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UNIVERSITA' DEGLI STUDI DI FERRARA FACOLTA' DI FARMACIA Dipartimento di Biochimica e Biologia Molecolare Corso di Laurea in Chimica e Tecnologia Farmaceutiche EVEROLIMUS: UN POTENTE INDUTTORE DEL DIFFERENZIAMENTO ERITROIDE IN PRECURSORI ISOLATI DA PAZIENTI BETA-TALASSEMICI I Relatore: Laureanda Prof. Roberto Gambari Chiara Danzo II Relatore: Dott.ssa Nicoletta Bianchi Anno Accademico 2005-2006 1

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UNIVERSITA' DEGLI STUDI DI FERRARA

FACOLTA' DI FARMACIA

Dipartimento di Biochimica e Biologia Molecolare

Corso di Laurea in Chimica e Tecnologia Farmaceutiche

EVEROLIMUS: UN POTENTE INDUTTORE DEL DIFFERENZIAMENTO

ERITROIDE IN PRECURSORI ISOLATI DA PAZIENTI BETA-TALASSEMICI

I Relatore: Laureanda

Prof. Roberto Gambari Chiara Danzo

II Relatore:

Dott.ssa Nicoletta Bianchi

Anno Accademico 2005-2006

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INTRODUZIONE

1. I geni globinici umani e regolazione della loro espressione durante lo

sviluppo.

1.a. I geni globinici.

La componente principale e di maggiore importanza dei globuli rossi è

rappresentata dall’emoglobina, una proteina tetramerica solubile presente negli eritrociti

del sangue dei vertebrati, la cui funzione biologica è quella di trasportare l’ossigeno,

attraverso il circolo sanguigno, dai polmoni ai tessuti. L’emoglobina è una

cromoproteina globulare la cui struttura consta di quattro catene polipeptidiche e quattro

gruppi prostetici eme. La sua sintesi richiede la produzione coordinata dell’eme, che

conferisce alle emazie la loro caratteristica colorazione rossa, e delle globine, che

costituiscono la porzione proteica che circonda e protegge l’eme.

Il gruppo eme, che lega reversibilmente il ferro all’emoglobina, è costituito da una

parte organica, la protoporfirina IX, un sistema planare composto da quattro anelli

pirrolici al centro dei quali si trova alloggiato un atomo di ferro inorganico.

Quest’ultimo giace leggermente al di fuori del piano della protoporfirina con la quale

interagisce mediante quattro legami di coordinazione, mentre con la quinta posizione,

perpendicolare al piano, lega un residuo di istidina o istidina prossimale [1].

Il gruppo eme è contenuto all’interno di una tasca proteica, costituita da 20

amminoacidi idrofobici, che ne garantiscono la stabilizzazione e fanno in modo di

mantenere il ferro nello stato di catione bivalente, necessario ai fini dell’interazione con

l’ossigeno, attraverso un secondo residuo di istidina o istidina distale [1, 2]. In seguito

all’interazione dell’atomo di ferro bivalente con una molecola di ossigeno, avviene

l’avvicinamento del ferro al piano dell’eme e il conseguente spostamento delle regioni

ad α-elica della catena globinica. Questo comporta la riduzione della tensione sterica

originatasi e una variazione conformazionale della struttura quaternaria del tetrametro

[1]. L’evento che si trova alla base della cooperatività positiva nell’interazione con

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l’ossigeno è dato dall’indebolimento parziale delle interazioni fra le subunità, che causa

una progressiva destabilizzazione della molecola. E’ infatti il legame dell’ossigeno al

gruppo eme di una subunità globinica a mediare la predisposizione delle altre catene

allo stesso processo aumentando l’affinità [1].

La porzione proteica è formata da quattro catene polipeptidiche uguali a due a due:

due di tipo α (zeta e alfa), di 141 residui amminoacidici, due di tipo β (epsilon, gamma,

beta e delta), di 146 amminoacidi [2]. Le quattro subunità si associano spontaneamente

tra loro formando, attraverso interazioni non covalenti, ma di tipo elettrostatico e

idrofobico, la caratteristica struttura tetramerica della molecola [3]. Le catene

polipeptidiche delle globine contengono numerosi amminoacidi altamente conservati

detti residui invarianti, che hanno la funzione di preservare la stabilità e la corretta

funzionalità della molecola garantendone la struttura terziaria, caratterizzata da otto alfa

eliche, la cui collocazione è responsabile del ripiegamento a β-foglietto della globina.

L’appaiamento di una catena α con una catena non-α porta alla formazione di un

dimero di emoglobina, il quale non è in grado di trasportare l’ossigeno in maniera

efficace fino a quando non si combina con un secondo dimero nella formazione del

tetramero, ovvero la molecola biologicamente attiva ed in grado di espletare funzione di

trasportatore.

Geni differenti sono responsabili dell’espressione delle diverse subunità globiniche

costituenti l’emoglobina. La famiglia delle globine (mioglobina, emoglobina,

neuroglobina) sembra essersi evoluta 1.800 milioni di anni fa con la comparsa

dell’ossigeno sulla terra e i geni globinici sembrano aver avuto origine da un gene

ancestrale, contenente 4 sequenze codificanti (esoni) e 3 non-codificanti (introni).

Mentre la regione 3’ del primo esone ed il terminale 5’ dell’ultimo esone sono rimasti

invariati nel corso dell’evoluzione, il secondo introne del gene primitivo è scomparso ed

il terzo è emerso solo quando i geni della famiglia globinica hanno iniziato a

differenziarsi.

La struttura uguale di tutti i geni globinici rivela la loro origine comune; ogni gene

presenta tre regioni codificanti, gli esoni, che vengono trascritti in RNA messaggero e

poi tradotti in globine e due regioni intercalari, gli introni (IVS: InterVening Sequence),

che non essendo trascritti in mRNA non vengono tradotti in proteina. Nel gene

β-globinico il I esone contiene i codoni da 1 a 30, il II da 31 a 104 e il III da 105 a 146,

mentre nei geni α-globinici il I esone comprende i codoni da 1 a 31, il II da 32 a 99 e,

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infine, il III da 100 a 141. Gli introni hanno lunghezza diversa per ogni gene globinico.

Ogni gene globinico ha alle estremità 3’ e 5’ delle sequenze fiancheggianti che vengono

trascritte, ma non tradotte (sequenze UTR). Tra queste, la sequenza UTR compresa tra il

codone di termine TAA e la sequenza AATAAA, si è dimostrata essenziale per la

traduzione dell’mRNA. Infatti, mutazioni in questa regione, sia nel gene α che in quello

β, danno luogo ad un effetto microcitemico probabilmente causato da una forte

destabilizzazione del messaggero prodotto. La sequenza AATAAA presente

all’estremità 3’ di tutti i geni globinici è sia il segnale di termine della trascrizione

dell’mRNA che di aggiunta di una coda poliA. All’estremità 5’ di tutti i geni è invece

presente una sequenza promotrice indispensabile per una trascrizione genica efficiente

[2].

I geni globinici sono organizzati in raggruppamenti chiamati clusters (Fig. 1),

costituiti da geni funzionali, generati probabilmente da processi di duplicazione

avvenuti nel corso dell’evoluzione, e da pseudogeni; questi ultimi rappresentano geni

ancestrali che hanno perso le regioni regolative della loro espressione, divenendo così

silenti ed incapaci di codificare per la proteina.

Il cluster α, di circa 40 Kb, è situato nella porzione distale del braccio corto del

cromosoma 16, a livello della banda 16(p13.3), come riportato in Fig. 1.

La posizione occupata dal cluster α è caratterizzata da instabilità e variabilità

genetica e cade in una regione rappresentata per il 54% da CG nella porzione telomerica

del cromosoma 16 e caratterizzata da una configurazione della cromatina

costitutivamente “aperta” e da un’alta densità di geni non-globinici adiacenti

costitutivamente non espressi. Lungo tutto il cluster α sono presenti sequenze ripetitive

della famiglia Alu I (dal nome dell’enzima di restrizione che le identifica) e sequenze

ricche in GC dette regioni HRV (High Variability Region) o minisatelliti: il 3’ HRV a

valle del gene α1, composto da una serie di ripetizioni in tandem (da 70 a 450 per allele)

di una sequenza di 17 bp, l’HRV entro ψζ1, l’HRV interzeta tra ζ2 e ψζ1, il 5’HRV a

circa 100 kb a monte del cluster α che è composto da una serie di ripetizioni in tandem

di una sequenza di 57 bp.

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Clu

ster

alfa

Fig. 1. Organizzazione in clusters dei geni per le globine di tipo β ed α.

In figura sono schematizzati i cromosomi 11 e 16 sui quali sono raggruppati rispettivamente geni per le globine β e per le globine α. Sono riportate anche le varie associazioni di catene globiniche che formano le diverse molecole di emoglobina nel corso dello sviluppo umano [Figura tratta dal sito www.med.yale.edu].

Come riportato in Fig. 2, nel cluster α sono presenti tre geni funzionali,

rappresentati rispettivamente da un gene ζ, espresso transitoriamente in fase embrionale,

ma presto sostituito durante lo sviluppo dalle catene α, codificate dalla coppia di geni

α2 e α1, che producono globine identiche, nonostante differiscano tra loro per la quantità

di RNA messaggero prodotto, che risulta maggiore di circa 2,6 volte per α2 [4]. Nel

cluster α sono presenti anche diversi pseudogeni, denominati ψζ , ψα1, ψα2 ed una

regione 3’ terminale ө, che si suppone essere attiva negli stadi embrionali più precoci. Il

gene embrionale ζ è localizzato nella regione più in 5’, mentre i geni globinici adulti α2

e α1 sono posizionati più distalmente; questi due geni sono pienamente funzionali e

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sopperiscono alla mancanza nel cluster α di un gene ad espressione esclusivamente

fetale: essi, infatti, sono espressi anche durante la fase fetale dello sviluppo.

Nel cluster α-globinico è presente, nella sequenza fiancheggiante 5’ il cap del gene

α-globinico, il box ATA che fissa l’inizio della trascrizione, mentre a -80 bp dal cap il

box CAAT determina il livello di trascrizione e ancora più a monte è situata una

sequenza che lega il fattore di trascrizione Sp1 [2].

Fig. 2. Rappresentazione schematica dei clusters globinici umani. Il cluster α è localizzato all’estremo distale del braccio corto del cromosoma 16 in un tratto di DNA di 30 kb; nei geni per le α-globine il I esone comprende i codoni da 1 a 31, il II da 32 a 99 e, infine, il III da 100 a 141. Il cluster β è posizionato in una regione di circa 70 kb a livello della banda 11(p15.5) nella regione distale del braccio corto del cromosoma 11. Nei geni per le globine di tipo β il I esone contiene i codoni da 1 a 30, il II da 31 a 104 e il III da 105 a 146. Gli introni hanno lunghezza diversa per ogni gene considerato. Sono inoltre illustrate le sequenze fiancheggianti i geni alle estremità 3’ e 5’ [Bianco Silvestroni, 1998].

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Elementi con funzione di promotori sono presenti in 5' a ciascun gene per le catene

di titpo α e, oltre a questi, è stata identificata una regione di 35 kb, localizzata 30 kb a

monte del cluster α, la cui delezione inattiva l’espressione dell’intero gruppo di geni,

risultando pertanto di fondamentale importanza dal punto di vista regolativo [5].

La presenza lontano dal cluster α di una zona di circa 50 kb, che riveste un ruolo di

regolatore positivo dell’espressione genica è stata confermata tramite esperimenti di

delezione che lasciavano intatti, ma non funzionanti, gli stessi geni per le globine α. Le

sequenze eritro-specifiche di regolazione-positiva più importanti sono raggruppate in

24 kb e sono associate a siti ipersensibili alla DNasi I, localizzati a -33, -36, -38, -40,

-46, -56 kb dal cap del gene per le catene ζ. Questi siti hanno notevole somiglianza per

posizione, struttura e funzione con quelli identificati nella Locus Control Region a

monte del cluster β, discusso in seguito. Tra questi il sito HS-40 è l’elemento

principale; esso dimostra infatti, in esperimenti condotti in vitro, un’attività enhancer

maggiore rispetto a quella delle sequenze “core” di ciascun sito HS dell’LCR. Inoltre,

ricerche effettuate sull’HS-26 murino, omologo all’HS-40 umano, hanno dimostrato la

presenza di sequenze interne all’HS-40 la cui presenza è essenziale per garantire la

completa espressione della sua attività enhancer.

Sequenze importanti per la regolazione dell’espressione dei singoli geni, sono

inoltre presenti a livello delle regioni promotrici, ad esempio nel gene per le globine ζ

sono state individuate in posizione prossimale al promotore. Le sequenze che rivestono

un ruolo critico nel processo di silenziamento definitivo di ζ al momento dello switch

embrio-fetale, invece, si trovano al di fuori dei confini del gene stesso e del suo

promotore.

Riguardo ai geni per le catene α, mediante studi condotti in vitro e su topi

transgenici, sono state individuate delle sequenze, situate nella regione fiancheggiante

in 5’ il gene globinico α2 e nella regione fiancheggiante in 3’ il gene α1, dotate di

funzione regolatrice positiva. Queste regioni si presentano inoltre ricche di siti di

legame per fattori trascrizionali come GATA1 e NF-E2 [2].

Il cluster di tipo β, riportato in Fig. 2, raggruppa in un dominio di circa 70 Kb i

geni per le globine β umani ed è posizionato a livello della banda 11(p15.5) nella

regione distale del braccio corto del cromosoma 11. Esso comprende lo pseudo-gene ψβ

e i geni funzionali per le catene polipeptidiche ε, Gγ e Aγ, δ e β, posti nell’ordine in cui

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vengono espresse durante lo sviluppo [6]. Le catene di tipo Gγ e Aγ si distinguono tra

loro per la sostituzione di una glicina con un’alanina in posizione 136 nella catena

peptidica.

L’espressione genica è regolata in modo tale che durante le varie fasi dello

sviluppo la produzione delle globine β eguagli quella delle α. Questo è reso possibile

solo grazie ad un’accurata attività di regolazione trascrizionale, che deve garantire una

bilanciata sintesi di globine, tale da consentire sempre la corretta funzionalità biologica

della proteina prodotta.

I promotori di tutti i geni globinici condividono una notevole omologia di

sequenza, ma essi presentano anche delle sequenze uniche, che potrebbero essere

responsabili del cambiamento nell’espressione globinica nei vari stadi di sviluppo.

