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UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI PALERMO
Scuola delle Scienze Umane e del Patrimonio Culturale
CORSO DI LAUREA MAGISTRALE IN
SCIENZE FILOSOFICHE
IL DIO DEL BENE E IL DRAMMA DEL MONDO
LE LINEE DI FONDO DELLA PROPOSTA TEOLOGICA DI
VITO MANCUSO
Tesi di laurea di
Doriana Prinzivalli
Num. matricola: 0598160
Relatore Ch. mo Prof.
Andrea Le Moli
___________________________________________________
ANNO ACCADEMICO 2013-2014
2
INDICE
Introduzione p. 4
Capitolo primo p. 11
1.1 Il vissuto della fede e il disagio dell’intelligenza p. 11
1.2 Parlare di Dio al cospetto del sapere umano p. 13
1.3 Il fascino del bene e il dramma del mondo p. 16
1.4 Libertà della ricerca spirituale e confronto con l’autorità p. 18
1.5 Dal principio-autorità al principio-autenticità p. 20
1.5.1 Critica alle prove dell’esistenza di Dio p. 24
Capitolo secondo p. 26
2.1 Le opere principali p. 26
2.1.1 Hegel teologo p. 26
2.1.2 Il dolore innocente p. 29
2.1.3 Rifondazione della fede p. 31
2.1.4 L’anima e il suo destino p. 33
2.1.5 Io e Dio p. 36
2.1.6 Il principio passione p. 38
2.2 Nuclei tematici p. 40
2.2.1 Dalla traccia del bene a Dio p. 40
2.2.2 Dio p. 44
2.2.3 Dio e il male p. 48
3
2.2.4 L’anima p. 54
2.2.4.1 L’origine dell’anima p. 58
2.2.4.2 L’immortalità dell’anima p. 62
2.2.4.3 La salvezza dell’anima p. 67
2.2.5 Filosofia della natura p. 77
2.2.6 La creazione: il ruolo cosmico di Cristo p. 87
Capitolo terzo p. 96
3.1 Teologia della relazione p. 96
3.2 Una nuova Chiesa? p. 101
3.2.1 Un uomo di Dio: Carlo Maria Martini p. 101
3.2.2 Papa Francesco p. 105
3.3 Tematiche bioetiche p. 112
3.3.1 Bioetica di inizio vita p. 112
3.3.2 Bioetica di fine vita p. 114
Conclusione p. 120
Bibliografia p. 128
Appendice p. 131
4
INTRODUZIONE
Vito Mancuso: cenni biografici e bibliografici
Uno dei teologi contemporanei più famosi, discussi e criticati è Vito Mancuso.
Il “teologo fuori le mura”, come volentieri si lascia definire, nasce a Carate Brianza
da una coppia di genitori siciliani, precisamente di Calatafimi, il 9 dicembre 1962.
Dopo aver completato gli studi al liceo classico statale a Desio (Milano), decide di
intraprendere lo studio della teologia nel Seminario arcivescovile di Milano,
articolato in un biennio filosofico e in un triennio teologico. La prima cosa che il
novello seminarista scrive è un dramma teatrale intitolato La legge è uguale per tutti
anche per Dio, una sorta di processo che l’umanità, esasperata per le ingiustizie,
decide d’istruire contro Dio1.
Già da questo suo primo scritto è possibile individuare in Mancuso un forte
interesse verso la giustizia e la verità.
Al termine del quinquennio, Mancuso consegue il Baccellierato, cioè il primo
grado accademico in teologia, e viene ordinato prete dal cardinale Carlo Maria
Martini nel Duomo di Milano il 7 giugno 1986, all’età di soli 23 anni. Molto
probabilmente, a causa della giovane età e di una decisione così importante, presa
però in modo troppo impulsivo, Mancuso, dopo appena un anno dall’ordinazione,
chiede e ottiene di essere dispensato dalla vita sacerdotale e di dedicarsi solo allo
studio della teologia. Dietro consiglio del cardinal Martini, padre spirituale di
Mancuso, si reca a Napoli, presso la Facoltà teologica “San Tommaso d’Aquino”,
nella quale consegue il secondo grado accademico, la Licenza, sotto la direzione del
1 Cfr. C. Augias – V. Mancuso, Disputa su Dio e dintorni, Oscar Mondadori, Milano 2010, p. 248.
5
teologo Bruno Forte (attuale arcivescovo di Chieti). Trasferitosi a Roma, Mancuso
inizia a lavorare in editoria (Edizioni Piemme, Arnoldo Mondadori Editore, Edizioni
San Paolo, ancora Mondadori) e nel frattempo prosegue lo studio della teologia per il
terzo e ultimo grado accademico, il Dottorato, conseguito il 29 febbraio 1996 con il
punteggio di 90/90 summa cum laude, discutendo una tesi dal titolo: “La salvezza
della storia. La filosofia di Hegel come teologia”. Due mesi dopo, la tesi viene
pubblicata da Piemme con il titolo Hegel teologo e l’imperdonabile assenza del
Principe di questo mondo. Mancuso comprende adesso che la sua vocazione è la
famiglia e, ottenuta la dispensa papale, si sposa nella parrocchia milanese di Santa
Maria del Suffragio con Jadranka Korlat, ingegnere civile. Dal matrimonio sono nati
due figli, Stefano nel 1995 e Caterina nel 1999. Nel 1997 la gioia di una nuova
gravidanza si trasforma ben presto in dolore a causa di una malattia genetica che
impedisce a suo figlio, che si sarebbe dovuto chiamare Federico, di venire al mondo;
muore infatti nel grembo della madre al quinto mese di gravidanza2. Questo dolore
conduce Mancuso a dare autonomia al suo primo impegno intellettuale, Il dolore
innocente, affrontando il tema delicato dell’handicap dal punto di vista filosofico e
teologico. Mancuso riscuote molto successo nel 2007, quando pubblica un libro dal
titolo L’anima e il suo destino (Raffaello Cortina), affrontando il concetto di anima
alla luce del quesito se vi sia un’esistenza dopo la morte. A maggio del 2008, il libro
supera le 120.000 copie vendute, con traduzioni in altre lingue, diventando un
dibattuto caso editoriale e culturale, che ha dato vita a numerose rassegne stampa,
radiofoniche e televisive.
2 Cfr. V. Mancuso, Il dolore innocente. L’handicap, la natura e Dio, Oscar Mondadori, Milano 2008,
p. VII.
6
Oltre a questi due libri appena citati e alla tesi di dottorato, Mancuso scrive
anche: “La vita autentica” edita da Cortina Editore nel 2009, libro che gli consente di
vincere l’anno successivo il “Premio Capalbio”, dedicato all’etica e alla teologia; nel
2008 scrive “Rifondazione della fede”, Oscar Mondadori. La prima edizione di
questo libro viene pubblicata nel 2005 con il titolo Per amore e il sottotitolo
Rifondazione della fede. Mancuso decide di elevare il sottotitolo originario a unico
titolo del libro per rispondere a una logica di maggiore chiarezza comunicativa. Nel
2010 scrive con Corrado Augias, scrittore e giornalista, “Disputa su Dio e dintorni”
(Oscar Mondadori), un interessante dialogo tra il non credente Augias e il credente
Mancuso su Dio e sulla vita di ogni giorno. Nel 2011 pubblica “Io e Dio. Una guida
dei perplessi” (Garzanti Editore); in quest’opera espone le ragioni della sua fede in
Dio, basata sull’amore e sul dialogo, sulla libertà e sulla giustizia. Nel 2012 a Reggio
Calabria vince il Premio Rhegium Julii “I. Falcomatà” dedicato alla saggistica con il
volume edito da Fazi Editore, Obbedienza e libertà. Critica e rinnovamento della
coscienza cristiana. In questo volume Mancuso affronta il tema della coscienza
cristiana, divisa tra queste due polarità apparentemente opposte. Sempre nello stesso
anno scrive anche Conversazioni con Carlo Maria Martini (con Eugenio Scalfari).
Per Garzanti, con la collaborazione di Paolo Flores D’Arcais, filosofo e pubblicista,
scrive nel 2013 Il caso o la speranza? Un dibattito senza diplomazia. E sempre nello
stesso anno scrive anche Il principio passione. La forza che ci spinge ad amare.
Dal 2004 al 2011 Mancuso è docente di Teologia moderna e contemporanea
presso la Facoltà di Filosofia dell’Università Vita-Salute San Raffaele di Milano. Da
marzo 2013 è docente di “Storia delle dottrine Teologiche” presso l’Università degli
Studi di Padova. Oltre a svolgere l’attività di docente universitario, dal 2009 è anche
7
editorialista del quotidiano “La Repubblica”. Dirige con Elido Fazi “Campo dei
fiori”, la prima collana laica di spiritualità e di libera ricerca teologica. Dal 2008 è
anche collaboratore de “Il Foglio”. Oltre ai libri, Mancuso scrive anche
numerosissimi articoli apparsi non solo sul quotidiano “La Repubblica”, ma anche su
Avvenire, Panorama e Corriere della Sera. Le tematiche affrontate nei suoi articoli
riguardano la chiesa, la teologia, il papa, la scienza, la bioetica, la libertà; tematiche
emergenti e scottanti che suscitano notevole interesse da parte della coscienza laica, a
cui Mancuso principalmente si rivolge. Mancuso viene spesso invitato in molte
trasmissioni televisive: è ospite nella trasmissione “Che tempo che fa” di Fabio
Fazio, “L’infedele” di Gad Lerner, “Le Storie” di Corrado Augias, “Otto e mezzo” di
Giuliano Ferrara; al TG1 viene intervistato da Gianni Riotta, al TG2 da Tommaso
Ricci e al TG3 da Maria Cuffaro. Prende parte anche alla trasmissione di Rai5 “Il
paradiso ritrovato”, dove viene intervistato insieme ad Robert Harrison da Serena
Dandini. Mancuso partecipa pure a programmi radiofonici: Farenheit, GR1, Radio 24
Ore, Radio della Svizzera Italiana, Uomini e Profeti… Inoltre nel 2008 ha curato per
Rai Tre cinque puntate della rubrica “Damasco” con trasmissioni su Pavel Florenskij,
Dietrich Bonhoeffer, Simone Weil, Etty Hillesum, Pierre Teilhard de Chardin,
uomini e donne di grande spessore culturale, citati molto spesso nei suoi libri.
Da questa prima presentazione generale emerge quanto copiosa sia la
produzione di Vito Mancuso; un solo libro però viene scritto su Vito Mancuso, ed è
un libro redatto da Corneliu C. Simut, professore di Teologia Sistematica alla Facoltà
di Teologia di Oradea, in Romania, dal titolo “Essentials of Catholic Radicalism”. An
Introduction to the Lay Theology of Vito Mancuso.
8
Questo è l’unico libro che fino ad ora è stato scritto sul pensiero di Vito
Mancuso; non mancano però articoli, anche molto critici, da parte dei suoi colleghi
teologi, che lo accusano apertamente di essere un “falso teologo”, “un modernista
pieno di ragnatele”, un “teologo dilettante fai-da-te”, un “teologo senza Dio”, un
“eretico e peraltro dichiarato”. Un’altra accusa spesso ricorrente che viene fatta al
“teologo fuori le mura”, soprattutto in relazione al libro L’anima e il suo destino, è
quella di proporre una “gnosi” di ritorno. Mancuso viene criticato, in un certo senso,
anche dal suo maestro spirituale, il cardinal Carlo Maria Martini, il quale apprezza
però la sua onestà intellettuale e il suo amore per la ricerca. In occasione, infatti,
della pubblicazione del libro sull’anima, il cardinal Martini scrive una lettera a Vito
Mancuso, che fa da prefazione al libro stesso. Viene qui riportato quasi integralmente
il testo:
Penso di sentire parecchie discordanze su quanto tu concludi su diversi punti, ma
non posso negare che tu cerchi sempre di ragionare con rigore, con onestà e con
lucidità, e che hai il coraggio delle tue idee, dicendo anche apertamente che esse
non sempre collimano con l’insegnamento tradizionale e talvolta con quello
ufficiale della Chiesa. Perciò il libro incontrerà opposizioni e critiche. Ma sarà
difficile parlare di questi argomenti senza tenere conto di quanto tu hai detto con
penetrazione coraggiosa. Non posso perciò che augurare che il tuo libro venga
letto e meditato da tante persone, anzitutto da coloro che non si preoccupano
dell’esistenza dell’anima né del futuro dell’uomo e che anche per questo non
hanno punti saldi a cui ancorarsi. Ma anche altri, quelli che ritengono di avere
punti di riferimento saldissimi, possono leggere le tue pagine con frutto, perché
almeno saranno indotti o a mettere in questione le loro certezze o saranno portati
ad approfondirle, a chiarirle, a confermarle. Vedo che in tutto questo sta portando
frutto tutta la tua storia, la tua passione per la ricerca, il tuo cammino di onestà e di
verità, tutto il tuo amore per lo studio e il tuo amore per la vita. Mi auguro che
9
anche coloro che non saranno d’accordo con parecchie idee del tuo libro
comprendano queste cose e ti ascoltino con attenzione3.
L’opinione del cardinal Martini è condivisa anche da altri teologi, i quali,
anche se dichiarano apertamente di non condividere il metodo e le conclusioni di
Mancuso, apprezzano la sua capacità di sollevare la questione di come articolare la
verità cristiana con le scoperte della scienza e dell’autocoscienza contemporanea.
Molti ammirano la sua riflessione ben documentata e, nonostante la profondità delle
tematiche trattate, il suo linguaggio rimane semplice e accessibile ad un pubblico con
differenti sfaccettature culturali.
Per quanto concerne il metodo, Mancuso si dichiara a favore del superamento
del principio di autorità, che a suo avviso domina ancora oggi il cattolicesimo, e per
l’instaurazione di ciò che egli definisce “teologia laica”, ovvero un lavoro teologico
per il quale l’istanza conclusiva non è l’autorità magisteriale della dottrina stabilita,
ma la coerenza del pensiero rispetto all’esperienza concreta a livello oggettivo e
l’onestà intellettuale a livello soggettivo. La teologia laica con cui Vito Mancuso ama
definire il senso di un lavoro fatto non solo di lezioni universitarie e di articoli, ma
anche di numerosi libri e di altrettante conferenze, rimanda a un discorso su Dio che
sia tale da poter sussistere di fronte alla filosofia e alla scienza, le forme più
accreditate del discorso veritativo nell’epoca moderna e contemporanea, ma che
soprattutto sia tale da poter ancora oggi rappresentare per gli uomini della
postmodernità un itinerario che conduce la mente verso Dio.
3 Carlo Maria Martini, Lettera, in V. Mancuso, L’anima e il suo destino, Raffaello Cortina Editore,
Milano 2007, pp. XIII-XIV.
10
Occorre adesso entrare nel cuore del suo pensiero per cercare di capire le
posizioni di Mancuso e in che senso esse risultino non sempre allineate con quelle
della gerarchia ecclesiastica.
11
CAPITOLO PRIMO
Esperienza della fede e inquietudine
dell’intelligenza
“Lotta sino alla morte per la verità
e il Signore Dio combatterà per te”
Siracide 4,28
1.1 Il vissuto della fede e il disagio dell’intelligenza
L’esperienza della fede non può partire dai libri o dalle dottrine; l’esperienza
cristiana, prima di tutto, è basata sull’incontro. Questo vale per tutti i veri credenti,
per tutte le persone che parlano della fede come di una dimensione concreta. Si parte
da un’esperienza diretta, si comincia da un incontro. Un incontro decisivo per Vito
Mancuso è quello con il cardinal Carlo Maria Martini. Da lui apprende un nuovo
metodo, un nuovo modo di contemplare la vita.
Ben presto, infatti, Mancuso si rende conto di non riuscire ad obbedire
ciecamente ai dogmi che la Chiesa impone di accettare “per fede”. Comincia ad
avvertire dentro di sé un certo disagio da parte dell’intelligenza, un’incongruenza tra
quello che la Chiesa impone di credere, di accettare per fede, e la realtà, l’esperienza,
12
il dato empirico. Per questo motivo avverte di non riuscire a rimanere sempre
allineato con le posizioni della gerarchia ecclesiastica.
Il pensiero di Mancuso è influenzato da quello di una pensatrice francese della
prima metà del Novecento, Simone Weil (1909-1943), la quale sostiene che se c’è
una cosa che appare come contraddizione non è un segno negativo; al contrario, nella
misura in cui è teorizzata, la contraddizione ha la capacità di portare il pensiero al
cospetto del chiaro-scuro della vita, che è meraviglia e che è terrore nello stesso
tempo. Le contraddizioni sono essenziali al pensiero per Simone Weil.
Quest’ultima sceglie di non entrare nella Chiesa a causa del disagio
dell’intelligenza ad abbracciare la dottrina cattolica. Questo disagio dell’intelligenza
che ha avvertito Simone Weil è comune, secondo Mancuso, a molti uomini e a molte
donne di oggi, perché la funzione propria dell’intelligenza esige libertà, e questo è
ciò che a suo avviso manca nell’attuale configurazione della Chiesa cattolica.
Mancuso fa propria la grande lezione di Simone Weil e giunge a voler rifondare,
rinnovare la fede, dedicando un intero libro a questa tematica.
Mancuso vuole ritrovare la fede autentica, quella che sappia dare adeguato
spazio alle domande, alle esplorazioni, alle elaborazioni dell’intelligenza che si
confronta con il sapere di questo mondo, scientifico e filosofico. Dopo le scoperte
della scienza, non si può rimanere ancorati ad una tradizione che, su alcuni punti,
risulta infondata. Occorre fare tesoro di queste scoperte e adeguarsi allo spirito del
tempo. Mancuso cerca così di superare questa inquietudine dell’intelligenza,
provando a ragionare con rigore e con onestà intellettuale, confrontandosi con i nuovi
dati forniti dalla scienza e con il sapere filosofico.
13
È fondamentale cioè per Mancuso recuperare la consapevolezza del fatto che o
la Chiesa ha un rapporto effettivo, organico, vero, fedele, nei confronti del mondo,
capacità di dialogo, capacità di comprensione della realtà o semplicemente essa viene
meno al suo compito istituzionale, decisivo, strutturale, che è quello di essere per il
mondo.
1.2 Parlare di Dio al cospetto del sapere umano
Per sapere umano, Mancuso intende principalmente il progresso della
conoscenza, sotto forma di scienza, e la riflessione filosofica. Secondo Mancuso
si tratta di guardare il mondo nella sua evoluzione, contraddittorietà, esplosione di
sensi e contraddizioni, e dentro qui, dal basso, riprendere una nuova visione di
Dio. In questa esplosione di contraddizioni che è il mondo, in questa lotta di cifre,
(…) ebbene la fede nel Dio cristiano si deve rifondare a partire dal basso, nel
sostenere il primato di questa esperienza spirituale che è il bene-giustizia-amore. A
partire da qui, si tratta di saldare l’esperienza della fede con l’esperienza del
mondo. La scienza deve fare il suo mestiere e offrire dati ed esattezze. A questi
dati si affianca il compito del pensiero che è quello di dare un significato umano; e
questo non è più compito della scienza ma è il compito del pensiero, della
filosofia, della teologia in quanto a sua volta dotata della pretesa di interpretare il
senso del mondo. È qui che inizia il lavoro del pensiero. […] E quando si tratta di
dare un senso, quello che appare è la contraddizione: una parte dell’umanità
approda al non senso, cioè alla negazione di Dio, e una parte dell’umanità che
viceversa approda a un senso complessivo del tutto e quindi al divino. Il nostro
compito attuale è quello di fare qualche passo in avanti rispetto a questa crisi
spirituale che stringe al cuore il nostro tempo. Questo è possibile solo a patto di
conciliare la riflessione scientifico-filosofica con l’esperienza sapienziale
religiosa. La Chiesa deve proseguire su questa strada di revisione, se vuole
14
costruire un ponte con la modernità. […] Solo superando gli opposti fanatismi si
aprirà la strada ad una riflessione profonda sull’uomo e sul mondo4.
In un altro articolo, intitolato La scienza e la sapienza5, Mancuso si chiede
perché la connessione tra religione e argomenti scientifici risulti così efficace. Egli
individua due motivi. Il primo riguarda la capacità immediata del termine “Dio” di
far comprendere l’importanza della posta in gioco quando si tratta di ambiti
fondamentali della scienza, come l’origine dell’universo, della materia e della vita. Il
secondo motivo è il bisogno primordiale della mente umana di conciliare scienza e
sapienza. Gli uomini avvertono infatti, secondo quanto sostiene Mancuso in questo
articolo, l’esigenza non solo di conoscere dati e ricevere informazioni, ma anche di
valutare il loro significato per l’esistenza e per i criteri con cui pensano solitamente
la giustizia, la bellezza, il bene e il male. Le civiltà del passato erano in grado di
conciliare scienza e sapienza. Oggi però tale conciliazione viene a mancare e il
risultato è l’odierna disgiunzione tra le discipline scientifiche e le discipline
umanistiche. Per questo, quando si prefigura la possibilità di ritornare all’antica
visione unitaria, la mente umana si fa attenta e partecipe, mostrando un forte
interesse al riguardo.
La mente umana si è evoluta e si evolve in continuazione. Questa evoluzione
della mente, questa crescita dell’intelligenza fino alla sapienza, viene definita da
Mancuso bontà dell’intelligenza. Per Mancuso «il senso dell’esistenza umana appare
4 V. Mancuso, Rifondare la fede a partire dal basso, intervista al “Corriere del Ticino”, 19 Aprile
2010. 5 Cfr. V. Mancuso, La scienza e la sapienza, in “La Repubblica”, 5 Luglio 2012.
15
consistere nell’essere sempre più sapiens, coltivando ogni giorno con dedizione
amorevole la sapienza in quanto bontà dell’intelligenza»6.
Ma Mancuso si rende conto che per l’uomo non è facile raggiungere la più alta
forma dell’intelligenza, quale è la sapienza. E non è solo questione di istruzione e di
cultura, bensì di disposizione interiore, di disposizione dell’anima verso il bene. Chi
fa il bene si libera, almeno per un po’, dalle catene dei bisogni umani.
Volendo sintetizzare in una formula l’unica possibile liberazione, Mancuso
parla appunto di bontà dell’intelligenza, sostenendo che
raramente le due cose si ritrovano insieme, spesso si hanno uomini buoni ma
poco intelligenti, per cui non sai se la loro bontà non sia altro che debolezza;
oppure uomini dotati di intelligenza ma senza il minimo scrupolo di farne uso
per asservire e umiliare. Di contro io ritengo che la bontà che desidera la luce
dell’intelligenza e l’intelligenza che desidera il calore del bene, l’unione di
queste due dimensioni in ciò che chiamo bontà dell’intelligenza, sia il vertice
sommo a cui la vita di un essere umano possa arrivare7.
Mancuso consacra la sua vita al bene. Teoria e pratica del bene e della sua
intelligenza dovrebbe essere il cristianesimo; ma all’interno della sua Chiesa
Mancuso avverte un certo malessere, un malessere dell’intelligenza che deriva dal
notare come ci sia una netta separazione tra la pratica del bene, molto diffusa negli
ambienti religiosi, e la teoria del bene, prigioniera invece di una visione superata del
mondo e dell’uomo.
6 V. Mancuso, Il principio passione, Garzanti Editore, Milano 2013, p. 164.
7 V. Mancuso, Libri e libertà, in “La Repubblica”, 27 Gennaio 2012.
16
1.3 Il fascino del bene e il dramma del mondo
Il discorso di Mancuso si regge principalmente su due colonne: la prima
riguarda il bene, mentre la seconda ha a che fare con la realtà, terribile e distruttiva,
del male, del negativo. Su queste due colonne si regge l’edificio della sua teologia.
Mancuso è affascinato dalla realtà del bene, e ritiene che non vi sia nulla di più alto e
nobile del bene. Egli consacra la sua vita alla ricerca e alla realizzazione del bene.
Ma il punto dolente è dato dall’altra colonna, è dato dal male, dal negativo. Mancuso
pone il bene come punto di riferimento, e tuttavia non può distogliere lo sguardo dal
mondo, dalla realtà, e non può non notare come questa sia attraversata dal male, dalla
distruzione, dalla sofferenza. La vita è un impasto di contraddizioni, che Mancuso
considera come facenti parte della realtà, giungendo ad affermare ciò a partire
dall’esperienza. Guardando la vita, infatti, egli vede un’esplosione di contraddizioni;
contemplando il mondo, Mancuso si rende conto che questa vita ha mille ragioni per
essere una grazia e mille ragioni per essere una disgrazia; osservando la natura, egli
nota come questa sia in grado di rasserenare la mente umana magari di fronte ad un
tramonto in riva al mare o semplicemente guardandolo, ma nota anche come questo
mare, trasformandosi in tempesta, possa portare morte e distruzione. All’interno di
questa contraddizione che è la vita, Mancuso dice queste parole:
Credo nel bene. Credo che il bene, tra le forze che attraggono e modellano le
nostre esistenze, sia la forza più potente di tutte: eterna, consistente,
indistruttibile, immortale. Qualcuno crede che la forza più potente sia il potere,
o la ricchezza, o il sesso. Io credo che la forza più potente di tutte sia il bene, e
per realizzare me stesso cerco di legare la mia vita a esso e alla giustizia che ne
promana. Se avessi fra le mani un granellino di incenso e lo dovessi bruciare sui
17
cento altari che la vita presenta, io lo brucerei sull’altare del bene e della
giustizia8.
Per Mancuso, la disposizione a cogliere le contraddizioni non deve essere
considerata come un capriccio della mente umana che ama negare e che vuole solo
negare. È la vita stessa che procede mediante contraddizioni; le principali sono la
vita e la morte. La sua visione della vita è all’insegna della dinamicità dell’essere,
dell’apparire e dello scomparire delle cose. Egli elabora una formula che è costitutiva
di tutto il suo pensiero, e che secondo lui riguarda il mondo, la realtà, la vita: egli
parla di ottimismo drammatico. Nell’opera Io e Dio ne dà una definizione molto
esaustiva:
Conosco bene il dramma e talora la tragedia che spesso attraversa il mestiere di
vivere. Per questo io definisco il mio sentimento della vita come «ottimismo
drammatico»: vivo cioè nella convinzione fondamentale di far parte di un senso
di armonia, di bene, di razionalità, e per questo parlo di ottimismo, ma sono
altresì convinto che tale armonia si compie solo in modo drammatico, cioè
lottando e soffrendo all’interno di un processo da cui non è assente il negativo e
l’assurdo. Ma tale negatività è al servizio di un più ampio movimento di
organizzazione e di crescita della complessità relazionale che usiamo chiamare
«evoluzione» e che per questo autorizza a parlare di ottimismo9.
Mancuso è ottimista ma non è un’idealista; infatti ha sempre come punto di
riferimento la realtà: è con essa che bisogna sempre e comunque fare i conti. Il
principio che regge la realtà è la passione, intesa come entusiasmo, emozione da una
8 Cfr. C. Augias – V. Mancuso, Disputa su Dio e dintorni, op. cit., p. 101.
9 V. Mancuso, Io e Dio. Una guida dei perplessi, Garzanti Editore, Milano 2011, pp. 188-189.
18
parte ma anche come sofferenza, patimento dall’altra. La realizzazione del bene,
dell’armonia può avvenire serenamente oppure può avvenire drammaticamente, ma
in ogni caso è portatrice di una grande fiducia verso la vita. Tutto ciò, secondo
Mancuso, corrisponde alla logica che regola l’Universo.
1.4 Libertà della ricerca spirituale e confronto con l’autorità
La coscienza contemporanea ha bisogno di affrontare, in modo accessibile e
piano, temi profondi. Nella vita è importante avere alcuni punti fermi
dell’intelligenza per la comprensione e il comportamento; questi però non devono
essere tali da mortificare la libertà. Se sono d’ostacolo al vero incontro con la vita
reale, allora devono essere superati, oltrepassati. Questi punti fermi devono essere
orientati alla costruzione del giudizio della coscienza. Molti notano che tra una
Chiesa del potere e l’esperienza spirituale liberante di Gesù non c’è perfetta
coincidenza; adeguarsi allo spirito dei tempi non è un optional, ma è la modalità
imprescindibile affinché la Chiesa possa fare il suo mestiere. È nella relazione con il
mondo che essa vive se stessa; è solo rapportandosi con la realtà che essa può
veramente realizzarsi. Mancuso è contro una coscienza che si pieghi a priori ai dettati
della gerarchia. Ecco, questa modalità di pensare che sopprime la libera individualità
sull’obbedienza dei precetti è negativa. Se un’affermazione è conforme alla ragione,
questo lo deve decidere la ragione stessa, e non un’autorità stabilita una volta e per
sempre.
19
Mancuso crede che «tutto nel mondo sia in funzione della libertà e del suo
responsabile esercizio, e quindi all’insegna di valori del tutto diversi rispetto a
necessità, forza, autorità, perfezione, e simili piuttosto a gratuità, fragilità,
autenticità»10
.
Libertà e amore per la verità sono le due condizioni essenziali affinché, per
Mancuso, si possa realizzare il senso della vita spirituale. Per secoli e secoli tutto si è
basato sull’autorità della Chiesa, sull’autorità delle Scritture. A tal riguardo
Mancuso, in un’opera dedicata proprio alla critica e al rinnovamento della coscienza
cristiana, intitolata Obbedienza e libertà, scrive:
Il mio obiettivo consiste nel promuovere pubblicamente la libera ricerca
spirituale, all’insegna di una teologia che non risponda al principio di autorità
ma a quello ben diverso di autenticità. […] Essere liberi nella propria mente e
nel proprio spirito, senza alcuna sudditanza esteriore, e al contempo coltivare
una scrupolosa obbedienza interiore alla verità (o, che è lo stesso, al bene, alla
giustizia, alla bellezza, all’amore): questo è il senso della vita spirituale, ed è
questo l’obiettivo che intendo promuovere11
.
