforzo di interculturalità, una

salvezza non solo per quelle tribù, ma anche per una parte molto più ampia del genere umano,

per il fatto di esplicitare in maniera netta il rapporto di interdipendenza che sussiste tra gli

esseri umani e l’ambiente in cui vivono, rapporto che le leggi della modernità coloniale non

sanno più vedere. Il problema, infatti, non è solo o non è tanto quello di eventuali azioni

illegali da parte di imprese che mirano alle risorse ambientali (pur essendo questo un

problema esistente e legato al grande potere delle imprese economiche nel mondo capitalista),

quanto quello di un sistema legale, e di una ‘cosmologia’ che esso porta con sé, che, anche se

fosse applicato con una imparzialità che spesso i governi dell’America meridionale non

hanno (o non vogliono avere), non potrebbe comunque proteggere persone che si pongono

totalmente fuori dalla società per la quale quelle leggi sono state create:

La imaginación jurídica occidental también se muestra incapacitada para pensar la

subjetividad jurídica de los pueblos y comunidades en aislamiento. Para la comprensión

occidental de los derechos humanos, la situación de aislamiento los ubica en una tesitura de

intangibilidad, es decis, de incapacidad para definir y localizar sujetos.2

E ancora:

Estos pueblos, aun siendo humanos, son no existentes, es decir, se los sitúa fuera de

comunidad. En definitiva, nos encontramos ante un fantasma que ha decidido aislarse; al

hacerlo, ha abdicado de los derechos y garantías que ofertaba la sociabilidad occidental

1 Martinez de Bringas, Asier, “Otros códigos...”, cit., p. 189.

2 Ivi, p. 190.

44

pasando, con ello, por encima y por debajo del Derecho indígena. De ahí que estos pueblos

resulten plenamente disponibles, o extremadamente vulnerables, como la realidad actual viene

mostrando.1

Questo, nell’opera di de Isusi, fa di Napo stesso una persona senza un’origine chiara per la

società: di fatto, non ha nemmeno un passaporto, come afferma egli stesso:“Ni siquiera sé en

qué país debería pedirlo… nací en la selva.”2 Egli è, quindi, un clandestino in una terra che la

sua tribù popola da millenni, e può essere sottoposto a qualunque vessazione senza che ciò

comporti un reato, in quanto il non avere documenti lo rende una non-persona.3 La sua

situazione, comune a quella di tutti gli altri indios più o meno in contattati della selva

amazzonica, è quella, quindi, di uno spazio bianco nella legge di quegli stati creatisi dopo la

dominazione spagnola, di un’eccezione, di un rimosso all’interno di una società che si è

liberata da una colonizzazione, senza però liberarsi dal colonialismo interno alla società

stessa. Infatti, il cuore del problema è l’estensione a livello internazionale di una particolare

concezione del diritto, quella occidentale, che risulta essere alienante per chi non fa parte, o

non vuole far parte, della cultura che l’ha prodotta. L’unica soluzione, come possiamo leggere

anche dalle pagine dell’opera di de Isusi, sembra essere quella dell’interculturalità, ossia della

creazione di uno spazio legislativo e sociale che permetta non solo la convivenza, ma

l’espressione delle diverse anime del mondo moderno. Un’interculturalità di cui, come si è

visto, Napo può essere un simbolo.

I.6.4. Una nuova identità per l’America ‘Latina’.

Nella riflessione dell’autrice de Borderlands/La frontera, e ancor più nella valutazione che ne

fa Walter Mignolo, troviamo molto chiaro il collegamento tra l’identità mestiza e un futuro

per l’America meridionale che possa superare le devastanti conseguenze della modernità

coloniale. Mignolo scrive, infatti:

One of the most radical contributions [per un cambiamento dei paradigmi

dominanti] is Gloria Anzaldúa’s Borderlands/La frontera, which is comparable in its ability to

radically shift the geo-graphy and bio-graphy of knowledge to René Descartes’s Le discours de

1 Ivi, p. 191.

2 RL, p. 34.

3 Martinez de Bringas cita ad esempio gli omicidi ai danni della popolazione isolata dei taegeri-taromenanis

commessi per interessi legati allo sfruttamento del legno, e non perseguibili a causa dello status giuridico di non-

persona delle vittime.

45

la méthode. Descartes was able to shift from a theologically based concept of knowledge to an

ego-logically based one with the statement “I think, therefore I am”, which put the ego in the

center and displaced God. Likewise, Gloria Anzaldúa’s new Mestiza consciousness has

decentered the Cartesian ego to replace it with a geo-graphically and bio-graphically centered

way of thinking.1

Nel fumetto di de Isusi possiamo trovare un’espressione di questo nuovo modo di percepire la

realtà, che Mignolo definisce ‘epistemic and decolonial delinking’, un processo di distacco

consapevole dall’epistemologia dominante, incarnato proprio dalla figura di Napo/Américo.

Quando lui e Vasco si rincontrano sulla barca che li sta portando a Iquitos, infatti, arriva il

momento delle presentazioni:

-Me llamo Vasco, ¿y tú?-

-Américo.-

-Anda... Los dos tenemos nombres de marineros famosos.-

-¿En serio?-

-Claro, Américo Vespucio fue el marino italiano que prestò su nombre a este

continente.-

-¿Italiano? ¿Mi nombre es italiano? ¿Como Laura Pausini?

-Bueno… Sí…-

-Uau… Ya me gustaría… Lástima que tu historia no sea cierta…-

-?? ¿Por qué dices eso?-

-Porque esta tierra ya se llamaba así antes de que llegara ningún italiano. Amara-ka

la llamaban, que en Quichua quiere decir “tierra de los inmortales”.2

In questo breve dialogo troviamo una complessa enunciazione identitaria. La frase

conclusiva, prima di tutto, sostituisce l’etimologia classica e coloniale del nome America con

un’origine legata alla lingua di coloro che in quella terra ci hanno sempre vissuto (la stessa

lingua che, come scopriremo dopo, è la lingua madre di Napo). L’effettiva veridicità di questa

etimologia non riveste una grande importanza: quello che conta qui è il processo di iscrizione

di un nome in un’origine o, come direbbe Anzaldúa, in un mythos nuovo. Il processo di

nominazione geografica è, in questo senso, molto significativo, come scrive Mignolo a

proposito del nome Haiti, utilizzato dopo la rivoluzione sull’isola al posto dei coloniali Santo

Domingo e Saint Domingue, e proveniente dalla parola Ayiti, che significava ‘terra

montagnosa’ nella lingua dei nativi, e questo nonostante la rivoluzione fosse stata fatta

1 Mignolo, Walter, The Idea of Latin America, Malden, Blackwell, 2005, p. 135.

2 RL, p. 35.

46

essenzialmente da discendenti di schiavi africani: “The name Haiti marks the historical and

epistemic shift that the devolution introduced, and it breaks away from both the slavery

period and the French imperial nomination. Language and the power of naming, as these

movements show, contain radical potential for ‘epistemic revolution’.”1

Tuttavia, Napo/Américo va oltre questo movimento di ribellione (peraltro

apparentemente inconsapevole), non rigettando l’idea di un’etimologia europea per il suo

nome, che anzi gli piacerebbe perché, in quanto italiano, il nome Américo lo avvicinerebbe al

suo mito: Laura Pausini. Tutto ciò ha varie conseguenze, nel momento in cui un dialogo di

questo tipo, oltre a mantenere una certa ironia, rifiuta in toto qualunque tipo di essenzialismo,

promuovendo invece la nascita di una cultura ibrida, in cui le conseguenze della modernità (il

fatto che il mito di un giovane indio di Iquitos sia Laura Pausini, per esempio) non vengono

rifiutate ma, al contrario, appropriate ed utilizzate all’interno di una costruzione identitaria

che non dimentica mai le proprie origini geografiche e biografiche.

Questo dialogo, peraltro, assume un significato ancora più ampio se riletto alla luce

di ciò che il lettore in questo momento ignora ancora, e cioè che Américo è solo uno dei nomi

di Napo, nella fattispecie il nome che utilizza fuori dalla selva, per esempio con la sua

famiglia adottiva, e quando non diventa Laura (il cui nome arriva, quindi, a costituire una

parte dell’identità ibrida di Napo). In più, lo spettacolo di striptease e trasformismo con cui si

esibisce nella discoteca di Iquitos viene chiamato lo spettacolo della “Capitana América”. Si

potrebbe quindi dire che in questo modo l’autore voglia collegare esplicitamente il

personaggio di Napo con l’identità dell’intero continente, che quindi, ironicamente (ma non

troppo), assume il nome di un personaggio di uno striptease del quale Napo dice, come

abbiamo visto, che con “cada prenda que me quitaba aparecía un personaje diferente. ¡Eran

cinco personajes sobre una única persona!”2

È così che de Isusi sembra voler descrivere, condensandolo in un solo personaggio,

il caleidoscopio di identità del continente americano, ma anche l’orizzonte di opportunità

offerte da un certo modo di portare dentro di sé queste identità. Troviamo descritto questo

particolare atteggiamento, ancora una volta, in un dialogo tra Napo e Vasco, dopo che

quest’ultimo ha già trascorso vari mesi nella selva, ed ha un momento di crisi di fronte alle

1 Mignolo, Walter, The idea of Latin America, cit., p. 112. Cfr. anche Concilio, Carmen, “Architetture

postcoloniali”, in Gli studi postcoloniali, cit., pp. 148-150. 2 RL, p. 168.

47

domande che gli vengono poste sulla sua identità, nel quale rinfaccia a Napo la presunta

confusione di identità di quest’ultimo: “-¡Pero mira quién fue a hablar! ¡El rey del disfraz!

Napo que se disfraza de Américo que se disfraza de Laura que se disfraza de la Capitana

América, ¿y cuántos más nombres tienes? ¡Tú ni siquiera cuál de esos personajes quieres ser!-

-Ji, ji, qué va, Vasco... Yo sólo quiero ser lo que ya soy.-” Dopo aver pronunciato queste

parole, de Isusi raffigura Napo che si tuffa nel fiume, in una posa che esprime una grande

serenità e libertà e pesca un pesce con le mani. A tutto ciò, Vasco risponde, evidentemente

colpito: “Tendrás que enseñarme a hacer eso.”1 L’ultima affermazione di Vasco può essere

riferita al fatto di pescare un pesce con le mani, ma anche alla capacità di combinare in

maniera così serena le mille sfaccettature della propria esistenza.

La frase pronunciata da Napo, “Yo sólo quiero ser lo que ya soy” riecheggia quelle

già pronunciate da Olivio e Chico nei volumi precedenti. Questo crea un evidente

collegamento tra questi personaggi, che si trova proprio nel modo in cui essi riescono a

trovare un luogo di espressione per la propria identità ibrida, e perciò portatrice di istanze

decolonizzanti, all’interno di un mondo che mantiene nei loro confronti un alto livello di

complessità e conflittualità. D’altra parte, la stessa Anzaldúa carica l’identità della mestiza di

una portata simbolica e salvifica per il futuro, esprimendo quindi chiaramente il collegamento

tra la costruzione di un’identità ibrida, sotto tutti i possibili aspetti, e la decolonizzazione, che

parte sempre dalle menti di coloro che la impongono e di coloro che la subiscono:

En unas pocas centurias, il futuro apparterrà alla mestiza. Poiché il futuro dipende

dalla frantumazione dei paradigmi, dipende dalla capacità di stare a cavallo fra due o più

culture. Creando un nuovo mythos – cambiando il modo di percepire la realtà, di vedere noi

stesse, di agire e di comportarci – la mestiza crea una nuova coscienza.2

1 TdlST, p. 45.

2 Anzaldúa, Gloria, La frontiera/La frontera, cit., p. 123.

49

II

DECOLONIZZARE L’AVVENTURA.

II.1. I riferimenti letterari.

L’opera di de Isusi gioca con una fitta rete di riferimenti ad alcune opere letterarie, tra le quali

spiccano per frequenza ed importanza i fumetti di Hugo Pratt con protagonista Corto Maltese,

con i quali si sviluppa un continuo dialogo nel corso di tutti e quattro i volumi, e la storia di

Peter Pan, di James Matthew Barrie, che rimane invece confinata al secondo volume, La isla

de Nunca Jamás, che si rifà al romanzo fin dal titolo.

I riferimenti alle due opere si ritrovano a diversi livelli, e per questo possiamo

parlare, anche, di un complesso gioco intertestuale. Ritroviamo, infatti, sia riferimenti espliciti

di vario tipo, come citazioni, o addirittura momenti in cui un personaggio nomina, più o meno

chiaramente, l’opera a cui ci si riferisce (per esempio Vasco dichiara più volte di sentirsi

immerso nella storia di Peter Pan); e sia una presenza capillare di riferimenti sommersi,

spesso più a livello del disegno che della trama o dei dialoghi. Questo tipo di riferimenti

funziona anche da gratificazione per gli appassionati del genere e da omaggio, soprattutto nei

confronti di Hugo Pratt.

Inoltre, e questo è l’aspetto più interessante per questa analisi, i riferimenti giocano

non solo con vari livelli di cripticità, ma anche con vari livelli di spostamento del significato

originario dell’episodio citato. È, infatti, proprio in questi spostamenti che ritroviamo il senso

di una decolonizzazione del concetto stesso di narrativa di avventura. Secondo le parole di

Maria Renata Dolce, riferite alla riscrittura dei classici in ambito postcoloniale: “Nel processo

di writing back lo scrittore può dunque richiamare in termini generale tematiche e

problematiche trattate nei classici, o procedere ad una puntuale ricostruzione degli stessi dal

punto di vista delle figure ai margini, dei tanti oppressi che nella letteratura del canone non

hanno trovato voce.”1 Ne Los viajes de Juan sin tierra de Isusi utilizza entrambe queste

modalità, come vedremo, in un dialogo fruttuoso che permette di ripensare il concetto di

1 Dolce, Maria Renata, “Con-test/azioni postcoloniali. Il dialogo con il canone e la riscrittura dei grandi classici”,

in AA.VV., Gli studi postcoloniali, cit., p. 186.

50

avventura, e di fumetto di avventura, senza dover però rinunciare in nessun modo agli aspetti

di intrattenimento a cui esso è legato.

Il rapporto con il modello classico della narrativa di avventura, inoltre, viene reso

ancor più intenso dai riferimenti ad altre opere, come a Tintin, il fumetto creato dall’autore

belga Hergé, oppure il film Il mondo nelle mie braccia, di Raoul Walsh, del 1952. Questi

riferimenti sono di natura episodica, e scarsamente rilevanti a livello della trama; tuttavia, e

forse proprio per questo, rivelano la volontà dell’autore di dialogare proprio con questo tipo di

modelli, come si cercherà di analizzare in seguito, modelli inseribili a pieno diritto nel filone

della narrativa d’avventura di ambiente esotico.

Un discorso differente vale poi per Heart of Darkness: il romanzo di Conrad non

viene mai citato nell’opera, ma appare solamente con una citazione in esergo a Río Loco. De

Isusi dichiara che la somiglianza tra la storia narrata in questo tomo e l’opera di Conrad “es

casual, aunque evidente”1, e che non si è realmente ispirato a quell’opera nel momento di

scrivere Río Loco. Senza mettere in discussione questa versione, d’altra parte evidente nelle

differenze tra le due opere, si cercherà tuttavia di analizzare come questa somiglianza

“casuale” possa derivare, oltre che dalla grande fama della trama di Conrad, proprio da una

serie di intenti comparabili, che si possono riassumere in una radicale revisione del modello

letterario dell’avventura coloniale, seguendo l’analisi dell’opera di Conrad presentata da Paola

Carmagnani in Luoghi di tenebra, lo spazio coloniale e il romanzo.2

II.2. La isla de Nunca Jamás e Peter Pan.

I riferimenti espliciti all’opera di Barrie partono sin da prima che inizi il secondo volume

delle avventure di Vasco, con la citazione di un frammento del romanzo, in cui la Isla de

Nunca Jamás viene descritta in questo modo: “No se trata de un lugar grande y desparramado,

con íncomodas distancias entre una aventura y la otra, sino que todo esta agradablemente

amontonado.”3 Successivamente, i riferimenti sono numerosissimi; in questa sede può essere

sufficiente occuparsi dei più rilevanti sotto l’aspetto narrativo. Alcuni personaggi, infatti, sono

1 Cfr. http://www.astiberri.com/entrevistas.php?ident=7

2 Carmagnani, Paola, Luoghi di tenebra, lo spazio coloniale e il romanzo, Roma, Aracne, 2011.

3 IdNJ, p. 2. Citazione originale da Barrie, James Matthew, Peter Pan, Penguin, London, 1995, p. 42.

51

costruiti come corrispondenti ai personaggi del romanzo di Barrie, essenzialmente i due poli

della storia di vendetta contenuta nel volume: Chico, che corrisponde a Peter Pan, e dall’altra

parte Don Jaime e il reverendo Hooker, che di volta in volta occupano il ruolo di cattivo di

Hook (nel caso di Hooker, già a partire dal nome). Altri personaggi vengono poi attirati in

questo gioco di corrispondenze, e quindi la ragazza che gestisce la Finca Mariana viene

chiamata da Vasco Wendy, come la protagonista dell’opera di Barrie, e il gruppo di ragazzi

orfani con cui vive Chico assumono una certa somiglianza con i lost boys amici di Peter Pan

(anche se molto meno deferenti nei confronti del loro giovane capo), anche per il fatto di

vivere in una casa del árbol.

È importante notare come questo gioco di corrispondenze sia esplicitato all’interno

dell’opera, nella quale è Vasco stesso a notare le somiglianze sempre più numerose che

legano Ometepe con Neverland, prima per la sua notevole bellezza, poi per l’indicazione che

Vasco riceve sul come arrivare alla Finca Mariana: “Segunda a la derecha y después todo

recto hasta la Mariana”1, che rima con la traduzione spagnola di “second to the right, and

straight on till morning”2, l’enigmatica indicazione che Peter dà a Wendy e ai suoi fratelli.

Altrettanto enigmatica è questa indicazione, che porta Vasco a smarrirsi in una foresta in cui

si materializzano, all’apparenza, molte sue paure, con ruggiti misteriosi e occhi che si

illuminano nel buio. A questo smarrimento segue il sogno allucinato di Vasco, causato dai

funghi che ingerisce per sbaglio. Ometepe, quindi, assume fin da subito la connotazione di

isola della fantasia: un’isola che, come la Neverland di Peter Pan, viene costruita

dall’immaginazione dei suoi occupanti, materializzando i loro sogni di avventura, di modo

che ciascuno possa occupare il ruolo che più gli corrisponde. Nell’opera di Barrie, quindi,

Wendy diventerà a tutti gli effetti una mamma, John di volta in volta un poppante o un

cacciatore, e Michael un guerriero, e troveranno a Neverland esattamente le componenti dei

loro precedenti sogni avventurosi (come ad esempio cuccioli di lupo e barche, rovesciate sulla

spiaggia, in cui vivere).

D’altra parte il tema di tutta La isla de Nunca Jamás è proprio quello della

proiezione sul mondo delle nostre fantasie e, di conseguenza, l’identità come narrazione. Fin

dall’apertura, un funerale nella città nicaraguense di Granada si tramuta nell’occasione per

Héctor di costruire una narrazione di fantasia su ciò che può essere accaduto alla defunta, e di

1 IdNJ, p. 31.

2 Barrie, James Matthew, Peter Pan, cit., p. 39.

52

riflettere sulla relazione tra scrittura e vita reale, con la sua personale incapacità di scrivere e,

contemporaneamente, vivere una felice storia d’amore. Successivamente Paola, un’amica di

Vasco e Juan che vive in Guatemala, pronuncia la frase che farà da filo conduttore a tutto il

volume: “Somos lo que nos contamos que somos.”1 Nella già citata intervista a se stesso, de

Isusi scrive, infine, che “El tema central de La Isla de Nunca Jamás es que la realidad es

siempre subjetiva, y que todo depende de cómo nos contemos las cosas.”2

II.2.1. Neverland come costruzione narrativa coloniale.

Il punto cruciale è, però, di chi sia la fantasia creatrice che plasma le avventure sull’isola.

Nell’opera di Barrie assistiamo, infatti, alla materializzazione delle fantasie esotiche e

coloniali di bambini inglesi, che concepiscono un’isola avventurosa come popolata da pirati,

coccodrilli e pellerossa, e poco importa se i pellerossa hanno le caratteristiche, a loro volta

stereotipate, dei nativi dell’America del Nord, e siano quindi incompatibili con un’isola per il

resto prevalentemente caraibica. Neverland è, in questo senso, un concentrato di stereotipi

esotisti: una costruzione narrativa esclusivamente occidentale, nella quale i bambini inglesi

sono destinati a vincere contro i pirati. Peter Pan è, d’altra parte, connotato come un bambino

inglese, e il suo unico vero nemico, l’unico a cui lui conceda uno status di quasi parità, è

Hook, a sua volta un occidentale bianco. La trama di Peter Pan è anche, infatti, la trama di

Peter Pan, cioè la trama di avventure che egli si costruisce, come sorta di potenza creatrice

delle vicende e dei ruoli dell’isola: “In his absence things are usually quiet on the island. […]

But with the coming of Peter, who hates lethargy, they are under way again: if you put your

ear to the ground now, you would hear the whole island seething with life. […] The lost boys

were out looking for Peter, the pirates were out looking for the pirates, the redskins were out

looking for the pirates, and the beasts were out looking for the redskins.”3 Da questo brano si

vede chiaramente come sia la fantasia di Peter, che odia la tranquillità, a mettere in moto

avventure in cui ogni “gruppo” ha un ruolo ben preciso, ma è soprattutto la posizione dei

pellerossa che interessa in questa sede, dopo i pirati, e subito prima delle bestie feroci.

È proprio la connotazione dei pellerossa, infatti, a rendere evidente come Peter Pan

sia la proiezione di fantasie occidentali, in cui l’”altro” è oggetto di una costruzione narrativa

1 IdNJ, p. 22.

2 http://www.astiberri.com/entrevistas.php?ident=7

3 Barrie, James, Peter Pan, cit., p. 51.

53

stereotipata, e mai soggetto. Nell’opera di Barrie i pellerossa sono, infatti, caratterizzati come

feroci in battaglia, abilissimi in attività come la caccia o seguire le orme o nell’uso dei cinque

sensi, ossia assai vicini alla condizione animale: “Through the long black night the savage

scouts wriggle snake-like, among the grass without stirring a blade. The brushwood closes

between them, as silently as sand into which a mole has dived”1 o anche “With the alertness

of the senses which is at once the marvel and despair of civilised people.”2 Si

contrappongono, quindi, alle “persone civilizzate”, all’interno delle quali possiamo ritrovare

anche i pirati, che per quanto crudeli, sono bianchi “civilizzati”. Si esprimono, inoltre, in un

inglese semplificato, come si può vedere per esempio dalle parole di Tiger Lily, la capa della

tribù: “Peter Pan save me, me his velly nice friend. Me no let pirates hurt him.”3, quanto mai

tipico delle rappresentazioni stereotipate dei selvaggi. Da queste parole notiamo anche la

deferenza con cui, sia come nemici e sia come amici (dopo che Peter Pan salva la vita a Tiger

Lily) i pellerossa trattino Peter Pan e gli altri bambini inglesi, una ammirazione che nel caso

di Tiger Lily diventa amore per Peter Pan.

Sia come nemici che come amici gli indiani sono, poi, sostanzialmente leali, ma fissi

nelle loro idee fino alla morte: proprio nell’episodio dell’attacco contro di loro da parte dei

pirati, il gioco degli stereotipi messi in campo da Barrie si fa esplicito, nel momento in cui gli

indiani si fanno cogliere di sorpresa perché “By all the unwritten laws of savage warfare it is

always the redskin who attacks, and with the wiliness of his race he does it just before

dawn.”4 Al contrario, Hook fa in modo che essi subiscano un attacco, per il quale essi sono

psicologicamente totalmente impreparati, e perciò indifesi di fronte ad una tale astuzia, tanto

da farsi massacrare. Riguardo alla crudele astuzia di Hook, la voce narrante dell’opera di

Barrie commenta: “One cannot at least withhold a reluctant admiration for the wit that had

conceived so bold a scheme, and the fell genius with which it was carried out.”5 Si può quindi

notare come l’uomo bianco si contrapponga al selvaggio per mezzo dell’intelligenza, davanti

alla quale il pellerossa, rigidamente chiuso nelle sue tradizioni, è impotente.

Come già accennato, tuttavia, Barrie non sembra per nulla ignaro del gioco che sta

portando avanti: proprio in episodi come questo, anzi, l’ironia, seppur mai esplicitata, si fa

evidente, soprattutto nei commenti della voce narrante. Riguardo ad altri soggetti stereotipati,

1 Ivi, p. 123.

2 Ivi, p. 124.

3 Ivi, p. 106.

4 Ivi, p. 123.

5 Ivi, p. 126.

54

d’altra parte, essa si fa ancora più evidente: basti pensare al ruolo di “donna di casa” assunto

da Wendy, che consiste nel rammendare e cucinare tutto il giorno, tanto che spesso Wendy

non vede la luce del sole, e nonostante questo si dimostri assolutamente deliziata dalla sua

situazione: “-Oh dear, I am sure I sometimes think spinsters are to be envied.- Her face

beamed when she exlaimed this.”1

Barrie mette in scena, quindi, una sorta di satira dei ruoli familiari nell’Inghilterra

dei primi del ‘900, mostrata attraverso la lente delle fantasie infantili, una sorta di risposta alla

domanda: che mondo creerebbe una bambina o un bambino inglese se potesse dare sfogo alle

sue fantasie? Tutto questo, naturalmente, senza idealizzare né l’infanzia né l’innocenza di

queste fantasie, che sono, invece, evidentemente immerse nella narrazione comune nella

società inglese, e non prive di violenza e crudeltà. A questa narrazione fa solo in parte da

contrappeso l’infinita indeterminatezza di Peter Pan, affascinante per tutte le bambine e i

bambini, ma fino ad un certo punto, e senza poter rappresentare una vera alternativa, come

dimostrano da una parte il suo ruolo tutt’altro che libertario di capo indiscusso (e pronto ad

usare anche la forza per confermare la sua posizione), e dall’altra la totale normalizzazione

dei lost boys una volta immersi nella società, tanto che in poco tempo dimenticano,

evocativamente, come si fa a volare.2

Ciò che in questa sede più interessa, tuttavia, è come le proiezioni fantastiche di un

gruppo di bambini inglesi vengano dislocate in una lontana isola, dalle caratteristiche

caraibiche: un’isola costruita appositamente per soddisfare le necessità di esotismo che la

cultura coloniale inglese suggeriva alla fantasia infantile alla fine dell’800 e nei primi anni del

‘900. Parte di questa costruzione sono anche i pellerossa, chiusi, ancor più dei pirati, in un

ruolo secondario di comparse esotiche, tanto più che le loro caratteristiche rispondono

esattamente a quelle stereotipate degli indiani dell’America settentrionale, fuori luogo quindi

su un’isola caraibica; un ruolo, quindi, che non permette loro di essere soggetti produttori di

fantasie ma solamente oggetti costruiti dalle fantasie occidentali. La loro connotazione esotica

li accomuna perciò con quegli “esemplari” di piante, animali, ma anche persone, che venivano

portati in Europa dalle colonie e mostrati al pubblico: “Isolated from their own geographical

1 Ivi, p. 79.

2 Ivi, p. 176.

55

and cultural contexts, they represented whatever was projected onto them by the societies into

which they were introduced.”1

Seppur in maniera secondaria, e, forse, arrendendosi in parte a quelli che erano i

desideri effettivamente esotici del pubblico dei lettori di Barrie, si può però affermare che

quest’ultimo abbia voluto che anche questa parte della sovrastruttura culturale inglese del

tempo, spesso totalmente rimossa, rientrasse nella sua satira. In questo senso si potrebbe

affermare che, se Neverland è indubbiamente un’isola costruita dalla fantasia coloniale, non

lo è, invece, Peter Pan. Barrie, quindi, seppure non libera gli oggetti esotici della fantasia,

anche infantile, inglese, li rende talmente esotici, e talmente ridicoli tramite l’uso degli

stereotipi, da portare a galla, per chi avesse avuto voglia di notarlo già a quel tempo, il

razzismo che pervadeva la narrativa infantile, e che ha continuato a pervaderla per molto

tempo.2 La trasposizione cinematografica di Peter Pan, in cui da una parte viene sacrificata la

complessa ironia di Barrie, per farne un prodotto di intrattenimento per bambini, ma dall’altra

viene mantenuta la connotazione di inferiorità dei pellerossa, soprattutto nel loro modo di

parlare, è una dimostrazione di come queste dinamiche coloniali continuino ad agire anche

nella contemporaneità.