Svariati esperimenti di mutagenesi in vitro e di trasfezione del DNA hanno permesso di

identificare i promotori di numerosi geni del cluster β di mammiferi, inclusi quelli

umani. Queste sequenze regolative minimali consistono appunto nei tre elementi

identificati come: TATA box, posizionato a -30 bp, CAAT box, a -75 bp e CACCC a

-90 bp dal sito d’inizio della trascrizione genica [7]. Questi elementi sono presenti in

tutti i promotori dei geni per le globine, ma i promotori dei geni per le catene γ e β

umane sono caratterizzati da una notevole diversità rappresentata, per quanto riguarda il

promotore per le γ-globine, dalla duplicazione del CAAT box e dalla presenza in

singolo del motivo CACCC, mentre il promotore per le β-globine presenta un

raddoppiamento del CACCC e un singolo CAAT box. Si pensa che queste differenze

possano avere un’implicazione nella regolazione di questi geni.

L’espressione dei geni per le globine di tipo β non è solo regolata dalle specifiche

regioni promotrici poste in 5’ ai geni, ma risente dell’influenza anche di una regione

regolativa, denominata LCR (Locus Control Region); regioni del tipo LCR sono state

identificate in almeno 36 loci di mammifero di differenti specie, inclusi l’uomo, il topo,

il ratto, il coniglio e la capra [8]. Differenze filogeniche, emerse dalla comparazione di

dati relativi al cluster β di mammifero indicano che anche i clusters di primati ancestrali

contenevano una LCR e cinque loci paragonabili ai geni beta-like con un’espressione di

tipo sviluppo-dipendente [9].

L’importanza dell’LCR ebbe la prima evidenza sperimentale in seguito a indagini

condotte su soggetti olandesi e spagnoli affetti da talassemia, nei quali la patologia si

presentava caratterizzata da un gene β-globinico intatto, ma, allo stesso tempo, una

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delezione a monte del locus rimuoveva l’LCR impedendo l’attivazione del gene per le

β-globine. La delezione dell’LCR dimostra che essa, non solo è richiesta per la loro

l’espressione genica, ma che la sua presenza influenza la struttura della cromatina

stessa.

Quando la regolazione dei geni globinici in assenza dell’LCR venne studiata in topi

transgenici, fu evidente che i geni per le globine γ e β venivano espressi in maniera

sviluppo specifica, ma a bassi livelli e dipendentemente dalla posizione di integrazione

nel genoma dell’ospite. Al contrario, quando il gene per le catene β fu studiato in

associazione all’LCR, fu osservato uno schema completamente diverso; esso veniva

espresso a livelli comparabili con quelli endogeni del topo e in modo indipendente dalla

posizione di integrazione nel genoma murino [10]. Queste indagini hanno rivelato che,

innanzitutto, LCR contiene delle porzioni ad intensa attività enhancer responsabili

dell’elevata espressione genica; in secondo luogo, l’LCR influenza la struttura della

cromatina ed, infine, partecipa all’inizio della trascrizione genica regolandola [11].

L’LCR è fisicamente determinata dalla presenza di cinque siti HS, aree di

separazione dei nucleosomi, dove il DNA risulta essere suscettibile alla digestione da

parte di DNasi I, fatto che rende tale regione accessibile per la trascrizione e per i fattori

di rimodellamento della cromatina. Questi siti ipersensibili alla DNAasi I ricoprono una

regione di circa 25 kb, collocata tra 6 e 18 kb a monte rispetto al gene per le ε-globine e

precisamente a -6.1, -10.9, -14.7, -18 kb. Quattro dei siti ipersensibili (HS1-4) sono

riconosciuti da fattori eritro-specifici, mentre uno di essi (HS5) è riconosciuto da un

fattore ubiquitario (Fig. 3) ed è un elemento isolatore o di confine. La presenza in questi

quattro siti di uguali caratteri strutturali, funzionali e ontogenici indica che essi hanno

probabilmente in comune uno stesso elemento core. Questi siti, ciascuno della

lunghezza di 300 bp in cis al gene per le β-globine, conferiscono alta efficienza di

trascrizione, specificità eritroide ed ontogenica [2].

Per un corretto inizio della trascrizione sono necessarie tutte le sequenze regolative

prossimali ai geni globinici e per la massimalizzazione dell’espressione è richiesta la

loro interazione con elementi più distanti presenti nell’LCR.

La principale attività di LCR è associata ai siti HS2, HS3 e HS4; in ciascuno di questi

siti, infatti, sono presenti parecchie regioni di legame per specifici fattori trascrizionali,

come GATA1 (erythroid cell- and megakaryocyte-specific trancription factor 1), che si

è dimostrato essere essenziale nello sviluppo eritroide [10].

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7 6 5 4 3 2 1 ε Gγ Aγ ψβ δ β

5’HS

3’HS

10 Kb

Fig. 3. Rappresentazione schematica dell’LCR. L’LCR è considerata

un potente enhancer nel fenomeno dello switching globinico ed è fisicamente determinata dalla presenza di siti HS, aree di separazione dei nucleosomi, dove il DNA risulta essere suscettibile alla digestione da parte dell’enzima DNasi I.

Inoltre, il sito 5’HS2, che svolge la sua funzione durante tutti gli stadi di sviluppo,

possiede al suo interno siti di legame per i fattori Sp1, NF-E2 e USF. Il fatto che

mutazioni effettuate nei singoli siti di legame nella regione 5’HS2 non comportino la

soppressione dell’espressione posizione-dipendente, suggerisce che i siti di legame

presenti nel mutante sono sufficienti a mantenere la conformazione della cromatina

“aperta”. Con altri esperimenti è stata verificata l’abilità di 5’HS2 di provocare l’inizio

della trascrizione di geni situati a valle, caratteristica tipica di una sequenza enhancer.

Inoltre, in modo simile a quanto fanno altre sequenze enhancer, 5’HS2 contiene

sequenze del tipo E-box, che rappresentano i siti di legame per la famiglia di fattori di

trascrizione con motivo a “elica-loop-elica”. Tuttavia, il sito HS2 non manifesta

quest’attività da solo, ma richiede la contemporanea presenza di un altro sito HS

dell’LCR. La delezione dei nuclei ipersensibili alla DNasi I dalle regioni 5’HS2, 5’HS3

o 5’HS4 (200-300 bp circa), interferisce con la normale funzionalità di LCR e fa venir

meno l’ipersensibilità alla DNasi I di tutti i siti. Inoltre, la funzionalità dell’LCR sembra

dipendente dall’orientazione della regione stessa; infatti, quando la posizione dell’LCR

viene invertita rispetto al resto del locus, l’espressione dei geni globinici nel corso dello

sviluppo viene ridotta [8].

Tutti questi modelli sperimentali hanno aiutato nella comprensione e nella

rivelazione di meccanismi chiave riguardanti la regolazione e la struttura del locus β

[11].

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1.b. Regolazione dell’espressione dei geni globinici umani.

In un individuo adulto la forma prevalente di emoglobina è la HbA (α 2β2), mentre

la forma detta HbA2, costituita da due catene α e da due catene δ, rappresenta il 2-3%

dell’Hb totale contro una frazione variabile, ma spesso inferiore all’1%, rappresentata

dall’HbF (emoglobina fetale), costituita da due catene α e due catene γ.

La comprensione dell’ontogenesi dell’emoglobina umana durante lo sviluppo ha

una rilevante importanza dal punto di vista biologico; tecniche di biologia molecolare e

immunocitochimica sono state impiegate allo scopo di studiare l’espressione dei geni

per le ζ-, ε- e γ-globine nel sangue derivato da cordoni ombelicali, sangue periferico di

individui adulti, donne in gravidanza e non e in colture cellulari in vitro [12].

E’ possibile identificare e distinguere, durante le varie fasi di sviluppo e crescita di

un individuo, diverse forme di emoglobina, le cui caratteristiche strutturali dipendono

dall’attivazione o dello spegnimento dei differenti geni globinici. Durante il periodo

embrionale, sono attivi i geni responsabili della sintesi delle Hb Gower1 (ζ2ε2 ), Gower2

(α2ε2) e Hb Portland (ζ2γ2), la cui espressione diminuisce progressivamente dopo le

prime due settimane di gestazione, in quanto l’espressione delle catene ζ diminuisce

conseguentemente all’aumento dell’espressione di α, mentre le globine γ sostituiscono

le ε dopo circa sei settimane di gestazione. Il periodo fetale è caratterizzato dall’HbF

(α2Gγ2 e α2

Aγ2), che costituisce il 90% dell’emoglobina in questo stadio, la cui

produzione continua anche dopo la nascita andando a costituire il 5% dell’emoglobina

totale per i primi mesi di vita dell’individuo. L’HbF è contraddistinta da una maggiore

affinità di legame per l’ossigeno rispetto all’emoglobina adulta, fatto che consente di

aumentare l’efficienza di trasferimento dell’ossigeno dalla madre al feto attraverso la

barriera placentare. La sintesi di globine γ diminuisce gradualmente dopo la nascita fino

ad essere quasi completamente soppiantata dalla produzione di globine β attorno al

quarto anno di età. I livelli di espressione dell’HbF nell’adulto subiscono anche un’altra

modificazione passando, infatti, da un rapporto Gγ/Aγ di 3/1 nel feto ad un rapporto di

2/3; inoltre i livelli di HbF possono variare notevolmente anche in dipendenza di fattori

quali l’età, il sesso o particolarità genomiche, come ad esempio mutazioni puntiformi

all’interno del cluster β o in geni ad esso correlati [13, 14, 15, 16]. L’andamento della

sintesi globinica sopra discussa è riportato in Fig. 4.

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Come per tutte le famiglie di geni globinici eucariotici, anche la trascrizione del

gene umano per la β-globina è soggetta sia ad una regolazione tessuto-specifica, che ad

un controllo sviluppo-dipendente [6].

Fig. 4. Espressione nel tempo e nei diversi tessuti dei differenti tipi di catene globiniche umane. Fino alla 10a settimana di gestazione sono presenti nell’embrione soltanto le catene ζ ed ε; dalla 6a settimana inizia la produzione di catene α e γ, queste ultime nei due tipi Gγ e Aγ nel rapporto di 3:1. Prima della nascita inizia lo switching feto/adulto, cioè il passaggio dalla sintesi delle γ-globine a quella delle β-globine. Alla 10a settimana l’HbA costituisce il 10% dell’Hb totale del feto e dopo la nascita il 20%. Nelle prime settimane dopo la nascita la sintesi di γ-globine si riduce bruscamente e aumenta la sintesi di catene β. Verso il 6° mese di vita l’assetto emoglobinico adulto è completo e l’HbF scompare definitivamente [Purves, Savada, Orians, Heller; Biologia-L’informazione e l’eredità-Zanichelli, 2005].

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Nel corso dello sviluppo vengono espressi geni per le globine di tipo α e β

differenti, in modo da garantire la produzione di una molecola di emoglobina specifica

per quel dato periodo e in grado di soddisfare le esigenze di ossigeno dell’individuo in

quello stadio di sviluppo. Quindi, durante l’ontogenesi, in risposta alla variazione della

necessità di ossigeno del feto, si verificano due principali ed essenziali cambiamenti

nell’espressione dei geni appartenenti al cluster β (Fig. 5) [8]. Nei primi stadi dello

sviluppo umano, il tessuto emopoietico è rappresentato dal sacco vitellino che esprime

ε-globine; in seguito al primo switch, che si verifica alla sesta settimana di gestazione e

che consente al fegato del feto di divenire il principale organo deputato alla produzione

di globine γ, si ha la conversione delle globine embrionali ε con quelle fetali γ e con il

secondo switch globinico si ha la sintesi, da parte del midollo osseo, di globine δ e β,

tipiche dell’età adulta e che vanno a sostituirsi alle γ.

Switch 1 Switch 2 Stadio embrionale

Midollo osseo ADULTO

Hb A (α2 β 2) Hb A2 (α2 δ 2)

Sacco vitellino EMBRIONE

Hb F (α2γ2) Hb Gower 1 (ζ 2ε2) Hb Portland (ζ 2γ 2) Hb Gower 2 (α2 ε 2)

Placenta FETO

Fig. 5. Lo switch globinico tessuto-dipendente. La figura descrive la

variazione dell’espressione globinica beta-like, che a seconda dello stadio di sviluppo avviene in distretti differenti. E’ rappresentata, inoltre, la composizione delle emoglobine prodotte nell’uomo dall’embrione, dal feto e dall’adulto con i rispettivi siti eritropoietici [Figura tratta da: Grosveld, van Assendelft, Greaves and Kollias. Cell, 51, 975-985, 1987].

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L’importante differenza che contraddistingue i geni alfa-like da quelli beta-like

risiede nel fatto che i primi sono sottoposti ad un unico intervento di switch durante lo

sviluppo e non subiscono cambiamenti dopo la nascita [10].

Sulla base degli esperimenti condotti su cellule embrionali di pollo, è stato

osservato che cellule progenitrici isolate da embrioni di 23 ore, sintetizzavano

emoglobina per poi differenziarsi, dopo alcuni giorni, in eritroblasti. Isolando il DNA

sia dalle cellule progenitrici che dagli eritroblasti, è stata evidenziata una differenza

nell’attivazione dei geni globinici nei vari stadi di sviluppo. I geni espressi delle cellule

progenitrici differiscono da quelli espressi negli eritroblasti per diversi aspetti: diverso

grado di metilazione del DNA e diversa sensibilità agli enzimi e proteine non istoniche

associate. Per quanto riguarda la metilazione del DNA l’unica base che viene modificata

nei vertebrati è la 5-metil citosina, dove il dinucleotide CG (coppia citosina-guanina)

risulta metilato dal 20% all' 80% a seconda del tessuto e della specie. In particolare i

geni per le globine α e β risultano essere metilati nelle cellule progenitrici e ipometilati

negli eritroblasti, poichè uno scarso grado di metilazione è correlato con l’attivazione

della loro espressione. La diversa sensibilità agli enzimi di restrizione è stata accertata

con enzimi quali HPA II, che taglia in corrispondenza di siti non metilati, e MSPI, che

taglia sia siti metilati che non metilati. Questi enzimi riconoscono la sequenza CCGG e

presentano una specificità differente a seconda della metilazione o meno della citosina,

quindi la metilazione rende queste sequenze resistenti al taglio di HPAII, ma non a

quello di MSPI. E’ pertanto possibile, sulla base di questo principio, stabilire lo stato di

metilazione del DNA tramite indagini di Southern blotting.

