UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI PALERMO Scuola delle Scienze ... · Oltre a questi due libri appena...

138
UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI PALERMO Scuola delle Scienze Umane e del Patrimonio Culturale CORSO DI LAUREA MAGISTRALE IN SCIENZE FILOSOFICHE IL DIO DEL BENE E IL DRAMMA DEL MONDO LE LINEE DI FONDO DELLA PROPOSTA TEOLOGICA DI VITO MANCUSO Tesi di laurea di Doriana Prinzivalli Num. matricola: 0598160 Relatore Ch. mo Prof. Andrea Le Moli ___________________________________________________ ANNO ACCADEMICO 2013-2014

Transcript of UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI PALERMO Scuola delle Scienze ... · Oltre a questi due libri appena...

UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI PALERMO

Scuola delle Scienze Umane e del Patrimonio Culturale

CORSO DI LAUREA MAGISTRALE IN

SCIENZE FILOSOFICHE

IL DIO DEL BENE E IL DRAMMA DEL MONDO

LE LINEE DI FONDO DELLA PROPOSTA TEOLOGICA DI

VITO MANCUSO

Tesi di laurea di

Doriana Prinzivalli

Num. matricola: 0598160

Relatore Ch. mo Prof.

Andrea Le Moli

___________________________________________________

ANNO ACCADEMICO 2013-2014

2

INDICE

Introduzione p. 4

Capitolo primo p. 11

1.1 Il vissuto della fede e il disagio dell’intelligenza p. 11

1.2 Parlare di Dio al cospetto del sapere umano p. 13

1.3 Il fascino del bene e il dramma del mondo p. 16

1.4 Libertà della ricerca spirituale e confronto con l’autorità p. 18

1.5 Dal principio-autorità al principio-autenticità p. 20

1.5.1 Critica alle prove dell’esistenza di Dio p. 24

Capitolo secondo p. 26

2.1 Le opere principali p. 26

2.1.1 Hegel teologo p. 26

2.1.2 Il dolore innocente p. 29

2.1.3 Rifondazione della fede p. 31

2.1.4 L’anima e il suo destino p. 33

2.1.5 Io e Dio p. 36

2.1.6 Il principio passione p. 38

2.2 Nuclei tematici p. 40

2.2.1 Dalla traccia del bene a Dio p. 40

2.2.2 Dio p. 44

2.2.3 Dio e il male p. 48

3

2.2.4 L’anima p. 54

2.2.4.1 L’origine dell’anima p. 58

2.2.4.2 L’immortalità dell’anima p. 62

2.2.4.3 La salvezza dell’anima p. 67

2.2.5 Filosofia della natura p. 77

2.2.6 La creazione: il ruolo cosmico di Cristo p. 87

Capitolo terzo p. 96

3.1 Teologia della relazione p. 96

3.2 Una nuova Chiesa? p. 101

3.2.1 Un uomo di Dio: Carlo Maria Martini p. 101

3.2.2 Papa Francesco p. 105

3.3 Tematiche bioetiche p. 112

3.3.1 Bioetica di inizio vita p. 112

3.3.2 Bioetica di fine vita p. 114

Conclusione p. 120

Bibliografia p. 128

Appendice p. 131

4

INTRODUZIONE

Vito Mancuso: cenni biografici e bibliografici

Uno dei teologi contemporanei più famosi, discussi e criticati è Vito Mancuso.

Il “teologo fuori le mura”, come volentieri si lascia definire, nasce a Carate Brianza

da una coppia di genitori siciliani, precisamente di Calatafimi, il 9 dicembre 1962.

Dopo aver completato gli studi al liceo classico statale a Desio (Milano), decide di

intraprendere lo studio della teologia nel Seminario arcivescovile di Milano,

articolato in un biennio filosofico e in un triennio teologico. La prima cosa che il

novello seminarista scrive è un dramma teatrale intitolato La legge è uguale per tutti

anche per Dio, una sorta di processo che l’umanità, esasperata per le ingiustizie,

decide d’istruire contro Dio1.

Già da questo suo primo scritto è possibile individuare in Mancuso un forte

interesse verso la giustizia e la verità.

Al termine del quinquennio, Mancuso consegue il Baccellierato, cioè il primo

grado accademico in teologia, e viene ordinato prete dal cardinale Carlo Maria

Martini nel Duomo di Milano il 7 giugno 1986, all’età di soli 23 anni. Molto

probabilmente, a causa della giovane età e di una decisione così importante, presa

però in modo troppo impulsivo, Mancuso, dopo appena un anno dall’ordinazione,

chiede e ottiene di essere dispensato dalla vita sacerdotale e di dedicarsi solo allo

studio della teologia. Dietro consiglio del cardinal Martini, padre spirituale di

Mancuso, si reca a Napoli, presso la Facoltà teologica “San Tommaso d’Aquino”,

nella quale consegue il secondo grado accademico, la Licenza, sotto la direzione del

1 Cfr. C. Augias – V. Mancuso, Disputa su Dio e dintorni, Oscar Mondadori, Milano 2010, p. 248.

5

teologo Bruno Forte (attuale arcivescovo di Chieti). Trasferitosi a Roma, Mancuso

inizia a lavorare in editoria (Edizioni Piemme, Arnoldo Mondadori Editore, Edizioni

San Paolo, ancora Mondadori) e nel frattempo prosegue lo studio della teologia per il

terzo e ultimo grado accademico, il Dottorato, conseguito il 29 febbraio 1996 con il

punteggio di 90/90 summa cum laude, discutendo una tesi dal titolo: “La salvezza

della storia. La filosofia di Hegel come teologia”. Due mesi dopo, la tesi viene

pubblicata da Piemme con il titolo Hegel teologo e l’imperdonabile assenza del

Principe di questo mondo. Mancuso comprende adesso che la sua vocazione è la

famiglia e, ottenuta la dispensa papale, si sposa nella parrocchia milanese di Santa

Maria del Suffragio con Jadranka Korlat, ingegnere civile. Dal matrimonio sono nati

due figli, Stefano nel 1995 e Caterina nel 1999. Nel 1997 la gioia di una nuova

gravidanza si trasforma ben presto in dolore a causa di una malattia genetica che

impedisce a suo figlio, che si sarebbe dovuto chiamare Federico, di venire al mondo;

muore infatti nel grembo della madre al quinto mese di gravidanza2. Questo dolore

conduce Mancuso a dare autonomia al suo primo impegno intellettuale, Il dolore

innocente, affrontando il tema delicato dell’handicap dal punto di vista filosofico e

teologico. Mancuso riscuote molto successo nel 2007, quando pubblica un libro dal

titolo L’anima e il suo destino (Raffaello Cortina), affrontando il concetto di anima

alla luce del quesito se vi sia un’esistenza dopo la morte. A maggio del 2008, il libro

supera le 120.000 copie vendute, con traduzioni in altre lingue, diventando un

dibattuto caso editoriale e culturale, che ha dato vita a numerose rassegne stampa,

radiofoniche e televisive.

2 Cfr. V. Mancuso, Il dolore innocente. L’handicap, la natura e Dio, Oscar Mondadori, Milano 2008,

p. VII.

6

Oltre a questi due libri appena citati e alla tesi di dottorato, Mancuso scrive

anche: “La vita autentica” edita da Cortina Editore nel 2009, libro che gli consente di

vincere l’anno successivo il “Premio Capalbio”, dedicato all’etica e alla teologia; nel

2008 scrive “Rifondazione della fede”, Oscar Mondadori. La prima edizione di

questo libro viene pubblicata nel 2005 con il titolo Per amore e il sottotitolo

Rifondazione della fede. Mancuso decide di elevare il sottotitolo originario a unico

titolo del libro per rispondere a una logica di maggiore chiarezza comunicativa. Nel

2010 scrive con Corrado Augias, scrittore e giornalista, “Disputa su Dio e dintorni”

(Oscar Mondadori), un interessante dialogo tra il non credente Augias e il credente

Mancuso su Dio e sulla vita di ogni giorno. Nel 2011 pubblica “Io e Dio. Una guida

dei perplessi” (Garzanti Editore); in quest’opera espone le ragioni della sua fede in

Dio, basata sull’amore e sul dialogo, sulla libertà e sulla giustizia. Nel 2012 a Reggio

Calabria vince il Premio Rhegium Julii “I. Falcomatà” dedicato alla saggistica con il

volume edito da Fazi Editore, Obbedienza e libertà. Critica e rinnovamento della

coscienza cristiana. In questo volume Mancuso affronta il tema della coscienza

cristiana, divisa tra queste due polarità apparentemente opposte. Sempre nello stesso

anno scrive anche Conversazioni con Carlo Maria Martini (con Eugenio Scalfari).

Per Garzanti, con la collaborazione di Paolo Flores D’Arcais, filosofo e pubblicista,

scrive nel 2013 Il caso o la speranza? Un dibattito senza diplomazia. E sempre nello

stesso anno scrive anche Il principio passione. La forza che ci spinge ad amare.

Dal 2004 al 2011 Mancuso è docente di Teologia moderna e contemporanea

presso la Facoltà di Filosofia dell’Università Vita-Salute San Raffaele di Milano. Da

marzo 2013 è docente di “Storia delle dottrine Teologiche” presso l’Università degli

Studi di Padova. Oltre a svolgere l’attività di docente universitario, dal 2009 è anche

7

editorialista del quotidiano “La Repubblica”. Dirige con Elido Fazi “Campo dei

fiori”, la prima collana laica di spiritualità e di libera ricerca teologica. Dal 2008 è

anche collaboratore de “Il Foglio”. Oltre ai libri, Mancuso scrive anche

numerosissimi articoli apparsi non solo sul quotidiano “La Repubblica”, ma anche su

Avvenire, Panorama e Corriere della Sera. Le tematiche affrontate nei suoi articoli

riguardano la chiesa, la teologia, il papa, la scienza, la bioetica, la libertà; tematiche

emergenti e scottanti che suscitano notevole interesse da parte della coscienza laica, a

cui Mancuso principalmente si rivolge. Mancuso viene spesso invitato in molte

trasmissioni televisive: è ospite nella trasmissione “Che tempo che fa” di Fabio

Fazio, “L’infedele” di Gad Lerner, “Le Storie” di Corrado Augias, “Otto e mezzo” di

Giuliano Ferrara; al TG1 viene intervistato da Gianni Riotta, al TG2 da Tommaso

Ricci e al TG3 da Maria Cuffaro. Prende parte anche alla trasmissione di Rai5 “Il

paradiso ritrovato”, dove viene intervistato insieme ad Robert Harrison da Serena

Dandini. Mancuso partecipa pure a programmi radiofonici: Farenheit, GR1, Radio 24

Ore, Radio della Svizzera Italiana, Uomini e Profeti… Inoltre nel 2008 ha curato per

Rai Tre cinque puntate della rubrica “Damasco” con trasmissioni su Pavel Florenskij,

Dietrich Bonhoeffer, Simone Weil, Etty Hillesum, Pierre Teilhard de Chardin,

uomini e donne di grande spessore culturale, citati molto spesso nei suoi libri.

Da questa prima presentazione generale emerge quanto copiosa sia la

produzione di Vito Mancuso; un solo libro però viene scritto su Vito Mancuso, ed è

un libro redatto da Corneliu C. Simut, professore di Teologia Sistematica alla Facoltà

di Teologia di Oradea, in Romania, dal titolo “Essentials of Catholic Radicalism”. An

Introduction to the Lay Theology of Vito Mancuso.

8

Questo è l’unico libro che fino ad ora è stato scritto sul pensiero di Vito

Mancuso; non mancano però articoli, anche molto critici, da parte dei suoi colleghi

teologi, che lo accusano apertamente di essere un “falso teologo”, “un modernista

pieno di ragnatele”, un “teologo dilettante fai-da-te”, un “teologo senza Dio”, un

“eretico e peraltro dichiarato”. Un’altra accusa spesso ricorrente che viene fatta al

“teologo fuori le mura”, soprattutto in relazione al libro L’anima e il suo destino, è

quella di proporre una “gnosi” di ritorno. Mancuso viene criticato, in un certo senso,

anche dal suo maestro spirituale, il cardinal Carlo Maria Martini, il quale apprezza

però la sua onestà intellettuale e il suo amore per la ricerca. In occasione, infatti,

della pubblicazione del libro sull’anima, il cardinal Martini scrive una lettera a Vito

Mancuso, che fa da prefazione al libro stesso. Viene qui riportato quasi integralmente

il testo:

Penso di sentire parecchie discordanze su quanto tu concludi su diversi punti, ma

non posso negare che tu cerchi sempre di ragionare con rigore, con onestà e con

lucidità, e che hai il coraggio delle tue idee, dicendo anche apertamente che esse

non sempre collimano con l’insegnamento tradizionale e talvolta con quello

ufficiale della Chiesa. Perciò il libro incontrerà opposizioni e critiche. Ma sarà

difficile parlare di questi argomenti senza tenere conto di quanto tu hai detto con

penetrazione coraggiosa. Non posso perciò che augurare che il tuo libro venga

letto e meditato da tante persone, anzitutto da coloro che non si preoccupano

dell’esistenza dell’anima né del futuro dell’uomo e che anche per questo non

hanno punti saldi a cui ancorarsi. Ma anche altri, quelli che ritengono di avere

punti di riferimento saldissimi, possono leggere le tue pagine con frutto, perché

almeno saranno indotti o a mettere in questione le loro certezze o saranno portati

ad approfondirle, a chiarirle, a confermarle. Vedo che in tutto questo sta portando

frutto tutta la tua storia, la tua passione per la ricerca, il tuo cammino di onestà e di

verità, tutto il tuo amore per lo studio e il tuo amore per la vita. Mi auguro che

9

anche coloro che non saranno d’accordo con parecchie idee del tuo libro

comprendano queste cose e ti ascoltino con attenzione3.

L’opinione del cardinal Martini è condivisa anche da altri teologi, i quali,

anche se dichiarano apertamente di non condividere il metodo e le conclusioni di

Mancuso, apprezzano la sua capacità di sollevare la questione di come articolare la

verità cristiana con le scoperte della scienza e dell’autocoscienza contemporanea.

Molti ammirano la sua riflessione ben documentata e, nonostante la profondità delle

tematiche trattate, il suo linguaggio rimane semplice e accessibile ad un pubblico con

differenti sfaccettature culturali.

Per quanto concerne il metodo, Mancuso si dichiara a favore del superamento

del principio di autorità, che a suo avviso domina ancora oggi il cattolicesimo, e per

l’instaurazione di ciò che egli definisce “teologia laica”, ovvero un lavoro teologico

per il quale l’istanza conclusiva non è l’autorità magisteriale della dottrina stabilita,

ma la coerenza del pensiero rispetto all’esperienza concreta a livello oggettivo e

l’onestà intellettuale a livello soggettivo. La teologia laica con cui Vito Mancuso ama

definire il senso di un lavoro fatto non solo di lezioni universitarie e di articoli, ma

anche di numerosi libri e di altrettante conferenze, rimanda a un discorso su Dio che

sia tale da poter sussistere di fronte alla filosofia e alla scienza, le forme più

accreditate del discorso veritativo nell’epoca moderna e contemporanea, ma che

soprattutto sia tale da poter ancora oggi rappresentare per gli uomini della

postmodernità un itinerario che conduce la mente verso Dio.

3 Carlo Maria Martini, Lettera, in V. Mancuso, L’anima e il suo destino, Raffaello Cortina Editore,

Milano 2007, pp. XIII-XIV.

10

Occorre adesso entrare nel cuore del suo pensiero per cercare di capire le

posizioni di Mancuso e in che senso esse risultino non sempre allineate con quelle

della gerarchia ecclesiastica.

11

CAPITOLO PRIMO

Esperienza della fede e inquietudine

dell’intelligenza

“Lotta sino alla morte per la verità

e il Signore Dio combatterà per te”

Siracide 4,28

1.1 Il vissuto della fede e il disagio dell’intelligenza

L’esperienza della fede non può partire dai libri o dalle dottrine; l’esperienza

cristiana, prima di tutto, è basata sull’incontro. Questo vale per tutti i veri credenti,

per tutte le persone che parlano della fede come di una dimensione concreta. Si parte

da un’esperienza diretta, si comincia da un incontro. Un incontro decisivo per Vito

Mancuso è quello con il cardinal Carlo Maria Martini. Da lui apprende un nuovo

metodo, un nuovo modo di contemplare la vita.

Ben presto, infatti, Mancuso si rende conto di non riuscire ad obbedire

ciecamente ai dogmi che la Chiesa impone di accettare “per fede”. Comincia ad

avvertire dentro di sé un certo disagio da parte dell’intelligenza, un’incongruenza tra

quello che la Chiesa impone di credere, di accettare per fede, e la realtà, l’esperienza,

12

il dato empirico. Per questo motivo avverte di non riuscire a rimanere sempre

allineato con le posizioni della gerarchia ecclesiastica.

Il pensiero di Mancuso è influenzato da quello di una pensatrice francese della

prima metà del Novecento, Simone Weil (1909-1943), la quale sostiene che se c’è

una cosa che appare come contraddizione non è un segno negativo; al contrario, nella

misura in cui è teorizzata, la contraddizione ha la capacità di portare il pensiero al

cospetto del chiaro-scuro della vita, che è meraviglia e che è terrore nello stesso

tempo. Le contraddizioni sono essenziali al pensiero per Simone Weil.

Quest’ultima sceglie di non entrare nella Chiesa a causa del disagio

dell’intelligenza ad abbracciare la dottrina cattolica. Questo disagio dell’intelligenza

che ha avvertito Simone Weil è comune, secondo Mancuso, a molti uomini e a molte

donne di oggi, perché la funzione propria dell’intelligenza esige libertà, e questo è

ciò che a suo avviso manca nell’attuale configurazione della Chiesa cattolica.

Mancuso fa propria la grande lezione di Simone Weil e giunge a voler rifondare,

rinnovare la fede, dedicando un intero libro a questa tematica.

Mancuso vuole ritrovare la fede autentica, quella che sappia dare adeguato

spazio alle domande, alle esplorazioni, alle elaborazioni dell’intelligenza che si

confronta con il sapere di questo mondo, scientifico e filosofico. Dopo le scoperte

della scienza, non si può rimanere ancorati ad una tradizione che, su alcuni punti,

risulta infondata. Occorre fare tesoro di queste scoperte e adeguarsi allo spirito del

tempo. Mancuso cerca così di superare questa inquietudine dell’intelligenza,

provando a ragionare con rigore e con onestà intellettuale, confrontandosi con i nuovi

dati forniti dalla scienza e con il sapere filosofico.

13

È fondamentale cioè per Mancuso recuperare la consapevolezza del fatto che o

la Chiesa ha un rapporto effettivo, organico, vero, fedele, nei confronti del mondo,

capacità di dialogo, capacità di comprensione della realtà o semplicemente essa viene

meno al suo compito istituzionale, decisivo, strutturale, che è quello di essere per il

mondo.

1.2 Parlare di Dio al cospetto del sapere umano

Per sapere umano, Mancuso intende principalmente il progresso della

conoscenza, sotto forma di scienza, e la riflessione filosofica. Secondo Mancuso

si tratta di guardare il mondo nella sua evoluzione, contraddittorietà, esplosione di

sensi e contraddizioni, e dentro qui, dal basso, riprendere una nuova visione di

Dio. In questa esplosione di contraddizioni che è il mondo, in questa lotta di cifre,

(…) ebbene la fede nel Dio cristiano si deve rifondare a partire dal basso, nel

sostenere il primato di questa esperienza spirituale che è il bene-giustizia-amore. A

partire da qui, si tratta di saldare l’esperienza della fede con l’esperienza del

mondo. La scienza deve fare il suo mestiere e offrire dati ed esattezze. A questi

dati si affianca il compito del pensiero che è quello di dare un significato umano; e

questo non è più compito della scienza ma è il compito del pensiero, della

filosofia, della teologia in quanto a sua volta dotata della pretesa di interpretare il

senso del mondo. È qui che inizia il lavoro del pensiero. […] E quando si tratta di

dare un senso, quello che appare è la contraddizione: una parte dell’umanità

approda al non senso, cioè alla negazione di Dio, e una parte dell’umanità che

viceversa approda a un senso complessivo del tutto e quindi al divino. Il nostro

compito attuale è quello di fare qualche passo in avanti rispetto a questa crisi

spirituale che stringe al cuore il nostro tempo. Questo è possibile solo a patto di

conciliare la riflessione scientifico-filosofica con l’esperienza sapienziale

religiosa. La Chiesa deve proseguire su questa strada di revisione, se vuole

14

costruire un ponte con la modernità. […] Solo superando gli opposti fanatismi si

aprirà la strada ad una riflessione profonda sull’uomo e sul mondo4.

In un altro articolo, intitolato La scienza e la sapienza5, Mancuso si chiede

perché la connessione tra religione e argomenti scientifici risulti così efficace. Egli

individua due motivi. Il primo riguarda la capacità immediata del termine “Dio” di

far comprendere l’importanza della posta in gioco quando si tratta di ambiti

fondamentali della scienza, come l’origine dell’universo, della materia e della vita. Il

secondo motivo è il bisogno primordiale della mente umana di conciliare scienza e

sapienza. Gli uomini avvertono infatti, secondo quanto sostiene Mancuso in questo

articolo, l’esigenza non solo di conoscere dati e ricevere informazioni, ma anche di

valutare il loro significato per l’esistenza e per i criteri con cui pensano solitamente

la giustizia, la bellezza, il bene e il male. Le civiltà del passato erano in grado di

conciliare scienza e sapienza. Oggi però tale conciliazione viene a mancare e il

risultato è l’odierna disgiunzione tra le discipline scientifiche e le discipline

umanistiche. Per questo, quando si prefigura la possibilità di ritornare all’antica

visione unitaria, la mente umana si fa attenta e partecipe, mostrando un forte

interesse al riguardo.

La mente umana si è evoluta e si evolve in continuazione. Questa evoluzione

della mente, questa crescita dell’intelligenza fino alla sapienza, viene definita da

Mancuso bontà dell’intelligenza. Per Mancuso «il senso dell’esistenza umana appare

4 V. Mancuso, Rifondare la fede a partire dal basso, intervista al “Corriere del Ticino”, 19 Aprile

2010. 5 Cfr. V. Mancuso, La scienza e la sapienza, in “La Repubblica”, 5 Luglio 2012.

15

consistere nell’essere sempre più sapiens, coltivando ogni giorno con dedizione

amorevole la sapienza in quanto bontà dell’intelligenza»6.

Ma Mancuso si rende conto che per l’uomo non è facile raggiungere la più alta

forma dell’intelligenza, quale è la sapienza. E non è solo questione di istruzione e di

cultura, bensì di disposizione interiore, di disposizione dell’anima verso il bene. Chi

fa il bene si libera, almeno per un po’, dalle catene dei bisogni umani.

Volendo sintetizzare in una formula l’unica possibile liberazione, Mancuso

parla appunto di bontà dell’intelligenza, sostenendo che

raramente le due cose si ritrovano insieme, spesso si hanno uomini buoni ma

poco intelligenti, per cui non sai se la loro bontà non sia altro che debolezza;

oppure uomini dotati di intelligenza ma senza il minimo scrupolo di farne uso

per asservire e umiliare. Di contro io ritengo che la bontà che desidera la luce

dell’intelligenza e l’intelligenza che desidera il calore del bene, l’unione di

queste due dimensioni in ciò che chiamo bontà dell’intelligenza, sia il vertice

sommo a cui la vita di un essere umano possa arrivare7.

Mancuso consacra la sua vita al bene. Teoria e pratica del bene e della sua

intelligenza dovrebbe essere il cristianesimo; ma all’interno della sua Chiesa

Mancuso avverte un certo malessere, un malessere dell’intelligenza che deriva dal

notare come ci sia una netta separazione tra la pratica del bene, molto diffusa negli

ambienti religiosi, e la teoria del bene, prigioniera invece di una visione superata del

mondo e dell’uomo.

6 V. Mancuso, Il principio passione, Garzanti Editore, Milano 2013, p. 164.

7 V. Mancuso, Libri e libertà, in “La Repubblica”, 27 Gennaio 2012.

16

1.3 Il fascino del bene e il dramma del mondo

Il discorso di Mancuso si regge principalmente su due colonne: la prima

riguarda il bene, mentre la seconda ha a che fare con la realtà, terribile e distruttiva,

del male, del negativo. Su queste due colonne si regge l’edificio della sua teologia.

Mancuso è affascinato dalla realtà del bene, e ritiene che non vi sia nulla di più alto e

nobile del bene. Egli consacra la sua vita alla ricerca e alla realizzazione del bene.

Ma il punto dolente è dato dall’altra colonna, è dato dal male, dal negativo. Mancuso

pone il bene come punto di riferimento, e tuttavia non può distogliere lo sguardo dal

mondo, dalla realtà, e non può non notare come questa sia attraversata dal male, dalla

distruzione, dalla sofferenza. La vita è un impasto di contraddizioni, che Mancuso

considera come facenti parte della realtà, giungendo ad affermare ciò a partire

dall’esperienza. Guardando la vita, infatti, egli vede un’esplosione di contraddizioni;

contemplando il mondo, Mancuso si rende conto che questa vita ha mille ragioni per

essere una grazia e mille ragioni per essere una disgrazia; osservando la natura, egli

nota come questa sia in grado di rasserenare la mente umana magari di fronte ad un

tramonto in riva al mare o semplicemente guardandolo, ma nota anche come questo

mare, trasformandosi in tempesta, possa portare morte e distruzione. All’interno di

questa contraddizione che è la vita, Mancuso dice queste parole:

Credo nel bene. Credo che il bene, tra le forze che attraggono e modellano le

nostre esistenze, sia la forza più potente di tutte: eterna, consistente,

indistruttibile, immortale. Qualcuno crede che la forza più potente sia il potere,

o la ricchezza, o il sesso. Io credo che la forza più potente di tutte sia il bene, e

per realizzare me stesso cerco di legare la mia vita a esso e alla giustizia che ne

promana. Se avessi fra le mani un granellino di incenso e lo dovessi bruciare sui

17

cento altari che la vita presenta, io lo brucerei sull’altare del bene e della

giustizia8.

Per Mancuso, la disposizione a cogliere le contraddizioni non deve essere

considerata come un capriccio della mente umana che ama negare e che vuole solo

negare. È la vita stessa che procede mediante contraddizioni; le principali sono la

vita e la morte. La sua visione della vita è all’insegna della dinamicità dell’essere,

dell’apparire e dello scomparire delle cose. Egli elabora una formula che è costitutiva

di tutto il suo pensiero, e che secondo lui riguarda il mondo, la realtà, la vita: egli

parla di ottimismo drammatico. Nell’opera Io e Dio ne dà una definizione molto

esaustiva:

Conosco bene il dramma e talora la tragedia che spesso attraversa il mestiere di

vivere. Per questo io definisco il mio sentimento della vita come «ottimismo

drammatico»: vivo cioè nella convinzione fondamentale di far parte di un senso

di armonia, di bene, di razionalità, e per questo parlo di ottimismo, ma sono

altresì convinto che tale armonia si compie solo in modo drammatico, cioè

lottando e soffrendo all’interno di un processo da cui non è assente il negativo e

l’assurdo. Ma tale negatività è al servizio di un più ampio movimento di

organizzazione e di crescita della complessità relazionale che usiamo chiamare

«evoluzione» e che per questo autorizza a parlare di ottimismo9.

Mancuso è ottimista ma non è un’idealista; infatti ha sempre come punto di

riferimento la realtà: è con essa che bisogna sempre e comunque fare i conti. Il

principio che regge la realtà è la passione, intesa come entusiasmo, emozione da una

8 Cfr. C. Augias – V. Mancuso, Disputa su Dio e dintorni, op. cit., p. 101.

9 V. Mancuso, Io e Dio. Una guida dei perplessi, Garzanti Editore, Milano 2011, pp. 188-189.

18

parte ma anche come sofferenza, patimento dall’altra. La realizzazione del bene,

dell’armonia può avvenire serenamente oppure può avvenire drammaticamente, ma

in ogni caso è portatrice di una grande fiducia verso la vita. Tutto ciò, secondo

Mancuso, corrisponde alla logica che regola l’Universo.

1.4 Libertà della ricerca spirituale e confronto con l’autorità

La coscienza contemporanea ha bisogno di affrontare, in modo accessibile e

piano, temi profondi. Nella vita è importante avere alcuni punti fermi

dell’intelligenza per la comprensione e il comportamento; questi però non devono

essere tali da mortificare la libertà. Se sono d’ostacolo al vero incontro con la vita

reale, allora devono essere superati, oltrepassati. Questi punti fermi devono essere

orientati alla costruzione del giudizio della coscienza. Molti notano che tra una

Chiesa del potere e l’esperienza spirituale liberante di Gesù non c’è perfetta

coincidenza; adeguarsi allo spirito dei tempi non è un optional, ma è la modalità

imprescindibile affinché la Chiesa possa fare il suo mestiere. È nella relazione con il

mondo che essa vive se stessa; è solo rapportandosi con la realtà che essa può

veramente realizzarsi. Mancuso è contro una coscienza che si pieghi a priori ai dettati

della gerarchia. Ecco, questa modalità di pensare che sopprime la libera individualità

sull’obbedienza dei precetti è negativa. Se un’affermazione è conforme alla ragione,

questo lo deve decidere la ragione stessa, e non un’autorità stabilita una volta e per

sempre.

19

Mancuso crede che «tutto nel mondo sia in funzione della libertà e del suo

responsabile esercizio, e quindi all’insegna di valori del tutto diversi rispetto a

necessità, forza, autorità, perfezione, e simili piuttosto a gratuità, fragilità,

autenticità»10

.