Tutto il pensiero mancusiano si può sintetizzare in questo scopo, in questa
libera ricerca della verità, una ricerca che non deve sottostare a nessun dogma, a
nessuna autorità, una ricerca che superi definitivamente l’opposizione tra obbedienza
e libertà.
10
V. Mancuso, Io e Dio. Una guida dei perplessi, op. cit., p. 112. 11
V. Mancuso, Obbedienza e libertà. Critica e rinnovamento della coscienza cristiana, Fazi Editore,
Roma 2012, pp. 15-16.
20
1.5 Dal principio-autorità al principio-autenticità
La Chiesa non sa più attirare l’attenzione della coscienza contemporanea a
causa dell’incapacità di leggere adeguatamente il mondo, e tale incapacità va
ricondotta alla sua frattura con la contemporaneità. La Chiesa cattolica è troppo
impegnata a preservare la dottrina, l’autorità che da essa deriva, e non si accorge di
non servire il mondo reale degli uomini, la loro spiritualità e i loro bisogni. La
religione cattolica ha iniziato a perdere sempre più valore nella mente degli uomini
assumendo un ruolo via via sempre più marginale. Mancuso arriva addirittura ad
affermare che Gesù non si riconoscerebbe in questa religione.
Con il processo di secolarizzazione, il connubio tra Occidente da una parte e
Chiesa cattolica dall’altra rischia di infrangersi. La Chiesa accusa l’Occidente
secolarizzato che, invece di rimanere fedele alla sua religione, insegue falsi idoli
relativizzando il vincolo intellettuale, morale e spirituale che lo lega virtuosamente
alla verità. L’Occidente denuncia invece l’incapacità della Chiesa di andare incontro
alle nuove esigenze della coscienza morale. È fondamentale, per mantenere questa
relazione che rischia di annullarsi, trovare un punto di incontro; ma questo punto di
incontro deve essere raggiunto in tempo, prima che poi sia troppo tardi. La storia
infatti mostra come in certi casi la Chiesa si adatta: è avvenuto con Copernico, con
l’evoluzione darwiniana; è avvenuto con i diritti dell’uomo, prima negati e
condannati, ora affermati e promossi, in primis la libertà religiosa. Ma tutti questi
riconoscimenti sono avvenuti in ritardo. Infatti Mancuso si domanda: «arrivando
spesso così tardi all’appuntamento con la verità, come può il cattolicesimo risultare
21
affascinante per chi coltiva seriamente la ricerca spirituale e intellettuale?»12
.
Mancuso propone allora un cambiamento di prospettiva, dal principio di autorità la
Chiesa deve orientarsi verso il principio di autenticità, affinché possa venire incontro
alle esigenze della coscienza morale.
Mancuso critica apertamente l’autorità, e critica soprattutto l’obbedienza
incondizionata all’autorità. La teologia deve essere in grado di intraprendere una
lotta all’interno della Chiesa e della sua dottrina, e se è necessario anche contro la
Chiesa e la sua dottrina, senza aver la paura di scandalizzare i credenti, perché il vero
scandalo consiste nel tradire la verità. Nel nome della verità si può e si deve andare
contro la dottrina, se questo è necessario.
Mancuso ritorna spesso nei suoi libri su questa distinzione tra autorità e
autenticità, e ne dà una spiegazione molto esaustiva nell’opera Io e Dio, dicendo:
In queste pagine rendo pubblica la mia visione della fede in Dio e del suo
fondamento, la visione di un cattolico che intende rimanere tale ma che non può
più condividere integralmente la dottrina ufficiale e cerca di motivarne il
perché. Desidero in particolare promuovere un cambiamento di paradigma: il
passaggio dal principio di autorità al principio di autenticità. Il principio di
autorità (“quello che io vedo bianco lo credo nero, se lo stabilisce la Chiesa
gerarchica” diceva sant’Ignazio di Loyola) è ancora oggi dominante nel
cattolicesimo. Faccio un esempio. Potete bestemmiare, avere problemi con la
giustizia, tradire il coniuge, potete fare tutto questo, ma, se solo date
l’apparenza di credere e di rispettare l’autorità della Chiesa, voi siete un
cattolico gradito alla Santa Sede. Potete al contrario essere un uomo retto,
giusto, buono, ma se non condividete una norma etica della Chiesa e vi
assumete il coraggio di dichiararlo pubblicamente, voi non siete più un cattolico
per la Chiesa. Che cosa fa la differenza? Il riconoscimento formale dell’autorità
della Chiesa. E proprio in questo la Chiesa cattolica fa consistere oggi l’essere
12
V. Mancuso, Obbedienza e libertà, op. cit., p. 196.
22
cattolico: nel riconoscimento della sua autorità. Se pieghi il tuo intelletto
all’autorità dottrinale ecclesiastica, sei cattolico; se no, no. Non conta la vita
concreta, conta la professione esteriore di obbedienza. Io penso al contrario che
tale principio-autorità debba essere superato e che al suo posto vada inaugurato
il principio-autenticità. […] Ciò che auspico è il superamento nella mente dei
credenti della convinzione che la verità della loro fede cattolica si misuri sulla
conformità alla dottrina stabilita dalla gerarchia. Ciò che auspico è
l’introduzione nella mente dei credenti di una concezione dinamico-evolutiva
della verità (verità = bene) e non più statico-dottrinaria (verità = dottrina).
La fede deve vivere di una libera ricerca spirituale passando dal principio-
autorità al principio-autenticità13
.
Quindi se un’affermazione è conforme alla ragione, lo deve decidere la ragione
stessa, non certamente l’autorità. Il banco di prova della verità delle affermazioni non
sono le pagine scritte, ma è la vita concreta. L’essere cristiano allora non si può
ridurre all’obbedienza incondizionata al papa; non è il principio esteriore di
obbedienza all’autorità a risultare decisivo, ma quello interiore dell’autenticità. La
teologia deve, quindi, diventare libera ricerca spirituale, tanto in campo dogmatico
quanto in campo etico.
Essere soggetti al principio di autorità non solo è naturale, ma è anche giusto.
Bisogna però stare attenti al fatto che questo principio di autorità non degeneri in
autoritarismo. Affinché ciò non avvenga, l’uomo deve far sì che l’autorità rimanga
funzionale alla realtà.
Mancuso insiste molto sul concetto di verità, soprattutto sul modo di intendere
la verità. La verità non è una dottrina, non è qualcosa di statico, fisso, immobile,
bensì è qualcosa di dinamico. La verità, nel senso esistenziale del termine, è qualche
13
V. Mancuso, Io e Dio. Una guida dei perplessi, op. cit., p. 194 e sgg.
23
cosa che penetra la vita, che la fa respirare; è solamente così che si spiega come Gesù
possa dire: «Chi fa la verità viene alla luce»14
. Gesù non fa riferimento al dire la
verità, ma al fare la verità. Per Gesù il termine verità si inserisce nell’orizzonte della
prassi, della giustizia da compiere. Quindi la verità è qualcosa di dinamico, ha a che
fare con la vita concreta. La verità deve tornare a essere pensata nell’orizzonte
dell’autenticità. Ciò che determina la verità di un’affermazione è la vita, ed è solo
pensando la vita che la teologia rimane fedele alla sua vocazione di essere pensiero
del Dio vivente.
La verità cristiana, quella autentica, incrementa nel modo migliore possibile la
relazione armoniosa in cui consiste la vita, ed è quindi da intendere sempre in
funzione del mondo e della sua evoluzione creatrice da cui si originano la vita, il
pensiero, la libertà.
In conclusione, Mancuso pensa che
ognuno debba domandarsi ancora una volta dove risiedesse il retto spirito
evangelico. […] Nella risposta a questa domanda si gioca la partita tra principio
di autorità e principio di autenticità, tra essere cattolico perché si obbedisce al
papa o essere cattolico perché si vuole sempre, sopra ogni cosa, il bene del
mondo15
.
14
Giovanni, 3,21. 15
V. Mancuso, Io e Dio. Una guida dei perplessi, op. cit., p. 220.
24
1.5.1 Critica alle prove dell’esistenza di Dio
Ponendosi contro l’autorità, Mancuso affronta anche la tematica riguardante la
conoscibilità di Dio. Secondo la dottrina cattolica, è possibile conoscere Dio
mediante la ragione, la quale conduce l’uomo ad una conoscenza certa di Dio e
addirittura ad una sua dimostrazione. Mancuso invece è contrario a parlare di
“dimostrazioni” in riferimento a Dio, e dice:
Da parte mia scelgo di chiamarli sempre e solo «argomenti» perché ritengo che
in ordine a Dio non si possono dare prove o dimostrazioni di sorta, né per
provarne l’esistenza né per provarne altrettanto l’inesistenza, intendendo con il
termine Dio ciò che intende la dottrina cattolica, cioè il Dio personale distinto
dal mondo16
.
Invece che di prove, Mancuso si serve appunto di argomenti, e nello specifico
di argomenti antropologici, aventi come punto di partenza l’interiorità umana. La
pretesa di conoscere Dio mediante la ragione è vana, perché quando la ragione
riflette sull’assoluto è destinata a scontrarsi necessariamente con una serie di
inestricabili contraddizioni. La ragione può conoscere con certezza solo ciò che
giunge a dominare, ma non riesce a dominare, a comprendere il principio di tutte le
cose, ovvero Dio. Ed è proprio per questo motivo che non è corretto parlare di
«prove» dell’esistenza di Dio, ma solo di argomentazioni. Mancuso infatti sostiene:
L’esistenza di Dio è per definizione inattingibile dalla mente umana, perché in
caso contrario avremmo a che fare con un oggetto finito, e non con la
16
Ivi, pp. 83-84.
25
dimensione infinita alla quale rimanda il termine Dio. Il Dio vivente non si può
imprigionare, non si può ridurre in cattività capendolo. Ne consegue che
l’affermazione dogmatica della Chiesa proclamata nel Vaticano I17
è falsa, e
non c’è minaccia di scomunica che possa renderla vera18
.
Mancuso sa bene che le sue affermazioni, se fossero state pronunciate qualche
secolo fa, l’avrebbero condannato al rogo. Oggi questo rischio così estremo, per
fortuna, non c’è più, ma in ogni caso, non è così semplice sostenere tesi opposte a
quelle del magistero pontificio. Mancuso si rende conto infatti di essere diventato un
teologo un po’ scomodo all’interno della Chiesa, e le critiche dei colleghi teologi lo
dimostrano. Ma Mancuso non ha paura di andare controcorrente, lui che lotta per
affermare e per servire la verità, ad ogni costo. Non a caso il suo motto è: «Lotta sino
alla morte per la verità, e il Signore Dio combatterà per te»19
.
17
Il Concilio Vaticano I nella Costituzione dogmatica Dei Filius del 24 aprile 1870 dichiara: «La
santa madre Chiesa ritiene e insegna che Dio, principio e fine di ogni cosa, può essere conosciuto con
certezza mediante la luce naturale della ragione umana a partire dalle cose create». 18
V. Mancuso, Io e Dio. Una guida dei perplessi, op. cit., pp. 100-101. 19
Siracide, 4,28.
26
CAPITOLO SECONDO
Una nuova proposta teologica
“Occorre ripensare daccapo
la nozione di fede”
Simone Weil
2.1 Le opere principali
Dopo aver presentato il pensiero di Mancuso nelle sue linee generali, è ora
opportuno passare in rassegna le principali opere dell’autore, dalla tesi di dottorato,
Hegel teologo, scritta nel 1996, al libro, Il principio passione, pubblicato nel 2013.
2.1.1 Hegel teologo
Mancuso decide di scrivere la sua tesi di dottorato su Hegel, e intitola il lavoro
Hegel teologo e l’imperdonabile assenza del «Principe di questo mondo». Si parla
spesso di ambiguità hegeliana, cioè del fatto che egli possa essere considerato tanto
un rigoroso teologo quanto il fondatore dell’ateismo scientifico. In realtà, Mancuso
27
afferma che tale ambiguità non esiste affatto. L’oggetto della filosofia hegeliana è in
fondo uno solo, l’Assoluto, Dio. Il pensiero di Hegel è dall’inizio alla fine pensiero
di Dio. Mancuso vuole mostrare l’altezza di un pensiero che non rende più possibile
distinguere filosofia e teologia perché concentrato nella contemplazione della verità.
La novità radicale della filosofia di Hegel risiede nel cercare Dio all’interno delle
piaghe della storia.
Si tratta di concentrare lo sforzo della filosofia sul mistero del male, nella sua
portata etica e ontologica. Hegel si riferisce al cosiddetto peccato angelico e al suo
protagonista, Lucifero. L’uomo vive all’interno dell’opposizione del bene e del male.
Sennonché il bene e il male, in quanto forze universali, appartengono all’Assoluto. Il
problema di pensare il male, e di pensarlo alla luce di Dio come dotato di senso per
l’umanità, rimane.
Si Deus est, unde malum? Di fronte alla lacerante antitesi tra Dio e il male, il
pensiero deve assumere una determinata direzione, quella di ricondurre ogni cosa
alla volontà di Dio. Il male viene da Dio, perché tutto viene da Dio. Come può
l’Assoluto avere al di fuori qualcosa che non gli appartenga e rimanere insieme
assoluto? Il cristianesimo viene letto da Hegel in modo tale da rispondere a questa
domanda: qual è il mistero dell’essere? Che cosa è successo? Come e quando Dio ha
perso la sua creazione e non ne è stato più lui il principe? Da dove viene questo
nemico se tutto viene da Dio? I nodi rimangono designati: da un lato la realtà del
male e la libertà dell’uomo; dall’altro lato il progetto di Dio pensato all’inizio dei
secoli.
Hegel ha fatto un passo enorme contro l’epoca moderna: ha distolto il pensiero
dell’uomo e l’ha rivolto a Dio. Rispetto a lui, sostiene Mancuso, va compiuto un
28
passo ulteriore, e cioè riconoscere che tra Dio e l’uomo, oltre alla coappartenenza
originaria, c’è la scissione che comanda la storia, non la necessità. Da qui la
difficoltà hegeliana a pensare l’origine e la consistenza del male. Hegel riconduce il
male a Dio. Così il male, ricondotto e risolto nel divino, non esiste più; tutto quello
che esiste è il bene. Ma allora, da che cosa l’uomo deve essere salvato?
La questione vera e propria, quella concernente la causa, l’unde, rimane del
tutto aperta. Come pensare l’assolutezza di Dio senza attribuirgli il male? E come
non attribuirgli il male senza porre due principi? Come conciliare l’unicità dell’arché
divina con l’esistenza di Satana? Il problema posto dalla filosofia hegeliana alla
teologia della salvezza dunque è teologicamente legittimo e solleva questioni ancora
oggi del tutto aperte. Il momento del negativo si struttura attorno a tre questioni:
perché la creazione ha bisogno di salvezza? Perché l’attuazione della salvezza nella
forma della redenzione doveva passare attraverso la morte del Figlio? Perché la
salvezza non si mostra nella storia?
Risulta evidente che tale riconduzione dell’azione del Figlio al disegno del
Padre, comporta la ripresa del legame tra la teologia e la filosofia, non più sulla base
di sottili distinzioni metodologiche, ma a partire dalla comune posta in gioco, la
verità del mondo e della vita.
29
2.1.2 Il dolore innocente
Come già precedentemente accennato, Mancuso inizia a pensare di scrivere
questo libro, dal titolo Il dolore innocente. L’handicap, la natura e Dio, nel 1997
quando una malattia genetica non consente a suo figlio di venire al mondo. Dopo
quel tragico evento, Mancuso si interroga cercando di affrontare il problema dal
punto di vista teologico. Egli infatti critica la Chiesa perché ragiona ex parte hominis
invece di ragionare ex parte Dei. L’incertezza del Magistero e della teologia nel
rendere conto dell’handicap non porta Mancuso a nutrire dubbi sull’esistenza di Dio;
piuttosto lo porta a nutrire qualche dubbio sulla configurazione dottrinale di tale fede,
sulla sua sistematizzazione ecclesiastica. Allora Mancuso si chiede come interpretare
il fatto che un evento così significativo per la vita umana qual è l’accadere
dell’handicap si trovi senza risposta da parte del Magistero della Chiesa e della
teologia ufficiale.
La domanda di fondo che sta alla base di tutto il suo libro è: Perché? Perché
nascono così? Qual è il senso di queste nascite? Qual è il messaggio di cui è
portatrice la loro esistenza? E soprattutto: come conciliare queste nascite con la fede
nella provenienza direttamente dalle mani di Dio di ogni singola vita umana?
Mancuso affronta tali questioni da un punto di vista teologico. In questo saggio si
vuole giungere a comprendere almeno in parte quanto è teologicamente in gioco di
fronte al caso dei bambini che nascono con il peso di un handicap posto ab origine
sulle loro spalle innocenti.
La domanda radicale è: che cosa fa della vita una vita umana? Alcuni
sostengono che ciò che distingue l’uomo è la vita della mente. La caratteristica della
vita umana risiede nella vita intelligente, nel nesso cervello-mente-pensiero. Se il
30
cervello però non funziona, si chiede Mancuso, o funziona così male da non
permettere alcuna vita della mente? Esiste un elemento che, davanti a un bambino
che neppure mostra di riconoscere i genitori, ci fa dire che siamo comunque in
presenza di un essere umano con tutti i diritti degli altri? Anche se non ha corpo
come gli altri uomini, non ha psiche, non si muove, non ragiona, non parla, si dice
tuttavia che è un uomo come gli altri uomini. Perché? In base a che cosa? La scienza
a questo punto tace.
Che cosa apprendere dunque dalla sofferenza insita nell’handicap? Che cosa
insegna Dio mediante queste generazioni? Ciò che da subito è chiaro è il loro
rimandare alla lotta che l’uomo è chiamato a sostenere contro il male. Un essere
umano che nasce gravato dall’handicap è in sé un bene, segnato però dal male. In lui
il male appare non tanto nella volontà, come avviene normalmente, ma già nella
struttura corporea e psichica. Il male quasi lo precede, ne segna l’esistenza in modo
congenito, indelebile. Ma c’è proprio bisogno di questa ulteriore, crudele attestazione
delle fragilità della vita umana, quando già nella natura e nella storia ve ne sono in
quantità più che sufficienti? E perché poi scegliere alcuni piuttosto che altri? Con
quale criterio? È possibile pensare che Dio scelga positivamente alcune creature
umane e faccia in modo che il loro essere risulti in varie forme sfigurato, solo per
insegnare al resto degli uomini l’imperfezione che li circonda? La pedagogia divina è
davvero una ragione sufficiente per giustificare l’esistenza dell’handicap? In che
modo questa malformazione che si abbatte su questo bambino servirebbe all’armonia
universale? Dove si può attingere la relazione tra handicap e armonia universale?
Come pensare infatti che Dio, che è amore, possa volontariamente creare l’unica
31
esistenza di un essere umano così segnata irrimediabilmente dal male? Perché,
dunque, nascono così?
Nella Premessa all’edizione Oscar, Mancuso annuncia un suo cambiamento di
prospettiva. La sua risposta alla domanda: ma quale razionalità, e quale filosofia, di
fronte al dolore innocente? inizia in questo libro e approda alla prospettiva illustrata
nel paragrafo 8 de L’anima e il suo destino. Mancuso sottolinea in queste pagine la
difficoltà nell’approdare ad una nuova prospettiva. Non si riconosce più nelle frasi
che scrive in questo libro nel 2002, ad esempio quando sostiene che «l’amore si
comprende nella sua vera essenza come un movimento contrario a quello della
creazione»20
. Adesso è convinto che l’amore può autenticamente sussistere negli
esseri umani solo in forza della logica che plasma la creazione, di cui l’amore è il
movimento più alto. Questo libro continua ad avere per l’autore un’importanza
fondativa, perché rappresenta l’aver fatto piazza pulita nella mente di una visione
insostenibile del rapporto Dio-natura-uomo; lo considera un cambiamento di
pensiero.
2.1.3 Rifondazione della fede
Nel 2005 Mancuso scrive un libro dal titolo Per amore. Rifondazione della
fede. Nel 2008 il libro viene ripubblicato negli Oscar Mondadori, e in occasione di
questa ripubblicazione, Mancuso, che già nell’anno precedente aveva pubblicato un
volume intitolato L’anima e il suo destino, ne approfitta per spiegare al lettore che in
20
V. Mancuso, Il dolore innocente, op. cit., p. XII.
32
questi anni cambia prospettiva, soprattutto per quanto concerne la filosofia della
natura e il concetto di forza. Decide infatti di elevare a titolo dell’opera il sottotitolo,
Rifondazione della fede. La scelta di elevare il sottotitolo originario a unico titolo del
volume risponde a una logica di maggiore chiarezza comunicativa. Ovviamente il
messaggio di fondo del libro è e rimane il medesimo, cioè che l’amore è l’unico vero
motore che porta a credere in Dio. La questione sostanziale sta nel capire che cos’è, e
da dove viene, l’amore. È una forza estranea rispetto alla logica che manda avanti il
mondo oppure l’amore è il compimento della forza del mondo? In questo libro
Mancuso sostiene che tra la forza e l’amore vi è una differenza qualitativa, nel senso
che se c’è l’amore non vi può essere la forza e viceversa. Ne L’anima e il suo destino
Mancuso afferma invece che vi è una differenza quantitativa, cioè l’amore è sempre
forza, ma più ordinata, più intelligente.
Nel 2005 è forte l’influenza del pensiero di Simone Weil su Vito Mancuso,
tanto che quest’ultimo decide di dedicarle il libro. Weil interpreta l’amore come “de-
creazione”, come un ritrarsi dalla logica della forza che domina l’essere creato, e
Mancuso segue questo orientamento. Dopo pochi anni, la visione che Mancuso ha
dell’essere naturale è molto simile a quella di Pierre Teilhard de Chardin: l’amore,
ben lungi dall’essere de-creazione, è il compimento della creazione, e tutto procede
dalla materia, anche l’anima, anche lo spirito, anche l’amore. Nella Prefazione
Mancuso scrive:
Sono stato condotto a questa evoluzione dalla riflessione sull’origine del bene e
dell’amore, che è per me la questione che merita di essere sopra ogni altra
pensata. È il bene ciò che mi affascina oltre ogni misura e mi spinge a riflettere,
è il bene il fenomeno che intendo portare al pensiero. Sono convinto che la via
per capire chi siamo passi da lì, sono convinto che cercando di capire il bene e
33
la sua origine si giunga a contatto con lo specifico umano, sono convinto che sia
il bene la chiave per entrare dentro noi stessi e compiere l’imperativo delfico
“conosci te stesso”. […] La differenza tra questo mio libro pubblicato nel 2005
e scritto nel 2003 e il mio pensiero attuale riguarda ultimamente l’origine del
bene e della giustizia, nel senso che ora io ritengo che il bene non lo si attinga
uscendo dal mondo ma rimanendo fedeli al mondo, non ponendo un movimento
di de-creazione ma rispettando e riproducendo la medesima logica della
creazione, che è la relazione ordinata, l’armonia. Ora io ritengo che il bene
(oggettivo) venga prima della bontà (soggettiva)21
.
Mancuso conclude questa prefazione sottolineando l’urgenza, attinta da
Simone Weil, di ripensare daccapo la nozione di fede.
Tra le questioni affrontate da Mancuso in questo libro, è opportuno
evidenziarne alcune: C’è il bene? Che cos’è il bene? È possibile definire il bene?
Perché gli uomini sono più attratti dal male invece che dal bene? Da dove viene il
male? Unde malum? Oltre alla tematica del bene e del male, Mancuso affronta anche
il peccato del mondo, e si chiede quale sia la sorte riservata a quegli uomini che non
hanno ricevuto il battesimo. Infine dedica l’ultima parte al problema dell’anima,
chiedendosi perché negli uomini è sorta la necessità di parlare dell’anima.
2.1.4 L’anima e il suo destino
Nel 2007 Mancuso decide di approfondire meglio la tematica trattata
nell’ultimo capitolo del suo precedente libro, Rifondazione della fede, pubblicando
così L’anima e il suo destino. Il principale obiettivo che Mancuso si propone in
21
V. Mancuso, Rifondazione della fede, Oscar Mondadori, Milano 2008, p. 13.
34
questo libro consiste nell’argomentare a favore della bellezza, della giustizia e della
sensatezza della vita, fino a ipotizzare che da essa stessa, senza bisogno di interventi
dall’alto, sorga un futuro di vita personale oltre la morte.
L’interlocutore principale di questo libro è la coscienza laica, intendendo con
ciò quella parte della coscienza, presente in ogni uomo, credente o non credente, che
cerca la verità per se stessa e non per appartenere a un’istituzione; quella parte della
coscienza che vuole aderire alla verità, ma vuole farlo senza alcuna forzatura
ideologica, di nessun tipo, e se accetta una cosa, lo fa perché ne è profondamente
convinta, e non perché l’abbia detto uno dei numerosi papi, o uno degli altrettanto
numerosi antipapi della cultura laicista. La vera laicità significa ritenere conclusivo
non il principio di autorità ma la luce della coscienza. Il metodo del suo argomentare
si basa anche sulla filosofia e sulla scienza oltre che sulle fonti tradizionali della
teologia.
La domanda che costituisce l’argomento di questo libro riguarda la morte e l’al
di là della morte, non tanto che cosa ci sarà, piuttosto, molto più radicalmente, se
qualcosa ci sarà.
Quando la mente pensa con rigore la morte e il suo oltre, si ritrova davanti
quasi solo domande. Mancuso intende conoscere l’anima per giungere a conoscere la
verità, e farlo alla luce della natura. Qui si ragiona sull’anima come qualcosa di
naturale, come il principio della vita, come la realtà più concreta che c’è. Per natura
Mancuso intende il fondo primordiale dell’essere, ciò che fa nascere e apparire le
cose. Se l’essere è energia, la domanda allora diviene: perché c’è l’energia e non la
stasi? Perché tutto si muove invece di stare fermo? Il termine natura designa
35
l’energia in modo tale da portarci a concepirla come mai compiuta, e per questo
sempre al lavoro.
Nel libro Per amore Mancuso giudica la forza che governa l’essere come un
fenomeno indifferente, né buono né cattivo; ora invece la giudica positivamente,
come principio di ordine e di organizzazione.
Mancuso si chiede: ma perché gli uomini fanno il bene? Che cosa li spinge
talora a comportamenti giusti? È forse perché sono buoni? Qual è l’archeologia del
bene?
Nel sistema di pensiero che sottostà a questo libro, il destino di vita immortale
della persona viene strappato alla religione e consegnato all’etica, la quale, a sua
volta non si fonda su se stessa ma rimanda all’ordine naturale, all’essere del mondo.
Mancuso critica le seguenti dottrine tradizionali: la creazione dell’anima umana da
parte di Dio senza nessun concorso dei genitori; il peccato originale; la risurrezione
della carne e la dannazione eterna nell’Inferno.
La questione dell’origine (da dove viene la vita?) è determinante non solo per
la questione dell’essenza (che cosa è la vita?) ma anche per quello dello scopo (a
cosa è destinata la vita?). È solo sapendo da dove vengo, che posso intuire qualcosa
di dove vado.
La presenza nell’anima di valori che trascendono il tempo, quali la verità, la
giustizia, l’amore, la vita morale, costituisce un appello quasi irresistibile
all’esistenza del mondo divino e della vita futura. Che ne sarà di tutti gli esseri umani
che non hanno potuto raggiungere, a causa della cecità della natura-physis, il livello
spirituale?
36
Un’altra domanda si impone: se l’anima può conseguire la sua immortalità
anche per via naturale, anche a prescindere da Cristo, a che cosa serve il
Cristianesimo? È o non è il Cristianesimo ciò da cui dipende la salvezza dell’uomo?
Ma veramente il destino di miliardi di esseri umani dipende dalla colpa di quello
sconosciuto in un lontanissimo passato? Come può Dio creare direttamente l’anima
spirituale e nello stesso tempo assoggettarla alla corruzione e alla concupiscenza? In
questo libro Mancuso affronta e cerca di rispondere a tali questioni.
2.1.5 Io e Dio
Il sottotitolo di quest’opera, scritta da Mancuso nel 2011, è Una guida dei
perplessi, titolo del capolavoro di Mosè Maimonide. Mancuso rimane molto colpito
da questo titolo poiché lo sente corrispondere al senso complessivo dell’esistenza
umana, da sempre alla ricerca di un punto fermo per vincere le perplessità della
mente alle prese con la vita. Maimonide, nella sua opera, si rivolge a chi pratica la
filosofia e conosce veramente le scienze, ma crede anche nella Legge ed è perplesso
di fronte ai suoi significati. La perplessità che ai tempi di Maimonide interessava una
ristretta cerchia di dotti, oggi invade, secondo il parere di Mancuso, la coscienza dei
più.
Mancuso apre la sua opera con una serie di interrogativi: qual è il messaggio
della vita degli uomini sulla terra? Questa vita, dentro cui siamo capitati nascendo
senza sapere perché, ha mille ragioni per essere una grazia, e mille altre per essere
una disgrazia: ma cosa è vero? Che è una grazia o una disgrazia? Se alla fine
comunque si deve morire, è meglio nascere o non nascere, essere o non essere? Ma
37
che cos’è vero, alla fine, per me e per loro, di questa vita che se ne va, nessuno sa
dove?