II.2.2. Immaginazione creatrice ad Ometepe.

Nelle pagine che seguono l’arrivo di Vasco ad Ometepe, assistiamo alle proiezioni fantastiche

del protagonista, che non a caso trovano come termine di paragone proprio Neverland. Già sul

traghetto, parlando con un passeggero appassionato di televisione (che poi scopriremo essere

Don Jaime, ma del quale per ora non sappiamo nulla), afferma: “Se diría que estamos

llegando a la isla de Nunca Jamás.” A questa affermazione, tuttavia, l’informato Don Jaime,

pur fraintendendo il riferimento, risponde: “Pero se equivoca, no se parecen. En Ometepe no

hay esa clase de réptiles, ni siquiera hay cocodrilos”. E successivamente aggiunge: “Pero

descuide, no quedan ya piratas en el lago, je je.”, e a questa affermazione Vasco è costretto a

rispondere “Bueno, pues si no hay cocodrilos ni piratas, tiene usted razón, no se parece en

nada a la isla de Nunca Jamás.”3 Seppure Vasco sarà costretto a ricredersi, si può notare come

1 AA.VV., Key Concepts in Post-Colonial Studies, cit., p. 95.

2 Cfr. Joerg, Becker, “Racism in Children's and Young People's Literature in the Western World”, Journal of

Peace Research, vol. 10, n. 3, 1973, pp. 295-303. 3 IdNJ, pp. 27-28.

56

le convinzioni esotiche che proietta sull’isola vengano puntualmente disattese. La stessa cosa

continuerà ad accadere anche successivamente: quando si perde nella foresta sente delle urla

feroci, che crede provenire da formidabili predatori, che si riveleranno invece prodotti da

innocue scimmie urlatrici, e i misteriosi occhi che vede brillare nel buio appartengono

soltanto alla cagna Tintin.1 Come è possibile, quindi, che Ometepe sia Neverland, se

disattende ogni aspettativa del protagonista?

La risposta la si può trovare nella lunga allucinazione che Vasco ha dopo aver

ingerito i funghi che vede mangiare tranquillamente da Tintin. In questa allucinazione si

mischiano citazioni da vari classici della narrativa di fantasia europea: oltre a Peter Pan

(Vasco vola grazie ad una polvere magica datagli da una piccola Tintin), troviamo citazioni

anche da Il piccolo principe (che chiede a Vasco di disegnargli un coccodrillo, cosa che

Vasco non sa fare, ma si accontenta anche di uno squalo stilizzato); il piccolo principe si

tramuta poi in Juan, che vola via come il piccolo principe, e Vasco precipita in un incubo in

cui un orribile pirata con un uncino, riconoscibile come Hook, vuole ucciderlo, e viene

salvato solo grazie all’apparizione di un Peter Pan dai tratti molto particolari di un ragazzo di

colore con i capelli ricci, che appena sveglio si capirà essere Chico, il quale durante l’incubo

ha fatto in modo, anche nella realtà, di aiutare Vasco a cavarsela da un viaggio psichedelico

molto turbolento.2

Questo sogno instaura il gioco di ruoli che rimarrà intatto per tutto il volume, e

chiarisce, soprattutto, chi è il Peter Pan che mette in movimento tutte le trame dell’isola:

l’autoctono Chico, e non il “bianco” Vasco, che per tutto il sogno ha la parte di comprimario

(viene fatto volare grazie alla polvere, di cui Peter Pan non ha bisogno; non è il piccolo

principe; e deve essere salvato da Chico/Peter Pan). Le somiglianze di Chico con il

personaggio di Barrie sono, d’altra parte, molteplici, ma quella essenziale è la capacità di

raccontare, programmare e vivere avventure, più o meno reali o realizzabili. Questo suo ruolo

di produttore di immaginario viene sottolineato anche sotto l’aspetto grafico, nel momento in

cui le sue narrazioni vengono visualizzate nel fumetto in uno stile diverso da quello consueto.

È sostanzialmente in questo modo che de Isusi, per riprendere le già citate parole di Maria

1 Ivi, pp. 34 e segg. La cagna Tintin prende il nome dal celebre protagonista dei fumetti di Hergé, un classico del

fumetto di avventura di argomento esotico, e un altro esempio di opera in cui le popolazioni cosiddette selvagge

vengono relegate ad un ruolo secondario di oggetto della rappresentazione. Cfr. Dine, Philip, “The French

Colonial Empire in Juvenile Fiction: From Jules Verne to Tintin”, Historical Reflections/Réflections Historiques,

vol. 23, n. 2, 1997, pp. 177-203. 2 IdNJ, pp. 37 e segg.

57

Renata Dolce, ricostruisce Peter Pan dal punto di vista dei margini: i margini dell’impero

coloniale spagnolo, e poi statunitense, che cessano di essere oggetti stereotipati e diventano

soggetti produttori di immaginario.

Esattamente come capita per Peter Pan, tuttavia, Chico, in questo suo produrre storie

e trame che coinvolgono altre persone, non è esente dalla volontà di usare queste persone per i

propri scopi. Tuttavia, mentre nel caso di Peter Pan questa volontà è totale (Peter Pan è, in un

certo senso, un essere fatto di volontà), Chico tenta di esercitare questa sua volontà solamente

su Vasco, e la sua posizione gerarchica all’interno del suo gruppo di amici è ben diversa dal

ruolo dittatoriale occupato da Peter Pan: Chico si prende un sonoro schiaffone appena entrato

in casa, perché troppo rumoroso, subito dopo aver urlato “¡Ha llegado el jefe!”1, quasi come si

de Isusi volesse chiarire molto bene questa differenza tra il suo personaggio e il modello a cui

esso si rifà.

Nei confronti di Vasco, tuttavia, Chico non esita ad appropriarsi di tattiche tipiche

dell’imperialismo, e per le quali ci si può rifare in parte all’analisi riguardante le tecniche di

controllo dell’informazione e di uso dei volontari stranieri messe in luce nel primo volume de

Los viajes de Juan sin tierra e nel primo capitolo del presente lavoro. Chico infatti cerca di

utilizzare le informazioni in suo possesso riguardanti Juan come merce di scambio per

ottenere l’aiuto di Vasco, prezioso in quanto Vasco è, nella sua definizione, prima di tutto un

gringo, un bianco, e questa sua caratteristica lo rende indubbiamente ben accetto a prima vista

da altri bianchi come Don Jaime, o Hooker, come effettivamente accade. Nel primo piano per

impossessarsi del denaro di Don Jaime proposto da Chico a Vasco, infatti, Vasco è disegnato

(nella maniera diversa che caratterizza le narrazioni di Chico) come Indiana Jones2: ancora

una volta de Isusi utilizza, quindi, un classico dell’avventura e dell’esotismo euro-americano,

inserendolo però nell’immaginario di un personaggio che sta lottando contro una fondazione

americana, contro, cioè, uno dei tanti metodi usati dal neocolonialismo degli Stati Uniti nei

confronti del centro e America meridionale.

In altre parole, de Isusi evita l’ingenuità di creare un personaggio che sfrutti la sua

capacità di produrre immaginario (e il possesso di informazioni preziose) ignorando però i

meccanismi di discriminazione razziale, ancora oggi tanto rilevanti in molte situazioni nel

1 Ivi, p. 56.

2 Ivi, p. 59.

58

continente sudamericano: ignorando cioè gli effetti che Dolce sottolinea parlando degli effetti

del canone sull’immaginario di coloro che si trovano nella posizione di subalternità:

La conseguente costruzione dell’Altro quale inferiore e diverso, se da una parte ha

sedimentato la dicotomia tra il centro e le sue periferie consolidando la superiorità

dell’Occidente in qualità di custode della civiltà e della cultura, dall’altra ha indotto nei popoli

colonizzati il convincimento della propria connaturata inferiorità, favorendo l’accettazione

supina del sistema di potere imposto dai colonizzatori.1

In questo senso, Chico non può fare a meno di riprodurre le dinamiche sociali codificate da

secoli di narrazione e storia coloniale, dinamiche in cui il gringo ha un ruolo di superiorità, sia

che rappresenti l’impero degli Stati Uniti che non gradisce un certo tipo di governo in

Nicaragua, sia che rappresenti un eroe che, in alcuni casi, si pone dalla parte dei popoli

oppressi per salvarli. Tuttavia, se Vasco accettasse questa dinamica, assisteremmo alla

riproduzione di una strategia imperialista, assisteremmo cioè all’eroe gringo, seppur

antimperialista, che salva degli autoctoni indifesi. Non saremmo, cioè, nel campo

dell’appropriazione sovversiva di metodi della modernità coloniale, ma semplicemente nel

campo dell’imitazione e del vittimismo, o, se trasferiamo il livello dell’analisi alla narrazione

di de Isusi, staremmo assistendo all’imitazione di modelli classici dell’avventura esotica, e

non ad una decolonizzazione del concetto di avventura. Questo rischio viene sventato dal

rifiuto di Vasco ad occupare quel ruolo, in quel momento, anche se ciò lo mette di fronte al

rifiuto di Chico a fornirgli informazioni.

Ciò ha varie conseguenze. Prima di tutto, Chico deve per forza riacquistare il ruolo

di protagonista dei propri piani, ed andare perciò in prima persona a rapinare Don Jaime.

Vasco, d’altra parte, si trova costretto a continuare a cercare informazioni su Juan, e quindi a

rimanere sull’isola. Nel corso di queste ricerche si imbatte nell’inseguimento di Chico e dei

suoi amici da parte di Don Jaime e delle guardie armate subito dopo il furto, riuscito, di

quest’ultimo. Durante questo inseguimento assistiamo ad un momento che riecheggia l’azione

eroica di Vasco nel primo volume, alle prese con la finta telecamera. Qui, il protagonista del

fumetto riesce a far esplodere una gomma al fuoristrada di Don Jaime, tirando con una fionda

il proiettile esplosivo regalatogli da Paola.2 Tentare di decolonizzare il fumetto di avventura,

d’altra parte, non significa rinunciare all’avventura stessa, o alla presenza di un

1 Dolce, Maria Renata, “Con-test/azioni postcoloniali”, cit., pp. 177-178.

2 IdNJ, pp. 95-96.

59

protagonista/eroe che unisca fortuna a presenza di spirito; significa però porre attenzione e

riflettere sulle relazioni dell’eroe con il contesto culturale, sociale e umano in cui è immerso, e

delle relazioni di quest’ultimo con lui.

Dopo questi avvenimenti, infatti, i due personaggi si ritrovano in una posizione di

parità, nella quale nessuno dei due ha dovuto rinunciare al ruolo di protagonista della

(propria) vicenda, ma entrambi devono riconoscere il coraggio dell’altro, e anche la necessità

che hanno di collaborare. Dopo che Don Jaime ha fatto esplodere la casa di Chico e i suoi

amici, quest’ultimo propone un piano per vendicarsi una volta per tutte, facendo venire a galla

i crimini di Don Jaime e Hooker di fronte alla platea di finanziatori che accorreranno per la

cerimonia durante la visita del reverendo. In questo piano, ancora una volta, Vasco assume le

sembianze di Indiana Jones, perché capace, in quanto gringo, di essere invitato alla cerimonia.

Questa volta, però, Vasco può accettare, perché sa di aver cambiato posizione all’interno della

vicenda, e perché può vantare la conoscenza di Don Jaime fatta sul traghetto, cosa che facilita

ancora di più il suo inserimento nella cerimonia, e che gli permette di non avere un ruolo

esclusivamente passivo. Che la situazione sia mutata, in ogni caso, lo chiarisce anche il fatto

che Chico riveli tutto ciò che sa di Juan prima che il piano abbia inizio, in modo da permettere

a Vasco di scegliere liberamente se aiutare Chico e i suoi amici o no.1 Qualunque relazione di

potere tra i due viene perciò cancellata, ma rimane la differenza razziale, che continua a

renderli diversi agli occhi di persone come Don Jaime, e che quindi continua a poter essere

usata, sovversivamente, contro di loro, come poi effettivamente accade nell’ultima parte della

vicenda. In questo senso, tornando ancora all’analisi di Dolce:

Il writing back nelle sue più diverse espressioni si configura come mirata strategia di

decolonizzazione, dove esso implica una rilettura della storia della colonizzazione, del

rapporto tra oppressori ed oppressi, della realtà dell’Altro forgiata e condizionata da visioni

stereotipate e faziose delle quali sono percepibili gli strascichi ancora nel presente, un

presente segnato da forme di neocolonizzazione culturale e ideologica a dispetto della sua

presunta “postcolonialità”.2

In questa particolare riscrittura troviamo, quindi, una rilettura della storia recente del

Nicaragua e dei suoi rapporti con il neocolonialismo degli Stati Uniti, ottenuta attraverso una

riscrittura di un classico della narrativa di avventura. In questa riscrittura, però, assistiamo

1 Ivi, pp. 117 e segg.

2 Dolce, Maria Renata, “Con-test/azioni postcoloniali”, cit., p. 182.

60

anche a qualcosa di diverso: uno spostamento di codici che permette di liberare un certo tipo

di narrativa di avventura da ruoli e stereotipi coloniali, e da relazioni di potere di stampo

imperialistico.

Questo, nel caso del rapporto tra La isla de Nunca jamás e Peter Pan, non è da leggere

come un rapporto conflittuale, o di totale contrapposizione e contestazione del testo classico,

che, anzi, è senza dubbio un punto di riferimento omaggiato, essenzialmente per due diversi

aspetti. In primo luogo, per il fatto di essere un testo di partenza che già, come si è visto, si

dimostra critico verso molti aspetti della società inglese che descrive, un testo, cioè, che

contiene già in sé un potenziale ironicamente sovversivo (indipendentemente dal fatto che ciò

fosse colto o no dai suoi contemporanei). In secondo luogo, per il fatto di essere un testo il cui

tema fondamentale è la fantasia e la costruzione dell’immaginario come potenziale creativo

fondamentale nella vita individuale e nella società. Una fantasia che, però, è potentemente

legata alla costruzione politica dell’immaginario di una società operata dall’ideologia

egemone, come Barrie dimostra con ironia (e non senza una certa dose di cinismo): una

bambina immersa nell’ideologia vittoriana, anche se trasportata in un’isola popolata da pirati

e animali selvaggi, esprime come più grande desiderio quello di essere una madre di famiglia

che passa il suo tempo a rammendare calzini. E d’altra parte, dei bambini inglesi non possono

fare a meno di creare un’ isola in cui gli indiani sono nulla più che un agglomerato di

stereotipi di inferiorità. È, insomma, sufficiente grattare via da Peter Pan un sottile strato di

polvere, fatta di letture commerciali ed accomodanti dell’opera, per far emergere un

potenziale sovversivo che un secolo non è bastato a cancellare, ma anzi ha reso ancora più

attuale.

II.2. Río Loco e Heart of Darkness

Come si è visto nella precedente analisi, il rapporto tra i fumetti di de Isusi e un modello

classico di romanzo di fantasia come Peter Pan è, quindi, assai più problematico di una

semplice imitazione o di un totale contrasto. Questo discorso di decostruzione portato avanti

da de Isusi al livello degli stilemi classici della narrativa di avventura può essere analizzato

mediante un parallelo con l’analisi di Paola Carmagnani del rapporto fra Heart of Darkness di

Joseph Conrad e i modelli tipici del romanzo inglese di avventura di ambientazione coloniale.

61

Un parallelo tra le due opere risulta inoltre autorizzato e suggerito, seppur entro certi

limiti, dall’autore stesso di Los viajes de Juan sin tierra, il quale pone in esergo al terzo

volume proprio una citazione dal romanzo di Conrad: “Tu propia realidad – para ti mismo, no

para los demás – lo que ningún otro hombre puede llegar a saber jamás. Ellos sólo pueden ver

la representación, pero no pueden nunca saber lo que significa en realidad.”1 Fin da questa

citazione, peraltro, è possibile comprendere sotto quale punto di vista si può condurre un

possibile parallelo tra le due opere: la relazione tra il viaggio in territorio ‘esotico’ e la

scoperta, o presa di coscienza, di aspetti della propria vita che erano già presenti

precedentemente, ma che solo un qualche rapporto con l’alterità può mettere in luce.

Tuttavia, nell’intervista a se stesso, de Isusi mette ironicamente in guardia il lettore

dall’interpretare tutto Río Loco come una versione di Cuore di Tenebra:

-Sí, pero a mí me parece que además el Amazonas te viene muy bien para

homenajear a Conrad del mismo modo que homenajeaste a Barrie en La isla de Nunca Jamás,

¿no? El río Amazonas hace el papel que en El corazón de las tinieblas hace el río Congo.

-No, no, nada de eso, ¡no has entendido nada! Vamos a ver, La isla de Nunca

Jamás era una historia de historias. Si en La pipa de Marcos el marco en que se desarrollaba

la historia era tan potente que hasta el lugar se llamaba “La realidad”, en La isla de Nunca

Jamás el marco servía para adentrarnos en el mundo de la ficción, y ver cómo la realidad y la

ficción siempre se mezclan. El tema central de La Isla de Nunca Jamás es que la realidad es

siempre subjetiva, y que todo depende de cómo nos contemos las cosas. Por eso aparecían

continuas referencias a libros, cómics y películas, empezando por el propio título. Pero eso no

es necesario ya en Río Loco, ¡no se trata de homenajear a unos y otros sin parar! La similitud

con El corazón de las tinieblas es casual, aunque evidente; por eso uso una frase suya como

cita.

-Aah… qué listo.2

Nel presente lavoro si cercherà, perciò, di tenere a mente questo avvertimento, considerando

anche che le differenze tra le due opere, sia a livello della trama sia della visione politica e

sociale sono evidenti, anche considerando i differenti periodi storici in cui le due opere sono

ambientate e sono state composte. Un parallelo, tuttavia, mantiene la sua validità, proprio

grazie al fatto che si cercherà di dimostrare come le due opere abbiano delle somiglianze che

sono più una conseguenza che una scelta: una conseguenza perché provocate da intenti simili

di utilizzo, decostruzione e trasformazione di stilemi classici. Per quanto riguarda il romanzo

1 RL, p. 2. Citazione originale da Conrad, Joseph, Heart of Darkness, Project Gutemberg Ebook, 2006, p. 32.

2 Cfr. http://www.astiberri.com/entrevistas.php?ident=7

62

di Conrad, inoltre, bisogna tenere in considerazione la celebrità raggiunta sia dall’opera stessa

sia dalla sua versione cinematografica in Apocalypse Now di Francis Ford Coppola, e in essa

soprattutto dall’ interpretazione di Kurtz realizzata da Marlon Brando, che ha trasformato il

personaggio in una vera e propria icona, patrimonio dell’immaginario collettivo, quantomeno

occidentale. Di conseguenza, Cuore di Tenebra è diventato un modello quasi impossibile da

ignorare per chi scrive di un tema così simile a quello affrontato da Conrad (naturalmente,

possono poi essere infiniti i modi di fare i conti con questo modello).

Un primo caso di come entrambe le opere utilizzino uno stilema tipico della

narrativa di avventura si può trovare nel fatto che Marlow, raccontando di ciò che ha vissuto

in Africa, si trova a descrivere le motivazioni della sua scelta di lavorare sulle navi, e poi di

recarsi in Congo: “Now when I was a little chap I had a passion for maps. At that time there

were many blank spaces on the earth, and when I saw one that looked particularly inviting on

a map (but they all looked like that) I would put my finger on it and say, When I grow up I

will go there.”1

Ma, nel momento in cui Marlow si trova ad essere adulto e a poter realizzare il

suo sogno, l’Africa è cambiata: “By this time it was not a blank space any more. It had got

filled since my boyhood with rivers and lakes and names. It had ceased to be a blank space of

delightful mistery – a white patch for a boy to dream gloriously over. It had become a place of

darkness.”2

Queste parole richiamano da vicino il desiderio di Vasco di fare il marinaio per

imitare un certo modello di avventuriero, in particolare il‘bostoniano’ interpretato da Gregory

Peck in Il mondo nelle mie braccia, come egli rivela ad una ragazza belga, Elsa, al momento

di raccontare il perché della sua scelta di prendere il mare. In quella conversazione, Vasco

racconta:

Lo cierto es que me cansé porque aquello no era ni viaje y ni aventura. Los barcos

de hoy no tienen nada que ver con las novelas de Stevenson. Ahora son naves inménsas con

tripulaciones mínimas, y todo está mecanizado. Juan lo llamaba ‘la oficina’. Navegar ahora es

mucho más seguro y también más aburrido. Pero lo cierto es que lo mismo pasa con los

viajes... ya no quedan espacios blancos en los mapas... los únicos espacios en blanco estan

dentro de uno mismo.3

1 Conrad, Joseph, Heart of Darkness, Project Gutemberg Ebook, 2006, p. 6.

2 Ivi, p. 7.

3 TdlST, p. 62.

63

Le sue considerazioni sul presente reale della vita sulle navi, che ha perso ogni mistero, ci

riportano alla scomparsa di qualunque spazio inesplorato. Ma ancor più significativa è la

considerazione che Vasco fa al termine di quella battuta: “ya no quedan espacios blancos en

los mapas... los únicos espacios en blanco estan dentro de uno mismo”. In entrambe le opere,

infatti, la modernità cancella la possibilità dell’avventura, sostituendola con un presente che è

connotato dall’inquietudine, il place of darkness o los espacios blancos dentro de uno mismo.

Ciò che viene messo in crisi nei passaggi di entrambe le opere è l’immaginario

dell’avventura dell’esplorazione, da sempre base del mito eurocentrico delle scoperte

geografiche e, di conseguenza, di quei romanzi di avventura di ambientazione esotica che su

quell’immaginario basano la loro attrattiva, e che, infatti, utilizzano come modello i resoconti

dei viaggi di esplorazione. Come scrive Paola Carmagnani: “Il rapporto formale del romanzo

di avventura esotico con il resoconto del viaggio d’esplorazione è del resto apertamente

dichiarato a partire dal paratesto convenzionale, che prevede innanzi tutto una canonica carta

geografica su cui viene segnalato il percorso degli eroi e che offre allo spazio narrativo una

presunta verosimiglianza.”1 E, infatti, al preciso riferimento di entrambe le opere alle mappe

(soprattutto per quanto riguarda la passione del Marlow bambino per esse), fa eco la presenza,

sistematica, di una mappa del percorso seguito da Vasco, posta all’inizio di ogni volume, e

che diventa, significativamente, una mappa turistica nell’ultimo volume, esprimendo così

anche figurativamente la fine o la trasformazione del modello dell’esplorazione in quello del

turismo internazionale.

Il processo che porta la mappa del viaggiatore e delle sue avventure a diventare un

depliant turistico è un buon esempio del trattamento che entrambe le opere fanno degli stilemi

classici: non una cancellazione o un sovvertimento, bensì un’evoluzione quasi lineare, che

tenga conto delle mutazioni avvenute nella realtà descritta (o comunque della realtà stessa).

Ma questa stessa evoluzione, pur mantenendosi all’interno dei binari dello stilema classico, ne

mette in crisi il cuore, ossia la visione del mondo e della storia che quello stilema

convogliava. Il turismo internazionale come lo conosciamo oggi, infatti, è una delle dirette

conseguenze della modernità coloniale, e mantiene (non importa se in positivo o in negativo)

ampi collegamenti, sia pratici sia a livello dell’immaginario, con i concetti di esplorazione e

avventura: basti pensare al rapporto, insieme di somiglianza e conflitto, presente tra i concetti

di ‘viaggio’ e ‘turismo’.

1 Carmagnani, Paola, Luoghi di tenebra, cit., p. 109.

64

II.2.1. Il viaggio di Vasco e Marlow.

Un altro esempio di questo processo si può ritrovare nell’impianto generale delle due opere,

costruite entrambe come un viaggio verso l’interno di un continente, sulla linea rettilinea di

un fiume, alla ricerca di un affascinante personaggio che si è, in qualche modo, ‘smarrito’

nella selva. La struttura del viaggio è quella tipica della narrativa di ambientazione coloniale:

“Gli eroi del romanzo di avventura esotico partono alla conquista dei vasti spazi dell’impero

coloniale spinti dal desiderio della scoperta, alla ricerca di tesori sepolti o di esploratori

bianchi perduti nel cuore di tenebra dell’alterità nemica.”1 Nel caso di Heart of Darkness:

Come in tanti altri romanzi esotici e come nei celebri resoconti dei viaggi di

esplorazione che li hanno preceduti, un eroe bianco segue il corso di un grande fiume che

dalla costa si snoda verso il centro del continente. […]. Le forme narrative tradizionalmente

preposte a raccontare questo tipo di storia costituiscono qui i riferimenti imprescindibili di

Conrad, che se ne serve però in maniera nuova, prendendo a prestito e rielaborando gli

elementi preesistenti fino a creare un’inedita soluzione formale.2

Se, quindi, sono evidenti le somiglianze nell’impianto generale dell’opera, queste stesse

somiglianze mettono in luce gli spostamenti di senso. Il percorso tipico, infatti, secondo

Franco Moretti ha la forma di:

una linea isolata, senza deviazioni o diramazioni. […] In queste storie […] si dà un

solo tipo di movimento: avanti o indietro. Non sono previsti sviluppi laterali: non sono

previste alternative al cammino prescritto, ma solo ostacoli – e dunque avversari. Amici, e

nemici. Da una parte i bianchi, la guida, la tecnologia occidentale, una vecchia mappa un

po’stinta. Dall’altra… dall’altra leoni, caldo, liane, elefanti, mosche, pioggia, malattie – e

indigeni. Tutti avvicinati, tutti equiparati dalla loro funzione narrativa di ostacoli: tutti

egualmente inconoscibili e pericolosi.3

1 Ivi, p. 107.

2 Ivi, p. 144.

3 Moretti, Franco, Atlante del romanzo europeo. 1800-1900, Torino, Einaudi, 1997, p. 62. Apud Carmagnani,

Paola, Luoghi di tenebra, cit., p. 14.

65

All’interno di questo impianto classico, si potrebbe fare una lista di quali elementi vengano

mantenuti e quali no in entrambe le opere. In Heart of Darkness troviamo sì un viaggio

rettilineo, in cui gli sviluppi laterali sono minimi, e il genere di movimento possibile è,

effettivamente, quello rettilineo. Tuttavia, relativamente a Heart of Darkness si può dire che

ciò che cambia è l’identificazione del nemico o della minaccia, che solo raramente è

identificabile con gli indigeni africani, e che, invece, si situa ben più spesso nei personaggi

europei, per la maggior parte violenti, sciocchi, vuoti, e nel loro rapporto con un ambiente di

cui non fanno parte: “La perturbante ambivalenza tipicamente attribuita allo spazio esotico

emana qui non già da un’alterità misteriosa e allo stesso tempo minacciosamente familiare,

ma dai segni incongrui della presenza occidentale all’interno di uno spazio incomprensibile.”1

In tutto questo, quindi, i nativi e la potente natura tropicale occupano ancora il luogo

dell’alterità, che è ancora inconoscibile e in qualche modo pericolosa, come nelle parole di

Moretti, ma nei cui confronti l’opera non si pone in una situazione di superiorità, bensì di

distanza: Marlow dichiara infatti più volte come lui scorga i tratti di una evidente umanità nei

nativi, ma di un’umanità che, semplicemente, rinuncia a comprendere.2 Diverso è, invece, il

caso di Kurtz, la cui minaccia è contenuta nella tenebra dell’inconscio umano, se abbinato a

un potere sconfinato.