Libertà e amore per la verità sono le due condizioni essenziali affinché, per

Mancuso, si possa realizzare il senso della vita spirituale. Per secoli e secoli tutto si è

basato sull’autorità della Chiesa, sull’autorità delle Scritture. A tal riguardo

Mancuso, in un’opera dedicata proprio alla critica e al rinnovamento della coscienza

cristiana, intitolata Obbedienza e libertà, scrive:

Il mio obiettivo consiste nel promuovere pubblicamente la libera ricerca

spirituale, all’insegna di una teologia che non risponda al principio di autorità

ma a quello ben diverso di autenticità. […] Essere liberi nella propria mente e

nel proprio spirito, senza alcuna sudditanza esteriore, e al contempo coltivare

una scrupolosa obbedienza interiore alla verità (o, che è lo stesso, al bene, alla

giustizia, alla bellezza, all’amore): questo è il senso della vita spirituale, ed è

questo l’obiettivo che intendo promuovere11

.

Tutto il pensiero mancusiano si può sintetizzare in questo scopo, in questa

libera ricerca della verità, una ricerca che non deve sottostare a nessun dogma, a

nessuna autorità, una ricerca che superi definitivamente l’opposizione tra obbedienza

e libertà.

10

V. Mancuso, Io e Dio. Una guida dei perplessi, op. cit., p. 112. 11

V. Mancuso, Obbedienza e libertà. Critica e rinnovamento della coscienza cristiana, Fazi Editore,

Roma 2012, pp. 15-16.

20

1.5 Dal principio-autorità al principio-autenticità

La Chiesa non sa più attirare l’attenzione della coscienza contemporanea a

causa dell’incapacità di leggere adeguatamente il mondo, e tale incapacità va

ricondotta alla sua frattura con la contemporaneità. La Chiesa cattolica è troppo

impegnata a preservare la dottrina, l’autorità che da essa deriva, e non si accorge di

non servire il mondo reale degli uomini, la loro spiritualità e i loro bisogni. La

religione cattolica ha iniziato a perdere sempre più valore nella mente degli uomini

assumendo un ruolo via via sempre più marginale. Mancuso arriva addirittura ad

affermare che Gesù non si riconoscerebbe in questa religione.

Con il processo di secolarizzazione, il connubio tra Occidente da una parte e

Chiesa cattolica dall’altra rischia di infrangersi. La Chiesa accusa l’Occidente

secolarizzato che, invece di rimanere fedele alla sua religione, insegue falsi idoli

relativizzando il vincolo intellettuale, morale e spirituale che lo lega virtuosamente

alla verità. L’Occidente denuncia invece l’incapacità della Chiesa di andare incontro

alle nuove esigenze della coscienza morale. È fondamentale, per mantenere questa

relazione che rischia di annullarsi, trovare un punto di incontro; ma questo punto di

incontro deve essere raggiunto in tempo, prima che poi sia troppo tardi. La storia

infatti mostra come in certi casi la Chiesa si adatta: è avvenuto con Copernico, con

l’evoluzione darwiniana; è avvenuto con i diritti dell’uomo, prima negati e

condannati, ora affermati e promossi, in primis la libertà religiosa. Ma tutti questi

riconoscimenti sono avvenuti in ritardo. Infatti Mancuso si domanda: «arrivando

spesso così tardi all’appuntamento con la verità, come può il cattolicesimo risultare

21

affascinante per chi coltiva seriamente la ricerca spirituale e intellettuale?»12

.

Mancuso propone allora un cambiamento di prospettiva, dal principio di autorità la

Chiesa deve orientarsi verso il principio di autenticità, affinché possa venire incontro

alle esigenze della coscienza morale.

Mancuso critica apertamente l’autorità, e critica soprattutto l’obbedienza

incondizionata all’autorità. La teologia deve essere in grado di intraprendere una

lotta all’interno della Chiesa e della sua dottrina, e se è necessario anche contro la

Chiesa e la sua dottrina, senza aver la paura di scandalizzare i credenti, perché il vero

scandalo consiste nel tradire la verità. Nel nome della verità si può e si deve andare

contro la dottrina, se questo è necessario.

Mancuso ritorna spesso nei suoi libri su questa distinzione tra autorità e

autenticità, e ne dà una spiegazione molto esaustiva nell’opera Io e Dio, dicendo:

In queste pagine rendo pubblica la mia visione della fede in Dio e del suo

fondamento, la visione di un cattolico che intende rimanere tale ma che non può

più condividere integralmente la dottrina ufficiale e cerca di motivarne il

perché. Desidero in particolare promuovere un cambiamento di paradigma: il

passaggio dal principio di autorità al principio di autenticità. Il principio di

autorità (“quello che io vedo bianco lo credo nero, se lo stabilisce la Chiesa

gerarchica” diceva sant’Ignazio di Loyola) è ancora oggi dominante nel

cattolicesimo. Faccio un esempio. Potete bestemmiare, avere problemi con la

giustizia, tradire il coniuge, potete fare tutto questo, ma, se solo date

l’apparenza di credere e di rispettare l’autorità della Chiesa, voi siete un

cattolico gradito alla Santa Sede. Potete al contrario essere un uomo retto,

giusto, buono, ma se non condividete una norma etica della Chiesa e vi

assumete il coraggio di dichiararlo pubblicamente, voi non siete più un cattolico

per la Chiesa. Che cosa fa la differenza? Il riconoscimento formale dell’autorità

della Chiesa. E proprio in questo la Chiesa cattolica fa consistere oggi l’essere

12

V. Mancuso, Obbedienza e libertà, op. cit., p. 196.

22

cattolico: nel riconoscimento della sua autorità. Se pieghi il tuo intelletto

all’autorità dottrinale ecclesiastica, sei cattolico; se no, no. Non conta la vita

concreta, conta la professione esteriore di obbedienza. Io penso al contrario che

tale principio-autorità debba essere superato e che al suo posto vada inaugurato

il principio-autenticità. […] Ciò che auspico è il superamento nella mente dei

credenti della convinzione che la verità della loro fede cattolica si misuri sulla

conformità alla dottrina stabilita dalla gerarchia. Ciò che auspico è

l’introduzione nella mente dei credenti di una concezione dinamico-evolutiva

della verità (verità = bene) e non più statico-dottrinaria (verità = dottrina).

La fede deve vivere di una libera ricerca spirituale passando dal principio-

autorità al principio-autenticità13

.

Quindi se un’affermazione è conforme alla ragione, lo deve decidere la ragione

stessa, non certamente l’autorità. Il banco di prova della verità delle affermazioni non

sono le pagine scritte, ma è la vita concreta. L’essere cristiano allora non si può

ridurre all’obbedienza incondizionata al papa; non è il principio esteriore di

obbedienza all’autorità a risultare decisivo, ma quello interiore dell’autenticità. La

teologia deve, quindi, diventare libera ricerca spirituale, tanto in campo dogmatico

quanto in campo etico.

Essere soggetti al principio di autorità non solo è naturale, ma è anche giusto.

Bisogna però stare attenti al fatto che questo principio di autorità non degeneri in

autoritarismo. Affinché ciò non avvenga, l’uomo deve far sì che l’autorità rimanga

funzionale alla realtà.

Mancuso insiste molto sul concetto di verità, soprattutto sul modo di intendere

la verità. La verità non è una dottrina, non è qualcosa di statico, fisso, immobile,

bensì è qualcosa di dinamico. La verità, nel senso esistenziale del termine, è qualche

13

V. Mancuso, Io e Dio. Una guida dei perplessi, op. cit., p. 194 e sgg.

23

cosa che penetra la vita, che la fa respirare; è solamente così che si spiega come Gesù

possa dire: «Chi fa la verità viene alla luce»14

. Gesù non fa riferimento al dire la

verità, ma al fare la verità. Per Gesù il termine verità si inserisce nell’orizzonte della

prassi, della giustizia da compiere. Quindi la verità è qualcosa di dinamico, ha a che

fare con la vita concreta. La verità deve tornare a essere pensata nell’orizzonte

dell’autenticità. Ciò che determina la verità di un’affermazione è la vita, ed è solo

pensando la vita che la teologia rimane fedele alla sua vocazione di essere pensiero

del Dio vivente.

La verità cristiana, quella autentica, incrementa nel modo migliore possibile la

relazione armoniosa in cui consiste la vita, ed è quindi da intendere sempre in

funzione del mondo e della sua evoluzione creatrice da cui si originano la vita, il

pensiero, la libertà.

In conclusione, Mancuso pensa che

ognuno debba domandarsi ancora una volta dove risiedesse il retto spirito

evangelico. […] Nella risposta a questa domanda si gioca la partita tra principio

di autorità e principio di autenticità, tra essere cattolico perché si obbedisce al

papa o essere cattolico perché si vuole sempre, sopra ogni cosa, il bene del

mondo15

.

14

Giovanni, 3,21. 15

V. Mancuso, Io e Dio. Una guida dei perplessi, op. cit., p. 220.

24

1.5.1 Critica alle prove dell’esistenza di Dio

Ponendosi contro l’autorità, Mancuso affronta anche la tematica riguardante la

conoscibilità di Dio. Secondo la dottrina cattolica, è possibile conoscere Dio

mediante la ragione, la quale conduce l’uomo ad una conoscenza certa di Dio e

addirittura ad una sua dimostrazione. Mancuso invece è contrario a parlare di

“dimostrazioni” in riferimento a Dio, e dice:

Da parte mia scelgo di chiamarli sempre e solo «argomenti» perché ritengo che

in ordine a Dio non si possono dare prove o dimostrazioni di sorta, né per

provarne l’esistenza né per provarne altrettanto l’inesistenza, intendendo con il

termine Dio ciò che intende la dottrina cattolica, cioè il Dio personale distinto

dal mondo16

.

Invece che di prove, Mancuso si serve appunto di argomenti, e nello specifico

di argomenti antropologici, aventi come punto di partenza l’interiorità umana. La

pretesa di conoscere Dio mediante la ragione è vana, perché quando la ragione

riflette sull’assoluto è destinata a scontrarsi necessariamente con una serie di

inestricabili contraddizioni. La ragione può conoscere con certezza solo ciò che

giunge a dominare, ma non riesce a dominare, a comprendere il principio di tutte le

cose, ovvero Dio. Ed è proprio per questo motivo che non è corretto parlare di

«prove» dell’esistenza di Dio, ma solo di argomentazioni. Mancuso infatti sostiene:

L’esistenza di Dio è per definizione inattingibile dalla mente umana, perché in

caso contrario avremmo a che fare con un oggetto finito, e non con la

16

Ivi, pp. 83-84.

25

dimensione infinita alla quale rimanda il termine Dio. Il Dio vivente non si può

imprigionare, non si può ridurre in cattività capendolo. Ne consegue che

l’affermazione dogmatica della Chiesa proclamata nel Vaticano I17

è falsa, e

non c’è minaccia di scomunica che possa renderla vera18

.

Mancuso sa bene che le sue affermazioni, se fossero state pronunciate qualche

secolo fa, l’avrebbero condannato al rogo. Oggi questo rischio così estremo, per

fortuna, non c’è più, ma in ogni caso, non è così semplice sostenere tesi opposte a

quelle del magistero pontificio. Mancuso si rende conto infatti di essere diventato un

teologo un po’ scomodo all’interno della Chiesa, e le critiche dei colleghi teologi lo

dimostrano. Ma Mancuso non ha paura di andare controcorrente, lui che lotta per

affermare e per servire la verità, ad ogni costo. Non a caso il suo motto è: «Lotta sino

alla morte per la verità, e il Signore Dio combatterà per te»19

.

17

Il Concilio Vaticano I nella Costituzione dogmatica Dei Filius del 24 aprile 1870 dichiara: «La

santa madre Chiesa ritiene e insegna che Dio, principio e fine di ogni cosa, può essere conosciuto con

certezza mediante la luce naturale della ragione umana a partire dalle cose create». 18

V. Mancuso, Io e Dio. Una guida dei perplessi, op. cit., pp. 100-101. 19

Siracide, 4,28.

26

CAPITOLO SECONDO

Una nuova proposta teologica

“Occorre ripensare daccapo

la nozione di fede”

Simone Weil

2.1 Le opere principali

Dopo aver presentato il pensiero di Mancuso nelle sue linee generali, è ora

opportuno passare in rassegna le principali opere dell’autore, dalla tesi di dottorato,

Hegel teologo, scritta nel 1996, al libro, Il principio passione, pubblicato nel 2013.

2.1.1 Hegel teologo

Mancuso decide di scrivere la sua tesi di dottorato su Hegel, e intitola il lavoro

Hegel teologo e l’imperdonabile assenza del «Principe di questo mondo». Si parla

spesso di ambiguità hegeliana, cioè del fatto che egli possa essere considerato tanto

un rigoroso teologo quanto il fondatore dell’ateismo scientifico. In realtà, Mancuso

27

afferma che tale ambiguità non esiste affatto. L’oggetto della filosofia hegeliana è in

fondo uno solo, l’Assoluto, Dio. Il pensiero di Hegel è dall’inizio alla fine pensiero

di Dio. Mancuso vuole mostrare l’altezza di un pensiero che non rende più possibile

distinguere filosofia e teologia perché concentrato nella contemplazione della verità.

La novità radicale della filosofia di Hegel risiede nel cercare Dio all’interno delle

piaghe della storia.

Si tratta di concentrare lo sforzo della filosofia sul mistero del male, nella sua

portata etica e ontologica. Hegel si riferisce al cosiddetto peccato angelico e al suo

protagonista, Lucifero. L’uomo vive all’interno dell’opposizione del bene e del male.

Sennonché il bene e il male, in quanto forze universali, appartengono all’Assoluto. Il

problema di pensare il male, e di pensarlo alla luce di Dio come dotato di senso per

l’umanità, rimane.

Si Deus est, unde malum? Di fronte alla lacerante antitesi tra Dio e il male, il

pensiero deve assumere una determinata direzione, quella di ricondurre ogni cosa

alla volontà di Dio. Il male viene da Dio, perché tutto viene da Dio. Come può

l’Assoluto avere al di fuori qualcosa che non gli appartenga e rimanere insieme

assoluto? Il cristianesimo viene letto da Hegel in modo tale da rispondere a questa

domanda: qual è il mistero dell’essere? Che cosa è successo? Come e quando Dio ha

perso la sua creazione e non ne è stato più lui il principe? Da dove viene questo

nemico se tutto viene da Dio? I nodi rimangono designati: da un lato la realtà del

male e la libertà dell’uomo; dall’altro lato il progetto di Dio pensato all’inizio dei

secoli.

Hegel ha fatto un passo enorme contro l’epoca moderna: ha distolto il pensiero

dell’uomo e l’ha rivolto a Dio. Rispetto a lui, sostiene Mancuso, va compiuto un

28

passo ulteriore, e cioè riconoscere che tra Dio e l’uomo, oltre alla coappartenenza

originaria, c’è la scissione che comanda la storia, non la necessità. Da qui la

difficoltà hegeliana a pensare l’origine e la consistenza del male. Hegel riconduce il

male a Dio. Così il male, ricondotto e risolto nel divino, non esiste più; tutto quello

che esiste è il bene. Ma allora, da che cosa l’uomo deve essere salvato?

La questione vera e propria, quella concernente la causa, l’unde, rimane del

tutto aperta. Come pensare l’assolutezza di Dio senza attribuirgli il male? E come

non attribuirgli il male senza porre due principi? Come conciliare l’unicità dell’arché

divina con l’esistenza di Satana? Il problema posto dalla filosofia hegeliana alla

teologia della salvezza dunque è teologicamente legittimo e solleva questioni ancora

oggi del tutto aperte. Il momento del negativo si struttura attorno a tre questioni:

perché la creazione ha bisogno di salvezza? Perché l’attuazione della salvezza nella

forma della redenzione doveva passare attraverso la morte del Figlio? Perché la

salvezza non si mostra nella storia?

Risulta evidente che tale riconduzione dell’azione del Figlio al disegno del

Padre, comporta la ripresa del legame tra la teologia e la filosofia, non più sulla base

di sottili distinzioni metodologiche, ma a partire dalla comune posta in gioco, la

verità del mondo e della vita.

29

2.1.2 Il dolore innocente

Come già precedentemente accennato, Mancuso inizia a pensare di scrivere

questo libro, dal titolo Il dolore innocente. L’handicap, la natura e Dio, nel 1997

quando una malattia genetica non consente a suo figlio di venire al mondo. Dopo

quel tragico evento, Mancuso si interroga cercando di affrontare il problema dal

punto di vista teologico. Egli infatti critica la Chiesa perché ragiona ex parte hominis

invece di ragionare ex parte Dei. L’incertezza del Magistero e della teologia nel

rendere conto dell’handicap non porta Mancuso a nutrire dubbi sull’esistenza di Dio;

piuttosto lo porta a nutrire qualche dubbio sulla configurazione dottrinale di tale fede,

sulla sua sistematizzazione ecclesiastica. Allora Mancuso si chiede come interpretare

il fatto che un evento così significativo per la vita umana qual è l’accadere

dell’handicap si trovi senza risposta da parte del Magistero della Chiesa e della

teologia ufficiale.

La domanda di fondo che sta alla base di tutto il suo libro è: Perché? Perché

nascono così? Qual è il senso di queste nascite? Qual è il messaggio di cui è

portatrice la loro esistenza? E soprattutto: come conciliare queste nascite con la fede

nella provenienza direttamente dalle mani di Dio di ogni singola vita umana?

Mancuso affronta tali questioni da un punto di vista teologico. In questo saggio si

vuole giungere a comprendere almeno in parte quanto è teologicamente in gioco di

fronte al caso dei bambini che nascono con il peso di un handicap posto ab origine

sulle loro spalle innocenti.

La domanda radicale è: che cosa fa della vita una vita umana? Alcuni

sostengono che ciò che distingue l’uomo è la vita della mente. La caratteristica della

vita umana risiede nella vita intelligente, nel nesso cervello-mente-pensiero. Se il

30

cervello però non funziona, si chiede Mancuso, o funziona così male da non

permettere alcuna vita della mente? Esiste un elemento che, davanti a un bambino

che neppure mostra di riconoscere i genitori, ci fa dire che siamo comunque in

presenza di un essere umano con tutti i diritti degli altri? Anche se non ha corpo

come gli altri uomini, non ha psiche, non si muove, non ragiona, non parla, si dice

tuttavia che è un uomo come gli altri uomini. Perché? In base a che cosa? La scienza

a questo punto tace.

Che cosa apprendere dunque dalla sofferenza insita nell’handicap? Che cosa

insegna Dio mediante queste generazioni? Ciò che da subito è chiaro è il loro

rimandare alla lotta che l’uomo è chiamato a sostenere contro il male. Un essere

umano che nasce gravato dall’handicap è in sé un bene, segnato però dal male. In lui

il male appare non tanto nella volontà, come avviene normalmente, ma già nella

struttura corporea e psichica. Il male quasi lo precede, ne segna l’esistenza in modo

congenito, indelebile. Ma c’è proprio bisogno di questa ulteriore, crudele attestazione

delle fragilità della vita umana, quando già nella natura e nella storia ve ne sono in

quantità più che sufficienti? E perché poi scegliere alcuni piuttosto che altri? Con

quale criterio? È possibile pensare che Dio scelga positivamente alcune creature

umane e faccia in modo che il loro essere risulti in varie forme sfigurato, solo per

insegnare al resto degli uomini l’imperfezione che li circonda? La pedagogia divina è

davvero una ragione sufficiente per giustificare l’esistenza dell’handicap? In che

modo questa malformazione che si abbatte su questo bambino servirebbe all’armonia

universale? Dove si può attingere la relazione tra handicap e armonia universale?

Come pensare infatti che Dio, che è amore, possa volontariamente creare l’unica

31

esistenza di un essere umano così segnata irrimediabilmente dal male? Perché,

dunque, nascono così?

Nella Premessa all’edizione Oscar, Mancuso annuncia un suo cambiamento di

prospettiva. La sua risposta alla domanda: ma quale razionalità, e quale filosofia, di

fronte al dolore innocente? inizia in questo libro e approda alla prospettiva illustrata

nel paragrafo 8 de L’anima e il suo destino. Mancuso sottolinea in queste pagine la

difficoltà nell’approdare ad una nuova prospettiva. Non si riconosce più nelle frasi

che scrive in questo libro nel 2002, ad esempio quando sostiene che «l’amore si

comprende nella sua vera essenza come un movimento contrario a quello della

creazione»20

. Adesso è convinto che l’amore può autenticamente sussistere negli

esseri umani solo in forza della logica che plasma la creazione, di cui l’amore è il

movimento più alto. Questo libro continua ad avere per l’autore un’importanza

fondativa, perché rappresenta l’aver fatto piazza pulita nella mente di una visione

insostenibile del rapporto Dio-natura-uomo; lo considera un cambiamento di

pensiero.

2.1.3 Rifondazione della fede

Nel 2005 Mancuso scrive un libro dal titolo Per amore. Rifondazione della

fede. Nel 2008 il libro viene ripubblicato negli Oscar Mondadori, e in occasione di

questa ripubblicazione, Mancuso, che già nell’anno precedente aveva pubblicato un

volume intitolato L’anima e il suo destino, ne approfitta per spiegare al lettore che in

20

V. Mancuso, Il dolore innocente, op. cit., p. XII.

32

questi anni cambia prospettiva, soprattutto per quanto concerne la filosofia della

natura e il concetto di forza. Decide infatti di elevare a titolo dell’opera il sottotitolo,

Rifondazione della fede. La scelta di elevare il sottotitolo originario a unico titolo del

volume risponde a una logica di maggiore chiarezza comunicativa. Ovviamente il

messaggio di fondo del libro è e rimane il medesimo, cioè che l’amore è l’unico vero

motore che porta a credere in Dio. La questione sostanziale sta nel capire che cos’è, e

da dove viene, l’amore. È una forza estranea rispetto alla logica che manda avanti il

mondo oppure l’amore è il compimento della forza del mondo? In questo libro

Mancuso sostiene che tra la forza e l’amore vi è una differenza qualitativa, nel senso

che se c’è l’amore non vi può essere la forza e viceversa. Ne L’anima e il suo destino

Mancuso afferma invece che vi è una differenza quantitativa, cioè l’amore è sempre

forza, ma più ordinata, più intelligente.

Nel 2005 è forte l’influenza del pensiero di Simone Weil su Vito Mancuso,

tanto che quest’ultimo decide di dedicarle il libro. Weil interpreta l’amore come “de-

creazione”, come un ritrarsi dalla logica della forza che domina l’essere creato, e

Mancuso segue questo orientamento. Dopo pochi anni, la visione che Mancuso ha

dell’essere naturale è molto simile a quella di Pierre Teilhard de Chardin: l’amore,

ben lungi dall’essere de-creazione, è il compimento della creazione, e tutto procede

dalla materia, anche l’anima, anche lo spirito, anche l’amore. Nella Prefazione

Mancuso scrive:

Sono stato condotto a questa evoluzione dalla riflessione sull’origine del bene e

dell’amore, che è per me la questione che merita di essere sopra ogni altra

pensata. È il bene ciò che mi affascina oltre ogni misura e mi spinge a riflettere,

è il bene il fenomeno che intendo portare al pensiero. Sono convinto che la via

per capire chi siamo passi da lì, sono convinto che cercando di capire il bene e

33

la sua origine si giunga a contatto con lo specifico umano, sono convinto che sia

il bene la chiave per entrare dentro noi stessi e compiere l’imperativo delfico

“conosci te stesso”. […] La differenza tra questo mio libro pubblicato nel 2005

e scritto nel 2003 e il mio pensiero attuale riguarda ultimamente l’origine del

bene e della giustizia, nel senso che ora io ritengo che il bene non lo si attinga

uscendo dal mondo ma rimanendo fedeli al mondo, non ponendo un movimento

di de-creazione ma rispettando e riproducendo la medesima logica della

creazione, che è la relazione ordinata, l’armonia. Ora io ritengo che il bene

(oggettivo) venga prima della bontà (soggettiva)21

.

Mancuso conclude questa prefazione sottolineando l’urgenza, attinta da

Simone Weil, di ripensare daccapo la nozione di fede.

Tra le questioni affrontate da Mancuso in questo libro, è opportuno

evidenziarne alcune: C’è il bene? Che cos’è il bene? È possibile definire il bene?

Perché gli uomini sono più attratti dal male invece che dal bene? Da dove viene il

male? Unde malum? Oltre alla tematica del bene e del male, Mancuso affronta anche

il peccato del mondo, e si chiede quale sia la sorte riservata a quegli uomini che non

hanno ricevuto il battesimo. Infine dedica l’ultima parte al problema dell’anima,

chiedendosi perché negli uomini è sorta la necessità di parlare dell’anima.

2.1.4 L’anima e il suo destino

Nel 2007 Mancuso decide di approfondire meglio la tematica trattata

nell’ultimo capitolo del suo precedente libro, Rifondazione della fede, pubblicando

così L’anima e il suo destino. Il principale obiettivo che Mancuso si propone in

21

V. Mancuso, Rifondazione della fede, Oscar Mondadori, Milano 2008, p. 13.

34

questo libro consiste nell’argomentare a favore della bellezza, della giustizia e della

sensatezza della vita, fino a ipotizzare che da essa stessa, senza bisogno di interventi

dall’alto, sorga un futuro di vita personale oltre la morte.

L’interlocutore principale di questo libro è la coscienza laica, intendendo con

ciò quella parte della coscienza, presente in ogni uomo, credente o non credente, che

cerca la verità per se stessa e non per appartenere a un’istituzione; quella parte della

coscienza che vuole aderire alla verità, ma vuole farlo senza alcuna forzatura

ideologica, di nessun tipo, e se accetta una cosa, lo fa perché ne è profondamente

convinta, e non perché l’abbia detto uno dei numerosi papi, o uno degli altrettanto

numerosi antipapi della cultura laicista. La vera laicità significa ritenere conclusivo

non il principio di autorità ma la luce della coscienza. Il metodo del suo argomentare

si basa anche sulla filosofia e sulla scienza oltre che sulle fonti tradizionali della

teologia.

La domanda che costituisce l’argomento di questo libro riguarda la morte e l’al

di là della morte, non tanto che cosa ci sarà, piuttosto, molto più radicalmente, se

qualcosa ci sarà.

Quando la mente pensa con rigore la morte e il suo oltre, si ritrova davanti

quasi solo domande. Mancuso intende conoscere l’anima per giungere a conoscere la

verità, e farlo alla luce della natura. Qui si ragiona sull’anima come qualcosa di

naturale, come il principio della vita, come la realtà più concreta che c’è. Per natura

Mancuso intende il fondo primordiale dell’essere, ciò che fa nascere e apparire le

cose. Se l’essere è energia, la domanda allora diviene: perché c’è l’energia e non la

stasi? Perché tutto si muove invece di stare fermo? Il termine natura designa

35

l’energia in modo tale da portarci a concepirla come mai compiuta, e per questo

sempre al lavoro.

Nel libro Per amore Mancuso giudica la forza che governa l’essere come un

fenomeno indifferente, né buono né cattivo; ora invece la giudica positivamente,

come principio di ordine e di organizzazione.

Mancuso si chiede: ma perché gli uomini fanno il bene? Che cosa li spinge

talora a comportamenti giusti? È forse perché sono buoni? Qual è l’archeologia del

bene?

Nel sistema di pensiero che sottostà a questo libro, il destino di vita immortale

della persona viene strappato alla religione e consegnato all’etica, la quale, a sua

volta non si fonda su se stessa ma rimanda all’ordine naturale, all’essere del mondo.

Mancuso critica le seguenti dottrine tradizionali: la creazione dell’anima umana da

parte di Dio senza nessun concorso dei genitori; il peccato originale; la risurrezione

della carne e la dannazione eterna nell’Inferno.

La questione dell’origine (da dove viene la vita?) è determinante non solo per

la questione dell’essenza (che cosa è la vita?) ma anche per quello dello scopo (a

cosa è destinata la vita?). È solo sapendo da dove vengo, che posso intuire qualcosa

di dove vado.

La presenza nell’anima di valori che trascendono il tempo, quali la verità, la

giustizia, l’amore, la vita morale, costituisce un appello quasi irresistibile

all’esistenza del mondo divino e della vita futura. Che ne sarà di tutti gli esseri umani

che non hanno potuto raggiungere, a causa della cecità della natura-physis, il livello

spirituale?

36

Un’altra domanda si impone: se l’anima può conseguire la sua immortalità

anche per via naturale, anche a prescindere da Cristo, a che cosa serve il

Cristianesimo? È o non è il Cristianesimo ciò da cui dipende la salvezza dell’uomo?

Ma veramente il destino di miliardi di esseri umani dipende dalla colpa di quello

sconosciuto in un lontanissimo passato? Come può Dio creare direttamente l’anima

spirituale e nello stesso tempo assoggettarla alla corruzione e alla concupiscenza? In

questo libro Mancuso affronta e cerca di rispondere a tali questioni.

2.1.5 Io e Dio

Il sottotitolo di quest’opera, scritta da Mancuso nel 2011, è Una guida dei

perplessi, titolo del capolavoro di Mosè Maimonide. Mancuso rimane molto colpito

da questo titolo poiché lo sente corrispondere al senso complessivo dell’esistenza

umana, da sempre alla ricerca di un punto fermo per vincere le perplessità della

mente alle prese con la vita. Maimonide, nella sua opera, si rivolge a chi pratica la

filosofia e conosce veramente le scienze, ma crede anche nella Legge ed è perplesso

di fronte ai suoi significati. La perplessità che ai tempi di Maimonide interessava una

ristretta cerchia di dotti, oggi invade, secondo il parere di Mancuso, la coscienza dei

più.