Rispondere a tutti questi interrogativi vuol dire parlare di Dio; di Dio in quanto
fondamento e direzione dell’essere, di Dio in quanto principio e fine di tutte le cose.
Il problema però è che oggi non solo il parlare, ma anche lo stesso pensare Dio è
diventato quasi impossibile, soprattutto se, parlandone e pensandolo, non lo si può
fare contro, o a prescindere dal mondo.
Io e Dio avrebbe potuto intitolarsi allo stesso modo «La libertà e Dio», perché
alla fine ciò che Mancuso intende fare con il suo lavoro è una teologia della libertà.
Questo volume intende parlare di Dio a partire dall’Io, e intende farlo non dentro le
mura di un’istituzione ma all’aria aperta della libertà di pensiero.
Mancuso fa un elenco delle possibili domande la cui risposta può essere Dio,
domande riguardanti il senso della vita, la creazione del mondo, il governo del
mondo, il vivere felici e la morte.
L’autore si chiede anche: perché l’essere umano è homo religiosus? Perché i
popoli da sempre hanno avuto una religione? Perché il fenomeno animale più dotato
di ragione è anche quello che più accede nei territori dell’irrazionalità?
Facendo riferimento alla fede, modello anzi cavaliere della fede è Abramo, di
cui è noto l’episodio in cui Dio chiede di sacrificargli il figlio. La tradizione vede in
Abramo il vero uomo di fede in quanto manifesta un’assoluta e incondizionata
obbedienza a Dio. Kierkegaard parla al riguardo, nell’opera Timore e tremore, di
“sospensione teleologica dell’etica”, ma Mancuso non è assolutamente d’accordo, e
si chiede: Ma di quale Dio stiamo parlando? Di un Dio la cui essenza è volontà
38
assoluta? Nelle ultime pagine di questo libro Mancuso dà una spiegazione esaustiva
del perché lui crede in Dio.
2.1.6 Il principio passione
Mentre Io e Dio è un’opera di teologia fondamentale, Il principio passione è
un’opera di teologia sistematica. In quest’opera Mancuso cerca principalmente di
rispondere a questa domanda: che relazione c’è tra l’amore, in quanto essenza
specifica del Dio che crea, e la sua struttura concreta di questo mondo? In prospettiva
antropologica, si tratta di capire se quando si ama si compie la logica del mondo
oppure la si nega. Nell’affrontare tale questione, teologica e antropocentrica al
contempo, il percorso di questo libro si intreccia con questioni inerenti la
cosmologia, la filosofia della natura, la biologia, la fisica, oltre che ovviamente le
cosmogonie delle religioni e il patrimonio dottrinale cattolico. Mancuso tiene molto a
precisare che se la teologia ha qualcosa di valido da dire in riferimento all’origine e
al senso del mondo, essa deve farlo al cospetto del sapere scientifico e filosofico.
Il mondo. Quanto costa questo suo farsi? Perché si possa dare un gesto di puro
amore, quanta impurità e quanta lotta devono venire prima? Ma il mondo merita di
essere amato? Oppure meriterebbe di essere odiato, disprezzato? E qual è il punto di
vista più maturo per guardare questo mondo nel quale siamo capitati nascendo?
L’infanzia o la vecchiaia? L’altruismo o l’egoismo? La vita o la morte? Qualcuno
dice l’amore. Ma che cos’è, da dove viene, l’amore?
39
Da dove vengono, nel mondo retto dal logos, il male, la sofferenza e la
corruzione? Come si concilia l’onnipotenza divina con la presenza del male? A
segnare l’origine e il destino ultimo dell’energia che noi siamo è l’entropia, cioè il
disordine, come sostiene il principio-caos, oppure è l’ordine, come sostiene il
principio-logos?
Ma il punto decisivo consiste nel come intendere il rapporto tra la volontà
divina e le dolorose contingenze di cui è disseminato il cammino evolutivo: anche
queste sono controllate e quindi volute dal Creatore?
Nelle scritture ebraiche il satan gioca un ruolo marginale, mentre nel Nuovo
Testamento Satana diviene protagonista. Come mai? Perché Dio non uccide il
Diavolo? Se ogni cosa è creata da Dio e quindi è originariamente buona, anche
Satana viene da Dio, quindi anche Satana è ontologicamente buono: come può allora
essere l’origine del male? Quale catastrofe deve essere avvenuta perché una creatura
di Dio si sia potuta corrompere a tal punto da dare origine al male e devastare con
tanta determinazione il mondo creato?
Ma il cristianesimo, si chiede la coscienza cristiana, non consiste nell’annuncio
che il Dio unico è da intendersi come amore? Eppure basta aprire la Bibbia per
ritrovare una serie di passi che testimoniano senza possibilità di smentita l’esistenza
di un lato oscuro della divinità.
Il mondo avrebbe potuto tranquillamente non esistere senza che per Dio in sé
mutasse nulla. Sorge però inevitabile la domanda: perché allora Dio l’ha creato? Che
cosa voleva? Qual è l’obiettivo di tale immane processo che si chiama mondo?
Queste e tante altre domande troveranno una risposta all’interno di questo
libro; un libro che porta avanti una visione antinomica della realtà. La realtà infatti
40
non è solo logos, ordine, ma è anche caos, disordine. Allora Mancuso elabora la
cosiddetta “formula del mondo”: logos + caos = pathos, perché è la passione che
regge il mondo e ne rispecchia la logica dell’universo.
2.2 Nuclei tematici
Dopo aver esposto cronologicamente le tematiche fondamentali che Mancuso
affronta nei suoi libri, adesso è opportuno procedere per nuclei tematici.
I problemi essenziali che si pone Mancuso si intrecciano tra di loro: la tematica
del bene, l’esistenza di Dio o il mistero di Dio e il problema del male, l’origine del
male, il modo di riconciliare il senso della natura e l’idea del bene, la questione
dell’anima, la filosofia della natura, la questione del principio passione, la creazione,
il ruolo cosmico di Cristo e tante altre tematiche.
2.2.1 Dalla traccia del bene a Dio
In questo senso uno dei concetti più importanti per Mancuso è il bene. Ma che
cos’è il bene? È possibile definirlo? Nell’opera Rifondazione della fede, Mancuso
dedica un intero capitolo al bene, e in particolar modo all’esistenza del bene e alla
sua definizione, elaborandone in conclusione anche una teologia.
Secondo Mancuso il bene è un fenomeno raro. Ma per quanto raro possa
essere, il bene c’è; ed è un fenomeno prettamente umano. Il bene è sempre
41
proporzionato all’uomo; bene e male, senza l’uomo, non si possono neppure pensare;
sono due concetti antropocentrici. È mai possibile definire il bene? Mancuso ritiene
che «gli uomini vivano lo strano paradosso di essere giunti in possesso di conoscenze
superbe sulla struttura del mondo, dell’universo e della vita (…) e di continuare a
ignorare che cosa è bene (e conseguentemente che cosa è male) per la loro vita. Ciò
che è ritenuto bene da alcuni viene ritenuto male da altri»22
. Ciò che però unisce
profondamente gli uomini è la dimensione morale. Affinché ci sia il bene è
fondamentale che un’azione venga compiuta senza nessun interesse di guadagno
personale; è necessario quindi realizzare l’oggettività dell’azione perché ci possa
essere il bene. Ma il bene, nella sua pienezza, non si può realizzare a livello
orizzontale, cioè tra gli uomini. La pienezza del bene è qualcosa che riguarda la
relazione dell’anima umana con la dimensione verticale, alimentando il profondo
senso interiore di bene e di giustizia che abita l’anima umana.
Ma così come non basta solamente la soggettività per realizzare il bene, allo
stesso modo non basta nemmeno l’oggettività. Il bene, infatti, nasce dall’unione di
condizioni oggettive e di disposizioni soggettive; il bene è l’unione di due cose, la
motivazione interiore e l’atto che si compie. Bisogna tramutare le buone intenzioni in
azioni, in lavoro concreto. La massima realizzazione del bene si ha quando si agisce
in favore dell’altro, senza però riporre nell’altro il proprio centro. Ma per realizzare il
vero bene occorre essere liberi, non solo dagli altri, ma anche da se stessi, e Mancuso
osa dire anche da Dio, perché «la libertà è ciò che Dio vuole da noi, una libertà
totale, anche da lui e dalla sua legge. Solo a questo prezzo, nasce il vero bene. […] È
22
V. Mancuso, Rifondazione della fede, op. cit., p. 160.
42
un’impresa difficile il bene puro, è la più grande opera d’arte che può compiere
l’anima umana, e sono pochi coloro che vi arrivano»23
.
Il concetto di Dio esprime l’intuizione filosofica dell’identità tra la verità e il
bene. Del resto, il bene dell’uomo è proprio la verità. Per il cristianesimo la verità è
relativa al bene dell’uomo concreto.
Si è soliti contrapporre il bene al male, invece Mancuso ritiene che il bene si
contrappone alla forza e non al male. Il bene puro è assoluto, non genera alcun male.
L’essenza del bene consiste nel darsi gratuitamente agli altri, del donarsi
incondizionatamente agli altri, nel farsi nutrimento per gli altri; esempio perfetto di
questo bene assoluto è Cristo. Questa è la struttura non solo ontologica, ma anche
esistenziale del bene. Chi vive l’amore assoluto, vive lo specifico del cristianesimo.
È questa forma della vita che fa di un uomo un cristiano, non il certificato di
battesimo24
, dice Mancuso. Chi ama non può non agire per il bene, non può non
porre il bene. La dimensione autentica del cristianesimo consiste nel fatto che lo
spostamento del baricentro dell’Io non è annullamento della libertà per obbedire alla
legge, ma è ritrovamento della persona nella comunione interpersonale. Il
cristianesimo deve essere visto alla luce della categoria di relazione. Si è soliti
pensare che gli uomini che credono in Dio agiscano bene e per il bene, e chi invece
non crede in Dio agisca male e per il male. Mancuso invece sostiene che la realtà
attesta molto spesso il contrario, cioè attesta l’esistenza di uomini che, senza credere
in Dio, agiscono bene e per il bene, e il caso opposto di credenti che agiscono male e
per il male.
23
Ivi, p. 164. 24
Cfr. V. Mancuso, Rifondazione della fede, op. cit., p. 176.
43
Secondo Mancuso occorre pensare che
l’affermazione del bene è più originaria rispetto all’affermazione di Dio, è la
conditio sine qua non per entrare nell’autentica dimensione della trascendenza
divina. […] Si può anche negare esplicitamente Dio e però fare il bene, agire
giustamente, e così, essere comunque nell’orizzonte di Dio che è quello del
bene, perché ubi charitas ivi Deus. Non è la fede dichiarata a parole che salva,
ma la carità25
.
Quindi anche un ateo può incontrare Dio, basta soltanto essere disposti ad
uscire dal proprio egoismo per entrare nella dimensione del bene, perché se c’è il
bene, c’è Dio. E il bene c’è. Quindi il bene va considerato sopra ogni cosa, anche al
di sopra di Dio, perché nel nome di Dio sono stati commessi i crimini più assurdi,
dalle persecuzioni alle crociate, invece chi vuole veramente il bene, non commetterà
mai il male. Dunque anche l’idea di Dio come amore va subordinata all’idea del
bene. In un certo senso il bene e l’amore sono la stessa cosa, considerata però da due
punti di vista differenti: il bene dal punto di vista oggettivo, e l’amore dal punto di
vista soggettivo. È necessario che l’amore sia subordinato al bene; se questa
subordinazione viene a mancare, l’amore può generare sia il bene sia il male. Da ciò
si evince il primato del bene su ogni cosa, anche su Dio.
25
Ivi, p. 177.
44
2.2.2 Dio
È senza alcun dubbio riduttivo parlare di Dio in un solo paragrafo, ma quello
che qui si vuole affrontare riguarda la relazione che intercorre tra ciò da cui tutto
deriva e si origina, e i due poli che orientano la vita e la condotta degli uomini sulla
terra, ovvero il bene e il male. Infatti, se da un lato si può affermare la superiorità del
bene rispetto a Dio, dall’altro che relazione c’è tra Dio e il male? Ma prima di far
addentrare il lettore nell’immenso oceano del male che travolge anche Dio, è
doveroso fare degli accenni al modo in cui Mancuso concepisce Dio.
Secondo Mancuso, Dio non è un nome proprio; neppure è un nome di cosa
concreta; nemmeno è un nome di concetto astratto. Il termine Dio è piuttosto un
termine relativo, esprime cioè una relazione, designa un rapporto. Proprio per questo
però senza il mondo Dio non è dio, perché non ha il termine con cui relazionarsi
costituendosi come il dio. Senza gli uomini e senza le loro combinazioni di
sentimenti (sofferenze, amori e speranze) non potrebbero sorgere le condizioni di
possibilità del divino. Vi sarebbe un assoluto, cioè un’unica sostanza del tutto priva
di relazioni, ma non un dio. In questo senso quindi la creazione del mondo coincide
con la creazione di Dio.
Mancuso, a proposito di Dio, si chiede: Perché gli uomini ne parlano da
sempre? Che cosa c’è in gioco? Ciò che è in gioco nel concetto di Dio non è un ente
misterioso, ma il fatto che l’essere, e quindi la vita come parte dell’essere, abbia un
fondamento, e che tale fondamento sia razionale ed eterno. La fede in Dio si
qualifica come fiducia nella vita e nel suo destino. Mancuso intuisce che la radice dei
mali del nostro tempo consiste nell’incapacità della nostra cultura di pensare Dio
laicamente, filosoficamente, quale fondamento razionale e logico dell’essere.
45
Lasciato alle prediche, occorre tornare a parlarne nelle piazze e nelle università. A
questo proposito, Mancuso fa presente ad Augias (nel libro Disputa su Dio e
dintorni) e quindi anche al lettore, che in Italia non esistono facoltà laiche di
teologia, come accade, invece, negli altri grandi paesi occidentali. Quello che qui
l’autore vuole dire consiste nell’abbracciare la giustizia della vita, nel fidarsi della
vita, nell’affidarsi alla sua logica relazionale che porta ogni uomo all’esistenza. La
vera posta in gioco, nella disputa tra la fede in Dio e l’ateismo, è la fiducia verso la
vita.
Mancuso intende «pensare e parlare di Dio al cospetto del mondo e del suo
sapere, nel mezzo di questa vita meravigliosa e terribile»26
, e comincia col dire che in
relazione a Dio, ogni essere umano è nella stessa identica condizione di tutti gli altri
esseri umani, che non è tanto quella di sapere o di non sapere, ma piuttosto quella di
dipendere. È, infatti, una questione che ha a che fare con la totalità della vita e tutti
gli uomini, a prescindere dalla volontà di ogni singolo essere vivente, dipendono. Il
termine «Dio» rimanda al principio di tutte le cose, e quindi anche alla fine di tutte le
cose. Dire che Dio è il principio di tutte le cose significa dire non solo che le ha
create, ma che le sostiene ora, le mantiene in esistenza ora. Il dramma della nostra
epoca, sostiene Mancuso, è che siamo molto progrediti quanto a conoscenze
scientifiche, tecniche, e che, di contro, il livello della nostra conoscenza di Dio è
rimasto per lo più quello del passato. Il dramma di noi occidentali è di non avere più
una religione all’altezza delle esigenze del nostro tempo. Il risultato è una società
senza religione27
. La religione è vera e degna di un essere umano responsabile nella
misura in cui relaziona il singolo individuo al principium di tutte le cose.
26
C. Augias – V. Mancuso, Disputa su Dio e dintorni, op. cit., p. 38. 27
Cfr. C. Augias – V. Mancuso, Disputa su Dio e dintorni, op. cit., p. 96.
46
Dio viene considerato quindi «principio di tutte le cose». Tale principium è da
distinguere accuratamente dal mero inizio. Mancuso fa un esempio sperando di
rendere più chiara la differenza tra inizio e principio. L’inizio si può paragonare al
suono della campanella prima della lezione, la quale, una volta iniziata, non ha più
nulla a che fare con l’evento esteriore che le ha dato il via. Il principio invece
accompagna sempre il fenomeno. Il migliore esempio al riguardo è l’amore tra due
esseri umani, che è il principio della loro unione nel senso che ne è sì la causa
iniziale, ma ne è anche la forza che li sorregge nel tempo e la meta verso cui essi
camminano. Allo stesso modo se si parla di «Dio» ci si riferisce al principio
dell’essere-energia, cioè a ciò che ne costituisce la sorgente iniziale; a ciò che ne
rappresenta il principio ordinatore che ne bilancia la tendenza al disordine e al caos e
a ciò che ne prefigura la meta.
Va dunque recuperata la dimensione ontologica sottesa al termine Dio. Dio non
può essere pensato
come totalmente altro rispetto al mondo, come totalmente estraneo rispetto
all’uomo. Pensare Dio comporta comprendere che nulla gli è estraneo o
indifferente, ma tutto appartiene a Lui. Questo comporta l’affermare che Dio è
la verità del tutto. Pensare Dio comporta pensare il tutto. Emerge quindi la
consapevolezza della profondità ontologica connessa al termine Dio, pensato
come la sostanza di tutte le cose, la verità28
.
L’ordine che, a livello fisico, produce il nostro organismo, a livello etico
emerge nella nostra mente manifestandosi come esigenza di giustizia. E questo
28
Cfr. V. Mancuso, Hegel teologo. E l’imperdonabile assenza del «Principe di questo mondo»,
Edizioni Piemme, Asti 1996, pp. 215-216.
47
costituisce, agli occhi di Mancuso, un argomento molto forte a favore dell’esistenza
di una dimensione eterna dell’essere, dagli uomini convenzionalmente chiamata Dio.
La visione tradizionale della teologia intende Dio in quanto Creatore come
causa efficiente, finale, formale e materiale del mondo. La tradizione religiosa però
deve fare i conti con le rivoluzioni scientifiche della modernità, e quindi con le
scoperte della scienza. A questo punto non è più possibile affermare che Dio è la
causa efficiente del mondo poiché si è scoperto che la natura non ha padroni, è libera,
ma al contempo è orientata. Secondo la visione tradizionale, Dio fornisce al mondo
la forma in quanto appunto causa formale. Ma l’essere-forma di Dio rispetto al
mondo è paragonabile non a un disegno ma a una tensione. L’esperienza infatti
attesta che il mondo è un processo continuo di aggregazione e disgregazione, di
logos e caos. Dio come télos va inteso come una tendenza che spinge il disordine ad
andare controcorrente verso l’ordine. Secondo il cristianesimo, Dio è causa materiale
del mondo, nel senso che la materia viene all’esistenza grazie alla sua parola laddove
prima non vi era nulla. La dottrina della creazione dal nulla esprime
l’unicità del principio dell’essere ovvero il monoteismo, mentre l’ordinamento
del caos esprime l’esperienza vitale secondo la quale la provenienza dell’essere
dal principio divino non è mai conclusa ma deve in ogni istante lottare per
affermare se stessa. Occorre quindi un concetto di creazione che possa
conciliare il modello della creatio ex nihilo con il modello dell’ordinamento del
caos. Tale conciliazione può avvenire solo a una condizione: che anche il caos
sia a sua volta creato da Dio. Se il mondo all’inizio non fosse stato caotico, la
libertà non avrebbe potuto nascere; e se ora il mondo cessasse di essere caotico,
la libertà verrebbe meno. Il caos quindi è una caratteristica intrinseca della
natura creata, la quale è strutturalmente logos + caos, e ciò porta a concepire la
creazione come un processo continuo di ordinamento del mondo a partire dallo
stato caotico iniziale. Il caos che pervade l’essere del mondo è la conditio sine
48
qua non della libertà. La posizione tradizionale del cristianesimo che esclude
ogni identificazione di Dio con la natura, ha il vantaggio di preservare sia la
trascendenza di Dio sia la bontà del mondo; ha lo svantaggio però di trovarsi in
difficoltà nel raccordare l’azione di Dio e la libertà del mondo29
.
Mancuso pensa che l’identificazione di una nuova forma di energia denominata
energia oscura, possa consentire di raggiungere l’unità dell’essere e insieme di
mantenere la distinzione all’interno dell’essere tradizionalmente espressa mediante lo
schema natura-sovrannatura. Dio viene pensato come realmente trascendente senza
quindi cessare di essere immanente. Quindi per ogni uomo che viene sulla terra la
partita della vita è sempre tra Io e Dio. Ma quando si parla di Dio non si può non
prendere posizione circa il problema del male. Mancuso «comincia con il dire che
ogni discorso su Dio, oggi come sempre, non solo non può prescindere dal problema
del male, ma prende veramente senso solo a partire da lì»30
.
2.2.3 Dio e il male
Unde malum? Il problema del male interroga da sempre la mente dell’uomo.
Questo processo di annullamento, o forse sarebbe meglio dire di depotenziamento
della presenza del male nelle vicende umane, assume da sant’Agostino in poi la
forma della «teodicea». La teodicea nega la realtà sostanziale al male e ne iscrive le
manifestazioni dolorose in un disegno provvidenziale. In questo modo, il problema
del male diventa il problema di come Dio sia compatibile con il male. Ogni teodicea
29
V. Mancuso, Il principio passione, op. cit., pp. 39-40. 30
C. Augias – V. Mancuso, Disputa su Dio e dintorni, op. cit., p. 140.
49
ha una finalità assolutoria nei confronti di Dio: non è Dio ma sono gli uomini i
responsabili delle azioni malvagie, e queste rientrano nel complessivo sistema della
giustizia divina. Nel Novecento, dopo Auschwitz, sono i campi di sterminio che
rendono impossibile pensare il male come una semplice privazione di bene o
giustificarlo in un disegno di giustizia provvidenziale. È solo con Auschwitz che il
problema del male si ripropone in tutta la sua forza e in tutta la sua portata
devastante, e si ripropone in un modo totalmente diverso rispetto al passato. Qui il
male è assoluto, indicibile. Qui il male entra nell’essenza di Dio, e la presenza del
male in Dio ne decreta l’impotenza. Lo sterminio di sei milioni di ebrei rappresenta
un limite alla comprensibilità del male. All’idea di un male assoluto si affianca l’idea
di un male assolutamente imperdonabile. Sono soprattutto gli ebrei a relazionare il
male assoluto a Dio; ad esempio Hans Jonas giunge persino a negare a Dio
l’onnipotenza, perché sostiene che Dio è buono ma non onnipotente, e quindi non è
in grado di eliminare il male. Ovviamente il male, sotto forma di violenze ed offese,
si manifesta imprescindibilmente; è nella natura umana e finché ci sarà l’uomo ci
sarà anche il male.
Ma il male, secondo Mancuso, esiste solo in relazione al bene. È proprio
perché il bene esiste che può essere corrotto e violato. E questa corruzione del bene è
ciò che viene denominato male31
. Il male appare solo quando ci si pone dal punto di
vista dell’uomo e del suo bene; infatti, come già detto, bene e male sono due concetti
antropocentrici. Ma la domanda che da sempre affligge l’uomo è: Unde malum?
Mancuso si pone questa domanda in tutti i modi e in quasi tutti i suoi libri, a
cominciare dalla sua tesi di dottorato su Hegel.
31
Cfr. V. Mancuso, Rifondazione della fede, op. cit., p. 180.
50
L’esistenza del male non smentisce l’esistenza di Dio, anzi in un certo senso la
prova perché dimostra l’esistenza di un ordine di bene senza il quale non si potrebbe
neanche parlare di male. Ma, di fronte alla lacerante antitesi tra Dio e il male, il
pensiero deve assumere una determinata direzione, deve decidere come pensare
l’assolutezza di Dio senza attribuirgli il male, e come non attribuirgli il male senza
porre due principi? Tradizionalmente tali quesiti vengono risolti a partire dalla
ribellione degli angeli. Alla “domanda più antica” Mancuso risponde così: «Se
veramente si vuole riconoscere il male come male, l’assurdo come assurdo, e il nulla
come nulla, occorre porre la caduta, la reale scissione, l’effettivo cambiamento di
signoria sulla storia del mondo. Occorre riconoscere l’angelo della luce e la sua
ribellione»32
. Da ciò si può dedurre che Mancuso attribuisce il male non al peccato
del primo uomo (questione tra l’altro molto importante in Mancuso e che verrà
affrontata più avanti) ma alla ribellione dell’angelo, al “principe di questo mondo”.
In un altro libro, Il dolore innocente, Mancuso pone nuovamente il dilemma tra
l’onnipotenza divina e la somma bontà anch’essa divina, sintetizzato nella massima
latina “Si Deus est, unde malum?”, con la differenza però che qui Mancuso non si
riferisce al male in senso generico, ma ad un male del tutto specifico che tocca il
sorgere della vita umana. Quindi il problema qui non ha niente a che vedere con il
male causato dal libero agire umano, cioè il male morale, ma riguarda quel male di
cui l’uomo non è colpevole ma solo vittima, cioè il male fisico; questo male fisico di
cui parla Mancuso trova nell’handicap un’emblematica manifestazione. Nel caso
dell’handicap ci si trova di fronte a un male che tocca direttamente l’attività creatrice
32
V. Mancuso, Hegel teologo, op. cit., p. 364.
51
di Dio in quanto padre dell’uomo, e che quindi pone in crisi la relazione naturale
Dio-uomo. Si profila così un’unica alternativa che impone una scelta radicale:
o assolvo Dio dalle malformazioni genetiche prenatali, ma conseguentemente
neppure gli attribuisco più alcun merito, provvidenza, disegno, vocazione per le
nascite normali; oppure gli imputo gli handicap, e di conseguenza posso
legittimamente continuare ad attribuirgli anche disegni provvidenziali,
vocazioni, ecc... Il concetto disputato è esattamente quello del legame naturale
tra Dio e l’uomo33
.
Tra Dio e la natura si è intromessa la libertà. E la natura, a sua volta, riflette
questa libertà, è questa libertà, questa autonomia che la sottrae al controllo di Dio. La
creazione porta dentro di sé la necessità che Dio soffra, che Dio venga sacrificato. È
un’assurdità che Dio debba soffrire, ma questa assurdità è l’unico spazio concettuale
per pensare l’assurdità dei bambini nati malformati. L’handicap è il prezzo che si
paga a una creazione libera, lo stesso prezzo pagato dal Padre con l’immolazione del
Figlio.
In Rifondazione della fede, Mancuso dedica un intero capitolo, il quinto
precisamente, al problema del male, dopo aver trattato nel capitolo precedente il
tema del bene. Per Mancuso il male entra in scena solo dopo che è entrato in scena il
bene, come sua corruzione. Senza il bene, il male non potrebbe esserci. Il bene è
originario; il male invece è parassitario. Gli uomini al bene preferiscono il male.
Perché? Perché gli uomini sono più attratti dal male invece che dal bene? Mancuso
sostiene che
33
V. Mancuso, Il dolore innocente, op. cit., p. 101.
52
gli uomini sono attratti più dal male che dal bene perché vi vedono la forza.
Quando il bene giunge a esercitare su di loro un’attrazione maggiore, è perché
risulta più forte del male. Gli uomini non sono perversi, non amano il male per
il male, non sono demoniaci (anche se lo possono diventare). Gli uomini al bene
preferiscono il male perché, la gran parte delle volte, lo vedono più forte. Ciò
che al fondo li seduce, ciò che li conquista, ciò che tiene in ostaggio i loro cuori
e le loro menti, è la forza34
.
La dogmatica cattolica, per quanto concerne il tema del male, si basa su tre
assunti: il male c’è; Dio non lo vuole; Dio governa. La teologia tradizionale non
rinuncia a nessuno dei tre assunti, ma non sa come comporli con logica. E allora
ammette il mistero. Nel Catechismo si legge: «Dio permette che ci siano i mali per
trarre da essi un bene più grande»; e poi si legge anche: «Dio non è in alcun modo,
né direttamente né indirettamente, la causa del male». Ora, è evidente l’impossibilità
logica di far convivere queste due prospettive. Mancuso risolve l’aporia dicendo che
dei tre assunti è il terzo che va corretto, riformulando il concetto di tale governo. Il
governo divino si attua mediante un impersonale principio ordinatore immanente
all’essere, il cui scopo è la nascita della vita spirituale e quindi della libertà che essa
suppone. Per generare lo spirito il mondo deve essere libero, e proprio questa sua
libertà è all’origine del disordine che si chiama «male», sia in quanto male fisico sia
in quanto male morale. Quindi, la libertà umana con i suoi cedimenti non è la causa
del male ma ne è piuttosto una manifestazione.
Ritorna ancora una volta la domanda aporetica: Unde malum? La questione del
male per il cristianesimo è davvero centrale, e per rispondere a tale questione la
34
V. Mancuso, Rifondazione della fede, op. cit., p. 45.
53
teologia rimanda alla storia di Cristo. La passione-morte di Gesù costituisce
l’ingresso di Dio nelle più estreme regioni del negativo. Ma, come dice Mancuso, la
spina rimane: perché il male ha un peso così soverchiante nel mondo, tanto da
giungere a schiacciare lo stesso Figlio di Dio fatto uomo? Perché, se Dio c’è e conta
qualcosa, il mondo è fatto così? Chi comanda nel mondo? Dio o qualcun altro? Il
male e la questione della sua origine è la spina nella carne viva che inquieta l’uomo
che crede in un bene assoluto, una spina che, fino a quando non sarà estirpata,
produrrà sofferenza, dolore, lacrime, inquietudine, ricerca, pensiero. Il conflitto tra il
bene e il male è la molla che ha elevato l’uomo dal piatto livello della natura,
facendo sorgere in lui lo spirito. Il male nasce quando si vede il bene, si sente il suo
richiamo, e lo si rifiuta, anzi lo si utilizza solo per sé. Il male è spirituale. Il male, per
nascere, suppone la libertà che sente il richiamo del bene e che al bene dice no.