Lo schema di espressione dei clusters globinici è sottoposto ad una regolazione,

durante la crescita, mediata dalla metilazione del DNA genomico. Tale modello di

metilazione viene costituito nelle prime fasi di sviluppo e mantenuto in maniera semi-

conservativa attraverso le varie divisioni cellulari [17]. La metilazione del motivo CpG

può agire come deterrente alla formazione del complesso di pre-iniziazione o impedire

l’accesso dei fattori di trascrizione e, indirettamente, contrastare il rimodellamento della

cromatina. E’ stato dimostrato che il DNA allo stato metilato richiama proteine di

legame sui siti metilati, che interagiscono così con le istone-deacetilasi, le quali hanno

un ruolo nello stato di alterazione della cromatina. Solitamente le aree di cromatina allo

stato attivo si presentano scarsamente metilate e la metilazione delle isole CpG nelle

regioni promotrici è associata ad una perdita di ipersensibilità al taglio della DNasi I.

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Perciò, quando è metilata, la cromatina di un locus genico è allo stato inattivo e

trascrizionalmente silente. Bisogna però considerare che il gene umano per la β-globina

non possiede regioni CpG, quindi la metilazione non dovrebbe essere responsabile del

rimodellamento strutturale della regione contenente questo gene [8].

Diversamente da quanto avviene per il gene codificante le globine β, il

silenziamento del gene per le γ sopravviene dopo la nascita indipendentemente

dall’attivazione di altri geni del cluster ed è presumibilmente mediato dal legame di

fattori specifici a sequenze fiancheggianti i geni stessi. Il meccanismo con il quale il

silenziamento del gene per le γ-globine viene mantenuto nel tempo risulta essere meno

chiaro, ma, probabilmente, il cambio dello loro stato di mutilazione, che accompagna lo

switch, potrebbe essere coinvolto. Infatti, il gene per le γ-globine, si trova in uno stato di

ipometilazione durante lo stadio fetale in cui è espresso ad alti livelli, mentre è

completamente metilato dopo il suo silenziamento. E’ di spiccato interesse

l’osservazione, effettuata su sia nell’uomo che nei babbuini trattati con l’agente

demetilante 5-azacitidina, secondo la quale si ha una riattivazione dell’espressione di

gamma globine; questo suggerirebbe che la metilazione sia responsabile

dell’inattivazione dell’espressione genica a carico del gene per le catene γ [18].

Più in generale, la presenza di gruppi metilici funge da segnale molecolare, con la

funzione di dirigere la conformazione del DNA verso una forma inaccessibile della

cromatina e di determinare la locale deacetilazione degli istoni H3 e H4. In seguito a

queste osservazioni, è stato postulato che la metilazione sia un meccanismo che causa la

repressione basale della trascrizione. In accordo con queste premesse, molti geni tessuto

specifici sono metilati nella maggior parte degli istotipi cellulari, ma subiscono processi

di demetilazione in seguito allo sviluppo nelle cellule dove la loro espressione risulta

specifica.

Concentrare l’attenzione sullo studio del locus della β-globina sul cromosoma 11, è

considerato una strategia utile per indagare i meccanismi di metilazione-demetilazione

connessi alla regolazione dell’espressione dei geni. Nelle cellule non-eritroidi, l’intero

locus genico viene replicato nella tarda fase S del ciclo cellulare e incluso in una

regione di cromatina molto impaccata ed insensibile alla DNAasi, dove tutti i geni

risultano essere metilati. Per contro, durante il differenziamento specifico in senso

eritroide, l’intero locus è sottoposto ad un processo di “apertura”, divenendo replicabile

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e DNAasi sensibile, ma solo alcuni dei geni subiscono demetilazione e diventano di

conseguenza trascrizionalmente attivi.

Gli effetti della metilazione sull’espressione genica sono stati indagati anche

usando un transgene globinico inserito in cromosoma di lievito YAC (Yeast Artificial

Cromosome), contenente l’intero locus umano per la β-globina, che è stato dimostrato

essere opportunamente regolato nel topo. E’ stato possibile osservare i risultati derivanti

dalla metilazione sulla trascrizione del gene per le catene γA, sia in cellule eritroidi che

non eritroidi, e si è concluso che il quando demetilato viene espresso a livelli fino a 20

volte superiori rispetto alla sua copia metilata. Questi risultati concordano con quanto

scoperto sull’inibizione della trascrizione del gene per le globine γA in seguito a

metilazione in fibroblasti transfettati.

La metilazione del DNA causa, inoltre, deacetilazione degli istoni e questo sembra

essere un ulteriore meccanismo di inibizione dell’espressione genica. Il promotore del

gene per le globine γA, nelle cellule non eritroidi, è incluso in nucleosomi contenenti

l’istone H4 deacetilato, similmente a quanto riscontrato per altri geni la cui espressione

è repressa. Straordinariamente, in assenza di metilazione, questa stessa regione viene

acetilata, raggiungendo gli stessi elevati livelli, probabilmente come risultato

dell’associazione di proteine di legame a geni trascrizionalmente attivi nelle cellule

eritroidi, come il gene per la β-actina o quello per la β-globina. Risultati analoghi sono

stati osservati per l’istone H3, già noto per essere correlato con l’attività genica. Quanto

riscontrato suggerisce che sia proprio la metilazione del DNA a giocare un ruolo

dominante nel causare o mantenere l’acetilazione degli istoni in quel determinato locus

[17].

1.c. Ruolo dell’LCR nella regolazione dell’espressione dei geni globinici.

Uno dei principali e più interessanti fenomeni a carico del cluster β è l’evento

caratterizzato dalla soppressione dell’espressione del gene per le γ-globine

contemporaneamente all’aumento dell’espressione del gene per le β-globine. La piena

comprensione di questo processo ha importanti implicazioni dal punto di vista

terapeutico per il trattamento della β-talassemia e dell’anemia falciforme; considerando

il fatto che, dal punto di vista funzionale, la γ-globina può sostituire il prodotto di un

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difetto genetico del gene per le β-globine, ogni progresso nella comprensione dei

meccanismi caratterizzanti lo switching globinico è oggetto di studio per derivarne un

potenziale beneficio terapeutico nel trattamento delle patologie sopra considerate.

Gli studi iniziali sulla regolazione dell’espressione dei geni globinici erano

focalizzati principalmente sulla relazione tra la l’LCR ed i singoli geni β-like, tramite

l’analisi della funzione di ampi frammenti del locus in topi transgenici, ma anche i

singoli siti ipersensibili all’interno della stessa LCR sembrano rivestire ruoli differenti

nel rimodellamento della cromatina e nel controllo dello switching globinico.

Esperimenti condotti su topi transgenici, trasdotti con costrutti contenenti sia

porzioni che l’intero locus umano per la β-globina, hanno portato a intuire la presenza

di un cis-controllo dello switching globinico: l’osservazione di elementi di regolazione

associati in “cis”, che controllano l’espressione dei geni beta-like ha rivelato una

molteplicità di motivi attivatori o repressori dell’espressione dei geni globinici ad ogni

appropriato stadio dell’accrescimento. Diversamente dall’LCR, gli elementi agenti in

cis svolgono funzione locale su regioni vicine di cromatina; in contrasto, LCR agisce su

lunghe distanze per attivare l’espressione dei geni globinici. Questi elementi cis-

regolatori sono rappresentati da:

1. Silencer: legano complessi proteici che interferiscono con l’attività del

promotore causando la riduzione dell’espressione genica. Un elemento silenziatore

posizionato distalmente nel promotore del gene per le ε-globine controlla la repressione

autonoma della loro espressione durante lo stadio fetale ed adulto. Le proteine GATA1

e YY1 costituiscono almeno due delle componenti comprese nel complesso di

repressione [19]. Inoltre, due elementi DR (direct repeat), localizzati prossimalmente,

nel promotore del gene per le ε-globine, legano una proteina di recente identificazione,

chiamata DRED (direct repeat erythroid-definitive binding protein), il cui legame

sembra interferire con il legame del fattore EKLF (erythroid Kruppel-like factor) al

promotore, provocando il silenziamento definitivo del gene per le globine ε in età

adulta.

2. Insulator: creano domini funzionali indipendenti che bloccano gli effetti negativi

esercitati dall’eterocromatina circostante, senza tuttavia intensificare o attivare la

trascrizione genica, e disturbano l’interazione tra un promotore ed un altro elemento di

regolazione solamente interponendosi tra questi. Gli elementi insulators possono,

inoltre, bloccare l’attività delle istone-deacetilasi. Infine, gli insulators facilitano

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l’attività di elementi enhancers collocati internamente ad una regione di cromatina

aperta. Un’ipotesi è che l’LCR abbia funzione di insulator, perchè è stato dimostrato in

cellule eritroidi che essa fa esprimere transgeni correlati, in modo indipendente dalla

posizione occupata; in particolare, il sito ipersensibile 5’HS5 dell’LCR potrebbe

svolgere attività di insulator.

3. MARs (matrix attachment region) e SARs (scaffold attachment region): sono

elementi di DNA che promuovono il legame alla matrice nucleare con il risultato di

ottenere la formazione di loops in sequenze contigue del DNA. Questi elementi possono

costituire una barriera proteggendo il locus dagli effetti della cromatina circostante e

imporre una restrizione strutturale al rimodellamento della cromatina; per questi motivi

il loop di DNA potrebbe essere un bersaglio dell’attivazione trascrizionale. I MARs

hanno la funzione di proteggere il DNA dagli effetti mediati dagli elementi che

agiscono in cis nei loops attigui quando la cromatina si decondensa, oppure hanno la

funzione di tenere uniti assieme i cis-elementi regolativi dei loops vicini. Inoltre,

possono promuovere la giustapposizione di elementi cis-regolatori e di promotori genici

all’interno dello stesso loop.

Dal momento che la regione 5’HS5 presenta delle omologie con le regioni MARs si

può attribuirle tale attività; questa ipotesi è ulteriormente supportata dal fatto che,

quando LCR è posizionalmente invertita, 5’HS5 potrebbe isolare i geni globinici

dall’interazione con l’LCR, causando il silenziamento della loro espressione. Sebbene il

ruolo di 5’HS5 rimanga controverso, si può assimilare la sua funzione a quella di un

elemento silencer piuttosto che insulator.

4. Boundary elements: possono essere posizionati a vari livelli internamente al

locus e assumere un ruolo limitante l’espressione genica quando associati a proteine.

Questi elementi sono caratterizzati da tre principali proprietà: la loro associazione con

elementi insulators, il mantenimento di un equilibrio tra la conformazione aperta e

quella chiusa della cromatina e la presenza sia di elementi di sequenze del dominio

terminale che di proteine di legame [8].

Molteplici meccanismi d’azione sono stati proposti per chiarire la funzione

dell’LCR; i primi modelli, basati su esperimenti condotti su topi transgenici,

suggerivano che lo switching globinico avvenisse seguendo meccanismi di

competizione e che i geni prossimali avessero un’interazione preferenziale con la

sequenza LCR. Questi modelli non hanno mostrato tuttavia la modalità e la via d’azione

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attraverso cui l’LCR prenderebbe contatto con i differenti geni globinici nel corso dello

sviluppo e della crescita [11].

Al centro di indagini più recenti sono state considerate sia l’azione esplicata

dall’LCR sul rimodellamento della cromatina, che il meccanismo attraverso il quale la

struttura della cromatina influisce sull’espressione genica. La cromatina è un

impaccamento ordinato di DNA in complessi chiamati nucleosomi che coadiuvano il

corretto porzionamento del materiale genetico tra le cellule figlie. La cromatina svolge

la sua azione di controllo sull’espressione genica alternando la sua struttura tra le

conformazioni dette “aperta” e “chiusa”. La forma “aperta” è generalmente DNAasi I

sensibile e iperacetilata, mentre la cromatina “chiusa” è insensibile all’azione delle

DNAasi I e ipoacetilata. La sua struttura è influenzata, inoltre, da parametri come la

natura delle sequenze di DNA e dallo stadio del ciclo in cui la cellula si trova. I

meccanismi che realmente correlano la struttura della cromatina alla regolazione

trascrizionale rimangono tuttavia di difficile comprensione. Le proteine che attivano il

processo di trascrizione possono raggiungere il DNA senza sconvolgere la struttura

impaccata dei nucleosomi, oppure possono richiedere l’assistenza di co-fattori che

modificano i nucleosomi per rendere il DNA più facilmente accessibile.

Oltre al rimodellamento della cromatina, nel controllo della trascrizione, svolgono

un ruolo importante: l’acetilazione, la fosforilazione e la metilazione del DNA. E’ stato

dimostrato che molti fattori di rimodellamento dei nucleosomi, che modificano la

struttura del DNA istonico, come ad esempio il complesso SWI/SNF (switch/sucrose

non–fermenting) ed il complesso CBP/p300 (CREB binding protein) sono in grado

d’interagire con fattori eritro-specifici, influenzandone sia la conformazione che

l’attività. Ad esempio, il complesso SWI/SNF di lievito ed il complesso NURF

(nucleosome remodeling factor) della Drosofila sono implicati nel rendere accessibile il

DNA ad altri fattori di trascrizione e nel renderlo disponibile per l’attivazione

trascrizionale (Fig. 6) [8].

Per quanto concerne il coinvolgimento dell’LCR nell’apertura della cromatina, il

ruolo dell’LCR nella modulazione della struttura cromatinica del locus β è stato chiarito

da alcune mutazioni responsabili della talassemia nell’uomo. Ad esempio, la talassemia

ispanica è dovuta alla delezione di 35 kb che circondano l’LCR e di 22 kb a monte di

esso. In questi pazienti la conformazione del locus β è “chiusa”, esso è DNAasi I

resistente e trascrizionalmente inattivo, a dimostrazione del fatto che l’LCR è

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effettivamente coinvolta sia nei processi di apertura della cromatina, che

nell’attivazione della trascrizione [8].

Fig. 6. Locus Control Region e regolazione dell’espressione globinica. Sembra che il meccanismo molecolare attraverso il quale l’LCR dirige l’espressione globinica sia la formazione di loops di DNA dovuti all’interazione di complessi multipli DNA-proteina coi singoli promotori per le diverse globine del cluster β secondo il modello schematizzato in figura.