Mancuso apre la sua opera con una serie di interrogativi: qual è il messaggio

della vita degli uomini sulla terra? Questa vita, dentro cui siamo capitati nascendo

senza sapere perché, ha mille ragioni per essere una grazia, e mille altre per essere

una disgrazia: ma cosa è vero? Che è una grazia o una disgrazia? Se alla fine

comunque si deve morire, è meglio nascere o non nascere, essere o non essere? Ma

37

che cos’è vero, alla fine, per me e per loro, di questa vita che se ne va, nessuno sa

dove?

Rispondere a tutti questi interrogativi vuol dire parlare di Dio; di Dio in quanto

fondamento e direzione dell’essere, di Dio in quanto principio e fine di tutte le cose.

Il problema però è che oggi non solo il parlare, ma anche lo stesso pensare Dio è

diventato quasi impossibile, soprattutto se, parlandone e pensandolo, non lo si può

fare contro, o a prescindere dal mondo.

Io e Dio avrebbe potuto intitolarsi allo stesso modo «La libertà e Dio», perché

alla fine ciò che Mancuso intende fare con il suo lavoro è una teologia della libertà.

Questo volume intende parlare di Dio a partire dall’Io, e intende farlo non dentro le

mura di un’istituzione ma all’aria aperta della libertà di pensiero.

Mancuso fa un elenco delle possibili domande la cui risposta può essere Dio,

domande riguardanti il senso della vita, la creazione del mondo, il governo del

mondo, il vivere felici e la morte.

L’autore si chiede anche: perché l’essere umano è homo religiosus? Perché i

popoli da sempre hanno avuto una religione? Perché il fenomeno animale più dotato

di ragione è anche quello che più accede nei territori dell’irrazionalità?

Facendo riferimento alla fede, modello anzi cavaliere della fede è Abramo, di

cui è noto l’episodio in cui Dio chiede di sacrificargli il figlio. La tradizione vede in

Abramo il vero uomo di fede in quanto manifesta un’assoluta e incondizionata

obbedienza a Dio. Kierkegaard parla al riguardo, nell’opera Timore e tremore, di

“sospensione teleologica dell’etica”, ma Mancuso non è assolutamente d’accordo, e

si chiede: Ma di quale Dio stiamo parlando? Di un Dio la cui essenza è volontà

38

assoluta? Nelle ultime pagine di questo libro Mancuso dà una spiegazione esaustiva

del perché lui crede in Dio.

2.1.6 Il principio passione

Mentre Io e Dio è un’opera di teologia fondamentale, Il principio passione è

un’opera di teologia sistematica. In quest’opera Mancuso cerca principalmente di

rispondere a questa domanda: che relazione c’è tra l’amore, in quanto essenza

specifica del Dio che crea, e la sua struttura concreta di questo mondo? In prospettiva

antropologica, si tratta di capire se quando si ama si compie la logica del mondo

oppure la si nega. Nell’affrontare tale questione, teologica e antropocentrica al

contempo, il percorso di questo libro si intreccia con questioni inerenti la

cosmologia, la filosofia della natura, la biologia, la fisica, oltre che ovviamente le

cosmogonie delle religioni e il patrimonio dottrinale cattolico. Mancuso tiene molto a

precisare che se la teologia ha qualcosa di valido da dire in riferimento all’origine e

al senso del mondo, essa deve farlo al cospetto del sapere scientifico e filosofico.

Il mondo. Quanto costa questo suo farsi? Perché si possa dare un gesto di puro

amore, quanta impurità e quanta lotta devono venire prima? Ma il mondo merita di

essere amato? Oppure meriterebbe di essere odiato, disprezzato? E qual è il punto di

vista più maturo per guardare questo mondo nel quale siamo capitati nascendo?

L’infanzia o la vecchiaia? L’altruismo o l’egoismo? La vita o la morte? Qualcuno

dice l’amore. Ma che cos’è, da dove viene, l’amore?

39

Da dove vengono, nel mondo retto dal logos, il male, la sofferenza e la

corruzione? Come si concilia l’onnipotenza divina con la presenza del male? A

segnare l’origine e il destino ultimo dell’energia che noi siamo è l’entropia, cioè il

disordine, come sostiene il principio-caos, oppure è l’ordine, come sostiene il

principio-logos?

Ma il punto decisivo consiste nel come intendere il rapporto tra la volontà

divina e le dolorose contingenze di cui è disseminato il cammino evolutivo: anche

queste sono controllate e quindi volute dal Creatore?

Nelle scritture ebraiche il satan gioca un ruolo marginale, mentre nel Nuovo

Testamento Satana diviene protagonista. Come mai? Perché Dio non uccide il

Diavolo? Se ogni cosa è creata da Dio e quindi è originariamente buona, anche

Satana viene da Dio, quindi anche Satana è ontologicamente buono: come può allora

essere l’origine del male? Quale catastrofe deve essere avvenuta perché una creatura

di Dio si sia potuta corrompere a tal punto da dare origine al male e devastare con

tanta determinazione il mondo creato?

Ma il cristianesimo, si chiede la coscienza cristiana, non consiste nell’annuncio

che il Dio unico è da intendersi come amore? Eppure basta aprire la Bibbia per

ritrovare una serie di passi che testimoniano senza possibilità di smentita l’esistenza

di un lato oscuro della divinità.

Il mondo avrebbe potuto tranquillamente non esistere senza che per Dio in sé

mutasse nulla. Sorge però inevitabile la domanda: perché allora Dio l’ha creato? Che

cosa voleva? Qual è l’obiettivo di tale immane processo che si chiama mondo?

Queste e tante altre domande troveranno una risposta all’interno di questo

libro; un libro che porta avanti una visione antinomica della realtà. La realtà infatti

40

non è solo logos, ordine, ma è anche caos, disordine. Allora Mancuso elabora la

cosiddetta “formula del mondo”: logos + caos = pathos, perché è la passione che

regge il mondo e ne rispecchia la logica dell’universo.

2.2 Nuclei tematici

Dopo aver esposto cronologicamente le tematiche fondamentali che Mancuso

affronta nei suoi libri, adesso è opportuno procedere per nuclei tematici.

I problemi essenziali che si pone Mancuso si intrecciano tra di loro: la tematica

del bene, l’esistenza di Dio o il mistero di Dio e il problema del male, l’origine del

male, il modo di riconciliare il senso della natura e l’idea del bene, la questione

dell’anima, la filosofia della natura, la questione del principio passione, la creazione,

il ruolo cosmico di Cristo e tante altre tematiche.

2.2.1 Dalla traccia del bene a Dio

In questo senso uno dei concetti più importanti per Mancuso è il bene. Ma che

cos’è il bene? È possibile definirlo? Nell’opera Rifondazione della fede, Mancuso

dedica un intero capitolo al bene, e in particolar modo all’esistenza del bene e alla

sua definizione, elaborandone in conclusione anche una teologia.

Secondo Mancuso il bene è un fenomeno raro. Ma per quanto raro possa

essere, il bene c’è; ed è un fenomeno prettamente umano. Il bene è sempre

41

proporzionato all’uomo; bene e male, senza l’uomo, non si possono neppure pensare;

sono due concetti antropocentrici. È mai possibile definire il bene? Mancuso ritiene

che «gli uomini vivano lo strano paradosso di essere giunti in possesso di conoscenze

superbe sulla struttura del mondo, dell’universo e della vita (…) e di continuare a

ignorare che cosa è bene (e conseguentemente che cosa è male) per la loro vita. Ciò

che è ritenuto bene da alcuni viene ritenuto male da altri»22

. Ciò che però unisce

profondamente gli uomini è la dimensione morale. Affinché ci sia il bene è

fondamentale che un’azione venga compiuta senza nessun interesse di guadagno

personale; è necessario quindi realizzare l’oggettività dell’azione perché ci possa

essere il bene. Ma il bene, nella sua pienezza, non si può realizzare a livello

orizzontale, cioè tra gli uomini. La pienezza del bene è qualcosa che riguarda la

relazione dell’anima umana con la dimensione verticale, alimentando il profondo

senso interiore di bene e di giustizia che abita l’anima umana.

Ma così come non basta solamente la soggettività per realizzare il bene, allo

stesso modo non basta nemmeno l’oggettività. Il bene, infatti, nasce dall’unione di

condizioni oggettive e di disposizioni soggettive; il bene è l’unione di due cose, la

motivazione interiore e l’atto che si compie. Bisogna tramutare le buone intenzioni in

azioni, in lavoro concreto. La massima realizzazione del bene si ha quando si agisce

in favore dell’altro, senza però riporre nell’altro il proprio centro. Ma per realizzare il

vero bene occorre essere liberi, non solo dagli altri, ma anche da se stessi, e Mancuso

osa dire anche da Dio, perché «la libertà è ciò che Dio vuole da noi, una libertà

totale, anche da lui e dalla sua legge. Solo a questo prezzo, nasce il vero bene. […] È

22

V. Mancuso, Rifondazione della fede, op. cit., p. 160.

42

un’impresa difficile il bene puro, è la più grande opera d’arte che può compiere

l’anima umana, e sono pochi coloro che vi arrivano»23

.

Il concetto di Dio esprime l’intuizione filosofica dell’identità tra la verità e il

bene. Del resto, il bene dell’uomo è proprio la verità. Per il cristianesimo la verità è

relativa al bene dell’uomo concreto.

Si è soliti contrapporre il bene al male, invece Mancuso ritiene che il bene si

contrappone alla forza e non al male. Il bene puro è assoluto, non genera alcun male.

L’essenza del bene consiste nel darsi gratuitamente agli altri, del donarsi

incondizionatamente agli altri, nel farsi nutrimento per gli altri; esempio perfetto di

questo bene assoluto è Cristo. Questa è la struttura non solo ontologica, ma anche

esistenziale del bene. Chi vive l’amore assoluto, vive lo specifico del cristianesimo.

È questa forma della vita che fa di un uomo un cristiano, non il certificato di

battesimo24

, dice Mancuso. Chi ama non può non agire per il bene, non può non

porre il bene. La dimensione autentica del cristianesimo consiste nel fatto che lo

spostamento del baricentro dell’Io non è annullamento della libertà per obbedire alla

legge, ma è ritrovamento della persona nella comunione interpersonale. Il

cristianesimo deve essere visto alla luce della categoria di relazione. Si è soliti

pensare che gli uomini che credono in Dio agiscano bene e per il bene, e chi invece

non crede in Dio agisca male e per il male. Mancuso invece sostiene che la realtà

attesta molto spesso il contrario, cioè attesta l’esistenza di uomini che, senza credere

in Dio, agiscono bene e per il bene, e il caso opposto di credenti che agiscono male e

per il male.

23

Ivi, p. 164. 24

Cfr. V. Mancuso, Rifondazione della fede, op. cit., p. 176.

43

Secondo Mancuso occorre pensare che

l’affermazione del bene è più originaria rispetto all’affermazione di Dio, è la

conditio sine qua non per entrare nell’autentica dimensione della trascendenza

divina. […] Si può anche negare esplicitamente Dio e però fare il bene, agire

giustamente, e così, essere comunque nell’orizzonte di Dio che è quello del

bene, perché ubi charitas ivi Deus. Non è la fede dichiarata a parole che salva,

ma la carità25

.

Quindi anche un ateo può incontrare Dio, basta soltanto essere disposti ad

uscire dal proprio egoismo per entrare nella dimensione del bene, perché se c’è il

bene, c’è Dio. E il bene c’è. Quindi il bene va considerato sopra ogni cosa, anche al

di sopra di Dio, perché nel nome di Dio sono stati commessi i crimini più assurdi,

dalle persecuzioni alle crociate, invece chi vuole veramente il bene, non commetterà

mai il male. Dunque anche l’idea di Dio come amore va subordinata all’idea del

bene. In un certo senso il bene e l’amore sono la stessa cosa, considerata però da due

punti di vista differenti: il bene dal punto di vista oggettivo, e l’amore dal punto di

vista soggettivo. È necessario che l’amore sia subordinato al bene; se questa

subordinazione viene a mancare, l’amore può generare sia il bene sia il male. Da ciò

si evince il primato del bene su ogni cosa, anche su Dio.

25

Ivi, p. 177.

44

2.2.2 Dio

È senza alcun dubbio riduttivo parlare di Dio in un solo paragrafo, ma quello

che qui si vuole affrontare riguarda la relazione che intercorre tra ciò da cui tutto

deriva e si origina, e i due poli che orientano la vita e la condotta degli uomini sulla

terra, ovvero il bene e il male. Infatti, se da un lato si può affermare la superiorità del

bene rispetto a Dio, dall’altro che relazione c’è tra Dio e il male? Ma prima di far

addentrare il lettore nell’immenso oceano del male che travolge anche Dio, è

doveroso fare degli accenni al modo in cui Mancuso concepisce Dio.

Secondo Mancuso, Dio non è un nome proprio; neppure è un nome di cosa

concreta; nemmeno è un nome di concetto astratto. Il termine Dio è piuttosto un

termine relativo, esprime cioè una relazione, designa un rapporto. Proprio per questo

però senza il mondo Dio non è dio, perché non ha il termine con cui relazionarsi

costituendosi come il dio. Senza gli uomini e senza le loro combinazioni di

sentimenti (sofferenze, amori e speranze) non potrebbero sorgere le condizioni di

possibilità del divino. Vi sarebbe un assoluto, cioè un’unica sostanza del tutto priva

di relazioni, ma non un dio. In questo senso quindi la creazione del mondo coincide

con la creazione di Dio.

Mancuso, a proposito di Dio, si chiede: Perché gli uomini ne parlano da

sempre? Che cosa c’è in gioco? Ciò che è in gioco nel concetto di Dio non è un ente

misterioso, ma il fatto che l’essere, e quindi la vita come parte dell’essere, abbia un

fondamento, e che tale fondamento sia razionale ed eterno. La fede in Dio si

qualifica come fiducia nella vita e nel suo destino. Mancuso intuisce che la radice dei

mali del nostro tempo consiste nell’incapacità della nostra cultura di pensare Dio

laicamente, filosoficamente, quale fondamento razionale e logico dell’essere.

45

Lasciato alle prediche, occorre tornare a parlarne nelle piazze e nelle università. A

questo proposito, Mancuso fa presente ad Augias (nel libro Disputa su Dio e

dintorni) e quindi anche al lettore, che in Italia non esistono facoltà laiche di

teologia, come accade, invece, negli altri grandi paesi occidentali. Quello che qui

l’autore vuole dire consiste nell’abbracciare la giustizia della vita, nel fidarsi della

vita, nell’affidarsi alla sua logica relazionale che porta ogni uomo all’esistenza. La

vera posta in gioco, nella disputa tra la fede in Dio e l’ateismo, è la fiducia verso la

vita.

Mancuso intende «pensare e parlare di Dio al cospetto del mondo e del suo

sapere, nel mezzo di questa vita meravigliosa e terribile»26

, e comincia col dire che in

relazione a Dio, ogni essere umano è nella stessa identica condizione di tutti gli altri

esseri umani, che non è tanto quella di sapere o di non sapere, ma piuttosto quella di

dipendere. È, infatti, una questione che ha a che fare con la totalità della vita e tutti

gli uomini, a prescindere dalla volontà di ogni singolo essere vivente, dipendono. Il

termine «Dio» rimanda al principio di tutte le cose, e quindi anche alla fine di tutte le

cose. Dire che Dio è il principio di tutte le cose significa dire non solo che le ha

create, ma che le sostiene ora, le mantiene in esistenza ora. Il dramma della nostra

epoca, sostiene Mancuso, è che siamo molto progrediti quanto a conoscenze

scientifiche, tecniche, e che, di contro, il livello della nostra conoscenza di Dio è

rimasto per lo più quello del passato. Il dramma di noi occidentali è di non avere più

una religione all’altezza delle esigenze del nostro tempo. Il risultato è una società

senza religione27

. La religione è vera e degna di un essere umano responsabile nella

misura in cui relaziona il singolo individuo al principium di tutte le cose.

26

C. Augias – V. Mancuso, Disputa su Dio e dintorni, op. cit., p. 38. 27

Cfr. C. Augias – V. Mancuso, Disputa su Dio e dintorni, op. cit., p. 96.

46

Dio viene considerato quindi «principio di tutte le cose». Tale principium è da

distinguere accuratamente dal mero inizio. Mancuso fa un esempio sperando di

rendere più chiara la differenza tra inizio e principio. L’inizio si può paragonare al

suono della campanella prima della lezione, la quale, una volta iniziata, non ha più

nulla a che fare con l’evento esteriore che le ha dato il via. Il principio invece

accompagna sempre il fenomeno. Il migliore esempio al riguardo è l’amore tra due

esseri umani, che è il principio della loro unione nel senso che ne è sì la causa

iniziale, ma ne è anche la forza che li sorregge nel tempo e la meta verso cui essi

camminano. Allo stesso modo se si parla di «Dio» ci si riferisce al principio

dell’essere-energia, cioè a ciò che ne costituisce la sorgente iniziale; a ciò che ne

rappresenta il principio ordinatore che ne bilancia la tendenza al disordine e al caos e

a ciò che ne prefigura la meta.

Va dunque recuperata la dimensione ontologica sottesa al termine Dio. Dio non

può essere pensato

come totalmente altro rispetto al mondo, come totalmente estraneo rispetto

all’uomo. Pensare Dio comporta comprendere che nulla gli è estraneo o

indifferente, ma tutto appartiene a Lui. Questo comporta l’affermare che Dio è

la verità del tutto. Pensare Dio comporta pensare il tutto. Emerge quindi la

consapevolezza della profondità ontologica connessa al termine Dio, pensato

come la sostanza di tutte le cose, la verità28

.

L’ordine che, a livello fisico, produce il nostro organismo, a livello etico

emerge nella nostra mente manifestandosi come esigenza di giustizia. E questo

28

Cfr. V. Mancuso, Hegel teologo. E l’imperdonabile assenza del «Principe di questo mondo»,

Edizioni Piemme, Asti 1996, pp. 215-216.

47

costituisce, agli occhi di Mancuso, un argomento molto forte a favore dell’esistenza

di una dimensione eterna dell’essere, dagli uomini convenzionalmente chiamata Dio.

La visione tradizionale della teologia intende Dio in quanto Creatore come

causa efficiente, finale, formale e materiale del mondo. La tradizione religiosa però

deve fare i conti con le rivoluzioni scientifiche della modernità, e quindi con le

scoperte della scienza. A questo punto non è più possibile affermare che Dio è la

causa efficiente del mondo poiché si è scoperto che la natura non ha padroni, è libera,

ma al contempo è orientata. Secondo la visione tradizionale, Dio fornisce al mondo

la forma in quanto appunto causa formale. Ma l’essere-forma di Dio rispetto al

mondo è paragonabile non a un disegno ma a una tensione. L’esperienza infatti

attesta che il mondo è un processo continuo di aggregazione e disgregazione, di

logos e caos. Dio come télos va inteso come una tendenza che spinge il disordine ad

andare controcorrente verso l’ordine. Secondo il cristianesimo, Dio è causa materiale

del mondo, nel senso che la materia viene all’esistenza grazie alla sua parola laddove

prima non vi era nulla. La dottrina della creazione dal nulla esprime

l’unicità del principio dell’essere ovvero il monoteismo, mentre l’ordinamento

del caos esprime l’esperienza vitale secondo la quale la provenienza dell’essere

dal principio divino non è mai conclusa ma deve in ogni istante lottare per

affermare se stessa. Occorre quindi un concetto di creazione che possa

conciliare il modello della creatio ex nihilo con il modello dell’ordinamento del

caos. Tale conciliazione può avvenire solo a una condizione: che anche il caos

sia a sua volta creato da Dio. Se il mondo all’inizio non fosse stato caotico, la

libertà non avrebbe potuto nascere; e se ora il mondo cessasse di essere caotico,

la libertà verrebbe meno. Il caos quindi è una caratteristica intrinseca della

natura creata, la quale è strutturalmente logos + caos, e ciò porta a concepire la

creazione come un processo continuo di ordinamento del mondo a partire dallo

stato caotico iniziale. Il caos che pervade l’essere del mondo è la conditio sine

48

qua non della libertà. La posizione tradizionale del cristianesimo che esclude

ogni identificazione di Dio con la natura, ha il vantaggio di preservare sia la

trascendenza di Dio sia la bontà del mondo; ha lo svantaggio però di trovarsi in

difficoltà nel raccordare l’azione di Dio e la libertà del mondo29

.

Mancuso pensa che l’identificazione di una nuova forma di energia denominata

energia oscura, possa consentire di raggiungere l’unità dell’essere e insieme di

mantenere la distinzione all’interno dell’essere tradizionalmente espressa mediante lo

schema natura-sovrannatura. Dio viene pensato come realmente trascendente senza

quindi cessare di essere immanente. Quindi per ogni uomo che viene sulla terra la

partita della vita è sempre tra Io e Dio. Ma quando si parla di Dio non si può non

prendere posizione circa il problema del male. Mancuso «comincia con il dire che

ogni discorso su Dio, oggi come sempre, non solo non può prescindere dal problema

del male, ma prende veramente senso solo a partire da lì»30

.

2.2.3 Dio e il male

Unde malum? Il problema del male interroga da sempre la mente dell’uomo.

Questo processo di annullamento, o forse sarebbe meglio dire di depotenziamento

della presenza del male nelle vicende umane, assume da sant’Agostino in poi la

forma della «teodicea». La teodicea nega la realtà sostanziale al male e ne iscrive le

manifestazioni dolorose in un disegno provvidenziale. In questo modo, il problema

del male diventa il problema di come Dio sia compatibile con il male. Ogni teodicea

29

V. Mancuso, Il principio passione, op. cit., pp. 39-40. 30

C. Augias – V. Mancuso, Disputa su Dio e dintorni, op. cit., p. 140.

49

ha una finalità assolutoria nei confronti di Dio: non è Dio ma sono gli uomini i

responsabili delle azioni malvagie, e queste rientrano nel complessivo sistema della

giustizia divina. Nel Novecento, dopo Auschwitz, sono i campi di sterminio che

rendono impossibile pensare il male come una semplice privazione di bene o

giustificarlo in un disegno di giustizia provvidenziale. È solo con Auschwitz che il

problema del male si ripropone in tutta la sua forza e in tutta la sua portata

devastante, e si ripropone in un modo totalmente diverso rispetto al passato. Qui il

male è assoluto, indicibile. Qui il male entra nell’essenza di Dio, e la presenza del

male in Dio ne decreta l’impotenza. Lo sterminio di sei milioni di ebrei rappresenta

un limite alla comprensibilità del male. All’idea di un male assoluto si affianca l’idea

di un male assolutamente imperdonabile. Sono soprattutto gli ebrei a relazionare il

male assoluto a Dio; ad esempio Hans Jonas giunge persino a negare a Dio

l’onnipotenza, perché sostiene che Dio è buono ma non onnipotente, e quindi non è

in grado di eliminare il male. Ovviamente il male, sotto forma di violenze ed offese,

si manifesta imprescindibilmente; è nella natura umana e finché ci sarà l’uomo ci

sarà anche il male.

Ma il male, secondo Mancuso, esiste solo in relazione al bene. È proprio

perché il bene esiste che può essere corrotto e violato. E questa corruzione del bene è

ciò che viene denominato male31

. Il male appare solo quando ci si pone dal punto di

vista dell’uomo e del suo bene; infatti, come già detto, bene e male sono due concetti

antropocentrici. Ma la domanda che da sempre affligge l’uomo è: Unde malum?

Mancuso si pone questa domanda in tutti i modi e in quasi tutti i suoi libri, a

cominciare dalla sua tesi di dottorato su Hegel.

31

Cfr. V. Mancuso, Rifondazione della fede, op. cit., p. 180.

50

L’esistenza del male non smentisce l’esistenza di Dio, anzi in un certo senso la

prova perché dimostra l’esistenza di un ordine di bene senza il quale non si potrebbe

neanche parlare di male. Ma, di fronte alla lacerante antitesi tra Dio e il male, il

pensiero deve assumere una determinata direzione, deve decidere come pensare

l’assolutezza di Dio senza attribuirgli il male, e come non attribuirgli il male senza

porre due principi? Tradizionalmente tali quesiti vengono risolti a partire dalla

ribellione degli angeli. Alla “domanda più antica” Mancuso risponde così: «Se

veramente si vuole riconoscere il male come male, l’assurdo come assurdo, e il nulla

come nulla, occorre porre la caduta, la reale scissione, l’effettivo cambiamento di

signoria sulla storia del mondo. Occorre riconoscere l’angelo della luce e la sua

ribellione»32

. Da ciò si può dedurre che Mancuso attribuisce il male non al peccato

del primo uomo (questione tra l’altro molto importante in Mancuso e che verrà

affrontata più avanti) ma alla ribellione dell’angelo, al “principe di questo mondo”.

In un altro libro, Il dolore innocente, Mancuso pone nuovamente il dilemma tra

l’onnipotenza divina e la somma bontà anch’essa divina, sintetizzato nella massima

latina “Si Deus est, unde malum?”, con la differenza però che qui Mancuso non si

riferisce al male in senso generico, ma ad un male del tutto specifico che tocca il

sorgere della vita umana. Quindi il problema qui non ha niente a che vedere con il

male causato dal libero agire umano, cioè il male morale, ma riguarda quel male di

cui l’uomo non è colpevole ma solo vittima, cioè il male fisico; questo male fisico di

cui parla Mancuso trova nell’handicap un’emblematica manifestazione. Nel caso

dell’handicap ci si trova di fronte a un male che tocca direttamente l’attività creatrice

32

V. Mancuso, Hegel teologo, op. cit., p. 364.

51

di Dio in quanto padre dell’uomo, e che quindi pone in crisi la relazione naturale

Dio-uomo. Si profila così un’unica alternativa che impone una scelta radicale:

o assolvo Dio dalle malformazioni genetiche prenatali, ma conseguentemente

neppure gli attribuisco più alcun merito, provvidenza, disegno, vocazione per le

nascite normali; oppure gli imputo gli handicap, e di conseguenza posso

legittimamente continuare ad attribuirgli anche disegni provvidenziali,

vocazioni, ecc... Il concetto disputato è esattamente quello del legame naturale

tra Dio e l’uomo33

.

Tra Dio e la natura si è intromessa la libertà. E la natura, a sua volta, riflette

questa libertà, è questa libertà, questa autonomia che la sottrae al controllo di Dio. La

creazione porta dentro di sé la necessità che Dio soffra, che Dio venga sacrificato. È

un’assurdità che Dio debba soffrire, ma questa assurdità è l’unico spazio concettuale

per pensare l’assurdità dei bambini nati malformati. L’handicap è il prezzo che si

paga a una creazione libera, lo stesso prezzo pagato dal Padre con l’immolazione del

Figlio.

In Rifondazione della fede, Mancuso dedica un intero capitolo, il quinto

precisamente, al problema del male, dopo aver trattato nel capitolo precedente il

tema del bene. Per Mancuso il male entra in scena solo dopo che è entrato in scena il

bene, come sua corruzione. Senza il bene, il male non potrebbe esserci. Il bene è

originario; il male invece è parassitario. Gli uomini al bene preferiscono il male.

Perché? Perché gli uomini sono più attratti dal male invece che dal bene? Mancuso

sostiene che

33

V. Mancuso, Il dolore innocente, op. cit., p. 101.

52

gli uomini sono attratti più dal male che dal bene perché vi vedono la forza.

Quando il bene giunge a esercitare su di loro un’attrazione maggiore, è perché

risulta più forte del male. Gli uomini non sono perversi, non amano il male per

il male, non sono demoniaci (anche se lo possono diventare). Gli uomini al bene

preferiscono il male perché, la gran parte delle volte, lo vedono più forte. Ciò

che al fondo li seduce, ciò che li conquista, ciò che tiene in ostaggio i loro cuori

e le loro menti, è la forza34

.

La dogmatica cattolica, per quanto concerne il tema del male, si basa su tre

assunti: il male c’è; Dio non lo vuole; Dio governa. La teologia tradizionale non

rinuncia a nessuno dei tre assunti, ma non sa come comporli con logica. E allora

ammette il mistero. Nel Catechismo si legge: «Dio permette che ci siano i mali per

trarre da essi un bene più grande»; e poi si legge anche: «Dio non è in alcun modo,

né direttamente né indirettamente, la causa del male». Ora, è evidente l’impossibilità

logica di far convivere queste due prospettive. Mancuso risolve l’aporia dicendo che

dei tre assunti è il terzo che va corretto, riformulando il concetto di tale governo. Il

governo divino si attua mediante un impersonale principio ordinatore immanente

all’essere, il cui scopo è la nascita della vita spirituale e quindi della libertà che essa

suppone. Per generare lo spirito il mondo deve essere libero, e proprio questa sua

libertà è all’origine del disordine che si chiama «male», sia in quanto male fisico sia

in quanto male morale. Quindi, la libertà umana con i suoi cedimenti non è la causa

del male ma ne è piuttosto una manifestazione.

Ritorna ancora una volta la domanda aporetica: Unde malum? La questione del

male per il cristianesimo è davvero centrale, e per rispondere a tale questione la

34

V. Mancuso, Rifondazione della fede, op. cit., p. 45.

53

teologia rimanda alla storia di Cristo. La passione-morte di Gesù costituisce

l’ingresso di Dio nelle più estreme regioni del negativo. Ma, come dice Mancuso, la

spina rimane: perché il male ha un peso così soverchiante nel mondo, tanto da

giungere a schiacciare lo stesso Figlio di Dio fatto uomo? Perché, se Dio c’è e conta

qualcosa, il mondo è fatto così? Chi comanda nel mondo? Dio o qualcun altro? Il

male e la questione della sua origine è la spina nella carne viva che inquieta l’uomo

che crede in un bene assoluto, una spina che, fino a quando non sarà estirpata,

produrrà sofferenza, dolore, lacrime, inquietudine, ricerca, pensiero. Il conflitto tra il

bene e il male è la molla che ha elevato l’uomo dal piatto livello della natura,

facendo sorgere in lui lo spirito. Il male nasce quando si vede il bene, si sente il suo

richiamo, e lo si rifiuta, anzi lo si utilizza solo per sé. Il male è spirituale. Il male, per

nascere, suppone la libertà che sente il richiamo del bene e che al bene dice no.