Un esempio di questo atteggiamento verso i nativi, e soprattutto verso la presunta

missione civilizzatrice dell’Europa, si ha per esempio nel racconto dell’episodio della morte

di colui che Marlow viene assunto per sostituire. Quella che potrebbe essere un’occasione per

arricchire le motivazioni di una gloriosa avventura, infatti, si rivela un sordido e minimo

episodio:

The original quarrel arose from a misunderstanding about some hens. Yes, two

black hens. Fresleven – that was the fellow’s name, a Dane – thought himself wronged

somehow in the bargain, so he went ashore and started to hammer the chief of the village with

a stick. Oh, it didn't surprise me in the least to hear this, and at the same time to be told that

Fresleven was the gentlest, quietest creature that ever walked on two legs. No doubt he was;

but he had been a couple of years already out there engaged in the noble cause, you know, and

he probably felt the need at last of asserting his self-respect in some way. Therefore he

whacked the old nigger mercilessly, while a big crowd of his people watched him,

thunderstruck, till some man – I was told the chief's son – in desperation at hearing the old

chap yell, made a tentative jab with a spear at the white man – and of course it went quite easy

1 Cfr. Carmagnani, Paola, Luoghi di tenebra, cit., p. 153.

2 Ivi, p. 156.

66

between the shoulder-blades. Then the whole population cleared into the forest, expecting all

kinds of calamities to happen, while, on the other hand, the steamer Fresleven commanded left

also in a bad panic, in charge of the engineer, I believe. Afterwards nobody seemed to trouble

much about Fresleven's remains, till I got out and stepped into his shoes. I couldn't let it rest,

though; but when an opportunity offered at last to meet my predecessor, the grass growing

through his ribs was tall enough to hide his bones. They were all there. The supernatural being

had not been touched after he fell. And the village was deserted, the huts gaped black, rotting,

all askew within the fallen enclosures. A calamity had come to it, sure enough. The people

had vanished. Mad terror had scattered them, men, women, and children, through the bush,

and they had never returned. What became of the hens I don't know either. I should think the

cause of progress got them, anyhow. However, through this glorious affair I got my

appointment, before I had fairly begun to hope for it.1

In questo passaggio troviamo, infatti, due caratteristiche importanti: da una parte un’amara

ironia riguardo alla ‘noble cause’ del colonialismo (frequente per tutto il corso della

narrazione), che ha l’unico effetto di trasformare un uomo gentile in un pazzo rabbioso, e che

è capace solo di appropriarsi di merci, come le galline sacrificate, probabilmente, alla causa

del progresso. Dall’altra, i nativi rimangono sostanzialmente assenti o comunque sfuggenti,

anche come presenza fisica, e su di loro si mantenga una sospensione del giudizio, tanto che

persino l’atto dell’uccisione di Fresleven è presentato, oltre che come giustificato, anche come

sostanzialmente casuale: ‘a tentative jab’. Lo stesso Marlow definisce questo episodio

il‘glorious affair’ che lo ha portato lì.

Vediamo, quindi, come la frattura dai modelli produca una situazione, per il

personaggio e per il lettore, di inquietudine, per la difficoltà di individuare un nemico che non

sia l’animo europeo stesso. Contemporaneamente, tuttavia, mai Marlow ha, o potrebbe avere,

la tentazione di passare d’altra parte, la parte dei nativi, che non può comprendere. In questo

senso, la narrazione di Marlow si caratterizza come deludente, se confrontata con una normale

narrazione di avventura. Forse si può interpretare in questo senso l’affermazione del primo

narratore dell’opera, colui che ascolta la narrazione di Marlow, il quale afferma “we knew we

were fated, before the ebb began to run, to hear about one of Marlow’s inconclusive

experiences.” Quelle di Marlow sono esperienze inconcludenti, infatti, proprio perché non

portano a nessuna chiara conclusione, a nessuno schieramento, e perciò a nessuna vittoria: né

con gli europei, né con i nativi. Ciò che rimane, quindi, è uno spazio interno alla cultura

1 Conrad, Joseph, Heart of Darkness,cit., p. 8.

67

occidentale ma dominato dall’inquietudine: un’inquietudine che si presenta in due facce, e le

stesse due facce sono riscontrabili nell’opera di de Isusi.

Da una parte l’inquietudine è provocata dalla considerazione del disastro umano e

ambientale provocato dalla modernità capitalista, che, come abbiamo visto nella prima parte

di questo lavoro, sta alla base della narrazione di de Isusi, ma è anche elemento assai

importante del romanzo di Conrad: la frase “It had become a place of darkness” viene seguita,

poco dopo, dalla visione della nuova mappa dell’Africa: “A large shining map, marked with

all the colours of a rainbow.”1 La tenebra dell’Africa, quindi, non è più soltanto quella

figurata dell’ipotetica assenza di civilizzazione del ‘continente nero’, ma è soprattutto quella

della barbarie dello sfruttamento coloniale.2 Non a caso, Conrad sceglie proprio il Congo

della dominazione belga del periodo di Leopoldo II, celebre per la sua brutalità; ma lo stesso

Conrad sceglie anche di non nominare precisamente Bruxelles (definita a “whited

sepulcher”3) come città in cui Marlow si reca nella sede dell’impresa che gli affida il lavoro,

per non privare il suo romanzo di un senso, anche critico, che andasse oltre il caso specifico

del Congo belga. In particolare, Marlow afferma: “All Europe contributed to the making of

Kurtz.”4, facendo riferimento alle origini e all’istruzione del personaggio, ma anche in senso

figurato, utilizzando Kurtz come simbolo del colonialismo. In ogni caso, la descrizione delle

condizioni di vita degli indigeni schiavizzati nella prima delle stazioni coloniali vista da

Marlow non lascia spazio a dubbi riguardo alla connotazione di barbarie che Conrad dà alla

dominazione belga, ed europea, dell’Africa.

L’altra faccia dell’inquietudine, strettamente collegata alla precedente, è quella di un

rapporto dei personaggi con la loro interiorità ben più complesso, e più inquieto, di quello dei

tipici eroi di avventure esotiche: saldi, immutabili, infallibili. La differenza tra gli eroi classici

e gli eroi delle due opere prese in considerazione è, una conseguenza del primo aspetto

dell’inquietudine che si è analizzato: se il pericolo non si trova più nell’’altro’, ed è invece

situato proprio in quello stesso progetto civilizzatore che sta alla base dell’impresa coloniale,

allora è il cuore dell’identità europea, e quindi anche dell’individuo europeo, a contenere la

1 Conrad, Joseph, Heart of Darkness, cit., p. 9.

2 Cfr. Carmagnani, Paola, Luoghi di tenebra, cit., p. 149. Nel dire che la darkness africana non è più ‘soltanto’

quella dell’ipotetica arretratezza culturale dei nativi, che quindi ancora sussiste, si fa riferimento alla visione del

personaggio Marlow, indubbiamente legata ad una mentalità coloniale, senza voler entrare nel dibattito su

quanto Heart of Darkness sia o no un’opera che riflette una visione imperialista dell’autore Conrad. 3 Conrad, Joseph, Heart of Darkness, cit., p. 8.

4 Cfr. Carmagnani, Paola, Luoghi di tenebra, cit., pp. 150 e 155. Citazione da Heart of Darkness, cit., p. 58.

68

tenebra: “Lo strappo aperto dall’esotismo perturbante nel solido tessuto dell’identità

occidentale rifiuta questa volta di lasciarsi ricucire: privato di un salvifico nemico esterno,

l’eroe si ritrova in definitiva solo di fronte al proprio cuore di tenebra.”1

Per quanto riguarda la forma del viaggio che si sviluppa lungo Río Loco, essa è

simile a quella dell’opera di Conrad e al modello classico, ossia, almeno fino ad un certo

punto, la risalita di un fiume su un’imbarcazione. Tuttavia, questa volta il mezzo di trasporto

stesso, o meglio la modalità in cui il protagonista lo utilizza, sovverte il senso classico del

viaggio di avventura. Infatti, entrambe le imbarcazioni utilizzate da Vasco e il suo amico

Héctor per risalire il fiume Napo vedono il protagonista in posizione passiva, e questo fatto

viene sottolineato più volte. Prima di tutto nell’impossibilità di sapere a che ora il capitano

della Camila, questo il nome dell’imbarcazione, deciderà di salpare da Coca in direzione

Iquitos. Una volta partiti, Héctor, che in quanto scrittore di racconti e romanzi del mistero è

conoscitore titolato degli stilemi classici dell’avventura, esclama eccitato: “¡Aaah! ¡La

aventura! ¡Me encanta ese barco! Y… ¡Camila! Qué buen nombre para usarlo en un cuento,

¿no?”2 Camila, però, non ci metterà molto a rivelare il suo vero volto di normale, lento e

noioso traghetto fluviale per passeggeri, e questo, agli occhi di Vasco e soprattutto di Héctor,

la rende non narrabile: “Este río es como un limbo. El paisaje siempre es el mismo, las

comunidades por las que pasamos son parecidas… lo único che cambia es que cada vez

somos más. No sé como escribir sobre esto sin matar de aburrimiento los lectores.”3

Gli episodi lungo il percorso, quindi, perdono qualunque valore avventuroso, e i due

personaggi sono costretti alla passività. Un discorso molto simile vale per la canoa con la

quale risalgono il fiume Napo prima di inoltrarsi nella selva: la canoa è guidata da Leandro,

che è l’unico che si sa orientare, tanto che l’unico tentativo di Juan di prendere il controllo,

usando la mappa con le indicazioni di Napo, si rivela un fallimento, perché Vasco scambia

per biforcazione del fiume una semplice isola.4 Non solo, quindi, la guida (che è uno degli

elementi ‘amici’ indicati da Moretti) non sta dalla parte del protagonista, ma in una posizione

ambigua e imprevedibile (quando non apertamente ostile) ma viene anche a mancare un

elemento fondamentale dell’avventuriero: il controllo su ciò che sta facendo, e su dove sta

andando.

1 Carmagnani, Paola, Luoghi di tenebra, cit., p. 21.

2 RL, p. 28.

3 Ivi, p. 40.

4 Ivi, p. 92.

69

La situazione si replica quando i tre si addentrano nella selva. Anche qui, il tentativo

di Juan di ottenere un potere su Leandro (controllando e razionando la scorta di alcol, da cui

Leandro è dipendente) si rivela solo temporaneamente di successo, ma non cambia il risultato

finale, ossia l’inganno di Leandro, che invece di farli camminare verso nord, dove dovrebbero

dirigersi, li trascina in un lungo percorso circolare. Qui è evidente, peraltro, come

l’abbandono della linea retta, del percorso magari accidentato ma rettilineo dell’avventura

corrisponda ad uno smarrimento generale del personaggio, in una spazialità circolare che non

si può adattare ai piani dell’avventuriero. Quando Leandro li abbandona, infatti, i due si

trovano smarriti nella selva, ai bordi del fiume Napo. Questo smarrimento porterà Héctor a

tornare indietro su una canoa trovata per caso (in realtà portata da Américo/Napo in loro

aiuto), rinunciando ai suoi propositi (mai troppo seri, in ogni caso) di trovare El Dorado, e

Vasco ad addentrarsi ancora di più nella selva, solo.

Nelle pagine che seguono, inizialmente Vasco sembra poter riuscire ad avanzare ed

orientarsi, anche mediante l’uso, tipico, di un qualche tipo di tecnologia occidentale, seppur

minima: utilizza una bussola, ha un machete per farsi strada, ogni sera accende il fuoco e si

cucina i pasti. Ma sono proprio questi i primi segni del controllo che cadono: perde bussola e

machete, ed inizia ad alimentarsi di larve. Nel frattempo, nelle vignette si moltiplicano le

presenze animali, più stranianti che effettivamente pericolose, in un processo di

soggettivazione della natura, questo sì, tipico della narrativa di ambientazione esotica e delle

sue descrizioni dell’ambiente. Zanzare, pioggia, caldo, febbri: appaiono qui molti degli

antagonisti classici dell’avventuriero, che sembrano essere lì apposta per lui, per osservarlo e

circondarlo.1

Lo smarrimento, infine, prederà il sopravvento di Vasco, fino al contatto con la rana-

dardo, simbolo letale di questa natura strana, esotica e potente, ma d’altra parte simbolo

innocente: la rana-dardo non avvelena per predare ma per difendersi, non attacca. È il

protagonista stesso, quindi, che provoca il contatto con una natura ‘altra’, dalla quale è lui

stesso a recarsi, sia in senso figurato che pratico. Tuttavia, se questo è il momento culminante

dello smarrimento del protagonista, e se in questo smarrimento la natura amazzonica ha un

evidente ruolo scatenante, è tuttavia necessario notare che le vignette che mostrano il processo

1 Sull’antropomorfizzazione della natura come topos dell’immaginario esotico cfr. Cfr. Carmagnani, Paola,

Luoghi di tenebra, cit., p. 76.

70

di perdita di contatto con la realtà descrivono allucinazioni provenienti dal passato personale

di Vasco: è, insomma, il suo ‘cuore di tenebra’ personale, o meglio ancora sono i suoi

‘espacios blancos dentro de si mismo’ a farlo smarrire.1

II.2.2. Vasco e Juan, Marlow e Kurtz.

Marlow, dalla sua parte, non arriva mai a sperimentare una tale mancanza di controllo sugli

avvenimenti: egli rimane capitano e pilota della sua imbarcazione per tutta la durata del

viaggio, e mantiene su ciò che accade una presa efficiente, persino nella stazione di Kurtz e

persino su Kurtz stesso. D’altra parte, si dimostra anche consapevole su quale sia il modo per

non smarrirsi, nonostante il rapporto perturbante fra la presenza (e la crudeltà) europee, e

l’incomprensibile spazio esotico: è il potere delle piccole cose, dei piccoli gesti efficienti che

tengono a bada l’inconscio. Riguardo a questo atteggiamento, Carmagnani scrive:

Di fronte alla spinta della pulsione, il Super-io della morale vittoriana non basta:

l’Io deve ricorrere a quello che Freud chiama il ‘principio di realtà’, a quella vocazione pratica

all’equilibrio e al compromesso che permette di legare e far coesistere delle forze portatrici di

squilibrio. Grande protagonista del romanzo di avventura ottocentesco, il principio di realtà

s’incarna qui in una dimensione tecnica e funzionale che associa Marlow agli eroi pieni di

risorse del romanzo di avventura, troppo indaffarati con mappe e fucili per lasciarsi andare a

osservare troppo da vicino il cuore di tenebra di un’alterità che minacciava di rivelarsi non

così estranea come avrebbero voluto credere.2

Nella fattispecie, sono le infinite attività e attenzioni necessarie perché l’imbarcazione possa

continuare il suo viaggio sul fiume Congo, nonostante le difficoltà, ad impedire a Marlow di

vedere una realtà che comporterebbe il suo smarrimento: “I had to watch the steering, and

circumvent those snags, and get the tin-pot along by hook or by crook. There was surface-

truth enough in these things to save a wiser man.”3 In un altro punto, egli afferma: “What

saves us is efficiency – the devotion to efficiency.”4

1 RL, pp. 138-145.

2 Carmagnani, Paola, Luoghi di tenebra, cit., p. 166.

3 Conrad, Joseph, Heart of Darkness, cit., p. 41.

4 Ivi, p. 5.

71

Lo stesso però non si può dire riguardo al personaggio di Kurtz, il cui smarrimento

nella parte più buia dell’essere umano Marlow stesso imputa proprio alla mancanza di

attenzione agli infiniti compiti dell’agire quotidiano, tipica del mondo borghese:

These little things make all the great difference. When they are gone you must fall

back upon your own innate strength, upon your own capacity for faithfulness. […] And there,

don’t you see? Your strength comes in, the faith in tour ability for the digging of

unostentatious holes to bury the stuff in – your power of devotion, not to yourself, but to an

obscure, back-breaking business.1

Questo fa sì che Marlow abbia nei confronti di Kurtz un atteggiamento dichiaratamente

ambivalente, che comprende sia l’ammirazione, soprattutto nel contrasto fra Kurtz e gli altri

vuoti personaggi europei, alcuni dei quali sono definiti troppo sciocchi anche solo per correre

il pericolo di smarrirsi (“no fool ever made a bargain for his soul with the devil: the fool is too

much of a fool, or the devil too much of a devil – I don’t know which.”2); ma comprende

anche, d’altra parte, un giudizio negativo, o meglio la sensazione che la caduta di Kurtz nelle

tenebre sia un rischio da evitare con tutte le proprie forze, in quanto espressione di un orrore

senza ritorno, seppur insito nell’interiorità dell’animo occidentale, e quindi anche nell’animo

di Marlow stesso.

Nell’opera di de Isusi i personaggi di Vasco e Juan si trovano ad occupare ruoli che

ricordano da vicino quelli di Marlow e Kurtz. Essenzialmente, nel corso di Río Loco Vasco

occupa il ruolo di Marlow, che risale il fiume alla ricerca di Juan, in qualche modo disperso

nella selva. E, in effetti, Vasco è, tra i due, il personaggio che più si dimostra in possesso di

quel principio di realtà che contraddistingue Marlow da Kurtz. Il suo viaggio, in questo senso,

pur ‘strabordando’ in una serie di avventure laterali, ha uno scopo ben preciso: la ricerca del

suo amico. Proprio in Río Loco, in effetti, Vasco dichiara più volte di non voler più

intervenire in nessuna vicenda che non sia trovare Juan (rifiuta, per esempio, di andare con

Jürgen a Manaus a lavorare per aiutare gli indios), e di non voler più perdere alcun tempo,

inseguendo in maniera assolutamente caparbia il suo scopo, fino a fare uso della violenza e

del ricatto (per esempio contro Leandro), se qualcosa si frappone fra lui e il suo obbiettivo.

Spesso, addirittura, sembra che Vasco voglia agire proprio per non pensare, per rimuovere gli

1 Ivi, p. 57.

2 Ibidem.

72

‘spazi bianchi’, o neri, dentro se stesso, tanto che Héctor è costretto a fare a pugni con lui per

potersi fermare a riflettere e farsi raccontare una parte della storia di Vasco.1

Al contrario, il viaggio di Juan era stato invece connotato dall’ossessione di

inseguire una serie di miti, una serie di missioni che si autoimponeva per realizzare le sue

convinzioni, salvo poi fuggire quando questi luoghi si dimostravano diversi dalla sua fantasia:

la rivoluzione con gli zapatisti in Messico, un’isola incantata e vergine a Atitlán e Ometepe,

l’essere umano incontaminato nell’Amazzonia. Kurtz stesso, d’altra parte, aveva intrapreso la

sua missione con elevatissimi scopi umanitari, rispetto ai quali il commercio di avorio era

solo un pretesto. Marlow viene a sapere tutto questo, oltre che dai racconti ammirati d chi ha

conosciuto Kurtz, anche leggendo il trattato che quest’ultimo ha scritto, e che ha come scopo

il fatto di portare la civiltà agli indigeni, al termine del quale però appare una nota inquietante:

“It was very simple, and at the end of that moving appeal to every altruistic sentiment it

blazed at you, luminous and terrifying, like a flash of lightning in a serene sky: ‘Exterminate

all the brutes!’”2 Sebbene gli scopi di Juan e di Kurtz siano opposti, ciò che interessa è la

caratteristica di entrambi di essere basati su miti, su concetti astratti che, seppur filantropici,

entrano in crisi al primo contatto con la realtà: siamo, insomma, nel campo di ciò che Mignolo

definisce abstract universals, sempre slegati dalla realtà locale e vitale di coloro che

dovrebbero venirne coinvolti.

La crisi che ne risulta costringe entrambi i personaggi a spingersi ancora più in là nel

tentativo impossibile di realizzare i loro obbiettivi. Il punto finale del viaggio di Juan, infatti,

è rappresentato dall’atto di voltare le spalle alla civiltà, partendo sulla canoa di Leandro. In

Heart of Darkness si racconta che Kurtz stesso faccia, fisicamente, un gesto molto simile nel

momento in cui sceglie di tornare definitivamente alla sua stazione nel cuore della foresta:

volta la canoa e riparte risalendo il fiume. Entrambi i gesti, peraltro, vengono descritti

indirettamente al lettore, da narrazioni che vengono fatte a Vasco e Marlow.

Se, quindi, il personaggio di Juan e Kurtz sono simili, è interessante notare come il

ruolo che ricoprono risponda anch’esso ad una serie di topoi:

Personaggio estremamente complesso all’interno di un racconto esso stesso quanto

mai stratificato, Kurtz si costruisce però a partire dall’intreccio di altri due topoi dell’esotismo

1 RL, pp. 123-125.

2 Conrad, Joseph, Heart of Darkness, cit., p. 58.

73

coloniale: quello del bianco prigioniero nello spazio esotico nemico che gli eroi devono

salvare, che trova le sue origini nella celebre vicenda di Livingstone e Stanley e una più

lontana eco fiabesca nella funzione proppiana della ‘prigionia nel reame nemico’; e quello del

bianco degenerato.1

Guardati da questo punto di vista, quindi, sia Kurtz che Juan risultano rielaborazioni di

modelli tipici, e servono essenzialmente per permettere, anzi, per costringere il protagonista al

contatto con un’alterità (o perlomeno risultano tali fino a quando non compaiono sulla scena

ed arrivano ad essere personaggi veri, cosa che in entrambe le opere accade solo nel finale, e

assai brevemente nel caso di Los viajes de Juan sin tierra). Sono, insomma, gli elementi che

permettono e giustificano un’avventura che senza di loro non potrebbe avere luogo, come non

avrebbe avuto luogo la ricerca di Livingstone da parte di Stanley se il primo non si fosse

perso nel cuore dell’Africa. Tuttavia, partendo da questo modello, Kurtz e Juan assumono

connotazioni che li distanziano dai modelli classici, sia nella fantasia dei due protagonisti, sia

come personaggi in sé.

Partendo dal ruolo che rivestono nella fantasia del protagonista, in queste due opere

il personaggio ‘cercato’ viene visto come l’unica possibilità per recuperare un significato per

un’intera esistenza che ne risulta in quel momento priva, e per tentare di risolvere

quell’inquietudine che si è cercato di analizzare. Durante il lungo viaggio, infatti, la

prospettiva dell’incontro con Kurtz, e soprattutto della possibilità di dialogare con lui rimane

il riferimento costante di Marlow, il pensiero fisso che lo porta a sforzarsi per riparare

l’imbarcazione, prima, e risalire poi il fiume nonostante tutte le difficoltà e l’assoluta

estraneità che Marlow prova nei confronti di tutti gli altri europei per i quali e con i quali

lavora. Di uno dei momenti più difficili del viaggio, in cui uno degli indigeni presenti sulla

barca è morto trafitto da una lancia a fianco a Marlow nella cabina di pilotaggio, il

protagonista narra: “I flung one shoe overboard, and became aware that that was exactly what

I had been looking forward to – a talk with Kurtz.” Marlow paragona l’eloquio di Kurtz

(come gli lo immagina, almeno, prima di averlo potuto udire veramente) a un “pulsating

stream of light, or the deceitful flow from the heart of an impenetrable darkness.”2 E in effetti

questo colloquio porta con sé un qualche significato, seppur parziale:

1 Carmagnani, Paola, Luoghi di tenebra, cit., p. 167.

2 Conrad, Joseph, Heart of Darkness, cit., p. 55.

74

It was the farthest point of navigation and the culminating point of my experience.

It seemed somehow to throw a kind of light on everything about me-- and into my thoughts. It

was somber enough too--and pitiful-- not extraordinary in any way--not very clear either. No,

not very clear. And yet it seemed to throw a kind of light.1

In un momento altrettanto drammatico, nel quale Vasco e Héctor non sanno come potranno

sopravvivere persi nella selva, Vasco si trova a raccontare il perché della sua ossessione per

Juan:

Él desapareció… en uno de sus tantos viajes. […] pero un día de pronto caí en la

cuenta de que habían pasado años sin noticias suyas. Entonces empecé a preguntar y resultó

que nadie sabía nada de él. Era... como si se hubiera muerto... pero no había forma de saberlo.

[...] Entonces para mí Juan dejó de ser quien había sido y se convirtió en un fantasma. Como

no podía hacer nada no hice nada, y así fue pasando el tiempo. Pero el tiempo no mata a los

fantasmas. Al revés, ellos se alimentan de tiempo. Y el fantasma se te aparece en cada rostro

de la calle, en cada sombra del cine, detrás de cada llamada de teléfono. Pero no hay nada.2

La figura di Juan, inoltre, coinvolge una storia d’amore molto importante per Vasco: “Ella y

yo... bueno, nos queríamos, pero algo no funcionaba… la dejé. Después descubrí qué era lo

que no funcionaba, pero para entonces era tarde. Se había ido a bailar al extranjero. [...] Lo

que no funcionaba era el pelotudo de Juan. El pelotudo del fantasma de Juan.”3

Si può dire, quindi, che Kurtz e Juan costituiscano non solo il motivo del viaggio dei

due protagonisti, ma vadano anche in qualche modo a rappresentare e a catalizzare la loro

crisi. Una crisi, un’inquietudine, che va, in realtà, ben al di là della relazione fra i due

personaggi, ed investe tutto il campo della relazione tra l’io moderno (o contemporaneo) e il

mondo nel quale è immerso, e che perciò è perenne e precedente allo smarrimento di colui che

goes native, come espresso chiaramente, anche per quanto riguarda Vasco, dalla natura delle

allucinazioni e dal percorso di crescita che intraprenderà successivamente. Tuttavia, Kurtz e

Juan, rappresentando un idealismo totale che porta all’uscita da mondo conosciuto,

costringono il protagonista a fissare per la prima volta lo sguardo nel cuore di tenebra, nel

caso di Marlow, o negli spazi sconosciuti dentro se stessi, nel caso di Vasco.

1 Ivi, p. 6.

2 RL, p. 127.

3 Ibidem.

75

II.2.3. Tenebre e spazi vuoti.

In questa doppia denominazione, che abbiamo più volte ripetuto, si può trovare, in effetti,

tutta la somiglianza fra le due opere, ma anche tutta la differenza. Una differenza che diventa

ancor più evidente in lingua originale, dove alla darkness di Conrad si contrappongono

espacios blancos: spazi vuoti, ma anche bianchi. Ciò che muta, in effetti, è la valutazione di

ciò che può accadere ai personaggi al momento di fissare lo sguardo in questo ‘spazio’ che in

entrambe le opere si situa all’interno del soggetto, più che all’interno. Marlow, infatti, si

mantiene aggrappato, quasi disperatamente, al suo principio di realtà, a quelle piccole cose

che gli possano evitare di scendere nel cuore di tenebra. Fa questo essendo totalmente

consapevole che ciò che sta utilizzando è una finzione, come sottolinea Carmagnani:

A differenza degli eroi del romanzo di avventura, però, Marlow è perfettamente

cosciente che tutte queste operazioni pratiche non sono che dei ‘monkey tricks’, delle finzioni

salvifiche che offrono una ‘verità di superficie’ sotto la quale si nasconde una più profonda

verità da cui è meglio distogliere lo sguardo, e proprio questa è la funzione del principio di

realtà.1

Per questo stesso motivo, d’altra parte, nel finale dell’opera Marlow non riuscirà a dire la

verità alla fidanzata di Kurtz, e preferirà, pur con rimorso, mentirle riguardo alle ultime parole

pronunciate dal suo amato, dicendole che Kurtz aveva pronunciato per ultimo il suo nome. In

questo modo fa sì che anche lei possa continuare ad aggrapparsi ad un’immagine falsa del suo

amato, che le possa però permettere di continuare a vivere nel mondo in cui è immersa, nella

fattispecie l’ambiente della ricca borghesia belga. D’altra parte, nemmeno questa menzogna

viene punita, nemmeno questa volta viene fatta giustizia:

It seemed to me that the house would collapse before I could escape, that the

heavens would fall upon my head. But nothing happened. The heavens do not fall for such a

trifle. Would they have fallen, I wonder, if I had rendered Kurtz that justice which was his

due? Hadn’t he said he wanted only justice? But I couldn’t. I could not tell her. It would have

been too dark—too dark altogether...2

L’inquietudine rimane, per Marlow, e non può essere evitata, dopo che egli ha dovuto fissare

lo sguardo sull’Africa e su Kurtz e su ciò che essi rappresentano per la coscienza europea. La

1 Carmagnani, Paola, Luoghi di tenebra, cit., pp. 166-167.

2 Conrad, Joseph, Heart of Darkness, cit., p. 91.

76

crisi, però, il momento di totale stravolgimento di questa coscienza, viene consapevolmente

evitata, ad ogni costo. D’altra parte, all’interno di questa crisi, per Conrad, si trova solamente

quello che Kurtz stesso esprime al termine della sua vita come bilancio finale e inesorabile

della sua esperienza: l’orrore.