Anche Epicuro si occupa del problema del male e si chiede: se Dio è onnipotente e
buono, unde malum? si stabilisce così che o Dio è buono o è onnipotente: il male è
l’esperienza che divide, nel concetto di Dio, la bontà dall’onnipotenza. Ma la croce
ritrascrive completamente il concetto di potenza, e lo fa sulla base del concetto del
bene. L’incarnazione non è da intendersi come ingresso di Dio nella storia, ma come
ingresso di Dio nell’uomo. Se Dio è nel mondo, non lo è direttamente, ma solo
indirettamente, in quanto legato all’anima umana.
54
2.2.4 L’anima
A questo punto è giunto il momento di affrontare in modo esplicito il concetto
di anima. All’anima e al suo destino, Mancuso dedica uno dei suoi libri più
importanti. Mancuso si chiede:
Perché negli uomini è sorta la necessità di parlare dell’anima? […] A che cosa è
funzionale la divisione che l’uomo ha posto al suo interno, distinguendo dal suo
corpo una dimensione che ha chiamato anima? La risposta sta nella sete di
giustizia e di bene che abita l’uomo e che, in questo mondo, risulta sempre e
necessariamente inappagata. […] L’anima e lo spirito dicono la leggerezza che
ci abita, se la sappiamo scoprire. Noi non sappiamo da dove viene e dove va la
nostra anima. Ma tutto il senso della vita, di questa nostra esistenza che passa,
sta solo nel cercare una risposta al riguardo. Non c’è nulla di più importante35
.
Sulla questione dell’anima, alcuni filosofi scrivono a favore della sua esistenza,
altri invece scrivono per spiegarne la sua inesistenza. Nessuna della due ipotesi riesce
a prevalere sull’altra. C’è da dire che l’uomo si trova nel mondo come una qualunque
altra cosa dell’universo, ma, nello stesso tempo, in modo del tutto diverso rispetto a
ogni altra cosa dell’universo. Ciò che costituisce questa differenza è l’anima. La
posizione dell’anima è la spiegazione meno inadeguata della più grande ricchezza
che contraddistingue l’uomo rispetto a ogni altro ente dell’universo: la libertà.
Il pensiero che parla dell’anima e cerca di fondarne il sapere si muove
nell’orizzonte della libertà. Se c’è la libertà, c’è l’anima. Per questo, se si nega
l’anima, si nega in radice la libertà. L’uomo è l’unico essere vivente che può avere
una vita indipendente dall’animalità. L’esistenza dell’anima spirituale è l’unico
35
V. Mancuso, Rifondazione della fede, op. cit., pp. 218-219.
55
fondamento della vita indipendente dell’uomo, della sua libertà che si decide per il
bene e la giustizia. L’anima e la vita morale, aderendo in modo puro e incondizionato
al bene, conducono alla trascendenza. Senza l’uomo, Dio non esiste nel piano
superficiale dell’essere. Ma vi è un livello superiore, che è la dimensione spirituale,
sul quale invece Dio esiste. A questo livello superiore dell’essere si giunge solo
attraverso la fede umana, generata dall’esperienza del bene. Per questo a Dio si
accede solo soggettivamente. Poi però, una volta compiuto questo ingresso da parte
del singolo soggetto, è l’oggetto che detta le sue leggi.
La categoria di anima esprime il pensiero della specifica differenza dell’uomo
rispetto al mondo, ovvero il pensiero della libertà, perché solo l’uomo può toccare la
libertà. Affermare l’anima significa sostenere che
per quanto legato al corpo, l’uomo è in grado, se lo vuole, di trascendere le sue
necessità e di vincerle. Il segnale dell’avvenuta vittoria sulla necessità naturale
sta nella spiritualità, attestata (…) dall’esperienza etica della gratuità e della
giustizia, la creazione più alta. Se gli uomini hanno coniato il termine anima è
per rendere ragione di questa esperienza primordiale: noi siamo più del mondo,
noi siamo liberi36
.
Mancuso sostiene che tutto ciò che si trova negli uomini proviene dalla natura-
physis, la quale produce un lavoro che non è riducibile alla sola materia, in quanto
può produrre un livello superiore di essere, lo spirito, definibile come la vita
dell’energia a prescindere dalla materia, e quindi in grado di sussistere anche dopo la
dissoluzione della materia del corpo. Non c’è nulla di fermo, nulla di statico, nessuna
sostanza: il segreto dell’essere è il movimento. Nel corpo umano, l’energia che
36
V. Mancuso, L’anima e il suo destino, op. cit., p. 52.
56
scaturisce dal movimento non si racchiude completamente nella configurazione della
materia, ma presenta un surplus. Tale surplus di energia rispetto alla massa della
materia è ciò che rende il corpo vivente, animato. Questo surplus di energia è il
segreto della vita: è l’anima. Senza questa comprensione fondamentale dell’essere
come energia, non si dà ragione della vita, la quale esiste proprio perché non è
riducibile, come lo è invece una pietra, alla materia inanimata. Il movimento interno
all’essere che costituisce la differenza tra la vita e la non vita è stato visto dagli
uomini già molti secoli fa ed espresso mediante il termine anima. Di essa si sono
distinti diversi livelli, di cui i primi due sono l’anima vegetativa e l’anima sensitiva.
Le piante, in quanto esseri viventi, sono per ciò stesso dotate di un’anima, l’anima
vegetativa. Anche gli animali hanno un’anima; tutti gli animali, per il fatto stesso di
essere animati, cioè di muoversi da sé, hanno un’anima, l’anima sensitiva, che
contiene in sé le proprietà dell’anima vegetativa ma le supera.
Nell’immenso mondo della vita il più complesso organismo conosciuto è
l’essere umano. In esso ci sono funzioni vegetative e funzioni sensitive di cui ha
coscienza, come per esempio la fame, la stanchezza, ecc. L’anima sensitiva negli
uomini si chiama carattere, temperamento, psiche. Ma in essi vive anche la luce
dell’intelletto. Gli esseri umani rappresentano il livello superiore dell’essere che
diviene consapevole di essere ordinato e dotato di forma. Tale consapevolezza
acquisita da parte degli uomini viene espressa col termine mente, dentro cui sono
racchiusi altri termini quali intelligenza, intelletto, coscienza, ragione. La mente è più
del cervello; il cervello costituisce la vita biologica, la mente invece quella razionale.
L’anima razionale viene formata e modellata per lo più dalla famiglia d’origine, la
quale, a sua volta, risente della particolare cultura nella quale è inserita, della città e
57
della nazione in cui vive. Tutte queste componenti contribuiscono a formare quel
livello di energia consapevole che viene chiamata appunto anima razionale.
La mente ora vede il manifestarsi in se stessa di una realtà ancora superiore: lo
spirito. Lo spirito è più della mente. Mancuso definisce lo spirito come «l’emozione
dell’intelligenza per la nobiltà della legge morale che si trasferisce in filosofia e
produce la perfetta giustizia dell’imperativo categorico kantiano; lo spirito è
l’emozione dell’intelligenza per il senso di fratellanza e di unità del genere umano
che si trasferisce nella religione e dà la formula universale della regola d’oro»37
.
Questo lavoro, che costituisce la differenza tra comprensione del mondo e creazione
di qualcosa che nel mondo prima non esisteva, viene espresso mediante il termine
spirito, considerato la punta dell’anima. Cuore è il termine che esprime al meglio la
totale dedicazione di sé da parte dell’uomo alla dimensione dello spirito. E il cuore è
l’organo spirituale per eccellenza. Lo spirito agisce nella cultura umana a tutti i
livelli. Parlando di spirito, il riferimento a Dio è quasi obbligatorio. Quando l’uomo
accede alla dimensione dello spirito, tutto il suo essere viene trasformato. La via
dell’interiorità, del lavoro onesto su se stessi mediante l’esposizione alla luce del
bene e della giustizia, è l’unica via per entrare nell’autentica dimensione dell’essere,
per vincere le illusioni del tempo e attingere l’eternità. Quindi si può affermare che
l’anima è ciò che “forma” il corpo, è il principio ordinatore del corpo. Questo corpo è
essenzialmente rapporto, legame, relazione. Mancuso sostiene che
prima c’è la relazione, e poi la sostanza. Ma la relazione vuole e deve diventare
sostanza. Le relazioni hanno prodotto legami, e i legami hanno prodotto
37
V. Mancuso, L’anima e il suo destino, op. cit., p. 64.
58
sostanze. E le sostanze producono altre sostanze sempre più complesse, fino alla
vita umana38
.
2.2.4.1 L’origine dell’anima
La questione che sta maggiormente a cuore a Mancuso è quella concernente
l’origine dell’anima. La Chiesa cattolica sostiene che l’anima spirituale è creata
direttamente da Dio senza alcun concorso dei genitori. Mancuso invece sostiene che
l’anima, anche nella sua dimensione spirituale, viene dal mondo, cioè solo
indirettamente da Dio, e che però conduce, se attuata in tutte le sue potenzialità,
direttamente a Dio.
Diverse sono le teorie che nel corso della storia gli uomini hanno elaborato al
riguardo. C’è chi sostiene, come Leibniz, che c’è stata un’unica creazione divina di
tutte le anime; queste anime poi si congiungono ai corpi secondo un destino che non
è dato sapere. C’è chi invece, come Plotino, soffermandosi sul problema ontologico,
ha pensato l’origine delle anime come emanazione della stessa sostanza divina,
ritenendo che Dio tragga le anime da se stesso, sicché l’anima è un frammento di
Dio. C’è infine chi ha pensato che l’anima venga direttamente da Dio a partire dal
nulla o nell’istante stesso del concepimento. Quest’ultima posizione, detta
creazionismo, è quella assunta dalla Chiesa cattolica. Mancuso non ritiene
razionalmente sostenibile l’interpretazione della nascita dell’anima come diretta
creazione da parte di Dio senza alcun concorso dei genitori. Questa tesi di Mancuso
trova la prima attestazione già nel V secolo. Infatti, all’epoca, papa Anastasio
38
Ivi, p. 73.
59
condannava come eretica l’opinione secondo cui i genitori conferiscono lo spirito
dell’anima vitale. La tesi di Mancuso, sostenuta nel corso della storia da molti
teologi, tra cui Antonio Rosmini, veniva ritenuta la più conforme all’essenza del
cristianesimo e l’unica razionalmente sostenibile. Mancuso sostiene che
non esiste nessuna argomentazione per legare la spiritualità dell’anima al suo
essere creata direttamente da Dio. Certo che l’anima è creata da Dio, ma allo
stesso modo del corpo e di ogni altro oggetto del mondo, cioè indirettamente,
con la mediazione dell’impersonale sapienza ordinatrice che nel suo caso si
estrinseca attraverso i corpi dei genitori39
.
Non c’è nessuna azione divina che prescinda dal mondo e dalle sue regole. Il
senso di questo libro si gioca per la gran parte qui.
Mancuso ritiene razionalmente impossibile sostenere che l’anima sia immortale
perché viene direttamente da Dio, visto che nulla viene direttamente da Dio, ma tutto
viene indirettamente da Dio tramite la mediazione del mondo. Ritiene altresì
razionalmente impossibile sostenere che l’anima sia immortale se non diventa Spirito
santo, cioè divino. Qualcosa può essere immortale solo in quanto è divino, e l’anima
può essere divina. L’anima diviene divina quando cessa di voler diventare qualcosa
di importante, di affermare se stessa, di essere qualcuno. Quando l’anima si fa
povera, è rientrata in se stessa, è divenuta parte consapevole dell’essere di Dio, è
diventata divina, quindi immortale. L’anima diviene divina nella misura in cui si
lascia abitare dal bene, il bene oggettivo come relazione ordinata che è il principio
del mondo. L’anima che si espone al bene diviene sovra-naturale, quindi immortale.
39
V. Mancuso, L’anima e il suo destino, op. cit., p. 88.
60
Mancuso pensa che sia il mondo a produrre lo spirito e che sia la stessa logica
del mondo, se rettamente intesa e praticata, a condurre all’immortalità. È dal mondo
e dalla sua sapienza che provengono sia la spiritualità dell’anima sia la sua
immortalità, senza bisogno di chiamare in causa direttamente Dio.
Coloro che hanno sostenuto che l’anima dei figli viene generata dai genitori si
dividono a loro volta tra chi pensa la generazione dell’anima in termini corporei e chi
in termini spirituali. Mancuso accetta la seconda posizione, nota come
traducianesimo spirituale. Essa afferma che la sostanza spirituale dell’anima deriva
dall’anima e dal corpo dei genitori nello stesso momento della generazione del corpo.
Secondo Mancuso la posizione corretta è quella di chi ritiene che l’anima (dotata
subito di individualità, e potenzialmente di spiritualità e immortalità) viene dal
mondo. In che modo l’anima viene dal mondo? Mediante la generazione umana.
Come sono all’origine del corpo, allo stesso modo i genitori sono all’origine
dell’anima. La nostra dimensione psichica dipende radicalmente da chi ci ha dato la
vita. E che altro è la dimensione psichica se non l’anima al livello di anima sensitiva?
Ma siccome non ci sono diverse anime, ma ce n’è una sola, si deve pensare che è
solo dall’educazione di quest’anima sensitiva che si può sviluppare prima l’anima
razionale, poi l’anima spirituale, orientata sempre e solo al bene, cioè santa. Ed è
solo a quest’ultimo livello che si deve pensare a un intervento diretto di Dio come
azione dello Spirito santo. A seguito dell’incontro con l’Idea del bene l’anima
subisce una mutazione, una conversione, e comincia a poco a poco a diventare un
sistema centrifugo, dove l’amore e non l’egoismo, la verità e non il potere, la
giustizia e non l’interesse, sono la meta.
61
Chi pensa che Dio infonda direttamente l’anima spirituale e immortale al primo
istante del concepimento, pensa l’anima come una sostanza separata. Ma se non
discende direttamente da Dio, non per questo l’anima spirituale non esiste. Esiste, e
se ne può pensare l’origine a partire dal basso, cioè dall’analisi dell’esistenza
naturale nella sua concretezza. Un essere umano, nascendo, ha l’anima vegetativa
come principio di vita. Dopo alcuni giorni si sviluppa in lui l’anima sensitiva.
Quando entra in contatto con la cultura mediante la famiglia, la scuola e la società, si
può parlare di anima razionale. Ma esiste un livello superiore, quello dello spirito. Si
attinge a questo livello entrando nella vita della cultura, partecipandone
interiormente. La cultura ora diviene bisogno intimo dell’anima. Quando l’anima
giunge a questo livello, conosce la vita spirituale, diviene anima spirituale. La
sapienza spirituale è la coscienza acquisita e praticata della vita come equilibrio e
come relazioni buone, durature, infallibili. L’anima diventa spirituale solo a contatto
con lo spirito, vale a dire solo a contatto con la piena umanità, perché è l’uomo lo
strumento dello spirito, anche dello Spirito santo.
Quindi si può affermare che non c’è la discesa dall’alto di qualcosa di diverso
rispetto al corpo, ma c’è la salita dal basso di qualcosa che si scopre diversa (più
ordinata) rispetto al corpo.
62
2.2.4.2 L’immortalità dell’anima
Dopo aver parlato dell’esistenza e dell’origine dell’anima, Mancuso affronta il
tema dell’immortalità dell’anima, considerato da Kant il quarto “paralogismo della
ragion pura”. L’immortalità dell’anima non conosce argomenti conclusivi, né a
favore né contro. È chiaro che sia così, perché in questo caso l’uomo si muove nel
campo del puro pensiero, senza che sia possibile un solo riscontro dell’esperienza
che valga allo stesso modo per tutti. Ma proprio perché si tratta di puro pensiero, la
domanda è allora se sia legittimamente pensabile qualcosa come l’immortalità
dell’anima. Mancuso pensa che si possa capire qualcosa sul destino che attende
l’uomo solo se si riflette attentamente sull’origine. La questione dell’origine (da dove
viene la vita?) è determinante non solo per la questione dell’essenza (che cosa è la
vita?) ma anche per quello dello scopo (a cosa è destinata la vita?). È solo sapendo da
dove viene l’uomo, che è possibile intuire qualcosa circa il suo destino.
Mancuso pensa che la legittimità di affermare una vita oltre la morte sia data
dalle quattro discontinuità che definiscono il cammino compiuto dall’essere-energia
a partire dal momento dell’inizio della sua espansione. Esse sono:
Il passaggio dal minuscolo puntino cosmico all’origine del Big Bang alla
vastità dell’essere;
Il passaggio dalla materia inerte alla vita;
Il passaggio dalla vita naturale all’intelligenza;
Il passaggio dall’intelligenza autoreferenziale alla morale e alla spiritualità.
63
Queste quattro discontinuità mostrano un cammino complessivo dell’essere-
energia dell’universo che va in una direzione contraria al disordine dovuto
all’aumento di entropia, un cammino che procede verso un aumento dell’ordine.
Come mai? – si chiede Mancuso – chi ha compiuto il lavoro necessario per
vincere l’entropia? Secondo l’opinione più diffusa, quella religiosa, è Dio che vince
l’entropia, e a Dio viene assegnato il ruolo di colui che tappa i buchi, tappa le lacune.
Mancuso condivide molte tesi sostenute da Dietrich Bohoeffer (1906-1945), teologo
luterano tedesco, noto soprattutto per la sua necessità di reinterpretare il
cristianesimo e di adattare il messaggio biblico ai problemi del mondo
contemporaneo. Bonhoeffer, contro la tradizionale mentalità religiosa scrive:
Per me è nuovamente evidente che non dobbiamo attribuire a Dio il ruolo di
tappabuchi nei confronti dell’incompletezza delle nostre conoscenze…
Dobbiamo trovare Dio in ciò che conosciamo, non in ciò che non conosciamo.
Dio vuole essere colto da noi non nelle questioni irrisolte, ma in quelle risolte…
Dio non è un tappabuchi40
.
C’è bisogno di guardare al mondo per quello che è, alla sua struttura
stupefacente che la scienza contemporanea aiuta sempre meglio a conoscere, di
poggiare saldamente i piedi sulla madre terra e da lì arrivare a mostrare come sia
proprio la fedeltà alla terra a richiedere di alzare in alto lo sguardo.
Sia la scienza che la filosofia si occupano dell’origine della vita. Ma la
differenza tra scienza e filosofia consiste nella domanda che le muove, che per la
scienza è il come, per la filosofia il perché. Perché c’è l’essere e non il nulla? Perché
c’è l’essere ordinato come vita e non l’essere disordinato come non vita? Questa
40
Dietrich Bonhoeffer, Resistenza e resa. Lettere e scritti del carcere, citato in V. Mancuso, L’anima e
il suo destino, op. cit., p. 112.
64
domanda non può essere evitata da chiunque voglia pensare. Mancuso vede solo tre
possibili risposte:
il caso;
il miracolo;
la necessità intrinseca.
La sua risposta è la terza. Dagli informi gas primordiali doveva scaturire la
vita. Mancuso sostiene che vi è una finalità intrinseca nella natura.
È questo telos intrinseco all’essere del mondo che rende la natura orientata a un
ordine e a un’informazione sempre maggiori. Mancuso predilige il confronto con la
scienza e, su questa base, porta avanti le sue argomentazioni in conformità a quelle
sostenute da molti studiosi contemporanei, come i fisici Paul Davies e Fritjof Capra,
e come il biologo Stuart Kauffman, i quali sostengono che la vita non sia un caso ma
sia iscritta nelle leggi dell’Universo. Quando si prende in considerazione l’Universo,
sembra emergere un ruolo piuttosto marginale dell’uomo. Ma tutto questo avviene se
si pensa secondo una logica quantitativa; se invece si ragiona secondo una logica
qualitativa, il ruolo dell’uomo diventa centrale. Già Pascal aveva notato la forza
preponderante del pensiero che solo l’uomo ha; infatti, secondo Pascal:
L’uomo non è che una canna, la più debole della natura, ma una canna che
pensa… ogni nostra dignità consiste dunque nel pensiero. Su ciò dobbiamo far
leva, non sullo spazio e sulla durata, che non sapremmo colmare. Lavoriamo
dunque per pensare bene: ecco il principio della morale41
.
41
B. Pascal, Pensieri, citato in V. Mancuso, L’anima e il suo destino, op. cit., p. 119.
65
Secondo Mancuso è l’energia a contenere una tendenza intrinseca
all’organizzazione; e sulla base di questa tendenza non è del tutto improbabile
pensare che il più perfetto degli stadi raggiunti dal cammino cosmico, cioè la vita
morale e spirituale, possa produrre un’ulteriore forma di vita dopo la morte del
corpo. Ovviamente non esiste nessuna prova al riguardo, né a favore né contro.
Nell’amore, nel bene, nel bello di cui gli uomini sono capaci c’è una domanda di
eternità che merita di ricevere una risposta. Non è sicuro che la riceva, però Mancuso
pensa che non sia irragionevole ipotizzare che dalla logica ordinatrice alla base del
processo cosmico si possa produrre un ulteriore livello di vita, una quinta
discontinuità, per quegli esseri che hanno vissuto in conformità a essa, che hanno
vissuto secondo la logica profonda dell’ordine e della simmetria che è il principio
base della realtà. Il Logos che è all’inizio di tutto è anche alla fine di tutto. Il Logos,
cioè il Principio Ordinatore del mondo rimanda a un Principio Personale, il Dio
trinitario. Con il cristianesimo, il Logos impersonale immanente al mondo si
manifesta come persona, e si manifesta come tale nella persona di Gesù di Nazaret,
che attua la logica dell’armonia cosmica, la relazione ordinata che ha il suo vertice
nell’amore. Ed è sulla base di queste argomentazioni che Mancuso ritiene che «sia
ragionevole sostenere che la quinta discontinuità all’interno del processo evolutivo
dell’energia cosmica possa condurre a una vita oltre la morte di tipo personale»42
. La
presenza nell’anima di valori che trascendono il tempo, quali la verità, la giustizia,
l’amore, la vita morale, costituisce un appello quasi irresistibile all’esistenza del
mondo divino e della vita futura. Da dove viene il sentimento del dovere morale?
Secondo Kant, il dovere morale non ha nulla a che fare con la natura: tra la natura e
42
V. Mancuso, L’anima e il suo destino, op. cit., p. 134.
66
la morale, vi è una frattura. Mancuso pensa invece che si possa comprendere
l’origine del sentimento del dovere che abita la coscienza umana dicendo che esso è
il sentimento dell’ordine del mondo che si manifesta negli uomini. A chi lo accusa di
essere troppo naturalista, Mancuso risponde dicendo che la sua etica non è
naturalista, però vorrebbe essere naturale, si sforza di essere naturale; naturale nel
senso che vuole far capire che quel movimento di generosità, di gratuità proprio
dell’etica che nella natura non c’è, è tuttavia tale da compiere una tensione che già è
dentro la natura, che è questa tensione verso l’armonia.
Secondo Mancuso, l’anima accede al livello della spiritualità e diviene anima
spirituale se e quando entra in contatto con la dimensione spirituale. E di tutti coloro
che non possono accedere alla dimensione spirituale, che cosa si deve pensare? Che
non hanno un’anima spirituale e quindi non sono destinati all’immortalità? Mancuso
afferma che tutti gli uomini sono dotati di un’anima per il fatto stesso di essere vivi,
ma non in tutti quest’anima è come spirito. Egli riporta il caso di una bambina venuta
al mondo colpita da una forma grave di handicap, al punto che è impossibile
riscontrare in lei una minima forma di coscienza. L’energia che la costituisce è
rimasta bloccata al primo stadio di anima vegetativa. Mancuso afferma che
sarà dovere di chi sostiene che Dio crea direttamente l’anima spirituale al
momento del concepimento spiegare perché in questo caso, mentre le creava
l’anima spirituale, non è intervenuto a sanarle anche il corpo e la psiche. La mia
prospettiva teologica nega l’azione di Dio in quanto diretto creatore di ogni
singola anima umana. Per chi rifiuta l’idea del dolore voluto da Dio o come
castigo o come espiazione, si impone una nuova visione del mondo. È la visione
del mondo che scaturisce dal dolore innocente, cioè che non può nuocere perché
non ha colpa alcuna. Che ne sarà di tutti gli esseri umani che non hanno potuto
67
raggiungere, a causa della cecità della natura-physis, il livello spirituale? Io
pretendo che soprattutto per loro vi sia un futuro di vita personale43
.
Mancuso basa la sua pretesa su due argomenti. Il primo argomento consiste nel
potere creativo del bene anche in ordine alla dimensione spirituale. Ci sono genitori
che prendono la loro anima, la spezzano e ne nutrono i figli. Mancuso pensa che
questo movimento spirituale possa generare lo spirito in chi lo riceve. L’amore degli
uomini ha la capacità di generare lo spirito. Il secondo argomento si basa sull’idea
sottesa all’essere uomo, sul mistero stesso della creazione. Mentre il primo
argomento privilegia il valore della libertà, il secondo sottolinea la grazia. L’idea
cristiana fondamentale esprime la convinzione che ogni uomo, per il fatto stesso di
essere Uomo, è unito al principio dell’essere e della vita. Ne viene che ogni uomo,
per il fatto stesso di essere Uomo, è destinato all’immortalità.
2.2.4.3 La salvezza dell’anima
Le religioni parlano di salvezza. Ma da che cosa l’uomo deve essere salvato?
L’uomo deve essere salvato dal peccato. Ma il Cristianesimo dice qualcosa di nuovo,
di originale: dice che dal peccato l’uomo deve essere redento. La salvezza cristiana si
dà come redenzione, come “riscatto”. La salvezza è la meta, la redenzione è il
mezzo. La salvezza è presente in tutte le religioni, la redenzione no. Solo il
Cristianesimo presenta la salvezza sotto forma di redenzione. Il Cristianesimo mostra 43
Ivi, p. 137.
68
qui il nesso antinomico strutturale che pretende di tenere insieme la prospettiva che
pensa Dio a partire dalla creazione (e che quindi intende la salvezza come opera della
libertà) con la prospettiva che pensa Dio a partire dalla redenzione (e che quindi
intende la salvezza come redenzione gratuita. Occorre chiedersi come giudicare
questa antinomia strutturale al cuore del Cristianesimo. Secondo Mancuso, se il
Cristianesimo è antinomico, lo deve al fatto che ad essere antinomica è proprio la
vita. Ma come riesce il Cristianesimo a tenere insieme le due prospettive
contrapposte di creazione e redenzione? Rispondendo a questa domanda si incontra
quella spettacolare tematizzazione della contraddizione che è il dogma del peccato
originale.
Il dogma del peccato originale è una creazione del tutto cristiana, iniziata da
san Paolo col contrapporre la redenzione di Cristo al peccato di Adamo, il cosiddetto
peccato originale originante, e poi condotta a compimento dalla teologia patristica
col parlare di un peccato originale con cui nasce ogni bambino che viene al mondo
per il fatto stesso di essere un uomo, il cosiddetto peccato originale originato. Tale
peccato li pone in una condizione di inimicizia con Dio e quindi bisognosi, ma al
tempo stesso incapaci, di salvezza. Per conseguire questa salvezza è necessario che
qualcun altro la consegua: è necessaria la redenzione.
Mancuso non accetta il fatto che la Chiesa sostiene ancora la storicità di
Adamo e dell’episodio che lo riguarda. I dati della scienza parlano chiaro: se si
ammette il legame tra Adamo come personaggio storico e peccato originale, si
presuppone l’affermazione del monogenismo, la riconduzione cioè di tutto il genere
umano a un’unica coppia primordiale. I dati della ricerca scientifica sulle origini
dell’uomo conducono verso la teoria opposta, il poligenismo. Un’altra difficoltà
69
riguardante il peccato originale originante concerne la contraddizione tra la
situazione del primo uomo uscito dalle mani di Dio, e quindi ritenuto perfetto, e il
fatto che sia caduto di fronte alla prima tentazione. Per Mancuso, la Chiesa dovrebbe
rivedere completamente la teologia della creazione. Il fatto è che la teologia non sa
fondare in modo legittimo la dottrina della trasmissione del peccato originale per
generazione. Mancuso riflette al riguardo su una prospettiva globale, che va dalla
comparsa dell’uomo sulla Terra ad oggi, e si chiede:
Ma veramente il destino di miliardi di esseri umani dipende dalla colpa di
quello sconosciuto in un lontanissimo passato? Ognuno di noi a causa del primo
Adamo nascerebbe già peccatore senza aver commesso nulla di male; in
compenso, però, sempre senza dover fare nulla di bene e sempre a causa di uno
sconosciuto (il secondo Adamo) verrebbe redento e parteciperebbe
gratuitamente della salvezza. Non è tutto un po’ strano? Quanta differenza tra
questa dottrina e la vita reale, dove senza lavoro non si ottiene nulla, proprio
nulla. […] C’è inoltre la questione della sorte dei morti senza battesimo, cioè
con la macchia del peccato originale nella loro anima e quindi colpevoli agli
occhi di Dio: se si considerano i 160.000 anni di storia della specie umana, e li
si paragona ai 2000 anni trascorsi dalla redenzione di Cristo, ci si trova con una
bella patata bollente nelle mani, quando si tratta di capire che fine hanno fatto
tutti questi figli di Dio vissuti prima della redenzione storica di Cristo e morti
con l’anima macchiata dal peccato originale. Già solo per queste ragioni il
dogma del peccato originale fa acqua da tutte le parti44
.