Anche Epicuro si occupa del problema del male e si chiede: se Dio è onnipotente e

buono, unde malum? si stabilisce così che o Dio è buono o è onnipotente: il male è

l’esperienza che divide, nel concetto di Dio, la bontà dall’onnipotenza. Ma la croce

ritrascrive completamente il concetto di potenza, e lo fa sulla base del concetto del

bene. L’incarnazione non è da intendersi come ingresso di Dio nella storia, ma come

ingresso di Dio nell’uomo. Se Dio è nel mondo, non lo è direttamente, ma solo

indirettamente, in quanto legato all’anima umana.

54

2.2.4 L’anima

A questo punto è giunto il momento di affrontare in modo esplicito il concetto

di anima. All’anima e al suo destino, Mancuso dedica uno dei suoi libri più

importanti. Mancuso si chiede:

Perché negli uomini è sorta la necessità di parlare dell’anima? […] A che cosa è

funzionale la divisione che l’uomo ha posto al suo interno, distinguendo dal suo

corpo una dimensione che ha chiamato anima? La risposta sta nella sete di

giustizia e di bene che abita l’uomo e che, in questo mondo, risulta sempre e

necessariamente inappagata. […] L’anima e lo spirito dicono la leggerezza che

ci abita, se la sappiamo scoprire. Noi non sappiamo da dove viene e dove va la

nostra anima. Ma tutto il senso della vita, di questa nostra esistenza che passa,

sta solo nel cercare una risposta al riguardo. Non c’è nulla di più importante35

.

Sulla questione dell’anima, alcuni filosofi scrivono a favore della sua esistenza,

altri invece scrivono per spiegarne la sua inesistenza. Nessuna della due ipotesi riesce

a prevalere sull’altra. C’è da dire che l’uomo si trova nel mondo come una qualunque

altra cosa dell’universo, ma, nello stesso tempo, in modo del tutto diverso rispetto a

ogni altra cosa dell’universo. Ciò che costituisce questa differenza è l’anima. La

posizione dell’anima è la spiegazione meno inadeguata della più grande ricchezza

che contraddistingue l’uomo rispetto a ogni altro ente dell’universo: la libertà.

Il pensiero che parla dell’anima e cerca di fondarne il sapere si muove

nell’orizzonte della libertà. Se c’è la libertà, c’è l’anima. Per questo, se si nega

l’anima, si nega in radice la libertà. L’uomo è l’unico essere vivente che può avere

una vita indipendente dall’animalità. L’esistenza dell’anima spirituale è l’unico

35

V. Mancuso, Rifondazione della fede, op. cit., pp. 218-219.

55

fondamento della vita indipendente dell’uomo, della sua libertà che si decide per il

bene e la giustizia. L’anima e la vita morale, aderendo in modo puro e incondizionato

al bene, conducono alla trascendenza. Senza l’uomo, Dio non esiste nel piano

superficiale dell’essere. Ma vi è un livello superiore, che è la dimensione spirituale,

sul quale invece Dio esiste. A questo livello superiore dell’essere si giunge solo

attraverso la fede umana, generata dall’esperienza del bene. Per questo a Dio si

accede solo soggettivamente. Poi però, una volta compiuto questo ingresso da parte

del singolo soggetto, è l’oggetto che detta le sue leggi.

La categoria di anima esprime il pensiero della specifica differenza dell’uomo

rispetto al mondo, ovvero il pensiero della libertà, perché solo l’uomo può toccare la

libertà. Affermare l’anima significa sostenere che

per quanto legato al corpo, l’uomo è in grado, se lo vuole, di trascendere le sue

necessità e di vincerle. Il segnale dell’avvenuta vittoria sulla necessità naturale

sta nella spiritualità, attestata (…) dall’esperienza etica della gratuità e della

giustizia, la creazione più alta. Se gli uomini hanno coniato il termine anima è

per rendere ragione di questa esperienza primordiale: noi siamo più del mondo,

noi siamo liberi36

.

Mancuso sostiene che tutto ciò che si trova negli uomini proviene dalla natura-

physis, la quale produce un lavoro che non è riducibile alla sola materia, in quanto

può produrre un livello superiore di essere, lo spirito, definibile come la vita

dell’energia a prescindere dalla materia, e quindi in grado di sussistere anche dopo la

dissoluzione della materia del corpo. Non c’è nulla di fermo, nulla di statico, nessuna

sostanza: il segreto dell’essere è il movimento. Nel corpo umano, l’energia che

36

V. Mancuso, L’anima e il suo destino, op. cit., p. 52.

56

scaturisce dal movimento non si racchiude completamente nella configurazione della

materia, ma presenta un surplus. Tale surplus di energia rispetto alla massa della

materia è ciò che rende il corpo vivente, animato. Questo surplus di energia è il

segreto della vita: è l’anima. Senza questa comprensione fondamentale dell’essere

come energia, non si dà ragione della vita, la quale esiste proprio perché non è

riducibile, come lo è invece una pietra, alla materia inanimata. Il movimento interno

all’essere che costituisce la differenza tra la vita e la non vita è stato visto dagli

uomini già molti secoli fa ed espresso mediante il termine anima. Di essa si sono

distinti diversi livelli, di cui i primi due sono l’anima vegetativa e l’anima sensitiva.

Le piante, in quanto esseri viventi, sono per ciò stesso dotate di un’anima, l’anima

vegetativa. Anche gli animali hanno un’anima; tutti gli animali, per il fatto stesso di

essere animati, cioè di muoversi da sé, hanno un’anima, l’anima sensitiva, che

contiene in sé le proprietà dell’anima vegetativa ma le supera.

Nell’immenso mondo della vita il più complesso organismo conosciuto è

l’essere umano. In esso ci sono funzioni vegetative e funzioni sensitive di cui ha

coscienza, come per esempio la fame, la stanchezza, ecc. L’anima sensitiva negli

uomini si chiama carattere, temperamento, psiche. Ma in essi vive anche la luce

dell’intelletto. Gli esseri umani rappresentano il livello superiore dell’essere che

diviene consapevole di essere ordinato e dotato di forma. Tale consapevolezza

acquisita da parte degli uomini viene espressa col termine mente, dentro cui sono

racchiusi altri termini quali intelligenza, intelletto, coscienza, ragione. La mente è più

del cervello; il cervello costituisce la vita biologica, la mente invece quella razionale.

L’anima razionale viene formata e modellata per lo più dalla famiglia d’origine, la

quale, a sua volta, risente della particolare cultura nella quale è inserita, della città e

57

della nazione in cui vive. Tutte queste componenti contribuiscono a formare quel

livello di energia consapevole che viene chiamata appunto anima razionale.

La mente ora vede il manifestarsi in se stessa di una realtà ancora superiore: lo

spirito. Lo spirito è più della mente. Mancuso definisce lo spirito come «l’emozione

dell’intelligenza per la nobiltà della legge morale che si trasferisce in filosofia e

produce la perfetta giustizia dell’imperativo categorico kantiano; lo spirito è

l’emozione dell’intelligenza per il senso di fratellanza e di unità del genere umano

che si trasferisce nella religione e dà la formula universale della regola d’oro»37

.

Questo lavoro, che costituisce la differenza tra comprensione del mondo e creazione

di qualcosa che nel mondo prima non esisteva, viene espresso mediante il termine

spirito, considerato la punta dell’anima. Cuore è il termine che esprime al meglio la

totale dedicazione di sé da parte dell’uomo alla dimensione dello spirito. E il cuore è

l’organo spirituale per eccellenza. Lo spirito agisce nella cultura umana a tutti i

livelli. Parlando di spirito, il riferimento a Dio è quasi obbligatorio. Quando l’uomo

accede alla dimensione dello spirito, tutto il suo essere viene trasformato. La via

dell’interiorità, del lavoro onesto su se stessi mediante l’esposizione alla luce del

bene e della giustizia, è l’unica via per entrare nell’autentica dimensione dell’essere,

per vincere le illusioni del tempo e attingere l’eternità. Quindi si può affermare che

l’anima è ciò che “forma” il corpo, è il principio ordinatore del corpo. Questo corpo è

essenzialmente rapporto, legame, relazione. Mancuso sostiene che

prima c’è la relazione, e poi la sostanza. Ma la relazione vuole e deve diventare

sostanza. Le relazioni hanno prodotto legami, e i legami hanno prodotto

37

V. Mancuso, L’anima e il suo destino, op. cit., p. 64.

58

sostanze. E le sostanze producono altre sostanze sempre più complesse, fino alla

vita umana38

.

2.2.4.1 L’origine dell’anima

La questione che sta maggiormente a cuore a Mancuso è quella concernente

l’origine dell’anima. La Chiesa cattolica sostiene che l’anima spirituale è creata

direttamente da Dio senza alcun concorso dei genitori. Mancuso invece sostiene che

l’anima, anche nella sua dimensione spirituale, viene dal mondo, cioè solo

indirettamente da Dio, e che però conduce, se attuata in tutte le sue potenzialità,

direttamente a Dio.

Diverse sono le teorie che nel corso della storia gli uomini hanno elaborato al

riguardo. C’è chi sostiene, come Leibniz, che c’è stata un’unica creazione divina di

tutte le anime; queste anime poi si congiungono ai corpi secondo un destino che non

è dato sapere. C’è chi invece, come Plotino, soffermandosi sul problema ontologico,

ha pensato l’origine delle anime come emanazione della stessa sostanza divina,

ritenendo che Dio tragga le anime da se stesso, sicché l’anima è un frammento di

Dio. C’è infine chi ha pensato che l’anima venga direttamente da Dio a partire dal

nulla o nell’istante stesso del concepimento. Quest’ultima posizione, detta

creazionismo, è quella assunta dalla Chiesa cattolica. Mancuso non ritiene

razionalmente sostenibile l’interpretazione della nascita dell’anima come diretta

creazione da parte di Dio senza alcun concorso dei genitori. Questa tesi di Mancuso

trova la prima attestazione già nel V secolo. Infatti, all’epoca, papa Anastasio

38

Ivi, p. 73.

59

condannava come eretica l’opinione secondo cui i genitori conferiscono lo spirito

dell’anima vitale. La tesi di Mancuso, sostenuta nel corso della storia da molti

teologi, tra cui Antonio Rosmini, veniva ritenuta la più conforme all’essenza del

cristianesimo e l’unica razionalmente sostenibile. Mancuso sostiene che

non esiste nessuna argomentazione per legare la spiritualità dell’anima al suo

essere creata direttamente da Dio. Certo che l’anima è creata da Dio, ma allo

stesso modo del corpo e di ogni altro oggetto del mondo, cioè indirettamente,

con la mediazione dell’impersonale sapienza ordinatrice che nel suo caso si

estrinseca attraverso i corpi dei genitori39

.

Non c’è nessuna azione divina che prescinda dal mondo e dalle sue regole. Il

senso di questo libro si gioca per la gran parte qui.

Mancuso ritiene razionalmente impossibile sostenere che l’anima sia immortale

perché viene direttamente da Dio, visto che nulla viene direttamente da Dio, ma tutto

viene indirettamente da Dio tramite la mediazione del mondo. Ritiene altresì

razionalmente impossibile sostenere che l’anima sia immortale se non diventa Spirito

santo, cioè divino. Qualcosa può essere immortale solo in quanto è divino, e l’anima

può essere divina. L’anima diviene divina quando cessa di voler diventare qualcosa

di importante, di affermare se stessa, di essere qualcuno. Quando l’anima si fa

povera, è rientrata in se stessa, è divenuta parte consapevole dell’essere di Dio, è

diventata divina, quindi immortale. L’anima diviene divina nella misura in cui si

lascia abitare dal bene, il bene oggettivo come relazione ordinata che è il principio

del mondo. L’anima che si espone al bene diviene sovra-naturale, quindi immortale.

39

V. Mancuso, L’anima e il suo destino, op. cit., p. 88.

60

Mancuso pensa che sia il mondo a produrre lo spirito e che sia la stessa logica

del mondo, se rettamente intesa e praticata, a condurre all’immortalità. È dal mondo

e dalla sua sapienza che provengono sia la spiritualità dell’anima sia la sua

immortalità, senza bisogno di chiamare in causa direttamente Dio.

Coloro che hanno sostenuto che l’anima dei figli viene generata dai genitori si

dividono a loro volta tra chi pensa la generazione dell’anima in termini corporei e chi

in termini spirituali. Mancuso accetta la seconda posizione, nota come

traducianesimo spirituale. Essa afferma che la sostanza spirituale dell’anima deriva

dall’anima e dal corpo dei genitori nello stesso momento della generazione del corpo.

Secondo Mancuso la posizione corretta è quella di chi ritiene che l’anima (dotata

subito di individualità, e potenzialmente di spiritualità e immortalità) viene dal

mondo. In che modo l’anima viene dal mondo? Mediante la generazione umana.

Come sono all’origine del corpo, allo stesso modo i genitori sono all’origine

dell’anima. La nostra dimensione psichica dipende radicalmente da chi ci ha dato la

vita. E che altro è la dimensione psichica se non l’anima al livello di anima sensitiva?

Ma siccome non ci sono diverse anime, ma ce n’è una sola, si deve pensare che è

solo dall’educazione di quest’anima sensitiva che si può sviluppare prima l’anima

razionale, poi l’anima spirituale, orientata sempre e solo al bene, cioè santa. Ed è

solo a quest’ultimo livello che si deve pensare a un intervento diretto di Dio come

azione dello Spirito santo. A seguito dell’incontro con l’Idea del bene l’anima

subisce una mutazione, una conversione, e comincia a poco a poco a diventare un

sistema centrifugo, dove l’amore e non l’egoismo, la verità e non il potere, la

giustizia e non l’interesse, sono la meta.

61

Chi pensa che Dio infonda direttamente l’anima spirituale e immortale al primo

istante del concepimento, pensa l’anima come una sostanza separata. Ma se non

discende direttamente da Dio, non per questo l’anima spirituale non esiste. Esiste, e

se ne può pensare l’origine a partire dal basso, cioè dall’analisi dell’esistenza

naturale nella sua concretezza. Un essere umano, nascendo, ha l’anima vegetativa

come principio di vita. Dopo alcuni giorni si sviluppa in lui l’anima sensitiva.

Quando entra in contatto con la cultura mediante la famiglia, la scuola e la società, si

può parlare di anima razionale. Ma esiste un livello superiore, quello dello spirito. Si

attinge a questo livello entrando nella vita della cultura, partecipandone

interiormente. La cultura ora diviene bisogno intimo dell’anima. Quando l’anima

giunge a questo livello, conosce la vita spirituale, diviene anima spirituale. La

sapienza spirituale è la coscienza acquisita e praticata della vita come equilibrio e

come relazioni buone, durature, infallibili. L’anima diventa spirituale solo a contatto

con lo spirito, vale a dire solo a contatto con la piena umanità, perché è l’uomo lo

strumento dello spirito, anche dello Spirito santo.

Quindi si può affermare che non c’è la discesa dall’alto di qualcosa di diverso

rispetto al corpo, ma c’è la salita dal basso di qualcosa che si scopre diversa (più

ordinata) rispetto al corpo.

62

2.2.4.2 L’immortalità dell’anima

Dopo aver parlato dell’esistenza e dell’origine dell’anima, Mancuso affronta il

tema dell’immortalità dell’anima, considerato da Kant il quarto “paralogismo della

ragion pura”. L’immortalità dell’anima non conosce argomenti conclusivi, né a

favore né contro. È chiaro che sia così, perché in questo caso l’uomo si muove nel

campo del puro pensiero, senza che sia possibile un solo riscontro dell’esperienza

che valga allo stesso modo per tutti. Ma proprio perché si tratta di puro pensiero, la

domanda è allora se sia legittimamente pensabile qualcosa come l’immortalità

dell’anima. Mancuso pensa che si possa capire qualcosa sul destino che attende

l’uomo solo se si riflette attentamente sull’origine. La questione dell’origine (da dove

viene la vita?) è determinante non solo per la questione dell’essenza (che cosa è la

vita?) ma anche per quello dello scopo (a cosa è destinata la vita?). È solo sapendo da

dove viene l’uomo, che è possibile intuire qualcosa circa il suo destino.

Mancuso pensa che la legittimità di affermare una vita oltre la morte sia data

dalle quattro discontinuità che definiscono il cammino compiuto dall’essere-energia

a partire dal momento dell’inizio della sua espansione. Esse sono:

Il passaggio dal minuscolo puntino cosmico all’origine del Big Bang alla

vastità dell’essere;

Il passaggio dalla materia inerte alla vita;

Il passaggio dalla vita naturale all’intelligenza;

Il passaggio dall’intelligenza autoreferenziale alla morale e alla spiritualità.

63

Queste quattro discontinuità mostrano un cammino complessivo dell’essere-

energia dell’universo che va in una direzione contraria al disordine dovuto

all’aumento di entropia, un cammino che procede verso un aumento dell’ordine.

Come mai? – si chiede Mancuso – chi ha compiuto il lavoro necessario per

vincere l’entropia? Secondo l’opinione più diffusa, quella religiosa, è Dio che vince

l’entropia, e a Dio viene assegnato il ruolo di colui che tappa i buchi, tappa le lacune.

Mancuso condivide molte tesi sostenute da Dietrich Bohoeffer (1906-1945), teologo

luterano tedesco, noto soprattutto per la sua necessità di reinterpretare il

cristianesimo e di adattare il messaggio biblico ai problemi del mondo

contemporaneo. Bonhoeffer, contro la tradizionale mentalità religiosa scrive:

Per me è nuovamente evidente che non dobbiamo attribuire a Dio il ruolo di

tappabuchi nei confronti dell’incompletezza delle nostre conoscenze…

Dobbiamo trovare Dio in ciò che conosciamo, non in ciò che non conosciamo.

Dio vuole essere colto da noi non nelle questioni irrisolte, ma in quelle risolte…

Dio non è un tappabuchi40

.

C’è bisogno di guardare al mondo per quello che è, alla sua struttura

stupefacente che la scienza contemporanea aiuta sempre meglio a conoscere, di

poggiare saldamente i piedi sulla madre terra e da lì arrivare a mostrare come sia

proprio la fedeltà alla terra a richiedere di alzare in alto lo sguardo.

Sia la scienza che la filosofia si occupano dell’origine della vita. Ma la

differenza tra scienza e filosofia consiste nella domanda che le muove, che per la

scienza è il come, per la filosofia il perché. Perché c’è l’essere e non il nulla? Perché

c’è l’essere ordinato come vita e non l’essere disordinato come non vita? Questa

40

Dietrich Bonhoeffer, Resistenza e resa. Lettere e scritti del carcere, citato in V. Mancuso, L’anima e

il suo destino, op. cit., p. 112.

64

domanda non può essere evitata da chiunque voglia pensare. Mancuso vede solo tre

possibili risposte:

il caso;

il miracolo;

la necessità intrinseca.

La sua risposta è la terza. Dagli informi gas primordiali doveva scaturire la

vita. Mancuso sostiene che vi è una finalità intrinseca nella natura.

È questo telos intrinseco all’essere del mondo che rende la natura orientata a un

ordine e a un’informazione sempre maggiori. Mancuso predilige il confronto con la

scienza e, su questa base, porta avanti le sue argomentazioni in conformità a quelle

sostenute da molti studiosi contemporanei, come i fisici Paul Davies e Fritjof Capra,

e come il biologo Stuart Kauffman, i quali sostengono che la vita non sia un caso ma

sia iscritta nelle leggi dell’Universo. Quando si prende in considerazione l’Universo,

sembra emergere un ruolo piuttosto marginale dell’uomo. Ma tutto questo avviene se

si pensa secondo una logica quantitativa; se invece si ragiona secondo una logica

qualitativa, il ruolo dell’uomo diventa centrale. Già Pascal aveva notato la forza

preponderante del pensiero che solo l’uomo ha; infatti, secondo Pascal:

L’uomo non è che una canna, la più debole della natura, ma una canna che

pensa… ogni nostra dignità consiste dunque nel pensiero. Su ciò dobbiamo far

leva, non sullo spazio e sulla durata, che non sapremmo colmare. Lavoriamo

dunque per pensare bene: ecco il principio della morale41

.

41

B. Pascal, Pensieri, citato in V. Mancuso, L’anima e il suo destino, op. cit., p. 119.

65

Secondo Mancuso è l’energia a contenere una tendenza intrinseca

all’organizzazione; e sulla base di questa tendenza non è del tutto improbabile

pensare che il più perfetto degli stadi raggiunti dal cammino cosmico, cioè la vita

morale e spirituale, possa produrre un’ulteriore forma di vita dopo la morte del

corpo. Ovviamente non esiste nessuna prova al riguardo, né a favore né contro.

Nell’amore, nel bene, nel bello di cui gli uomini sono capaci c’è una domanda di

eternità che merita di ricevere una risposta. Non è sicuro che la riceva, però Mancuso

pensa che non sia irragionevole ipotizzare che dalla logica ordinatrice alla base del

processo cosmico si possa produrre un ulteriore livello di vita, una quinta

discontinuità, per quegli esseri che hanno vissuto in conformità a essa, che hanno

vissuto secondo la logica profonda dell’ordine e della simmetria che è il principio

base della realtà. Il Logos che è all’inizio di tutto è anche alla fine di tutto. Il Logos,

cioè il Principio Ordinatore del mondo rimanda a un Principio Personale, il Dio

trinitario. Con il cristianesimo, il Logos impersonale immanente al mondo si

manifesta come persona, e si manifesta come tale nella persona di Gesù di Nazaret,

che attua la logica dell’armonia cosmica, la relazione ordinata che ha il suo vertice

nell’amore. Ed è sulla base di queste argomentazioni che Mancuso ritiene che «sia

ragionevole sostenere che la quinta discontinuità all’interno del processo evolutivo

dell’energia cosmica possa condurre a una vita oltre la morte di tipo personale»42

. La

presenza nell’anima di valori che trascendono il tempo, quali la verità, la giustizia,

l’amore, la vita morale, costituisce un appello quasi irresistibile all’esistenza del

mondo divino e della vita futura. Da dove viene il sentimento del dovere morale?

Secondo Kant, il dovere morale non ha nulla a che fare con la natura: tra la natura e

42

V. Mancuso, L’anima e il suo destino, op. cit., p. 134.

66

la morale, vi è una frattura. Mancuso pensa invece che si possa comprendere

l’origine del sentimento del dovere che abita la coscienza umana dicendo che esso è

il sentimento dell’ordine del mondo che si manifesta negli uomini. A chi lo accusa di

essere troppo naturalista, Mancuso risponde dicendo che la sua etica non è

naturalista, però vorrebbe essere naturale, si sforza di essere naturale; naturale nel

senso che vuole far capire che quel movimento di generosità, di gratuità proprio

dell’etica che nella natura non c’è, è tuttavia tale da compiere una tensione che già è

dentro la natura, che è questa tensione verso l’armonia.

Secondo Mancuso, l’anima accede al livello della spiritualità e diviene anima

spirituale se e quando entra in contatto con la dimensione spirituale. E di tutti coloro

che non possono accedere alla dimensione spirituale, che cosa si deve pensare? Che

non hanno un’anima spirituale e quindi non sono destinati all’immortalità? Mancuso

afferma che tutti gli uomini sono dotati di un’anima per il fatto stesso di essere vivi,

ma non in tutti quest’anima è come spirito. Egli riporta il caso di una bambina venuta

al mondo colpita da una forma grave di handicap, al punto che è impossibile

riscontrare in lei una minima forma di coscienza. L’energia che la costituisce è

rimasta bloccata al primo stadio di anima vegetativa. Mancuso afferma che

sarà dovere di chi sostiene che Dio crea direttamente l’anima spirituale al

momento del concepimento spiegare perché in questo caso, mentre le creava

l’anima spirituale, non è intervenuto a sanarle anche il corpo e la psiche. La mia

prospettiva teologica nega l’azione di Dio in quanto diretto creatore di ogni

singola anima umana. Per chi rifiuta l’idea del dolore voluto da Dio o come

castigo o come espiazione, si impone una nuova visione del mondo. È la visione

del mondo che scaturisce dal dolore innocente, cioè che non può nuocere perché

non ha colpa alcuna. Che ne sarà di tutti gli esseri umani che non hanno potuto

67

raggiungere, a causa della cecità della natura-physis, il livello spirituale? Io

pretendo che soprattutto per loro vi sia un futuro di vita personale43

.

Mancuso basa la sua pretesa su due argomenti. Il primo argomento consiste nel

potere creativo del bene anche in ordine alla dimensione spirituale. Ci sono genitori

che prendono la loro anima, la spezzano e ne nutrono i figli. Mancuso pensa che

questo movimento spirituale possa generare lo spirito in chi lo riceve. L’amore degli

uomini ha la capacità di generare lo spirito. Il secondo argomento si basa sull’idea

sottesa all’essere uomo, sul mistero stesso della creazione. Mentre il primo

argomento privilegia il valore della libertà, il secondo sottolinea la grazia. L’idea

cristiana fondamentale esprime la convinzione che ogni uomo, per il fatto stesso di

essere Uomo, è unito al principio dell’essere e della vita. Ne viene che ogni uomo,

per il fatto stesso di essere Uomo, è destinato all’immortalità.

2.2.4.3 La salvezza dell’anima

Le religioni parlano di salvezza. Ma da che cosa l’uomo deve essere salvato?

L’uomo deve essere salvato dal peccato. Ma il Cristianesimo dice qualcosa di nuovo,

di originale: dice che dal peccato l’uomo deve essere redento. La salvezza cristiana si

dà come redenzione, come “riscatto”. La salvezza è la meta, la redenzione è il

mezzo. La salvezza è presente in tutte le religioni, la redenzione no. Solo il

Cristianesimo presenta la salvezza sotto forma di redenzione. Il Cristianesimo mostra 43

Ivi, p. 137.

68

qui il nesso antinomico strutturale che pretende di tenere insieme la prospettiva che

pensa Dio a partire dalla creazione (e che quindi intende la salvezza come opera della

libertà) con la prospettiva che pensa Dio a partire dalla redenzione (e che quindi

intende la salvezza come redenzione gratuita. Occorre chiedersi come giudicare

questa antinomia strutturale al cuore del Cristianesimo. Secondo Mancuso, se il

Cristianesimo è antinomico, lo deve al fatto che ad essere antinomica è proprio la

vita. Ma come riesce il Cristianesimo a tenere insieme le due prospettive

contrapposte di creazione e redenzione? Rispondendo a questa domanda si incontra

quella spettacolare tematizzazione della contraddizione che è il dogma del peccato

originale.

Il dogma del peccato originale è una creazione del tutto cristiana, iniziata da

san Paolo col contrapporre la redenzione di Cristo al peccato di Adamo, il cosiddetto

peccato originale originante, e poi condotta a compimento dalla teologia patristica

col parlare di un peccato originale con cui nasce ogni bambino che viene al mondo

per il fatto stesso di essere un uomo, il cosiddetto peccato originale originato. Tale

peccato li pone in una condizione di inimicizia con Dio e quindi bisognosi, ma al

tempo stesso incapaci, di salvezza. Per conseguire questa salvezza è necessario che

qualcun altro la consegua: è necessaria la redenzione.

Mancuso non accetta il fatto che la Chiesa sostiene ancora la storicità di

Adamo e dell’episodio che lo riguarda. I dati della scienza parlano chiaro: se si

ammette il legame tra Adamo come personaggio storico e peccato originale, si

presuppone l’affermazione del monogenismo, la riconduzione cioè di tutto il genere

umano a un’unica coppia primordiale. I dati della ricerca scientifica sulle origini

dell’uomo conducono verso la teoria opposta, il poligenismo. Un’altra difficoltà

69

riguardante il peccato originale originante concerne la contraddizione tra la

situazione del primo uomo uscito dalle mani di Dio, e quindi ritenuto perfetto, e il

fatto che sia caduto di fronte alla prima tentazione. Per Mancuso, la Chiesa dovrebbe

rivedere completamente la teologia della creazione. Il fatto è che la teologia non sa

fondare in modo legittimo la dottrina della trasmissione del peccato originale per

generazione. Mancuso riflette al riguardo su una prospettiva globale, che va dalla

comparsa dell’uomo sulla Terra ad oggi, e si chiede:

Ma veramente il destino di miliardi di esseri umani dipende dalla colpa di

quello sconosciuto in un lontanissimo passato? Ognuno di noi a causa del primo

Adamo nascerebbe già peccatore senza aver commesso nulla di male; in

compenso, però, sempre senza dover fare nulla di bene e sempre a causa di uno

sconosciuto (il secondo Adamo) verrebbe redento e parteciperebbe

gratuitamente della salvezza. Non è tutto un po’ strano? Quanta differenza tra

questa dottrina e la vita reale, dove senza lavoro non si ottiene nulla, proprio

nulla. […] C’è inoltre la questione della sorte dei morti senza battesimo, cioè

con la macchia del peccato originale nella loro anima e quindi colpevoli agli

occhi di Dio: se si considerano i 160.000 anni di storia della specie umana, e li

si paragona ai 2000 anni trascorsi dalla redenzione di Cristo, ci si trova con una

bella patata bollente nelle mani, quando si tratta di capire che fine hanno fatto

tutti questi figli di Dio vissuti prima della redenzione storica di Cristo e morti

con l’anima macchiata dal peccato originale. Già solo per queste ragioni il

dogma del peccato originale fa acqua da tutte le parti44

.