Nell’opera di de Isusi, invece, il fatto che il protagonista sia costretto a fare ciò che

anche lui, come Marlow, ha evitato accuratamente di fare fino a quel momento, e cioè fissare

lo sguardo su stesso e sulla propria relazione con il mondo, è solo l’inizio di un’esplorazione

della propria interiorità, nella quale verrà aiutato dalla possibilità di decostruzione offertagli

dall’alterità che lo circonda.1 A partire dal sogno di Vasco, immediatamente dopo, quindi, il

momento di massimo smarrimento del protagonista, le due opere si distanziano, e Vasco

penetra, per sua stessa decisione, nel cuore di un’alterità molto diversa da quella descritta da

Conrad, e nel cuore della sua interiorità che prende più volte le sembianze dello spazio

interstellare: un’immagine che riunisce in sé il vuoto e la luce degli “espacios blancos”

all’oscurità del cuore di tenebra.2 Vasco, insomma, diventa Kurtz, diventa lui stesso il

personaggio che volta le spalle alla civiltà: questo parallelo sembra suggerito anche

dall’aspetto di Vasco nelle pagine del quarto volume che descrivono la partecipazione di

Vasco ad alcuni riti per i quali viene totalmente rasato, ricordando in ciò sia la descrizione

della prima apparizione di Kurtz nel romanzo di Conrad, sia la celebre interpretazione del

personaggio da parte di Marlon Brando in Apocalypse Now.

Tuttavia, questo può essere considerato un omaggio tardivo da parte di de Isusi

all’opera di Conrad, o meglio, seguendo una linea interpretativa che già abbiamo applicato,

una citazione che marca sia un debito e un apprezzamento, sia una presa di distanza. Nel

quarto volume, infatti, il personaggio di Vasco subisce la distruzione di tutti i suoi modelli,

come si vedrà in seguito, e non può quindi più avere nulla in comune con un personaggio

come Kurtz, e d’altra parte la distanza fra i due personaggi, e quindi fra le due opere, a livello

di esperienze e di vicende narrate, si è fatta incolmabile già nel momento in cui Vasco accetta

di fissare la propria interiorità e immergersi nell’alterità, e ciò che trova è ben diverso

dall’orrore di Kurtz.

1 Si rimanda al seguito del presente lavoro per un’analisi diffusa del percorso di crescita di Vasco.

2 RL, p. 153.

77

II.2.4. Il rapporto con i modelli.

Ritornando a ciò che scrive l’autore nell’intervista a se stesso, troviamo un riepilogo dei primi

due volumi dell’opera, nel quale viene detto che “en La pipa de Marcos el marco en que se

desarrollaba la historia era tan potente que hasta el lugar se llamaba “La realidad’”1. Ciò che

era importante in questo volume, quindi, era la realtà stessa della lotta zapatista e il modo in

cui essa va a toccare alcuni nodi fondamentali della modernità e dell’immaginario

occidentale, come si è cercato di dimostrare nella prima parte del presente lavoro. In questo

volume, quindi, il ruolo di Vasco era più che altro quello di occhio indagatore, attraverso il

quale i lettori potessero osservare ‘La realidad’. Si inizia qui, in ogni caso, a costruire la

figura di un eroe quasi classico, nella sua astuzia, bontà e capacità di reagire prontamente ai

pericoli.

In La isla de Nunca Jamás, invece, “el marco servía para adentrarnos en el mundo

de la ficción, y ver cómo la realidad y la ficción siempre se mezclan.”2 Qui, infatti, si inizia un

lavoro di riflessione e rielaborazione dell’immaginario occidentale e della sua capacità di

creare la realtà: per questa riflessione si utilizza, quindi, proprio un’opera che ha

nell’immaginazione e nel suo potere enorme, ma mai innocente, il suo argomento

fondamentale. Mettendo in crisi l’immaginario occidentale, si inizia quindi ad incrinare anche

la figura dell’eroe che di questo immaginario era il protagonista. In un’altra intervista, infatti,

de Isusi dichiara che:

Había creado hacía años a dos personajes, Vasco y Juan, dos viajeros incansables,

dos aventureros clásicos; pero nunca había dibujado ninguna historia suya, porque, en

realidad, no sabía cuáles habían sido esos viajes suyos. [...] Finalmente, aunque esto fue algo

posterior, reflexionando sobre los roles sociales y los personajes que todos tenemos para

desenvolvernos en sociedad, me di cuenta de que quería contar precisamente la historia de la

creación y destrucción de un personaje.3

È proprio per questo motivo che il parallelo tra Río Loco e Heart of Darkness può essere

significativo, a prescindere da quanto de Isusi si sia ispirato direttamente all’opera di Conrad:

per la valutazione che sembra trasparire da entrambe le opere, ossia che il modello della

narrativa di avventura non si possa più adattare alla realtà sociale, a meno di distorcerla o

1 Cfr. http://www.astiberri.com/entrevistas.php?ident=7

2 Ibidem.

3 http://www.guiadelcomic.es/javier-de-isusi/entrevista.htm

78

semplificarla. D’altra parte, però, lo stesso modello ha prodotto opere che hanno saputo, oltre

che intrattenere, anche descrivere, più o meno provvisoriamente e in maniera semplificata,

un’attrazione verso l’alterità e un atteggiamento particolare verso il mondo, almeno in parte

fuori dai canoni della normalità borghese, che caratterizzano i concetti di avventura e

avventuriero. E d’altra parte, quegli stessi modelli hanno subito rielaborazioni molto diverse

l’una dall’altra: i romanzi di Stevenson propongono un ideale di avventura diverso da quelli di

Rider Haggard, ad esempio, e Corto Maltese rappresenta un modello di relazione con l’alterità

ben diverso dall’atteggiamento imperialista di Tintin nei fumetti di Bergé.

In questo senso, bisogna specificare cosa si intenda con modelli classici che le due

opere rielaborano. Se per Conrad, infatti, stiamo parlando dell’ampio fenomeno del romanzo

inglese di avventura di ambientazione esotica1, è evidente che lo stesso non si può dire per

quanto riguarda l’opera di de Isusi, il cui immaginario contemporaneo difficilmente si può

essere nutrito di autori come Rider Haggard, ormai non più celebri, e nemmeno arrivati a far

parte dell’empireo dei capolavori riconosciuti. Tuttavia, si vedrà in seguito come gli stilemi

classici che definiscono la tipologia dell’eroe in questi romanzi si applichino senza grosse

forzature anche ad un personaggio come Corto Maltese, per quanto le sue avventure siano

state scritte in un’altra epoca, e contengano una visione del mondo e un’ideologia

radicalmente diversa. Questo può accadere grazie al fatto che il modello del romanzo di

avventura si presta ad infinite rielaborazioni, come afferma Carmagnani: “Da questo punto di

vista, l’aspetto fondamentale che lo caratterizza mi pare essere la sua elasticità, che gli

permette di assorbire senza disgregarsi una serie di elementi mutuati da altre forme letterarie

limitrofe.”2

Quella che Carmagnani definisce una “straordinaria efficacia formale”3 del modello

del romanzo di avventura inglese è esattamente ciò che permette a quel modello di

sopravvivere fino ai giorni nostri, introiettando una serie infinita di modifiche, che tuttavia

non ne intaccano il cuore fondamentale. Questa considerazione si applica ancora più

facilmente se prendiamo in considerazione la tradizione narrativa cosiddetta ‘popolare’, che

dalla fine dell’ottocento arriva fino ai giorni nostri, non solo in ambito letterario ma anche, e

forse soprattutto, in altre arti che hanno occupato buona parte della nicchia precedentemente

1 Per una trattazione più diffusa di questa tradizione si rimanda a Carmagnani, Paola, Luoghi di tenebra, cit., pp.

99-111. 2 Ivi, p.16.

3 Ibidem.

79

dominata dalla letteratura di intrattenimento, quali possono essere il cinema e il fumetto.

Opere cinematografiche come Indiana Jones, o Il mondo nelle mie braccia, in questo senso,

non intaccano in nessun modo le caratteristiche fondamentali della narrativa di avventura e

dell’eroe o avventuriero, pur essendo realizzate nella seconda metà del ‘900. Basti pensare,

d’altra parte, al grandissimo numero di opere cinematografiche di intrattenimento che ancora

oggi vengono realizzate utilizzando ambientazioni esotiche, o addirittura trasponendo classici

della narrativa di avventura.

In effetti, anche osservata dal punto di vista formale, sul piano della temporalità la

letteratura di avventura si prefigge alcuni scopi ben determinati:

Si tratta infatti di restituire il lettore a quei particolari momenti di sospensione in

cui l’essere umano si trova confrontato al rischio di non sapere cosa accadrà dopo,

trasformandone la sporadicità in un tempo narrativo capace di sostenere un universo

romanzesco interamente improntato all’eccitante sensazione provocata dalla deviazione

rispetto alla norma del quotidiano. All’interno di questo universo gli eventi si succedono in

modo intermittente, inframmezzati da brevi momenti descrittivi che forniscono al lettore una

pausa di distensione necessaria a ricaricare la tensione narrativa.1

In questo senso, cinema e fumetto sembrano rivelarsi fin da subito (ed effettivamente fu così)

come tecniche perfette per le narrazioni di tipo avventuroso, essenzialmente perché basate sul

montaggio visivo, che in generale non fa altro che selezionare, all’interno di un continuum

temporale, alcuni momenti, e imprimerli in un supporto, osservati da un determinato punto di

vista. Il fatto che il fumetto faccia questo utilizzando una serie di ‘fermo immagine’ rinforza

ancora di più l’impressione di trovarsi di fronte ad un mezzo che seleziona non soltanto i tratti

di tempo più significativi (come il cinema) ma addirittura i singoli momenti, montati in modo

che il lettore li possa collegare in una storia coerente. Tutto ciò, per quanto riguarda il

fumetto, si unisce al potenziale offerto dal disegno, che permette all’autore un’estrema libertà

stilistica, e che ben si adatta alle necessità dei momenti descrittivi, soprattutto se applicati

all’esotismo: un fumetto come Corto Maltese lo dimostra, con la sua alternanza di tavole di

azione e di grandi, elaborate e raffinate tavole che mostrano paesaggi e culture esotiche ed

affascinanti.2

1 Ivi, p. 102.

2 Il disegno è, in questo senso, ciò che distingue il fumetto, e le infinite possibilità artistiche che porta con sé, da

altre forme narrative come il fotoromanzo, sino ad oggi decisamente meno rilevanti dal punto di vista artistico, e

anche da quello sociale e commerciale.

80

Questa considerazione è utile per comprendere come mai il discorso di

rielaborazione di modelli classici sia tanto simile in Los viajes de Juan sin tierra, e in

particolare in Río Loco, e in Heart of Darkness, nonostante i modelli presi in considerazione

siano totalmente diversi. Ciò può accadere proprio grazie al successo del modello del

romanzo di avventura inglese di ambientazione esotico, i cui stilemi si andranno a riversare, a

volte con pochissime variazioni, nella cinematografia e nel fumetto di avventura

novecenteschi. Questi, infatti, sono i due bacini dai quali de Isusi attinge al momento di

trovare, imitare, decostruire e rielaborare gli stilemi del romanzo di avventura, e questo spiega

il lungo elenco di citazioni presenti nei quattro volumi, tra i quali opere come Indiana Jones, i

fumetti di Tintin, Peter Pan, Il mondo nelle mie braccia o Casablanca, e Heart of Darkness

stesso.

Questo non significa che l’opera di de Isusi dimostri verso ognuna di queste opere

così diverse lo stesso atteggiamento di ammirazione, o al contrario lo stesso giudizio

totalmente negativo. Significa piuttosto che tutte queste opere ‘servono’ all’autore in quanto

rielaborazioni dello stesso modello, il quale è a sua volta talmente elastico da poterle

contenere tutte. Servono anche, d’altra parte, ad iscrivere gli stessi volumi di Los viajes de

Juan sin tierra proprio in quella tradizione, decostruita, rielaborata per il presente di un

mondo che ha il disperato bisogno di decolonizzarsi. Intento non semplice da realizzare,

quest’ultimo, se si considera che la tradizione della narrativa di avventura nacque proprio

dall’esperienza coloniale, dallo spazio coloniale e da tutto ciò che esso portava con sé a livello

dell’immaginario: per esempio, il concetto stesso di esplorazione, il cui senso, parlando di

terre già abitate, può sussistere solamente in una visione del mondo coloniale; ma anche,

d’altra parte, la necessità di fornire una giustificazione epica ed etica ad un’avventura

coloniale dalle caratteristiche morali discutibili.

All’opera di de Isusi, quindi, possiamo applicare ciò che Dolce scrive riguardo alle

rielaborazioni postcoloniali dei testi del canone occidentale:

La natura polifonica e dialogica del testo postcoloniale ne rivela l’elaborata

struttura di “tessuto” composto dall’intreccio di molteplici fili che si richiamano a ciò che è

già stato scritto e detto; le complesse relazioni testuali, che si allargano ad abbracciare non

solo i classici della tradizione letteraria ma il testo assai più ampio e problematico della

società, della cultura e delle ideologie di cui lo stesso classico si fa portavoce, rappresentano il

81

substrato profondo dell’opera che si presenta come “relazionale”, ricca di implicazioni,

aperture e prospettive sempre nuove in virtù di tale stimolante rapporto.1

È in questo senso che Los viajes de Juan sin tierra può decostruire e rielaborare i classici

della narrativa di avventura, membri di un particolare canone che, seppur non parte della

cultura ‘alta’, ha avuto un ruolo molto significativo nella formazione dell’immaginario

occidentale, e nel consolidamento di una serie di relazioni sociali tra il Nord e il Sud del

mondo. Nei confronti di questo canone, l’opera di de Isusi si pone in una posizione di eredità

e superamento. In particolare, nei primi due volumi prevale il tentativo di rimanere al’interno

di quella tradizione, spostando il significato di alcuni dei suoi stilemi, ma mantenendoli

intatti, come si è cercato di dimostrare. Gli ultimi due, invece, presentano un discorso diverso,

che arriverà, come si vedrà, al punto di rinunciare al concetto di fumetto di avventura

nell’ultimo volume. Prima di arrivare a questo, tuttavia, bisogna passare attraverso una sorta

di ‘resa dei conti’, rappresentata ancora una volta dal confronto tra Río Loco un modello che

è, a tutti gli effetti, parte fondamentale del canone del fumetto, di avventura e non solo: le

storie di Corto Maltese, di Hugo Pratt.

1 Dolce, Maria Renata, “Con-test/azioni postcoloniali”, cit., p.182.

83

III

DECOLONIZZARE L’EROE

III.1. Los viajes de Juan sin tierra e le storie di Corto Maltese.

III.1.1. Un rapporto ambiguo con l’avventura.

I fumetti di Hugo Pratt, e soprattutto quelli con protagonista Corto Maltese, sono oggetto di

una fittissima serie di riferimenti nel corso di tutti i quattro volumi di Los viajes de Juan sin

tierra. Questi riferimenti sono di vario genere, a volte a livello grafico, con la presenza di

vignette simili, o nell’aspetto di alcuni personaggi; a volte a livello della trama, con la

citazione di episodi simili. In due momenti di Río Loco Corto Maltese viene addirittura

nominato o disegnato: nelle prime pagine del volume compare la sua ombra, non vista dai

personaggi, nel momento in cui Héctor sta raccontando del suo desiderio di seguire i passi di

Corto alla ricerca di El Dorado, e successivamente si parla delle mappe presenti in quella

storia di Hugo Pratt come strumento per cercare la mitica città dell’oro. Lo stesso aspetto

fisico di Vasco è costruito per ricordare in certi tratti il marinaio di Hugo Pratt: alto, slanciato,

bruno, con un orecchino circolare all’orecchio sinistro e lunghe basette disegnate con un

rapido tratto di china a zig-zag. Allo stesso modo, i due personaggi hanno entrambi un’origine

misteriosa e ‘mista’ (Corto è maltese, figlio di una gitana e di un marinaio della Cornovaglia

ma presto scomparso, Vasco è portoghese, anch’egli però di padre ignoto, probabilmente

basco).

I riferimenti ai fumetti di Hugo Pratt, in ogni caso, si concentrano soprattutto in un

volume, Río Loco, e rimandano soprattutto a tre raccolte, che sono poi quelle in cui le

avventure di Corto Maltese si svolgono nell’America meridionale: Suite Caribeana, Le

lagune dei misteri e Lontane isole del vento. La prima vignetta di Suite Caribeana, e più

precisamente della storia intitolata Bocca Dorata e il segreto di Tristan Bantam, in

particolare, è richiamata esattamente nella prima vignetta di Río Loco, che vede Vasco seduto

su una veranda nella stessa posizione di Corto Maltese. Riguardo a quest’ultimo, una

didascalia a fianco a questa vignetta recita: “Corto Maltese si riposava pigramente nell’unica

veranda della pensione ‘Java’ a Paramaribo (Guyana Olandese). Si vedeva subito che era ‘un

uomo del destino’. Con un gesto misurato, accese uno di quei sigari sottili che si fumano solo

84

in Brasile o a New Orleans: stava recitando per un pubblico invisibile. Ad un tratto la

rappresentazione venne interrotta.”1 In questa descrizione troviamo fin da subito tutti gli

elementi essenziali del complesso immaginario dei fumetti di Corto Maltese: un protagonista

affascinante, libero e misterioso, che non perde mai il controllo delle proprie vicende (‘uomo

del destino’), e un’ambientazione esotica fin nei minimi particolari: la poltrona, il sigaro

dichiarato introvabile per chiunque non si trovi in Brasile o a New Orleans.

Queste caratteristiche rispondono esattamente agli stilemi classici della narrativa di

avventura che nasce in Inghilterra verso la fine dell’800. Prima di tutto, la figura dell’eroe:

Strappati al tempo della biografia, gli eroi non muoiono, non invecchiano e non

subiscono grandi evoluzioni interiori. Essi esistono esclusivamente in funzione di un universo

dove gli eventi narrativi non formano la personalità dell’individuo, ma si limitano a

determinarne il destino di avventuriero verificando e confermando una serie di qualità che egli

possiede fin dall’inizio.2

Corto Maltese, in questo senso, riappare uguale all’inizio di ogni storia, per quanto difficile e

dolorosa possa essere stata la fine di quella precedente, e tra queste storie non è riscontrabile

un vero e proprio ordine cronologico, se non nella ricomparsa di alcuni personaggi, in una

temporalità non più lineare ma quasi ciclica. Sebbene Corto, poi, possieda anche qualità

diverse da quelle normalmente presenti negli avventurieri, come indipendenza di spirito,

capacità di analisi profonda, una certa onnipresente malinconia e un fascino anche

intellettuale, queste qualità sono perenni, sempre presenti e vengono ogni volta riconfermate,

come nella tradizione.

Per quanto riguarda l’ambientazione, poi, “il mondo dell’avventura si situa

decisamente al di fuori della quotidianità e questa rottura è l’elemento essenziale a partire dal

quale esso costruisce le coordinate spazio-temporali che gli sono proprie.”3 Le avventure di

Corto Maltese, in questo senso, si svolgono in molti angoli diversi del mondo, sempre però

connotati dalla loro distanza dalla normalità, dal loro esotismo. Si può definire l’esotismo

come “una rappresentazione immaginaria dell’Altro e dell’Altrove, che si costruisce a partire

da una proiezione dei desideri del soggetto.”4 I luoghi visitati da Corto, quindi, saranno

1 Pratt, Hugo, “Bocca Dorata e il segreto di Tristan Bantam”, in Suite Caribeana, Milano, Rizzoli, 1990, p. 17.

2 Carmagnani, Paola, Luoghi di tenebra, cit., p. 99.

3 Ibidem.

4 Ivi, p. 32.

85

sempre quanto più esotici possibili, e lo stesso vale per i personaggi che li popolano:

risponderanno cioè quanto più possibile ai desideri di un pubblico che li vuole vedere diversi

da sé, desiderio ancor più appagato dal breve apparato geografico e antropologico che precede

ogni storia. Gli indios del sud America, per esempio, avranno volti completamente tatuati,

porteranno strane armi, e saranno dotati di misteriosi poteri, come si vedrà al momento di

analizzare alcune storie nel dettaglio. Ma lo stesso vale anche per luoghi più ‘vicini’ come

Venezia, che diverrà quanto più nebbiosa, magica e misteriosa possibile1, o per l’Irlanda, di

cui i disegni di Hugo Pratt ci mostrano tutte le caratteristiche più affascinanti: i simboli strani,

le brughiere verdissime, gli strumenti musicali celtici.2

Tuttavia, all’interno di questa ripresa dei modelli classici, nei fumetti di Corto

Maltese si aprono spiragli di una consapevolezza del tutto nuova. Nel caso della didascalia

citata all’inizio, per esempio, troviamo una frase come “Stava recitando per un pubblico

invisibile.”, che fa precipitare il lettore in uno strano mondo in cui i protagonisti di avventure

magiche e misteriose si dimostrano malinconici, some se sapessero che il tempo

dell’avventura sta finendo. Per esempio, dopo che Corto Maltese ha chiesto ad uno dei suoi

nemici in Suite Caribeana una spiegazione sulle complicate macchinazioni

dell’organizzazione di quest’ultimo (documenti falsi, evasione di prigionieri dalla Caienna,

coinvolgimenti con le grandi potenze europee), costui risponde, sarcasticamente, “Perché non

scrivi romanzi di avventure?”3 Un altro nemico lo apostrofa chiamandolo “eroe tascabile”, e a

questo epiteto Corto risponde, sfoderando un coltello: “Non voglio essere un eroe… mi basta

essere un mozza-teste!”4 Si instaura quindi un complicato gioco, sempre in bilico tra due poli:

l’uno costituito dalla sospensione dell’incredulità e dall’adesione totale alle caratteristiche

della narrativa di avventura, e l’altro dal continuo ricordarsi che quelle narrate sono avventure

fantastiche ma irreali.

In un altro punto della stessa storia, Corto suggerisce al professor Steiner che lo

accompagna di scrivere degli appunti, un diario di viaggio da rivendere poi per guadagnare un

po’di soldi. In questo modo Pratt rivela la stretta parentela tra la narrativa di avventura e il

resoconto di viaggio in terre esotiche, di cui già si è parlato trattando del parallelo tra Río

Loco e Heart of Darkness, che viene esplicitata anche nella costante presenta di un apparato

1 Cfr. Pratt, Hugo, Favola di Venezia, Milano, Rizzoli, 2009.

2 Cfr. Pratt, Hugo, Le Celtiche, Milano, Rizzoli, 2003.

3 Pratt, Hugo, “Bocca Dorata e il segreto di Tristan Bantam”, cit., p. 32.

4 Ivi, p. 52.

86

cartografico che precede ogni storia di Corto maltese. Tuttavia, nel momento stesso in cui

Pratt sembra esplicitare l’appartenenza della sua opera alla classica narrativa di avventura,

nuovamente ci troviamo alle prese con una strana dichiarazione di quello che dovrebbe essere

l’eroe classico di queste avventure, che al ragazzo che gli chiede perché non scriva lui stesso

un diario, risponde: “Vedi, Tristan, se scrivessi, ammesso che lo sappia fare, finirei per falsare

i fatti e i caratteri di quelli che ho conosciuto. Per me è meglio così: vivere senza storia…”1

La narrazione, quindi, si palesa come elemento di falsificazione o di distanza dal reale, e

questa dichiarazione entra in una sorta di corto circuito nel momento in cui la si relaziona

all’evidente status di narrazione dei fumetti di Hugo Pratt.

Un simile gioco di ambiguità è riscontrabile anche nel rapporto tra le avventure di

Corto Maltese e la realtà sociale in cui sono immerse. Le avventure del marinaio creato da

Hugo Pratt si svolgono quasi tutte nel periodo della prima guerra mondiale, agli inizi del ‘900:

un periodo critico di passaggio in cui una serie di caratteristiche che rendevano possibile la

narrativa di avventura volgono al termine. Da una parte, infatti, i mezzi di comunicazione non

avevano ancora rimpicciolito il mondo alle distanze che conosciamo oggi: viaggi come quelli

di Corto Maltese erano ancora pericoloso appannaggio di pochi coraggiosi, e tanti erano

ancora i territori inesplorati o quasi (ovviamente dal punto di vista dell’uomo bianco). Nella

stessa Europa, d’altra parte, rimanevano luoghi di mistero, le distanze erano ancora

significative, e fenomeni globalizzanti come il turismo erano ancora ben lontani. Dall’altra

parte, tuttavia, l’economia e la politica si facevano sempre più internazionali, ed infatti molti

sono gli affaristi europei in giro per il mondo nelle pagine di Pratt, spesso in ruoli non

positivi. Ma persino un personaggio positivo come Bocca Dorata, una misteriosa maga che

con i suoi poteri aiuta una serie di lotte di liberazione in Brasile, ottiene il denaro necessario

da una ‘Finanziaria Internazionale’, e non esita a schierarsi con una o con l’altra delle potenze

europee in conflitto.

Lo stesso conflitto è, per l’appunto, il primo conflitto ‘mondiale’: per la prima volta

le potenze occidentali si combattono coinvolgendo popolazioni provenienti da i più diversi

angoli del mondo. La prima storia di Corto Maltese scritta da Pratt, La ballata del mare

salato, si sviluppa proprio sullo sfondo della battaglia tra americani e tedeschi nel pacifico,

portata avanti però con mezzi che hanno ancora tracce di avventura, ossia con pirateria e basi

misteriose. Il colonialismo, quindi, è ancora un fattore importante, in quanto costituisce la

1 Ivi, p. 38.

87

motivazione grazie alla quale un bianco come Corto Maltese può essere coinvolto in

innumerevoli avventure in giro per il mondo, in ognuna delle quali sono coinvolti bianchi: ad

esempio ricchi ragazzini sperduti nel Pacifico dopo che il loro ricco yacht ha fatto naufragio, i

loro ricchi parenti e soldati tedeschi e americani, per quanto riguarda La ballata del mare

salato. Riguardo a ciascuno di questi segnali della modernità (la nuova importanza del

denaro, la guerra mondiale, il colonialismo), Corto Maltese mantiene un rapporto ambiguo.

Nemico delle ideologie, non si schiera con nessuna delle parti in conflitto, ma non esita a

sfruttare la situazione per i propri interessi. Questi interessi sono, d’altra parte, spesso di

ordine dichiaratamente economico: all’inizio di ogni avventura, Corto è ben deciso a sapere

quali saranno i vantaggi economici che l’avventura potrà portargli, salvo poi spesso

rinunciarci alla fine per motivi morali. In ogni caso, non sembra mai soffrire di grossi

problemi economici.

Quest’ambiguità è palese, tanto che il professor Steiner, che lo accompagna in varie

avventure, gli dice “Non riesco a capirti: hai degli atteggiamenti da uomo generoso, onesto…

e poi tutt’a un tratto diventi freddo e calcolatore…”1, ma Corto non risponde a

quest’interrogativo. Forse, la risposta risiede in un’altra affermazione di Corto, che, dovendo

motivare un suo gesto di generosità gratuita, dichiara: “Forse sono il re degli imbecilli,

l’ultimo rappresentante di una dinastia completamente estinta che credeva nella generosità,

nell’eroismo…”. A queste parole, lo stesso Steiner risponde: “Capito, sei un boy-scout

frustrato.”2 Nelle parole di Corto si potrebbe leggere proprio il senso di un periodo di

passaggio, al quale non appartengono già più gli eroismi, e che già si è votato ad altri modi di

vita, più pratici e meno poetici. I gesti eroici, però, rimangono possibili, per lo meno dal punto

di vista estetico, come imitazione di un passato che sta sfumando, e verso il quale non si può

provare che malinconia. La risposta di Steiner, tuttavia, fa ripiombare tutto questo

ragionamento in nuovo dubbio: questi eroi sono mai esistiti davvero? O forse la realtà è

sempre stata diversa, e solo nella malinconia e nella fantasia si possono ritrovare gli eroi? Le

stesse ricerche impossibili nelle quali si imbarca Corto (El Dorado, il continente perduto di

Mu) terminano quasi sempre in maniera nebulosa, che mantiene il fascino dell’oggetto

cercato ma non risolve in nessun modo la sua ricerca, forse frutto di fantasia anche all’interno

della narrazione.