Inoltre, è stato ipotizzato che i promotori per i geni globinici competano tra loro per

l’interazione con l’LCR durante il corso dello sviluppo. Applicando tale ipotesi allo

switching delle globine umane, si è supposto che durante il periodo fetale la

disponibilità di fattori specifici di quello stadio favoriscano l’interazione del gene per le

γ-globine con la sequenza LCR; mentre nel periodo adulto dell’eritropoiesi, fattori

specifici per l’età adulta avvantaggino l’interazione dell’LCR con il gene per le globine

β. Tuttavia, il meccanismo attraverso il quale LCR interagisce con i diversi geni

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globinici non è ancora pienamente definito; a tal riguardo sono stati proposti quattro

differenti modelli.

Secondo il “looping model” l’LCR si ripiega in un olocomplesso, in cui i nuclei

degli HS formano un sito attivo legante fattori di trascrizione e le sequenze

fiancheggianti tali nuclei costringono l’unità integrata dell’olocomplesso ad assumere la

giusta conformazione. Questa struttura forma un occhiello (loop), cosicché l’LCR si

associa strettamente al promotore del gene prossimale e agli elementi enhancers per

portare proteine di trascrizione che interagiscono con l’apparato di trascrizione basale,

già legato al promotore, attivando l’espressione globinica (Fig. 7).

Fig. 7. Regolazione dell’espressione globinica. Sembra che il meccanismo molecolare attraverso cui viene diretta l’espressione globinica sia la formazione di loop di DNA dovuti all’interazione di complessi multipli DNA-proteina coi singoli promotori dei geni per le diverse globine del cluster β [Figura tratta dal sito internet:www.utpb.edu/.../regulation/8_28.gif].

Una variante di questo modello propone l’LCR come un recettore multiplo di

elementi che funge da fulcro e punto di snodo per coordinare l’azione di fattori implicati

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nel rimodellamento della cromatina. Una volta iniziata l’attività di rimodellamento della

cromatina, LCR agisce direttamente sui geni situati a valle e ne facilita l’espressione.

Basandosi sull’evidenza che la delezione del nucleo 5’HS2 abolisce l’espressione

dei geni per le globine ε, γ e β, è stato proposto un modello secondo il quale le regioni

fiancheggianti rimanenti dell’HS2 sono in grado di interagire con le sequenze

fiancheggianti gli altri siti HS e assumere comunque la conformazione tipica

dell’olocomplesso. Se la delezione comprende sia il centro che le sequenze

fiancheggianti di HS2, l’espressione temporale dei geni rimane immutata, ma essa

avviene a livelli notevolmente ridotti. Ciò significa che i rimanenti siti HS sono

comunque capaci di adottare la conformazione dell’olocomplesso attraverso la

formazione di un sito attivo, ma che questo sarà leggermente meno efficente. Risultati

simili sono stati ottenuti in seguito alle osservazioni fatte dopo la delezione del nucleo

HS3 e di tal nucleo più le sequenze fiancheggianti; si è visto che il nucleo HS3 può

rimpiazzare dal punto di vista funzionale il centro di HS4, ma che non è possibile

realizzare il contrario.

Seguendo il “tracking model”, invece, fattori di trascrizione ausiliari e co-fattori

legano le sequenze dell’LCR formando un complesso di attivazione che migra in modo

lineare lungo il DNA. Quando il complesso di attivazione si imbatte nell’apparato di

trascrizione basale, situato sul promotore appropriato in base allo stadio di sviluppo, si

ottiene l’assemblaggio dell’apparato trascrizionale completo, evento dal quale consegue

l’inizio della trascrizione. Deacetilasi e metilasi interne al complesso riorganizzano la

cromatina dopo che il complesso ha attivato il processo di trascrizione, forse allo scopo

di limitare tale attivazione ad un particolare stadio di sviluppo.

E’ stato proposto, inoltre, un “facilitated-tracking model”, che combina insieme

aspetti appartenenti ai due modelli precedentemente descritti. Seguendo tale modello,

alcuni fattori trascrizionali sequenza-specifici legano le sequenze 5’HS dell’LCR ed il

complesso che ne deriva forma un loop in grado di prendere contatto con il DNA a

valle, in posizione prossimale rispetto al promotore del gene, dove il complesso di

fattori trascrizionali viene rilasciato. Successivamente, il complesso di attivazione slitta

fino a raggiungere gli elementi promotori appropriati e la trascrizione genica avrebbe

inizio.

Infine, il “linking model”, suggerisce l’esistenza di un legame stadio-specifico di

fattori di trascrizione e di proteine che facilitano la modificazione della cromatina. Il

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legame sequenziale di fattori di trascrizione lungo il DNA dirige cambiamenti

conformazionali della cromatina e delimita il dominio trascrizionale. Questi fattori di

trascrizione sono associati l’uno all’altro e costituiscono un “ponte”che collega l’LCR al

promotore del gene tramite proteine non leganti il DNA e “modificatori” della

cromatina. Nel locus β-globinico questo complesso proteico continuo può agganciare in

modo specifico l’LCR al gene globinico β-like, che viene quindi trascritto [8].

I differenti modelli di funzionamento dell’LCR proposti sono stati riassunti e

schematizzati in Fig. 8.

Fig. 8. Modelli proposti per spiegare il meccanismo d’azione dell’LCR nella regolazione dei geni globinici. Il gene viene indicato in figura dal rettangolo verde, mentre il corrispondente promotore è in azzurro. I piccoli box colorati rappresentano i quattro siti HS eritro-specifici. Le sequenze fiancheggianti i siti HS sono descritte come loop tra i core degli HS stessi. Le frecce viola simboleggiano la trascrizione e gli ovali e cerchi sono i fattori di rimodellamento della cromatina [Figura tratta da: Susanna Harju, Kellie J.McQueen, Kenneth R.Peterson- “Cromatin structure and control of β-like globin gene switching”-Exp Biol Med Vol. 227 (9): 683, 700, 2002].

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Il fatto che l’LCR esplichi la sua influenza mediante meccanismi di competizione,

suggerisce che essa sia incapace di interagire e stimolare l’attività di più geni

contemporaneamente. Questo può essere spiegato dal fatto che i singoli elementi HS

dell’LCR si uniscono tra loro per formare un complesso, che a turno li pone in contatto

con i differenti geni. Pertanto si è portati a pensare che i siti HS abbiano una diversa

specificità di sviluppo e che i geni competano per il legame ad un determinato elemento

specifico in base allo stadio di sviluppo del momento.

Recentemente sono stati condotti studi su topi transgenici per chiarire se i siti

ipersensibili dell’LCR interagiscono con i geni in modo differente gli uni dagli altri e se

effettivamente essi hanno un ruolo sviluppo-specifico. I risultati hanno dimostrato che il

comportamento individuale dei siti HS è differente nei confronti dei geni per le γ- e β-

globine , supportando l’ipotesi che l’attività di LCR non sia neutrale, ma dipendente

appunto dallo stadio di accrescimento. Di notevole interesse è stata la scoperta che

identifica nell’HS3 l’unica porzione di LCR capace di dirigere l’espressione delle

globine γ nel fegato in età fetale; questo ha portato alla conclusione che HS3 possa

essere il sito per il quale i geni per le globine γ e β competono durante lo sviluppo nel

periodo fetale. Nello stadio adulto, quando è maggiormente attiva l’espressione del gene

per quelle di tipo β, è HS4 il sito formante interazioni più stabili col gene e che quindi

ne dirige l’espressione. La combinazione di queste osservazioni sperimentali porta alla

conclusione che in concomitanza con lo switch tra le globine γ e β, durante il passaggio

feto-adulto, avviene anche uno switch funzionale tra i siti HS3 e HS4 [10].

1.d. Fattori trascrizionali e proteine coinvolte nella regolazione

dell’espressione dei geni globinici.

Sebbene i meccanismi molecolari caratterizzanti l’espressione differenziale dei

geni globinici non siano ancora pienamente e completamente chiari, sono coinvolti in

maniera decisiva e importante sia elementi promotori situati a monte dei geni, che

enhancers con attività eritro-specifica. Questo ruolo essenziale potrebbe essere mediato

dall’azione di diverse interazioni proteina-DNA o proteina-proteina, come è stato già

dimostrato per altri sistemi di regolazione genica eucariota. Di conseguenza,

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l’identificazione di sequenze leganti fattori di trascrizione, rappresenta un passo

essenziale per la comprensione del meccanismo di switching globinico [7].

Anche i vari stadi del ciclo cellulare sono responsabili del diverso grado di

accessibilità di un gene agli stessi fattori di trascrizione; durante il rimodellamento della

cromatina, infatti, avviene l’acetilazione degli istoni, che cambia nei diversi momenti

del ciclo cellulare ed è legata alla sua progressione. L’acetilazione avviene a livello dei

residui di lisina interni agli istoni e neutralizzandone il carattere basico si causa

l’alterazione dell’intera struttura del DNA; la distruzione del contatto tra DNA e

nucleosoma, permette l’accesso ai fattori di trascrizione e apre l’opportunità che

conduce all’attivazione trascrizionale.

Similmente all’acetilazione, il processo di fosforilazione dell’istone H3 interrompe

l’interazione DNA-nucleosoma e aumenta la possibilità di accesso dei fattori di

trascrizione al DNA. La fosforilazione di H3 è mediata dalla MAP chinasi e coincide

con il momento dell’espressione genica precocissima; l’attività della MAP chinasi viene

indotta in seguito a fattori di stress come ad esempio temperature elevate, cambio di

osmolarità, mancanza di nutrienti o diminuzione di ossigeno.

Con esperimenti di footprinting è stato possibile indagare un eventuale

coinvolgimento ed il ruolo della metilazione del DNA in queste interazioni proteina-

DNA. In effetti, è stato osservato e concluso che queste interazioni specifiche sono

ostacolate e impedite a livello dei nucleosomi a causa della locale deacetilazione degli

istoni mediata dalla metilazione del DNA [17]. Tuttavia, anche la fosforilazione

rappresenta un modo per regolare l’attività dei fattori di trascrizione. Un esempio è

rappresentato dai fattori GATA-1 e NF-E2 (nuclear factor erytroid 2), che risultano

fosforilati, ma per quanto riguarda GATA-1 questo non sembra influenzarne il legame

al DNA, mentre la fosforilazione di NF-E2, mediata dal complesso Ras-Raf-MAPK,

aumenta l’efficienza di legame ATP-dipendente di questo fattore al promotore genico

per le β-globine e al sito 5’HS2 dell’LCR [8].

Uno dei principali meccanismi effettori dell’espressione globinica nelle cellule

eritroidi è mediato dalla presenza e dall’azione di fattori di trascrizione altamente

specifici come GATA1,CP1/NF-Y (leganti il CAAT box) e NF-E3 (nuclear factor

erytroid 3), che riconoscono definite sequenze presenti in diversi siti del locus

globinico, incluso il promotore del gene per le γA.

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Sia l’LCR che i cis-elementi hanno la funzione di fornire siti di legame per i fattori

proteici e favorire l’accesso a queste sequenze di DNA direttamente in corrispondenza

dei siti HS, ma nella cascata della regolazione genica degli eucarioti, anche gli elementi

che agiscono in trans giocano un ruolo importante [8]. Il maggior passo in avanti in

questo campo d’indagine è relativo alla scoperta di nuovi fattori di trascrizione regolanti

l’espressione genica delle globine γ e β durante le diverse fasi di sviluppo [6]. Il

silenziamento competitivo, durante lo stadio fetale, del gene per le catene β da parte di

un gene per le γ ad esso correlato, sembra essere mediato in parte da SSE (stage selector

element), un elemento localizzato in una regione a -50 dal promotore del gene per le γ-

globine. SSE giace in posizione immediatamente adiacente al γ-TATA box e viene

riconosciuta e legata da un complesso di fattori di trascrizione fetali/eritroidi noto come

SSP (stage selector protein). La sequenza SSE contribuisce, sia in linee cellulari umane

che in modelli murini, all’espressione preferenziale del gene per le γ-globine; questa

sequenza permette infatti l’interazione preferenziale di questo promotore genico con il

sito ipersensibile HS2 dell’LCR causando il silenziamento del promotore genico per le

β-globine. L’attività della sequenza SSE è stata correlata con il suo legame da parte

della proteina SSP (SSE binding protein), fatto enfatizzato anche da studi di footprinting

filogenetici ed evoluzionistici che hanno dimostrato la perdita dei siti di legame per SSP

nelle specie non esprimenti γ-globina allo stadio fetale [18, 20]. SSP costituisce un

complesso che include la proteina ubiquitaria CP2 (CAAT binding protein 2), riconosce

la sequenza SSE del promotore del gene per le globine γ e lega il motivo CAAT

formando un eterodimero con una proteina partner del peso di 45 kD. Con tecniche di

co-immunoprecipitazione è stata recentemente identificata questa proteina denominata

NF-E4 (nuclear factor erytroid 4) [11]. CP2, appartenente alla famiglia di geni

“grainhead” della Drosophila, lega come dimero il motivo CNRG(N5-6)CNRG sul

DNA, presente in vari promotori cellulari e virali, e consiste in omo/eterodimeri di

molteplici isoforme proteiche, prodotte in seguito a fenomeni di splicing alternativo dai

differenti loci genici LBP-1c e LBP-1a. CP2 sembra essere coinvolto nell’espressione

eritroide fetale del gene γ-globinico attraverso la formazione di un dimero con la sua

controparte NF-E4 [21]. Quest’ultimo, la cui attività è eritro-specifica, sembra conferire

la specificità di legame all’SSE e la preferenziale attivazione del promotore del gene per

le γ rispetto al quello per le β-globine [18]. Infatti, nei precursori eritroidi isolati da

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sangue derivato da cordoni ombelicali, il gene per le globine β risulta soppresso, mentre

l’espressione genica per le γ aumenta; mentre è stato dimostrato che in presenza di

NF-E4 l’interazione del promotore del gene per le β-globine con l’LCR viene

avvantaggiata e altri fattori necessari all’espressione del gene pee le γ-globine

diminuiscono progressivamente durante lo stadio adulto [11, 20].

Il sito di legame per il fattore di trascrizione ubiquitario CP2 si trova in una zona

adiacente a quella riconosciuta e legata dal fattore GATA-1, che riveste una notevole

importanza dal punto di vista funzionale, soprattutto per quanto riguarda l’attività di

altri promotori di geni relati al differenziamento eritroide, come EKLF ed NF-E2. Il

CP2 lega la regione enhancer di GATA-1 HS2, generando così un complesso ternario

con GATA-1 e il DNA. Anche in altri geni appartenenti alle cellule della linea

emopoietica i siti legati da GATA-1 e da CP2 sono situati in posizione adiacente.