La questione più scottante, per Mancuso, riguarda l’origine dell’anima umana

che la dogmatica cattolica attribuisce direttamente a Dio, senza alcun concorso dei

genitori, nel momento del concepimento. La domanda è: come può Dio creare

direttamente l’anima spirituale e nello stesso tempo assoggettarla alla corruzione e

44

V. Mancuso, L’anima e il suo destino, op. cit., pp. 164-165.

70

alla concupiscenza? Non può. È evidente. Se l’anima è partecipe della natura divina,

non può essere corrotta; se invece è corrotta, non può essere partecipe della natura

divina, sostiene Mancuso. L’affermazione dell’origine divina dell’anima non deve

portare a escludere il ruolo attivo dei genitori nella sua generazione. Il fatto che

l’anima abbia una natura spirituale non esclude la sua origine materiale. Quanto al

peccato originale, Mancuso sostiene che «la ragione teo-logica imponga una

riformulazione ancora più severa. Dico ragione teo-logica perché è sulla base di Dio

come Logos che si vede che il dogma del peccato originale, così com’è, non tiene»45

.

Mancuso si rende perfettamente conto dell’enorme portata della sua proposta;

non ha intenzione di distruggere la tradizione, bensì intende rifondarla. Egli non si

rivolge

a quei cristiani solidamente installati nella loro fede. Mi rivolgo alla coscienza

laica che ogni uomo, a prescindere da fedi e appartenenze, dovrebbe ospitare

dentro di sé. È a questa coscienza che dico che sarebbe opportuno liberarsi dalla

visione distorta del peccato originale, e smettere di considerare l’uomo, per il

semplice fatto di essere nato, un peccatore. Il peccato originale è un’offesa alla

creazione, un insulto alla vita, uno sfregio all’innocenza e alla bontà della

natura, alla sua origine divina46

.

Per Mancuso il peccato originale non esiste; esiste un altro peccato però, quel

peccato di cui parla il Vangelo di Giovanni, il peccato del mondo. Questo peccato

manifesta la tendenza umana verso ciò che luccica di più, verso la realizzazione del

proprio tornaconto. Ogni uomo che viene al mondo nasce innocente, ma l’energia

45

Ivi, p. 167. 46

Ivi, pp. 167-168.

71

che costituisce l’anima, cioè la libertà, ha bisogno di essere indirizzata, educata,

disciplinata. Ecco, il peccato del mondo esprime questa primitiva negligenza verso il

bene e la giustizia. È proprio da questo che l’anima deve essere salvata, dalla vita

disordinata che può condurre. E a questa salvezza può anelare ogni anima, ogni

uomo, a prescindere dalla propria fede, dal proprio orientamento religioso. Ciò che

salva è il bene, la giustizia interiore; chi si comporta secondo giustizia, chi aspira alla

verità e chi fa il bene senza pretendere qualcosa in cambio, chi fa il bene per il bene,

senza alcuna finalità, è già salvo. Gesù stesso evidenzia molto questo aspetto: «Non

chiunque mi dice: “Signore! Signore!” entrerà nel regno dei cieli, ma chi fa la

volontà del Padre mio che è nei cieli»47

. Non è la fede detta a parole che salva, non

sono i riti e i pellegrinaggi, ma le azioni, il compiere il bene per amore del bene: tutto

ciò si esprime nelle beatitudini, quindi nell’aiutare gli altri, nel servire il prossimo,

nell’aver cura di chi è solo e abbandonato. Ed è così che, a prescindere da qualunque

fede o non fede si possa avere, l’anima umana sarà salva e redenta.

Mancuso pensa la redenzione come legata alla creazione; già la creazione

dell’uomo contiene la possibilità che la sua anima divenga immortale se aderisce

all’ordine fondamentale del mondo che è simmetria e giustizia. La redenzione

avviene per mezzo della croce di Cristo, la quale è simbolo di un amore puro e

incondizionato, di un amore che non conosce confini. La forza della croce e di

conseguenza della morte di Gesù sta nella risurrezione. Mancuso però, davanti alla

questione della risurrezione, non si pronuncia più di tanto, e dice: «Di fronte alla

risurrezione corporea di Gesù la mia teologia tace, (…) non sa nulla. Qui la ragione,

che è l’organo della mia teologia in quanto teologia universale, lascia il posto alla

47

Matteo, 7,21.

72

fede, nel suo significato originario di fiducia». Non c’è nessun ragionamento che

possa argomentare a favore della risurrezione. In questo caso si passa dal piano della

ragione al piano della fede, dal piano del ragionamento al piano della fiducia, del

“credo”, perché, proprio come dice Kierkegaard, «la fede comincia là, appunto dove

la ragione finisce»48

.

Prima di affrontare la questione che ha a che fare con il destino dell’anima, è

opportuno spendere alcune parole sulla morte. La morte fa parte della vita, è

intrinseca alla vita stessa, ma l’uomo non riesce mai ad abituarsi ad essa. Se c’è una

sola certezza in questo mondo, è la morte. Con essa ognuno, prima o poi, dovrà fare i

conti. Ecco perché bisogna accettare la morte così come si accetta la vita. E con la

morte l’uomo viene sottoposto a un giudizio. Il giudizio finale viene esercitato

mediante il primato della ragion pratica, della ragione volta al fare, in quanto

concreta, attiva, interessata. Il primato quindi spetta

a quella dimensione profonda dentro di noi dove pensare ed essere sono la

medesima cosa, quella profondità che coincide con il nostro Io ma che insieme

è più grande del nostro Io. […] L’unica possibilità data all’uomo di uscire dallo

spazio e dal tempo è di scendere nella profondità di se stesso, attingendovi

l’autentica dimensione spirituale. Questa è la sede della vita felice o, per usare

la classica terminologia teologica, della vita beata49

.

Secondo il tribunale interiore, presente in ogni uomo, chi fa il male genera il

male, anzitutto dentro di sé. Viceversa, chi fa il bene genera il bene, anzitutto dentro

48

S. Kierkegaard, Timore e tremore, in Opere, a cura di C. Fabro, Sansoni Editore, Firenze 1972, p.

64. 49

V. Mancuso, L’anima e il suo destino, op. cit., pp. 202-203.

73

di sé. Questa è la sapienza universale, valida per ogni uomo di ogni tempo e di ogni

luogo, di cui Cristo con la sua dottrina dell’amore assoluto e personale costituisce la

più alta rappresentazione. A chi spetta quindi la vita eterna? La vita eterna spetta a

chi la possiede già adesso. L’eterno non è il futuro, ma è il presente, la dimensione

più vera del tempo.

Che cosa succede ad un uomo giusto quando muore? Succede che la vita fisica

giunge al suo termine, quella spirituale continua a “vivere”. Corpo e anima

esprimono, per Mancuso, due diverse configurazioni della medesima realtà. Corpo e

anima sono ontologicamente la medesima realtà perché l’essere è unitario. In

teologia si parla di “risurrezione della carne”. Per Mancuso è insostenibile professare

la risurrezione della carne in senso fisico perché il concetto di eternità implica

l’esclusione dello spazio, e di conseguenza anche del corpo di carne in quanto

oggetto che occupa uno spazio definito. L’eternità esclude sia lo spazio che il tempo.

Ma basta poi pensare a Dio: Dio, che è eterno, non ha alcun corpo; è solo spirito.

Secondo Mancuso, il

dogma cristiano della risurrezione della carne ha un senso sostenibile solo se lo

si intende nel significato speculativo della permanenza della personalità, del

principio personale dell’Io. Il vero valore contenuto nella dottrina della

risurrezione della carne è la conservazione della personalità, il fatto cioè che

l’Io, di cui il corpo è manifestazione unica e irripetibile, non si dissolverà ma

continuerà a vivere come persona. […] Ciò che va superata è la mitologia

“umana troppo umana” della corporeità del Paradiso50

.

50

Ivi, pp. 226-227.

74

L’essere umano però non sempre è buono e giusto e merita di andare in

Paradiso; a volte può giungere a una dimensione che lo accomuna a Satana per il

piacere perverso del male in quanto male. Le anime dei malvagi tradizionalmente

vengono collocate all’Inferno. La Chiesa sostiene l’eternità dell’Inferno; Mancuso

invece sostiene la tesi opposta, tesi tra l’altro sostenuta dalla dottrina della

apocatastasi. Uno dei primi a parlare dell’apocatastasi è Clemente Alessandrino,

teologo e santo del III secolo. Questa teoria viene poi ripresa da Gregorio di Nissa;

nell’epoca contemporanea viene sostenuta anche da teologi come Karl Barth e

Dietrich Bonhoeffer.

Tutto il senso dell’evento di Cristo si spiega per Barth in prospettiva

soteriologica, come dispiegamento della redenzione universale. Cristo è colui che

toglie interamente il peccato del mondo. Bonhoeffer invece sostiene che «non è

concepibile una santificazione dell’uomo, se non gli è consentito di avere la certezza

che Dio trae a sé insieme con lui anche tutti quelli della cui colpa egli è

responsabile»51

.

Tra i teologi cattolici contemporanei che sostengono l’apocatastasi, Mancuso

annovera lo svizzero Hans Urs von Balthasar, secondo il quale l’ultima parola sulla

storia non spetta alla libertà dell’uomo (come suppone la dannazione eterna), ma alla

libertà di Dio che vuole realizzare il suo progetto di vita per tutti. Von Balthasar ha

ragione nel dire che non sono più accettabili le idee elaborate dalla tradizione per

risolvere il problema di come si possa pensare compiuto il piano di Dio al fine di

essere “tutto in tutti”, se c’è la dannazione eterna di alcune sue creature, anzi di

alcuni suoi figli.

51

Dietrich Bonhoeffer, Sanctorum Communio. Una ricerca dogmatica sulla sociologia della Chiesa,

citato in V. Mancuso, L’anima e il suo destino, op. cit., p. 242.

75

Mancuso si chiede se assumere l’eternità dell’Inferno non comporti una

sconfitta di Dio visto che il mestiere di Dio consiste nell’essere il Padre di tutti, la

sorgente dell’essere e della vita degli esseri umani, affinché ciascuno torni a lui nella

forma più alta pensabile che è la libertà compiuta come amore.

Eccoci al vero punto dolente della dottrina teologica della dannazione eterna,

cioè l’immagine ben poco evangelica di Dio, il quale appare come un vendicatore

che gode della vittoria sui suoi nemici e lo vuole fare ogni giorno, ininterrottamente,

cuocendoli a fuoco lento. Chi sostiene la teoria dell’ostinazione eterna dei dannati fa

di Dio il responsabile ultimo della loro cattiva inclinazione. Gesù ha insegnato a

perdonare “settanta volte sette”, cioè sempre. Si deve perdonare per non essere

ulteriormente vittima del male subito. Occorre perdonare anzitutto per il bene di se

stessi, un perdono come oblio, come cessazione del rapporto. Solo in un secondo

tempo, per chi ne sarà capace, potrà sorgere il perdono come attivo sentimento verso

colui che ha procurato del male. La teologia che sottostà alla dannazione eterna non

attribuisce a Dio nemmeno questo primo livello del perdono come buon senso e ne fa

un Dio perfettamente irato.

Razionalmente si può pensare l’Inferno come morte dell’anima: in questo caso

si parla di annichilazione. Con la morte del corpo si assiste anche alla dissoluzione

del principio personale, alla scomparsa definitiva dell’Io. A questa teoria

dell’annichilazione si contrappone quella dell’apocatastasi, la quale evidenzia

l’esplicita volontà salvifica divina di essere universale. Dio salva tutti. Il giudizio

divino è finalizzato alla vita. Dio non può volere la dannazione eterna dei suoi figli.

Mancuso conclude il capitolo sull’Inferno nell’incertezza riguardo all’alternativa tra

apocatastasi e morte dell’anima, ma nella certezza che «bisogna obbedire allo Spirito

76

più che agli uomini, uomini di Chiesa compresi, e ciò che lo Spirito testimonia è la

salvezza universale»52

.

Dopo aver preso in considerazione il destino spettante alle anime buone

(collocate tradizionalmente in Paradiso) e il destino spettante le anime malvagie

(collocate tradizionalmente all’Inferno), adesso non rimanere che parlare del

Purgatorio, il “luogo” dove ognuno finirebbe per collocare se stesso se dovesse

riflettere sul proprio destino dopo la morte. Ogni uomo non crede di essere così

buono e giusto da meritare il Paradiso, ma nello stesso tempo non crede di essere

così malvagio e ingiusto da meritare l’Inferno. Sa di volere il bene che a volte riesce

a compiere e a volte no, a causa di egoismi, fragilità, negligenze… Ecco che allora

sente il bisogno di essere purificato. Mancuso assegna un’importanza fondamentale

alla preghiera di intercessione per i morti. Egli intende la preghiera come

il vertice del lavoro ordinato, il fiore dello spirito, l’eccelso risultato del lavoro

più raffinato dell’anima. […] La preghiera è pensiero, e pregare per un altro

significa regalargli pensiero allo stato puro, la parte più intima che esiste in un

essere umano53

.

Riassumendo sul destino che attende l’anima alla fine dell’esistenza umana,

Mancuso sostiene l’immortalità dell’anima personale, presentando

un’argomentazione cosmologica che svilupperà nel libro Il principio passione: la

natura ha una logica votata non alla morte ma alla vita; il mondo è in continua

evoluzione. È razionalmente legittimo pensare una continuazione della vita come

spirito, senza più il supporto materiale.

52

V. Mancuso, L’anima e il suo destino, op. cit., p. 271. 53

Ivi, p. 283.

77

È chiaro che tutte queste nuove teorie o interpretazioni sostenute da Mancuso

non possono essere accettate da chi basa la sua fede sul principio di autorità.

Mancuso pensa che

l’esercizio della ragione sia l’unica condizione perché il discorso su Dio oggi

possa sussistere legittimamente come discorso sulla verità. Questa è la realtà

ultima che è in gioco quando si parla di Dio: la verità. […] Tutte le cose che la

religione ha prodotto hanno solo un senso: essere al servizio dell’anima e del

suo destino54

.

2.2.5 Filosofia della natura

La realtà del mondo è ricca di complessità e di contraddizioni; questa realtà ha

a che fare con la natura, con il suo sviluppo. Ma prima di intraprendere il discorso

sulla natura e sul suo sviluppo, è necessario parlare del mondo, anzi del principio del

mondo, dell’arché dell’Universo. La filosofia, dal suo sorgere ad oggi, va alla ricerca

del principio che regge il mondo. E negli ultimi 2500 anni, i filosofi hanno espresso

ed esprimono quello che considerano essere il principio, l’arché dell’Universo.

Mancuso si rende conto di come questi principi siano non solo diversi, ma addirittura

contrapposti. Alcuni sono orientati all’ordine, al logos, altri al disordine, al caos. Per

Mancuso, il principio dell’Universo è dato dalla somma di logos e di caos; il risultato

è il pathos. Il principio costitutivo del mondo è quindi il pathos, la passione, nel

duplice senso di sentimento intenso e travolgente e di patimento, di sofferenza. E

54

Ivi, pp. 315-316.

78

parlando di passione non si può non fare riferimento alla passione di Cristo. Nel

processo di

incarnazione-passione-morte-risurrezione di Gesù si deve individuare

l’espressione della forma permanente della relazione tra Dio e il mondo. È

possibile affermare che la modalità con cui tutte le cose provengono dal

principio, sono mantenute all’esistenza dal principio e confluiscono nel

principio, è da pensarsi alla luce della logica manifestata dall’evento di

incarnazione-passione-morte-risurrezione. Si tratta di una logica dialettica, volta

al positivo ma anche attraversata dal negativo e per questo intrinsecamente

drammatica55

.

Mancuso, osservando la vita in tutte le sue sfaccettature, nota come essa sia

sempre combattuta tra logos e caos, tra ordine e disordine. L’azione è ciò che

scaturisce dall’incontro tra logos e caos. L’incontro tra logos e caos produce l’ultima

dimensione della realtà, cioè la passione e il lavoro che essa richiede. Se il caos fosse

la dimensione ultima alla quale consegnare la nostra più preziosa energia,

nessuno sentirebbe l’impulso ad arginarlo, a vincerlo, a domarlo mediante il

logos. L’azione, cioè la lotta del logos contro il caos, ovvero l’armonia e il

bene. Tutta l’impresa umana nella sua più alta significatività è lotta contro il

caos56

.

55

V. Mancuso, Il principio passione, op. cit., pp. 89-90. 56

Ivi, p. 96-97.

79

Mancuso propone due possibili punti di vista attraverso cui guardare il mondo

e la vita degli uomini sulla terra: il punto di vista fisico e il punto di vista morale. Chi

guarda il mondo dal punto di vista fisico vede che non c’è nessun cielo che non sia

anche terra e nessuna terra che non sia anche cielo, perché l’essere è unico e unitario.

Il punto di vista che Mancuso assume nel guardare il mondo gli consente di scorgere

una notevole imperfezione nel mondo, un oceano di sofferenza innocente provocato

dalla natura e dalla storia. Chi invece guarda il mondo dal punto di vista morale, non

vede l’unitarietà dell’essere, che anzi giunge alla rottura. Emergono le imperfezioni,

le ingiustizie, le malvagità. Ecco che sorge così il bisogno di credere a un mondo

diverso, altro. Chi crede in Dio distingue la trascendenza dall’immanenza, la Realtà

primaria (cioè Dio) dalla realtà secondaria detta mondo. Il punto di vista morale, che

ha fame e sete di giustizia, guarda il mondo e non si trova a casa. Da qui il bisogno

insopprimibile di rimandare al di là, di credere a un mondo diverso, a una sorta di

tribunale della vera giustizia. Quindi porre il primato dell’etica conduce

necessariamente alla conclusione che l’essere non è come deve essere, che questo

mondo non è la patria definitiva. Riassumendo, si può dire che chi assume il punto di

vista fisico, considera il mondo come organismo naturale e si cura poco delle

ingiustizie, considerate manifestazioni diverse dell’unico essere. Qui la libertà

aderisce alla necessità dell’essere in quanto natura, non si ribella. Chi assume il

punto di vista morale, considera il mondo come occasione per l’esercizio del bene e

della giustizia e si cura ben poco della logica e della sua necessità. La libertà, in

questo caso, non aderirà mai alla necessità con la sua logica impersonale, si sentirà

inappagata della realtà di questo mondo.

80

Mancuso, dopo aver esposto questi due punti di vista, si chiede:

Ma qual è il punto di vista più idoneo da cui guardare il mondo e la nostra vita?

Quello fisico della necessità, che non può essere né buona né cattiva? Oppure

quello morale della libertà, che può essere buona o cattiva? […] Qual è

insomma il punto di vista da assumere? Quello che cancella ogni punto di vista

antropocentrico e considera le cose senza gerarchie di valori ma ne accetta la

beata necessitas? Oppure quello espresso da quella parte dell’uomo solitamente

designata come coscienza morale e che genera fame e sete di giustizia?57

.

A queste domande Mancuso dichiara apertamente di non saper rispondere, e

dubita che l’alternativa tra punto di vista fisico e punto di vista morale sia davvero

conclusiva.

Considerando i pro e i contro di una parte e dell’altra, Mancuso va alla ricerca

della possibilità di conciliare la logica del mondo fisico con la sapienza del mondo

morale e intravede tale possibilità nella prospettiva evolutiva, la quale considera il

mondo come un processo ininterrotto per nulla lineare, ma complessivamente

orientato verso una crescente organizzazione.

L’uomo avverte da sempre la necessità di accordare la fisicità del mondo con la

dimensione ideale che spinge a mettere in pratica il bene. E quindi si realizza

l’armonia tra la dimensione fisica e la dimensione etica della vita, si produce una

visione del mondo, una “cosmovisione”. Mancuso raggruppa le principali

cosmovisioni secondo tre prospettive tipiche dell’organizzazione della società:

anarchia, monarchia e democrazia. L’anarchia viene paragonata ad una cosmovisione

che privilegia il principio del caos, del disordine. La monarchia invece viene

57

Ivi, p. 106-107.

81

paragonata ad una cosmovisione che privilegia il principio del logos, dell’ordine.

Mancuso predilige la visione democratica che mette insieme il logos e il caos,

l’ordine e il disordine.

Secondo la visione democratica del cosmo, nella natura è all’opera un governo

il cui esercizio è possibile solo attraverso il consenso e sempre mediando tra le spinte

contrapposte di caos e logos. Se non ottiene il consenso, tale governo non può

operare, per cui è costretto a chiedere la fiducia. Dal punto di vista teologico ciò

significa che la creazione divina istituisce un processo che non è pensabile come

esercizio di un dominio assoluto. Il Dio che governa il mondo secondo democrazia

lascia aperta la storia della sua alleanza con gli uomini. Gli uomini si sono sempre

interrogati sul tipo di governo che Dio esercita sul mondo. Mancuso vuole affrontare

la questione dal punto di vista cosmologico, concentrandosi sul rapporto tra l’azione

di Dio e lo sviluppo naturale del mondo, tra creazione ed evoluzione. Egli preferisce

chiarire subito quattro termini: evoluzione, evoluzionismo, creazione e creazionismo.

Di conseguenza egli chiarisce che:

con evoluzione intendo il dato di fatto che ci consegna la scienza, secondo cui le

specie viventi si adeguano e si trasformano al mutare delle condizioni

ambientali; con evoluzionismo intendo l’interpretazione dell’evoluzione

unicamente sulla base del nesso «mutazione casuale + selezione naturale», così

da togliere ogni direzione e ogni senso all’evoluzione, equiparata a mero

cambiamento; con creazione intendo la prospettiva secondo cui tutto proviene

da un unico principio ontologicamente buono, per cui ogni cosa, per il fatto

stesso di essere, è bene, un ottimismo ontologico da cui discende un giudizio di

valore sulla vita come dotata di giustizia, razionalità, bellezza; con

creazionismo intendo o la negazione di ogni forma di evoluzione in base alla

lettera dei testi biblici (…) oppure una sostanziale accettazione dell’evoluzione

82

considerata però come un Progetto Intelligente etero-guidato e in alcuni

momenti sospeso per lasciare spazio a interventi diretti di Dio58

.

Si può notare che i due poli contrari in questo caso non sono creazione ed

evoluzione, bensì creazionismo ed evoluzionismo, cioè da un lato chi sostiene che

tutto proviene da Dio, dall’altro chi sostiene che niente proviene da Dio. A questo

punto risulta evidente che creazione ed evoluzione possono essere composte.

Parlando di evoluzione, non si può non parlare di Charles Darwin e del suo libro

scritto nel 1859 On the Origin of Species. La selezione naturale, sostenuta da

Darwin, opera all’interno della lotta per l’esistenza. L’evoluzione attesta che c’è un

continuo mutare, un continuo divenire. È necessario quindi prendere atto del dato

evolutivo e introdurlo nel modo di pensare e guardare il mondo. Questa prospettiva

evolutiva non viene vista di buon occhio dalla Chiesa, fino a quando nel 1985

Giovanni Paolo II afferma apertamente che:

La fede nella creazione rettamente compresa e la teoria dell’evoluzione

rettamente intesa non si intralciano a vicenda: l’evoluzione infatti presuppone la

creazione; la creazione si pone nella luce dell’evoluzione come un avvenimento

che si estende nel tempo – come una creatio continua – in cui Dio diventa

visibile agli occhi del credente come Creatore del cielo e della terra59

.

Dopo questo discorso, finalmente, la Chiesa cattolica non ha più difficoltà ad

ammettere l’evoluzionismo. In realtà il punto cruciale consiste nel modo di intendere

58

V. Mancuso, Il principio passione, op. cit., pp. 119-120. 59

Giovanni Paolo II, Discorso del 26 aprile 1985, citato in V. Mancuso, Il principio passione, op. cit.,

p. 126.

83

il rapporto tra la volontà divina e le dolorose contingenze di cui è disseminato il

cammino evolutivo, cioè se Dio ha anche a che fare con queste cose oppure no.

Se si prende in considerazione l’aspetto trionfante della natura, non ci sono

problemi nell’intendere la creazione come evoluzione, e quindi la Chiesa non ha

nessun problema ad accettare il dato della scienza. Se invece si prende in

considerazione l’aspetto drammatico e per certi aspetti tragico della natura, attribuire

tutto questo ad un essere buono e giusto non è più così semplice. Quindi, se in

teologia si accetta il dato della scienza concernente l’evoluzione, il punto è se

considerarla cieca oppure vedente. Ovviamente il problema riguarda il modo di

intendere o di interpretare il male. La Chiesa interpreta il male come qualcosa che

Dio permette al fine di ottenere un bene maggiore. Mancuso invece pensa che il caos,

l’assurdo, il non-senso siano presenti nella vita senza che nessuno li abbia permessi;

quindi esclude preliminarmente che il male derivi da Dio. Egli pensa che il caos

originario non sia mai stato sconfitto del tutto perché ritiene che la creazione non si

sia ancora conclusa. Infatti, a tal riguardo, Mancuso parla di creatio continua o di

“processo orientato” verso la meta, senza porre però un itinerario già predefinito. E

questo itinerario non è prefissato a causa della presenza del caos, della casualità,

dell’indeterminazione. Intendendo la creazione come continua si esprime la

consapevolezza che la vita esiste come processo indefinito, ancora in atto, esposto

anche ai fallimenti. Parlando di creazione continua si afferma l’imperfezione iniziale

a causa della quale l’essere non è del tutto sottoposto al rigore del logos, ma ospita

invece l’indeterminazione del caos; indeterminazione necessaria che consente ad

ogni uomo di potersi determinare, indeterminazione che rende l’uomo libero. La

teologia della creazione è «ricerca del principio del mondo. Il che avviene solo a

84

condizione di inserire se stessi nel processo che in ogni momento si fa, e che

costruisce senso solo mediante il consenso della libertà. La teologia della creazione è

passione spirituale»60

.

Porre l’uguaglianza tra evoluzione e creazione, e quindi affermare o negare

questa uguaglianza, è compito della filosofia della natura, la quale deve scoprire se

sia corretto leggere l’interpretazione filosofica della natura come orientata alla

nascita e alla generazione e quindi informata da un logos, oppure come dotata di un

senso intrinseco che è la sua continua espansione a livello quantitativo ma soprattutto

qualitativo in una scala che va dalla vita intesa come bíos alla vita intesa come noûs.

In questa interpretazione filosofica della natura è in gioco il senso non solo della

natura ma anche della vita.

Mancuso va al di là del naturalismo: il fenomeno vita non è riducibile alla sola

dimensione biologica. Per Mancuso, la filosofia è l’attestazione che l’uomo è più del

solo bíos, è anche noûs, vita spirituale. La filosofia della natura non può quindi

prendere in considerazione solo il dato biologico per interpretare la vita. Mancuso

aderisce a quella visione filosofica della natura che gli permette di non sacrificare

nulla della contraddittorietà del dato empirico, ma di tenere insieme le seguenti

affermazioni: «che il mondo conosce una logica e un governo; che il mondo presenta

un carico impressionante di dolori senza perché»61

. Nella natura, Mancuso ritrova sia

la necessità che orienta verso l’intelligenza, sia la contingenza con la sua casualità.

Egli parla di “evoluzionismo duale”: c’è un’unica sostanza, la natura, configurata in

modo duale (natura naturans più natura naturata; informazione + energia) che

evolvendo progressivamente produce stadi diversi: materia inanimata, materia

60

V. Mancuso, Il principio passione, op. cit., p. 139. 61

Ivi, p. 165.

85

animata, materia spirituale, spirito immateriale; la verità è sia nell’immanenza sia

nella trascendenza. Secondo questa legge cosmica fondamentale, nel mondo il caso

c’è, ma c’è anche una logica che guida il mondo. Ciò vuol dire che nella realtà si

produce la seguente formula: logos + caos; il risultato di questa formula è il pathos.

Mancuso ritiene possibile sostenere che la logica orientata all’armonia esemplificata

dalla sapienza etica dell’umanità nella regola d’oro sia la stessa che rende possibile

nell’evoluzione della vita quel processo che dai gas primordiali ha portato alla vita

intelligente. Per poter sostenere quanto appena detto, Mancuso intende riflettere sui

dati forniti dalla scienza inerenti alla materia di cui è composto il mondo. La scienza

afferma che ogni cosa è un’aggregazione di elementi, ma ogni elemento a sua volta è

un’aggregazione di forze. Quindi la logica dell’essere è l’aggregazione. La scienza

parla al riguardo di fermioni e di bosoni; i primi sono particelle-materia, i secondi

sono invece particelle-forza. Parlando di bosoni non si può non parlare del più

famoso di essi, ovvero il bosone di Higgs, scoperto nel 1964 dal fisico britannico

Peter Higgs. Ciò che contraddistingue il bosone di Higgs da tutti gli altri bosoni ha a

che fare con una particolare caratteristica, quella di nascere già con una sua massa

che poi fornisce a tutte le altre particelle. Peculiare è il fatto che, una volta nato, il

bosone di Higgs si dissolve in modo molto rapido trasformandosi in coppie di

particelle normali. Mancuso sostiene:

Se la creazione è continua, un modo efficace per pensarla è andare con la mente

a quel campo di forze costituito dai bosoni di Higgs che dà massa a ogni

particella (comprese quelle che formano in questo momento il nostro

organismo) e che se venisse a mancare porterebbe ogni cosa a disgregarsi

rapidamente62

.

62

Ivi, pp. 176-177.