La questione più scottante, per Mancuso, riguarda l’origine dell’anima umana
che la dogmatica cattolica attribuisce direttamente a Dio, senza alcun concorso dei
genitori, nel momento del concepimento. La domanda è: come può Dio creare
direttamente l’anima spirituale e nello stesso tempo assoggettarla alla corruzione e
44
V. Mancuso, L’anima e il suo destino, op. cit., pp. 164-165.
70
alla concupiscenza? Non può. È evidente. Se l’anima è partecipe della natura divina,
non può essere corrotta; se invece è corrotta, non può essere partecipe della natura
divina, sostiene Mancuso. L’affermazione dell’origine divina dell’anima non deve
portare a escludere il ruolo attivo dei genitori nella sua generazione. Il fatto che
l’anima abbia una natura spirituale non esclude la sua origine materiale. Quanto al
peccato originale, Mancuso sostiene che «la ragione teo-logica imponga una
riformulazione ancora più severa. Dico ragione teo-logica perché è sulla base di Dio
come Logos che si vede che il dogma del peccato originale, così com’è, non tiene»45
.
Mancuso si rende perfettamente conto dell’enorme portata della sua proposta;
non ha intenzione di distruggere la tradizione, bensì intende rifondarla. Egli non si
rivolge
a quei cristiani solidamente installati nella loro fede. Mi rivolgo alla coscienza
laica che ogni uomo, a prescindere da fedi e appartenenze, dovrebbe ospitare
dentro di sé. È a questa coscienza che dico che sarebbe opportuno liberarsi dalla
visione distorta del peccato originale, e smettere di considerare l’uomo, per il
semplice fatto di essere nato, un peccatore. Il peccato originale è un’offesa alla
creazione, un insulto alla vita, uno sfregio all’innocenza e alla bontà della
natura, alla sua origine divina46
.
Per Mancuso il peccato originale non esiste; esiste un altro peccato però, quel
peccato di cui parla il Vangelo di Giovanni, il peccato del mondo. Questo peccato
manifesta la tendenza umana verso ciò che luccica di più, verso la realizzazione del
proprio tornaconto. Ogni uomo che viene al mondo nasce innocente, ma l’energia
45
Ivi, p. 167. 46
Ivi, pp. 167-168.
71
che costituisce l’anima, cioè la libertà, ha bisogno di essere indirizzata, educata,
disciplinata. Ecco, il peccato del mondo esprime questa primitiva negligenza verso il
bene e la giustizia. È proprio da questo che l’anima deve essere salvata, dalla vita
disordinata che può condurre. E a questa salvezza può anelare ogni anima, ogni
uomo, a prescindere dalla propria fede, dal proprio orientamento religioso. Ciò che
salva è il bene, la giustizia interiore; chi si comporta secondo giustizia, chi aspira alla
verità e chi fa il bene senza pretendere qualcosa in cambio, chi fa il bene per il bene,
senza alcuna finalità, è già salvo. Gesù stesso evidenzia molto questo aspetto: «Non
chiunque mi dice: “Signore! Signore!” entrerà nel regno dei cieli, ma chi fa la
volontà del Padre mio che è nei cieli»47
. Non è la fede detta a parole che salva, non
sono i riti e i pellegrinaggi, ma le azioni, il compiere il bene per amore del bene: tutto
ciò si esprime nelle beatitudini, quindi nell’aiutare gli altri, nel servire il prossimo,
nell’aver cura di chi è solo e abbandonato. Ed è così che, a prescindere da qualunque
fede o non fede si possa avere, l’anima umana sarà salva e redenta.
Mancuso pensa la redenzione come legata alla creazione; già la creazione
dell’uomo contiene la possibilità che la sua anima divenga immortale se aderisce
all’ordine fondamentale del mondo che è simmetria e giustizia. La redenzione
avviene per mezzo della croce di Cristo, la quale è simbolo di un amore puro e
incondizionato, di un amore che non conosce confini. La forza della croce e di
conseguenza della morte di Gesù sta nella risurrezione. Mancuso però, davanti alla
questione della risurrezione, non si pronuncia più di tanto, e dice: «Di fronte alla
risurrezione corporea di Gesù la mia teologia tace, (…) non sa nulla. Qui la ragione,
che è l’organo della mia teologia in quanto teologia universale, lascia il posto alla
47
Matteo, 7,21.
72
fede, nel suo significato originario di fiducia». Non c’è nessun ragionamento che
possa argomentare a favore della risurrezione. In questo caso si passa dal piano della
ragione al piano della fede, dal piano del ragionamento al piano della fiducia, del
“credo”, perché, proprio come dice Kierkegaard, «la fede comincia là, appunto dove
la ragione finisce»48
.
Prima di affrontare la questione che ha a che fare con il destino dell’anima, è
opportuno spendere alcune parole sulla morte. La morte fa parte della vita, è
intrinseca alla vita stessa, ma l’uomo non riesce mai ad abituarsi ad essa. Se c’è una
sola certezza in questo mondo, è la morte. Con essa ognuno, prima o poi, dovrà fare i
conti. Ecco perché bisogna accettare la morte così come si accetta la vita. E con la
morte l’uomo viene sottoposto a un giudizio. Il giudizio finale viene esercitato
mediante il primato della ragion pratica, della ragione volta al fare, in quanto
concreta, attiva, interessata. Il primato quindi spetta
a quella dimensione profonda dentro di noi dove pensare ed essere sono la
medesima cosa, quella profondità che coincide con il nostro Io ma che insieme
è più grande del nostro Io. […] L’unica possibilità data all’uomo di uscire dallo
spazio e dal tempo è di scendere nella profondità di se stesso, attingendovi
l’autentica dimensione spirituale. Questa è la sede della vita felice o, per usare
la classica terminologia teologica, della vita beata49
.
Secondo il tribunale interiore, presente in ogni uomo, chi fa il male genera il
male, anzitutto dentro di sé. Viceversa, chi fa il bene genera il bene, anzitutto dentro
48
S. Kierkegaard, Timore e tremore, in Opere, a cura di C. Fabro, Sansoni Editore, Firenze 1972, p.
64. 49
V. Mancuso, L’anima e il suo destino, op. cit., pp. 202-203.
73
di sé. Questa è la sapienza universale, valida per ogni uomo di ogni tempo e di ogni
luogo, di cui Cristo con la sua dottrina dell’amore assoluto e personale costituisce la
più alta rappresentazione. A chi spetta quindi la vita eterna? La vita eterna spetta a
chi la possiede già adesso. L’eterno non è il futuro, ma è il presente, la dimensione
più vera del tempo.
Che cosa succede ad un uomo giusto quando muore? Succede che la vita fisica
giunge al suo termine, quella spirituale continua a “vivere”. Corpo e anima
esprimono, per Mancuso, due diverse configurazioni della medesima realtà. Corpo e
anima sono ontologicamente la medesima realtà perché l’essere è unitario. In
teologia si parla di “risurrezione della carne”. Per Mancuso è insostenibile professare
la risurrezione della carne in senso fisico perché il concetto di eternità implica
l’esclusione dello spazio, e di conseguenza anche del corpo di carne in quanto
oggetto che occupa uno spazio definito. L’eternità esclude sia lo spazio che il tempo.
Ma basta poi pensare a Dio: Dio, che è eterno, non ha alcun corpo; è solo spirito.
Secondo Mancuso, il
dogma cristiano della risurrezione della carne ha un senso sostenibile solo se lo
si intende nel significato speculativo della permanenza della personalità, del
principio personale dell’Io. Il vero valore contenuto nella dottrina della
risurrezione della carne è la conservazione della personalità, il fatto cioè che
l’Io, di cui il corpo è manifestazione unica e irripetibile, non si dissolverà ma
continuerà a vivere come persona. […] Ciò che va superata è la mitologia
“umana troppo umana” della corporeità del Paradiso50
.
50
Ivi, pp. 226-227.
74
L’essere umano però non sempre è buono e giusto e merita di andare in
Paradiso; a volte può giungere a una dimensione che lo accomuna a Satana per il
piacere perverso del male in quanto male. Le anime dei malvagi tradizionalmente
vengono collocate all’Inferno. La Chiesa sostiene l’eternità dell’Inferno; Mancuso
invece sostiene la tesi opposta, tesi tra l’altro sostenuta dalla dottrina della
apocatastasi. Uno dei primi a parlare dell’apocatastasi è Clemente Alessandrino,
teologo e santo del III secolo. Questa teoria viene poi ripresa da Gregorio di Nissa;
nell’epoca contemporanea viene sostenuta anche da teologi come Karl Barth e
Dietrich Bonhoeffer.
Tutto il senso dell’evento di Cristo si spiega per Barth in prospettiva
soteriologica, come dispiegamento della redenzione universale. Cristo è colui che
toglie interamente il peccato del mondo. Bonhoeffer invece sostiene che «non è
concepibile una santificazione dell’uomo, se non gli è consentito di avere la certezza
che Dio trae a sé insieme con lui anche tutti quelli della cui colpa egli è
responsabile»51
.
Tra i teologi cattolici contemporanei che sostengono l’apocatastasi, Mancuso
annovera lo svizzero Hans Urs von Balthasar, secondo il quale l’ultima parola sulla
storia non spetta alla libertà dell’uomo (come suppone la dannazione eterna), ma alla
libertà di Dio che vuole realizzare il suo progetto di vita per tutti. Von Balthasar ha
ragione nel dire che non sono più accettabili le idee elaborate dalla tradizione per
risolvere il problema di come si possa pensare compiuto il piano di Dio al fine di
essere “tutto in tutti”, se c’è la dannazione eterna di alcune sue creature, anzi di
alcuni suoi figli.
51
Dietrich Bonhoeffer, Sanctorum Communio. Una ricerca dogmatica sulla sociologia della Chiesa,
citato in V. Mancuso, L’anima e il suo destino, op. cit., p. 242.
75
Mancuso si chiede se assumere l’eternità dell’Inferno non comporti una
sconfitta di Dio visto che il mestiere di Dio consiste nell’essere il Padre di tutti, la
sorgente dell’essere e della vita degli esseri umani, affinché ciascuno torni a lui nella
forma più alta pensabile che è la libertà compiuta come amore.
Eccoci al vero punto dolente della dottrina teologica della dannazione eterna,
cioè l’immagine ben poco evangelica di Dio, il quale appare come un vendicatore
che gode della vittoria sui suoi nemici e lo vuole fare ogni giorno, ininterrottamente,
cuocendoli a fuoco lento. Chi sostiene la teoria dell’ostinazione eterna dei dannati fa
di Dio il responsabile ultimo della loro cattiva inclinazione. Gesù ha insegnato a
perdonare “settanta volte sette”, cioè sempre. Si deve perdonare per non essere
ulteriormente vittima del male subito. Occorre perdonare anzitutto per il bene di se
stessi, un perdono come oblio, come cessazione del rapporto. Solo in un secondo
tempo, per chi ne sarà capace, potrà sorgere il perdono come attivo sentimento verso
colui che ha procurato del male. La teologia che sottostà alla dannazione eterna non
attribuisce a Dio nemmeno questo primo livello del perdono come buon senso e ne fa
un Dio perfettamente irato.
Razionalmente si può pensare l’Inferno come morte dell’anima: in questo caso
si parla di annichilazione. Con la morte del corpo si assiste anche alla dissoluzione
del principio personale, alla scomparsa definitiva dell’Io. A questa teoria
dell’annichilazione si contrappone quella dell’apocatastasi, la quale evidenzia
l’esplicita volontà salvifica divina di essere universale. Dio salva tutti. Il giudizio
divino è finalizzato alla vita. Dio non può volere la dannazione eterna dei suoi figli.
Mancuso conclude il capitolo sull’Inferno nell’incertezza riguardo all’alternativa tra
apocatastasi e morte dell’anima, ma nella certezza che «bisogna obbedire allo Spirito
76
più che agli uomini, uomini di Chiesa compresi, e ciò che lo Spirito testimonia è la
salvezza universale»52
.
Dopo aver preso in considerazione il destino spettante alle anime buone
(collocate tradizionalmente in Paradiso) e il destino spettante le anime malvagie
(collocate tradizionalmente all’Inferno), adesso non rimanere che parlare del
Purgatorio, il “luogo” dove ognuno finirebbe per collocare se stesso se dovesse
riflettere sul proprio destino dopo la morte. Ogni uomo non crede di essere così
buono e giusto da meritare il Paradiso, ma nello stesso tempo non crede di essere
così malvagio e ingiusto da meritare l’Inferno. Sa di volere il bene che a volte riesce
a compiere e a volte no, a causa di egoismi, fragilità, negligenze… Ecco che allora
sente il bisogno di essere purificato. Mancuso assegna un’importanza fondamentale
alla preghiera di intercessione per i morti. Egli intende la preghiera come
il vertice del lavoro ordinato, il fiore dello spirito, l’eccelso risultato del lavoro
più raffinato dell’anima. […] La preghiera è pensiero, e pregare per un altro
significa regalargli pensiero allo stato puro, la parte più intima che esiste in un
essere umano53
.
Riassumendo sul destino che attende l’anima alla fine dell’esistenza umana,
Mancuso sostiene l’immortalità dell’anima personale, presentando
un’argomentazione cosmologica che svilupperà nel libro Il principio passione: la
natura ha una logica votata non alla morte ma alla vita; il mondo è in continua
evoluzione. È razionalmente legittimo pensare una continuazione della vita come
spirito, senza più il supporto materiale.
52
V. Mancuso, L’anima e il suo destino, op. cit., p. 271. 53
Ivi, p. 283.
77
È chiaro che tutte queste nuove teorie o interpretazioni sostenute da Mancuso
non possono essere accettate da chi basa la sua fede sul principio di autorità.
Mancuso pensa che
l’esercizio della ragione sia l’unica condizione perché il discorso su Dio oggi
possa sussistere legittimamente come discorso sulla verità. Questa è la realtà
ultima che è in gioco quando si parla di Dio: la verità. […] Tutte le cose che la
religione ha prodotto hanno solo un senso: essere al servizio dell’anima e del
suo destino54
.
2.2.5 Filosofia della natura
La realtà del mondo è ricca di complessità e di contraddizioni; questa realtà ha
a che fare con la natura, con il suo sviluppo. Ma prima di intraprendere il discorso
sulla natura e sul suo sviluppo, è necessario parlare del mondo, anzi del principio del
mondo, dell’arché dell’Universo. La filosofia, dal suo sorgere ad oggi, va alla ricerca
del principio che regge il mondo. E negli ultimi 2500 anni, i filosofi hanno espresso
ed esprimono quello che considerano essere il principio, l’arché dell’Universo.
Mancuso si rende conto di come questi principi siano non solo diversi, ma addirittura
contrapposti. Alcuni sono orientati all’ordine, al logos, altri al disordine, al caos. Per
Mancuso, il principio dell’Universo è dato dalla somma di logos e di caos; il risultato
è il pathos. Il principio costitutivo del mondo è quindi il pathos, la passione, nel
duplice senso di sentimento intenso e travolgente e di patimento, di sofferenza. E
54
Ivi, pp. 315-316.
78
parlando di passione non si può non fare riferimento alla passione di Cristo. Nel
processo di
incarnazione-passione-morte-risurrezione di Gesù si deve individuare
l’espressione della forma permanente della relazione tra Dio e il mondo. È
possibile affermare che la modalità con cui tutte le cose provengono dal
principio, sono mantenute all’esistenza dal principio e confluiscono nel
principio, è da pensarsi alla luce della logica manifestata dall’evento di
incarnazione-passione-morte-risurrezione. Si tratta di una logica dialettica, volta
al positivo ma anche attraversata dal negativo e per questo intrinsecamente
drammatica55
.
Mancuso, osservando la vita in tutte le sue sfaccettature, nota come essa sia
sempre combattuta tra logos e caos, tra ordine e disordine. L’azione è ciò che
scaturisce dall’incontro tra logos e caos. L’incontro tra logos e caos produce l’ultima
dimensione della realtà, cioè la passione e il lavoro che essa richiede. Se il caos fosse
la dimensione ultima alla quale consegnare la nostra più preziosa energia,
nessuno sentirebbe l’impulso ad arginarlo, a vincerlo, a domarlo mediante il
logos. L’azione, cioè la lotta del logos contro il caos, ovvero l’armonia e il
bene. Tutta l’impresa umana nella sua più alta significatività è lotta contro il
caos56
.
55
V. Mancuso, Il principio passione, op. cit., pp. 89-90. 56
Ivi, p. 96-97.
79
Mancuso propone due possibili punti di vista attraverso cui guardare il mondo
e la vita degli uomini sulla terra: il punto di vista fisico e il punto di vista morale. Chi
guarda il mondo dal punto di vista fisico vede che non c’è nessun cielo che non sia
anche terra e nessuna terra che non sia anche cielo, perché l’essere è unico e unitario.
Il punto di vista che Mancuso assume nel guardare il mondo gli consente di scorgere
una notevole imperfezione nel mondo, un oceano di sofferenza innocente provocato
dalla natura e dalla storia. Chi invece guarda il mondo dal punto di vista morale, non
vede l’unitarietà dell’essere, che anzi giunge alla rottura. Emergono le imperfezioni,
le ingiustizie, le malvagità. Ecco che sorge così il bisogno di credere a un mondo
diverso, altro. Chi crede in Dio distingue la trascendenza dall’immanenza, la Realtà
primaria (cioè Dio) dalla realtà secondaria detta mondo. Il punto di vista morale, che
ha fame e sete di giustizia, guarda il mondo e non si trova a casa. Da qui il bisogno
insopprimibile di rimandare al di là, di credere a un mondo diverso, a una sorta di
tribunale della vera giustizia. Quindi porre il primato dell’etica conduce
necessariamente alla conclusione che l’essere non è come deve essere, che questo
mondo non è la patria definitiva. Riassumendo, si può dire che chi assume il punto di
vista fisico, considera il mondo come organismo naturale e si cura poco delle
ingiustizie, considerate manifestazioni diverse dell’unico essere. Qui la libertà
aderisce alla necessità dell’essere in quanto natura, non si ribella. Chi assume il
punto di vista morale, considera il mondo come occasione per l’esercizio del bene e
della giustizia e si cura ben poco della logica e della sua necessità. La libertà, in
questo caso, non aderirà mai alla necessità con la sua logica impersonale, si sentirà
inappagata della realtà di questo mondo.
80
Mancuso, dopo aver esposto questi due punti di vista, si chiede:
Ma qual è il punto di vista più idoneo da cui guardare il mondo e la nostra vita?
Quello fisico della necessità, che non può essere né buona né cattiva? Oppure
quello morale della libertà, che può essere buona o cattiva? […] Qual è
insomma il punto di vista da assumere? Quello che cancella ogni punto di vista
antropocentrico e considera le cose senza gerarchie di valori ma ne accetta la
beata necessitas? Oppure quello espresso da quella parte dell’uomo solitamente
designata come coscienza morale e che genera fame e sete di giustizia?57
.
A queste domande Mancuso dichiara apertamente di non saper rispondere, e
dubita che l’alternativa tra punto di vista fisico e punto di vista morale sia davvero
conclusiva.
Considerando i pro e i contro di una parte e dell’altra, Mancuso va alla ricerca
della possibilità di conciliare la logica del mondo fisico con la sapienza del mondo
morale e intravede tale possibilità nella prospettiva evolutiva, la quale considera il
mondo come un processo ininterrotto per nulla lineare, ma complessivamente
orientato verso una crescente organizzazione.
L’uomo avverte da sempre la necessità di accordare la fisicità del mondo con la
dimensione ideale che spinge a mettere in pratica il bene. E quindi si realizza
l’armonia tra la dimensione fisica e la dimensione etica della vita, si produce una
visione del mondo, una “cosmovisione”. Mancuso raggruppa le principali
cosmovisioni secondo tre prospettive tipiche dell’organizzazione della società:
anarchia, monarchia e democrazia. L’anarchia viene paragonata ad una cosmovisione
che privilegia il principio del caos, del disordine. La monarchia invece viene
57
Ivi, p. 106-107.
81
paragonata ad una cosmovisione che privilegia il principio del logos, dell’ordine.
Mancuso predilige la visione democratica che mette insieme il logos e il caos,
l’ordine e il disordine.
Secondo la visione democratica del cosmo, nella natura è all’opera un governo
il cui esercizio è possibile solo attraverso il consenso e sempre mediando tra le spinte
contrapposte di caos e logos. Se non ottiene il consenso, tale governo non può
operare, per cui è costretto a chiedere la fiducia. Dal punto di vista teologico ciò
significa che la creazione divina istituisce un processo che non è pensabile come
esercizio di un dominio assoluto. Il Dio che governa il mondo secondo democrazia
lascia aperta la storia della sua alleanza con gli uomini. Gli uomini si sono sempre
interrogati sul tipo di governo che Dio esercita sul mondo. Mancuso vuole affrontare
la questione dal punto di vista cosmologico, concentrandosi sul rapporto tra l’azione
di Dio e lo sviluppo naturale del mondo, tra creazione ed evoluzione. Egli preferisce
chiarire subito quattro termini: evoluzione, evoluzionismo, creazione e creazionismo.
Di conseguenza egli chiarisce che:
con evoluzione intendo il dato di fatto che ci consegna la scienza, secondo cui le
specie viventi si adeguano e si trasformano al mutare delle condizioni
ambientali; con evoluzionismo intendo l’interpretazione dell’evoluzione
unicamente sulla base del nesso «mutazione casuale + selezione naturale», così
da togliere ogni direzione e ogni senso all’evoluzione, equiparata a mero
cambiamento; con creazione intendo la prospettiva secondo cui tutto proviene
da un unico principio ontologicamente buono, per cui ogni cosa, per il fatto
stesso di essere, è bene, un ottimismo ontologico da cui discende un giudizio di
valore sulla vita come dotata di giustizia, razionalità, bellezza; con
creazionismo intendo o la negazione di ogni forma di evoluzione in base alla
lettera dei testi biblici (…) oppure una sostanziale accettazione dell’evoluzione
82
considerata però come un Progetto Intelligente etero-guidato e in alcuni
momenti sospeso per lasciare spazio a interventi diretti di Dio58
.
Si può notare che i due poli contrari in questo caso non sono creazione ed
evoluzione, bensì creazionismo ed evoluzionismo, cioè da un lato chi sostiene che
tutto proviene da Dio, dall’altro chi sostiene che niente proviene da Dio. A questo
punto risulta evidente che creazione ed evoluzione possono essere composte.
Parlando di evoluzione, non si può non parlare di Charles Darwin e del suo libro
scritto nel 1859 On the Origin of Species. La selezione naturale, sostenuta da
Darwin, opera all’interno della lotta per l’esistenza. L’evoluzione attesta che c’è un
continuo mutare, un continuo divenire. È necessario quindi prendere atto del dato
evolutivo e introdurlo nel modo di pensare e guardare il mondo. Questa prospettiva
evolutiva non viene vista di buon occhio dalla Chiesa, fino a quando nel 1985
Giovanni Paolo II afferma apertamente che:
La fede nella creazione rettamente compresa e la teoria dell’evoluzione
rettamente intesa non si intralciano a vicenda: l’evoluzione infatti presuppone la
creazione; la creazione si pone nella luce dell’evoluzione come un avvenimento
che si estende nel tempo – come una creatio continua – in cui Dio diventa
visibile agli occhi del credente come Creatore del cielo e della terra59
.
Dopo questo discorso, finalmente, la Chiesa cattolica non ha più difficoltà ad
ammettere l’evoluzionismo. In realtà il punto cruciale consiste nel modo di intendere
58
V. Mancuso, Il principio passione, op. cit., pp. 119-120. 59
Giovanni Paolo II, Discorso del 26 aprile 1985, citato in V. Mancuso, Il principio passione, op. cit.,
p. 126.
83
il rapporto tra la volontà divina e le dolorose contingenze di cui è disseminato il
cammino evolutivo, cioè se Dio ha anche a che fare con queste cose oppure no.
Se si prende in considerazione l’aspetto trionfante della natura, non ci sono
problemi nell’intendere la creazione come evoluzione, e quindi la Chiesa non ha
nessun problema ad accettare il dato della scienza. Se invece si prende in
considerazione l’aspetto drammatico e per certi aspetti tragico della natura, attribuire
tutto questo ad un essere buono e giusto non è più così semplice. Quindi, se in
teologia si accetta il dato della scienza concernente l’evoluzione, il punto è se
considerarla cieca oppure vedente. Ovviamente il problema riguarda il modo di
intendere o di interpretare il male. La Chiesa interpreta il male come qualcosa che
Dio permette al fine di ottenere un bene maggiore. Mancuso invece pensa che il caos,
l’assurdo, il non-senso siano presenti nella vita senza che nessuno li abbia permessi;
quindi esclude preliminarmente che il male derivi da Dio. Egli pensa che il caos
originario non sia mai stato sconfitto del tutto perché ritiene che la creazione non si
sia ancora conclusa. Infatti, a tal riguardo, Mancuso parla di creatio continua o di
“processo orientato” verso la meta, senza porre però un itinerario già predefinito. E
questo itinerario non è prefissato a causa della presenza del caos, della casualità,
dell’indeterminazione. Intendendo la creazione come continua si esprime la
consapevolezza che la vita esiste come processo indefinito, ancora in atto, esposto
anche ai fallimenti. Parlando di creazione continua si afferma l’imperfezione iniziale
a causa della quale l’essere non è del tutto sottoposto al rigore del logos, ma ospita
invece l’indeterminazione del caos; indeterminazione necessaria che consente ad
ogni uomo di potersi determinare, indeterminazione che rende l’uomo libero. La
teologia della creazione è «ricerca del principio del mondo. Il che avviene solo a
84
condizione di inserire se stessi nel processo che in ogni momento si fa, e che
costruisce senso solo mediante il consenso della libertà. La teologia della creazione è
passione spirituale»60
.
Porre l’uguaglianza tra evoluzione e creazione, e quindi affermare o negare
questa uguaglianza, è compito della filosofia della natura, la quale deve scoprire se
sia corretto leggere l’interpretazione filosofica della natura come orientata alla
nascita e alla generazione e quindi informata da un logos, oppure come dotata di un
senso intrinseco che è la sua continua espansione a livello quantitativo ma soprattutto
qualitativo in una scala che va dalla vita intesa come bíos alla vita intesa come noûs.
In questa interpretazione filosofica della natura è in gioco il senso non solo della
natura ma anche della vita.
Mancuso va al di là del naturalismo: il fenomeno vita non è riducibile alla sola
dimensione biologica. Per Mancuso, la filosofia è l’attestazione che l’uomo è più del
solo bíos, è anche noûs, vita spirituale. La filosofia della natura non può quindi
prendere in considerazione solo il dato biologico per interpretare la vita. Mancuso
aderisce a quella visione filosofica della natura che gli permette di non sacrificare
nulla della contraddittorietà del dato empirico, ma di tenere insieme le seguenti
affermazioni: «che il mondo conosce una logica e un governo; che il mondo presenta
un carico impressionante di dolori senza perché»61
. Nella natura, Mancuso ritrova sia
la necessità che orienta verso l’intelligenza, sia la contingenza con la sua casualità.
Egli parla di “evoluzionismo duale”: c’è un’unica sostanza, la natura, configurata in
modo duale (natura naturans più natura naturata; informazione + energia) che
evolvendo progressivamente produce stadi diversi: materia inanimata, materia
60
V. Mancuso, Il principio passione, op. cit., p. 139. 61
Ivi, p. 165.
85
animata, materia spirituale, spirito immateriale; la verità è sia nell’immanenza sia
nella trascendenza. Secondo questa legge cosmica fondamentale, nel mondo il caso
c’è, ma c’è anche una logica che guida il mondo. Ciò vuol dire che nella realtà si
produce la seguente formula: logos + caos; il risultato di questa formula è il pathos.
Mancuso ritiene possibile sostenere che la logica orientata all’armonia esemplificata
dalla sapienza etica dell’umanità nella regola d’oro sia la stessa che rende possibile
nell’evoluzione della vita quel processo che dai gas primordiali ha portato alla vita
intelligente. Per poter sostenere quanto appena detto, Mancuso intende riflettere sui
dati forniti dalla scienza inerenti alla materia di cui è composto il mondo. La scienza
afferma che ogni cosa è un’aggregazione di elementi, ma ogni elemento a sua volta è
un’aggregazione di forze. Quindi la logica dell’essere è l’aggregazione. La scienza
parla al riguardo di fermioni e di bosoni; i primi sono particelle-materia, i secondi
sono invece particelle-forza. Parlando di bosoni non si può non parlare del più
famoso di essi, ovvero il bosone di Higgs, scoperto nel 1964 dal fisico britannico
Peter Higgs. Ciò che contraddistingue il bosone di Higgs da tutti gli altri bosoni ha a
che fare con una particolare caratteristica, quella di nascere già con una sua massa
che poi fornisce a tutte le altre particelle. Peculiare è il fatto che, una volta nato, il
bosone di Higgs si dissolve in modo molto rapido trasformandosi in coppie di
particelle normali. Mancuso sostiene:
Se la creazione è continua, un modo efficace per pensarla è andare con la mente
a quel campo di forze costituito dai bosoni di Higgs che dà massa a ogni
particella (comprese quelle che formano in questo momento il nostro
organismo) e che se venisse a mancare porterebbe ogni cosa a disgregarsi
rapidamente62
.
62
Ivi, pp. 176-177.
86
Ciò che contrasta la disgregazione è la forza, la quale è di tipo relazionale. La
logica dell’essere-energia è la forza che instaura relazioni, legami, unioni. Questa
logica viene identificata da Mancuso con il termine lógos. Il logos è ciò che tiene
insieme, che mette insieme, che raccoglie. Il fatto che ogni fenomeno è tenuto
insieme dalla forza spiega anche perché i fenomeni siano instabili, perché tutto
evolve. La vita è un equilibrio poco stabile poiché il caos mira a scomporre l’ordine
che si riesce a fatica a stabilire; ma è solo per mezzo del caos che l’essere-energia
evolve.