Tuttavia l’interazione fisica tra i due fattori è risultata indipendente dalla presenza del

DNA, come dimostrato con esperimenti di immunoprecipitazione. Il ruolo comune

svolto dai due fattori di trascrizione suggerisce la possibilità che la loro attività venga

esplicata mediante un meccanismo di cooperazione reciproca [21].

Tra i vari fattori proteici coinvolti nell’espressione sviluppo-specifica delle cellule

eritroidi, uno è rappresentato da EKLF (erytroid Kruppel-like factor), un fattore di

trascrizione contenente motivi a “zinc finger”, il quale lega con alta affinità il motivo

CACCC appartenente al gene per le catene β e, per contro, dimostra invece una scarsa

forza di legame per la stessa sequenza CACCC presente in quello per le catene γ,

provocando di conseguenza un’attivazione preferenziale delle β-globine; pertanto EKLF

è considerato un regolatore specifico dell’espressione specifica di questo gene in età

adulta [6]. L’mRNA di EKLF è stato isolato per la prima volta da cellule eritroidi e questo ha

dimostrato che esso è un fattore eritro-specifico [22]. Essendo il fattore EKLF

maggiormente espresso negli stadi avanzati dello sviluppo, esso si comporta come un

fattore di switching verso lo stadio adulto [6]. Sembra infatti che esso sia coinvolto

quantitativamente nello switch e nella competizione tra i geni globinici γ e β. Il CACCC

box sembra però non essere l’unico sito di legame per EKLF, infatti anche il sito 5’HS3

dell’LCR può costituire un bersaglio di legame per questo fattore [8]. Inoltre, sono stati

condotti degli esperimenti in vivo e in vitro per dimostrare che EKLF è una

fosfoproteina la cui proprietà di legame al DNA nell’attivazione trascrizionale è

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dipendente dal suo stato di fosforilazione (tra le chinasi coinvolte in questa funzione di

particolare interesse è la caseina chinasi II) [22].

Ricerche compiute nel corso degli ultimi anni hanno attestato che vi sono anche

altri fattori, oltre ad EKLF, influenzanti la corretta trascrizione di β-globine; tra questi è

stata identificata una nuova proteina "zinc-finger", chiamata UKLF (ubiquitans-kruppel-

like-factor). La porzione carbossi-terminale di UKLF contiene tre regioni a "zinc-

finger" di tipo Cys2-Hys2 e si lega in vitro alla sequenza CACCC del promotore della

β-globina e alla sequenza riconosciuta da Sp1, mentre la porzione ammino-terminale di

UKLF è caratterizzata da una regione idrofobica ricca in serine e da un segmento carico

negativamente con molti residui di acido glutammico. I primi 47 aminoacidi della

regione acida sono molto simili alla porzione ammino-terminale di un altro fattore

"kruppel-like", CPBP o ZF9 (core-promoter-binding-protein). Come ZF9, anche UKLF

può funzionare da attivatore trascrizionale, attività che viene persa quando la parte

ammino-terminale altamente conservata viene deleta [22].

Direzionando la ricerca verso l’individuazione di fattori fetali con azione simile a

EKLF sono stati isolati altri due fattori: FKLF (fetal Kruppel-like factor), attivo

principalmente sul gene per le ε-globine, e FKLF-2, la cui attività è diretta verso il gene

per quelle di tipo γ. Tuttavia il ruolo rivestito da questi due fattori nel processo dello

switching necessita di ulteriori chiarimenti, poiché la loro espressione non sembra

esseere eritro-specifica [6]. FKLF ha la capacità di incrementare, in modo

predominante, l’espressione genica di ε e, in minor misura, di γ, ma non riesce però ad

attivare altri geni eritroidi contenenti CACCC o GC box. Ultimamente è stato

identificato e clonato un nuovo fattore, FLKF-2, un forte trans-attivante, che aumenta

l’espressione del gene per le γ-globine di oltre 40 volte, sei volte la trans-attivazione

operata da FKLF. FLKF-2, però, non è un attivatore specifico dell’espressione del gene

per le globine γ, in quanto ha dimostrato di essere in grado di attivare anche i geni per le

ε e β attraverso il TATA box o una sequenza vicina, sebbene in misura minore [11].

Come già precedentemente descritto, la regolazione dell’espressione dei geni

globinici costituisce un interessante quanto elaborato modello di studio; tale regolazione

subisce l’influenza esercitata dall’LCR che possiede sequenze per il legame sia di fattori

eritro-specifici, che fattori regolativi più generali, come Sp1. La formazione di un sito

trascrizionalmente attivo a livello della cromatina riguarda sia modificazioni istoniche,

che un cambio dinamico dei fattori di trascrizione coinvolti. Tramite l’analisi condotta

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su fegati di feto umano si è indagato il grado di reclutamento di FKLF-2, Sp1 e fattori

correlati al locus globinico β umano, allo scopo di investigare e comprendere a pieno la

funzione svolta dal fattore di trascrizione Sp1. La proteina ubiquitaria Sp1, contenente

dei motivi a “zinc-finger”, è uno dei fattori di trascrizione appartenenti alla famiglia

Sp1/XKLF che legano sequenze ricche in GC e GT box; tali motivi possono essere

riscontrati in varie sequenze regolative tessuto-specifiche, come quelle appartenenti al

promotore β-globinico. Sono stati descritti più di venti membri appartenenti a questa

famiglia e tutti quanti presentano un dominio di legame con il DNA avente un motivo a

“zinc-finger” Cys2Hys2 conservato, che si trova all’estremità carbossi-terminale.

Inoltre, tutti i fattori della famiglia riconoscono gli stessi GC e GT box, sequenze molto

importanti in quanto coinvolte nell’espressione di geni tessuto-specifici, geni

housekeeping e geni virali.

Al fianco di fattori espressi ubiquitariamente come Sp1, Sp3 e UKLF, questa

famiglia comprende una serie di proteine come LKLF e BKLF che sono espresse in

maniera tessuto-specifica. Perciò, è probabile che il controllo esercitato da tali fattori

sulla trascrizione genica derivi da una competizione o da una loro cooperazione per

l’interazione con gli stessi siti di legame. Un caso molto esemplificativo a tal proposito

è quello di BKLF e EKLF, entrambi fattori eritro-specifici: EKLF attiva la trascrizione

del gene per le β-globine, mentre BKLF, un repressore della trascrizione di ε-, γ- e

β-globine, mantiene l’opportuno livello di espressione dei geni globinici beta-like.

I risultati analizzati hanno portato a pensare che nelle cellule eritroidi progenitrici

che non esprimono geni globinici, i GC e GT box dell’LCR siano occupati dal legame

con Sp1, che richiama l’azione dell’istone-deacetilasi-1 (HDAC1) e mantiene la

cromatina in uno stato strutturale “chiuso” e, allo stesso tempo, impedisce a FKLF-2 di

svolgere la sua funzione e di reclutare l’istone acetiltransferasi (PCAF) [23].

Nel corso dell’ematopoiesi, il fattore Sp1 viene fosforilato al terminale amminico e

questo evento porta come risultato un aumento nella trascrizione genica, mentre la

fosforilazione della treonina in posizione 579 è correlata direttamente all’inattivazione

di Sp1. Infatti, il fattore nella forma fosforilata viene spiazzato dal suo legame a favore

di FKLF-2 con conseguente attivazione di PCAF che, acetilando gli istoni, attiva la

trascrizione del gene per le globine γ [23].

Un simile meccanismo potrebbe essere coinvolto nell’espressione genica di catene

β durante l’età adulta; la perdita del legame Sp1 alla sequenza LCR permetterebbe a

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EKLF di richiamare l’olocomplesso composto da altri fattori di trascrizione ed elementi

di inizio trascrizione β-globinica. E’ stato notato che l’acetilazione degli istoni differisce

a seconda della regione coinvolta; infatti, dopo l’induzione dell’acetilazione, nel sito

HS2 si è osservato l’incremento dell’acetilazione del solo istone H3, mentre per quanto

riguarda il sito ipersensibile HS3, sia l’istone H3 che l’H4 subiscono acetilazione.

Questa evidenza sperimentale suggerisce che istoni di regioni differenti, vengono

acetilati in tempi diversi e reclutano fattori di trascrizione differenti, per assemblare

insieme in modo sequenziale il complesso di pre-iniziazione [24, 25, 26].

Il legame di Sp1 è coinvolto, inoltre, nel mantenimento dello stato silente del gene

per le β-globine; sia Sp1 che EKLF, infatti, se legati all’LCR possono causare la

repressione del processo di apertura e dispiegamento dell’eterocromatina nelle cellule

eritroidi. Il sito HS5 dell’LCR sembrerebbe essere un elemento insulator nel locus β,

fatto supportato anche dall’evidenza di un suo legame con Sp1, che porta ad impedire

l’allargamento della struttura dell’eterocromatina al di fuori del locus, mentre ne

mantiene la conformazione aperta in corrispondenza dei siti HS2, HS3 e HS4, cosicchè

ad essi sia permessa l’interazione con il promotore per le β-globine mediante fattori di

trascrizione [23].

Gli effetti esplicati dall’associazione dei fattori Sp1 e Sp3 sono apparentemente

variabili nei diversi geni; Sp1 può agire, ad esempio, come attivatore dell’espressione di

geni housekeeping sui quali, al contrario, Sp3 agisce da repressore. D’altronde, nelle

cellule somatiche umane, Sp1 e Sp2 cooperano per l’interazione con il promotore al fine

di reprimere la trascrizione del gene umano della telomerasi-trascrittasi-inversa,

similmente a quanto si è osservato per il locus β umano. In tessuti differenziati come

cervello, polmoni e fegato, Sp1 ha dimostrato di essere in forma altamente fosforilata

per rilasciare l’inibizione della trascrizione dei geni tessuto-specifici. Al contrario, nelle

cellule tumorali o nelle cellule di fegato in rigenerazione, Sp1 si presenta defosforilato,

in modo tale che il suo legame sia possibile e che inibisca così l’espressione genica

tessuto-specifica e il differenziamento finale di queste cellule [27].

Esperimenti condotti su topi knockout, hanno evidenziato che la maggior parte dei

geni contenenti siti di legame per Sp1 si esprimono normalmente, ma

contemporaneamente è stata osservata morte prematura degli embrioni. Senza la

repressione esercitata da Sp1, fattori tessuto-specifici che agiscono in trans come

FKLF-2 e EKLF, possono attivare prima del tempo la trascrizione genica tessuto-

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specifica; negli embrioni, questa espressione genica inappropriata, conduce alla morte

nei primi stadi di sviluppo [23].

Un ruolo di influenza sullo switching emoglobinico potrebbe essere giocato anche

da COUP-TFII o NF-E3 (chicken ovalbumin upstream promoter-transcription factor

II), un recettore “orfano” per l’acido retinoico, che corrisponde all’attività eritro-

specifica di legame di NF-E3 [6]. Esso ha sia funzione di repressore che di attivatore ed

è coinvolto nello switching globinici, dove reprime l’espressione del gene ε nelle cellule

eritroidi fetali. E’ stato osservato nei topi che COUP-TFII lega, sui promotori dei geni

per le catene ε e γ, gli stessi siti di DRED (direct repeat erytroid definitive protein), un

repressore del gene per le ε, che sembra impedire il legame di EKLF al suo promotore

causando il silenziamento definitivo di tale gene durante l’eritropoiesi.

Conseguentemente a tale legame COUP-TFII favorisce la repressione dell’espressione

di tali geni e il suo ruolo nel silenziamento del gene ε è dimostrato anche dagli alti

picchi di questo fattore registrati nei topi al momento dello switch evolutivo tra feto e

adulto [8].

TFII-I e USF sono proteine ubiquitarie con motivo a “elica-loop-elica”, coinvolte

nella regolazione della trascrizione di geni contenenti E-box o sequenze iniziatrici.

USF1 e USF2 sono proteine strettamente correlate che interagiscono con il DNA

sia come omo- che come eterodimeri. Essi legano motivi E-box, situati nelle vicinanze

o talvolta a valle di siti di inizio della trascrizione, e aiutano la formazione dei

complessi di trascrizione. Una recente indagine genomica condotta su geni di

Drosophila ha rivelato che essa contiene nel genoma elementi E-box localizzati a circa

60 bp a valle rispetto al sito di inizio della trascrizione [28].

USF e TFII-I possono agire tanto da attivatori, quanto da repressori della

trascrizione, in dipendenza dalle proteine con cui interagiscono e dalle sequenze

promotrici con le quali prendono contatto. TFII-I, in particolare, agisce complessandosi

con l’istone deacetilasi 3 (HDAC3) e, insieme a questa, lega il promotore del gene per

le globine β. Questo è coerente con l’osservazione che l’acetilazione della regione

promotrice del gene β risulta fortemente ridotta nelle cellule eritroidi con fenotipo

embrionale [29].

Dopo aver verificato l’interazione di entrambi i fattori con il nucleo del promotore

genico per le β-globine, sia in vivo che in vitro, si è osservato che il contatto preso da

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TFII-I è maggiore nelle cellule eritroidi in cui il gene per le β risulta represso [30].

Inoltre, è stato possibile dimostrare, con esperimenti successivi, che la riduzione

dell’attività di TFII-I porta a una de-repressione del gene per le catene β nelle cellule

eritroidi [29].

Essendo l’interazione di TFII-I più pronunciata nelle cellule in cui il gene per le

globine β non viene espresso, si è concluso che tale fattore agisca come repressore

dell’espressione di questo gene. In contrasto con questo fatto, USF1 e USF2

interagiscono efficacemente con il gene β-globinico nelle cellule in cui tale gene viene

espresso. Altri studi hanno dimostrato che USF interagisce con un E-box

funzionalmente importante localizzato presso l’HS2 dell’LCR [29].

NF-E2, appartenente alla famiglia delle proteine “basic-region-leucina zipper”,

venne identificato inizialmente in estratti di cellule eritroidi umane e di altri animali;

essa è una proteina di legame eritro-specifica che riconosce motivi AP1-simili

dell’5’HS2 dell’LCR [2].