86

Ciò che contrasta la disgregazione è la forza, la quale è di tipo relazionale. La

logica dell’essere-energia è la forza che instaura relazioni, legami, unioni. Questa

logica viene identificata da Mancuso con il termine lógos. Il logos è ciò che tiene

insieme, che mette insieme, che raccoglie. Il fatto che ogni fenomeno è tenuto

insieme dalla forza spiega anche perché i fenomeni siano instabili, perché tutto

evolve. La vita è un equilibrio poco stabile poiché il caos mira a scomporre l’ordine

che si riesce a fatica a stabilire; ma è solo per mezzo del caos che l’essere-energia

evolve.

Mancuso esclude che la struttura dell’essere-energia sia dualistica, poiché i

fermioni e i bosoni non sono due principi che si oppongono e si escludono a vicenda.

Egli ritiene invece che la struttura dell’essere-energia sia duale, nel senso che i

fermioni e i bosoni hanno bisogno gli uni degli altri per poter consistere. Quindi

l’essere-energia non è altro che energia-materia unita in modo indissolubile a

energia-forza.

Anche l’essere umano è dotato di energia, la quale assume diverse

configurazioni: corpo, psiche, spirito. C’è un tipo di energia che non è fisica, ma

procede dal cervello; questo tipo di energia viene definita spirituale. Religioni e

filosofie designano con il termine spirito questa particolare energia, capace di

educare, di indirizzare l’anima umana verso il bene e la giustizia. Secondo Mancuso

occorre trarre un’importante conseguenza antropologica dal fatto che la vita è

plasmata dalla forza, una conseguenza che conduce a porre il seguente basilare

principio: il principio-passione. Noi siamo passione. Prima e al di là di ogni

87

altra proprietà (intelligenza, volontà, sentimento, grazia, istinto…), noi siamo

passione. E il nostro essere passione può essere sia distruttivo sia costruttivo,

tutto dipende da come siamo in grado di incanalare questa forza-passione che ci

costituisce e che ci domina. Una cosa sola è sicura: se si spegne la passione, si

spegne la vita63

.

La più alta e nobile forma di energia che spinge gli uomini ad amare e a

lavorare per il bene e la giustizia è lo spirito.

2.2.6 La creazione: il ruolo cosmico di Cristo

La dottrina cristiana intende la creazione come creatio ex nihilo. All’inizio non

c’è una materia che preesiste allo stato caotico; all’inizio c’è l’essere come logos e il

nulla. Il Magistero pontificio insiste sul fatto che la creatio ex nihilo sia specifica

della rivelazione biblica; in realtà, le cose non stanno proprio in questi termini. Nei

testi biblici che trattano specificatamente della creazione non c’è alcun riferimento

alla creazione dal nulla; essi invece presentano la creazione come avvenuta a partire

da una materia preesistente informe e caotica, come emerge chiaramente dal libro

della Sapienza, nel quale si dice che Dio «aveva creato il mondo da una materia

senza forma»64

. Nel primo libro della Bibbia, dedicato proprio alla creazione del

63

Ivi, p. 190. 64

Sapienza, 11,17.

88

mondo, non c’è nessuna traccia di creazione dal nulla; in esso si legge: «La terra era

informe e deserta»65

.

I primi Padri della Chiesa sostengono proprio questo modo di intendere la

creazione: Dio plasma e ordina una materia caotica preesistente. La diatriba tra

creazione dal nulla e creazione a partire da materia preesistente viene messa a

tacere nel 1215, durante il concilio ecumenico Lateranense IV, nel quale papa

Innocenzo III definisce la dottrina della creazione come creatio ex nihilo. Questa

decisione viene presa per contrastare il movimento dei càtari, secondo il quale

esistono due principi, il principio del bene e il principio del male. La salvezza si può

ottenere solo liberando l’anima da tutto ciò che è materiale. Quindi, sapendo

l’obiettivo del concilio, si comprende che

l’affermazione della creazione dal nulla non intendeva avere un valore fisico,

come se il concilio avesse voluto stabilire in modo scientifico la modalità

concreta dell’origine del mondo, bensì un valore morale, nel senso che con essa

si desiderava difendere la bontà intrinseca di ogni cosa del mondo, spirituale o

materiale che fosse66

.

Ma sei secoli dopo, nel concilio Vaticano I si afferma il valore non più solo

morale ma anche fisico del dogma della creatio ex nihilo. E si afferma ciò sulla base

dell’unico testo biblico che parla espressamente di creazione dal nulla; in 2Maccabei

infatti c’è scritto:

65

Genesi, 1,2. 66

V. Mancuso, Il principio passione, op. cit., p. 221.

89

Ti scongiuro, figlio, contempla il cielo e la terra, osserva quanto vi è in essi e

sappi che Dio li ha fatti non da cose preesistenti; tale è l’origine del genere

umano67

.

Oltre al testo però, bisogna prestare attenzione al contesto, e il contesto di

2Maccabei 7,28 non ha nulla a che fare con il tema della creazione. Mancuso si

rifiuta di accettare che questa espressione di 2Maccabei 7,28 possa essere

l’indicazione data da Dio all’umanità su come ebbe origine il mondo. Egli critica

apertamente questo dogma perché lo considera funzionale all’affermazione del

potere assoluto di Dio sull’essere del mondo.

Ritornando a parlare del tema della creazione a partire da una materia

preesistente, caotica e senza forma, non si può non fare riferimento alla chora di

Platone. Nel Timeo infatti Platone presenta una cosmogonia (come è nato il mondo) e

una cosmologia (come è fatto il mondo). Platone, per descrivere la nascita del

mondo, si serve di una metafora; il mondo ha un padre e una madre: il padre è il

mondo delle idee mentre la madre è la materia. Quindi, secondo Platone, il padre

fornisce la forma mentre la madre fornisce la materia. La forma del mondo sensibile

deriva così da quella del mondo intellegibile. Platone definisce la madre sia

“concausa” sia “ricettacolo delle forme”, per il fatto che la materia è il luogo in cui

vengono ricevute le forme. In riferimento al luogo, Platone parla proprio di chora,

cioè di spazio. La parola chora dà proprio l’idea dell’estensione pura, senza alcuna

forma; ciò vuol dire che può assumerle tutte. Le idee sono fuori dal tempo e dallo

spazio, ma quando un’idea è compartecipata dal mondo sensibile si cala nello spazio.

Per Platone il mondo è buono, ma imperfetto; causa di questa imperfezione è la 67

2Maccabei 7,28.

90

materia. Quindi la materia è contemporaneamente un aiuto e un ostacolo: un aiuto

perché fa calare le idee nel mondo sensibile ed è un ostacolo perché, per inclinazione

naturale, mantiene una componente di disordine. Ma che cos’è che fa da mediatore

tra il mondo delle idee e il mondo sensibile? Platone, a questo punto, introduce la

figura del Demiurgo, divino artigiano: il Demiurgo è colui che, contemplando le

idee, plasma la materia sul modello delle idee stesse.

A differenza della divinità cristiana che crea il mondo, quella platonica si

limita a plasmarlo e non è onnipotente; ha infatti due limiti: la materia, che non gli

permette di costruire un mondo perfetto, e le idee, che sono il modello a cui deve

attenersi. Il Demiurgo comincia a plasmare nella materia e arriva a generare tutta la

realtà. Riassumendo, si può dire che la causa dell’origine del mondo per Platone è il

bene e la bontà del Demiurgo, che plasma il mondo grazie alla sua benevolenza; il

Demiurgo è buono e da ciò che è buono non può nascere nulla che non sia tale. Il

disordine presente all’origine, viene trasformato dal Demiurgo in ordine. Platone

dice testualmente:

Poiché la divinità voleva che tutte le cose fossero buone, e che nessuna, per

quanto possibile, si rivelasse imperfetta, avendo preso così quanto era visibile,

che non si trovava in quiete, ma in un movimento senza ordine né regola, lo

condusse dal disordine all’ordine, considerando che questo è in tutto migliore di

quello68

.

Ritornando al discorso di Mancuso, la Bibbia afferma due cose differenti e

soprattutto in contrasto tra di loro: Dio ha creato il mondo “non da cose preesistenti”

68

Platone, Timeo, a cura di F. Fronterotta, Bur, Milano 2003, 30 a(1-7), p. 185.

91

(2 Maccabei 7,28) e Dio ha creato il mondo da “una materia senza forma” (Sapienza

11,17). Prima di schierarsi da una parte o dall’altra, occorre chiedersi se gli altri testi

biblici inerenti alla tematica della creazione siano più coerenti con Maccabei o con

Sapienza. Per quanto riguarda Maccabei, c’è solo un testo in tutta la Bibbia che gli

può essere affiancato: nella Lettera ai Romani infatti c’è scritto che Dio «chiama

all’esistenza le cose che ancora non esistono»69

. Però, bisogna notare che non c’è un

esplicito riferimento alla creazione dal nulla. Per quanto riguarda invece Sapienza

11,17, la situazione è differente. Nella Bibbia la creazione viene descritta secondo

quattro modalità: come un operare, un generare, un lottare e un pronunciare una

parola. Mancuso ritiene che, non solo le prime tre tipologie, ma anche la quarta, che

tra l’altro è quella più diffusa, debba essere accostata non alla creazione dal nulla ma

alla creazione a partire da una materia preesistente. Quindi, quale delle due

concezioni bisogna privilegiare? A questa domanda, Mancuso risponde così:

Il credente che ragiona in base al principio di autorità non avrà dubbi e

privilegerà 2Maccabei per essere in linea con la dogmatica della Chiesa. Il

credente che invece non fa del principio di autorità l’ultima istanza della mente

perché non intende rinunciare a pensare, andrà alla ricerca di criteri oggettivi

per determinare la sua decisione. Io mi sforzo di appartenere alla seconda

categoria e in questa prospettiva ritengo che le visioni alternative di 2Maccabei

e Sapienza debbano essere tenute presenti entrambe, andando alla ricerca di una

posizione che superi il modo tradizionale di considerare la creazione dal nulla,

ma evitando al contempo di ricadere nel dualismo originario cui conduce l’idea

di una materia preesistente all’atto creativo. Il testo di 2Maccabei 7,28 presenta

una visione della natura all’insegna del logos, il testo di Sapienza 11,17

presenta una visione della natura all’insegna del caos, e il compito di un

pensiero teologico responsabile consiste nel cercare la sintesi tra queste due

69

Lettera ai Romani, 4,17.

92

visioni opposte, una sintesi che a mio avviso si dà nella considerazione che la

creazione avviene sì dal nulla ma non in modo perfetto, nel senso che l’essere

che scaturisce in seguito all’atto creativo emerge come caotico e bisognoso di

ricevere una continua plasmazione, una condizione dell’essere che comporta il

principio-passione (logos + caos = pathos), sia per il Creatore sia per gli esseri

creati70

.

Per Mancuso, la conciliazione tra ordinamento del caos e creazione dal nulla

può avvenire solo a una condizione, quella che anche il caos sia a sua volta creato da

Dio. Per chiarire meglio questo concetto, Mancuso specifica che non bisogna

intendere ciò nel senso che Dio voglia veramente il caos per se stesso, ma nel senso

che lo stato caotico iniziale è la condizione ontologica necessaria per l’evoluzione

del mondo. Ed è questo il senso della creazione continua, quello di una lotta mai

conclusa ma sempre drammaticamente in atto per porre ordine all’interno del caos.

La creazione continua ordina il caos mediante il lavoro incessante del logos.

Mancuso ritiene che

il caos vada ricondotto alla strutturale imperfezione dell’essere creato, che esce

dalle mani di Dio non come perfettamente compiuto ma come strutturalmente

impastato di logos e di caos, di ordine e di possibilità di infrangere l’ordine,

conditio sine qua non per la nascita della libertà e dello spirito capace di

amore71

.

Ma che relazione c’è tra Dio e il mondo? In Platone, la relazione tra il mondo

delle idee e il mondo sensibile è data dal Demiurgo. Nel Cristianesimo invece, la

70

V. Mancuso, Il principio passione, op. cit., pp. 230-231. 71

Ivi, p. 262.

93

relazione tra la Realtà primaria e la realtà secondaria, cioè la relazione tra Dio e il

mondo è data da Gesù Cristo. Nel processo di incarnazione-passione-morte-

risurrezione si deve individuare l’espressione permanente della relazione tra Dio e il

mondo. La morte di Gesù Cristo non deve essere considerata come una decisione

prestabilita da parte di Dio Padre, bisognoso di quel sangue innocente per redimere il

mondo, ma come una logica inscritta da sempre in tutte le cose, visto che ogni forma

di esistenza partecipa della passione primigenia e inestirpabile della vita. La croce

quindi, secondo questa prospettiva, non deve essere interpretata come il prezzo che il

Figlio di Dio deve pagare per redimere l’uomo dal peccato, ma risponde a qualcosa

di molto più profondo, risponde ad una logica perenne che da sempre contrassegna il

rapporto tra Dio e il mondo.

La fede cristiana si determina come fede nel ruolo cosmogonico del Cristo,

posto accanto al ruolo di creatore assegnato tradizionalmente a Dio Padre.

L’attribuzione della mediazione della creazione al Cristo raggiunge una

specificità tutta propria perché con essa il Nuovo Testamento attribuisce a un uomo

ciò che le altre religioni attribuiscono a un’entità impersonale. Ricondurre la

mediazione della creazione a Cristo permette di affermare che la Realtà primaria è sì

altra, ma non totalmente altra, e che anzi la sua identità ultima è il bene, l’amore, la

giustizia. Ciò consente di sostenere che l’amore, il bene, la giustizia non sono in

contraddizione con l’essere del mondo, ma ne sono il coronamento, perché quando si

serve il bene non si fa altro che potenziare la logica cosmica.

Alla luce di tutto ciò, Mancuso nota che

il limite più grande della dottrina cattolica tradizionale sulla creazione consiste

proprio nel non aver dato adeguata attenzione al ruolo cosmico del Cristo. Nella

94

misura in cui ciò avviene, si entra in quell’ordine di idee che io chiamo

«principio-passione», perché la modalità con cui il Cristo cosmico guida il farsi

del mondo non può non essere la medesima che emerge dalla storia di Gesù di

Nazaret, la quale è interpretata nei Vangeli all’insegna della passione. […] C’è

una necessità del patire divino che non concerne solo il Gesù storico, ma anche

il divino nel suo rapportarsi al mondo, cioè il Cristo nella sua dimensione

cosmica. Dio infatti è in contatto con il mondo solo mediante la mediazione

cristica, il Padre in quanto tale è assente dal processo cosmico, non c’è nessuna

mano dall’alto che guida, provvede, dirige, castiga, interviene. C’è un principio

divino che guida l’evoluzione a partire dal basso, e questo principio è il cristico,

il logos, un logos che crea relazione tra gli elementi portandoli a livelli di

organizzazione sempre più complessi, ma che fa tutto ciò solo attraverso un

lavoro continuo per modellare il caos, il che comporta necessariamente fatica,

dolore, fino all’immolazione (Apocalisse 13,8 parla dell’Agnello «immolato

dalla fondazione del mondo»). È il principio-passione. Dire «Cristo cosmico»

e dire «principio-passione» è la medesima cosa72

.

Questa nuova visione, questo nuovo modo di considerare Cristo porta a

rivedere all’insegna del principio-passione il rapporto tra Dio e il mondo. Ma Dio è

impassibile, imperturbabile, oppure la passione di Gesù Cristo coinvolge Dio per

davvero? Secondo Mancuso, i termini usati dal Nuovo Testamento per connotare

l’essenza (spirito, luce, amore) inducono a pensare che il pathos del mondo non

debba essere estraneo alla sua vita. La specificità, quindi, del messaggio cristiano

sulla creazione consiste nel legare l’origine e il farsi del mondo al Cristo.

Mancuso ritiene che «il radicamento cristologico esige di impostare ex novo la

dottrina della creazione, facendola passare dal principio-potenza che legge il Cristo

72

Ivi, pp. 200-201.

95

come Pantocrator, al principio-passione, che legge il Cristo in modo molto più

conforme all’umile storia reale di Gesù»73

.

La vita di Gesù, con la sua incarnazione-passione-morte-risurrezione,

obbedisce alla logica eterna mediante cui avviene da sempre il rapporto tra Dio e il

mondo. Questa logica è esemplificata dai martiri di tutti i tempi che hanno dato la

loro vita per far trionfare la giustizia nel mondo; tra questi Mancuso ricorda con

molto stima tre siciliani: Giovanni Falcone, Paolo Borsellino e Giuseppe Puglisi, che

non hanno indietreggiato di un millimetro pur sapendo benissimo a che cosa

sarebbero andati incontro. Chi lotta per il bene e per la giustizia incontra

l’opposizione. Il principio del mondo è la passione.

Questa nuova visione della vita è all’insegna della creazione continua, l’unica,

secondo Mancuso, capace di rendere ragione contemporaneamente

dell’insegnamento della scienza contemporanea e del vivo senso del Dio cristiano

che è amore, sacrificio, passione.

73

Ivi, p. 92.

96

CAPITOLO TERZO

Chiesa e bioetica

Il compito dei cristiani non è

emettere sentenze negative.

Piuttosto bisogna assaporare

l’energia vitale e dare un valore

spirituale all’esperienza religiosa.

Vito Mancuso

3.1 Teologia della relazione

Ad una teologia basata solo ed esclusivamente sul principio di autorità,

Mancuso contrappone una “teologia laica”. Una teologia che decide la posizione da

assumere, la verità da stabilire sulla base dell’autorità è difficilmente conciliabile con

la coscienza contemporanea, la quale a sua volta non ragiona più sulla base del

principio d’autorità ma sulla base del metodo sperimentale, ovvero: ipotesi e verifica,

verifica che avviene in relazione al mondo. Essere cristiani infatti significa avere il

mondo, l’altro, il prossimo, come interlocutore privilegiato. E ciò vale anche per la

Chiesa: anch’essa deve avere il mondo e non se stessa come interlocutore

privilegiato. La Chiesa non deve essere funzionale a se stessa, ma deve servire al

97

mondo. Ciò che è costitutivo dell’identità cristiana è “essere per l’altro”. L’identità

cristiana non esiste quindi a prescindere dalla relazione con il mondo. Ma lo stesso

concetto di Dio implica il rapporto con il mondo; il Dio cristiano è per definizione

relativo: relativo al mondo, relativo all’uomo e naturalmente relativo alla coscienza

che man mano lo comprende. La teologia trinitaria insegna che Dio è da sempre

relazione. Dio si dà nella relazione, nell’unione: non può essere compreso né solo in

se stesso né solo nell’uomo.

Il compito della Chiesa dovrebbe essere quello di occuparsi della cura delle

anime e della direzione spirituale. È Gesù stesso che parla del primato non della

dottrina ma della vita vera, pratica, concreta. Non si tratta di fare a meno delle

dottrine, dei dogmi: si tratta invece di rivederli, riattualizzarli, e se è il caso anche

negarli. Non si può fare a meno dei dogmi, con i quali l’uomo deve confrontarsi. Ma

il confronto, secondo Mancuso, non deve condurre a un’obbedienza supina e cieca

bensì a una continua verifica. Affinché ci sia una religione all’altezza dei tempi,

occorre dare alla religione una nuova visione del mondo; e la visione del mondo alla

religione non la si può dare se non in un reale ascolto di ciò che la scienza insegna e

di ciò che la filosofia pensa. Questa è l’unica possibilità affinché il cristianesimo

possa tornare ad interessare alla coscienza contemporanea. Secondo Mancuso, la

qualità di un pensiero teologico dipende in massima parte dalla capacità di cogliere

lo spirito del proprio tempo e di disporre poi le verità dottrinali secondo la gerarchia

che ne consegue. Solo coltivando una reale comunione con il presente, la teologia

rimane “teo-logia” e si fa attuale, in grado di toccare, curare e forse anche un po’

guarire la vita degli uomini.

98

L’innovazione che deriva dalla ricerca è destinata nel cattolicesimo a scontrarsi

inevitabilmente con la staticità e la rigidità della dottrina. Perché il cristianesimo

possa continuare a vivere, è necessario che la teologia lo liberi dalla forma

rigidamente ecclesiastica impostale dalla gerarchia lungo i secoli. Mancuso afferma:

Una teologia all’altezza dei tempi non può più permettersi di configurarsi a

priori come obbedienza incondizionata al Magistero. […] Il teologo si deve

esporre allo splendore della verità con la più radicale onestà intellettuale, senza

piegare mai a priori il proprio pensiero per giustificare decisioni di cui non

riscontra la fondatezza, trasformandosi in un apologeta di palazzo. […] La

teologia deve diventare libera ricerca spirituale. È chiaro che l’assunzione di

questa prospettiva di rigorosa sincerità ha un prezzo inevitabile che si chiama

“eresia”. Ma se eresia significa essere pronti a lottare per la verità fino a

scardinare ciò che alla prova dei fatti appare come una forzatura ideologica

della dogmatica, allora per la sopravvivenza del cristianesimo è necessaria

l’eresia74

.

La perdita dello statuto dinamico della verità è, secondo Mancuso, la causa

principale della crisi che a partire dall’epoca moderna non ha cessato di interessare il

cattolicesimo. La verità deve tornare ad essere pensata come vita. Il criterio di verità

delle affermazioni della fede non deve essere collocato più all’interno della stessa

fede, ma fuori, nella vita. È proprio pensando la vita che la teologia diventa pensiero

di Dio, del Dio vivo qui e ora, e non di quello depositato nella lettera biblica.

Alla luce di questa impostazione che assegna il primato non alla dottrina bensì

alla verità, Mancuso afferma:

74

V. Mancuso, Obbedienza e libertà, op. cit., pp. 173-174.

99

Definisco il mio lavoro “teologia laica”, intendendo una teologia che nasce

dalla fede e vuole servire l’esperienza spirituale della fede, ma che non fa del

Magistero della Chiesa il criterio ultimo e normativo del credere. Il criterio

ultimo e normativo non è la dottrina, è il bene concreto75

.

A proposito del bene, Mancuso cerca di elaborare una sorta di “teologia del

bene comune”, la quale si esplica attraverso l’azione morale. L’azione morale si

costituisce tenendo presenti sempre due pilastri. Questo è un concetto decisivo e

importantissimo per Mancuso. Nel primo pilastro sono contenuti i principi morali,

nel secondo vi è la conoscenza della situazione concreta. L’azione morale non è

nient’altro che il ponte che collega questi due pilastri nel modo migliore possibile,

per creare la migliore armonia, la migliore giustizia, il migliore benessere per la

situazione concreta. Questa è la vera azione concreta che si pratica mediante la

sinderesi, mediante la coscienza personale. Quindi non bisogna mai perdere il

contatto con la terra su cui si cammina; occorre avere sempre occhi aperti, mente

vigile e non bisogna mai applicare schemi prefissati, perché il giudizio morale è

come un ponte tra i principi veri, i comandamenti ad esempio, e la situazione

concreta.

Il destinatario privilegiato della teologia deve dunque diventare la vita concreta

degli uomini; la teologia realizza pienamente se stessa quando riesce a condurre gli

uomini all’unione con Dio, alla santità. Il rapporto Dio-mondo viene mediato da

Cristo.

75

Ivi, p. 175.

100

La proposta teologica di Mancuso è definibile come

teologia della relazione. Si tratta di una teologia cristiana della relazione,

perché in essa il Cristo è il paradigma della perfetta relazionalità, pienamente

verticale (amore per Dio in quanto origine e meta dell’essere) e pienamente

orizzontale (amore per il prossimo e per ogni frammento di essere). Il Cristo è il

simbolo concreto che manifesta come la relazione più alta sia l’amore, nonché

la promessa e la speranza che il compimento della logica relazionale che

informa l’essere-energia sarà l’amore76

.

Mancuso sottolinea molto il concetto di relazione e ad esso assegna il primato.

Parlando della Santissima Trinità, non ci sono prima le tre persone del Padre, del

Figlio e dello Spirito Santo come tre persone autonome che solo in seguito si

relazionano, ma c’è l’unica divinità che, essendo in se stessa relazione, fa sorgere le

persone dal suo movimento relazionale.

Riassumendo, si può dire che il compito dell’etica cristiana consiste nel

condurre gli uomini a vivere la vita nella consapevolezza che Dio è amore e lo è qui

e ora. Le norme sono necessarie ma l’etica inizia quando esse si espongono alla

situazione concreta.

76

V. Mancuso, Obbedienza e libertà, op. cit., p. 184.

101

3.2 Una nuova Chiesa?

Forse all’interno della Chiesa si sta assistendo ad una lenta ma progressiva

apertura verso quelle che sono le nuove esigenze del terzo millennio. Per Mancuso

questo rinnovamento della Chiesa può avvenire seguendo due grandi uomini, Carlo

Maria Martini e Jorge Mario Bergoglio.

3.2.1 Un uomo di Dio: Carlo Maria Martini

Carlo Maria Martini: cardinale per lungo tempo papabile, arcivescovo per più

di vent’anni, biblista, rettore dell’Università Gregoriana e dell’Istituto Biblico,

esperto predicatore di esercizi spirituali, gesuita. Ma, al di sopra di tutti questi titoli,

Martini viene considerato “un uomo di Dio”. In un articolo su Martini, Mancuso

scrive:

Mi sia concesso infine un ricordo personale di colui che è stato il mio padre

spirituale. Se io infatti iniziai a vivere seriamente la fede cristiana, fu

prevalentemente a causa sua: in quanto vescovo della mia diocesi, egli faceva

risplendere nella mia giovane mente di liceale l’ideale cristiano. Ciò che mi

conquistò, fin dai suoi primi discorsi che leggevo o ascoltavo, fu il linguaggio.

Prima ancora delle cose che diceva, ciò che catturava la mia giovane attenzione

era il modo con cui le diceva, del tutto privo di retorica ecclesiastica ma al

contempo così diverso rispetto al linguaggio quotidiano, un modo di parlare che

sapeva far percepire un altro mondo senza essere “dell’altro mondo”.

Le sue parole erano semplici ma severe, comprensibili ma profonde, elementari

ma arcane, e soprattutto riferite sempre alle cose e alle situazioni, mai dette per

102

se stesse, per far colpo sull’uditorio. Io ero poco più di un ragazzo e certamente

allora non avrei saputo dire nulla delle caratteristiche del suo linguaggio, ma ne

percepivo dentro di me l’autenticità esistenziale, avvertivo uno stile diverso, per

nulla ecclesiastico ma non per questo privo di sacralità, anzi tale da farmi

sentire che c’era veramente qualcosa di sacro nell’esistenza concreta degli

uomini che andava servita con rettitudine, intelligenza e amore. E questo Carlo

Maria Martini ha fatto, in fedeltà a Dio e agli uomini, per tutta la sua lunga

vita77

.

Parlando del cardinal Martini, non si può non parlare di ciò che ne costituisce il

tratto distintivo, ovvero il metodo, la lectio divina non solo della Bibbia ma

soprattutto della realtà. Bisogna prendere in considerazione tre fasi: meditatio, oratio,

contemplatio. Prima di esprimersi, è necessario meditare, e infine vi è il momento del

silenzio, della contemplazione.

Oltre a ritenere Martini un critico testuale, si può pensarlo anche come un

critico testuale della vita concreta delle persone. Il suo carisma consiste nel riuscire a

leggere le anime, nel condurle verso il divino. Quando il divino non è funzionale ad

azioni di potere, ma è verso se stesso, è ancora in grado di esercitare un fascino sugli

uomini e le loro libertà. È proprio questo suo essere “uomo di Dio” che lo rende

affascinante ai non credenti. Martini viene definito il “cardinale dell’ascolto” proprio

per l’attenzione, per il suo essere interessato ad ogni situazione concreta e ad ogni

persona. Martini non può essere definito un rivoluzionario; tuttavia

è sbagliato però non far vedere che proprio da un uomo così, che aveva questo

grande amore per la Chiesa, […] una volta giunto alla presa di coscienza della

gravità della situazione ecclesiastica, sia giunta una serie di prese di posizione

77

V. Mancuso, Un uomo di Dio, in “La Repubblica”, 1 Settembre 2012.

103

veramente dissonante rispetto alle visioni tradizionali del Vaticano. Per questo il

fenomeno Martini dà così fastidio78

.

Le parole di Martini risultano insidiose e, in un certo senso, anche esplosive. Si

pensi ad esempio al suo parere favorevole per quanto concerne la fecondazione

artificiale. Martini si esprime contro il modo con cui la Chiesa amministra i

sacramenti, contro una morale sessuale che ha perso la capacità di parlare alle

persone. Anche il tema dell’omosessualità viene affrontato dal cardinale, il quale, pur

riconoscendo che c’è una singolarità del matrimonio fra un uomo e una donna,

tuttavia non giunge a negare diritti civili a unioni tra persone dello stesso sesso. Una

virtù propria del cardinal Martini è la cosiddetta phronesis, che non è da intendere

come prudenza, bensì come discernimento, la virtù dell’intelligenza che tiene conto

dei contesti e soppesa le decisioni. Per Martini la Chiesa è rimasta indietro di

duecento anni.

Non solo le parole, ma anche i gesti di Martini, suscitano all’interno della

Chiesa diverse discordanze, soprattutto per quanto riguarda la sua morte. Si è parlato

di eutanasia, ma non si è trattato di eutanasia, bensì di “cure palliative”. Chi sceglie

queste cure ha la consapevolezza di non poter più essere guarito, ma non per questo

rinuncia ad essere curato. Le cure palliative infatti fanno sì che la fine sia la meno

dolorosa possibile. Martini, a tal riguardo, si è avvalso della facoltà

dell’autodeterminazione. Ciò che emerge dalla sua morte è una lezione molto umana:

Anche una persona come il cardinal Martini (…) aveva paura. Questo vuol dire

che nessuno di noi ne è escluso e occorre avere l’attenzione perché sia data a

78

AA.VV., Ho sognato una Chiesa. L’eredità della vita e del pensiero del cardinal Martini, Aliberti

Editore, Roma 2012, pp. 79-80.