Mancuso esclude che la struttura dell’essere-energia sia dualistica, poiché i
fermioni e i bosoni non sono due principi che si oppongono e si escludono a vicenda.
Egli ritiene invece che la struttura dell’essere-energia sia duale, nel senso che i
fermioni e i bosoni hanno bisogno gli uni degli altri per poter consistere. Quindi
l’essere-energia non è altro che energia-materia unita in modo indissolubile a
energia-forza.
Anche l’essere umano è dotato di energia, la quale assume diverse
configurazioni: corpo, psiche, spirito. C’è un tipo di energia che non è fisica, ma
procede dal cervello; questo tipo di energia viene definita spirituale. Religioni e
filosofie designano con il termine spirito questa particolare energia, capace di
educare, di indirizzare l’anima umana verso il bene e la giustizia. Secondo Mancuso
occorre trarre un’importante conseguenza antropologica dal fatto che la vita è
plasmata dalla forza, una conseguenza che conduce a porre il seguente basilare
principio: il principio-passione. Noi siamo passione. Prima e al di là di ogni
87
altra proprietà (intelligenza, volontà, sentimento, grazia, istinto…), noi siamo
passione. E il nostro essere passione può essere sia distruttivo sia costruttivo,
tutto dipende da come siamo in grado di incanalare questa forza-passione che ci
costituisce e che ci domina. Una cosa sola è sicura: se si spegne la passione, si
spegne la vita63
.
La più alta e nobile forma di energia che spinge gli uomini ad amare e a
lavorare per il bene e la giustizia è lo spirito.
2.2.6 La creazione: il ruolo cosmico di Cristo
La dottrina cristiana intende la creazione come creatio ex nihilo. All’inizio non
c’è una materia che preesiste allo stato caotico; all’inizio c’è l’essere come logos e il
nulla. Il Magistero pontificio insiste sul fatto che la creatio ex nihilo sia specifica
della rivelazione biblica; in realtà, le cose non stanno proprio in questi termini. Nei
testi biblici che trattano specificatamente della creazione non c’è alcun riferimento
alla creazione dal nulla; essi invece presentano la creazione come avvenuta a partire
da una materia preesistente informe e caotica, come emerge chiaramente dal libro
della Sapienza, nel quale si dice che Dio «aveva creato il mondo da una materia
senza forma»64
. Nel primo libro della Bibbia, dedicato proprio alla creazione del
63
Ivi, p. 190. 64
Sapienza, 11,17.
88
mondo, non c’è nessuna traccia di creazione dal nulla; in esso si legge: «La terra era
informe e deserta»65
.
I primi Padri della Chiesa sostengono proprio questo modo di intendere la
creazione: Dio plasma e ordina una materia caotica preesistente. La diatriba tra
creazione dal nulla e creazione a partire da materia preesistente viene messa a
tacere nel 1215, durante il concilio ecumenico Lateranense IV, nel quale papa
Innocenzo III definisce la dottrina della creazione come creatio ex nihilo. Questa
decisione viene presa per contrastare il movimento dei càtari, secondo il quale
esistono due principi, il principio del bene e il principio del male. La salvezza si può
ottenere solo liberando l’anima da tutto ciò che è materiale. Quindi, sapendo
l’obiettivo del concilio, si comprende che
l’affermazione della creazione dal nulla non intendeva avere un valore fisico,
come se il concilio avesse voluto stabilire in modo scientifico la modalità
concreta dell’origine del mondo, bensì un valore morale, nel senso che con essa
si desiderava difendere la bontà intrinseca di ogni cosa del mondo, spirituale o
materiale che fosse66
.
Ma sei secoli dopo, nel concilio Vaticano I si afferma il valore non più solo
morale ma anche fisico del dogma della creatio ex nihilo. E si afferma ciò sulla base
dell’unico testo biblico che parla espressamente di creazione dal nulla; in 2Maccabei
infatti c’è scritto:
65
Genesi, 1,2. 66
V. Mancuso, Il principio passione, op. cit., p. 221.
89
Ti scongiuro, figlio, contempla il cielo e la terra, osserva quanto vi è in essi e
sappi che Dio li ha fatti non da cose preesistenti; tale è l’origine del genere
umano67
.
Oltre al testo però, bisogna prestare attenzione al contesto, e il contesto di
2Maccabei 7,28 non ha nulla a che fare con il tema della creazione. Mancuso si
rifiuta di accettare che questa espressione di 2Maccabei 7,28 possa essere
l’indicazione data da Dio all’umanità su come ebbe origine il mondo. Egli critica
apertamente questo dogma perché lo considera funzionale all’affermazione del
potere assoluto di Dio sull’essere del mondo.
Ritornando a parlare del tema della creazione a partire da una materia
preesistente, caotica e senza forma, non si può non fare riferimento alla chora di
Platone. Nel Timeo infatti Platone presenta una cosmogonia (come è nato il mondo) e
una cosmologia (come è fatto il mondo). Platone, per descrivere la nascita del
mondo, si serve di una metafora; il mondo ha un padre e una madre: il padre è il
mondo delle idee mentre la madre è la materia. Quindi, secondo Platone, il padre
fornisce la forma mentre la madre fornisce la materia. La forma del mondo sensibile
deriva così da quella del mondo intellegibile. Platone definisce la madre sia
“concausa” sia “ricettacolo delle forme”, per il fatto che la materia è il luogo in cui
vengono ricevute le forme. In riferimento al luogo, Platone parla proprio di chora,
cioè di spazio. La parola chora dà proprio l’idea dell’estensione pura, senza alcuna
forma; ciò vuol dire che può assumerle tutte. Le idee sono fuori dal tempo e dallo
spazio, ma quando un’idea è compartecipata dal mondo sensibile si cala nello spazio.
Per Platone il mondo è buono, ma imperfetto; causa di questa imperfezione è la 67
2Maccabei 7,28.
90
materia. Quindi la materia è contemporaneamente un aiuto e un ostacolo: un aiuto
perché fa calare le idee nel mondo sensibile ed è un ostacolo perché, per inclinazione
naturale, mantiene una componente di disordine. Ma che cos’è che fa da mediatore
tra il mondo delle idee e il mondo sensibile? Platone, a questo punto, introduce la
figura del Demiurgo, divino artigiano: il Demiurgo è colui che, contemplando le
idee, plasma la materia sul modello delle idee stesse.
A differenza della divinità cristiana che crea il mondo, quella platonica si
limita a plasmarlo e non è onnipotente; ha infatti due limiti: la materia, che non gli
permette di costruire un mondo perfetto, e le idee, che sono il modello a cui deve
attenersi. Il Demiurgo comincia a plasmare nella materia e arriva a generare tutta la
realtà. Riassumendo, si può dire che la causa dell’origine del mondo per Platone è il
bene e la bontà del Demiurgo, che plasma il mondo grazie alla sua benevolenza; il
Demiurgo è buono e da ciò che è buono non può nascere nulla che non sia tale. Il
disordine presente all’origine, viene trasformato dal Demiurgo in ordine. Platone
dice testualmente:
Poiché la divinità voleva che tutte le cose fossero buone, e che nessuna, per
quanto possibile, si rivelasse imperfetta, avendo preso così quanto era visibile,
che non si trovava in quiete, ma in un movimento senza ordine né regola, lo
condusse dal disordine all’ordine, considerando che questo è in tutto migliore di
quello68
.
Ritornando al discorso di Mancuso, la Bibbia afferma due cose differenti e
soprattutto in contrasto tra di loro: Dio ha creato il mondo “non da cose preesistenti”
68
Platone, Timeo, a cura di F. Fronterotta, Bur, Milano 2003, 30 a(1-7), p. 185.
91
(2 Maccabei 7,28) e Dio ha creato il mondo da “una materia senza forma” (Sapienza
11,17). Prima di schierarsi da una parte o dall’altra, occorre chiedersi se gli altri testi
biblici inerenti alla tematica della creazione siano più coerenti con Maccabei o con
Sapienza. Per quanto riguarda Maccabei, c’è solo un testo in tutta la Bibbia che gli
può essere affiancato: nella Lettera ai Romani infatti c’è scritto che Dio «chiama
all’esistenza le cose che ancora non esistono»69
. Però, bisogna notare che non c’è un
esplicito riferimento alla creazione dal nulla. Per quanto riguarda invece Sapienza
11,17, la situazione è differente. Nella Bibbia la creazione viene descritta secondo
quattro modalità: come un operare, un generare, un lottare e un pronunciare una
parola. Mancuso ritiene che, non solo le prime tre tipologie, ma anche la quarta, che
tra l’altro è quella più diffusa, debba essere accostata non alla creazione dal nulla ma
alla creazione a partire da una materia preesistente. Quindi, quale delle due
concezioni bisogna privilegiare? A questa domanda, Mancuso risponde così:
Il credente che ragiona in base al principio di autorità non avrà dubbi e
privilegerà 2Maccabei per essere in linea con la dogmatica della Chiesa. Il
credente che invece non fa del principio di autorità l’ultima istanza della mente
perché non intende rinunciare a pensare, andrà alla ricerca di criteri oggettivi
per determinare la sua decisione. Io mi sforzo di appartenere alla seconda
categoria e in questa prospettiva ritengo che le visioni alternative di 2Maccabei
e Sapienza debbano essere tenute presenti entrambe, andando alla ricerca di una
posizione che superi il modo tradizionale di considerare la creazione dal nulla,
ma evitando al contempo di ricadere nel dualismo originario cui conduce l’idea
di una materia preesistente all’atto creativo. Il testo di 2Maccabei 7,28 presenta
una visione della natura all’insegna del logos, il testo di Sapienza 11,17
presenta una visione della natura all’insegna del caos, e il compito di un
pensiero teologico responsabile consiste nel cercare la sintesi tra queste due
69
Lettera ai Romani, 4,17.
92
visioni opposte, una sintesi che a mio avviso si dà nella considerazione che la
creazione avviene sì dal nulla ma non in modo perfetto, nel senso che l’essere
che scaturisce in seguito all’atto creativo emerge come caotico e bisognoso di
ricevere una continua plasmazione, una condizione dell’essere che comporta il
principio-passione (logos + caos = pathos), sia per il Creatore sia per gli esseri
creati70
.
Per Mancuso, la conciliazione tra ordinamento del caos e creazione dal nulla
può avvenire solo a una condizione, quella che anche il caos sia a sua volta creato da
Dio. Per chiarire meglio questo concetto, Mancuso specifica che non bisogna
intendere ciò nel senso che Dio voglia veramente il caos per se stesso, ma nel senso
che lo stato caotico iniziale è la condizione ontologica necessaria per l’evoluzione
del mondo. Ed è questo il senso della creazione continua, quello di una lotta mai
conclusa ma sempre drammaticamente in atto per porre ordine all’interno del caos.
La creazione continua ordina il caos mediante il lavoro incessante del logos.
Mancuso ritiene che
il caos vada ricondotto alla strutturale imperfezione dell’essere creato, che esce
dalle mani di Dio non come perfettamente compiuto ma come strutturalmente
impastato di logos e di caos, di ordine e di possibilità di infrangere l’ordine,
conditio sine qua non per la nascita della libertà e dello spirito capace di
amore71
.
Ma che relazione c’è tra Dio e il mondo? In Platone, la relazione tra il mondo
delle idee e il mondo sensibile è data dal Demiurgo. Nel Cristianesimo invece, la
70
V. Mancuso, Il principio passione, op. cit., pp. 230-231. 71
Ivi, p. 262.
93
relazione tra la Realtà primaria e la realtà secondaria, cioè la relazione tra Dio e il
mondo è data da Gesù Cristo. Nel processo di incarnazione-passione-morte-
risurrezione si deve individuare l’espressione permanente della relazione tra Dio e il
mondo. La morte di Gesù Cristo non deve essere considerata come una decisione
prestabilita da parte di Dio Padre, bisognoso di quel sangue innocente per redimere il
mondo, ma come una logica inscritta da sempre in tutte le cose, visto che ogni forma
di esistenza partecipa della passione primigenia e inestirpabile della vita. La croce
quindi, secondo questa prospettiva, non deve essere interpretata come il prezzo che il
Figlio di Dio deve pagare per redimere l’uomo dal peccato, ma risponde a qualcosa
di molto più profondo, risponde ad una logica perenne che da sempre contrassegna il
rapporto tra Dio e il mondo.
La fede cristiana si determina come fede nel ruolo cosmogonico del Cristo,
posto accanto al ruolo di creatore assegnato tradizionalmente a Dio Padre.
L’attribuzione della mediazione della creazione al Cristo raggiunge una
specificità tutta propria perché con essa il Nuovo Testamento attribuisce a un uomo
ciò che le altre religioni attribuiscono a un’entità impersonale. Ricondurre la
mediazione della creazione a Cristo permette di affermare che la Realtà primaria è sì
altra, ma non totalmente altra, e che anzi la sua identità ultima è il bene, l’amore, la
giustizia. Ciò consente di sostenere che l’amore, il bene, la giustizia non sono in
contraddizione con l’essere del mondo, ma ne sono il coronamento, perché quando si
serve il bene non si fa altro che potenziare la logica cosmica.
Alla luce di tutto ciò, Mancuso nota che
il limite più grande della dottrina cattolica tradizionale sulla creazione consiste
proprio nel non aver dato adeguata attenzione al ruolo cosmico del Cristo. Nella
94
misura in cui ciò avviene, si entra in quell’ordine di idee che io chiamo
«principio-passione», perché la modalità con cui il Cristo cosmico guida il farsi
del mondo non può non essere la medesima che emerge dalla storia di Gesù di
Nazaret, la quale è interpretata nei Vangeli all’insegna della passione. […] C’è
una necessità del patire divino che non concerne solo il Gesù storico, ma anche
il divino nel suo rapportarsi al mondo, cioè il Cristo nella sua dimensione
cosmica. Dio infatti è in contatto con il mondo solo mediante la mediazione
cristica, il Padre in quanto tale è assente dal processo cosmico, non c’è nessuna
mano dall’alto che guida, provvede, dirige, castiga, interviene. C’è un principio
divino che guida l’evoluzione a partire dal basso, e questo principio è il cristico,
il logos, un logos che crea relazione tra gli elementi portandoli a livelli di
organizzazione sempre più complessi, ma che fa tutto ciò solo attraverso un
lavoro continuo per modellare il caos, il che comporta necessariamente fatica,
dolore, fino all’immolazione (Apocalisse 13,8 parla dell’Agnello «immolato
dalla fondazione del mondo»). È il principio-passione. Dire «Cristo cosmico»
e dire «principio-passione» è la medesima cosa72
.
Questa nuova visione, questo nuovo modo di considerare Cristo porta a
rivedere all’insegna del principio-passione il rapporto tra Dio e il mondo. Ma Dio è
impassibile, imperturbabile, oppure la passione di Gesù Cristo coinvolge Dio per
davvero? Secondo Mancuso, i termini usati dal Nuovo Testamento per connotare
l’essenza (spirito, luce, amore) inducono a pensare che il pathos del mondo non
debba essere estraneo alla sua vita. La specificità, quindi, del messaggio cristiano
sulla creazione consiste nel legare l’origine e il farsi del mondo al Cristo.
Mancuso ritiene che «il radicamento cristologico esige di impostare ex novo la
dottrina della creazione, facendola passare dal principio-potenza che legge il Cristo
72
Ivi, pp. 200-201.
95
come Pantocrator, al principio-passione, che legge il Cristo in modo molto più
conforme all’umile storia reale di Gesù»73
.
La vita di Gesù, con la sua incarnazione-passione-morte-risurrezione,
obbedisce alla logica eterna mediante cui avviene da sempre il rapporto tra Dio e il
mondo. Questa logica è esemplificata dai martiri di tutti i tempi che hanno dato la
loro vita per far trionfare la giustizia nel mondo; tra questi Mancuso ricorda con
molto stima tre siciliani: Giovanni Falcone, Paolo Borsellino e Giuseppe Puglisi, che
non hanno indietreggiato di un millimetro pur sapendo benissimo a che cosa
sarebbero andati incontro. Chi lotta per il bene e per la giustizia incontra
l’opposizione. Il principio del mondo è la passione.
Questa nuova visione della vita è all’insegna della creazione continua, l’unica,
secondo Mancuso, capace di rendere ragione contemporaneamente
dell’insegnamento della scienza contemporanea e del vivo senso del Dio cristiano
che è amore, sacrificio, passione.
73
Ivi, p. 92.
96
CAPITOLO TERZO
Chiesa e bioetica
Il compito dei cristiani non è
emettere sentenze negative.
Piuttosto bisogna assaporare
l’energia vitale e dare un valore
spirituale all’esperienza religiosa.
Vito Mancuso
3.1 Teologia della relazione
Ad una teologia basata solo ed esclusivamente sul principio di autorità,
Mancuso contrappone una “teologia laica”. Una teologia che decide la posizione da
assumere, la verità da stabilire sulla base dell’autorità è difficilmente conciliabile con
la coscienza contemporanea, la quale a sua volta non ragiona più sulla base del
principio d’autorità ma sulla base del metodo sperimentale, ovvero: ipotesi e verifica,
verifica che avviene in relazione al mondo. Essere cristiani infatti significa avere il
mondo, l’altro, il prossimo, come interlocutore privilegiato. E ciò vale anche per la
Chiesa: anch’essa deve avere il mondo e non se stessa come interlocutore
privilegiato. La Chiesa non deve essere funzionale a se stessa, ma deve servire al
97
mondo. Ciò che è costitutivo dell’identità cristiana è “essere per l’altro”. L’identità
cristiana non esiste quindi a prescindere dalla relazione con il mondo. Ma lo stesso
concetto di Dio implica il rapporto con il mondo; il Dio cristiano è per definizione
relativo: relativo al mondo, relativo all’uomo e naturalmente relativo alla coscienza
che man mano lo comprende. La teologia trinitaria insegna che Dio è da sempre
relazione. Dio si dà nella relazione, nell’unione: non può essere compreso né solo in
se stesso né solo nell’uomo.
Il compito della Chiesa dovrebbe essere quello di occuparsi della cura delle
anime e della direzione spirituale. È Gesù stesso che parla del primato non della
dottrina ma della vita vera, pratica, concreta. Non si tratta di fare a meno delle
dottrine, dei dogmi: si tratta invece di rivederli, riattualizzarli, e se è il caso anche
negarli. Non si può fare a meno dei dogmi, con i quali l’uomo deve confrontarsi. Ma
il confronto, secondo Mancuso, non deve condurre a un’obbedienza supina e cieca
bensì a una continua verifica. Affinché ci sia una religione all’altezza dei tempi,
occorre dare alla religione una nuova visione del mondo; e la visione del mondo alla
religione non la si può dare se non in un reale ascolto di ciò che la scienza insegna e
di ciò che la filosofia pensa. Questa è l’unica possibilità affinché il cristianesimo
possa tornare ad interessare alla coscienza contemporanea. Secondo Mancuso, la
qualità di un pensiero teologico dipende in massima parte dalla capacità di cogliere
lo spirito del proprio tempo e di disporre poi le verità dottrinali secondo la gerarchia
che ne consegue. Solo coltivando una reale comunione con il presente, la teologia
rimane “teo-logia” e si fa attuale, in grado di toccare, curare e forse anche un po’
guarire la vita degli uomini.
98
L’innovazione che deriva dalla ricerca è destinata nel cattolicesimo a scontrarsi
inevitabilmente con la staticità e la rigidità della dottrina. Perché il cristianesimo
possa continuare a vivere, è necessario che la teologia lo liberi dalla forma
rigidamente ecclesiastica impostale dalla gerarchia lungo i secoli. Mancuso afferma:
Una teologia all’altezza dei tempi non può più permettersi di configurarsi a
priori come obbedienza incondizionata al Magistero. […] Il teologo si deve
esporre allo splendore della verità con la più radicale onestà intellettuale, senza
piegare mai a priori il proprio pensiero per giustificare decisioni di cui non
riscontra la fondatezza, trasformandosi in un apologeta di palazzo. […] La
teologia deve diventare libera ricerca spirituale. È chiaro che l’assunzione di
questa prospettiva di rigorosa sincerità ha un prezzo inevitabile che si chiama
“eresia”. Ma se eresia significa essere pronti a lottare per la verità fino a
scardinare ciò che alla prova dei fatti appare come una forzatura ideologica
della dogmatica, allora per la sopravvivenza del cristianesimo è necessaria
l’eresia74
.
La perdita dello statuto dinamico della verità è, secondo Mancuso, la causa
principale della crisi che a partire dall’epoca moderna non ha cessato di interessare il
cattolicesimo. La verità deve tornare ad essere pensata come vita. Il criterio di verità
delle affermazioni della fede non deve essere collocato più all’interno della stessa
fede, ma fuori, nella vita. È proprio pensando la vita che la teologia diventa pensiero
di Dio, del Dio vivo qui e ora, e non di quello depositato nella lettera biblica.
Alla luce di questa impostazione che assegna il primato non alla dottrina bensì
alla verità, Mancuso afferma:
74
V. Mancuso, Obbedienza e libertà, op. cit., pp. 173-174.
99
Definisco il mio lavoro “teologia laica”, intendendo una teologia che nasce
dalla fede e vuole servire l’esperienza spirituale della fede, ma che non fa del
Magistero della Chiesa il criterio ultimo e normativo del credere. Il criterio
ultimo e normativo non è la dottrina, è il bene concreto75
.
A proposito del bene, Mancuso cerca di elaborare una sorta di “teologia del
bene comune”, la quale si esplica attraverso l’azione morale. L’azione morale si
costituisce tenendo presenti sempre due pilastri. Questo è un concetto decisivo e
importantissimo per Mancuso. Nel primo pilastro sono contenuti i principi morali,
nel secondo vi è la conoscenza della situazione concreta. L’azione morale non è
nient’altro che il ponte che collega questi due pilastri nel modo migliore possibile,
per creare la migliore armonia, la migliore giustizia, il migliore benessere per la
situazione concreta. Questa è la vera azione concreta che si pratica mediante la
sinderesi, mediante la coscienza personale. Quindi non bisogna mai perdere il
contatto con la terra su cui si cammina; occorre avere sempre occhi aperti, mente
vigile e non bisogna mai applicare schemi prefissati, perché il giudizio morale è
come un ponte tra i principi veri, i comandamenti ad esempio, e la situazione
concreta.
Il destinatario privilegiato della teologia deve dunque diventare la vita concreta
degli uomini; la teologia realizza pienamente se stessa quando riesce a condurre gli
uomini all’unione con Dio, alla santità. Il rapporto Dio-mondo viene mediato da
Cristo.
75
Ivi, p. 175.
100
La proposta teologica di Mancuso è definibile come
teologia della relazione. Si tratta di una teologia cristiana della relazione,
perché in essa il Cristo è il paradigma della perfetta relazionalità, pienamente
verticale (amore per Dio in quanto origine e meta dell’essere) e pienamente
orizzontale (amore per il prossimo e per ogni frammento di essere). Il Cristo è il
simbolo concreto che manifesta come la relazione più alta sia l’amore, nonché
la promessa e la speranza che il compimento della logica relazionale che
informa l’essere-energia sarà l’amore76
.
Mancuso sottolinea molto il concetto di relazione e ad esso assegna il primato.
Parlando della Santissima Trinità, non ci sono prima le tre persone del Padre, del
Figlio e dello Spirito Santo come tre persone autonome che solo in seguito si
relazionano, ma c’è l’unica divinità che, essendo in se stessa relazione, fa sorgere le
persone dal suo movimento relazionale.
Riassumendo, si può dire che il compito dell’etica cristiana consiste nel
condurre gli uomini a vivere la vita nella consapevolezza che Dio è amore e lo è qui
e ora. Le norme sono necessarie ma l’etica inizia quando esse si espongono alla
situazione concreta.
76
V. Mancuso, Obbedienza e libertà, op. cit., p. 184.
101
3.2 Una nuova Chiesa?
Forse all’interno della Chiesa si sta assistendo ad una lenta ma progressiva
apertura verso quelle che sono le nuove esigenze del terzo millennio. Per Mancuso
questo rinnovamento della Chiesa può avvenire seguendo due grandi uomini, Carlo
Maria Martini e Jorge Mario Bergoglio.
3.2.1 Un uomo di Dio: Carlo Maria Martini
Carlo Maria Martini: cardinale per lungo tempo papabile, arcivescovo per più
di vent’anni, biblista, rettore dell’Università Gregoriana e dell’Istituto Biblico,
esperto predicatore di esercizi spirituali, gesuita. Ma, al di sopra di tutti questi titoli,
Martini viene considerato “un uomo di Dio”. In un articolo su Martini, Mancuso
scrive:
Mi sia concesso infine un ricordo personale di colui che è stato il mio padre
spirituale. Se io infatti iniziai a vivere seriamente la fede cristiana, fu
prevalentemente a causa sua: in quanto vescovo della mia diocesi, egli faceva
risplendere nella mia giovane mente di liceale l’ideale cristiano. Ciò che mi
conquistò, fin dai suoi primi discorsi che leggevo o ascoltavo, fu il linguaggio.
Prima ancora delle cose che diceva, ciò che catturava la mia giovane attenzione
era il modo con cui le diceva, del tutto privo di retorica ecclesiastica ma al
contempo così diverso rispetto al linguaggio quotidiano, un modo di parlare che
sapeva far percepire un altro mondo senza essere “dell’altro mondo”.
Le sue parole erano semplici ma severe, comprensibili ma profonde, elementari
ma arcane, e soprattutto riferite sempre alle cose e alle situazioni, mai dette per
102
se stesse, per far colpo sull’uditorio. Io ero poco più di un ragazzo e certamente
allora non avrei saputo dire nulla delle caratteristiche del suo linguaggio, ma ne
percepivo dentro di me l’autenticità esistenziale, avvertivo uno stile diverso, per
nulla ecclesiastico ma non per questo privo di sacralità, anzi tale da farmi
sentire che c’era veramente qualcosa di sacro nell’esistenza concreta degli
uomini che andava servita con rettitudine, intelligenza e amore. E questo Carlo
Maria Martini ha fatto, in fedeltà a Dio e agli uomini, per tutta la sua lunga
vita77
.
Parlando del cardinal Martini, non si può non parlare di ciò che ne costituisce il
tratto distintivo, ovvero il metodo, la lectio divina non solo della Bibbia ma
soprattutto della realtà. Bisogna prendere in considerazione tre fasi: meditatio, oratio,
contemplatio. Prima di esprimersi, è necessario meditare, e infine vi è il momento del
silenzio, della contemplazione.
Oltre a ritenere Martini un critico testuale, si può pensarlo anche come un
critico testuale della vita concreta delle persone. Il suo carisma consiste nel riuscire a
leggere le anime, nel condurle verso il divino. Quando il divino non è funzionale ad
azioni di potere, ma è verso se stesso, è ancora in grado di esercitare un fascino sugli
uomini e le loro libertà. È proprio questo suo essere “uomo di Dio” che lo rende
affascinante ai non credenti. Martini viene definito il “cardinale dell’ascolto” proprio
per l’attenzione, per il suo essere interessato ad ogni situazione concreta e ad ogni
persona. Martini non può essere definito un rivoluzionario; tuttavia
è sbagliato però non far vedere che proprio da un uomo così, che aveva questo
grande amore per la Chiesa, […] una volta giunto alla presa di coscienza della
gravità della situazione ecclesiastica, sia giunta una serie di prese di posizione
77
V. Mancuso, Un uomo di Dio, in “La Repubblica”, 1 Settembre 2012.
103
veramente dissonante rispetto alle visioni tradizionali del Vaticano. Per questo il
fenomeno Martini dà così fastidio78
.
Le parole di Martini risultano insidiose e, in un certo senso, anche esplosive. Si
pensi ad esempio al suo parere favorevole per quanto concerne la fecondazione
artificiale. Martini si esprime contro il modo con cui la Chiesa amministra i
sacramenti, contro una morale sessuale che ha perso la capacità di parlare alle
persone. Anche il tema dell’omosessualità viene affrontato dal cardinale, il quale, pur
riconoscendo che c’è una singolarità del matrimonio fra un uomo e una donna,
tuttavia non giunge a negare diritti civili a unioni tra persone dello stesso sesso. Una
virtù propria del cardinal Martini è la cosiddetta phronesis, che non è da intendere
come prudenza, bensì come discernimento, la virtù dell’intelligenza che tiene conto
dei contesti e soppesa le decisioni. Per Martini la Chiesa è rimasta indietro di
duecento anni.
Non solo le parole, ma anche i gesti di Martini, suscitano all’interno della
Chiesa diverse discordanze, soprattutto per quanto riguarda la sua morte. Si è parlato
di eutanasia, ma non si è trattato di eutanasia, bensì di “cure palliative”. Chi sceglie
queste cure ha la consapevolezza di non poter più essere guarito, ma non per questo
rinuncia ad essere curato. Le cure palliative infatti fanno sì che la fine sia la meno
dolorosa possibile. Martini, a tal riguardo, si è avvalso della facoltà
dell’autodeterminazione. Ciò che emerge dalla sua morte è una lezione molto umana:
Anche una persona come il cardinal Martini (…) aveva paura. Questo vuol dire
che nessuno di noi ne è escluso e occorre avere l’attenzione perché sia data a
78
AA.VV., Ho sognato una Chiesa. L’eredità della vita e del pensiero del cardinal Martini, Aliberti
Editore, Roma 2012, pp. 79-80.