Questo fattore di trascrizione è un eterodimero composto da proteine che

presentano motivi a “leucina-zipper”: la subunità “p45 di NF-E2” di 45 kD, mentre

la”p18 small Maf protein” pesa18 kD; oltre a questa sono coinvolte nel processo

dell’eritropoiesi almeno altre tre small Maf protein: Maf G, F e K. Entrambe le subunità

appartenenti a NF-E2 sono specifiche per linee cellulari ematopoietiche. Il legame di

NF-E2 al DNA sembra essere stimolato in modo specifico dall’azione della Ras-Raf

MAP chinasi. Le proteine Maf, allo scopo di legare la subunità p45 di NF-E2, possono

legare altre proteine denominate MAREs (Maf recognition elements), formando

omodimeri, oppure eterodimeri in associazione a fattori di trascrizione non eritroidi

come Fos, coinvolto nell’espressione di geni precocissimi in svariate linee cellulari [31].

L’interazione delle differenti componenti proteiche Maf con la subunità p45 è alla base

della modulazione del potere di trans-attivazione esercitato dal complesso NF-E2;

inoltre, la competizione tra Fos, NF-E2 e altri fattori di trascrizione per l’interazione con

le subunità Maf può essere considerato uno dei meccanismi alla base del

differenziamento nelle cellule eritroidi [8].

Mediante studi funzionali è stato stabilito che la presenza di siti di legame per

NF-E2 e MAREs all’interno della β-LCR, è importante per l’attivazione trascrizionale

e per la formazione dei siti ipersensibili nella stessa LCR [8].

32

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Topi omozigoti per la delezione del gene codificante la subunità p45 muoiono

immediatamente dopo la nascita per trombocitopenia, sebbene la loro espressione

globinica risulti essere normale; questo fatto suggerisce, evidentemente, l’esistenza di

un’altra proteina che può sostituire funzionalmente p45 nel ruolo che essa riveste

nell’attivazione della sintesi globinica [32]. Come possibili sostituti funzionali della

porzione p45 de NF-E2 nei topi, sono state proposte le due proteine “cap’n’collar”

Nrf-1 e Nrf-2 [8].

L’attivazione della subunità p45 è stimolata, sia nelle cellule eritroidi che non,

dalla serin-treonin-chinasi PKA (protein-chinasi AMPc-dipendente). Lo schema di

trasduzione del segnale mediato dall’AMPciclico, ha dimostrato essere in grado di

promuovere la produzione di emoglobina nelle linee cellulari sensibili all’eritropoietina,

mentre la PKA si è rivelata necessaria per l’espressione genica eritroide. L’attivazione

di p45 da parte della PKA richiede solo la trans-attivazione del terminale amminico del

dominio p45 [33].

In aggiunta, NF-E2, è in parte regolata dalla protein chinasi C (PKC), che influenza

anche l’attività enhancer della sequenza 5’HS2 dell’LCR; la presenza di sequenze di

legame in tandem per NF-E2 all’interno dell’LCR è importante per mediare questo

segnale a cascata. NF-E2 può modulare la trascrizione attraverso l’interazione diretta

con l’apparato di trascrizione basale TATA-binding protein-associated factor

(TAFII130). Questo suggerisce che ci possa essere una diretta interazione fisica tra

fattori di trascrizione legati al β-LCR e l’apparato di trascrizione basale legato al

singolo promotore mediante NF-E2 [33].

E’ stato provato che l’interazione tra la proteina CBP/p300 (CREB binding

protein) e NF-E2 ha come effetto l’aumento dell’attività di CBP/p300 nucleosomal HAT

(istone acetil transferasi) e, di conseguenza, l’acetilazione di NF-E2; perciò il fattore di

trascrizione eritroide NF-E2 influenza l’attività del complesso di rimodellamento della

cromatina CBP/p300; NF-E2 può essere considerato quindi un iniziatore generico

dell’espressione globinici [34].

L’ultimo fattore coinvolto nello switching è il fattore PYR, un complesso di

parecchie proteine chiamato SWI/SNF (switching and/or sucrose non fermentator), che

promuove il rimodellamento e la modificazione della cromatina. Il complesso

SWF/SNF è implicato nella regolazione della struttura della cromatina per

assemblaggio e mobilitazione dei nucleosomi tramite rottura e ristabilimento dei

33

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contatti esistenti tra istoni e DNA. Le subunità che compongono questo complesso sono

variabili, indicando un’elevata specificità nel controllo dei differenti loci genici [8].

PYR è un fattore coinvolto tipicamente nello stadio adulto dell’eritropoiesi e lega una

regione di DNA ricca in pirimidine che giace tra i geni per le globine γ e β, zona dalla

quale può reprimere l’espressione del gene per le globine γ ed attivare quella del gene

per le globine β; il suo legame è dipendente tanto dalla sequenza nucleotidica, quanto

dalla lunghezza della regione. Il complesso PYR può legare i boundary elements ε/γ-

δ/β, influenzando il cambio della struttura cromatinica del locus durante lo switch tra γ-

e β-globine [6,8]. La delezione della sequenza riconosciuta da PYR causa uno switching

prolungato e ritardato; la componente di PYR adibita a legare il DNA è rappresentata

dal fattore di trascrizione a “zinc finger” Ikaros, precedentemente noto come fattore

tipicamente linfoide e normalmente coinvolto nello sviluppo delle cellule B e T [6]. In

aggiunta, questo complesso comprende un elemento repressore, detto NURD

(nucleosome-remodeling deacetylase) che riveste sia la funzione di deacetilazione che

quella di rimodellamento dei nucleosomi [6,8].

Malgrado i numerosi studi rivolti ai promotori dei geni umani per le β- e γ-globine

e le conoscenze riguardanti i geni alfa-like, non sono disponibili altrettante informazioni

invece sul gene umano per le globine embrionali ε. Precedenti esperimenti di

trasfezione hanno dimostrato l’esistenza di una regione di DNA situata 180 bp a monte

del gene umano per le ε-globine in grado di dirigerne l’inizio di trascrizione sia in

cellule eritroidi che non. La definizione dei siti di legame per fattori nucleari che

ricadono all’interno della regione promotrice del gene per le catene ε è essenziale per la

comprensione dei meccanismi molecolari coinvolti nella regolazione dell’espressione di

tale gene. Nella sua regolazione sono coinvolti come minimo quattro differenti proteine

leganti il DNA: NF-E1, un fattore eritro-specifico, la proteina ubiquitaria εF1, un’altra

proteina ubiquitaria specifica per il legame al CACC box ed infine la proteina CBF [7].

E’ stato dimostrato che, similmente a quanto accade per la β-globina adulta, il

motivo CACCC del gene ε è essenziale come elemento promotore. Sono stati effettuati

esperimenti di footprinting con DNAasi I, sia in presenza di estratti nucleari che della

proteina purificata, che hanno confermato che Sp1 è la principale proteina legante il

motivo CACC. I risultati ottenuti hanno evidenziato inoltre il legame specifico di Sp1 al

CACC box del promotore per il gene per le globine fetali γ [7]. Il gene per le ε-globine

34

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mantiene quindi, rispetto agli altri, una regolazione autonoma, attribuibile sia ai siti di

legame per Sp1 compresi in una regione di 200 bp a monte del gene, che a sequenze di

legame per GATA-1, avendo dimostrato un incremento dell’espressione di catene ε

dovuta a mutazioni nei siti per GATA-1, che fa pensare ad un suo ruolo come

repressore del gene stesso [6].

GATA-1 è un fattore di trascrizione eritro-specifico richiesto per lo switching

globinico e per la maturazione delle cellule eritroidi; esso appartiene alla famiglia di

fattori “GATA zinc-finger”, che è caratterizzata dall’abilità di legare la sequenza

consenso WGATAR. Siti di legame per GATA-1 sono stati trovati sui promotori dei

geni globinici e nei siti ipersensibili nel core dell’LCR 5’HS1-5. In dipendenza dal

contesto in cui si trova la sua sequenza di legame e dalla sua interazione con altre

proteine, le funzioni esplicate da GATA-1 possono essere sia di attivazione che di

repressione dell’espressione genica [8]. La regolazione trascrizionale operata da

GATA-1 è coordinata da molteplici elementi regolatori localizzati in 5’ rispetto al sito

d’inizio della trascrizione e all’interno del primo introne; questa regione regolativa,

riporta al suo interno un sito ipersensibile HS2 e un doppio motivo GATA, essenziale

per l’attività promotrice eritroide [21]. GATA-1 lega molti geni eritro-specifici, tra cui i

geni globinici, tanto che sono stati riscontrati nelle regioni 3’ e 5’ immediatamente

fiancheggianti il gene umano per la β-globina (Fig. 9), almeno sei diversi siti di legame

per GATA-1, ma la loro sola presenza non è di per sé sufficiente a garantire

un’espressione indipendente dalla posizione. I siti di legame per GATA-1 si trovano

molto vicini tra loro e la loro delezione dall’elemento promotore impedisce l’induzione

dell’espressione del gene per le β-globine dimostrando il coinvolgimento di GATA-1

nell’attivazione del meccanismo di trascrizione di questo gene [10].

Esperimenti recenti hanno dimostrato e messo in luce che la combinazione minima

richiesta per garantire un’espressione genica posizione-indipendente non dipende tanto

dalla vicinanza dei due siti di legame per GATA-1, quanto piuttosto dal fatto che

accanto a tali siti ci siano da entrambe la parti regioni particolarmente ricche in G,

spesso legate efficacemente dal fattore Sp1, fatto che implica il coinvolgimento anche di

questa proteina nella trascrizione eritro-specifica [10]. GATA-1 agisce da attivatore

quando lega il promotore genico per le γ-globine o i siti ipersensibili HS; sebbene esso

normalmente attivi l’espressione di ε-globine, funge anche da repressore per questo

35

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stesso gene quando, in presenza del fattore ubiquitario YY1, lega il repressore genico

[19].

400 bp

Fig. 9. Modello di trascrizione genica globinica. La figura mostra l’organizzazione dei siti di legame e dei fattori di trascrizione principali coinvolti nella regolazione genica e descritti in dettaglio nel testo [Figura tratta dal sito www.utpb.edu].

Il fattore GATA-1 omodimerizza e interagisce con altri fattori di trascrizione quali

SP1 e EKLF; inoltre, tra le proteine che interagiscono direttamente con GATA-1, è stato

identificato FOG (friend of GATA-1), il quale presenta nove domini “zinc fingers”, con

il sesto dei quali lega GATA-1, mentre non lega per niente il DNA. Il fattore FOG viene

co-espresso con GATA-1 durante lo sviluppo embrionale sia nelle cellule eritroidi, che

nei megacariociti. Analisi condotte su linee cellulari e topi transgenici privati di FOG,

hanno dimostrato che la mancanza di questa proteina conduce ad una eritropoiesi

primitiva difettiva [35, 36].

GATA-1 interagisce in vitro anche con CBP/p300 e questo legame causa un’estesa

rottura tra istoni e DNA, suggerendo che la formazione del complesso GATA-1/DNA è

una delle fasi fondamentali per l’interazione con i siti HS [8].

Il fattore denominato GATA-2, invece, è essenziale per l’ematopoiesi embrionale

ed è espresso in svariati tessuti, tra cui le cellule endoteliali. Nonostante GATA-1 e

GATA-2 riconoscano motivi simili, sembrano avere ruoli diversi nella regolazione del

gene per le β-globine. Nei precursori ematopoietici precoci, infatti, il fattore

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maggiormente espresso è GATA-2, mentre nelle fasi tardive di sviluppo predomina

l’espressione di GATA-1. La perdita totale della funzione di GATA-2 causa un’anemia

embrionale mortale, dovuta ad un’ingente deficienza di cellule ematopoietiche primitive

e pluripotenti [37].

1.e. Il gene umano per le γ-globine.

Allo scopo di identificare gli elementi richiesti per l’interazione a distanza tra

promotori ed enhancers, si è posta sotto analisi l’interazione dei promotori per le

globine γ legati alla sequenza enhancer 5’HS2 in forma wild- type, mutata e troncata.

All’interno dell’LCR, il sito 5’HS2 si comporta come un potente elemento enhancer, sia

nel caso dell’espressione transiente, che in esperimenti condotti su topi transgenici ed è

sufficiente a garantire in quest’ultimi l’appropriata espressione di un cluster globinico.

Analizzando 5’HS2 sono stati identificati siti tandem AP1/NF-E2 ed è stato dimostrato

che la presenza di un frammento di 46 bp contenente questi siti, costituisce una

condizione necessaria e sufficiente affinché ci sia la stimolazione dell’espressione di un

gene reporter γ-globinico correlato [38].

Studi recenti hanno diviso la sequenza HS2 in un core enhancer e in cinque domini

modulatori, al fine di identificare le regioni effettivamente necessarie all’interazione

produttiva con il promotore del gene per le γ-globine. E’ stato rivelato che diversi

subdomini modulano l’incremento dell’attività promotrice, sia positivamente che

negativamente in dipendenza dai vari stadi di sviluppo [39]. Tale interazione sembra

essere richiesta per ottenere la formazione di un complesso di trascrizione attivo che

contenga sia l’LCR, che i promotori dei singoli geni. Nel modello proposto gli elementi

promotori rivestono un duplice ruolo: promuovono l’inizio della trascrizione e

coadiuvano l’instaurarsi dell’interazione promotore-enhancer [40].

Oltre all’LCR, nella regolazione dei geni per le globine Gγ e Aγ sono coinvolti cis-

elementi all’interno dei rispettivi promotori. Basandosi su esperimenti di legame DNA-

proteina, di analisi dell’attività del promotore e di identificazione delle mutazioni

presenti sul promotore del gene per le γ-globine, in pazienti che hanno un fenotipo

HPFH (hereditary persistence fetal hemoglobin) non dovuto a delezioni, sono stati

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identificati almeno nove siti di interazione DNA-proteina (a -30 ATAAA, a -50

GGGGCCGG, a -85 e a -112 CCAAT, a -145 CACCC, a -170 e a -190 GATA, a -180

ATGCAAAT, a -200 CCCGGG) all’interno della regione tra -260 e + 25. L’importanza

funzionale di questi siti di legame è oggetto di numerose indagini [41, 42, 43, 44, 45,

46, 47].

Inoltre, è stata individuata in posizione -280 della regione promotrice del gene Aγ-globinico la sequenza ATGCAAAT, riconosciuta dal fattore di trascrizione Oct-1

(Octamer Binding Factor 1); l’importanza regolativa rivestita da questa sequenza è

dimostrata dal fatto che una mutazione in questa posizione può attivare la trascrizione

genica di HbF e produrre il fenotipo HPFH [48].