1 Pratt, Hugo, “Samba con Tiro Fisso”, in Suite Caribeana, Milano, Rizzoli, 1990, p. 63.

2 Pratt, Hugo, “Bocca Dorata e il segreto di Tristan Bantam”, cit., p. 21.

88

Ma la maggiore ambiguità, e la più interessante ai fini della nostra analisi, la si può

riscontrare nei confronti del colonialismo e delle lotte contro di esso. Proprio in quel periodo,

infatti, le lotte di decolonizzazione e contro le varie manifestazioni dell’imperialismo si fanno

intense, e sono ben presenti nelle opere di Hugo Pratt sin dalla prima storia di Corto Maltese,

La ballata del mare salato, e sempre guardate con simpatia sia dall’autore sia dal

protagonista. Tuttavia, abbiamo già visto come l’esotismo dia un fattore centrale nei fumetti

di Hugo Pratt, ed esso è un atteggiamento difficilmente conciliabile con un intento

decolonizzante. Ed effettivamente, Corto Maltese ha spesso a che fare con personaggi bianchi,

nonostante le ambientazioni esotiche delle sue avventure, e i molti personaggi che bianchi non

sono rimangono sempre ad una certa distanza da lui, come se ‘l’altro’, il soggetto esotico,

rimanesse in qualche modo inconoscibile, nonostante a queste figure e alle loro lotte vada

l’appoggio (quasi) incondizionato del protagonista e dell’autore. È il caso, per esempio, di

personaggi come Cranio ne La ballata del mare salato, che in una conversazione con Corto

dichiara di stare organizzando la ribellione dei popoli oceanici, o di un agente segreto

nigeriano che combatte i tedeschi per liberare l’Africa dai colonizzatori, e alla domanda sul

perché lavori per gli inglesi risponde: “da qualche parte bisogna pure cominciare.”1 Entrambi

i personaggi, tuttavia, muoiono poco dopo aver dichiarato i propri intenti decolonizzanti,

lasciando i loro progetti in un’indeterminatezza che permette all’autore di continuare ad

ambientare le sue storie in un mondo colonizzato, pur ‘tifando’ per i ribelli. Nei confronti di

questi personaggi, insomma, si mantiene un rapporto di distanza, quel tanto che basta perché

non perdano il loro fascino esotico, e anche la loro minacciosità.2

L’analisi di due storie può aiutarci, in questo senso, a mettere in luce un

atteggiamento complesso dell’autore nei confronti della questione coloniale. La prima è

Samba con Tiro Fisso. In questa storia Corto riceve da Bocca Dorata l’incarico, lautamente

retribuito, di consegnare munizioni e denaro in aiuto alla guerriglia dei banditi dello stato

brasiliano del Sertão contro un ricco (e bianco) proprietario terriero, il quale ha assoldato dei

mercenari per liquidarli. Corto accetta, e, arrivato nel Sertão, aiuta i banditi a vendicare la

morte del loro condottiero, Sebastian il redentore, uccidendo l’esecutore dell’assassinio. Il

nuovo capo, Tiro Fisso, non si ritiene all’altezza del suo predecessore. Corto lo convince,

però, che un capo è solo una persona che sappia prendere le decisioni giuste, e che lui e la sua

1 Pratt, Hugo, “Un’aquila nella giungla”, in Il mare d’oro, Milano, Rizzoli, 2004, p. 32.

2 Per la complessa dialettica tra fascino e distanza nei confronti dell’oggetto esotico cfr. Faeti, Antonio, “Figure

del sogno degli eroi”, in AA.VV, Il romanzo, Vol. II, a cura di Franco Moretti, Torino, Einaudi, 2002, sezione

interna “Iconografie”.

89

banda devono attaccare non più gli esecutori, ma il proprietario terriero, vero responsabile di

tutto.

Tiro Fisso, convinto, diventa il nuovo redentore, e attacca eroicamente la villa del

possidente con la sua banda. La situazione si fa difficile, finché Corto non riesce ad

impossessarsi di una mitragliatrice e a sgominare i soldati che proteggevano la villa. Tiro

Fisso, però, è rimasto ucciso nell’attacco: Corto prende il suo cappello, a afferma “È costata

cara… hanno eliminato il colonnello... ma ci sarà sempre un nuovo colonnello che abuserà di

questa gente…” a queste parole, un ragazzo della banda risponde: “ Per ogni colonnello ci

saranno cento Tiro Fisso, gringo… abbiamo imparato la lezione ed è una lezione che non

dimenticheremo…” A queste parole, Corto affida al ragazzo il cappello di Tiro Fisso: “Prendi

il cappello di Tiro Fisso e continua nel suo nome la lotta contro il drago della malvagità.”, e

organizza un’imponente e simbolica pira funebre per il condottiero ucciso.1

In questa storia è evidente la simpatia del protagonista verso i banditi ribelli, e la sua

avversione contro i proprietari terrieri, ovviamente bianchi, che li sfruttano, tanto intensa da

rischiare la vita per combatterli. Tuttavia, la ribellione narrata, pur essendo di segno politico

opposto rispetto all’imperialismo classico della narrativa di avventura di ambientazione

coloniale, procede lungo gli stessi binari: oltre all’importanza fondamentale dei capi come

guida del popolo, infatti, in questa storia possiamo osservare come Corto, l’eroe bianco della

narrazione, rivesta sempre il ruolo di eroe invincibile che risolve la situazione. Lo fa sia in

senso pratico, con l’azione con la quale si impossessa della mitragliatrice e sgomina i soldati,

e sia in senso politico, decidendo per ben due volte chi verrà investito del ruolo di capo. Nel

primo caso, con Tiro Fisso, è lui stesso a creare la figura di un condottiero, istruendolo:

-Bene, avete ucciso l’esecutore. Ma il vero responsabile? Quel colonnello che vive

di abusi e di crimini all’insaputa del governo centrale, cosa farà? Continuerà a terrorizzarvi

con i suoi pistoleros.

-Cosa posso farci?

-Prendere il posto del redentore!

-Ah! Gringo, sono un bandito, io! Chi potrà seguirmi?

[…]

1 Pratt, Hugo, “Samba con Tiro Fisso”, cit., pp. 76-78.

90

-Comportati come si sarebbe comportato lui e spargi la voce che il redentore è vivo

e combatte ancora contro il colonnello.1

Nel secondo caso, Corto prende il cappello di Tiro Fisso e compie esattamente, anche dal

punto di vista del disegno, il gesto di ‘incoronare’ il successore, conferendogli i poteri. Se,

quindi, sotto il piano politico assistiamo ad una, pur provvisoria, liberazione, sul piano della

narrazione e dei ruoli ci troviamo di fronte al perpetuarsi dei modelli classici dell’avventura,

dei quali pare estremamente difficile liberarsi, senza pagare il prezzo di rinunciare anche agli

aspetti che rendono così affascinanti i fumetti di Hugo Pratt: il protagonista affascinante ed

infallibile e l’esotismo, che rende i coprotagonisti così distanti da noi, ma

contemporaneamente così aderenti alle proiezioni classiche del nostro immaginario, e così

docili nell’ubbidire all’eroe.

Il fatto che rinunciare a queste caratteristiche sia quasi impossibile, all’interno di un

fumetto che voglia rimanere un fumetto di avventura, lo dimostra un’altra storia, Teste e

funghi. Qui, il professor Steiner viene a sapere della possibilità di trovare la mitica El Dorado,

nel cuore della foresta amazzonica, grazie ad alcuni indizi lasciati da precedenti esploratori,

morti nel tentativo (è questa la storia citata in Río Loco da Héctor come fonte della sua ricerca

della mitica città). Parte quindi con Corto Maltese, e i due si inoltrano nel territorio dei

pericolosi indios jivaro, in compagnia di un galeotto francese che conosce la zona e di una

guida locale, Aparia, l’unico della sua tribù che abbia acconsentito ad aiutarli. Quest’ultimo,

appena partiti, afferma: “i nanay [la sua tribù] non amano i bianchi. L’ultima volta ne sono

morti parecchi a causa vostra… […] Avete portato una malattia… più di 70 morti… donne,

bambini… e guerrieri… ora i nanay non possono più difendersi e sono costretti ad accettare

l’aiuto dei bianchi.”2 Dopo un incontro ravvicinato con un enorme boa, ucciso solo grazie alla

prontezza di Corto, la spedizione avvista il luogo che stava cercando. Qui, però, cadono in

un’imboscata, nella quale si scopre che Aparia è loro nemico, e aveva architettato tutto fin

dall’inizio, e a Corto che lo chiama traditore risponde:

Io non sono tuo amico… io odio i bianchi! […] I bianchi come Corbett-tha

[l’esploratore inglese di cui la spedizione seguiva le tracce] vengono a cercare pietre e

sogni… ma per causa loro i cercatori d’oro, di smeraldi, arrivano e uccidono gli indiani… ci

mettono in lotta gli uni contro gli altri… ci fanno un sacco di promesse che non mantengono e

1 Ivi, pp. 70-71.

2 Pratt, Hugo, “Teste e Funghi”, in Lontane isole del vento, Roma, Lizard, 2001, p. 21.

91

ci costringono a nasconderci nella giungla… la vostra morte fermerà i bianchi per qualche

tempo.1

Dopo questo discorso, Aparia li minaccia di torturarli, uccide il francese che aveva ingerito

dei funghi per non soffrire, e in preda all’ira si avvicina con il coltello alzato a Corto, che è

legato. Steiner urla vedendo uccidere il suo amico, e in questo momento si sveglia: tutta la

storia era infatti un sogno di Steiner.

Questa storia, dopo un inizio nell’impronta più classica possibile della narrativa di

avventura (bianchi alla ricerca di El Dorado, in una spedizione nella foresta amazzonica con

una vecchia mappa, e una fedele guida indigena), rappresenta un improvviso capovolgimento

della tradizione: la guida tradisce, e i cattivi vincono. Ma non basta questo: i cattivi infatti non

hanno torto: sebbene Aparia venga mostrato come un personaggio crudele e sciocco nel suo

spietato desiderio di vendetta, le sue argomentazioni sono corrette, non solo da un punto di

vista contemporaneo, ma per lo stesso Pratt, che fa pronunciare gli stessi concetti in maniera

estremamente simile ad un altro indio, questa volta personaggio totalmente positivo, nella

storia Nonni e fiabe.2 Lo stesso Aparia, peraltro, si comporta diversamente dalla sua tribù

(quella vera, i jivaro), i quali, seppur d’accordo con l’uccidere i bianchi, non ne condividono

la crudeltà.

Insomma, questa volta il bianco Corto Maltese si trova dalla parte della barricata in

cui la storia ‘reale’ lo avrebbe posizionato, nonostante le sue idee politiche: quella del

rappresentante dell’imperialismo occidentale, ruolo che, per quanto lo disgusti, assume

effettivamente nel momento in cui si dimostra eroe infallibile e insostituibile, senza il quale,

come nel caso di Samba con Tiro Fisso, le ribellioni fallirebbero. Hugo Pratt sembra perciò

essere ben consapevole delle enormi contraddizioni presenti nelle sue narrazioni, e invece di

ignorarle le fa diventare motivo di fascino, rendendo il suo protagonista un incomprensibile

mistero. Nel caso di Teste e funghi, poi, sembra volerle risolvere, per una volta, abbracciando

uno di possibili poli della contesa: quello della lotta antimperialista, anche se ciò significa la

morte del suo protagonista. Questa, tuttavia, sarebbe insostenibile e rappresenterebbe la fine

della sua narrazione: non gli resta perciò che narrarla come un sogno, un’ipotesi irrealizzabile,

perlomeno all’interno della sua opera.

1 Ivi, p. 26.

2 Pratt, Hugo, “Nonni e fiabe”, in Le lagune dei misteri, Roma, Lizard, 2002, p. 45.

92

III.1.2. Vasco e Corto Maltese.

Come abbiamo detto, l’aspetto di Vasco è costruito a partire da quello di Corto Maltese.

Tuttavia, non solo l’aspetto risponde ad una precisa somiglianza, ma anche una serie di

caratteristiche: la prontezza e l’abilità fuori dal comune mostrata in alcuni momenti, la

determinazione, la capacità di mantenere intorno a sé un alone di mistero nei confronti degli

altri personaggi, ed anche l’espressione ripetuta della volontà di non schierarsi, pur confutata

dalle azioni. In questo senso, nei primi due volumi di Los viajes de Juan sin tierra, e pur

mantenendo l’analisi fatta nel primo capitolo del seguente lavoro su quanto le vicende narrate

esprimano una chiara volontà decolonizzante, si può osservare un’ambiguità (ovviamente

consapevole) molto simile a quella riscontrabile nelle pagine di Hugo Pratt. Questa ambiguità

sussiste proprio nel rapporto tra le istanze decolonizzatrici e il ruolo di insostituibile risolutore

affidato al protagonista bianco. Già nel secondo volume, tuttavia, la questione viene affrontata

di petto dall’autore, nel modo che si è già descritto parlando della rielaborazione fatta da de

Isusi rispetto a Peter Pan. In questo volume, infatti, il ruolo di Vasco, pur rimanendo quello di

protagonista della narrazione, passa da protagonista a comprimario se si prende in

considerazione solamente la vicenda di vendetta e ribellione nei confronti di Don Jaime.

È nel terzo volume, però, che il rapporto del protagonista con l’ideale di eroe

rappresentato da Corto Maltese viene più analizzato, ed entra più in crisi. Si è già detto come

la prima vignetta del volume sia una citazione dalla prima vignetta di Bocca Dorata e il

segreto di Tristan Bantam: Vasco è nella stessa posizione e ha lo stesso atteggiamento di

Corto Maltese in quella vignetta. Tuttavia, se Corto stava “recitando per un pubblico

invisibile” e, seppur interrotto, si vedeva benissimo come fosse “un uomo del destino”, per

Vasco la situazione è diversa. Prima di tutto per quanto riguarda i sigari, come ragiona lo

stesso Vasco, che “Antes sólo se fumaban en Brasil… o en Nueva Orleans”, e che invece ora

si possono trovare tranquillamente anche a Coca, in Ecuador, con la perdita di mistero che ne

consegue. Ma lo spostamento più interessante si ha con l’arrivo dell’elemento che disturba la

situazione, questa volta Laura/Napo, la quale inizia così il suo dialogo con Vasco:

-Hola, gringo, ¿me das un cigarrillo?

93

-Claro.

-¿Dónde está?

-¿Quién?

-La cámara?

-¿Qué cámara?

-¿No hay nadie grabándote?

-No te entiendo.

-¿Estás actuando para un publico invisible?

-¿Cómo?

-Vamos, vamos, ahora no disimules. Ese gesto de fumar, lo tienes muy estudiado...

¡Y mira qué manera de descansar! Está claro que estás posando. Quieres parecer un

aventurero, ¿a qué no?1

In questo dialogo, Laura esplicita, e quindi distrugge, ciascuno degli aspetti che rendevano

quella scena un perfetto inizio per una narrazione d’avventura, e pronuncia le stesse frasi che

venivano riferite a Corto Maltese. Tuttavia, in quel caso erano scritte come voce fuori campo,

e questo non faceva che aumentare l’aura di mistero nella quale era avvolto il protagonista.

Qui, invece, quest’aura viene distrutta proprio perché l’atteggiamento di Vasco viene

mostrato nella sua costruzione stereotipata e sostanzialmente falsa. Inoltre, questo

atteggiamento diventa ancor più falso se giudicato nel mondo contemporaneo in cui tutto può

essere ripreso di continuo e diventare immagine. Infatti, mentre Corto agiva in un periodo in

cui le cineprese muovevano i primi passi, a Vasco tocca fare l’avventuriero in un tempo di

iperesposizione alle immagini, il che rende qualunque atteggiamento passibile di essere

giudicato in base a modelli ormai internazionali. In questa prima pagina, insomma, de Isusi

sembra dirci che l’avventura non è più possibile nel mondo contemporaneo. Ciò che segue,

invece, sarà segnato dalla riflessione su quanto l’avventura, intesa in senso classico, sia

desiderabile e giusta, oggi.

Se fin dall’inizio del volume la condizione di Vasco è ben lontana da quella di

‘uomo del destino’, per tutta l’opera questa distanza non fa che aumentare, prima nella noia

sul traghetto che, lentamente, risale il fiume Napo, alla quale Hugo Pratt, probabilmente, non

avrebbe dedicato più di una vignetta panoramica, per passare poi ad altro. Ma sono soprattutto

i continui fallimenti a cui Vasco deve far fronte nel suo tentativo di trovare Juan, che si

mescolano alle sue insicurezze e incertezze, e che lo portano a intraprendere un viaggio con

una meta incerta, un compagno poco esperto e una guida inaffidabile, in una condizione di

1 RL, p. 9.

94

insicurezza e precarietà nella quale un eroe ‘perfetto’ come Corto mai si potrebbe trovare. Il

confronto tra i due tipi di eroe culmina poi con lo smarrimento nella selva di Vasco.

Questo episodio, infatti, richiama molto da vicino un episodio presente nella storia

di Hugo Pratt Nonni e fiabe. Qui, Corto Maltese viene incaricato da un celebre medico inglese

di ritrovare suo nipote, meticcio, dopo la morte del padre di quest’ultimo, il figlio del medico,

che si era stabilito nel cuore della foresta amazzonica ed era stato ucciso dai cacciatori di

schiavi. Corto parte in compagnia di un indio saggio e tranquillo, seppur dotato di un aspetto

quanto mai strano ed esotico, che si scoprirà poi essere il potente stregone Marangwe.

Rimasto temporaneamente solo, Corto appoggia incautamente la mano su un tronco, e viene

morso sul braccio da un serpente corallo. Sa di dover fare qualcosa prima che il veleno si

diffonda, e quindi prende in mano la sua pistola e si spara sulla ferita. Viene poi trovato da

Marangwe che lo cura e lo aiuta a rimettersi, salvandolo. Tuttavia, lo stesso Marangwe gli

dice: “Il veleno te lo sei sparato via quasi tutto con quel colpo di pistola… sei un uomo

coraggioso.”1

In Río Loco Vasco viene coinvolto in un episodio molto simile, ma le cui sottili

differenze molto rivelano di ciò che de Isusi sta tentando di fare con la figura del suo

protagonista. Vasco infatti, dopo che la guida ha abbandonato lui e Héctor e quest’ultimo è

partito con la canoa, continua il suo cammino nella selva, smarrendo però ben presto

l’orientamento. In preda allo sconforto e alle allucinazioni, appoggia la mano su un tronco, e

tocca una rana dardo, tanto colorata quanto letale al solo contatto. In preda al panico cerca il

suo machete per tagliarsi la mano e impedire il diffondersi del veleno, ma scopre che lo ha

perso tempo prima, insieme alla bussola e a tutto il suo equipaggiamento. Dopo questa

scoperta è convinto di morire e si accascia a terra in preda alle visioni. In realtà, però, viene

ritrovato da Napo, e dopo un lungo sogno si risveglia, grazie alle cure di quest’ultimo e di suo

nonno, lo sciamano della tribù.

Pur essendo questi due episodi molto simili, le differenze sono evidenti: Corto coglie

al volo una nuova occasione per dimostrare quanto è pronto di spirito e coraggioso, e

conquistarsi il rispetto della sua guida, che sì, lo aiuta a salvarsi, ma senza togliergli la

maggior parte del merito. Vasco invece si rende protagonista di una lunga serie di errori: si

perde, perde gli utensili (che sono uno dei modi fondamentali in cui l’eroe bianco può

1 Pratt, Hugo, “Nonni e fiabe”, cit., p. 46.

95

sopravvivere nella selva, come si vede bene con la pistola di Corto), e morirebbe di certo se

non venisse salvato. Il suo ruolo in questo episodio, quindi, è del tutto passivo, come poco si

addice ad un eroe. Persino il tipo di animale ci suggerisce una differenza. Se, da una parte,

entrambi sono animali quanto mai esotici, colorati e pericolosi, che ben si addicono

all’immaginario dell’avventura, dall’altra sono animali che instituiscono un diverso rapporto

con l’uomo. Il serpente, infatti, è un predatore, che morde per cacciare le sue prede, e se nei

confronti dell’uomo la sua reazione è più che altro di difesa, esso non perde tuttavia la sua

connotazione di animale aggressivo nell’immaginario comune. La rana dardo, al contrario, è

un animale pacifico, che nelle stesse pagine si mostra come immobile. È il protagonista,

insomma, che ha tutta la colpa nel posare la mano su di essa, e questo atto passa dall’essere

una semplice fatalità (come per Corto) all’essere una mise en abyme di una relazione errata

del personaggio occidentale con l’ambiente che lo circonda, come Napo non esita a far notare

a Vasco: “En general ustedes los blancos son un desastre en la selva, déjame que te diga. En

lugar de conpenetrarse con ella la tratan como su enemiga, y como no pueden vencerla se

ponen nerviosos.”1

Il passaggio dall’eroe perfetto ad un protagonista fallibile, e fallimentare, porta

quindi con sé una riflessione del tutto nuova sul ruolo dell’altro e dell’ambiente, che non sono

più relegati ad una posizione di mero esotismo, ma diventano soggetti a tutti gli effetti. È in

questo senso, infatti, che possiamo leggere le differenze tra l’immagine degli indios nelle

storie di Hugo Pratt e nei volumi di de Isusi. Un personaggio come Marangwe, infatti, pur

essendo totalmente positivo, e pur instaurando un dialogo con Corto che va ben oltre la

relazione di poco conto che poteva avere un eroe ‘coloniale’ con i personaggi nativi, rimane

immerso in un’alterità incolmabile, evidente anche dal suo aspetto così strano: il volto tatuato,

le piume nei capelli e una pelle di leopardo sulla schiena. In lui, insomma, convivono i due

aspetti dell’esotico: è attraente e distante al tempo stesso. Proprio grazie alla distanza che

mantiene rispetto alla normalità, può continuare ad essere dotato di attributi soprannaturali:

resiste a tre colpi di pistola sparatigli addosso a bruciapelo dai trafficanti di schiavi.

Marangwe verrà poi salvato dal medico inglese che aveva pagato la missione, il quale si

dichiara però stupito di come lo stregone sia stato capace di bloccare le emorragie interne

provocate dalle pallottole. Personaggio occidentale e personaggio esotico, quindi, dialogano e

si aiutano, in una relazione che è sicuramente un passo avanti rispetto ad altri esempi della

1 RL, p. 172.

96

narrativa di avventura, ma ognuno dei due si salva da solo, con i propri mezzi,

sostanzialmente incomunicabili.

Nel finale del terzo e soprattutto nel quarto volume di Los viajes de Juan sin tierra,

invece, Vasco arriva ad avere una vera relazione con alcuni indios della tribù di Napo, e

questo accade grazie ad una maggiore apertura di entrambi i poli della relazione, rispetto a

quella a cui assistiamo nei fumetti di Hugo Pratt. Da una parte, come si è detto, il protagonista

fallisce, e il suo fallimento apre le porte ad un rapporto con l’altro che nasce sotto il segno di

una temporanea inferiorità e dipendenza del malato rispetto a colui che lo salva. Dall’altra, gli

indios di de Isusi sono lontani dagli stereotipi esotici. Il loro aspetto, prima di tutto, è

semplice, e pur essendo nudi non stuzzica particolarmente l’immaginario esotico. In ogni

caso, l’indio con cui Vasco stringe un rapporto più intenso è Napo, e si è già analizzato

precedentemente quanto questo personaggio sia portatore di una visione dell’essere indio

decisamente lontana non solo dall’immaginario esotico, ma anche da qualunque

essenzialismo. Privando i due poli del contatto tra europei e indios dei loro attributi classici, si

apre quindi la possibilità di una vera e propria relazione, e di una maturazione del

protagonista, che arriva a coinvolgere non solo le sue idee sugli indios, ma soprattutto la sua

interiorità, e il rapporto che egli ha con la sua vita e la sua storia.

III.2. La distruzione di un personaggio.

Può essere interessante, a questo punto, analizzare più da vicino due opere cinematografiche

citate nel quarto volume delle avventure di Vasco, ormai inscrivibili nell’ambito dei classici:

Il mondo nelle mie braccia, di Raoul Walsh, del 1952, e il più celebre Casablanca, di Michael

Curtiz, del 1942.

Il primo viene nominato da Elsa, una ragazza belga conosciuta da Vasco a Salvador

de Bahia, che, giocando ad indovinare il mestiere di Vasco, coglie nel segno nominando il

mestiere che Vasco ha abbandonato solo pochi anni prima: il marinaio. Una volta indovinato,

Elsa dice che sicuramente Vasco aveva scelto quel mestiere perché voleva essere come il

personaggio di Gregory Peck in quel film: un capitano di una veloce barca a vela in cerca di

avventure, alle prese con simpatici pirati messicani, belle principesse russe e i loro crudeli

pretendenti. Vasco risponde, stupito della perspicacia di lei, che era proprio così: “El caso es

97

que has acertado. De algún modo quería ser como el hombre de Boston, viajar mucho y correr

aventuras.”1 Tuttavia, questa affermazione, rivolta al passato e riguardante sostanzialmente

l’infanzia di Vasco, nasconde considerazioni più complesse. Prima di tutto, la difficoltà di

Vasco ad assumere il ruolo di eroe classico, anche in questo caso, e sin da bambino: “¡Cuando

éramos pequeños Juan y yo pasábamos tardes enteras jugando a ella [la película]! Aunque

siempre era él Gregory Peck, a mí me tocaba ser el esquimal que le seguía a todas partes

diciendo ‘voy, voy’.”2 Come già visto in molti casi, troviamo anche qui l’espressione di una

difficoltà ad occupare il ruolo di protagonista/eroe all’interno delle imitazioni dei modelli

classici, o quantomeno un’ambivalenza di posizioni e un contrasto tra i desideri, condizionati

dai modelli culturali di riferimento, e la realtà.

È importante notare, d’altra parte, come del modello di avventura presentato in

questo film, che viene dichiarato impossibile, ancorché apprezzato, de Isusi metta in luce

proprio l’aspetto che maggiormente rimanda all’ambito dell’avventura di stampo esotico: il

personaggio dell’eschimese. Il protagonista del film, infatti, ‘il bostoniano’ impersonato da

Gregory Peck, ha due personaggi che lo seguono fedelmente, un americano detto ‘il profeta’,

e, appunto, l’eschimese, e Vasco racconta che nei loro giochi di bambino egli impersonava

proprio quest’ultimo. Questo personaggio, nel film di Walsh, è un concentrato di stereotipi

che lo rendono il classico personaggio non euroamericano simpatico, spalla del protagonista:

incredibile forza bruta (sfonda con la testa portoni e interi gruppi di nemici), strane abitudini

alimentari ed igieniche (puzza perennemente di pesce), e una particolare vicinanza agli

animali (parla con una foca). Tutto ciò non rende questo film un film platealmente razzista o

imperialista, anzi: nel film si può trovare una certa morale pacifista e di rispetto verso la

natura, e lo stesso personaggio dell’eschimese è forse il più simpatico dell’intera vicenda, ed è

anche un abile pilota (ruolo non secondario su una nave), dimostrando quindi di non essere

privo di intelligenza. La sua è, però, un’intelligenza pratica, che non può mai rivaleggiare con

quella dei protagonisti, immersi in ben altri ragionamenti e sentimenti, e nemmeno con quella

dell’altro personaggio secondario, ‘il profeta’.

Un discorso molto simile si può applicare, d’altra parte, al film Casablanca, che nel

fumetto viene citato solo indirettamente, essendo Casablanca il nome che Vasco da al bar che

apre a Lisbona dopo essersi ritirato dalla vita da marinaio. Nel caso di Casablanca, infatti,

1 TdlST, p. 61.

2 Ibidem.

98

troviamo il personaggio di Sam: nero, amico del protagonista, con una parlata stereotipata da

afroamericano, è un personaggio indubbiamente positivo e simpatico, nonché assai dotato

come musicista. Fuori da questo ruolo, però, non c’è nulla per lui, se non ubbidire ai

protagonisti che, di volta in volta immersi nei loro pensieri, gli chiedono “suonala ancora,

Sam”. Ancora una volta ci troviamo di fronte ad un film la cui morale è indubbiamente

pacifista (nella fattispecie, antinazista), e il cui protagonista incarna un certo tipo di eroe, che

nonostante le riserve a farsi coinvolgere si dimostra poi appassionato e pronto a rischiare la

vita per i propri ideali. E tuttavia è anch’esso un film in cui almeno un personaggio, Sam (ma

un discorso simile si potrebbe fare sui pochi personaggi marocchini che compaiono nel film),

è uno stereotipo esotista: è esattamente come l’immaginario classico europeo lo costruisce,

come espresso chiaramente dalla definizione di esotismo come costruzione immaginaria

dell’oggetto costruito come proiezione dei desideri del soggetto immaginante.