104

ciascuno la possibilità di sconfiggere questa paura, come ha potuto farlo lui,

esercitando la facoltà dell’autodeterminazione, la possibilità cioè di un essere

umano di vivere liberamente anche l’ultima pagina della sua vita che è la morte,

così come ha vissuto liberamente tutte le altre pagine79

.

Alla fine ciò che determina il valore di un essere umano è il metodo. Durante

tutta la sua vita, Martini ha letto il mondo come un testo da interpretare alla luce

delle promesse divine attestate dalla Bibbia e prima ancora scolpite nell’anima di

ogni giusto. Mai, in Martini, il dogma ha prevalso sulla vita reale, mai la lettera ha

ucciso lo spirito, ed è in questa prospettiva che vanno lette le sue illuminate prese di

posizione in campo bioetico. La centralità della coscienza personale è il principio

cardine dell’unica bioetica coerente con la novità evangelica, mai fredda, dura,

severa, ma sempre attenta al bene concreto delle persone concrete. La “lectio divina”

legge il fenomeno concreto alla luce delle esigenze e delle potenzialità divine e tende

a suscitare in esso una risposta pratica, concreta, operosa. La finalità della lettura

divina del reale infatti è sempre pratica, è azione, lavoro, caritas. L’attenzione al

singolo è sempre più importante delle norme generali, ma con la finalità di

sollecitarlo verso il puro e severo ideale della fedeltà al bene e alla giustizia. Tutto

questo si può tradurre nel proporre un modello di fede cristiana funzionale al mondo.

Ecco dunque il metodo-Martini80

: la libertà di pensiero, ancora prima

dell’adesione alla fede. Certo, si tratta di una libertà mai fine a se stessa e sempre

tesa all’onesta ricerca del bene e della giustizia, ma a questa adesione al bene e alla

giustizia si giunge solo mediante il faticoso esercizio della libertà personale. È questo

79

Ivi, p. 88. 80

Cfr. V. Mancuso, L’operazione-anestesia sul cardinal Martini, in “La Repubblica”, 9 Settembre

2012.

105

il metodo che da un lato affascina la coscienza laica di ogni essere pensante e che

invece dall’altro lato inquieta il potere ecclesiastico basato sull’obbedienza acritica

all’autorità.

Molto chiaro, a questo punto, diventa il motto di Martini: «Pro veritate adversa

diligere»81

, per amore della verità amare anche le avversità, le contraddizioni. Amare

la verità non significa amare i dogmi, significa amare la vita, anche con le sue

avversità, anche con le sue contraddizioni.

Alla morte del cardinale, Mancuso ritiene che all’interno della Chiesa non ci

siano persone in grado di ricevere l’eredità di Martini. Ma, dopo pochi mesi dalla

scomparsa del cardinale, ecco che un gesuita, proprio come Martini, viene posto a

capo della Chiesa di Roma, diventandone papa. È ancora presto per capire come sarà

il pontificato di papa Francesco, ma sicuramente è uno dei possibili eredi del cardinal

Martini.

3.2.2 Papa Francesco

Mancuso insiste molto sulla necessità di riformare radicalmente la curia

romana. Egli pone l’unica soluzione nel comprendere che il principio che può dare

direzione, governo e senso è la fede nella logica relazionale, nell’armonia, nella

ricerca del bene, della giustizia, della pace. Non c’è nulla che sta in sé, ogni cosa

scaturisce dalla relazione. Mancuso arriva addirittura a dire che «è solo stando al

81

Cfr. V. Mancuso, Le letture divine del cardinal Martini, in “La Repubblica”, 26 Ottobre 2011.

106

passo con il mondo che si sta al passo con Dio»82

. Quindi il mondo non deve essere

in funzione della Chiesa, ma la Chiesa deve essere in funzione del mondo. Se la

Chiesa non si trasforma in organizzazione e rimane ordine verticistico, continuerà a

risultare sempre meno interessante al mondo contemporaneo.

Una nuova svolta, e forse anche decisiva, si sta avendo con l’elezione al soglio

pontificio di papa Francesco. Mancuso intravede in lui la persona giusta che può far

diventare realtà quel rinnovamento all’interno della Chiesa pensato e voluto da

Giovanni XXIII e dal Vaticano II. Mancuso sottolinea alcuni aspetti importanti legati

a Bergoglio, dicendo che è

il primo papa non europeo, il primo papa latino-americano, il primo papa che ha

scelto di presentarsi al mondo come “vescovo di Roma” e soprattutto il primo

papa che ha scelto di chiamarsi Francesco. Nell’unione di queste quattro

assolute novità, unite alla preghiera che ha da subito caratterizzato la sua prima

apparizione da papa, io intravedo quella speranza di rinnovamento all’insegna

del Vaticano II che Francesco I può realizzare e di cui la Chiesa ha un immenso

bisogno83

.

La scelta di chiamarsi “Francesco” non può passare inosservata; è una scelta

che, proprio come dice Mancuso, porta già nel nome una missione. Il fatto che

Bergoglio abbia scelto di chiamarsi Francesco indica nel modo più esplicito la sua

chiara percezione della gravità della situazione che la Chiesa cattolica sta vivendo e

soprattutto la sua convinzione riguardo alla via per uscirne: la radicalità evangelica,

la povertà, la mitezza, la lontananza dal potere, l’amore per ogni uomo e per gli

animali, la cura per tutto il creato.

82

V. Mancuso, Adesso la Chiesa apra le sue porte, in “La Repubblica”, 9 Marzo 2013. 83

V. Mancuso, Nel nome una missione, in “La Repubblica”, 14 Marzo 2013.

107

Un altro aspetto che non deve essere sottovalutato è quello di presentarsi al

mondo non come papa bensì come vescovo di Roma. Si ritorna al ruolo originario e

primordiale della figura del pontefice che non è un monarca assoluto, ma è il primo

tra persone di pari dignità. Da papa egli

vuole anzitutto essere vescovo di una città e anzi sa che può essere veramente

papa in fedeltà al Vangelo e al Vaticano II solo nella misura in cui non cesserà

mai di essere vescovo, cioè una guida concreta a contatto con i problemi reali

della gente reale. Bergoglio è un gesuita, è mite e insieme austero, amante della

semplicità, della povertà, di una vita all’insegna dell’essenziale, privo di

decorazioni barocche e dal linguaggio semplice e asciutto84

.

La gente avverte questo nuovo clima, questa ventata di innovazione che è

nell’aria. E questo grazie anche all’empatia che circonda la persona del nuovo

Pontefice. A proposito dell’empatia, Mancuso afferma:

L’empatia è molto importante, non solo, com’è ovvio, a livello psicologico, ma

anche a livello teologico. Il termine infatti rimanda alla parola greca pathos, che

significa passione, e che costituisce uno dei concetti centrali del cristianesimo, a

partire dalla passione di Cristo e dall’amore che definisce l’essenza di Dio,

amore che a sua volta è passione e genera passione. Il fatto che papa Francesco

sia circondato da un abbraccio di empatia a livello mondiale non si spiega solo a

livello umano per la sua carica personale e per la spontaneità e la semplicità dei

suoi gesti; si spiega anche a livello teologico e spirituale per il suo essere in

grado di rappresentare la passione di Dio per il mondo. Quindi l’empatia che

circonda il Papa (e che porta a vedere in ogni sua parola qualcosa di nuovo

anche quando di per sé non c’è nessuna novità) è estremamente preziosa, è un

segno dello Spirito si direbbe nel linguaggio teologico. E il Papa non la deve

deludere, deve esserne all’altezza fino in fondo, venendo incontro al bisogno di

84

Ibidem.

108

cambiamento che la gran parte dei cattolici nel mondo avverte riguardo alla

Chiesa85

.

Le priorità che papa Francesco deve affrontare hanno a che fare con la

ristrutturazione della curia, la pedofilia, il dialogo interreligioso, la morale sessuale,

le domande della bioetica, il ruolo delle donne nella chiesa, la questione dei

divorziati risposati e delle persone omosessuali.

Riguardo alle persone omosessuali, sorprende molto l’interrogativo che si pone

papa Francesco: Chi sono io per giudicare? Queste parole mostrano come davvero

nessuno è nella posizione di poter giudicare. Bergoglio si colloca così tra i discepoli

di Gesù volti ad attuare le sue parole: «Non giudicate e non sarete giudicati; non

condannate e non sarete condannati, perdonate e sarete perdonati»86

.

Da tutto questo però deve scaturire una conseguente azione di governo

finalmente all’insegna della novità evangelica. E occorre coerenza: non si può

proclamare a parole il rispetto per le persone omosessuali e la loro pari dignità di

figli di Dio e poi giudicare la loro condizione come condannata dalla legge naturale e

dalla Bibbia; al contrario, se veramente si vuole mostrare in modo concreto il rispetto

di cui si parla nei loro confronti, occorre mettere in atto un’armonia delle relazioni e

non come definizioni di ruoli e di comportamenti.

Allo stesso modo, per quanto concerne la questione dei divorziati risposati, se

davvero si vuole che sia la misericordia ad avere il primato per i divorziati risposati,

occorre attuare una disciplina canonica dei sacramenti che conceda loro di accostarsi

ad essi senza nessuna discriminazione.

85

V. Mancuso, La Chiesa dell’empatia, in “La Repubblica”, 30 Luglio 2013. 86

Luca, 6,37.

109

Per quanto riguarda invece il ruolo della donna all’interno della Chiesa, papa

Francesco afferma che le donne devono avere più spazio all’interno della Chiesa,

anche se la Chiesa non potrà mai concedere loro il sacerdozio. Mancuso, a tal

riguardo scrive:

Se veramente si vuole che la donna abbia maggiore potere all’interno della

Chiesa si deve procedere di conseguenza e, anche senza giungere

all’ordinazione sacerdotale, si deve permettere che le donne diventino cardinali

e ministri con pieni poteri del governo della Chiesa (oggi per accedere al

cardinalato occorre essere diaconi o sacerdoti, e le donne possono accedere al

diaconato, lo testimonia il Nuovo Testamento, basta leggerlo e applicarlo)87

.

Jorge Mario Bergoglio in quanto pontefice regnante può far sì che questa

mentalità non giudicante diventi la prassi corrente della Chiesa in ordine alle persone

omosessuali, ma anche per quanto riguarda la questione dei divorziati risposati e il

ruolo delle donne all’interno della Chiesa.

Una questione molto scottante è quella sollevata dalle cosiddette “donne dei

preti” che scrivono a papa Francesco, le quali vogliono porre ai suoi piedi la loro

sofferenza, affinché qualcosa possa cambiare non solo per loro ma per il bene di tutta

la Chiesa. Queste donne chiedono, in pratica, di rivedere la legge del celibato.

A questa proposta la Chiesa potrebbe rispondere in due modi: un’alternativa

potrebbe essere quella di considerare il fatto dal punto di vista etico, e quindi

considerare moralmente scorretto il comportamento di un prete che intrattiene una

relazione d’amore con una donna, contravvenendo così alla legge del celibato. Si

potrebbe consigliare il pentimento ma soprattutto l’interruzione della relazione

amorosa. In questo modo si prende atto della debolezza umana ma si conferma

87

V. Mancuso, La Chiesa dell’empatia, in “La Repubblica”, 30 Luglio 2013.

110

l’istituzione della legge del celibato. Un’altra alternativa invece potrebbe essere

quella di cominciare a considerare il celibato come non più necessario all’esercizio

del ministero nel momento in cui si sperimenta che l’amore che può legare ad una

persona non ostacola il servizio pastorale offerto dal prete alla comunità.

Vito Mancuso, in un articolo scritto proprio in riferimento a questa lettera,

dice:

Ecco la posta in gioco, il bene della Chiesa. L’attuale legge ecclesiastica che

lega obbligatoriamente il sacerdozio al celibato favorisce il bene della Chiesa?

Guardando ai due millenni del cattolicesimo, ritroviamo che nel primo il

celibato dei preti non era obbligatorio («fino al 1100 c’era chi lo sceglieva e chi

no», così scriveva il cardinale Bergoglio). Mentre lo divenne nel secondo in

base a due motivi: 1) la progressiva valutazione negativa della sessualità, il cui

esercizio era ritenuto indegno per i ministri del sacro; 2) la possibilità per le

gerarchie di controllare meglio uomini privi di famiglia e di conseguenti

complicate questioni ereditarie. Così il prete cattolico del secondo millennio

divenne sempre più simile al monaco88

.

Mancuso però distingue il monaco dal prete; il primo sceglie consapevolmente

di dedicare la sua vita solo a Dio, sceglie di condurre una vita in solitudine, come il

nome stesso già suggerisce; il secondo invece esiste in funzione della comunità, è

colui che guida la comunità in quanto dotato di maggiore saggezza ed esperienza di

vita. Ora Mancuso si chiede se il celibato favorisca oppure ostacoli questa saggezza.

Egli ritiene che in alcuni casi il celibato favorisce questa saggezza, in altri casi no, e

quindi deve essere lasciato alla libera scelta della coscienza, come appunto avveniva

nel primo millennio. Chi è favorevole all’abolizione del celibato, si appella a questa

88

V. Mancuso, Il matrimonio è un diritto anche per i preti, in “La Repubblica”, 19 Maggio 2014.

111

frase della Bibbia: «Non è bene che l’uomo sia solo»89

; chi invece vuole mantenere il

celibato, riporta questa frase nella quale si parla di «uomini che si sono fatti eunuchi

per il regno dei cieli»90

. Mancuso sostiene che sia giunto il momento di fare tesoro

delle esperienze passate e di far sì che quei preti che vivono storie d’amore

clandestine possano viverle alla luce del sole continuando però a servire la Chiesa. In

questo modo si avrebbero molti più sacerdoti; basti pensare infatti a tutti quei preti

che hanno abbandonato l’abito talare per amore di una donna e che potrebbero

benissimo ritornare a servire la Chiesa. Nel momento in cui si riconosce il

sacramento dell’ordine compatibile con quello del matrimonio, si potrebbe concedere

al prete di sposarsi così come si potrebbe concedere ad un uomo sposato di ricevere il

sacramento dell’ordine.

Tutto questo inoltre sarà perfettamente compatibile con quanto espresso nel

Nuovo Testamento:

Se uno aspira all’episcopato, desidera un nobile lavoro. Ma bisogna che il

vescovo sia irreprensibile, non sposato che una sola volta, sobrio, prudente,

dignitoso, ospitale, capace di insegnare, non dedito al vino, non violento ma

benevolo, non litigioso, non attaccato al denaro. Sappia dirigere bene la propria

famiglia e abbia figli sottomessi con ogni dignità, perché se uno non sa dirigere

la propria famiglia, come potrà aver cura della Chiesa di Dio?91

In questo modo non si farebbe del male a nessuno, anzi si promuoverebbe il

bene della Chiesa; e tutto ciò in piena armonia con il messaggio evangelico di Gesù

secondo il quale “la legge è per l’uomo e non l’uomo per la legge”.

89

Genesi, 2,18. 90

Matteo, 19,12. 91

I Timoteo, 3, 1-5.

112

3.3 Tematiche bioetiche

Mancuso, da fedele seguace del suo padre spirituale, il cardinal Martini, molto

si è espresso e si esprime riguardo ad alcuni aspetti bioetici, come la procreazione

medicalmente assistita, l’eutanasia, il testamento biologico, ecc.

3.3.1 Bioetica di inizio vita

Secondo Mancuso, la Chiesa dovrebbe approvare a pieno la fecondazione

assistita; infatti, in un articolo intitolato “La Chiesa e la bioetica: non c’è fede senza

la libertà”, scrive: «Siamo sicuri che la fecondazione assistita (grazie alla quale sono

venuti al mondo fino ad oggi più di 3 milioni di bambini, di cui centomila solo in

Italia) sia contraria al volere di Dio?»92

.

A questa domanda si potrebbe rispondere dicendo che non sempre il fine

giustifica i mezzi; ci sono degli aspetti etici insiti in tale questione che non devono

essere assolutamente trascurati.

Innanzitutto è opportuno fare una distinzione fondamentale, quella tra

fecondazione omologa e fecondazione eterologa. A differenza della fecondazione

omologa, dove la medicina ha il compito di “aiutare” un atto fisico sessuale posto

dalla coppia ad essere fecondo, quella eterologa coinvolge diversi valori (oltre che

diverse persone) che non possono e soprattutto non devono essere sottovalutati o

addirittura ignorati. In primo luogo bisogna dire che non esiste un “diritto al figlio”;

infatti la fecondità si può esprimere in molteplici modi, come ad esempio l’adozione

92

V. Mancuso, La Chiesa e la bioetica: non c’è fede senza libertà, in “La Repubblica”, 9 Marzo 2009.

113

o l’impegno nel sociale. In secondo luogo si perde l’importanza di un altro valore

fondamentale: la coniugalità. Il tradimento non viene tollerato, invece in questo

modo si è disposti ad accettare (magari per assecondare il desiderio di una donna che

vuole a tutti i costi diventare mamma) quello che viene definito “adulterio

biologico”. L’introduzione di un “terzo fantasmatico” nell’esclusivismo relazionale

della coppia, non solo provoca una scissione tra affettività e generazione, ma provoca

anche uno squilibrio psicologico-motivazionale nella coppia, tra il genitore che

trasmette al figlio una parte del proprio patrimonio genetico, e l’altro93

. Forse una

soluzione meno problematica potrebbe essere l’adozione perché, se un figlio non può

essere di entrambi i partners non si comprende perché debba esserlo soltanto di uno.

L’adozione invece mantiene un certo equilibrio all’interno della coppia. In ogni caso,

non si deve perdere di vista un punto fondamentale: le adozioni sono orientate a dare

una famiglia ad un bambino, e non mirano assolutamente a dare un figlio a dei

genitori.

Queste obiezioni di carattere etico e bioetico riguardo alla fecondazione

eterologa devono far riflettere; sono tematiche che hanno direttamente a che fare con

la vita e bisogna prendere in considerazione i pro e i contro di questa tecnica. Qui le

esigenze mediche si scontrano con quelle etiche. Le scoperte della scienza da un lato

destano meraviglia e gratitudine ma dall’altro suscitano preoccupazione per la specie

umana e la sua dignità.

93

Cfr. I. Marino – C. M. Martini, Dialogo sulla vita, in “L’Espresso”, 27 Aprile 2006.

114

3.3.2 Bioetica di fine vita

Tra le varie tematiche bioetiche, quella concernente il fine vita è ampiamente

affrontata da Vito Mancuso, il quale parte dall’assunto che la vita è sacra e va trattata

con rispetto dal concepimento fino alla fine. Dopo aver sfiorato alcune delle

molteplici problematiche che riguardano il concepimento, il termine della vita umana

è un tema che necessita di un notevole approfondimento. Innanzitutto che cos’è la

vita? La vita è bios (vita biologica), è zoé (vita animale), è psyché (vita psichica), è

logos (logica, calcolo, ragione), è nous (vita spirituale). Solitamente, rispettare la vita

di un essere umano vuol dire rispettarne la vita biologica che si esprime nel corpo e

la vita spirituale che si esprime nella libertà. Vi sono però delle situazioni nelle quali

l’armonia tra le diverse forme vitali viene interrotta, come nel caso in cui subentra

una malattia cronica e inguaribile. Di fronte a casi estremi di malattia, c’è chi tenta

ad ogni costo di mantenere l’armonia tra corpo, psiche e spirito, accettando la

sofferenza. C’è chi invece non riesce a mantenere quest’armonia, a causa delle

sofferenze che devastano anche la salute psichica e spirituale, e chiede di morire.

Mancuso, di fronte a quest’ultimo caso, si domanda:

Che cosa significa in questo caso rispettare la loro vita? In che senso qui si deve

applicare l’etica del rispetto della sacralità della vita? E che cosa è più sacro: la

vita biologica oppure la vita spirituale? A mio avviso rispettare la vita di un

essere umano significa in ultima analisi rispettare la sua libera coscienza che si

esprime nella libera autodeterminazione. E se un essere umano ha liberamente

scelto di mettere fine alla sua vita-bios perché per lui o per lei l’esistenza è

diventata una prigione e una tortura, chi veramente vuole il “suo” bene, chi

veramente si dispone con vicinanza solidale alla sua situazione, lo deve

rispettare. Questo sentimento di rispetto, se è veramente tale, deve tradursi in

115

concreta azione politica, nell’impegno a far sì che lo Stato dia a ciascuno la

possibilità di “vivere” la propria morte nel modo più conforme a come ha

vissuto la propria vita, in modo tale che si possa scrivere l’ultima pagina del

libro della propria vita con responsabilità e dignità. Il diritto alla vita è

inalienabile, ma non si può tramutare in un dovere. Nessun essere umano può

essere costretto a continuare a vivere94

.

Le parole di Mancuso si basano fondamentalmente sul principio di autonomia;

ma occorre prendere in considerazione i quattro principi su cui si basa la bioetica:

1. Principio di beneficialità

2. Principio di non maleficenza

3. Principio di autonomia

4. Principio di giustizia

Nel caso in cui un paziente rifiuti qualunque forma di alimentazione mentre i

medici vorrebbero alimentarlo, si ha lo scontro tra due principi, il principio di

autonomia a cui si appella il malato e il principio di beneficialità a cui si appellano i

medici. Questo conflitto tra i principi può essere risolto da un comitato etico, capace

di valutare e soppesare ogni singolo aspetto. Prima di tutto bisogna vedere la lucidità

del paziente che fa una richiesta del genere: molto spesso il dolore insopportabile, la

sofferenza continua, i momenti di sconforto possono far sì che il malato chieda di

mettere fine alla propria vita, anche se in fondo non è questo ciò che veramente

desidera.

Mancuso sottolinea l’importanza del testamento biologico, testamento che

rimanda al rapporto tra l’uomo e la sua natura, tra la volontà umana e la biologia

94

V. Mancuso, Fine vita, perché dico sì alla libertà di scegliere, in “La Repubblica”, 5 Maggio 2013.

116

umana. La Chiesa afferma il primato della libertà di coscienza ma non quello della

libertà di autodeterminazione. Allora Mancuso si chiede:

In che senso la libertà di coscienza sarebbe diversa dalla libertà di

autodeterminazione? Che cosa se ne fa un essere umano di una coscienza libera

a livello teorico, se poi, a livello pratico, non può autodeterminarsi deliberando

su se stesso? Infatti si tratta di se stessi, della propria vita e della propria morte,

non di quella di altri, quando si parla di testamento biologico. […]

L’affermazione del primato della vita come dono non può esercitarsi a scapito

di chi, tale dono, non lo riconosce o non lo vuole più. Se è un dono, dono deve

rimanere, e non, invece, trasformarsi in un giogo95

.

Mancuso afferma tutto questo basandosi sulla libertà che ha a che fare con

l’onnipotenza di Dio. Egli riconduce l’onnipotenza divina al farsi della libertà del

mondo, nel senso che

l’onnipotenza divina dispiega se stessa nel costruire un mondo libero, unica

condizione perché possa nascere lo spirito e da qui il vero amore che è il fine

della creazione. L’onnipotenza divina manifesta se stessa nel portare alla nascita

della libertà, a partire dalla vita primordiale (…) fino al dispiegamento effettivo

nell’uomo della piena libertà, la libertà consapevole di essere tale e che vuole

rimanere tale96

.

Da ciò Mancuso deduce che la decisione sulla propria esistenza non è mai

formalmente contraria alla volontà di Dio. Naturalmente Mancuso parla della

“propria” vita, non di quella degli altri. Sulla propria esistenza si può e si deve

deliberare.

95

V. Mancuso, Obbedienza e libertà, op. cit., pp. 104-105. 96

Ivi, p. 114.

117

Certo, il testamento biologico potrebbe essere una soluzione per “risolvere”

alcune situazioni particolarmente lunghe e complesse, simili al famoso caso di

Eluana Englaro; ma c’è un aspetto molto importante che non deve essere

assolutamente sottovalutato, e riguarda il fatto che si può sempre cambiare idea

all’ultimo minuto e, una decisione presa in un giorno qualsiasi, avulsa da un contesto

quale potrebbe essere il trovarsi personalmente a convivere con una malattia

terminale, potrebbe non rispecchiare più il proprio pensiero.

Ma poi, voler davvero bene ad una persona vuol dire assecondare i suoi

desideri o cercare di fare quello che si ritiene più giusto per quella persona? Se una

persona chiede di morire, chi vuole il suo bene deve rispettare la sua volontà o deve

tentare tutto il possibile, senza giungere al cosiddetto “accanimento terapeutico”?

Secondo Mancuso, chi vuole veramente il “suo” bene deve rispettare la sua

decisione ma, in ambito bioetico, la questione non è proprio così semplice: non ci

sono risposte già preconfezionate e valide per tutti, e la soluzione migliore è quella di

valutare ed esaminare ogni singolo caso. Infatti, la questione essenziale è proprio

questa:

Occorre tener presente che ogni storia, ogni paziente è in una condizione

diversa dalle altre, che cioè non è possibile in questo campo una

standardizzazione degli stati di patologia97

.

Da qui l’importanza di un comitato etico per affrontare situazioni poco

piacevoli, di fronte alle quali non si sa mai con certezza cosa sia “giusto” fare o non

fare. Ma bisogna anche essere sinceri ed avere il coraggio di ammettere che

97

A. Zangrillo, Ri-animazione. Tecnica e sentimento, Editrice San Raffaele, Milano 2010, p. 52.

118

«decidere in questo ambito presenta molti aspetti di personalismo e di arbitrio, e che

siamo poco, troppo poco assistiti da certezze di natura medica, scientifica,

obiettiva»98

. Di fronte a casi così complessi si manifesta «un vuoto dovuto a un

autentico smarrimento, che non consentiva a nessuno di potersi pronunciare dicendo

“sto facendo la cosa giusta”»99

.

C’è da dire però che, di fronte ad una persona con una malattia terminale,

l’obiettivo non è tanto curare quanto prendersi cura. Per prendersi cura e condividere

una così drammatica condizione esistenziale

occorre aver prima riconosciuto che ogni vita umana possiede in sé un valore e

una dignità che non sono alla mercé delle circostanze, che nessuna malattia o

disabilità può scalfire, né sono funzionali a progetti culturali o economici.

Perché è l’essere umano che in questo momento abbiamo di fronte nella sua

concretezza, nella sua unicità e povertà che vogliamo continuare ad amare e di

cui vogliamo prenderci cura100

.

In queste condizioni, dove non c’è spazio per la guarigione, c’è uno spazio

ancora più grande in cui accompagnare, consolare e lenire la sofferenza. Chi si

prende cura di una persona con una malattia terminale è ben consapevole di non

poter guarire, ma è altrettanto consapevole che, senza cadere nell’accanimento o

nell’abbandono terapeutico, con la sua dedizione può dare sollievo e risposta a

inesprimibili bisogni. L’etica del prendersi cura dell’altro non è che «la capacità di

capire quale sia l’atto giusto da compiere in quel momento, in quella condizione»101

.

98

Ivi, p. 54. 99

Ivi, p. 49. 100

G. B. Guizzetti, Terri Schiavo e l’umano nascosto. La medicina tecnologica e lo stato vegetativo,

Società Editrice Fiorentina, Firenze 2006, pp. 15-16. 101

Ivi, p. 72.

119

Un soggetto, ad esempio in stato vegetativo, è a tutti gli effetti un essere umano

la cui dignità e inviolabilità non sono in alcun modo scalfite dalla gravità della sua

condizione e dei suoi deficit. Infatti,

le persone che si trovano in questo stato, pur essendo gravemente ferite nelle

loro più preziose capacità di relazione, conservano la loro dignità umana:

assisterle non è dunque una forma di accanimento terapeutico ma espressione di

solidarietà nei confronti di chi, non essendo capace di provvedere a se stesso e

dipendendo dagli altri, è totalmente affidato alla loro cura e alla loro

responsabilità102

.

Ma c’è una cosa che l’uomo non deve mai dimenticare, ed è il limite della vita

umana; quindi non solo il limite della scienza o del medico, ma anche il limite che

segna la vita di ogni uomo sulla terra.

Bisogna mantenere questa concezione della vita:

La vita è un grande punto interrogativo, imprevedibile e imponderabile, che ci

sfugge da tutte le parti, di cui abbiamo un rispetto sacro, un rispetto sacro

perché rimane inafferrabile e misteriosa103

.

102

AA. VV., Questioni di bioetica, Phronesis Editore, Palermo 2009, p. 61. 103

A. Zangrillo, Ri-animazione. Tecnica e sentimento, op. cit., p. 61.

120

CONCLUSIONE

Cercare di trarre delle conclusioni sul pensiero di un teologo/filosofo ancora in

fervente attività non è certo semplice. Il suo lavoro è sempre in fieri, in continuo

divenire. In riferimento proprio al suo lavoro Mancuso dichiara:

Semplicemente ricerco, penso come sono capace di fare, espongo i risultati

provvisori delle mie ricerche nei libri che scrivo, non cerco applausi né

condanne, cerco di servire la verità come la comprendo e la vivo. Non ho

intenzionalità politica, non mi relaziono alla struttura del potere, cerco di parlare

alla coscienza individuale, la mia innanzitutto e poi quella di chi mi vuole

leggere104

.