Il promotore del gene codificante per le γ-globine è stato ampliamente studiato e i

siti per i fattori identificati sono riportati in Fig. 10. Sono state identificate, internamente

alla regione 5’ a monte del gene per le γ-globine, regioni altamente conservate, come

l’elemento ATAAA e la sequenza tandem CCAAT, che costituiscono il promotore

minimo in grado di attivare la trascrizione corretta, anche se minima, del gene [49].

Ultimamente si è diretto l’interesse verso i meccanismi con cui enhancers come

LCR o HS2 interagiscono a distanza con il promotore del gene per le catene globiniche

γ per aumentarne l’espressione. Con i modelli di studio più recenti si è arrivati a pensare

che le interazioni multiple promoter-enhancers siano decisamente coinvolte

nell’espressione sviluppo-specifica. Un approccio per identificare i fattori di

regolazione implicati in questa interazione, è quello di eseguire saggi di espressione su

promotori normali e mutati, sia in assenza che in presenza di elementi enhancers. In

questi saggi, l’introduzione di mutazioni in cis nel promotore per le γ-globine, permette

di identificare i siti di legame per quei fattori necessari ed indispensabili, affinché

avvenga l’interazione fisica del promotore con l’enhancer. Per verificare se il solo core

del sito 5’HS2 è sufficiente per garantire l’interazione con il promotore del gene per le

γ-globine, sono stati messi a confronto gli effetti mediati dalla sequenza enhancer

completa e dal solo nucleo 5’HS2. Queste indagini hanno evidenziato che il 5’HS2 è in

grado da solo di attivare il promotore, suggerendo che per instaurare il contatto tra

promotore e 5’HS2, è richiesta la presenza dei motivi CCAAT boxes, ma non quella di

GATA e CACCC box.

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Fig. 10. Rappresentazione del gene per le β-globine e del promotore

del gene per le γ-globine. Nella figura è rappresentato il cluster β-globinico compresa la regione LCR ed i cinque geni globinici. Nell’espansione è rappresentato il promotore del gene per le γ-globine con le principali sequenze riconosciute da fattori di regolazione di questo gene.

Inoltre, per garantire l’azione a distanza dell’enhancer, sono richiesti elementi

regolatori compresi nella sequenza completa di 5’HS2, ma non il core di 46 bp.

Rimuovendo il motivo CCAAT interno al promotore si provoca l’eliminazione

dell’effetto enhancer di 5’HS2, mentre mutazioni distali o prossimali a CCAAT

causano solo una riduzione del 50% dell’attività di 5’HS2. E’ necessario quindi, ai fini

dell’interazione promotore-enhancer, che almeno un CCAAT box sia presente e che

l’altro CCAAT box sia funzionale [50].

Grazie a studi condotti su precursori eritroidi i fattori CP1/NFY(nuclear factor Y),

CDP, NF-E3 e GATA-1, hanno dimostrato di interagire con la regione CCAAT box del

promotore del gene per le γ-globine. Tra questi fattori, solo GATA-1 si era dimostrato

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importante per avere un’interazione promotore-enhancer. La funzione di GATA-1

sembra essere tuttavia di tipo repressivo, in quanto l’interazione GATA-1/promotore

non ha luogo in precursori eritroidi umani embrionali e fetali, mentre si instaura nelle

cellule adulte in cui la γ-globina non è normalmente espressa [50]. Il fatto che i siti

GATA-1 vengano conservati nel corso dell’evoluzione in tutti i geni globinici e il

verificarsi della mutazione HPFH -175 T C, suggeriscono il coinvolgimento di

GATA-1 nella regolazione γ-globinica. Il legame di GATA-1 al CCAAT box del gene

per la γ-globina non viene osservata né in cellule embrionali, né in quelle fetali, ma

appare invece forte nelle cellule eritroidi adulte, in cui, normalmente, le γ-globine non

vengono espresse. Negli estratti di cellule adulte, GATA-1 lega la regione wild-type, ma

non la mutazione HPFH a -117 G A nella sequenza CCAAT; di conseguenza, il

legame di GATA-1 al CCAAT box γ-globinico, risulta coerente con l’azione repressiva,

e non con quella di modulazione positiva [51,52].

Al contrario di GATA-1, gli altri fattori CP1/NFY e NF-E3 hanno dimostrato di

essere attivatori positivi; esperimenti effettuati utilizzando il fattore NF-E3 purificato,

hanno messo in evidenza che esso non lega il sito -85 CCAAT e che il motivo -112

CCAAT è occupato in maniera predominante da CP1/NFY piuttosto che da NF-E3 nelle

cellule esprimenti le γ-globine [38].

Oltre al sito per GATA-1 sono stati identificati all’interno dell’elemento enhancer

5’HS2 siti di legame per fattori Sp1, USF e YY1, che si sono dimostrati necessari per il

corretto funzionamento di HS2 [38]. Il sito -125 CACCC lega Sp1 ed è richiesta la sua

presenza per avere alti livelli di espressione; delezioni o mutazioni coinvolgenti

l’elemento CACCC causano la riduzione dell’attività del promotore del gene per le γ-

globine in misura variabile dal 10% al 20% rispetto al modello wild-type [53].

La CACCC box, scoperta in seguito ad analisi condotte sulle omologie di sequenza

e con esperimenti di mutagenesi, si trova in un ampio numero di geni e in una vasta

gamma di specie, incluse le piante. Essa di solito è situata a 100-200 bp dal TATA box.

L’alterazione della sequenza CACCC diminuisce l’attività del promotore suggerendo

così che essa apporti un contributo positivo sull’efficienza trascrizionale. La funzione

esercitata in vivo dal motivo CACCC è stata valutata e accertata solo nel locus dei geni

globinici. Questa sequenza risulta essere presente in tutti i promotori dei geni globinici e

nei siti ipersensibili alla DNasi I HS2, HS3 e HS4 della β-LCR. Il significato funzionale

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della presenza della regione CACCC nel locus β è stato stabilito mediante svariate

analisi e dall’evidenza che una mutazione in questo elemento regolatore porta ad

ottenere il fenotipo β-talassemico [54]. La sequenza CACCC viene legata in modo

specifico dal fattore EKLF, che si è dimostrato agire come attivatore. Topi omozigoti

per la delezione del gene EKLF muoiono, nei primi 14-15 giorni dello sviluppo fetale, a

causa dell’assenza di espressione della β-globina e di altri effetti a carico dei geni

coinvolti nell’eritropoiesi definitiva. Questo risultato rende inequivocabilmente valida

l’ipotesi secondo cui CACCC in vivo agisce da elemento promotore positivo [55, 56].

La funzione del CACCC box del gene per le γ-globine è stata studiata all’interno

del contesto dello switching dell’Hb, modello secondo cui l’espressione genica di

β-globine è preclusa da quella delle γ mediante la competizione che si instaura tra i due

per l’enhancer LCR. Per testare il ruolo di CACCC box nel potenziale di trascrizione

del promotore genico per le γ-globine in vivo, sono state prodotte mutazioni e delezioni

nel promotore γ stesso e gli effetti derivanti sono stati osservati su topi transgenici. Si è

trovato che il CACCC box non è richiesto per l’attivazione del gene per le γ-globine

nell’eritropoiesi primitiva, ma è invece necessario per l’espressione genica delle catene

γ nelle cellule durante l’eritropoiesi definitiva [53]. Una mutazione nel motivo CACCC

causa la diminuizione dell’ipersensibilità alla DNasi I e del reclutamento della Pol II e

di TBP (TATA binding protein) al promotore del gene per le γ-globine nell’eritropoiesi

adulta. Tuttavia, non si osservano effetti a carico dello stato di acetilazione degli istoni

H3 e H4, a supporto del fatto che l’espressione del gene per le catene γ nelle cellule

eritroidi embrionali non risente in alcun modo di mutazioni della regione TATA o

CCAAT box e che l’attivazione non è direttamente correlata con il livello di

acetilazione degli istoni. Tuttavia, nel contesto dell’intero locus è stata trovata una

relazione tra l’acetilazione degli istoni e l’attivazione genica; tale discrepanza può

essere spiegata dal fatto che l’acetilazione degli istoni non contribuisce di per sé

all’attivazione genica, ma modula la formazione di loops nella cromatina, processo che

è coinvolto nella regolazione dell’espressione genica.

Sulla base di quanto detto finora è legittimo ipotizzare che i trans elementi reclutati

dalle sequenze CACCC, CCAAT e TATA, interagiscano gli uni con gli altri per

formare un ampio complesso designato come “promoter complex”. E’ quindi probabile

che, durante lo stadio embrionale la funzione esplicata dai trans fattori, che non

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vengono richiamati a formare questo complesso a causa della mutazione del promotore,

sia compensata dai fattori reclutati dai rimanenti cis elementi. Come risultato, l’LCR

interagisce comunque con il “promoter complex” incompleto durante lo stadio

embrionale, ma nelle cellule adulte la stessa interazione richiede la presenza di un

“promoter complex” intatto [53].

Attualmente, il silenziamento del gene delle γ-globine in età adulta è considerato

essere un fenomeno autonomo, che avviene indipendentemente dalla presenza di altri

geni globinici in cis. Il meccanismo molecolare che si trova alla base del silenziamento

autonomo è tanto complesso, quanto poco noto. Studi su modelli murini transgenici,

hanno mostrato che frammenti di DNA contenenti l’intero gene per le γ, ma non la

sequenza LCR, esprimono il gene solamente nelle cellule eritroidi embrionali. Sebbene

il gene per le catene γ non venga espresso nelle cellule fetali, dove normalmente ne

avviene l’espressione, questi dati sono stati utili per concludere che il gene γ stesso

contiene al suo interno le informazioni necessarie al suo silenziamento durante

l’emopoiesi definitiva [57].

In questi modelli transgenici, il livello di trascrizione genica di γ-globine si

presenta estremamente basso, ma se stimolato dall’azione di una LCR troncata,

denominata microLCR, il gene viene espresso sia nelle cellule embrionali, che in quelle

fetali e adulte.

Assieme ai promotori, un ruolo d’impatto nella regolazione dei geni globinici, è

rivestito dall’LCR e dai siti ipersensibili alla DNasi I, i quali sembrano avere specificità

genica. Il sito ipersensibile HS3 dell’LCR, in particolare, aumenta l’espressione genica

di catene γ e la delezione della sua sequenza core causa l’abolizione dell’espressione di

questo gene nello stadio fetale dell’emopoiesi [58].

Per chiarire come avviene il controllo del gene per le γ-globine durante lo sviluppo,

il promotore di questo gene è stato rimpiazzato con la controparte equivalente del

promotore del gene per le β, in costrutti YAC (yeast artificial chromosome) contenenti

il locus β e ne sono stati analizzati gli effetti durante lo sviluppo su topi transgenici. Si è

ottenuta quindi la prova che gli elementi responsabili del silenziamento del gene per le

γ-globine in età adulta risiedono nel suo promotore; infatti, sembra che un direct repeat

element collocato vicino al CCAAT box del gene per le catene γ, venga legato da un

complesso trascrizionale inibitorio [57].

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Mediante l’utilizzo di ibridi formati dal promotore del gene per le γ-globine e da

porzioni del gene β e di gene γ wild type inseriti sempre in cromosomi artificiali di

lievito, si è riscontrato anche il coinvolgimento di meccanismi di competizione nel

controllo dell’espressione genica di γ nella vita fetale. In conclusione, il silenziamento

autonomo è il principale meccanismo che regola l’espressione genica γ-globinica in età

adulta, mentre il controllo sullo switch tra γ-globine e β-globine è esercitato sia dal

processo di silenziamento autonomo, che da meccanismi di competizione [57].

Tramite l’uso di modelli murini, è stato dimostrato che la metilazione del DNA

gioca un ruolo locale nell’ostacolare l’attivazione del gene per la γ-globina nelle cellule

eritroidi adulte e che il suo effetto è mediato dalla deacetilazione degli istoni e

dall’inibizione del legame di alcuni fattori di trascrizione al DNA. Questi risultati, non

solo forniscono solide basi per mirare all’induzione dell’espressione γ-globinica nel

trattamento della β-talassemia, ma suggeriscono anche che la demetilazione sia un passo

obbligatorio nei meccanismi molecolari che sostengono la condizione fenotipica HPFH,

trattata in seguito [17].

2. Le talassemie.

2.a. Definizione.

Le principali patologie a carico del sistema ematopoietico dell’uomo sono dovute

ad alterazioni genetiche ereditarie. Esse possono essere suddivise in due categorie

distinte: la prima comprende le patologie caratterizzate da variazioni della sequenza

aminoacidica delle catene globiniche, come ad esempio l’anemia falciforme, mentre il

secondo gruppo, cui appartengono le sindromi talassemiche, è caratterizzato da una

minore od assente produzione di catene globiniche, fenomeno che diminuisce

notevolmente il tempo di sopravvivenza dei globuli rossi.

Le sindromi talassemiche sono un gruppo di anomalie ereditarie, autosomiche

recessive, dovute quindi ad alterazioni nelle sintesi dei componenti dell’emoglobina.

Queste anemie ipocromiche microcitiche derivano da alterazioni a carico dei geni

globinici dovute a mutazioni puntiformi o a delezioni, che determinano anomalie

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relative alla trascrizione, allo splicing dell’RNA, alla sua stabilità e alla sua traduzione.

Gli effetti di queste alterazioni si possono manifestare nei processi di trascrizione e

traduzione, portando di conseguenza alla totale assenza della sintesi proteica, ad uno

squilibrio nella velocità di sintesi, oppure alla produzione di catene altamente instabili.

Le talassemie vengono classificate principalmente, sulla base delle catene globiniche

coinvolte, in α-, β-, δ-talassemia; ognuna di queste forme talassemiche è estremamente

eterogenea.

La presenza in un gene globinico di particolari difetti molecolari o la sua assenza,

causano, rispettivamente, una forte riduzione nella sintesi o la totale mancanza della

corrispondente catena globinica. In tutti questi casi il gene globinico strutturale, poco o

affatto funzionante, viene detto appunto microcitemico o talassemico. Il carattere

essenziale che contraddistingue tutte le talassemie è quindi uno squilibrio nel normale

rapporto di sintesi fra catene globiniche α e non-α, facilmente determinabile in vitro: il

rapporto di sintesi α/non-α è 1 nel soggetto normale, cioè sano non microcitemico, ma

diviene 1,5-2,0 nel portatore di β-microcitemia e 0,80-0,60 nel portatore di

α-microcitemia. La produzione sbilanciata di una delle catene globiniche provoca un

danno a livello eritrocitario principalmente in due modi: innanzitutto riducendo

l’emoglobinizzazione degli eritroblasti vengono messe in circolo cellule ipocromiche,

piccole e spesso deformate. In secondo luogo lo sbilanciamento quantitativo tra le

catene globiniche causa l’accumulo intracellulare di catene libere, che si aggregano tra

loro e precipitano rapidamente negli eritroblasti e nei reticolociti, danneggiandoli.