Ancora una volta, quindi, si mette in luce, all’interno di un modello in generale

apprezzato, più che criticato, quel margine di esotizzazione, di stereotipizzazione che lo rende

un prodotto dell’immaginario europeo, dal quale l’opera di de Isusi non può che distaccarsi,

nell’ambito di un processo di decolonizzazione dell’immaginario dell’avventura. Lo stesso

vale per Vasco, che, più o meno a malincuore, deve riconoscere come falsi tutti i modelli di

cui la sua fantasia si è nutrita fino a poco tempo prima. Questo processo di distruzione di miti

non si limita ad aspetti, come l’esotismo e gli stereotipi, che potremmo definire negativi,

bensì investe tutto l’ambito dell’immaginario avventuroso, e si sviluppa in maniera diversa

per Vasco e per Juan. Tra i due, infatti, egli è l’unico che arriva effettivamente ad essere un

marinaio, proprio per scoprire che si tratta di una realtà molto diversa dalle sue aspettative:

Lo cierto es que me cansé porque aquello no era ni viaje y ni aventura. Los barcos

de hoy no tienen nada que ver con las novelas de Stevenson. Ahora son naves inménsas con

tripulaciones mínimas, y todo está mecanizado. Juan lo llamaba ‘la oficina’. Navegar ahora es

mucho más seguro y también más aburrido. Pero lo cierto es que lo mismo pasa con los

viajes... ya no quedan espacios blancos en los mapas... los únicos espacios en blanco estan

dentro de uno mismo.1

Qui Vasco esprime la distanza sempre più grande tra un mondo passato, e forse immaginato

(non a caso lo si evoca, ancora una volta, passando per l’opera di uno scrittore, in questo caso

Stevenson), in cui le avventure erano ancora possibili, e il mondo contemporaneo e

1 TdlST, p. 62.

99

tecnicizzato, in cui l’orizzonte dell’avventura è relegato al mito. Il mestiere di marinaio, gli

animali sull’isola di Ometepe, la telecamera o il fatto di fingersi giornalista come unica arma

possibile per aiutare una ribellione, la propria incompatibilità con il ruolo dell’eroe: sembra

proprio che il viaggio di Vasco sia soprattutto una scoperta della falsità di qualunque mito

avventuroso.

III.2.1. I miti di Juan.

Un discorso simile vale anche per il personaggio di Juan, delle cui esperienze il lettore viene a

conoscenza solo indirettamente, almeno sino al finale del quarto volume. Le poche notizie che

Vasco trova di Juan nel corso della sua ricerca disegnano, infatti, un percorso in cui ogni

tappa racconta una delusione di quest’ultimo. Sono, quelle di Juan, delusioni estremamente

evocative nel distruggere i miti classici dell’avventura occidentale: quello della rivoluzione

perfetta, nel momento in cui scopre che l’EZLN è prima di tutto un esercito, con la sua

gerarchia e le sue regole, e non risponde quasi in niente ai suoi sogni di libertà; il mito del

luogo intatto dei viaggiatori, nel momento in cui lascia Ometepe e Atitlán perché quelle isole

si stavano riempiendo di turisti. Come si vede la reazione di Juan in tutte queste situazioni è la

fuga (lo stesso accadeva, come apprendiamo dal racconto di Vasco, fin dai tempi

dell’adolescenza, con l’abbandono della scuola da parte di Juan).

Claudio, l’amico italiano di Juan che Vasco incontra a Quito, racconta cosa è

accaduto dopo l’abbandono dell’isola di Ometepe e il loro arrivo a Quito, e dopo che lui, Juan

e un ragazzo tedesco di nome Jürgen avevano raccontato a un giornalista di aver percorso a

piedi la distanza dal Nicaragua all’Ecuador (Claudio parla inframmezzando il discorso di

parole italiane):

-Tutto mentira: llegamos a Quito en avión desde Panamá... ¿Que por qué contamos

aquello? ¡Che ne so! Contamos la historia que nos habría gustado vivir... sobre todo a Juan.

Nos inventamos una historia llena de aventuras: narcos, manglares, guerrillas... ¡No faltaba de

nada! La realidad era mucho más anodina: veníamos a Otavalo, el mayor mercado de

artesanía de los Andes, a hacernos comerciantes. Claro, descubrimos que la artesania puede

ser un negocio para quien la vende, pero nunca para quien la hace. [...]-

-Pero… Juan… ¿También él quería hacerse comerciante?

100

-¡Bah! ¡Juan nunca sabía lo que quería! Se enfadó conmigo, me llamó fenicio y

convenció a Jürgen para irse a la selva en busca de... del “buon selvaggio”. ¡Poverini!

Encontrar hoy en día eso en Amazonia es tan imposible como encontrar El Dorado.1

Dopo aver infranto il mito del viaggio avventuroso (anche agli occhi del lettore, che credeva

che Juan avesse effettivamente compiuto quel viaggio), Juan approda, quindi, a quello che

sarà l’ultima e la più importante delle sue ricerche, quella cioè del ‘buon selvaggio’, come lo

definisce Claudio: la ricerca delle tribù di indios amazzonici, simbolo di un’alternativa

radicale alla modernità, almeno in un certo tipo di immaginario occidentale, che, però, le

costruisce per come vorrebbe che fossero (e per come vorrebbe che fosse l’Occidente stesso).

Ma la realtà è decisamente diversa, come apprendiamo dalle parole di Jürgen:

Ustedes querían saber de Juan y su expedición… o deberíamos decir… Juan y su

obsesión. Juan estaba obsesionado con encontrar al ser humano en estado puro. Pero no sirve

de nada buscar si vas con los ojos cerrados. ¿Qué quieren que les diga? A mí me parece que

acá en el El Dorado la gente está en un estado bastante puro, ¿no creen? Al menos lo prefiero

a lo que encontramos en las comunidades del río Napo. ¡Ese río loco! Nosotros queríamos

caminar desnudos con los indios y sólo encontramos borrachos con gorras de los Lakers. Les

hemos quitado su cultura y a cambio sólo le hemos dado lo peor de la nuestra.2

La ricerca del “ser humano en estado puro” si dimostra, quindi, l’ultima grande ossessione di

Juan, ma anche l’ultimo grande mito da sfatare, come Jürgen esprime chiaramente: le

comunità del río Napo di oggi erano ben lontane dall’essere pure. D’altra parte la parola

‘puro’ è un chiaro riferimento ad uno stereotipo, e poco importa se questo stereotipo è

positivo invece che negativo: rimane il fatto che ‘non serve a nulla cercare con gli occhi

chiusi’, chiusi perché vedono (costruiscono) non ciò che esiste, ma ciò che vorrebbero

esistesse, e lo vorrebbero per sé, per dare un senso alla propria visione del mondo.

Paradossalmente, questo atteggiamento assomiglia molto a quello descritto da Marco Aime

nella sua analisi di un certo tipo di turismo ‘etnico’:

Spesso, rimpiangendo un mondo arcaico, forse mai esistito ma costruito dalle

nostre menti, si proietta sugli altri un’immagine di società ideale e armonica; e perché ciò sia

possibile e plausibile, occorre che questi ‘altri’ siano davvero molto diversi da noi. Ecco allora

1 RL, pp. 17-18.

2 RL, pp. 54-55.

101

che i dogon perfetti e puri animisti, i pigmei eterni cacciatori e raccoglitori, […], tutti

diventano ‘buoni da pensare’ per i turisti ammalati di nostalgia.1

Dopo il fallimento di questo primo tentativo: “Juan estaba como ido… no hablaba con nadie,

había perdido el interés por todo. Y así estuvo hasta que conoció a un chaval que al parecer

sabía de la existencia de una tribo no contactada. Juan se aferró a eso como a una tabla de

salvación.”2 Juan, quindi, non demorde dal suo intento di trovare il ‘buon selvaggio’,

nonostante la distanza tra questo suo desiderio e la realtà. Claudio e Jürgen rappresentano,

invece, e questi due frammenti lo esprimono chiaramente, due personaggi che si dimostrano

in grado, nel bene e nel male, di liberarsi più rapidamente dei miti, una volta che li vedono

lontani dalla realtà, proprio per un principio di realtà che li rende capaci di essere felici

facendo il commerciante, nel caso di Claudio, o lavorando in un’impresa di turismo de

aventuras, nel caso di Jürgen, pur essendo ben consapevole che si tratta di un “nombrecito

contradictorio, lo sé”3, almeno in una visione ‘purista’ del concetto di avventura.

Juan, al contrario, viene connotato in tutta l’opera come un personaggio la cui

fantasia creatrice è la caratteristica principale, anche in contrapposizione a Vasco, più realista.

Questa differenza tra i due viene espressa chiaramente nei lunghi flashback di cui è costituito

il quarto volume, En la tierra de los sin tierra, durante i quali veniamo a sapere che Vasco e

Juan sono cresciuti insieme, dopo che la madre di Vasco, portoghese, aveva adottato Juan,

spagnolo, rimasto orfano. I due erano inseparabili, tuttavia era Juan a guidare l’altro nei

giochi, ad occupare il ruolo di avventuriero più spericolato, capace di attirare le colombe

imitandone il verso, e motivando questi gesti dicendo “Tonto… sólo es magia”. Fin da

piccolo, quindi la sua condizione di straniero e orfano lo segnala come distante dalla realtà.

Successivamente, negli anni dell’adolescenza, mentre Vasco frequenta l’istituto per diventare

marinaio, terminandolo ed avviandosi a quella professione, Juan lascia la scuola, viaggiando

senza meta e vivendo alla giornata. In una tavola, Vasco va a trovare Juan, in un appartamento

i cui occupanti fanno uso di droghe, e il Vasco che racconta afferma “Claro que él no

necesitaba drogarse, él ya tenía su propias fantasías…”4 In un’altra tavola, dopo i mirabolanti

racconti di Juan riguardo i suoi viaggi, questi chiede a Vasco “-¿Y qué hay de ti? ¿Cómo te va

1 Aime, Marco, L’incontro mancato: turisti, nativi, immagini, Torino, Bollati Boringhieri, 2005, p. 96.

2 RL, pp. 54-55.

3 Ibidem.

4 TdlST, p. 82.

102

por ‘la oficina’ [come Juan chiama le navi moderne]?-, il quale può rispondere solo: “Bien.

Un día se averió la radio, la arreglé.”1

Tuttavia, in questo senso Juan stesso è una costruzione della fantasia di Vasco: il

lettore lo vedrà ‘in carne ed ossa’ solamente nelle ultime pagine del quarto volume, e scoprirà,

peraltro, di avere a che fare con un personaggio meno ‘mitico’ di come era stato descritto, più

umano. Prima di questo momento tutte le informazioni che vengono date su di lui passano

attraverso il filtro della fantasia di Vasco, che lo costruisce come ciò che lui non è, o non

riesce ad essere: un avventuriero libero e senza legami, una perfetta incarnazione dei modelli

classici, applicata però ad una visione politica libertaria. Per questo la figura di Juan lo

ossessiona, e per questo Vasco aveva iniziato, prima che Juan sparisse, una relazione con la

ragazza di quest’ultimo, Leticia, in un tentativo di appropriarsi di una parte della vita di Juan,

per realizzare una parte delle sue fantasie che trovavano nell’amico/fratello una proiezione.2

Vi è, per di più, un collegamento esplicito tra Juan e i modelli avventurosi. Quando,

bambino, Juan si trasferisce con Vasco e sua madre, infatti, porta con sé un baule: “No sé de

donde lo había sacado Juan, pero en él estaban todas las novelas clásicas de aventuras: Verne,

Salgari, Stevenson, Swift, London, Melville… y Juan se las sabía todas.”3 Nella vignetta

seguente, si vedono i due giocare a Moby Dick, e Vasco fare la parte di Queequeg: ancora una

volta la parte secondaria, ed ancora una volta la parte ‘esotica’. Successivamente, già adulti, e

dopo la sparizione di Juan, Vasco capisce cosa non va nella propria vita: “Juan se me aparecía

siempre como la imagen de lo que yo quería ser y no era.”4 Juan, quindi, o meglio il Juan che

Vasco costruisce nella propria mente, è un simbolo proprio di quei modelli avventurosi ed

esotici che costituiscono il termine di paragone impossibile per Vasco, e un termine di

paragone malinconicamente inattuale e inapplicabile per de Isusi, che, come abbiamo visto, se

ne allontana, in un lungo e complesso processo di citazioni, distanziamenti e rielaborazioni.

È Vasco, insomma, il cuore del problema trattato nel fumetto: Vasco e il suo

conflitto interiore tra le aspirazioni e la realtà, in cui entrambi questi poli sono influenzati

dalle convenzioni e limitazioni sociali ed economiche, e dai miti dell’immaginario occidentale

che informano la fantasia di un ipotetico avventuriero. Quello a cui assistiamo fino alle ultime

1 Ivi, p. 83.

2 Ivi, p. 84.

3 Ivi, p. 80.

4 Ivi, p. 86.

103

pagine del quarto volume, quindi, è un cammino interiore di crescita di un personaggio,

perennemente immerso nella rete di movimenti sociali e politici dell’America meridionale e

dei suoi tentativi di decolonizzarsi. In questo senso, sia per Vasco che per Juan è l’Amazzonia

il luogo in cui culmina il processo di spoliazione dei miti esotici, quegli stessi miti che

avevano ossessionato Juan nella ricerca di un luogo in cui l’essere umano fosse

incontaminato. Alla fine del quarto volume, infatti, si scoprirà che l’esperienza di Juan

nell’Amazzonia è assai simile a quella di Vasco, e soprattutto possiede lo stesso potenziale

nel far cambiare la visione del mondo del personaggio.

III.2.2. Vasco e l’Amazzonia.

de Isusi, parlando del motivo per il quale ha inserito l’Amazzonia nella sua storia, scrive

(corsivo mio):

Por supuesto el viaje de Vasco no sólo sigue los pasos del de Juan, sino los míos

propios cuando trotaba por aquel continente, y el Amazonas fue parte de mi viaje. No fue

desde luego de las partes más bonitas pero aquí entra en juego algo que escuché decir a un

argentino vagabundo en la isla de Ometepe: “No puedes decir que has viajado por América si

no recorres el Amazonas”. El Amazonas es como un imán para todo aquel que busque

exotismo, aventuras… un imán tremendamente desilusionante y descorazonador

generalmente, pero precisamente eso es algo que me interesaba reflejar en el libro. Y por la

trayectoria que sufre el personaje de Vasco… sí, era inevitable que se zambullera en la

Amazonía.1

La traiettoria di Vasco, quindi, ha a che fare con quella di tutti coloro che cerchino avventura

e ‘esotismo’, e de Isusi utilizza esplicitamente questo termine. In questo senso, quindi, la

foresta amazzonica si trasforma in un mito, proprio grazie alla sua impenetrabilità: si può

trasformare, cioè, in uno, forse l’ultimo, di quegli ‘spazi bianchi’ rimasti sulle mappe. Nella

realtà, però, come si è cercato di dimostrare nella prima parte del presente lavoro, la realtà

economico-politica della modernità è ben lontana dal non intervenire anche in quest’area, e i

suoi abitanti sono, d’altra parte, decisamente toccati dalle vicende della modernità, e

consapevoli di esserlo, anche quando si tratta di tribù incontattate o in isolamento volontario

(l’isolamento stesso è una conseguenza del contatto con la modernità coloniale e delle

minacce che essa porta con sé). Il personaggio di Napo, che accompagna Vasco in tutto il suo

percorso interiore ed esteriore nella selva, è lì per ricordare sia al protagonista che ai lettori

1 Cfr. http://www.astiberri.com/entrevistas.php?ident=7

104

proprio questo: né lui né la sua tribù sono ‘territorio vergine’, sotto nessun punto di vista,

positivo o negativo che sia, e perciò non possono portare nessuna salvezza precostruita. Ciò

che possono fare è aiutare a vedere le cose da un altro punto di vista, che ha nell’alterità e nel

suo rapporto con essa, e non in una supposta superiorità, il suo potenziale di decostruzione.

La traiettoria di Vasco all’interno della selva segue alcune tappe abbastanza

scandite. La prima fase è costituita dalla partenza da Borja, in compagnia di Héctor e di

Leandro, la loro guida, i cui rapporto con Vasco sono tesi fin dall’inizio, e arrivano anche alla

violenza. Dopo un primo tratto in canoa, i tre si addentrano nella selva, ma ben presto

Leandro, all’insaputa degli altri due, poco avvezzi alla foresta, li trascina in un percorso

circolare, per poi abbandonarli sulle rive del Río Napo, senza un mezzo di trasporto. Héctor,

tuttavia, trova una canoa, ma Vasco rifiuta di tornare con lui a Borja, e continua la sua ricerca.

Al primo smarrimento, in quel percorso circolare a cui li ha costretti Leandro, fa

seguito un secondo, di Vasco ora rimasto solo, che si smarrisce sempre di più nel cuore della

selva, in preda ad allucinazioni e ricordi, e fuori di sé tocca accidentalmente una rana dardo,

dal veleno mortale. Senza il suo machete, che ha perso, non riesce a tagliarsi la mano, e

sviene. Qui ha la prima visione, e il primo discorso con una figura femminile, che

identificherà poi con la dea del villaggio. Nelle fattezze, la dea si presenta molto simile a

Bocca Dorata, la maga brasiliana presente in alcune storie di Corto Maltese. Inoltre, de Isusi

prende in qualche modo sul serio il nome di quest’ultima, poiché quando questa dea parla

piccole pagliuzze d’oro escono dalla sua bocca. Il collegamento tra le fattezze esotiche e un

potere sul prezioso metallo inseriscono quindi di diritto questo personaggio nell’ambito degli

esotici personaggi femminili che attraggono il protagonista. Tuttavia, de Isusi porta questa

stereotipizzazione fino alle estreme conseguenze, poiché la divinità, durante tutto il corso del

loro colloquio, passa fisicamente da una fisionomia all’altra, coprendo in qualche modo tutto

il continente americano, ma soprattutto una serie di modelli che provengono anche dal mondo

artistico. All’inizio, infatti, è vestita da india; poi è afroamericana come Bocca Dorata (che è

una brasiliana di origini africane), e vestita con la stessa fastosità; poi si tramuta, anche in

volto, in una figura simile a Frida Kahlo, con lo stesso fiore tra i capelli; poi si fa le trecce ai

capelli e si veste come una indiana dell’America del Nord, per poi infine spogliarsi di tutto, e

rimanere nuda.

105

A questo punto, però, i due hanno già avuto un lungo colloquio, che riguarda proprio

la relazione con i tanti personaggi che esistono sulla scena del mondo, e su come essi siano in

contrasto con la realtà. Vasco infatti, sentendosi in un sogno, dice alla dea, in tono ironico:

-Me recuerdas a un personaje de alguna novela.

-Ah, sì, sì... Muy bien, Vasco... así que un personaje de novela... ¿Y tú? ¿Qué eres

tú?

-No sé, según una amiga mía somos lo que contamos que somos, ¿tú que opinas?

-Ah, ah, que te sigues escapando... y que eso que dice tu amiga es algo relativo:

sólo vale para el personaje que usamos en el gran escenario del mundo. Pero ya que estamos,

dime, moreno, ¿qué te cuentas tú que eres?

-Eh, no te lo voy a decir... ¡No me gusta esa sonrisita!

-Como quieras, te lo diré yo entonces. Te has contado que te llamas Vasco, y te has

contado que Vasco es un aventurero solitario con el corazón roto. ¡Te encanta ese personaje,

admítelo! Tanto que te autocomplaces en él añorando algo que nunca existió... Y buscando

algo que tampoco existe. Pero te has tenido la osadía de ponerle nombres a tu búsqueda, y

como te has contado que eres un héroe audaz y tenaz tienes que llevar tu búsqueda hasta las

últimas consecuencias, aunque para ello acabes muerto en la selva... ¡Bravo, Vasco! Es

justamente el tipo de personajes que gustan en el gran escenario del mundo. Oh sí... ¡Puedes

hacerte inmortal así!

-¡Menuda sarta de tonterías! ¿O sea que si me muero me hago inmortal?

-Ah… No exactamente… Digo que puedes llegar a ser un personaje inmortal,

aunque para ello deberás renunciar a ser una persona real. Los grandes personajes nunca

mueren, ya sabes, sólo mueren las personas. Y sin embargo... hay otro tipo de inmortalidad...

más real, oh sì, sì... más real... pero para disfrutarla hay que matar al personaje... De todos

modos los personajes está muertos, ya lo sabes, sólo las personas viven de verdad.1

Questo, infatti, è il momento di passaggio dell’opera: il momento in cui il personaggio di

Vasco viene messo di fronte alla necessità di abbandonare l’imitazione di quei modelli

avventurosi che non gli permettono di vivere una vita autentica. Ad un altro livello, è il

momento in cui de Isusi smaschera il suo intento, quello cioè di ridiscutere i clichés della

narrativa di avventura, arrivando fino al punto di liberarsene completamente. Alla figura,

onirica, della dea viene affidato proprio questo compito: raffigurare, con i mezzi del fumetto,

quindi in maniera visiva più che letteraria, l’abbandono degli stereotipi. Un abbandono,

questo, che rimane tuttavia faticoso e doloroso, soprattutto perché non si sta parlando degli

stereotipi più comuni o marcatamente razzisti, bensì di icone visive di grande qualità (i

1 RL, pp. 149-150.

106

disegni di Hugo Pratt, Frida Kahlo, l’icona dell’indiano d’America, che potrebbe provenire

dalla saga di Tex Willer iniziata da Bonelli, o dai molti altri esempi del suo utilizzo). Queste

icone, tuttavia, vanno superate, per creare qualcosa di nuovo, e soprattutto per tentare di

superare l’esotismo del quale, per scelta consapevole o meno, si sono ammantate.

Vasco si risveglia, poi, grazie alle cure di Napo e di suo nonno, il quale è lo

sciamano di quel villaggio di indios in isolamento. Una volta ristabilitosi, Vasco scopre che

quel villaggio è, o assomiglia a, il celebre El Dorado, cercato da tutti gli avventurieri (tra cui

Corto Maltese), in cui l’oro abbonda in ogni luogo. Ma scopre anche che questo non gli

interessa, e che invece di ciò che gli interessa, la sorte di Juan, quella tribù non sa nulla.

Inizia, però, la permanenza di Vasco nella tribù, che durerà parecchi mesi, anche dopo che la

tribù è costretta a spostarsi per evitare l’incontro con dei ‘bianchi’ e le loro ruspe da

disboscamento. Vasco, infatti, rimane in attesa di poter parlare nuovamente con la divinità nel

corso di una cerimonia rituale, per cercare di risolvere lo stato di smarrimento esistenziale in

cui si trova. Ma il suo cammino di purificazione, prima di poter accedere alla cerimonia, è

necessariamente lungo, ed, effettivamente, costellato di scoperte ed incontri con il pensiero e

la cosmogonia della tribù.

Quando poi Vasco può partecipare alla cerimonia, purificato, ha una nuova visione,

nella quale la divinità lo costringe, nella visione, a fare i conti con le varie parti di se stesso in

conflitto fra loro, a ritrovare una qualche serenità che si può condensare nella frase “Yo sólo

quiero ser lo que ya soy”. A questa ammissione, può seguire una seconda vita per Vasco, e

nella visione questo passaggio viene raffigurato come una morte rituale, alla quale segue una

rinascita, dallo stato di feto a quello di corpo adulto. Narrando tutto questo ad un coreografo

brasiliano conosciuto all’aeroporto di Rio de Janeiro, Della sua esperienza Vasco dirà: “Pues,

no sé que decirte… aún no lo sé… Fue todo tan intenso. Creo…Creo que algo cambió en

mí… Creo… pero aún no sé bien qué.”1

III.2.3. Il lupo della steppa e Siddharta.

Nel terzo e quarto volume, quindi, assistiamo al compiersi della traiettoria di Vasco verso

l’’aprire gli occhi’, verso un qualche tipo di consapevolezza. Tuttavia, questa consapevolezza,

1 TdlST, pp. 96-97.

107

che pur tocca la vita interiore del protagonista in profondità, non va intesa come puramente

mistica o spirituale: essa è sempre radicata in un complesso discorso di presa di coscienza e

decostruzione dei condizionamenti dell’immaginario occidentale sull’animo del protagonista

e sulla sua capacità di vivere e di interpretare ciò che vive. Questa complesso rapporto tra i

conflitti interiori del personaggio e i condizionamenti sociali è uno dei nuclei fondamentali

dell’opera di de Isusi, soprattutto negli ultimi due volumi. Parlando delle opere che lo hanno

ispirato nello scrivere Los viajes de Juan sin Tierra, de Isusi afferma: “En cuanto al

contenido, al acabar la obra me he dado cuenta de algo que hasta entonces lo tenía

inconsciente, y es que cuando la empecé estaba muy impresionado por dos libros de Hermann

Hesse: El lobo estepario y Siddharta. Creo que su influencia es bastante evidente, sobre todo

en el tercer y cuarto tomo.”1

Effettivamente, un confronto fra gli ultimi due volumi della quadrilogia e i due

romanzi di Hesse mette in luce numerose analogie, soprattutto al livello della costruzione

generale dell’opera: la parabola di un personaggio che si trova alle prese con una crisi

interiore, e il cammino che questo personaggio intraprende verso una risoluzione di questa

crisi. Anche il genere di conflitto affrontato è simile: volendo semplificare, è la difficoltà di

trovare un modo di vivere nel mondo e nella società che metta d’accordo le aspirazioni (sulle

quali influiscono elementi ‘esterni’ all’individuo come l’educazione ricevuta, o la situazione

sociale e politica in cui è immerso) con la realtà, e con una generica felicità. Ne Il lupo della

steppa, in particolare, questi due poli del conflitto sono esplicitamente identificati nella

divisione duale che il protagonista immagina esistere nella sua interiorità, tra l’uomo, colto

appassionato di musica e filosofia, con ideali filantropici, e il lupo, solitario, affamato di

piaceri semplici, lontano dalla società. Per Siddharta, invece, si tratta di un continuo oscillare

tra l’ascetismo, la ricerca di una realtà interiore che vada oltre l’apparenza dell’esistente, e il

contatto affettivo ed emozionante con la realtà stessa.

Come sempre, de Isusi non manca di disseminare alcune citazioni più o meno

esplicite delle opere che rielabora. Per quanto riguarda Il lupo della steppa, può essere

interessante osservare come, al momento di dover convincere con la violenza Leandro a fargli

da guida nella ricerca di Juan, Vasco si trasformi in una figura lupina, con tanto di denti

aguzzi.2 Successivamente al colloquio con la dea nella prima visione, inoltre, Vasco si trova

1 Cfr. http://www.guiadelcomic.es/javier-de-isusi/entrevista.htm

2 RL, p. 76.

108

ad osservare la propria interiorità, che viene raffigurata come un’ enorme galassia. Questo

rimanda abbastanza direttamente alla “dissertazione” contenuta ne Il lupo della steppa, in cui

Hesse scrive: “In realtà nessun io, nemmeno il più ingenuo è un’unità, bensì un mondo molto

vario, un piccolo cielo stellato, un caos di forme, di gradi e situazioni, di eredità e

possibilità.”1 Una galassia a spirale, quindi, ben si presta a raffigurare visivamente questo

caos stellare in perenne mutamento. Per quanto riguarda Siddharta, invece, troviamo una

citazione esplicita nel racconto dell’esperienza, parallela a quella del protagonista, vissuta da

Juan, che la racconta nel finale del volume. Salvato da un indio, passa lunghi mesi in

convalescenza ai bordi del fiume: “El río me hablaba. Me hablaba de la vida, de mí… Vi el

río como la corriente eterna de la vida... y mi vida como una gota de espuma que no dura más

que una fracción de segundo.”2 La stessa esperienza è vissuta da Siddharta nell’ultima parte

della sua vita, accanto al barcaiolo, e allo stesso modo Siddharta apprende ad ascoltare il

fiume e a vedere in lui una metafora della realtà.