104
ciascuno la possibilità di sconfiggere questa paura, come ha potuto farlo lui,
esercitando la facoltà dell’autodeterminazione, la possibilità cioè di un essere
umano di vivere liberamente anche l’ultima pagina della sua vita che è la morte,
così come ha vissuto liberamente tutte le altre pagine79
.
Alla fine ciò che determina il valore di un essere umano è il metodo. Durante
tutta la sua vita, Martini ha letto il mondo come un testo da interpretare alla luce
delle promesse divine attestate dalla Bibbia e prima ancora scolpite nell’anima di
ogni giusto. Mai, in Martini, il dogma ha prevalso sulla vita reale, mai la lettera ha
ucciso lo spirito, ed è in questa prospettiva che vanno lette le sue illuminate prese di
posizione in campo bioetico. La centralità della coscienza personale è il principio
cardine dell’unica bioetica coerente con la novità evangelica, mai fredda, dura,
severa, ma sempre attenta al bene concreto delle persone concrete. La “lectio divina”
legge il fenomeno concreto alla luce delle esigenze e delle potenzialità divine e tende
a suscitare in esso una risposta pratica, concreta, operosa. La finalità della lettura
divina del reale infatti è sempre pratica, è azione, lavoro, caritas. L’attenzione al
singolo è sempre più importante delle norme generali, ma con la finalità di
sollecitarlo verso il puro e severo ideale della fedeltà al bene e alla giustizia. Tutto
questo si può tradurre nel proporre un modello di fede cristiana funzionale al mondo.
Ecco dunque il metodo-Martini80
: la libertà di pensiero, ancora prima
dell’adesione alla fede. Certo, si tratta di una libertà mai fine a se stessa e sempre
tesa all’onesta ricerca del bene e della giustizia, ma a questa adesione al bene e alla
giustizia si giunge solo mediante il faticoso esercizio della libertà personale. È questo
79
Ivi, p. 88. 80
Cfr. V. Mancuso, L’operazione-anestesia sul cardinal Martini, in “La Repubblica”, 9 Settembre
2012.
105
il metodo che da un lato affascina la coscienza laica di ogni essere pensante e che
invece dall’altro lato inquieta il potere ecclesiastico basato sull’obbedienza acritica
all’autorità.
Molto chiaro, a questo punto, diventa il motto di Martini: «Pro veritate adversa
diligere»81
, per amore della verità amare anche le avversità, le contraddizioni. Amare
la verità non significa amare i dogmi, significa amare la vita, anche con le sue
avversità, anche con le sue contraddizioni.
Alla morte del cardinale, Mancuso ritiene che all’interno della Chiesa non ci
siano persone in grado di ricevere l’eredità di Martini. Ma, dopo pochi mesi dalla
scomparsa del cardinale, ecco che un gesuita, proprio come Martini, viene posto a
capo della Chiesa di Roma, diventandone papa. È ancora presto per capire come sarà
il pontificato di papa Francesco, ma sicuramente è uno dei possibili eredi del cardinal
Martini.
3.2.2 Papa Francesco
Mancuso insiste molto sulla necessità di riformare radicalmente la curia
romana. Egli pone l’unica soluzione nel comprendere che il principio che può dare
direzione, governo e senso è la fede nella logica relazionale, nell’armonia, nella
ricerca del bene, della giustizia, della pace. Non c’è nulla che sta in sé, ogni cosa
scaturisce dalla relazione. Mancuso arriva addirittura a dire che «è solo stando al
81
Cfr. V. Mancuso, Le letture divine del cardinal Martini, in “La Repubblica”, 26 Ottobre 2011.
106
passo con il mondo che si sta al passo con Dio»82
. Quindi il mondo non deve essere
in funzione della Chiesa, ma la Chiesa deve essere in funzione del mondo. Se la
Chiesa non si trasforma in organizzazione e rimane ordine verticistico, continuerà a
risultare sempre meno interessante al mondo contemporaneo.
Una nuova svolta, e forse anche decisiva, si sta avendo con l’elezione al soglio
pontificio di papa Francesco. Mancuso intravede in lui la persona giusta che può far
diventare realtà quel rinnovamento all’interno della Chiesa pensato e voluto da
Giovanni XXIII e dal Vaticano II. Mancuso sottolinea alcuni aspetti importanti legati
a Bergoglio, dicendo che è
il primo papa non europeo, il primo papa latino-americano, il primo papa che ha
scelto di presentarsi al mondo come “vescovo di Roma” e soprattutto il primo
papa che ha scelto di chiamarsi Francesco. Nell’unione di queste quattro
assolute novità, unite alla preghiera che ha da subito caratterizzato la sua prima
apparizione da papa, io intravedo quella speranza di rinnovamento all’insegna
del Vaticano II che Francesco I può realizzare e di cui la Chiesa ha un immenso
bisogno83
.
La scelta di chiamarsi “Francesco” non può passare inosservata; è una scelta
che, proprio come dice Mancuso, porta già nel nome una missione. Il fatto che
Bergoglio abbia scelto di chiamarsi Francesco indica nel modo più esplicito la sua
chiara percezione della gravità della situazione che la Chiesa cattolica sta vivendo e
soprattutto la sua convinzione riguardo alla via per uscirne: la radicalità evangelica,
la povertà, la mitezza, la lontananza dal potere, l’amore per ogni uomo e per gli
animali, la cura per tutto il creato.
82
V. Mancuso, Adesso la Chiesa apra le sue porte, in “La Repubblica”, 9 Marzo 2013. 83
V. Mancuso, Nel nome una missione, in “La Repubblica”, 14 Marzo 2013.
107
Un altro aspetto che non deve essere sottovalutato è quello di presentarsi al
mondo non come papa bensì come vescovo di Roma. Si ritorna al ruolo originario e
primordiale della figura del pontefice che non è un monarca assoluto, ma è il primo
tra persone di pari dignità. Da papa egli
vuole anzitutto essere vescovo di una città e anzi sa che può essere veramente
papa in fedeltà al Vangelo e al Vaticano II solo nella misura in cui non cesserà
mai di essere vescovo, cioè una guida concreta a contatto con i problemi reali
della gente reale. Bergoglio è un gesuita, è mite e insieme austero, amante della
semplicità, della povertà, di una vita all’insegna dell’essenziale, privo di
decorazioni barocche e dal linguaggio semplice e asciutto84
.
La gente avverte questo nuovo clima, questa ventata di innovazione che è
nell’aria. E questo grazie anche all’empatia che circonda la persona del nuovo
Pontefice. A proposito dell’empatia, Mancuso afferma:
L’empatia è molto importante, non solo, com’è ovvio, a livello psicologico, ma
anche a livello teologico. Il termine infatti rimanda alla parola greca pathos, che
significa passione, e che costituisce uno dei concetti centrali del cristianesimo, a
partire dalla passione di Cristo e dall’amore che definisce l’essenza di Dio,
amore che a sua volta è passione e genera passione. Il fatto che papa Francesco
sia circondato da un abbraccio di empatia a livello mondiale non si spiega solo a
livello umano per la sua carica personale e per la spontaneità e la semplicità dei
suoi gesti; si spiega anche a livello teologico e spirituale per il suo essere in
grado di rappresentare la passione di Dio per il mondo. Quindi l’empatia che
circonda il Papa (e che porta a vedere in ogni sua parola qualcosa di nuovo
anche quando di per sé non c’è nessuna novità) è estremamente preziosa, è un
segno dello Spirito si direbbe nel linguaggio teologico. E il Papa non la deve
deludere, deve esserne all’altezza fino in fondo, venendo incontro al bisogno di
84
Ibidem.
108
cambiamento che la gran parte dei cattolici nel mondo avverte riguardo alla
Chiesa85
.
Le priorità che papa Francesco deve affrontare hanno a che fare con la
ristrutturazione della curia, la pedofilia, il dialogo interreligioso, la morale sessuale,
le domande della bioetica, il ruolo delle donne nella chiesa, la questione dei
divorziati risposati e delle persone omosessuali.
Riguardo alle persone omosessuali, sorprende molto l’interrogativo che si pone
papa Francesco: Chi sono io per giudicare? Queste parole mostrano come davvero
nessuno è nella posizione di poter giudicare. Bergoglio si colloca così tra i discepoli
di Gesù volti ad attuare le sue parole: «Non giudicate e non sarete giudicati; non
condannate e non sarete condannati, perdonate e sarete perdonati»86
.
Da tutto questo però deve scaturire una conseguente azione di governo
finalmente all’insegna della novità evangelica. E occorre coerenza: non si può
proclamare a parole il rispetto per le persone omosessuali e la loro pari dignità di
figli di Dio e poi giudicare la loro condizione come condannata dalla legge naturale e
dalla Bibbia; al contrario, se veramente si vuole mostrare in modo concreto il rispetto
di cui si parla nei loro confronti, occorre mettere in atto un’armonia delle relazioni e
non come definizioni di ruoli e di comportamenti.
Allo stesso modo, per quanto concerne la questione dei divorziati risposati, se
davvero si vuole che sia la misericordia ad avere il primato per i divorziati risposati,
occorre attuare una disciplina canonica dei sacramenti che conceda loro di accostarsi
ad essi senza nessuna discriminazione.
85
V. Mancuso, La Chiesa dell’empatia, in “La Repubblica”, 30 Luglio 2013. 86
Luca, 6,37.
109
Per quanto riguarda invece il ruolo della donna all’interno della Chiesa, papa
Francesco afferma che le donne devono avere più spazio all’interno della Chiesa,
anche se la Chiesa non potrà mai concedere loro il sacerdozio. Mancuso, a tal
riguardo scrive:
Se veramente si vuole che la donna abbia maggiore potere all’interno della
Chiesa si deve procedere di conseguenza e, anche senza giungere
all’ordinazione sacerdotale, si deve permettere che le donne diventino cardinali
e ministri con pieni poteri del governo della Chiesa (oggi per accedere al
cardinalato occorre essere diaconi o sacerdoti, e le donne possono accedere al
diaconato, lo testimonia il Nuovo Testamento, basta leggerlo e applicarlo)87
.
Jorge Mario Bergoglio in quanto pontefice regnante può far sì che questa
mentalità non giudicante diventi la prassi corrente della Chiesa in ordine alle persone
omosessuali, ma anche per quanto riguarda la questione dei divorziati risposati e il
ruolo delle donne all’interno della Chiesa.
Una questione molto scottante è quella sollevata dalle cosiddette “donne dei
preti” che scrivono a papa Francesco, le quali vogliono porre ai suoi piedi la loro
sofferenza, affinché qualcosa possa cambiare non solo per loro ma per il bene di tutta
la Chiesa. Queste donne chiedono, in pratica, di rivedere la legge del celibato.
A questa proposta la Chiesa potrebbe rispondere in due modi: un’alternativa
potrebbe essere quella di considerare il fatto dal punto di vista etico, e quindi
considerare moralmente scorretto il comportamento di un prete che intrattiene una
relazione d’amore con una donna, contravvenendo così alla legge del celibato. Si
potrebbe consigliare il pentimento ma soprattutto l’interruzione della relazione
amorosa. In questo modo si prende atto della debolezza umana ma si conferma
87
V. Mancuso, La Chiesa dell’empatia, in “La Repubblica”, 30 Luglio 2013.
110
l’istituzione della legge del celibato. Un’altra alternativa invece potrebbe essere
quella di cominciare a considerare il celibato come non più necessario all’esercizio
del ministero nel momento in cui si sperimenta che l’amore che può legare ad una
persona non ostacola il servizio pastorale offerto dal prete alla comunità.
Vito Mancuso, in un articolo scritto proprio in riferimento a questa lettera,
dice:
Ecco la posta in gioco, il bene della Chiesa. L’attuale legge ecclesiastica che
lega obbligatoriamente il sacerdozio al celibato favorisce il bene della Chiesa?
Guardando ai due millenni del cattolicesimo, ritroviamo che nel primo il
celibato dei preti non era obbligatorio («fino al 1100 c’era chi lo sceglieva e chi
no», così scriveva il cardinale Bergoglio). Mentre lo divenne nel secondo in
base a due motivi: 1) la progressiva valutazione negativa della sessualità, il cui
esercizio era ritenuto indegno per i ministri del sacro; 2) la possibilità per le
gerarchie di controllare meglio uomini privi di famiglia e di conseguenti
complicate questioni ereditarie. Così il prete cattolico del secondo millennio
divenne sempre più simile al monaco88
.
Mancuso però distingue il monaco dal prete; il primo sceglie consapevolmente
di dedicare la sua vita solo a Dio, sceglie di condurre una vita in solitudine, come il
nome stesso già suggerisce; il secondo invece esiste in funzione della comunità, è
colui che guida la comunità in quanto dotato di maggiore saggezza ed esperienza di
vita. Ora Mancuso si chiede se il celibato favorisca oppure ostacoli questa saggezza.
Egli ritiene che in alcuni casi il celibato favorisce questa saggezza, in altri casi no, e
quindi deve essere lasciato alla libera scelta della coscienza, come appunto avveniva
nel primo millennio. Chi è favorevole all’abolizione del celibato, si appella a questa
88
V. Mancuso, Il matrimonio è un diritto anche per i preti, in “La Repubblica”, 19 Maggio 2014.
111
frase della Bibbia: «Non è bene che l’uomo sia solo»89
; chi invece vuole mantenere il
celibato, riporta questa frase nella quale si parla di «uomini che si sono fatti eunuchi
per il regno dei cieli»90
. Mancuso sostiene che sia giunto il momento di fare tesoro
delle esperienze passate e di far sì che quei preti che vivono storie d’amore
clandestine possano viverle alla luce del sole continuando però a servire la Chiesa. In
questo modo si avrebbero molti più sacerdoti; basti pensare infatti a tutti quei preti
che hanno abbandonato l’abito talare per amore di una donna e che potrebbero
benissimo ritornare a servire la Chiesa. Nel momento in cui si riconosce il
sacramento dell’ordine compatibile con quello del matrimonio, si potrebbe concedere
al prete di sposarsi così come si potrebbe concedere ad un uomo sposato di ricevere il
sacramento dell’ordine.
Tutto questo inoltre sarà perfettamente compatibile con quanto espresso nel
Nuovo Testamento:
Se uno aspira all’episcopato, desidera un nobile lavoro. Ma bisogna che il
vescovo sia irreprensibile, non sposato che una sola volta, sobrio, prudente,
dignitoso, ospitale, capace di insegnare, non dedito al vino, non violento ma
benevolo, non litigioso, non attaccato al denaro. Sappia dirigere bene la propria
famiglia e abbia figli sottomessi con ogni dignità, perché se uno non sa dirigere
la propria famiglia, come potrà aver cura della Chiesa di Dio?91
In questo modo non si farebbe del male a nessuno, anzi si promuoverebbe il
bene della Chiesa; e tutto ciò in piena armonia con il messaggio evangelico di Gesù
secondo il quale “la legge è per l’uomo e non l’uomo per la legge”.
89
Genesi, 2,18. 90
Matteo, 19,12. 91
I Timoteo, 3, 1-5.
112
3.3 Tematiche bioetiche
Mancuso, da fedele seguace del suo padre spirituale, il cardinal Martini, molto
si è espresso e si esprime riguardo ad alcuni aspetti bioetici, come la procreazione
medicalmente assistita, l’eutanasia, il testamento biologico, ecc.
3.3.1 Bioetica di inizio vita
Secondo Mancuso, la Chiesa dovrebbe approvare a pieno la fecondazione
assistita; infatti, in un articolo intitolato “La Chiesa e la bioetica: non c’è fede senza
la libertà”, scrive: «Siamo sicuri che la fecondazione assistita (grazie alla quale sono
venuti al mondo fino ad oggi più di 3 milioni di bambini, di cui centomila solo in
Italia) sia contraria al volere di Dio?»92
.
A questa domanda si potrebbe rispondere dicendo che non sempre il fine
giustifica i mezzi; ci sono degli aspetti etici insiti in tale questione che non devono
essere assolutamente trascurati.
Innanzitutto è opportuno fare una distinzione fondamentale, quella tra
fecondazione omologa e fecondazione eterologa. A differenza della fecondazione
omologa, dove la medicina ha il compito di “aiutare” un atto fisico sessuale posto
dalla coppia ad essere fecondo, quella eterologa coinvolge diversi valori (oltre che
diverse persone) che non possono e soprattutto non devono essere sottovalutati o
addirittura ignorati. In primo luogo bisogna dire che non esiste un “diritto al figlio”;
infatti la fecondità si può esprimere in molteplici modi, come ad esempio l’adozione
92
V. Mancuso, La Chiesa e la bioetica: non c’è fede senza libertà, in “La Repubblica”, 9 Marzo 2009.
113
o l’impegno nel sociale. In secondo luogo si perde l’importanza di un altro valore
fondamentale: la coniugalità. Il tradimento non viene tollerato, invece in questo
modo si è disposti ad accettare (magari per assecondare il desiderio di una donna che
vuole a tutti i costi diventare mamma) quello che viene definito “adulterio
biologico”. L’introduzione di un “terzo fantasmatico” nell’esclusivismo relazionale
della coppia, non solo provoca una scissione tra affettività e generazione, ma provoca
anche uno squilibrio psicologico-motivazionale nella coppia, tra il genitore che
trasmette al figlio una parte del proprio patrimonio genetico, e l’altro93
. Forse una
soluzione meno problematica potrebbe essere l’adozione perché, se un figlio non può
essere di entrambi i partners non si comprende perché debba esserlo soltanto di uno.
L’adozione invece mantiene un certo equilibrio all’interno della coppia. In ogni caso,
non si deve perdere di vista un punto fondamentale: le adozioni sono orientate a dare
una famiglia ad un bambino, e non mirano assolutamente a dare un figlio a dei
genitori.
Queste obiezioni di carattere etico e bioetico riguardo alla fecondazione
eterologa devono far riflettere; sono tematiche che hanno direttamente a che fare con
la vita e bisogna prendere in considerazione i pro e i contro di questa tecnica. Qui le
esigenze mediche si scontrano con quelle etiche. Le scoperte della scienza da un lato
destano meraviglia e gratitudine ma dall’altro suscitano preoccupazione per la specie
umana e la sua dignità.
93
Cfr. I. Marino – C. M. Martini, Dialogo sulla vita, in “L’Espresso”, 27 Aprile 2006.
114
3.3.2 Bioetica di fine vita
Tra le varie tematiche bioetiche, quella concernente il fine vita è ampiamente
affrontata da Vito Mancuso, il quale parte dall’assunto che la vita è sacra e va trattata
con rispetto dal concepimento fino alla fine. Dopo aver sfiorato alcune delle
molteplici problematiche che riguardano il concepimento, il termine della vita umana
è un tema che necessita di un notevole approfondimento. Innanzitutto che cos’è la
vita? La vita è bios (vita biologica), è zoé (vita animale), è psyché (vita psichica), è
logos (logica, calcolo, ragione), è nous (vita spirituale). Solitamente, rispettare la vita
di un essere umano vuol dire rispettarne la vita biologica che si esprime nel corpo e
la vita spirituale che si esprime nella libertà. Vi sono però delle situazioni nelle quali
l’armonia tra le diverse forme vitali viene interrotta, come nel caso in cui subentra
una malattia cronica e inguaribile. Di fronte a casi estremi di malattia, c’è chi tenta
ad ogni costo di mantenere l’armonia tra corpo, psiche e spirito, accettando la
sofferenza. C’è chi invece non riesce a mantenere quest’armonia, a causa delle
sofferenze che devastano anche la salute psichica e spirituale, e chiede di morire.
Mancuso, di fronte a quest’ultimo caso, si domanda:
Che cosa significa in questo caso rispettare la loro vita? In che senso qui si deve
applicare l’etica del rispetto della sacralità della vita? E che cosa è più sacro: la
vita biologica oppure la vita spirituale? A mio avviso rispettare la vita di un
essere umano significa in ultima analisi rispettare la sua libera coscienza che si
esprime nella libera autodeterminazione. E se un essere umano ha liberamente
scelto di mettere fine alla sua vita-bios perché per lui o per lei l’esistenza è
diventata una prigione e una tortura, chi veramente vuole il “suo” bene, chi
veramente si dispone con vicinanza solidale alla sua situazione, lo deve
rispettare. Questo sentimento di rispetto, se è veramente tale, deve tradursi in
115
concreta azione politica, nell’impegno a far sì che lo Stato dia a ciascuno la
possibilità di “vivere” la propria morte nel modo più conforme a come ha
vissuto la propria vita, in modo tale che si possa scrivere l’ultima pagina del
libro della propria vita con responsabilità e dignità. Il diritto alla vita è
inalienabile, ma non si può tramutare in un dovere. Nessun essere umano può
essere costretto a continuare a vivere94
.
Le parole di Mancuso si basano fondamentalmente sul principio di autonomia;
ma occorre prendere in considerazione i quattro principi su cui si basa la bioetica:
1. Principio di beneficialità
2. Principio di non maleficenza
3. Principio di autonomia
4. Principio di giustizia
Nel caso in cui un paziente rifiuti qualunque forma di alimentazione mentre i
medici vorrebbero alimentarlo, si ha lo scontro tra due principi, il principio di
autonomia a cui si appella il malato e il principio di beneficialità a cui si appellano i
medici. Questo conflitto tra i principi può essere risolto da un comitato etico, capace
di valutare e soppesare ogni singolo aspetto. Prima di tutto bisogna vedere la lucidità
del paziente che fa una richiesta del genere: molto spesso il dolore insopportabile, la
sofferenza continua, i momenti di sconforto possono far sì che il malato chieda di
mettere fine alla propria vita, anche se in fondo non è questo ciò che veramente
desidera.
Mancuso sottolinea l’importanza del testamento biologico, testamento che
rimanda al rapporto tra l’uomo e la sua natura, tra la volontà umana e la biologia
94
V. Mancuso, Fine vita, perché dico sì alla libertà di scegliere, in “La Repubblica”, 5 Maggio 2013.
116
umana. La Chiesa afferma il primato della libertà di coscienza ma non quello della
libertà di autodeterminazione. Allora Mancuso si chiede:
In che senso la libertà di coscienza sarebbe diversa dalla libertà di
autodeterminazione? Che cosa se ne fa un essere umano di una coscienza libera
a livello teorico, se poi, a livello pratico, non può autodeterminarsi deliberando
su se stesso? Infatti si tratta di se stessi, della propria vita e della propria morte,
non di quella di altri, quando si parla di testamento biologico. […]
L’affermazione del primato della vita come dono non può esercitarsi a scapito
di chi, tale dono, non lo riconosce o non lo vuole più. Se è un dono, dono deve
rimanere, e non, invece, trasformarsi in un giogo95
.
Mancuso afferma tutto questo basandosi sulla libertà che ha a che fare con
l’onnipotenza di Dio. Egli riconduce l’onnipotenza divina al farsi della libertà del
mondo, nel senso che
l’onnipotenza divina dispiega se stessa nel costruire un mondo libero, unica
condizione perché possa nascere lo spirito e da qui il vero amore che è il fine
della creazione. L’onnipotenza divina manifesta se stessa nel portare alla nascita
della libertà, a partire dalla vita primordiale (…) fino al dispiegamento effettivo
nell’uomo della piena libertà, la libertà consapevole di essere tale e che vuole
rimanere tale96
.
Da ciò Mancuso deduce che la decisione sulla propria esistenza non è mai
formalmente contraria alla volontà di Dio. Naturalmente Mancuso parla della
“propria” vita, non di quella degli altri. Sulla propria esistenza si può e si deve
deliberare.
95
V. Mancuso, Obbedienza e libertà, op. cit., pp. 104-105. 96
Ivi, p. 114.
117
Certo, il testamento biologico potrebbe essere una soluzione per “risolvere”
alcune situazioni particolarmente lunghe e complesse, simili al famoso caso di
Eluana Englaro; ma c’è un aspetto molto importante che non deve essere
assolutamente sottovalutato, e riguarda il fatto che si può sempre cambiare idea
all’ultimo minuto e, una decisione presa in un giorno qualsiasi, avulsa da un contesto
quale potrebbe essere il trovarsi personalmente a convivere con una malattia
terminale, potrebbe non rispecchiare più il proprio pensiero.
Ma poi, voler davvero bene ad una persona vuol dire assecondare i suoi
desideri o cercare di fare quello che si ritiene più giusto per quella persona? Se una
persona chiede di morire, chi vuole il suo bene deve rispettare la sua volontà o deve
tentare tutto il possibile, senza giungere al cosiddetto “accanimento terapeutico”?
Secondo Mancuso, chi vuole veramente il “suo” bene deve rispettare la sua
decisione ma, in ambito bioetico, la questione non è proprio così semplice: non ci
sono risposte già preconfezionate e valide per tutti, e la soluzione migliore è quella di
valutare ed esaminare ogni singolo caso. Infatti, la questione essenziale è proprio
questa:
Occorre tener presente che ogni storia, ogni paziente è in una condizione
diversa dalle altre, che cioè non è possibile in questo campo una
standardizzazione degli stati di patologia97
.
Da qui l’importanza di un comitato etico per affrontare situazioni poco
piacevoli, di fronte alle quali non si sa mai con certezza cosa sia “giusto” fare o non
fare. Ma bisogna anche essere sinceri ed avere il coraggio di ammettere che
97
A. Zangrillo, Ri-animazione. Tecnica e sentimento, Editrice San Raffaele, Milano 2010, p. 52.
118
«decidere in questo ambito presenta molti aspetti di personalismo e di arbitrio, e che
siamo poco, troppo poco assistiti da certezze di natura medica, scientifica,
obiettiva»98
. Di fronte a casi così complessi si manifesta «un vuoto dovuto a un
autentico smarrimento, che non consentiva a nessuno di potersi pronunciare dicendo
“sto facendo la cosa giusta”»99
.
C’è da dire però che, di fronte ad una persona con una malattia terminale,
l’obiettivo non è tanto curare quanto prendersi cura. Per prendersi cura e condividere
una così drammatica condizione esistenziale
occorre aver prima riconosciuto che ogni vita umana possiede in sé un valore e
una dignità che non sono alla mercé delle circostanze, che nessuna malattia o
disabilità può scalfire, né sono funzionali a progetti culturali o economici.
Perché è l’essere umano che in questo momento abbiamo di fronte nella sua
concretezza, nella sua unicità e povertà che vogliamo continuare ad amare e di
cui vogliamo prenderci cura100
.
In queste condizioni, dove non c’è spazio per la guarigione, c’è uno spazio
ancora più grande in cui accompagnare, consolare e lenire la sofferenza. Chi si
prende cura di una persona con una malattia terminale è ben consapevole di non
poter guarire, ma è altrettanto consapevole che, senza cadere nell’accanimento o
nell’abbandono terapeutico, con la sua dedizione può dare sollievo e risposta a
inesprimibili bisogni. L’etica del prendersi cura dell’altro non è che «la capacità di
capire quale sia l’atto giusto da compiere in quel momento, in quella condizione»101
.
98
Ivi, p. 54. 99
Ivi, p. 49. 100
G. B. Guizzetti, Terri Schiavo e l’umano nascosto. La medicina tecnologica e lo stato vegetativo,
Società Editrice Fiorentina, Firenze 2006, pp. 15-16. 101
Ivi, p. 72.
119
Un soggetto, ad esempio in stato vegetativo, è a tutti gli effetti un essere umano
la cui dignità e inviolabilità non sono in alcun modo scalfite dalla gravità della sua
condizione e dei suoi deficit. Infatti,
le persone che si trovano in questo stato, pur essendo gravemente ferite nelle
loro più preziose capacità di relazione, conservano la loro dignità umana:
assisterle non è dunque una forma di accanimento terapeutico ma espressione di
solidarietà nei confronti di chi, non essendo capace di provvedere a se stesso e
dipendendo dagli altri, è totalmente affidato alla loro cura e alla loro
responsabilità102
.
Ma c’è una cosa che l’uomo non deve mai dimenticare, ed è il limite della vita
umana; quindi non solo il limite della scienza o del medico, ma anche il limite che
segna la vita di ogni uomo sulla terra.
Bisogna mantenere questa concezione della vita:
La vita è un grande punto interrogativo, imprevedibile e imponderabile, che ci
sfugge da tutte le parti, di cui abbiamo un rispetto sacro, un rispetto sacro
perché rimane inafferrabile e misteriosa103
.
102
AA. VV., Questioni di bioetica, Phronesis Editore, Palermo 2009, p. 61. 103
A. Zangrillo, Ri-animazione. Tecnica e sentimento, op. cit., p. 61.
120
CONCLUSIONE
Cercare di trarre delle conclusioni sul pensiero di un teologo/filosofo ancora in
fervente attività non è certo semplice. Il suo lavoro è sempre in fieri, in continuo
divenire. In riferimento proprio al suo lavoro Mancuso dichiara:
Semplicemente ricerco, penso come sono capace di fare, espongo i risultati
provvisori delle mie ricerche nei libri che scrivo, non cerco applausi né
condanne, cerco di servire la verità come la comprendo e la vivo. Non ho
intenzionalità politica, non mi relaziono alla struttura del potere, cerco di parlare
alla coscienza individuale, la mia innanzitutto e poi quella di chi mi vuole
leggere104
.