Considerando le migliaia di copie vendute dei suoi libri, Mancuso attira

l’attenzione di molte persone, non solo in Italia ma anche all’estero. Quest’attenzione

è dovuta, secondo Mancuso, ad un disagio dell’anima contemporanea che si trova

orfana delle speranze politiche, delle speranze di cambiamenti strutturali per una

società più giusta. Da tutto ciò nasce un disagio che porta l’essere umano a scendere

più in profondità verso se stesso. Sorge in questo modo una domanda di spiritualità

molto forte, soprattutto in Italia, alla quale l’offerta della religione tradizionale per

molti aspetti non riesce ad andare incontro105

. I libri di Mancuso, probabilmente,

riescono ad incrociare questa domanda diffusa, sia per il linguaggio molto curato e

per la chiarezza espositiva, sia per il fatto che Mancuso, nel pensare il messaggio

104

V. Mancuso, Parole in libertà, intervista a cura di Mario De Maio, in “Ore Undici Quaderno”,

Gennaio 2010. 105

Cfr. V. Mancuso, Il mio Dio si chiama libertà. L’etica spiegata da Mancuso, intervista a cura di S.

Ferrari, in “Corriere delle Alpi”, 31 Gennaio 2012.

121

teologico, cerca sempre di trovare collegamenti con la dimensione filosofica e, dove

è possibile, anche con quella scientifica. Mancuso non si limita ad annunciare in

modo categorico la dimensione veritativa del messaggio cristiano, ma confronta

sempre diverse prospettive. Ma che cos’è la spiritualità? La definizione di Mancuso è

la seguente:

È una particolare gestione della libertà. Più specificatamente, la spiritualità è la

dedizione, il legame, la consacrazione della nostra libertà a una dimensione più

grande e più importante di noi, con la quale, tuttavia, ci identifichiamo.

Possiamo dire in questa prospettiva che il movimento esistenziale compiuto da

chi vive l’esistenza secondo una spiritualità è l’uscita da se stesso per realizzare

se stesso, è l’uscita dall’io empirico per entrare nell’autentico sé. […] La

persona spirituale sa di essere libera, e che in quanto tale può agire, può cioè

creare qualcosa che prima non c’era senza limitarsi a ripetere sempre la

medesima struttura. […] La persona spirituale sa anche però che precisamente a

causa della sua libertà può giungere a compiere ingiustizie, a mentire, a non

vedere altro che se stessa. […] Sa quindi che la libertà in cui consiste la sua più

preziosa ricchezza va sorvegliata, disciplinata, ordinata, e che per fare questo

non c’è modo migliore che relazionarla a una dimensione più grande che le

grandi tradizioni spirituali dell’umanità chiamano in vari modi di cui i maggiori

sono “verità, bene, giustizia, Dio, amore, pace”106

.

È proprio la dimensione della libertà che si tocca quando si parla di spiritualità.

Nella libertà però si annida ogni rischio per l’uomo, ma senza di essa l’uomo non

può realizzare se stesso. Ed è sul tema della libertà che si gioca la partita della vita

autentica. In un libro, dedicato proprio all’autenticità della vita, Mancuso scrive:

106

V. Mancuso, Tra libertà e spiritualità, in “La Repubblica”, 22 Settembre 2010.

122

La vita è tanto più umana quanto più è libera, cioè quanto più genera e

incrementa la libertà. Ne viene che riflettere sull’autenticità significa mettere a

tema il buon uso della libertà per far sì che risulti buona e non cattiva, giusta e

non ingiusta, e conduca sul sentiero della vita autentica e non su quello della

vita inautentica. Il problema dell’essere uomini è tutto qui, consiste

nell’esercizio autentico della libertà107

.

Ma cosa vuol dire autentico? L’uomo autentico, in primo luogo, è l’uomo

fedele a se stesso; in secondo luogo, è colui che ha trovato qualcosa di più grande di

sé per cui vivere. Vivere per qualcosa di più grande di sé come il bene e la giustizia,

cioè vivere l’esistenza all’insegna della più pura prospettiva etica, conduce l’uomo a

credere al fatto che qualcosa di più grande di sé esiste veramente, e questo qualcosa è

ciò che tutti i popoli di tutti i tempi hanno chiamato divino. La dimensione etica è il

fondamento autentico del pensiero del divino nella coscienza umana. Mancuso

ritiene che non sia necessario credere in Dio per condurre una vita all’insegna

dell’autenticità; ritiene però che «non sia possibile una vita pienamente autentica

senza credere nel bene e nella giustizia. […] L’uomo autentico è l’uomo che vive per

la giustizia, il bene, la verità»108

.

La tesi di Mancuso è che la relazione con il mondo sia costitutiva, originale,

essenziale per ogni uomo, il quale esiste in quanto frutto delle sue relazioni. Il modo

migliore di realizzare se stessi è stabilire rapporti autentici e giusti con gli altri.

Mancuso, a tal riguardo, afferma:

Che l’essenza del mio essere uomo (la libertà) si compia nella relazione

ordinata (il bene e la giustizia) è il punto archimedeo della mia vita. Facendo

107

V. Mancuso, La vita autentica, Raffaello Cortina Editore, Milano 2009, p. 53. 108

Ivi, pp. 135-137.

123

leva su questo punto d’appoggio sollevo me stesso, posso prendere in mano la

mia vita, so cosa sono, individuo la roccia su cui costruire la mia casa109

.

Un vero uomo è tale per il modo in cui interpreta l’essenza specifica della

natura umana, cioè la libertà. La vita è tanto più umana quanto più è libera, cioè

quanto più genera e incrementa la libertà. Il senso di una vita autentica sta nel buon

esercizio della libertà per far sì che risulti conforme alla giustizia.

Hans Jonas dà una definizione della libertà incentrata sui limiti e sui doveri

dell’uomo:

Primo compito di ogni libertà, anzi condizione del suo sussistere, è di porsi dei

limiti. Infatti solo così la società è possibile, senza la quale l’uomo non può

esistere e neppure il suo dominio sulla natura. […] Noi siamo divenuti in ciò più

liberi attraverso il nostro potere e proprio questa libertà porta con sé i suoi

doveri110

.

L’uomo ha lottato tanto per ottenere la libertà ma, una volta ottenuta, il

compito dell’uomo consiste nel disciplinarla, nell’educarla. Non bisogna mai

dimenticare che “la propria libertà finisce dove inizia quella degli altri”; quindi la

libertà non consiste nell’essere pienamente liberi, nel fare quello che si vuole: la

libertà ha dei limiti, e il dovere di ogni uomo consiste nell’agire nel pieno rispetto

della libertà altrui. Il senso del dovere è connaturato nell’essenza di ogni essere

umano pensante. Infatti, secondo Mancuso,

109

Ivi, p. 169. 110

H. Jonas, Tecnica, medicina ed etica. Prassi del principio responsabilità, Einaudi Editore, Torino

1997, pp. 244-245.

124

la condizione ontologica del nostro essere-relazione ci porta a generare l’etica,

riassunta al meglio nella regola d’oro. L’etica diviene sempre più matura man

mano che estende la condizione ontologica dell’uomo come cura al di là degli

ambiti dove è logico aspettarsela (famiglia, clan, corporazione), arrivando a

sentire il dovere di essere giusti anche verso gli estranei. L’etica compie se

stessa oltrepassando lo stretto interesse verso il più ampio inter-esse111

.

Occorre fare il bene per se stesso, ma proprio nel fare il bene per se stesso si

viene rimandati ad una logica che va al di là dell’interesse personale e che raggiunge

un inter-esse, una relazionalità che aspira a una dimensione universale, cosmica,

divina.

Mancuso ritiene che la vita biologica e la vita sociale non bastino a definire un

essere umano, che esso sia anche un’altra cosa, e che questa cosa che lo distingue da

ogni altro ente conosciuto sia la libertà. Egli si chiede:

Che cosa intendiamo dicendo «libertà»? Dicendo «libertà» diciamo: «essere >

materia». Siamo materia, ma da questa materia nascono livelli superiori

dell’essere. […] Definisco emergentismo la prospettiva conoscitiva secondo la

quale tanto più si capisce un fenomeno quanto più lo si coglie nella peculiarità

che lo distingue da tutti gli altri fenomeni, quanto più si comprende ciò che di

singolare quel fenomeno esprime, secondo una prospettiva che privilegia la

sintesi e la visione d’insieme112

.

La prospettiva sostenuta da Mancuso, quella dell’emergentismo, si contrappone

alla prospettiva del riduzionismo, secondo la quale tanto più si capisce un fenomeno

quanto più lo si riduce ai minimi termini. Mancuso invece prende in considerazione

111

V. Mancuso, Io e Dio. Una guida dei perplessi, op. cit., pp. 401-402. 112

C. Augias – V. Mancuso, Disputa su Dio e dintorni, op. cit., pp. 137-138.

125

la materia, ma sa bene come l’uomo non sia solo materia; infatti dalla materia

nascono livelli superiori dell’essere. L’emergentismo è un pensiero che si nutre della

convinzione di una progressiva evoluzione dell’essere, la quale però avviene

mediante negazioni, contraddizioni ed antinomie. Per evoluzione non si intende solo

il processo che riguarda la filogenesi, cioè l’origine della specie, ma anche quello che

riguarda l’ontogenesi, cioè la formazione del singolo individuo in tutte le sue

dimensioni. Mancuso ritiene che

il frutto più bello di tale logica evolutiva dentro l’essere umano è la comparsa

della libertà e della dimensione etico-spirituale. L’emergentismo crede che la

realtà così come si presenta sia vera. Per abbracciare la verità di un fenomeno

occorre coglierlo nella sua interezza, integralità, unitarietà113

.

Il banco di prova di verità delle affermazioni non sono le pagine scritte ma è la

vita concreta con tutte le sue contraddizioni. All’interno di questa contraddizione che

è la vita, Mancuso crede nel bene e consacra la sua vita a pensare e a cercare di

fondare questa realtà. L’obiettivo che Mancuso si propone nei suoi scritti consiste nel

rafforzare negli esseri umani l’amore per il bene e per la giustizia.

La riflessione di Mancuso si può sintetizzare in un’unica formula: ottimismo

drammatico. Tutto il suo pensiero si può esprimere in questa formula, la quale indica

una visione di fiducia (ottimismo) verso l’uomo, la vita, l’esistenza, ma nello stesso

tempo non si può non notare come la vita sia segnata dal dolore, dalla sofferenza, dal

male (drammatico). Ma il dramma del mondo non deve demoralizzare l’uomo, il

quale, proprio a partire da questo dramma, deve cercare di far trionfare il bene e la

113

C. Augias – V. Mancuso, Disputa su Dio e dintorni, op. cit., p. 113.

126

giustizia nel mondo. Tutto questo costa lavoro, fatica, ma il lavoro e la fatica fanno

parte di questa vita, fanno parte della logica che regge l’universo. L’amore umano

porta a compimento la logica del mondo. L’amore è la risultanza della logica

cosmica tesa all’armonia relazionale, il che avviene mediante il processo per nulla

lineare che scaturisce dall’interazione di logos e di caos e che, in chi lo vive, produce

pathos-passione.

In conclusione, per rendere ulteriormente più esplicito il fulcro del pensiero di

Mancuso, è opportuno riportare le parole che esprimono il suo “credo”:

Credo in un Dio che prende così sul serio l’alleanza col mondo da essere

coinvolto nel processo vitale mediante cui il mondo si fa, un Dio che si pone al

servizio del mondo per farne scaturire mediante un ininterrotto processo il

«regno di Dio». Credo in un Dio che, proprio come Gesù quella sera depose le

sue vesti e prese a lavare i piedi ai discepoli, al momento della creazione depose

la sua assolutezza e istituì quale assoluto non più se stesso, ma se stesso in

comunione con il mondo, cioè il regno di Dio. Il regno è «Dio + mondo» ed è

questo, cristianamente parlando, il vero assoluto, cioè la relazionalità totale

dell’amore. In seguito all’incarnazione Dio diviene un pezzo di mondo, e quindi

l’assoluto non è più Dio in sé, ma Dio insieme al mondo, Dio «tutto in tutti»

(1Corinzi 15,28). Credo altresì in un Dio che legandosi al mondo rimane al

contempo sempre al di là del mondo, e che, con questo suo essere al di là, opera

come una specie di attrattore cosmico verso cui il mondo si orienta e

orientandosi produce evoluzione, e verso cui la mente umana si orienta e

orientandosi produce bene e giustizia, andando a sanare laddove è possibile le

ingiustizie che scaturiscono dal processo naturale. Credere in Dio significa per

me in questa prospettiva attribuire la parola definitiva dell’essere al senso di

giustizia e di bene che trova la più alta realizzazione in quella speciale

consacrazione dell’energia libera che chiamiamo amore114

.

114

V. Mancuso, Il principio passione, op. cit., pp. 425-426.

127

L’obiettivo che Mancuso si propone consiste nel promuovere pubblicamente la

libera ricerca spirituale all’insegna di una teologia che non risponda al principio di

autorità ma a quello ben diverso di autenticità. Le due condizioni fondamentali sono

la libertà e l’amore per la verità. L’ultima istanza che muove il suo pensare non è la

Chiesa con la sua dottrina bensì la verità della vita.

L’origine della fede non è la ragione, ma il sentimento della vita che a volte

genera meraviglia, entusiasmo, a volte genera terrore, disperazione, ma sempre e

comunque pathos. E il pathos è ciò che muove il mondo e ne rinnova la fiducia nella

vita e nell’amore.

128

BIBLIOGRAFIA

Opere di Vito Mancuso

V. Mancuso, Hegel teologo. E l’imperdonabile assenza del «Principe di questo

mondo», Edizioni Piemme, Asti 1996.

V. Mancuso, L’anima e il suo destino, Raffaello Cortina Editore, Milano 2007.

V. Mancuso, Il dolore innocente. L’handicap, la natura e Dio, Oscar Mondadori,

Milano 2008.

V. Mancuso, Rifondazione della fede, Oscar Mondadori, Milano 2008.

V. Mancuso, La Chiesa e la bioetica:non c’è fede senza libertà, in “La Repubblica”,

9 Marzo 2009.

V. Mancuso, La vita autentica, Raffaello Cortina Editore, Milano 2009.

C. Augias – V. Mancuso, Disputa su Dio e dintorni, Oscar Mondadori, Milano 2010.

V. Mancuso, Parole in libertà, intervista a cura di Mario De Maio, in “Ore Undici

Quaderno”, Gennaio 2010.

V. Mancuso, Rifondare la fede a partire dal basso, intervista al “Corriere del

Ticino”, 19 Aprile 2010.

V. Mancuso, Tra libertà e spiritualità, in “La Repubblica”, 22 Settembre 2010.

V. Mancuso, Io e Dio. Una guida dei perplessi, Garzanti Editore, Milano 2011.

129

V. Mancuso, Le letture divine del cardinal Martini, in “La Repubblica”, 26 Ottobre

2011.

V. Mancuso, Obbedienza e libertà. Critica e rinnovamento della coscienza cristiana,

Fazi Editore, Roma 2012.

V. Mancuso, Libri e libertà, in “La Repubblica”, 27 Gennaio 2012.

V. Mancuso, Il mio Dio si chiama libertà. L’etica spiegata da Mancuso, intervista a

cura di S. Ferrari, in “Corriere delle Alpi”, 31 Gennaio 2012.

V. Mancuso, La scienza e la sapienza, in “La Repubblica”, 5 Luglio 2012.

V. Mancuso, Un uomo di Dio, in “La Repubblica”, 1 Settembre 2012.

V. Mancuso, L’operazione-anestesia sul cardinal Martini, in “La Repubblica”, 9

Settembre 2012.

V. Mancuso, Adesso la Chiesa apra le sue porte, in “La Repubblica”, 9 Marzo 2013.

V. Mancuso, Nel nome una missione, in “La Repubblica”, 14 Marzo 2013.

V. Mancuso, Fine vita, perché dico sì alla libertà di scegliere, in “La Repubblica”, 5

Maggio 2013.

V. Mancuso, La Chiesa dell’empatia, in “La Repubblica”, 30 Luglio 2013.

V. Mancuso, Il principio passione, Garzanti Editore, Milano 2013.

V. Mancuso, Il matrimonio è un diritto anche per i preti, in “La Repubblica”, 19

Maggio 2014.

130

Altri testi

AA. VV., Questioni di bioetica, Phronesis Editore, Palermo 2009.

AA.VV., Ho sognato una Chiesa. L’eredità della vita e del pensiero del cardinal

Martini, Aliberti Editore, Roma 2012.

Conferenza Episcopale Italiana, La Sacra Bibbia, Edizione ufficiale della C.E.I.-

U.E.C.I., Roma 1991.

G. B. Guizzetti, Terri Schiavo e l’umano nascosto. La medicina tecnologica e lo

stato vegetativo, Società Editrice Fiorentina, Firenze 2006.

H. Jonas, Tecnica, medicina ed etica. Prassi del principio responsabilità, Einaudi

Editore, Torino 1997.

S. Kierkegaard, Timore e tremore, in Opere, a cura di C. Fabro, Sansoni Editore,

Firenze 1972.

I. Marino – C. M. Martini, Dialogo sulla vita, in “L’Espresso”, 27 Aprile 2006.

Platone, Timeo, a cura di F. Fronterotta, Bur, Milano 2003.

A. Zangrillo, Ri-animazione. Tecnica e sentimento, Editrice San Raffaele, Milano

2010.

131

APPENDICE

INTERVISTA A VITO MANCUSO

Viene qui riportata la trascrizione dell’intervista concessami da

Vito Mancuso in occasione della presentazione del suo libro Il principio

passione a Palermo, il 21 ottobre 2013.

DOMANDA: La prima domanda che le vorrei fare riguarda il motivo che la porta a

scrivere i suoi libri. Possiamo affermare che si tratta di un’inquietudine

dell’intelligenza, un’inquietudine che scaturisce dal disagio della fede ?

RISPOSTA: Il primo motivo che mi porta a scrivere riguarda proprio questo disagio

dell’intelligenza dinanzi alla fede. Il secondo è la meraviglia di fronte al bene di cui è

capace l’anima umana. È proprio lo scontro di queste due correnti, una di aria molto

fredda e l’altra di aria molto calda, che determinano diciamo quella tempesta

interiore che mi porta a scrivere. Del resto questo avveniva già nel passato; da un lato

si ha la filosofia che nasce come meraviglia (Platone e Aristotele), e dall’altro si ha la

filosofia che nasce come dolore, come scissione (Hegel). Quindi sottolineo queste

due cose insieme, ed è importante tenerle insieme e costituire dentro di sé

quest’antinomia tra un’inquietudine di fondo, un disagio dell’intelligenza e

un’armonia di fondo, un innamoramento nei confronti della vita e del bene che la vita

può e sa ospitare.

132

DOMANDA: Nel libro “Rifondazione della fede” (p. 38) lei sostiene che “sul male

gli uomini si trovano d’accordo, sul bene no”. Quindi possiamo affermare che in un

certo senso il bene inquieta?

RISPOSTA: Il male oggi ha l’apparenza di essere più forte. Io in quel passo di

“Rifondazione della fede” dicevo che gli uomini, come ogni ente fisico all’interno di

questo mondo, sono sedotti dalla forza. Noi siamo necessariamente attratti dalla

forza, la forza è ciò che plasma l’energia di cui noi consistiamo. E il grande inganno,

in un certo senso, del nostro tempo è quello di ritenere che il male sia più forte del

bene. E quindi in questo senso il male si impone da sé e gli uomini sono più attratti

da questo. Il bene sembra debole, il bene sembra buonismo, il bene sembra

dolciastro. Quello che occorre fare per sanare questa situazione poco virtuosa è far

capire come invece il bene sia più forte del male perché il bene dà solidità, il bene fa

consistere il fenomeno, fa consistere il sistema. Lo si capisce a livello politico: i

sistemi dittatoriali appaiono più forti delle democrazie, ma in realtà sono più fragili;

le democrazie sembrano più deboli dei sistemi dittatoriali ma in realtà sono più forti;

l’hanno dimostrato nel Novecento perché hanno saputo sconfiggere tanto le dittature

di destra quanto quelle di sinistra. Questa cosa vale anche per le famiglie, vale anche

per gli esseri umani. La famiglia che si regge su un’autorità autoritaria è più debole

di una famiglia “democratica” dove l’autorità viene discussa e diventa autorevole. Si

tratta di far capire proprio questo.

DOMANDA: Ne “La vita autentica” lei cerca di mettere in collegamento natura ed

etica. Ma non c’è troppo naturalismo in questo collegamento?

133

RISPOSTA: Troppo naturalismo: chi lo sa se è troppo? Per me è la via suprema,

indispensabile; cioè si tratta di far capire che quel movimento, che è l’armonia, la

relazione armoniosa, perché il bene si definisce così, non è contro la natura, ma

compie la natura. Io non sto dicendo che l’etica quale appare sorgivamente

nell’azione umana sia del tutto riconducibile alla natura, sto dicendo che però è ciò

che compie un movimento che già nella natura c’è. Non sto dicendo: l’etica non è

nient’altro che quello che appare nella natura, perché nella natura la gratuità

dell’etica non c’è. Quindi in questo senso la mia etica non è naturalista, però

vorrebbe essere naturale, si sforza di essere naturale; naturale nel senso che vuole far

capire che quel movimento di generosità che nella natura non c’è, è tuttavia tale da

compiere una tensione che già è dentro la natura, che è questa tensione verso

l’armonia.

DOMANDA: «Rifondare la fede a partire dal basso»: ma per “rifondare” è

necessario un fondamento, un principio. E dove sta questo principio se si parte dal

basso? Inoltre, per un teologo, parlare del principio vuol dire parlare di Dio. Che cosa

vuol dire credere in Dio?

RISPOSTA: Il principio della fede sta nell’esperienza, nell’esperienza che esiste

dentro di noi. Ieri sera l’ultima domanda che mi ha fatto Fabio Fazio a “Che tempo

che fa?” è stata quella: che cosa vuol dire credere in Dio? E io lì ho dovuto esibire il

fondamento della fede, e non ho fatto riferimento a un fondamento esteriore, credere

in Dio vuol dire credere in una storia, credere in Dio vuol dire credere in un evento

esterno rispetto a me, in una rivelazione, in una dottrina, no. Credere in Dio vuole

134

dire credere che quella tensione per il bene e per la giustizia che si muove dentro di

me ogni tanto non è un’illusione, non è semplicemente un portato psicologico, non è

un’invenzione mia, non è che ce l’ho perché sono buono, ma è l’attestazione di una

realtà più profonda, questa realtà più profonda che è bene in sé e giustizia in sé, dagli

uomini tradizionalmente è chiamata Dio. Quindi questo è il fondamento; fondamento

che è personale senza essere individuale, individualista.

DOMANDA: Qual è stata la scintilla che l’ha portata a “rifondare la fede”? Forse

l’influenza della scuola di Simone Weil?

RISPOSTA: Simone Weil certamente mi ha aiutato molto a tematizzare il “disagio

dell’intelligenza”; è un’espressione sua che lei usa in una lettera a un religioso.

Leggendo quel testo ho capito che non ero solo con questo disagio dell’intelligenza

che c’era dentro di me; però devo dire che non è stata Simone Weil; Simone Weil mi

ha aiutato a comprendere il disagio dell’intelligenza che c’era già dentro di me e che

era dato semplicemente dalla difformità tra alcune affermazioni della fede e il dato

dell’esperienza.

DOMANDA: Il testamento biologico potrebbe essere una soluzione per uno dei

problemi più scottanti della bioetica, quale l’eutanasia? In caso di risposta

affermativa, ciò non implicherebbe il sostituirsi dell’uomo a Dio?

RISPOSTA: Io sono sempre stato a favore del testamento biologico perché è un atto

di libertà, di autodeterminazione del singolo che fa sì che il singolo possa vivere

135

anche l’ultima pagina della sua vita. Noi ogni giorno ci sostituiamo a Dio, se la

vogliamo mettere così, cioè quando ci arriva una malattia, se uno pensa che tutto

quello che avviene, avviene perché lo vuole Dio, allora anche combattere questa

malattia sembra quasi che possa essere andare contro Dio. Cioè uno dovrebbe dire mi

è arrivata una malattia, non devo in alcun modo combatterla perché è il volere di Dio.

Ma in realtà, tra la natura così come si pone e Dio c’è una bella differenza, c’è la

libertà stessa della natura, del processo naturale. E quindi tentare di “modificare” la

data della propria morte, non mediante un processo violento, come il suicidio

ovviamente, e neanche mediante un processo sul quale io neppure sono d’accordo,

che è l’eutanasia nel senso attivo, nel senso di un’iniezione, ma nel senso di un

testamento biologico che dica nel mio caso non mettete in gioco terapie intensive

(accanimento terapeutico, non legatemi ai macchinari, non idratatemi e alimentatemi

in maniera artificiale) ma semplicemente lenite le mie sofferenze e fate in modo che

la natura compia il suo corso. Fare tutto questo è quanto mai conforme a quello che

l’uomo mediante la medicina ha sempre fatto e sempre farà.

DOMANDA: L’origine del mondo è stata sempre pensata in relazione a Dio. Ne “Il

principio passione” (p. 92) invece lei afferma il “ruolo cosmico di Gesù Cristo”.

Quindi Cristo è la “chiave di lettura” della creazione?

RISPOSTA: È ridicolo pensare che il Gesù uomo possa essere il Creatore, lui che è

stato creato, che è venuto al mondo da una donna. In realtà, in quell’uomo si è data la

suprema manifestazione del principio cosmico che è all’origine di tutto, di tutto il

processo e che il Cristianesimo chiama Cristo, e che altre tradizioni chiamano Logos;

136

anche il Cristianesimo chiama Logos riprendendo però Giovanni, riprendendo però

questo termine da altre tradizioni, in particolare quella stoica e prima ancora Eraclito.

E altre tradizioni chiamano “Dharma”, o chiamano “Sapienza” in ebraico, “Sophia” e

così via. In quell’uomo si dà la perfetta aderenza tra la libertà interiore e questo

principio di armonia. Ma questo legame tra il Cristo cosmico e la creazione non è

qualcosa che invento io naturalmente ma è qualcosa che si trova già nel Nuovo

testamento (1 Corinzi 8,6), come io espongo nel mio libro; si deve notare che la

prima lettera ai Corinzi è uno dei testi più antichi di tutto il Nuovo Testamento,

vent’anni prima dei Vangeli, prima che si parlasse del Gesù storico, già i cristiani

parlavano del Cristo cosmico. E allora dico che si tratta proprio di ritornare a questa

designazione che tra l’altro è contenuta anche nel Credo di Nicea; anche nel Credo di

Nicea che tutte le domeniche i cristiani recitano a messa si dice: “Per quem omnia

facta sunt”, per mezzo del quale tutte le cose sono state create.

DOMANDA: Si può affermare che uno degli obiettivi che si propone nel libro “Il

principio passione” sia quello di “liberare” l’uomo dall’accusa del male a causa del

peccato originale?

RISPOSTA: L’uomo è il colpevole di molta parte del male. Non è che io voglio

parlare dell’uomo come non colpevole della parte del male nel mondo; io voglio

liberare l’uomo dalla colpevolezza che prescinde dalla sua libertà. Il peccato

originale è tale da imputare il male all’uomo a prescindere dall’uso della libertà. Un

bambino viene al mondo e già come tale è peccatore. Questo è qualcosa di

inaccettabile dal punto di vista morale.

137

DOMANDA: Ritiene che la Chiesa possa assumere una posizione più aperta nei

confronti degli omosessuali?

RISPOSTA: Sugli omosessuali c’è da dire che qui il cammino è piuttosto variegato,

piuttosto travagliato. Assistiamo oggi ad un passo avanti con papa Bergoglio: “Chi

sono io per giudicare?”, un passo enorme e, secondo me, abbastanza irreversibile.

DOMANDA: Molti teologi la criticano dicendo che lei non è un teologo. Come si

definisce?

RISPOSTA: Mi definisco alla fine forse un pensatore cattolico, che a volte è teologo

e a volte è filosofo; però, se ci mettiamo a ragionare, come definire Agostino?

Adesso non voglio fare quello che si paragona, però andiamo a vedere i grandi,

Agostino è più un filosofo che un teologo. Non si può studiare storia della filosofia

senza imbattersi in Agostino, e allo stesso modo, non si può studiare la storia della

teologia senza studiare Agostino; è un teologo e un filosofo. La stessa cosa vale per

Tommaso d’Aquino, la stessa cosa vale per Niccolò Cusano; la stessa cosa, come ho

dimostrato nella mia tesi di dottorato, vale per Hegel. La stessa cosa vale anche per

Kant, il quale nelle sue pagine fa riferimento alla filosofia della religione e quindi

teologia.

In realtà quando si affrontano problemi come quello della libertà dell’uomo, Dio in

sé e la natura dell’Assoluto, il dramma dell’uomo, sono problemi che sono al

contempo filosofici e teologici.

138

DOMANDA: Se non sbaglio, il suo motto è “Lotta sino alla morte per la verità e il

Signore Dio combatterà per te” (Siracide 4,28). Che cos’è per lei la verità?

RISPOSTA: La verità per me ultimamente è il bene. La verità per me non è

l’esattezza, non è una formula, ma è il bene e la giustizia, è ciò che introduce più

ordine in un processo, in un sistema. Questo poi è il senso della verità secondo il

Cristianesimo; Gesù poi diceva: «Chi fa la verità viene alla luce» e univa al

sostantivo “verità” il verbo “fare”. Quindi emerge da questo come la verità non è

qualcosa di statico, ma qualcosa di dinamico, qualcosa che “si fa”, che si compie. E

in questo senso verità è tutto ciò che serve la vita. Tutto ciò che serve la vita è vero,

quindi è buono, è giusto. Tutto ciò che nuoce alla vita, tutto ciò che è contro il farsi

della vita è male, e quindi non è vero, non è verace. E in questo non faccio altro che

riproporre la lezione classica dell’unità dei trascendentali: unum, verum, bonum e

pulchrum, la trascendentalità dell’essere.