Un altro elemento di contatto è l’importanza che i sogni, o le visioni indotte da stati

allucinatori, rivestono sia nelle avventure di Vasco, e sia nelle due opere di Hesse. In

particolare, questi sogni segnano sempre dei punti di passaggio, dei momenti in cui il

protagonista viene a contatto con delle realtà profonde di cui sta iniziando a rendersi conto,

ma che solo nel sogno possono palesarsi, in maniera figurata, come immagini: ne è un

esempio la parte finale di Il lupo della steppa, in cui le varie stanze di un teatro onirico lo

costringono a fare i conti con le varie parti di sé. Sia Harry, protagonista de Il lupo della

steppa, sia Siddharta, quindi, trovano proprio nei sogni o in visioni oniriche quelle

rappresentazioni del proprio io e della propria condizione che gli permettono di salire un

gradino nella consapevolezza di sé: Siddharta arriva a cogliere l’unità del tutto, seppur

provvisoriamente, proprio durante un lungo sonno.

Dato fondamentale di queste visioni o sogni, inoltre, è il loro presentarsi spesso

sotto forma di incontri e dialoghi, a volte con persone conosciute, e a volte, soprattutto nel

caso di Harry, con personaggi celebri, che il protagonista vede come modelli di cultura e

genialità: nella fattispecie, Goethe e Mozart. Tuttavia, è interessante notare come anche in

quest’opera questi incontri non vadano come previsto, nel senso che il modello incontrato non

risponde alle aspettative del protagonista, ma anzi le distrugge regolarmente, ponendole in

1 Hesse, Hermann, “Dissertazione”, in Il lupo della steppa, trad. di Ervino Pocar, Milano, Mondadori, 2003, p.

XXV. 2 TdlST, p. 153.

109

una prospettiva in cui tutte le sofferenze quotidiane diventano insignificanti. Nell’incontro

con Goethe, ad esempio, alle domande così pregnanti che Harry pone al grande scrittore,

riguardanti la presunta insincerità nel propugnare fede ed ottimismo in un mondo disperato,

costui risponde con ironia, e vantandosi del suo spirito infantile, in una maniera che appiana

ogni contraddizione1, e qualcosa di simile accade con Mozart, in seguito, il quale mostra ad

Harry come tutto ciò che in vita si crede importante, impallidisca nell’eternità.2

Questi incontri onirici, insomma, hanno il potere di mettere in crisi la visione del

mondo consueta del protagonista, proprio come accade a Vasco, prima nel sogno allucinatorio

provocato dai funghi in La isla de Nunca Jamás, e poi, soprattutto, nel corso dei due dialoghi

con la divinità protettrice del villaggio. In questo senso, ai miti della cultura tedesca che fanno

da modello alla visione del mondo di Harry fanno da contraltare, come abbiamo visto, i

modelli e i miti della narrativa di avventura impersonificati da Juan, Chico e la divinità nelle

visioni. Ciò accade perché, seppur non manca una riflessione di ordine politico all’interno de

Il lupo della steppa, questa si incentra sul contrasto tra una visione del mondo borghese (e il

nascente nazismo che le fa da sfondo) e una visione quasi romantica dell’individuo e della

cultura, alla quale tuttavia Hesse contrappone una terza via, presa dalla filosofia indiana e

buddhista (la stessa che ritroviamo in Siddharta). Nell’opera di de Isusi, invece, la riflessione

politica si incentra sul rapporto tra l’immaginario occidentale e il colonialismo, e in

particolare su come nella contemporaneità molti modelli continuino, pur senza colpa, a

perpetuare una visione del mondo esotista, che in qualche modo giustifica il neocolonialismo.

Questi incontri onirici, quindi, segnano i punti di passaggio nel cammino del

protagonista verso una diversa concezione del proprio rapporto col mondo, mostrando il

passaggio in maniera metaforica. Tuttavia, il vero cammino non avviene nei sogni, bensì nella

vita reale, seppur in maniera più graduale, e meno evidente. Per tutti e tre protagonisti si tratta

di un cammino lungo (anche un’intera vita), fatto di scelte drastiche, esperienze, pentimenti e

ritorni, nei quali il personaggio rivive parti del suo passato, ma con occhi nuovi e diversi. Lo

scopo finale, o meglio l’ipotetico punto di arrivo, è una nuova serenità, che derivi dall’aver

trovato l’armonia tra i diversi aspetti dell’esistente, e tra i diversi aspetti che compongono

l’animo stesso del personaggio, accettandone le contraddizioni, più che risolvendole. In

questo senso, il “juego loco de la representación” di cui più volte parla Napo, il “gran

1 Cfr. Hesse, Hermann, Il lupo della steppa, cit., pp. 117-118.

2 Ivi, pp. 244-248.

110

escenario de la vida”, è assai simile al teatrino finale di Il lupo della steppa, e al samsara di

cui si parla diffusamente in Siddharta, ossia il mondo dell’apparente realtà e della vita

carnale. Questi tre aspetti si oppongono all’altro volto del sacro: per gli indios della tribù di

Napo è Inti, “que no cambia, que está en todo y es inmortal.”1, è lo spazio etereo e freddo

degli Immortali per Harry, dove vivono eternamente i saggi, ed è il nirvana per la filosofia

indiana di cui tratta Siddharta.

Tuttavia, fra i due poli non è necessario sceglierne uno: e proprio questo è l’errore

dei tre protagonisti, ad esempio di Siddharta, che prima sceglie l’ascesi, poi la carnalità, poi

nuovamente l’ascesi, per arrivare infine a capire che queste erano solo divisioni che vivono

nel linguaggio, ma non nel mondo:

Quando il sublime Gotama nel suo insegnamento parlava del mondo, era costretto

a dividerlo in samsara e nirvana, in illusione e verità, sofferenza e liberazione. Non si può fare

diversamente, non c’è altra via per chi vuole insegnare. Ma il mondo in sé, ciò che esiste

intorno a noi e in noi, non è unilaterale. Mai un uomo, o un atto, è tutto samsara o tutto

nirvana, mai un uomo è interamente santo o interamente peccatore. […] Il mondo, caro

Govinda, non è imperfetto, o impegnato in una lunga via verso la perfezione: no, è perfetto in

ogni istante, ogni peccato porta già in sé la grazia, tutti bambini portano già in sé la vecchiaia,

tutti i lattanti la morte, tutti i morenti la vita eterna. […] Per questo a me par buono tutto ciò

che esiste, la vita come la morte, il peccato come la santità, l’intelligenza come la stoltezza,

tutto deve essere così, tutto richiede solamente il mio accordo, la mia buona volontà, la mia

amorosa comprensione, e così per me tutto è bene, nulla mi può far male.2

È, inoltre, un cammino in cui non c’è mai un punto finale. In questo senso, Siddharta è un

personaggio emblematico: più volte si trova di fronte ad una rivelazione, ad una scelta

profonda che lo porta ad un nuovo modo di esperire il mondo, ed ogni volta però lo aspettano

nuovi pentimenti e nuove incertezze. Così Harry, che, nelle ultime righe di Il lupo della

steppa, afferma: “Un giorno avrei giocato meglio il giuoco delle figurine [le mille parti di sé].

Un giorno avrei imparato a ridere. Pablo mi aspettava. Mozart mi aspettava.”3 Allo stesso

modo, Vasco attraversa numerose tappe, fino a rinascere spiritualmente nel corso del secondo

rituale. Tuttavia, pur dopo quest’esperienza così profonda, Vasco si ritrova a fare ancora gli

stessi errori di prima: essenzialmente, desiderare sempre altro rispetto a ciò che si ha, e non

1 RL, p. 150.

2 Hesse, Hermann, Siddharta, Trad. di Massimo Mila, Milano, Adelphi, 2003, p. 189.

3 Hesse, Hermann, Il lupo della steppa, cit., p. 260.

111

vivere il momento presente: “Estás siempre fuera de tí.”1, come gli dice Napo. Per questa sua

disposizione d’animo non riesce ad avere una relazione con una ragazza di nome Elsa, e di

questo si rammarica con il coreografo brasiliano cui racconta la sua storia in aeroporto: “En

fin, yo creía que después de lo que viví en la selva había aprendido… no sé… algo. Pero ya

ves.”2 È proprio nella difficoltà, o quasi impossibilità, di raggiungere questo stato, però, che

questo cammino sviluppa la sua dinamicità, senza trasformarsi nel racconto di una

conversione, che mal si adatterebbe allo spirito ironico e sempre legato alla realtà che pervade

tutta l’opera di de Isusi

L’ironia, d’altra parte, è un aspetto fondamentale nella crescita spirituale, non solo

per Vasco, ma anche per i due protagonisti di Hesse. Già dalla frase precedentemente citata

che conclude Il lupo della steppa emerge chiaramente questo aspetto del concetto di crescita

contenuto nelle due opere di Hesse: essenzialmente, apprendere che tutto è un gioco, imparare

a giocarlo nel modo migliore possibile, e soprattutto imparare a riderne. Il riso è un concetto

fondamentale, sia ne Il lupo della steppa, dove si palesa nella risata fredda degli Immortali,

sia in Siddharta, dove la saggezza di personaggi come Gotama, Vasudeva, e infine lo stesso

Siddharta, si esprime proprio attraverso il sorriso. Ne Los viajes de Juan sin tierra questo

sorriso lo si ritrova in Olivio, in Chico e in Napo, che nel corso dell’opera manifestano più

volte una profonda serenità, pur nella coscienza dei problemi materiali che li circondano, e

contro i quali lottano attivamente. Questa serenità deriva essenzialmente dal non desiderare

sempre qualcosa di diverso rispetto alla situazione in cui si vive, e che si condensa nella frase,

pronunciata da tutti questi personaggi, “yo sólo quiero ser lo que ya soy.” Nel caso di Napo,

poi, questa frase è preceduta proprio da una risata. In questa frase e in questa risata troviamo

la trasposizione di ciò che dice Siddharta:

Ho appreso, nell’anima e nel corpo, che avevo molto bisogno del peccato, avevo

bisogno della voluttà, dell’ambizione, della vanità, e avevo bisogno della più ignominiosa

disperazione, per imparare la rinuncia a resistere, per imparare ad amare il mondo, per

smettere di confrontarlo con un certo mondo immaginato, desiderato da me, con una specie di

perfezione da me escogitata, ma per lasciarlo, invece, così com’è, e amarlo e appartenergli

con gioia.3

1 TdlST, p. 67.

2 Ivi, p. 146.

3 Hesse, Hermann, Siddharta, cit., p. 189.

112

In queste parole possiamo leggere una descrizione estremamente calzante del personaggio di

Napo, il quale, come si è visto anche tramite l’analisi di un testo come Borderlands/La

frontera di Gloria Anzaldúa, attraversa una lunga serie di difficoltà, di sofferenze che gli

derivano dall’essere in bilico tra due culture e tra due sessualità. Tuttavia, proprio questo

cammino gli permette di decostruire queste impalcature culturali, e comprendere come ogni

cultura sia a sua volta in bilico fra molte altre (da qui i sui travestimenti come Capitana

América, e il suo incredibile sincretismo, che mescola Laura Pausini alle tradizioni indie), e

come la sua sessualità, ipoteticamente in contraddizione con le normali costruzioni binarie, o

cosiddette naturali, sia semplicemente ‘lo que es”, e in quanto tale non può essere innaturale.

Applicata a Napo, quindi, la ‘rinuncia a resistere’ di Siddharta non va letta dal punto di vista

politico e sociale, quanto piuttosto dal punto di vista delle proprie pulsioni, il che porta, anzi,

ad una resistenza ancora più forte contro le ingiustizie.

È proprio a Napo, infatti, subito dopo che questi ha pronunciato la frase simbolo di

questa condizione (“sólo quiero ser lo que ya soy”) e si è tuffato nel fiume, che Vasco si

rivolge dicendo: “Tendrás que enseñarme a hacer eso.”1 Vasco, quindi, identifica proprio

Napo come suo maestro. Questo ci permette di giungere ad un concetto fondamentale rispetto

al cammino di crescita dei protagonisti delle tre opere che stiamo analizzando, ossia

l’impossibilità di percorrere questo cammino senza maestri: senza quelle persone che con i

loro pensieri e con le loro azioni permettono al protagonista di uscire dalla propria visione del

mondo, che lo fanno sbilanciare, per raggiungere poi un nuovo equilibrio: questo è il senso,

tra l’altro, anche degli incontri onirici. Questo concetto lo troviamo espresso più volte nelle

opere di Hesse: nella già citata frase finale de Il Lupo della steppa, per esempio, dopo la vita

come gioco e l’importanza del riso, troviamo le due frasi “Pablo mi aspettava. Mozart mi

aspettava.”, ossia l’identificazione di due maestri, dai quali già ha imparato, ma non

abbastanza. Il fatto che i maestri possano essere un ‘mito’ incontrato da Harry solo in sogno, e

invece un sassofonista ‘reale’, e anzi quanto mai disinteressato alla cultura, è un esempio di

come il maestro non sia da valutare superficialmente per il suo bagaglio culturale, ma

piuttosto per quanto egli è capace di sbilanciare l’equilibrio interno del protagonista. In questo

senso maestro può essere chiunque, come esprime chiaramente Siddharta:

Una bella cortigiana è stata per lungo tempo mia maestra, e un ricco mercante fu

mio maestro, nonché alcuni giocatori d’azzardo. Una volta anche un discepolo del Buddha in

1 TdlST, p. 47.

113

pellegrinaggio fu mio maestro; anche da lui ho appreso, anche a lui sono riconoscente, molto

riconoscente. Ma soprattutto ho imparato qui, da questo fiume, e dal mio predecessore, il

barcaiolo Vasudeva.1

III.3. La scoperta dell’Altro.

III.3.1. Dialogo e sconfitta.

Ciò a cui assistiamo nel corso dell’ultimo volume de Los viajes de Juan sin tierra, quindi, è

l’evoluzione di un personaggio, che avviene essenzialmente grazie a ciò che potremmo

definire come la scoperta dell’Altro: il confronto continuo, e a volte anche forzato, con

un’Alterità che sconvolge il consueto modo di pensare del protagonista. Il volume, infatti, si

costruisce tutto alla base di una serie di conversazioni tra Vasco e altri personaggi: il

coreografo brasiliano nell’aeroporto, prima di tutto, a cui Vasco inizia a raccontare la sua

storia. All’interno di questo racconto, e dei ricordi che esso stimola nel protagonista,

assistiamo a frammenti delle esperienze di Vasco nella selva, e poi all’incontro, a Salvador de

Bahia, con Elsa, una fotografa belga con cui Vasco inizia una relazione. Nel corso dei

dialoghi con Elsa apprendiamo una serie di fatti riguardanti l’infanzia e la giovinezza di

Vasco, e le motivazioni per cui ha intrapreso questo viaggio. Infine, assistiamo all’incontro di

Vasco con Juan, nell’accampamento dell’MST, e poi con Marinela, la sua ex ragazza.

Ognuno di questi dialoghi porta con sé un potenziale di decostruzione e

comprensione del proprio vissuto da parte del protagonista, che è reso possibile proprio dal

confronto con un soggetto Altro. Infatti, anche quando il dialogo si costruisce essenzialmente

come racconto da parte di Vasco, esso non si esaurisce in questa modalità: la presenza

dell’Altro, come stimolo, sotto forma di domande e osservazioni, è fondamentale, come si

vede chiaramente negli stimoli penetranti che Elsa e il coreografo brasiliano porgono a Vasco,

ognuno dei quali è l’inizio di un nuovo racconto, e quindi di un nuovo tentativo di

comprendere l’esperienza narrata, che non avrebbe avuto luogo senza il confronto con

1 Hesse, Hermann, Siddharta, cit., p. 186.

114

un’altra persona. Il potenziale di comprensione contenuto nell’atto di essere ascoltati, in ogni

caso, viene messo in luce chiaramente in Siddharta, dove il protagonista trae un immenso

beneficio dal parlare con Vasudeva:

Tra le virtù del barcaiolo questa era una delle più grandi: sapeva ascoltare come

pochi. Senza ch’egli avesse detto una parola, Siddharta sentiva come Vasudeva accogliesse in

sé le sue parole, tranquillo, aperto, tutto in attesa, e non ne perdesse una, non ne aspettasse una

con impazienza, non vi annettesse né lode né biasimo: semplicemente, ascoltava. Siddharta

sentì quale fortuna sia imbattersi in un simile ascoltatore, affondare la propria vita nel suo

cuore, i propri affanni, la propria ansia di sapere.1

Nel caso del coreografo brasiliano, il ruolo dell’Altro rimane essenzialmente in questo

ambito: permettere al protagonista di narrare, ed aiutarlo a comprendere. Già nel caso di Elsa,

tuttavia, il personaggio va oltre questo ruolo, e instaura un dialogo nel quale sono

fondamentali gli stimoli che essa stessa propone, non più solo come ascoltatrice, ma anche

come colei che mette in crisi il protagonista con le sue domande, ad esempio riguardo

all’atteggiamento misterioso perennemente adottato da Vasco, che questi si trova quindi a

dover giustificare aprendo nel racconto alcune parti di sé. Inoltre, Elsa porta con sé anche il

potenziale profondo di un dialogo fisico con il protagonista, fatto prima di brevi contatti e

prossimità, che coinvolgono l’intimità di Vasco in maniera non scontata, come mostrato, ad

esempio, nella sequenza di vignette in cui, durante un dialogo fra i due, le loro mani si

sfiorano, per poi allontanarsi.2 In seguito, il contatto fisico fra i due si intensifica, fino ad

arrivare ad un rapporto sessuale. Nel corso di queste vignette, è interessante notare come

entrambi i soggetti abbiano un ruolo attivo: non si tratta, insomma, di una ‘conquista’, ma di

una libera scelta di entrambi, in uno schema che si allontana, ancora una volta, dagli stilemi

classici del rapporto tra l’avventuriero e i personaggi femminili.3

Il loro rapporto sessuale, tuttavia, non si conclude, perché Vasco si trova alle prese

con i propri ricordi e l’incapacità di superare il ricordo di Marinela. Nonostante, quindi,

questo incontro fisico fra i due fallisca, esso si tramuta nell’opportunità per Vasco di narrare a

Elsa la storia del proprio rapporto con Marinela e con Juan, che è la chiave dell’incapacità del

protagonista di vivere la propria vita. L’incontro con Elsa, in questo senso, dimostra

l’interesse dell’autore per le dinamiche dell’incontro tra due soggetti, anche dal punto di vista

1 Ivi, p. 145.

2 TdlST, p. 60.

3 Ivi, p. 69-75.

115

fisico e sessuale. La sua narrazione di questa relazione, inoltre, pur non essendo censurata dal

punto di vista visivo, va ben oltre la consueta rappresentazione che si sarebbe potuta dare

dell’incontro sessuale occasionale tra il protagonista e un personaggio femminile, quella

rappresentazione stereotipata e soprattutto poco significativa che, infatti, si può trovare in un

grandissimo numero di opere di narrativa popolare, soprattutto cinematografica1: un’altra

prova, insomma, che Vasco è stato distrutto come avventuriero, ma può rinascere come

personaggio.

L’incontro con l’Altro, per come si sviluppa nel corso di quest’ultimo volume, è,

quindi, sempre un incontro tra due soggetti che si influenzano l’uno con l’altro, senza che uno

dei due sia ridotto alla condizione di oggetto, e vede nel dialogo lo strumento principale

perché questo incontro possa attuarsi. Come scrive Todorov a proposito dell’incontro/scontro

tra spagnoli e indios durante la conquista dell’America:

Per dirla altrimenti: nel migliore dei casi, gli autori spagnoli parlano bene degli

indiani, ma – salvo alcune eccezioni – non parlano mai agli indiani. Ma è solo parlando

all’altro (non dandogli degli ordini, bensì aprendo un dialogo con lui) che io gli riconosco la

qualità di soggetto, paragonabile a quell’altro soggetto che sono io.2

Perché questo incontro possa avere luogo, tuttavia, il protagonista deve aver cessato di essere

un eroe nel senso stereotipato del termine. A questo, infatti, è servito tutto il complesso

rapporto dei primi volumi, e soprattutto del terzo, con una serie di modelli classici: a

mostrarci il lungo processo che porta Vasco ad aprirsi alla possibilità di dialogare con l’Altro.

Una possibilità che, per esempio, è negata ad eroi perfetti come Corto Maltese, il quale può

parlare bene degli indigeni di molti luoghi esotici, ma non può mai parlare con loro,

nonostante spesso lo desideri, così come non può, e non vuole, aprirsi alla comprensione di

una contemporaneità che gli comunica solo nostalgia di un mondo in cui erano possibili

1 Ci si riferisce qui proprio a quei modelli di narrativa di avventura contemporanei, e soprattutto cinematografici,

che vengono superati da de Isusi, e si veda come esempio la relazione con i personaggi femminili di un

‘avventuriero’ come James Bond. Lo stesso de Isusi, nell’intervista a se stesso, scrive: “Y en cuanto a eso de que

no hay nada de sexo… yo qué sé, hay tantísimo sexo por todas partes (ejem, me refiero a la tele, las películas,

cómics y libros) que tampoco pasa nada porque haya alguna historia sin él, ¿no? En la vida hay períodos en los

que el sexo puede ser central y otros en los que no, y en cuatro tomos de historieta como son Los viajes de Juan

Sin Tierra… pues bueno, hay espacio para todo.”

Cfr. http://www.astiberri.com/entrevistas.php?ident=7 2 Todorov, Tzvetan, La conquista dell’America. Il problema dell’altro, trad. di Aldo Serafini, Torino, Einaudi,

1992, p. 161.

116

mitiche avventure. È per questo motivo che Vasco perde, in quest’ultimo volume, la sua

somiglianza con Corto (si rasa capelli e basette).

Questa differenza sta sostanzialmente nell’introduzione della sconfitta. Finché vince,

finché tutto gli va bene e può procedere di avventura in avventura seguendo gli indizi di Juan,

in effetti, anche Vasco non ammette la possibilità di veri e propri incontri con l’altro: rimane

chiuso in quell’alone di mistero che gli rimprovera Elsa, dentro al quale, sostanzialmente, non

entra nessuno, e che lo rende così simile a Corto Maltese. I primi accenni di un dialogo vero e

proprio con un altro personaggio si hanno nel terzo volume, che come abbiamo visto

introduce proprio il discorso di distruzione dei modelli classici. Infatti, questi dialoghi

avvengono con Héctor e Napo nel corso del noiosissimo (per i personaggi) e ben poco eroico

viaggio della Camila sul fiume Napo. Due sono qui gli elementi di sconfitta nei confronti

dell’immagine dell’eroe: la noia e la sorpresa. La noia del viaggio sul battello, prima di tutto,

che nella sua distanza dall’epica dell’avventura costringe Héctor e Vasco, entrambi

intrappolati nei loro sogni d’avventura, a dialogare. E poi la sorpresa portata da Napo, che con

i suoi discorsi, atteggiamenti e trasformazioni si rivela un elemento incontrollabile, che sfugge

alla valutazione del protagonista.

Un episodio chiave in questo senso può essere trovato nel dialogo tra Vasco e i

responsabili della sede dell’MST di Salvador de Bahia. Qui, Vasco entra per chiedere di poter

collaborare col movimento, in modo da poter trovare Juan, ma non osa (più che altro a causa

delle sue paure di incontrarlo davvero) chiedere chiaramente dove si trovi il suo amico. La sua

proposta di collaborazione, tuttavia, viene guardata con sospetto:

-No le entiendo muy bien, la verdad… Usted dice que quiere colaborar con

nosotros… Pero yo no veo claro en qué podría usted sernos de ayuda.

-Bueno... yo… no sé… tengo experiencia en todo tipo de trabajos... y... bueno...

también estuve un tiempo con los zapatistas en México... yo... Sería voluntariamente, claro.1

In questo episodio, situato all’inizio del volume, ma da situare cronologicamente verso il

termine della vicenda, Vasco compie l’errore di voler sfruttare il proprio ruolo di occidentale,

sicuro che solo per il fatto di essere un gringo il suo aiuto sia immediatamente desiderabile. È

per questo motivo che cita la sua esperienza con gli zapatisti (compiendo anche qui l’errore di

1 TdlST, p. 40.

117

mescolare due ribellioni totalmente diverse, come se fossero la stessa cosa): per il ruolo che

essi conferiscono agli osservatori stranieri, che tuttavia è un ruolo strumentale. I responsabili

della sede dell’MST, invece, rispondono trattandolo come un individuo, un soggetto singolo,

che però, in quanto tale, non si vede come possa contribuire alla loro causa.

-Bueno, yo… sólo… no sé, creo que en este tipo de conflictos como el de los sin

tierra... el que haya personas de otras nacionalidades involucradas siempre ayuda a...

-Ya veo. ¿Es usted periodista? ¿O trabaja para algún organismo internacional?

¿Para alguna ONG al menos?

-Eeh… pues no.

-Mire, ayer veinte pistoleros desalojaron un campa mento matando a uno de

nuestros ombre. Tenemos que preparar antes del viernes toda la documentación para legalizar

ante el INCRA otros cuatro campamentos. Y las compañias eléctrica y telefónica nos están

saboteando. [...] No tenemos tiempo para organizar escursiones de turismo solidario, ¿lo

entiende? ¿Por qué no nos habla claro? Me da la sensación de que usted quiere algo de

nosotros, pero no se atreve a pedirlo. ¿Qué está buscando?1

Quando viene rifiutata la relazione basata sulle differenze geografiche (e quindi di potere) e

quando si pretende di essere trattati come soggetti, e di trattare l’altro come tale, quindi, si

apre la possibilità di un colloquio sincero. Per il personaggio di Vasco questo significa,

inoltre, l’essere messo di fronte alle proprie paure, ed esprimerle. Ed effettivamente, alla fine

Vasco ottiene l’informazione che desiderava. Questo episodio segna un’ ulteriore sconfitta di

Vasco come figura occidentale salvifica: basta confrontarlo con il ruolo di Corto Maltese nei

confronti dei banditi ribelli brasiliani in Samba con Tiro Fisso. Lì, infatti, l’intervento

dell’eroe gringo è salutato fin da subito come provvidenziale, e Corto è trattato come un

salvatore, senza il quale non avrebbero potuto continuare la ribellione.

Che il processo di crescita debba passare attraverso una sconfitta, o quantomeno una

rinuncia di una parte della visione del mondo del personaggio, è espresso chiaramente anche

nelle due opere di Hesse. Siddharta, infatti, pur dopo tanto imparare ed esperire, raggiunge un

qualche tipo di comprensione definitiva solo quando impara ad amare, e soprattutto a soffrire

per un altro essere umano: suo figlio. E il rapporto di Siddharta con il figlio che non sapeva di

avere è difficile fin da subito, ma soprattutto è segnato dal fallimento: dopo la morte della

madre, Siddharta lo prende con sé, ma nonostante tutto l’affetto e le attenzioni di cui lo

ricopre, il ragazzino non riesce a contraccambiare il suo amore, e fugge. Ma è proprio questa

1 Ivi, pp. 125-126.

118

esperienza che gli permette di cambiare opinione sulle altre persone: “Diversamente che un

tempo considerava ora gli uomini, con minore orgoglio, con minore intelligenza, e perciò con

tanto maggior calore, curiosità e interesse.”1

Qualcosa di simile accade a Harry ne Il lupo della steppa: l’incontro con Erminia

spazza via molte delle sue fantasie solitarie, e le sostituisce con l’esperienza di un rapporto

con una persona reale: “Una creatura umana che ad un tratto infrangeva la grigia campana di

vetro della mia vita spenta e mi porgeva la mano, una mano buona, bella, calda!” Il marco di

realtà che caratterizza Erminia qui ha senso proprio perché la rende portatrice di elementi

inaspettati, e in quanto tale apre il personaggio all’esperienza del mondo. Ed infatti Harry si

trova a conversare con quei ‘borghesi’ che prima vedeva tanto distanti, e a riconsiderare la sua

posizione nel mondo. L’elemento di sconfitta, qui, seppur più labile che in Siddharta e

nell’opera di de Isusi, è presente nel fatto che quanto più Erminia educa Harry ai piaceri

semplici, tanto più lo costringe a fare cose che egli disprezzava: “Con la progressiva

distruzione di quella che prima avevo chiamato la mia personalità, incominciai anche a

comprendere perché nonostante la disperazione avevo temuto così orribilmente la morte, e a

sentire che anche quella brutta e vergognosa paura faceva parte della mia vecchia, borghese e

falsa esistenza.”2 Il mutamento interiore, quindi, porta a riconsiderare il proprio rapporto con

la vita e col mondo, e, da questa nuova posizione, il personaggio può tornare a guardare a se

stesso, e vedere come aspetti di sé che credeva fondamentali, in realtà appartenevano proprio

alle tanto odiate abitudini borghesi, più di quanto non vi appartengano le abitudini di tanti

membri di quella classe. Cambia, quindi, anche la penetrazione e la coerenza dei principi

politici e sociali propugnati dal protagonista.