Considerando le migliaia di copie vendute dei suoi libri, Mancuso attira
l’attenzione di molte persone, non solo in Italia ma anche all’estero. Quest’attenzione
è dovuta, secondo Mancuso, ad un disagio dell’anima contemporanea che si trova
orfana delle speranze politiche, delle speranze di cambiamenti strutturali per una
società più giusta. Da tutto ciò nasce un disagio che porta l’essere umano a scendere
più in profondità verso se stesso. Sorge in questo modo una domanda di spiritualità
molto forte, soprattutto in Italia, alla quale l’offerta della religione tradizionale per
molti aspetti non riesce ad andare incontro105
. I libri di Mancuso, probabilmente,
riescono ad incrociare questa domanda diffusa, sia per il linguaggio molto curato e
per la chiarezza espositiva, sia per il fatto che Mancuso, nel pensare il messaggio
104
V. Mancuso, Parole in libertà, intervista a cura di Mario De Maio, in “Ore Undici Quaderno”,
Gennaio 2010. 105
Cfr. V. Mancuso, Il mio Dio si chiama libertà. L’etica spiegata da Mancuso, intervista a cura di S.
Ferrari, in “Corriere delle Alpi”, 31 Gennaio 2012.
121
teologico, cerca sempre di trovare collegamenti con la dimensione filosofica e, dove
è possibile, anche con quella scientifica. Mancuso non si limita ad annunciare in
modo categorico la dimensione veritativa del messaggio cristiano, ma confronta
sempre diverse prospettive. Ma che cos’è la spiritualità? La definizione di Mancuso è
la seguente:
È una particolare gestione della libertà. Più specificatamente, la spiritualità è la
dedizione, il legame, la consacrazione della nostra libertà a una dimensione più
grande e più importante di noi, con la quale, tuttavia, ci identifichiamo.
Possiamo dire in questa prospettiva che il movimento esistenziale compiuto da
chi vive l’esistenza secondo una spiritualità è l’uscita da se stesso per realizzare
se stesso, è l’uscita dall’io empirico per entrare nell’autentico sé. […] La
persona spirituale sa di essere libera, e che in quanto tale può agire, può cioè
creare qualcosa che prima non c’era senza limitarsi a ripetere sempre la
medesima struttura. […] La persona spirituale sa anche però che precisamente a
causa della sua libertà può giungere a compiere ingiustizie, a mentire, a non
vedere altro che se stessa. […] Sa quindi che la libertà in cui consiste la sua più
preziosa ricchezza va sorvegliata, disciplinata, ordinata, e che per fare questo
non c’è modo migliore che relazionarla a una dimensione più grande che le
grandi tradizioni spirituali dell’umanità chiamano in vari modi di cui i maggiori
sono “verità, bene, giustizia, Dio, amore, pace”106
.
È proprio la dimensione della libertà che si tocca quando si parla di spiritualità.
Nella libertà però si annida ogni rischio per l’uomo, ma senza di essa l’uomo non
può realizzare se stesso. Ed è sul tema della libertà che si gioca la partita della vita
autentica. In un libro, dedicato proprio all’autenticità della vita, Mancuso scrive:
106
V. Mancuso, Tra libertà e spiritualità, in “La Repubblica”, 22 Settembre 2010.
122
La vita è tanto più umana quanto più è libera, cioè quanto più genera e
incrementa la libertà. Ne viene che riflettere sull’autenticità significa mettere a
tema il buon uso della libertà per far sì che risulti buona e non cattiva, giusta e
non ingiusta, e conduca sul sentiero della vita autentica e non su quello della
vita inautentica. Il problema dell’essere uomini è tutto qui, consiste
nell’esercizio autentico della libertà107
.
Ma cosa vuol dire autentico? L’uomo autentico, in primo luogo, è l’uomo
fedele a se stesso; in secondo luogo, è colui che ha trovato qualcosa di più grande di
sé per cui vivere. Vivere per qualcosa di più grande di sé come il bene e la giustizia,
cioè vivere l’esistenza all’insegna della più pura prospettiva etica, conduce l’uomo a
credere al fatto che qualcosa di più grande di sé esiste veramente, e questo qualcosa è
ciò che tutti i popoli di tutti i tempi hanno chiamato divino. La dimensione etica è il
fondamento autentico del pensiero del divino nella coscienza umana. Mancuso
ritiene che non sia necessario credere in Dio per condurre una vita all’insegna
dell’autenticità; ritiene però che «non sia possibile una vita pienamente autentica
senza credere nel bene e nella giustizia. […] L’uomo autentico è l’uomo che vive per
la giustizia, il bene, la verità»108
.
La tesi di Mancuso è che la relazione con il mondo sia costitutiva, originale,
essenziale per ogni uomo, il quale esiste in quanto frutto delle sue relazioni. Il modo
migliore di realizzare se stessi è stabilire rapporti autentici e giusti con gli altri.
Mancuso, a tal riguardo, afferma:
Che l’essenza del mio essere uomo (la libertà) si compia nella relazione
ordinata (il bene e la giustizia) è il punto archimedeo della mia vita. Facendo
107
V. Mancuso, La vita autentica, Raffaello Cortina Editore, Milano 2009, p. 53. 108
Ivi, pp. 135-137.
123
leva su questo punto d’appoggio sollevo me stesso, posso prendere in mano la
mia vita, so cosa sono, individuo la roccia su cui costruire la mia casa109
.
Un vero uomo è tale per il modo in cui interpreta l’essenza specifica della
natura umana, cioè la libertà. La vita è tanto più umana quanto più è libera, cioè
quanto più genera e incrementa la libertà. Il senso di una vita autentica sta nel buon
esercizio della libertà per far sì che risulti conforme alla giustizia.
Hans Jonas dà una definizione della libertà incentrata sui limiti e sui doveri
dell’uomo:
Primo compito di ogni libertà, anzi condizione del suo sussistere, è di porsi dei
limiti. Infatti solo così la società è possibile, senza la quale l’uomo non può
esistere e neppure il suo dominio sulla natura. […] Noi siamo divenuti in ciò più
liberi attraverso il nostro potere e proprio questa libertà porta con sé i suoi
doveri110
.
L’uomo ha lottato tanto per ottenere la libertà ma, una volta ottenuta, il
compito dell’uomo consiste nel disciplinarla, nell’educarla. Non bisogna mai
dimenticare che “la propria libertà finisce dove inizia quella degli altri”; quindi la
libertà non consiste nell’essere pienamente liberi, nel fare quello che si vuole: la
libertà ha dei limiti, e il dovere di ogni uomo consiste nell’agire nel pieno rispetto
della libertà altrui. Il senso del dovere è connaturato nell’essenza di ogni essere
umano pensante. Infatti, secondo Mancuso,
109
Ivi, p. 169. 110
H. Jonas, Tecnica, medicina ed etica. Prassi del principio responsabilità, Einaudi Editore, Torino
1997, pp. 244-245.
124
la condizione ontologica del nostro essere-relazione ci porta a generare l’etica,
riassunta al meglio nella regola d’oro. L’etica diviene sempre più matura man
mano che estende la condizione ontologica dell’uomo come cura al di là degli
ambiti dove è logico aspettarsela (famiglia, clan, corporazione), arrivando a
sentire il dovere di essere giusti anche verso gli estranei. L’etica compie se
stessa oltrepassando lo stretto interesse verso il più ampio inter-esse111
.
Occorre fare il bene per se stesso, ma proprio nel fare il bene per se stesso si
viene rimandati ad una logica che va al di là dell’interesse personale e che raggiunge
un inter-esse, una relazionalità che aspira a una dimensione universale, cosmica,
divina.
Mancuso ritiene che la vita biologica e la vita sociale non bastino a definire un
essere umano, che esso sia anche un’altra cosa, e che questa cosa che lo distingue da
ogni altro ente conosciuto sia la libertà. Egli si chiede:
Che cosa intendiamo dicendo «libertà»? Dicendo «libertà» diciamo: «essere >
materia». Siamo materia, ma da questa materia nascono livelli superiori
dell’essere. […] Definisco emergentismo la prospettiva conoscitiva secondo la
quale tanto più si capisce un fenomeno quanto più lo si coglie nella peculiarità
che lo distingue da tutti gli altri fenomeni, quanto più si comprende ciò che di
singolare quel fenomeno esprime, secondo una prospettiva che privilegia la
sintesi e la visione d’insieme112
.
La prospettiva sostenuta da Mancuso, quella dell’emergentismo, si contrappone
alla prospettiva del riduzionismo, secondo la quale tanto più si capisce un fenomeno
quanto più lo si riduce ai minimi termini. Mancuso invece prende in considerazione
111
V. Mancuso, Io e Dio. Una guida dei perplessi, op. cit., pp. 401-402. 112
C. Augias – V. Mancuso, Disputa su Dio e dintorni, op. cit., pp. 137-138.
125
la materia, ma sa bene come l’uomo non sia solo materia; infatti dalla materia
nascono livelli superiori dell’essere. L’emergentismo è un pensiero che si nutre della
convinzione di una progressiva evoluzione dell’essere, la quale però avviene
mediante negazioni, contraddizioni ed antinomie. Per evoluzione non si intende solo
il processo che riguarda la filogenesi, cioè l’origine della specie, ma anche quello che
riguarda l’ontogenesi, cioè la formazione del singolo individuo in tutte le sue
dimensioni. Mancuso ritiene che
il frutto più bello di tale logica evolutiva dentro l’essere umano è la comparsa
della libertà e della dimensione etico-spirituale. L’emergentismo crede che la
realtà così come si presenta sia vera. Per abbracciare la verità di un fenomeno
occorre coglierlo nella sua interezza, integralità, unitarietà113
.
Il banco di prova di verità delle affermazioni non sono le pagine scritte ma è la
vita concreta con tutte le sue contraddizioni. All’interno di questa contraddizione che
è la vita, Mancuso crede nel bene e consacra la sua vita a pensare e a cercare di
fondare questa realtà. L’obiettivo che Mancuso si propone nei suoi scritti consiste nel
rafforzare negli esseri umani l’amore per il bene e per la giustizia.
La riflessione di Mancuso si può sintetizzare in un’unica formula: ottimismo
drammatico. Tutto il suo pensiero si può esprimere in questa formula, la quale indica
una visione di fiducia (ottimismo) verso l’uomo, la vita, l’esistenza, ma nello stesso
tempo non si può non notare come la vita sia segnata dal dolore, dalla sofferenza, dal
male (drammatico). Ma il dramma del mondo non deve demoralizzare l’uomo, il
quale, proprio a partire da questo dramma, deve cercare di far trionfare il bene e la
113
C. Augias – V. Mancuso, Disputa su Dio e dintorni, op. cit., p. 113.
126
giustizia nel mondo. Tutto questo costa lavoro, fatica, ma il lavoro e la fatica fanno
parte di questa vita, fanno parte della logica che regge l’universo. L’amore umano
porta a compimento la logica del mondo. L’amore è la risultanza della logica
cosmica tesa all’armonia relazionale, il che avviene mediante il processo per nulla
lineare che scaturisce dall’interazione di logos e di caos e che, in chi lo vive, produce
pathos-passione.
In conclusione, per rendere ulteriormente più esplicito il fulcro del pensiero di
Mancuso, è opportuno riportare le parole che esprimono il suo “credo”:
Credo in un Dio che prende così sul serio l’alleanza col mondo da essere
coinvolto nel processo vitale mediante cui il mondo si fa, un Dio che si pone al
servizio del mondo per farne scaturire mediante un ininterrotto processo il
«regno di Dio». Credo in un Dio che, proprio come Gesù quella sera depose le
sue vesti e prese a lavare i piedi ai discepoli, al momento della creazione depose
la sua assolutezza e istituì quale assoluto non più se stesso, ma se stesso in
comunione con il mondo, cioè il regno di Dio. Il regno è «Dio + mondo» ed è
questo, cristianamente parlando, il vero assoluto, cioè la relazionalità totale
dell’amore. In seguito all’incarnazione Dio diviene un pezzo di mondo, e quindi
l’assoluto non è più Dio in sé, ma Dio insieme al mondo, Dio «tutto in tutti»
(1Corinzi 15,28). Credo altresì in un Dio che legandosi al mondo rimane al
contempo sempre al di là del mondo, e che, con questo suo essere al di là, opera
come una specie di attrattore cosmico verso cui il mondo si orienta e
orientandosi produce evoluzione, e verso cui la mente umana si orienta e
orientandosi produce bene e giustizia, andando a sanare laddove è possibile le
ingiustizie che scaturiscono dal processo naturale. Credere in Dio significa per
me in questa prospettiva attribuire la parola definitiva dell’essere al senso di
giustizia e di bene che trova la più alta realizzazione in quella speciale
consacrazione dell’energia libera che chiamiamo amore114
.
114
V. Mancuso, Il principio passione, op. cit., pp. 425-426.
127
L’obiettivo che Mancuso si propone consiste nel promuovere pubblicamente la
libera ricerca spirituale all’insegna di una teologia che non risponda al principio di
autorità ma a quello ben diverso di autenticità. Le due condizioni fondamentali sono
la libertà e l’amore per la verità. L’ultima istanza che muove il suo pensare non è la
Chiesa con la sua dottrina bensì la verità della vita.
L’origine della fede non è la ragione, ma il sentimento della vita che a volte
genera meraviglia, entusiasmo, a volte genera terrore, disperazione, ma sempre e
comunque pathos. E il pathos è ciò che muove il mondo e ne rinnova la fiducia nella
vita e nell’amore.
128
BIBLIOGRAFIA
Opere di Vito Mancuso
V. Mancuso, Hegel teologo. E l’imperdonabile assenza del «Principe di questo
mondo», Edizioni Piemme, Asti 1996.
V. Mancuso, L’anima e il suo destino, Raffaello Cortina Editore, Milano 2007.
V. Mancuso, Il dolore innocente. L’handicap, la natura e Dio, Oscar Mondadori,
Milano 2008.
V. Mancuso, Rifondazione della fede, Oscar Mondadori, Milano 2008.
V. Mancuso, La Chiesa e la bioetica:non c’è fede senza libertà, in “La Repubblica”,
9 Marzo 2009.
V. Mancuso, La vita autentica, Raffaello Cortina Editore, Milano 2009.
C. Augias – V. Mancuso, Disputa su Dio e dintorni, Oscar Mondadori, Milano 2010.
V. Mancuso, Parole in libertà, intervista a cura di Mario De Maio, in “Ore Undici
Quaderno”, Gennaio 2010.
V. Mancuso, Rifondare la fede a partire dal basso, intervista al “Corriere del
Ticino”, 19 Aprile 2010.
V. Mancuso, Tra libertà e spiritualità, in “La Repubblica”, 22 Settembre 2010.
V. Mancuso, Io e Dio. Una guida dei perplessi, Garzanti Editore, Milano 2011.
129
V. Mancuso, Le letture divine del cardinal Martini, in “La Repubblica”, 26 Ottobre
2011.
V. Mancuso, Obbedienza e libertà. Critica e rinnovamento della coscienza cristiana,
Fazi Editore, Roma 2012.
V. Mancuso, Libri e libertà, in “La Repubblica”, 27 Gennaio 2012.
V. Mancuso, Il mio Dio si chiama libertà. L’etica spiegata da Mancuso, intervista a
cura di S. Ferrari, in “Corriere delle Alpi”, 31 Gennaio 2012.
V. Mancuso, La scienza e la sapienza, in “La Repubblica”, 5 Luglio 2012.
V. Mancuso, Un uomo di Dio, in “La Repubblica”, 1 Settembre 2012.
V. Mancuso, L’operazione-anestesia sul cardinal Martini, in “La Repubblica”, 9
Settembre 2012.
V. Mancuso, Adesso la Chiesa apra le sue porte, in “La Repubblica”, 9 Marzo 2013.
V. Mancuso, Nel nome una missione, in “La Repubblica”, 14 Marzo 2013.
V. Mancuso, Fine vita, perché dico sì alla libertà di scegliere, in “La Repubblica”, 5
Maggio 2013.
V. Mancuso, La Chiesa dell’empatia, in “La Repubblica”, 30 Luglio 2013.
V. Mancuso, Il principio passione, Garzanti Editore, Milano 2013.
V. Mancuso, Il matrimonio è un diritto anche per i preti, in “La Repubblica”, 19
Maggio 2014.
130
Altri testi
AA. VV., Questioni di bioetica, Phronesis Editore, Palermo 2009.
AA.VV., Ho sognato una Chiesa. L’eredità della vita e del pensiero del cardinal
Martini, Aliberti Editore, Roma 2012.
Conferenza Episcopale Italiana, La Sacra Bibbia, Edizione ufficiale della C.E.I.-
U.E.C.I., Roma 1991.
G. B. Guizzetti, Terri Schiavo e l’umano nascosto. La medicina tecnologica e lo
stato vegetativo, Società Editrice Fiorentina, Firenze 2006.
H. Jonas, Tecnica, medicina ed etica. Prassi del principio responsabilità, Einaudi
Editore, Torino 1997.
S. Kierkegaard, Timore e tremore, in Opere, a cura di C. Fabro, Sansoni Editore,
Firenze 1972.
I. Marino – C. M. Martini, Dialogo sulla vita, in “L’Espresso”, 27 Aprile 2006.
Platone, Timeo, a cura di F. Fronterotta, Bur, Milano 2003.
A. Zangrillo, Ri-animazione. Tecnica e sentimento, Editrice San Raffaele, Milano
2010.
131
APPENDICE
INTERVISTA A VITO MANCUSO
Viene qui riportata la trascrizione dell’intervista concessami da
Vito Mancuso in occasione della presentazione del suo libro Il principio
passione a Palermo, il 21 ottobre 2013.
DOMANDA: La prima domanda che le vorrei fare riguarda il motivo che la porta a
scrivere i suoi libri. Possiamo affermare che si tratta di un’inquietudine
dell’intelligenza, un’inquietudine che scaturisce dal disagio della fede ?
RISPOSTA: Il primo motivo che mi porta a scrivere riguarda proprio questo disagio
dell’intelligenza dinanzi alla fede. Il secondo è la meraviglia di fronte al bene di cui è
capace l’anima umana. È proprio lo scontro di queste due correnti, una di aria molto
fredda e l’altra di aria molto calda, che determinano diciamo quella tempesta
interiore che mi porta a scrivere. Del resto questo avveniva già nel passato; da un lato
si ha la filosofia che nasce come meraviglia (Platone e Aristotele), e dall’altro si ha la
filosofia che nasce come dolore, come scissione (Hegel). Quindi sottolineo queste
due cose insieme, ed è importante tenerle insieme e costituire dentro di sé
quest’antinomia tra un’inquietudine di fondo, un disagio dell’intelligenza e
un’armonia di fondo, un innamoramento nei confronti della vita e del bene che la vita
può e sa ospitare.
132
DOMANDA: Nel libro “Rifondazione della fede” (p. 38) lei sostiene che “sul male
gli uomini si trovano d’accordo, sul bene no”. Quindi possiamo affermare che in un
certo senso il bene inquieta?
RISPOSTA: Il male oggi ha l’apparenza di essere più forte. Io in quel passo di
“Rifondazione della fede” dicevo che gli uomini, come ogni ente fisico all’interno di
questo mondo, sono sedotti dalla forza. Noi siamo necessariamente attratti dalla
forza, la forza è ciò che plasma l’energia di cui noi consistiamo. E il grande inganno,
in un certo senso, del nostro tempo è quello di ritenere che il male sia più forte del
bene. E quindi in questo senso il male si impone da sé e gli uomini sono più attratti
da questo. Il bene sembra debole, il bene sembra buonismo, il bene sembra
dolciastro. Quello che occorre fare per sanare questa situazione poco virtuosa è far
capire come invece il bene sia più forte del male perché il bene dà solidità, il bene fa
consistere il fenomeno, fa consistere il sistema. Lo si capisce a livello politico: i
sistemi dittatoriali appaiono più forti delle democrazie, ma in realtà sono più fragili;
le democrazie sembrano più deboli dei sistemi dittatoriali ma in realtà sono più forti;
l’hanno dimostrato nel Novecento perché hanno saputo sconfiggere tanto le dittature
di destra quanto quelle di sinistra. Questa cosa vale anche per le famiglie, vale anche
per gli esseri umani. La famiglia che si regge su un’autorità autoritaria è più debole
di una famiglia “democratica” dove l’autorità viene discussa e diventa autorevole. Si
tratta di far capire proprio questo.
DOMANDA: Ne “La vita autentica” lei cerca di mettere in collegamento natura ed
etica. Ma non c’è troppo naturalismo in questo collegamento?
133
RISPOSTA: Troppo naturalismo: chi lo sa se è troppo? Per me è la via suprema,
indispensabile; cioè si tratta di far capire che quel movimento, che è l’armonia, la
relazione armoniosa, perché il bene si definisce così, non è contro la natura, ma
compie la natura. Io non sto dicendo che l’etica quale appare sorgivamente
nell’azione umana sia del tutto riconducibile alla natura, sto dicendo che però è ciò
che compie un movimento che già nella natura c’è. Non sto dicendo: l’etica non è
nient’altro che quello che appare nella natura, perché nella natura la gratuità
dell’etica non c’è. Quindi in questo senso la mia etica non è naturalista, però
vorrebbe essere naturale, si sforza di essere naturale; naturale nel senso che vuole far
capire che quel movimento di generosità che nella natura non c’è, è tuttavia tale da
compiere una tensione che già è dentro la natura, che è questa tensione verso
l’armonia.
DOMANDA: «Rifondare la fede a partire dal basso»: ma per “rifondare” è
necessario un fondamento, un principio. E dove sta questo principio se si parte dal
basso? Inoltre, per un teologo, parlare del principio vuol dire parlare di Dio. Che cosa
vuol dire credere in Dio?
RISPOSTA: Il principio della fede sta nell’esperienza, nell’esperienza che esiste
dentro di noi. Ieri sera l’ultima domanda che mi ha fatto Fabio Fazio a “Che tempo
che fa?” è stata quella: che cosa vuol dire credere in Dio? E io lì ho dovuto esibire il
fondamento della fede, e non ho fatto riferimento a un fondamento esteriore, credere
in Dio vuol dire credere in una storia, credere in Dio vuol dire credere in un evento
esterno rispetto a me, in una rivelazione, in una dottrina, no. Credere in Dio vuole
134
dire credere che quella tensione per il bene e per la giustizia che si muove dentro di
me ogni tanto non è un’illusione, non è semplicemente un portato psicologico, non è
un’invenzione mia, non è che ce l’ho perché sono buono, ma è l’attestazione di una
realtà più profonda, questa realtà più profonda che è bene in sé e giustizia in sé, dagli
uomini tradizionalmente è chiamata Dio. Quindi questo è il fondamento; fondamento
che è personale senza essere individuale, individualista.
DOMANDA: Qual è stata la scintilla che l’ha portata a “rifondare la fede”? Forse
l’influenza della scuola di Simone Weil?
RISPOSTA: Simone Weil certamente mi ha aiutato molto a tematizzare il “disagio
dell’intelligenza”; è un’espressione sua che lei usa in una lettera a un religioso.
Leggendo quel testo ho capito che non ero solo con questo disagio dell’intelligenza
che c’era dentro di me; però devo dire che non è stata Simone Weil; Simone Weil mi
ha aiutato a comprendere il disagio dell’intelligenza che c’era già dentro di me e che
era dato semplicemente dalla difformità tra alcune affermazioni della fede e il dato
dell’esperienza.
DOMANDA: Il testamento biologico potrebbe essere una soluzione per uno dei
problemi più scottanti della bioetica, quale l’eutanasia? In caso di risposta
affermativa, ciò non implicherebbe il sostituirsi dell’uomo a Dio?
RISPOSTA: Io sono sempre stato a favore del testamento biologico perché è un atto
di libertà, di autodeterminazione del singolo che fa sì che il singolo possa vivere
135
anche l’ultima pagina della sua vita. Noi ogni giorno ci sostituiamo a Dio, se la
vogliamo mettere così, cioè quando ci arriva una malattia, se uno pensa che tutto
quello che avviene, avviene perché lo vuole Dio, allora anche combattere questa
malattia sembra quasi che possa essere andare contro Dio. Cioè uno dovrebbe dire mi
è arrivata una malattia, non devo in alcun modo combatterla perché è il volere di Dio.
Ma in realtà, tra la natura così come si pone e Dio c’è una bella differenza, c’è la
libertà stessa della natura, del processo naturale. E quindi tentare di “modificare” la
data della propria morte, non mediante un processo violento, come il suicidio
ovviamente, e neanche mediante un processo sul quale io neppure sono d’accordo,
che è l’eutanasia nel senso attivo, nel senso di un’iniezione, ma nel senso di un
testamento biologico che dica nel mio caso non mettete in gioco terapie intensive
(accanimento terapeutico, non legatemi ai macchinari, non idratatemi e alimentatemi
in maniera artificiale) ma semplicemente lenite le mie sofferenze e fate in modo che
la natura compia il suo corso. Fare tutto questo è quanto mai conforme a quello che
l’uomo mediante la medicina ha sempre fatto e sempre farà.
DOMANDA: L’origine del mondo è stata sempre pensata in relazione a Dio. Ne “Il
principio passione” (p. 92) invece lei afferma il “ruolo cosmico di Gesù Cristo”.
Quindi Cristo è la “chiave di lettura” della creazione?
RISPOSTA: È ridicolo pensare che il Gesù uomo possa essere il Creatore, lui che è
stato creato, che è venuto al mondo da una donna. In realtà, in quell’uomo si è data la
suprema manifestazione del principio cosmico che è all’origine di tutto, di tutto il
processo e che il Cristianesimo chiama Cristo, e che altre tradizioni chiamano Logos;
136
anche il Cristianesimo chiama Logos riprendendo però Giovanni, riprendendo però
questo termine da altre tradizioni, in particolare quella stoica e prima ancora Eraclito.
E altre tradizioni chiamano “Dharma”, o chiamano “Sapienza” in ebraico, “Sophia” e
così via. In quell’uomo si dà la perfetta aderenza tra la libertà interiore e questo
principio di armonia. Ma questo legame tra il Cristo cosmico e la creazione non è
qualcosa che invento io naturalmente ma è qualcosa che si trova già nel Nuovo
testamento (1 Corinzi 8,6), come io espongo nel mio libro; si deve notare che la
prima lettera ai Corinzi è uno dei testi più antichi di tutto il Nuovo Testamento,
vent’anni prima dei Vangeli, prima che si parlasse del Gesù storico, già i cristiani
parlavano del Cristo cosmico. E allora dico che si tratta proprio di ritornare a questa
designazione che tra l’altro è contenuta anche nel Credo di Nicea; anche nel Credo di
Nicea che tutte le domeniche i cristiani recitano a messa si dice: “Per quem omnia
facta sunt”, per mezzo del quale tutte le cose sono state create.
DOMANDA: Si può affermare che uno degli obiettivi che si propone nel libro “Il
principio passione” sia quello di “liberare” l’uomo dall’accusa del male a causa del
peccato originale?
RISPOSTA: L’uomo è il colpevole di molta parte del male. Non è che io voglio
parlare dell’uomo come non colpevole della parte del male nel mondo; io voglio
liberare l’uomo dalla colpevolezza che prescinde dalla sua libertà. Il peccato
originale è tale da imputare il male all’uomo a prescindere dall’uso della libertà. Un
bambino viene al mondo e già come tale è peccatore. Questo è qualcosa di
inaccettabile dal punto di vista morale.
137
DOMANDA: Ritiene che la Chiesa possa assumere una posizione più aperta nei
confronti degli omosessuali?
RISPOSTA: Sugli omosessuali c’è da dire che qui il cammino è piuttosto variegato,
piuttosto travagliato. Assistiamo oggi ad un passo avanti con papa Bergoglio: “Chi
sono io per giudicare?”, un passo enorme e, secondo me, abbastanza irreversibile.
DOMANDA: Molti teologi la criticano dicendo che lei non è un teologo. Come si
definisce?
RISPOSTA: Mi definisco alla fine forse un pensatore cattolico, che a volte è teologo
e a volte è filosofo; però, se ci mettiamo a ragionare, come definire Agostino?
Adesso non voglio fare quello che si paragona, però andiamo a vedere i grandi,
Agostino è più un filosofo che un teologo. Non si può studiare storia della filosofia
senza imbattersi in Agostino, e allo stesso modo, non si può studiare la storia della
teologia senza studiare Agostino; è un teologo e un filosofo. La stessa cosa vale per
Tommaso d’Aquino, la stessa cosa vale per Niccolò Cusano; la stessa cosa, come ho
dimostrato nella mia tesi di dottorato, vale per Hegel. La stessa cosa vale anche per
Kant, il quale nelle sue pagine fa riferimento alla filosofia della religione e quindi
teologia.
In realtà quando si affrontano problemi come quello della libertà dell’uomo, Dio in
sé e la natura dell’Assoluto, il dramma dell’uomo, sono problemi che sono al
contempo filosofici e teologici.
138
DOMANDA: Se non sbaglio, il suo motto è “Lotta sino alla morte per la verità e il
Signore Dio combatterà per te” (Siracide 4,28). Che cos’è per lei la verità?
RISPOSTA: La verità per me ultimamente è il bene. La verità per me non è
l’esattezza, non è una formula, ma è il bene e la giustizia, è ciò che introduce più
ordine in un processo, in un sistema. Questo poi è il senso della verità secondo il
Cristianesimo; Gesù poi diceva: «Chi fa la verità viene alla luce» e univa al
sostantivo “verità” il verbo “fare”. Quindi emerge da questo come la verità non è
qualcosa di statico, ma qualcosa di dinamico, qualcosa che “si fa”, che si compie. E
in questo senso verità è tutto ciò che serve la vita. Tutto ciò che serve la vita è vero,
quindi è buono, è giusto. Tutto ciò che nuoce alla vita, tutto ciò che è contro il farsi
della vita è male, e quindi non è vero, non è verace. E in questo non faccio altro che
riproporre la lezione classica dell’unità dei trascendentali: unum, verum, bonum e
pulchrum, la trascendentalità dell’essere.