Per Vasco, è la selva amazzonica a sancire, come già si è analizzato, la vera e

completa sconfitta: contro l’ambiente e contro se stesso. Ma l’attraversamento di questa

frontiera, che personaggi come Corto o Marlow mai hanno attraversato, porta alla scoperta

dell’Alterità, al superamento di quella distanza incolmabile che Marlow percepisce ma mai

desidera colmare, e Kurtz non colma mai perché, seguendo Todorov, non dialoga con

l’Alterità, ma le dà solamente ordini. Le sconfitte dell’eroe, in questo senso, simboleggiano

un altro tipo di sconfitta: quella che coinvolge la visione del mondo del protagonista,

inevitabilmente centrata nella tradizione occidentale: quella sconfitta che Marlow vuole

1 Hesse, Hermann, Siddharta, cit., p. 173.

2 Hesse, Hermann, Il lupo della steppa, cit., p. 154.

119

evitare con tutte le sue forze, aggrappandosi alle abitudini e al principio di realtà. Vasco, al

contrario, fallisce nell’applicazione del principio di realtà, e si ritrova gettato nel pieno

dell’Alterità, la quale gli pone una sfida, come scrive Wimmer:

L’estraneo resiste all’appropriazione e alla comprensione, sicché tale esperienza

dell’estraneità rende chiaro che il proprio mondo (di senso) non è né il mondo, né il mondo

come tale, bensì una delle sue interpretazioni. Si sperimenta come il mondo delle cose e il

mondo delle parole non siano congruenti e non si risolvano l’uno nell’altro. La parola

‘estraneo’ designa con la sua indeterminatezza proprio questa frattura che ogni immagine,

ogni rappresentazione, ogni definizione di contenuto dell’estraneo stesso cerca di ricoprire.1

Da questa crisi del proprio concetto di mondo deriva una crisi anche del concetto di identità:

“L’esperienza di un estraneo, che resta tale, rende ogni volta di nuovo evidente lo scarto tra

uomo e mondo così come la mancanza di accordo con se stessi, che si può certamente

conoscere ma non superare.”2 Ma è proprio da questa crisi che scaturisce il potenziale di

decostruzione dell’incontro con l’Altro, come afferma Derrida:

Intendo dire che la decostruzione, in sé, è una risposta positiva a un’alterità che

necessariamente la chiama, la incita, la motiva. […] L’altro, o l’altro da sé, l’altro che oppone

l’identità di sé, non è qualcosa che può essere intercettato e svelato all’interno di uno spazio

filosofico e con l’aiuto di una lampada filosofica. L’altro precede la filosofia e

necessariamente invoca e provoca il soggetto prima che possa iniziare qualsiasi autentica

domanda. È in questo rapporto con l’altro che l’affermazione si esprime.3

Per Vasco, la tribù di Napo rimane qualcosa di altro da sé: ‘la presenza di un estraneo che

resta tale’, e questo permanere della relazione di alterità è simbolicamente rappresentato dal

rigetto, fisico, che Vasco ha in seguito alla seconda visione, nella quale è simbolicamente

rinato, ma dopo la quale si sente male e vomita. Proprio quella visione, quindi, che

rappresenta il frutto più significativo della crescita interiore del personaggio a contatto con

l’Altro (la cultura india), è immediatamente seguita dall’espressione di quanto questa stessa

alterità sia incolmabile. L’esperienza di Vasco con l’alterità, quindi, è un’esperienza al limite

tra comprensione e incomprensione, tra identificazione e incolmabile distanza: un equilibrio

talmente precario da essere critico, che costringe ogni volta Vasco ad aprire il suo pensiero

all’impensabile, all’Altro, anche se non può accettarlo.

1 Wimmer, Michael, “Straniero”, in AA.VV., Cosmo, corpo, cultura, Milano, Bruno Mondadori, 2002, p. 1095.

2 Ibidem.

3 Kerney, Richard, Decostruzione e l’altro, intervista con Jacques Derrida, cit., p. 209.

120

Questo conflitto, fertile, tra alterità incolmabile e apertura del pensiero, lo ritroviamo

in un altro episodio. Napo, infatti, trova un enorme granchio di fiume, e lo identifica

immediatamente con Wahau, la divinità-granchio la cui apparizione, secondo lo sciamano

Amaru, avrebbe significato che il pericolo rappresentato dalla presenza dei bianchi nelle

vicinanze del villaggio era passato, e la tribù poteva tornare. Vasco rimane incredulo di fronte

a questa interpretazione del semplice ritrovamento di un animale:

-¿Ah? Entonces… ¿Este es el…?

-¡El gran guerrero! ¡Sí! ¡El que nos defenderá de los blancos!

-Un... Wahau es un… ¿Un cangrejo?

-¡Vamos! ¡Tenemos que llevárselo a los demás!

-Napo… no es que quiera subestimar las pinzas de Wahau, pero... me parece que

hará falta algo más que un cangrejo para detener al hombre blanco.

-Ja, ja… ¡Eso lo dices porque non conoces a Wahau! ¡Ya no hay de que

preocuparse! ¡Podemos regresar a la aldea!

-¡Eh! Para, para, ¿me estás diciendo que un cangrejo va a haceros olvidar vuestras

precauciones con los blancos? ¡Vuestra aldea está sobre un polvorín! ¡Hay oro ahí! ¿No lo

entiendes? ¡No deberíais volver allá!

-Ji, ji, eres tú el que no entiende, ¡ahora Wahau está con nosotros! ¡Desde chico

escuché sus historias! Estoy deseando verlo convertido en el gigante de los ochos brazos

invincibles ¡Chas, chas!

-Pero... ¿de qué te ha servido estar con los blancos? Yo te hablo de balas y

excavadoras y tú me vienes con... ¡Con cuentos para niños!

-¿A qué cuentos para niños te refieres?

-Pues… ¡A eso! ¡A Wahau! ¿No ves que sólo es un cangrejo? Sus cuentos del

guerrero de los ochos brazos chas chas serán muy bonitos para contárselos a los niños en

torno al fuego, pero son sólo eso, ¡cuentos! ¡No son reales!

-¡Ja, ja! ¿Y para qué se lo ibamos a contar a los niños entonces?

-Buf... Napo, a los niños se les cuenta cualquier cosa porque se lo creen todo

-Ah, ya veo... crees que Wahau es como el papá noel ese que se inventaron ustedes

no sé para qué. Nosotros no hacemos eso, Vasco. A los niños no les contamos cualquier

cosa... ¡Precisamente porque se lo creen todo! Pero no te preocupes, las excavadoras no

podrán con Wahau.1

Come scrive Wimmer trattando del pensiero di Levinas:

1 TdlST, pp. 93-95.

121

Se l’altro è diverso dall’essere e se ogni comprensione è in ultima analisi

comprensione dell’essere, allora l’altro non si può comprendere. Esso è pertanto il confine

della comprensione, del volere e del potere del soggetto. Così l’estraneo, lo straniero, non è

più una configurazione particolare dell’altro, bensì ogni altro è un estraneo, uno straniero.1

Ma questa esperienza del limite della comprensione non deve essere vista come un freno,

bensì come un’occasione. Vasco può apprendere, da una discussione come quella citata, che

non può vincere: che le armi dell’argomentazione logica e dei meccanismi del pensiero che

egli ritiene infallibili, perché base fondamentale della cultura occidentale nella quale si è

formato, non possono spuntarla. E il motivo per cui questi meccanismi di pensiero non

possono vincere si trova essenzialmente nel loro essere alla base non solo della accorata

preoccupazione di Vasco per il futuro della tribù, ma anche dello stesso pericolo che la

minaccia: è l’uomo bianco, con tutto il suo immaginario, a portare le ruspe e i proiettili,

esattamente come è la logica stringente dell’uomo bianco che porta a farsi beffe della

credulità dei bambini. Come scrive Mignolo, si tratta della stessa logica, pur con diversi

contenuti.2

Tuttavia, è altrettanto importante notare che a Vasco non viene richiesto, in nessun

momento, di credere ciecamente in una tradizione culturale non sua, e, di fatto, non lo fa. Allo

stesso modo da quella discussione non esce vincente, ma nemmeno perdente. De Isusi ci

presenta, quindi, un’esperienza dell’alterità che, appunto, si situa al limite, e permette di

uscire da una logica di ragione univoca e di argomentazione, dalla quale si potrebbe uscire

solo vinti o vincenti. In questo senso, se assistessimo ad una conversione di Vasco alla cultura

e alle credenze indie, saremmo di fronte ad un perpetuarsi di una logica di inclusione che,

sebbene vedrebbe gli indios, la parte oppressa, trionfare, continuerebbe a promuovere un

discorso per il quale l’Altro include o viene incluso. Uscire da questa logica non è semplice,

ma è necessario (corsivo mio):

Ogni scienza o teoria dello straniero e dell’estraneo si trova in un irrisolvibile

paradosso, quello di poter comprendere l’estraneo solo nella propria lingua e di dover pensare

nell’esperienza dell’estraneo qualcosa che il pensiero non può circoscrivere. La pretesa

cognitiva di voler conoscere e comprendere l’estraneo e la pretesa etica di rispettarlo nella sua

estraneità inducono nel pensiero uno stato di inquietudine che si può interpretare come una

risposta alla sfida dell’estraneo. Volerlo pensare senza continuare nella logica dell’inclusione

1 Wimmer, Michael, “Straniero”, cit., p. 1103.

2 Cfr. Mignolo, Walter, “The Zapatistas’ Theoretical Revolution”, cit., p. 250.

122

costringe il pensiero a un’apertura, ovvero a prendere atto di quello che nel pensiero è

estraneo al pensiero, quindi del suo limite. Il paradosso è perciò una forma per pensare il

rapporto stesso con l’estraneo come limite del proprio volere, potere, sapere, attraverso il

quale il pensiero rientra in una relazione etica con l’altro. Nel paradosso si manifesta quindi

l’irruzione dell’alterità nel pensiero, di un estraneo con cui non può spuntarla, attraverso il

quale il pensiero può scoprire se stesso come una risposta alla domanda dell’altro.1

Le rinascite di Vasco, di Siddharta e di Harry Haller hanno dimostrato, finora, come questo

‘scoprire se stessi come una domanda dell’altro’ sia salvifico dal punto di vista interiore e

personale. Infatti, se per Vasco i problemi non finiscono, e una volta uscito dalla selva lo

aspettano ancora numerose scoperte, è tuttavia evidente come queste scoperte, per quanto

negative, presuppongano un nuovo modo di relazionarsi con l’Altro, e ciò che ha appreso

nella selva gli permette di guardare al futuro con occhi diversi: la frase con cui termina il

volume è, infatti: “Me da la sensación, Juan, de que mi auténtico viaje empieza ahora.”2

Tuttavia, il senso della ricerca di un modo nuovo di pensare l’alterità rimanda

immediatamente, anche nell’analisi di Wimmer, ad una dimensione etica e politica, che va a

toccare alcuni nodi fondamentali della modernità.

III.3.2. “Diversity as a universal project.”3

L’esperienza del primo nucleo dell’Esercito Zapatista de Liberación Nacional, per come lo

narra lo stesso Marcos che lo ha vissuto, si presenta sotto caratteristiche sorprendentemente

simili a quelle del cammino di Vasco. Nei primi anni ’80, un ristretto gruppo di guerriglieri,

tutti cresciuti in ambiente urbano, si stabilisce nel cuore della selva Lacandona, nel Chiapas,

ed inizia ad addestrarsi, e a cercare di portare gli abitanti di quei luoghi, in prevalenza indios

di etnia maya, alla ribellione. Come racconta Marcos:

Pensavamo che parlare a un proletario, a un contadino, a uno studente fosse la

stessa cosa, che tutti avrebbero compreso il linguaggio della rivoluzione. E ci siamo trovati

davanti un mondo nuovo per il quale non avevamo risposta. […] Il merito dell’organizzazione

è di aver ammesso che non aveva risposta e che doveva imparare. È la prima sconfitta

dell’EZLN, la più importante, quella che lo segnerà da quel momento in poi: l’Esercito

Zapatista, di fronte a una cosa completamente nuova, riconosce di non avere soluzione al

1 Wimmer, Michael, “Straniero”, cit., p. 1101.

2 TdlST, p. 160.

3 Mignolo, Walter, “The Zapatistas’ Theoretical Revolution”, cit., p. 268.

123

problema, di dover aspettare e di dover imparare. […] Secondo me, l’EZLN è riuscito a

sopravvivere e a crescere grazie al fatto di aver accettato questa sconfitta. […] Abbiamo

davvero subito un processo di rieducazione, di rimodellamento. Come se ci avessero smontato

in tutti nostri elementi, il marxismo, il leninismo, il socialismo, la cultura urbana, la poesia, la

letteratura, tutto quello di cui eravamo fatti, e altre cose di cui nemmeno avevamo

coscienza… Ci hanno smontati e poi rimontati in modo diverso. Era l’unico sistema per

sopravvivere.1

Questo mutamento profondo deriva dallo spaesamento provocato dall’incontro con l’Altro, e

dal fatto che il carico di immaginario con il quale i guerriglieri erano arrivati in Chiapas non

trova risposte alla realtà della vita chiapaneca, e per questo non riesce nemmeno a farsi

ascoltare. Il passaggio fondamentale e fecondo, quindi, è quello che li fa passare dal tentativo

di farsi ascoltare al tentativo di ascoltare, e dialogare. Per questo hanno grande peso le figure

dei traduttori (tra i guerriglieri e la popolazione c’è anche, infatti, una differenza linguistica):

All’inizio, nella nostra prospettiva di guerriglieri, si trattava di gente sfruttata che

andava organizzata, cui bisognava mostrare la via. Mettiti al nostro posto: eravamo la luce del

mondo! […] Le cose sono incominciate a cambiare quando è comparso l’altro traduttore, il

loro, il vecchio Antonio. Quest’uomo anziano, che può sembrare un personaggio letterario ma

è esistito realmente, diventa il legame con le comunità, il loro mondo, la sua componente più

india. […] Ci rivolgevamo a un movimento indio che non stava aspettando il salvatore ma,

anzi, era portatore di una grande tradizione di lotta, una grande esperienza; un movimento

molto solido, anche molto intelligente, cui noi servivamo semplicemente, diciamo, come

braccio armato.2

Marcos insiste spesso sull’uso di metafore legate alla traduzione, che portano il concetto fuori

dal solo campo semantico del linguaggio, per arrivare ad indicare una traduzione di ideali e di

concetti, che lavora sempre in due sensi: la prospettiva politica in senso classico e marxista

dei guerriglieri dialoga con la prospettiva più etica e più umanitaria della popolazione india. Il

risultato di questo dialogo è che gli ideali della ribellione zapatista si arricchiscono di

elementi che la rendono diversa da ogni altra, proprio per il suo sincretismo:

[Questo nuovo contenuto] È una specie di traduzione, resa più ricca dalla

prospettiva della transizione politica. L’idea di un mondo più giusto, più o meno tutto quello

cui aspira il socialismo ma ridigerito, arricchito di elementi umanitari, etici, morali, più che

propriamente indigeni. La rivoluzione diventa un problema essenzialmente morale. Etico. Più

1 Le Bot, Yvon e Marcos, Il sogno zapatista, cit., pp. 108-110.

2 Ivi, pp. 107-108.

124

che un problema di ripartizione della ricchezza o di espropriazione dei mezzi di produzione, la

rivoluzione rappresenta la possibilità di uno spazio di dignità per l’essere umano. La dignità

inizia a diventare un concetto molto importante, e l’idea non viene da noi, dal gruppo urbano,

viene dalle comunità.1

La diversità del programma zapatista, infatti, sussiste proprio nel tentativo di conciliare un

sistema politico egualitario con il rispetto della diversità culturale ed individuale. Come scrive

Mignolo: “According to Hinkelammert, the Zapatistas are claiming diversity as a universal

project: a world composed of multiple worlds, the right to be different because we are all

equals, to obey and rule at the same time.”2 Questo tentativo appare molto vicino a ciò che

scrive Todorov verso la fine di La conquista dell’America – la scoperta dell’altro, dove tratta

di quale sia il senso di investigare in profondità le relazioni che ebbero luogo tra indios e

conquistatori spagnoli: comprendere, cioè, le ragioni del totale fallimento di quel dialogo (a

parte in pochissimi casi), per poterne iniziare uno nuovo che permetta di superare le crisi del

presente:

Per lo meno sul piano ideologico, noi cerchiamo di combinare quel che ci sembra

abbiano di meglio i due termini dell’alternativa: vogliamo l’uguaglianza senza che ciò

significhi identità; ma vogliamo anche la differenza senza che degeneri in

superiorità/inferiorità; speriamo di poter godere i benefici del modello egualitarista e quelli

del modello gerarchico; aspiriamo a ritrovare il senso del sociale senza perdere le qualità

dell’individuale. […] Vivere la differenza nell’uguaglianza: è cosa più facile a dirsi che a

farsi.3

Per cercare di raggiungere questo difficilissimo obbiettivo il dialogo con l’Altro è

fondamentale, come insegna l’esperienza zapatista. L’Altro che potrebbe insegnare

all’Occidente a superare i drammi della modernità, in particolare, e a conciliare i poli

apparentemente inconciliabili descritti da Todorov, è da cercare in tutte quelle popolazioni

che hanno subito la colonizzazione. È proprio quel bagaglio tragico di esperienza che ha

costretto una parte del mondo, suo malgrado, a sviluppare quella che Anzaldúa chiama la

faculdad: un’empatia, una capacità di percepire l’Altro in maniera profonda, propria degli

emarginati. Le popolazioni colonizzate, e quindi poste ‘ai margini’ di un impero, non hanno

potuto fare altro che sviluppare questa abilità, in un mondo che li ha costretti, da secoli, a fare

i conti continuamente con un Altro assai ingombrante, al cui sistema di pensiero hanno

1 Ivi, pp. 106-107.

2 Mignolo, Walter, “The Zapatistas’ Theoretical Revolution”, cit., p. 263.

3 Todorov, Tzvetan, La conquista dell’America, cit, p. 302.

125

dovuto adattare il proprio, nella necessità di comunicare.1 Il pensiero politico e filosofico che

scaturisce da questa frizione è definito da Mignolo border thinking: la capacità di pensare dai

confini, dai margini dell’impero. Ora, quest’impero può essere l’impero spagnolo, inglese o

del capitalismo contemporaneo, ma può anche essere l’impero maschile, eterosessuale o

religioso: ciò che è più significativo è che gli esperimenti di riflessione critica e ribellione che

si basano su ciò che possiamo chiamare border thinking riescono a prendere in considerazione

tutti i margini, tutti i generi di diversità, o perlomeno ci provano: il movimento zapatista e

l’opera di Gloria Anzaldúa ne sono un esempio.

Queste nuove forme di pensiero rappresentano il vero Altro della modernità,

quell’Altro con cui la cultura occidentale di stampo europeo deve fare i conti, e che,

soprattutto, può rappresentare una guida per uscire dai problemi che attanagliano proprio le

società occidentali. Per fare questo, tuttavia, è necessario accettare una sconfitta, accettare

cioè, come è costretto a fare Vasco, di perdere una supposta posizione centrale nella cultura e

nella politica mondiale, di essere spostati, anche noi, ai margini: a diventare, come scrive

Todorov, “un essere che ha perduto la patria senza acquistarne un’altra”2, “colui per il quale

tutto il mondo non è che un paese straniero.”3 Sotto l’aspetto culturale, questo spaesamento si

traduce, infatti, in una messa in discussione di tutto ciò che ha portato a porre l’Occidente in

una posizione centrale rispetto al resto del mondo:

La nuova domanda sull’estraneo si produce quindi in termini epistemologici e

teoretici in connessione con la critica della ragione e della soggettività, in termini storici con

la (auto)critica della modernità, in termini etico-pratici ovvero politico-culturali con la critica

delle strategie delle società occidentali per fronteggiare l’estraneo, lo straniero, a partire dalla

conquista dello spazio con l’espansione crescente, attraverso la sottomissione coloniale e lo

sfruttamento fino all’assimilazione e alla subordinazione culturali e spirituali delle tradizioni e

dei mondi estranei di esperienza nella propria immagine del mondo e nella propria concezione

della realtà.4

Questa messa in discussione, o meglio questo discutere, dialogare con l’Altro, è il senso della

traduzione invocata da Marcos, la doppia traduzione da e verso il linguaggio delle popolazioni

indie: “The theoretical devolution grounded in double translation makes it possible to imagine

1 Cfr. Mignolo, Walter, The Idea of Latin America, cit., p. 9.

2 Todorov, Tzvetan, La conquista dell’america, cit., p. 302.

3 Ibidem.

4 Wimmer, Michael, “Straniero”, cit., p. 1099.

126

epistemic diversality (or pluriversality) and to understand the limits of the abstract universals

that have dominated the imaginary of the modern/colonial world from Christianity to

liberalism and Marxism.”1 Il mondo, immaginato, che ne risulterebbe, sarebbe quindi “un

mundo donde quepan todos los mundos”, un mondo di uguali in cui ogni diversità viene

rispettata, una società interculturale: “’Interculturalidad’ as used in Indigenous political

projects, means that there are two dinstict cosmologies at work.”2 Come già diceva Todorov,

questo è un obbiettivo difficilissimo, perché presuppone l’accettazione del rischio di veder

sbilanciata ogni certezza, ogni desiderio di trovare un ideale universale che possa funzionare

da territorio comune, come scrive Wimmer (corsivo mio):

Con il declino della totalità e la messa in discussione della pretesa di universalità

delle culture occidentali, in loro stesse e da parte degli estranei da loro descritti, […], si pone

così in modo rinnovato il problema della radicale pluralità senza mediazione che la

ricomprenda. Oggi si tratta perciò di rendere pensabile la possibilità di un’esistenza plurale,

nella quale né l’estraneità, nella figura della singolarità del singolo uomo, né l’estraneità tra le

culture, le società e le epoche siano ridotte a unità, in cui neppure predomini alcuna differenza

e isolamento reciproco tra estranei assoluti, bensì esista una relazione, non nonostante, ma

sulla base della separazione stessa.3

In questi termini, portatori di uno spaesamento che coinvolge tutti i pilastri della cultura

occidentale, questo tentativo diventa quasi impossibile. Proprio per questo, proprio quando la

situazione si fa così complessa, sembra dirci de Isusi, sono necessari degli eroi, ma di un tipo

nuovo. Eroi come Vasco, disposti ad essere sconfitti, a vedere distrutti tutti propri miti, a

vedersi fatti a pezzi e poi rimontati, eppure capaci di mantenere viva la loro ironia, e di non

trasformare l’esperienza dell’incontro con l’Altro in un’esperienza di conversione: se per

dialogare non bisogna comandare l’Altro, allo stesso modo non bisogna esserne comandati.

Questo tipo di eroe ricorda, per certi versi, l’’eroe della ritirata’ descritto da Hans Magnus

Enzensberger:

El lugar del héroe clásico han pasado a ocuparlo en las últimas décadas otros

protagonistas, en mi opinión más importantes, héroes de un nuevo estilo que no representan el

triunfo, la conquista, la victoria, sino la renuncia, la demolición, el desmontaje. Tenemos

1 Mignolo, Walter, “The Zapatistas’ Theoretical Revolution”, cit., p. 250.

2 Cfr. Mignolo, Walter, The Idea of Latin America, cit., p. 118.

3 Wimmer, Michael, “Straniero”, cit., p. 1103.

127

todos los motivos para ocuparnos de estos especialistas de la negociación, pues nuestro

continente necesita de ellos si quiere seguir viviendo.1

Le figure proposte da Enzensberger come esempi di questo nuovo tipo di eroe, figure

politiche ambigue come Adolfo Suárez, Nikita Krusciov, o Michail Gorbačëv, sono

notevolmente diverse da un personaggio come Vasco, sotto ogni punto di vista. Tuttavia, ciò

che è simile è il processo che, secondo lo scrittore tedesco, porta dalla figura classica di

personaggio politico eroico, vincente, a questo nuovo genere di eroe perdente. Questo

processo coinvolge lo smarrimento delle certezze universali e dei miti classici, con il

conseguente smarrimento di una parte fondamentale del proprio immaginario:

Pero precisamente esta claridad inequívoca es lo que no puede ofrecer en ningún

caso el héroe de la retirada. Quien abandona las propias posiciones no sólo entrega un terreno

objetivo, sino también una parte de sí mismo. Semejante paso no puede tener lugar sin una

separación de la persona y su papel. El ethos del héroe se halla precisamente en su

ambivalencia. El especialista en desmontaje demuestra su valor moral asumiendo esa

ambigüedad.2

L’ambivalenza e l’ambiguità acquisiscono quindi una connotazione positiva, in quanto

rappresentazioni della capacità di stare a cavallo tra due sistemi di pensiero: quello

precendente, con cui si è cresciuti e che ha formato l’immaginario dell’eroe, e quello nuovo,

che mette in crisi quello precedente e che l’eroe non può cessare di considerare estraneo a sé,

ma nonostante questo (e ciò è eroico) sceglie di averci a che fare, di accettarne la sfida. Per

Suárez i due sistemi di pensiero erano il franchismo (grazie al quale aveva ottenuto il

successo politico) e la democrazia, per Gorbačëv il sistema sovietico e quello liberale, per

Vasco invece sono l’ideale classico di avventura e la decolonizzazione del pensiero. Il

risultato, in ogni caso, è lo stesso: la sconfitta e la distruzione del personaggio iniziale, e la

formazione di un sistema nuovo, di un personaggio nuovo. Tutto ciò non rende questi

personaggi storici totalmente positivi, anzi: in tutti gli esempi presentati da Enzensberger le

ombre prevalgono sulle luci. Tuttavia, li rende necessari, perché questa capacità di minare, più

o meno consciamente, le fondamenta dello stesso immaginario che garantiva il successo del

personaggio e che gli garantiva una posizione gerarchica preminente è assurda, eroica e

tuttavia essenziale per il mondo contemporaneo:

1 Enzensberger, Hans Magnus, “Los héroes de la retirada”, in El País, 26 dicembre 1989.

2 Ibidem.

128

Un filósofo alemán ha dicho que al final de este siglo no se trata de mejorar el

mundo, sino de respetarlo. Este juicio vale no sólo para aquellas dictaduras que actualmente

están siendo desguazadas con más o menos arte delante de nuestros ojos. También a las

democracias occidentales les aguarda un desarme del que no existe precedente. El aspecto

militar no es más que uno entre muchos. Otras posiciones insostenibles que hay que eliminar

son las que se refieren a la guerra de deudas con el Tercer Mundo, y la retirada más difícil de

todas es la de la guerra que estamos librando desde la revolución industrial contra nuestra

propia biosfera.1

L’opera di de Isusi, tuttavia, offre l’opportunità di un’ulteriore riflessione, e mostra come la

negoziazione continua del proprio immaginario, la rinuncia alla stabilità di un sistema

culturale prefissato, il coraggio di farsi smontare e rimontare da una cultura Altra – abilità

così rare in Occidente da essere definite eroiche – siano già patrimonio comune in altri luoghi

del mondo, o nelle pieghe più o meno nascoste dello stesso Nord del mondo. Esse

costituiscono da secoli, infatti, l’alfabeto culturale di persone che hanno vissuto e vivono tutti

i giorni il colonialismo, la subalternità, ma anche l’interculturalità, la migrazione, percependo

di continuo sulla loro pelle lo sguardo di un Altro che li qualifica come Altri, diversi, esotici,

primitivi o orientali. Il lungo processo di maturazione del personaggio di Vasco, infatti,

permette a de Isusi di esaltare figure, mai secondarie, che dimostrano di avere già imparato, e

ormai da secoli, quelle stesse capacità cui Vasco, e l’Occidente con lui, fa così fatica ad

imparare.

1 Ibidem.

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