Ricerche genetico-familiari condotte tra il 1943 e 1946 hanno dimostrato

definitivamente che le microcitemie si trasmettono ereditariamente dai genitori ai figli

con caratteri mendeliani autosomici, semidominanti o recessivi incompleti. Si

comportano, infatti, come alleli recessivi a livello clinico, essendo malato solo il

soggetto omozigote, mentre l’eterozigote è sano; a livello ematologico, tuttavia, si

comportano come caratteri dominanti essendo ben riconoscibili anche nell’individuo

eterozigote attraverso il quadro ematologico tipico della microcitemia, condizione che

tuttavia non è considerata patologica. Il comportamento mendeliano di queste patologie

è stato dimostrato a livello statistico raccogliendo i dati da casistiche familiari

vastissime; nelle famiglie con un genitore microcitemico e uno normale i figli sono 50%

sani e 50% microcitemici, mentre nelle famiglie con entrambi i genitori microcitemici,

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solo il 25 % dei figli è completamente esente dalla patologia, il 50% è portatore

eterozigote sano e il rimanente 25 % è affetto da anemia mediterranea [2].

Le più comuni e importanti varietà di microcitemia risultano identificabili e

classificabili attraverso il complesso dei loro caratteri ematologici, emoglobinici e

globinosintetici [2]. Il primo carattere, dal quale poi originano tutti gli altri, riguardante

il quadro ematologico è rappresentato dalla riduzione del livello medio di Hb di circa il

20%. Il valore medio di Hb cala da 14-15 g/dl nell’uomo a 12-14 g/dl e nella donna da

13-14 g/dl a 11-12g/dl. Gli altri caratteri ematologici del portatore eterozigote di

microcitemia sono: un aumento del numero di globuli rossi circolanti, fenomeno che

costituisce il principale meccanismo di compensazione della ridotta sintesi di Hb, una

riduzione del volume eritrocitario medio (MCV), come conseguenza della scarsa

emoglobinizzazione degli eritrociti che causa un appiattimento delle emazie, una

riduzione del contenuto globulare medio di Hb (MHC), un aumento della resistenza

globulare osmotica alle soluzioni saline ipotoniche, che si manifesta con un emolisi solo

parziale anziché totale nel paziente microcitemico e, infine, un’alterata morfologia

eritrocitaria, caratterizzata dalla presenza di microciti di vario aspetto e schistociti (cioè

emazia piccolissime o frammenti di emazie).

A livello diagnostico, uno dei più importanti caratteri emoglobinici è rappresentato

dall’aumento della quota di HbA2, tipicamente osservato nelle microcitemie causate da

alterazioni del gene per le β-globine. La quota di HbA2 si presenta, in questi casi, più

del doppio della quota di un soggetto normale (compresa tra il 4,5% e il 5,5%);

l’aumento di HbA2 è probabilmente determinato dalla maggiore disponibilità di catene

α-globiniche libere che tendono quindi a formare, in assenza della controparte

β-globinica, tetrametri α2δ2. Anche altri meccanismi intervengono in questo incremento

di HbA2: recenti osservazioni confermano che la ridotta attività del promotore del gene

per le β-globine, causa una ridotta produzione di β-mRNA, ma un incremento della

trascrizione del gene per le catene δ in cis. Infine, è stata ipotizzata anche un’interazione

di tipo competitivo, mediata da fattori quali GATA-1 e NF-E2, tra i siti HS dell’LCR e i

geni per le catene γ e δ in tutte le condizioni che hanno in comune una ridotta attività

del promotore per le β.

Per quanto concerne la valutazione del quadro globino-sintetico, può accadere che

la sintesi di catene globiniche non solo sia ridotta o assente, ma anche che una catena

alterata, sintetizzata in quantità normale, vada subito incontro a processi di

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degradazione e denaturazione proprio a causa della sua struttura alterata o perché dotata

di scarsa affinità per la sua catena complementare [2].

La condizione di talassemia non è associabile ad un unico difetto genetico, ma è

piuttosto un gruppo di alterazioni che producono effetti clinici simili. E’ quindi più

opportuno distinguere tra classificazione genetica e classificazione clinica della

patologia stessa.

Per quanto riguarda la classificazione clinica, le talassemie vengono distinte in base

al quadro ematologico e alla gravità delle manifestazioni sintomatologiche in:

talassemia minor, microcitemia e trait talassemico, che identificano rispettivamente la

condizione di portatore sano, quella asintomatica e la condizione in cui si è in presenza

di un genotipo eterozigote [59]. Infatti, l'individuo che possiede un solo gene difettoso

(forma eterozigote) è un portatore sano e la sua disfunzione viene denominata

talassemia minor. La maggior parte dei soggetti con talassemia minor non presenta

alcun sintomo di rilievo, tanto che molte persone ignorano di essere affetti da tale

disfunzione. In questi individui, i globuli rossi sono in numero maggiore rispetto

soggetti normali, ma sono un po' più piccoli (di qui il termine di microcitemia) e più

poveri di emoglobina (intorno al 15% in meno rispetto alla norma). Circa il 20% dei

soggetti presenta un leggero ingrossamento della milza, tuttavia, nella maggioranza dei

casi, il gene ereditato dal genitore sano consente una produzione di globuli rossi e di

emoglobina più che sufficiente per condurre una vita normale [54, 60, 61].

Al contrario, un quadro clinico estremamente grave, tipico dell’omozigote

β-talassemico, è dato dalla talassemia major, anemia mediterranea o morbo di Cooley,

che si verifica quando un individuo possiede entrambe le copie (materna e paterna) del

gene della catena β dell’emoglobina difettose (forma omozigote) [59]. Questa forma si

manifesta nei bambini subito dopo la nascita con un notevole pallore della pelle,

sintomo che rivela la presenza di una gravissima anemia: i globuli rossi sono in numero

ridotto, con una scarsa quantità di emoglobina. Se non viene curata, la talassemia major

può portare alla morte fra i 3 e i 6 anni di vita [54, 60, 61].

Vi è, inoltre, una condizione clinica intermedia, detta talassemia intermedia, ossia

si ha un genotipo omozigote o eterozigote per alterazioni β lievi, oppure omozigote per

alterazioni β gravi, associate a difetti dei geni globinici α o γ. La condizione clinica per

alterazioni α è dovuta alla funzionalità di uno solo dei quattro geni strutturali e si

possono avere forme lievi, che potrebbero essere anche difficilmente diagnosticabili, e

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forme gravi caratterizzate dalla totale assenza delle catene α, in cui si ha la morte del

feto prima della nascita o alla nascita [59]. La talassemia intermedia è una forma

attenuata di talassemia, che si manifesta in modo estremamente variabile in individui

omozigoti. I sintomi più tipici sono anemia, ingrossamento della milza (splenomegalia),

calcolosi biliare e ulcere malleolari. Le ragioni per cui alcuni individui omozigoti

manifestano la talassemia major ed alcuni la talassemia intermedia sono diverse; una

ragione può essere il tipo di alterazione genetica (ne esistono più di 200), un'altra è la

presenza di altre condizioni genetiche che limitano invece i danni stessi della mutazione

responsabile della talassemia [54, 60, 61].

2.b. Distribuzione geografica.

L’Italia è il primo paese al mondo ad essere stato ampiamente indagato ed, in

seguito, dettagliatamente mappato per quanto riguarda la distribuzione della patologia

talassemica. Da questo studio mirato sulla distribuzione globale, sia di α- che di

β-talassemie, sono emerse frequenze del 15% in alcuni territori come il Delta Padano, la

Calabria e la Sardegna, del 5-10% in Sicilia e nel Salento, fino a raggiungere un’alta

percentuale (25%) nella Sardegna meridionale. In tutti i focolai individuati, si nota una

tipica distribuzione a chiazze con una maggiore incidenza lungo le coste, rispetto ai

territori più interni (Fig. 11).

Dall’inizio degli anni ’60, quando si comincia ad effettuare una netta distinzione tra

α e β talassemie, le ricerche si sviluppano in tutto il mondo e si focalizzano soprattutto

sulle talassemie di tipo β, in quanto la β microcitemia è sempre la varietà predominante

in tutti i focolai considerati.

Emerge, a riguardo della distribuzione della talassemia, un’ ipotesi evidente quanto

suggestiva, supportata dalla coincidenza degli attuali focolai talassemici in Sicilia e

Calabria con i territori che fra l’VIII e il VI secolo a.C. furono meta dell’immigrazione

greca e origine della Magna Grecia. Questo dato storico pone il quesito se le

microcitemie non possano essere state introdotte in territorio italiano proprio

dall’afflusso di popolazioni fortemente microcitemiche come i greci e se la successiva

forte selezione operata dalla malaria nelle zone d’arrivo non possa aver creato e favorito

l’attecchimento degli odierni focolai [2].

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Tramite studi genetici è stato dimostrato come le mutazioni responsabili delle

sindromi talassemiche sono originate casualmente in varie popolazioni e che il criterio

di selezione naturale, basato verosimilmente sulla maggior resistenza all’infezione

malarica da parte degli individui eterozigoti, abbia avuto un ruolo fondamentale per

l’affermazione di questa patologia in determinate aree geografiche.

Fig. 11. Distribuzione geografica della talassemia. Nella figura sono rappresentate le zone in cui questa patologia è uno dei disordini genetici più diffusi. Risultano particolarmente colpite le popolazioni del bacino del Mediterraneo, dell’Africa, dell’India e dell’Oriente. In Italia prevalgono nettamente le forme di β-talassemia, che risulta endemica nella zona del Delta Padano, in Puglia, Campania, Calabria, Sicilia e Sardegna.

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Si è avuta dimostrazione che i globuli rossi di soggetti microcitemici o portatori

sani, conferivano a questi individui una maggiore resistenza all’attacco da parte

dell’agente eziologico della malaria: il Plasmodium falciparum [62].

Infatti, mediante il fenomeno del polimorfismo bilanciato, comune anche ad altre

due malattie genetiche quali l’anemia falciforme e il favismo, è possibile spiegare come

i geni microcitemici hanno potuto mantenere una così alta frequenza. Il polimorfismo

bilanciato è una condizione che si verifica quando in una popolazione sono presenti due

o più alleli di un determinato gene, come per esempio il gene per le β-globine normale e

il corrispondente gene microcitemico, la cui frequenza reciproca è bilanciata da fattori

selettivi, i quali accrescono gradualmente la frequenza del gene avvantaggiato fino a che

questa non viene bilanciata dalla perdita di geni attraverso il genotipo omozigote che

non si riproduce. Si ha quindi una selezione graduale dell’allele talassemico rispetto alla

sua controparte normale e la frequenza che il gene avvantaggiato può raggiungere nella

popolazione sarà quindi tanto più alta quanto meno grave è la condizione clinica che

presenta il soggetto omozigote. Inoltre, se lo stesso individuo talassemico dovesse

essere sottoposto alla selezione evolutiva, trasmetterebbe alla prole il genotipo

talassemico, che in questo modo viene conservato nelle generazioni [2, 62].

La corrispondenza di distribuzione geografica tra talassemie e malaria, fece

ipotizzare che il fattore che favoriva la selezione del soggetto eterozigote del gene

mutato a svantaggio dell’omozigote normale, potesse essere la forma di malaria

perniciosa, caratterizzata da un tasso di mortalità del 10%. Un’esposizione prolungata

all’infezione malarica, poteva aver sviluppato nelle popolazioni una sorta di

adattamento genetico al fattore malarico che, mediante la selezione degli alleli

microcitemici a scapito di quelli normali, ha finito col creare negli anni gli attuali

focolai microcitemici. Tuttavia, rimane ancora da chiarire pienamente il meccanismo

attraverso cui si instaura nel soggetto microcitemico la resistenza al fattore malarico. E’

stato ipotizzato che l’abbondanza di emina nelle emazie possa alterare la crescita del

parassita, oppure che l’eccesso di membrana rispetto al contenuto eritrocitario, tipico

delle talassemie, possa costituire un ostacolo per la riproduzione del parassita. Infine, si

pensa che un’alterazione delle glicoforine della membrana eritrocitaria conseguente alla

perdita di acido sialico, ostacoli la fusione tra membrana eritrocitaria e la membrana del

parassita malarico impedendo al plasmodio di invadere l’emazia.

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Le microcitemie e il morbo di Cooley risultano avere un’alta incidenza anche in

altri paesi dell’Europa meridionale, del Medio Oriente e dell’Africa, nelle zone

prospicienti il Mediterraneo. La scoperta della presenza del morbo di Cooley e della

microcitemia nei paesi asiatici, ed in particolare nel sud-est asiatico, ha demolito la

convinzione, fino a quel momento radicata, che tale patologia fosse caratteristica solo

delle popolazioni mediterranee; il Mar Mediterraneo veniva, infatti, indicato con il

termine greco ταλασσα (talassa) da cui prende il nome questo tipo di patologie.

Queste patologie rappresentano uno dei disordini genetici più diffusi nel mondo e

risultano particolarmente colpite, oltre alle popolazioni del bacino del Mediterraneo,

dove l’incidenza maggiore è presente in Grecia (5-10%), Cipro (10-15%), Libano e

Israele, anche l’Africa, l’India e l’Oriente (Fig. 11). In India, Pakistan e Afghanistan si

riscontrano frequenze di β-talassemia comprese tra il 4% e il 14% [2]. Attualmente, si

può affermare che non esiste alcun luogo al mondo in cui le sindromi talassemiche non

interessino almeno parte della popolazione; ciò è dovuto alle continue migrazioni di

individui da una regione all’altra [63].

L’Organizzazione Mondiale della Sanità ha stimato la presenza in Europa, Africa e

Asia di circa 180 milioni di soggetti microcitemici, di cui il 40% è portatore sano di

β-talassemia [2].

La talassemia è presente anche negli USA ed in Australia, dove, però, non è

identificabile una distribuzione precisa e stabile nel tempo a causa del rilevante flusso

migratorio di popolazioni eterogenee.

2.c. Fisiopatologia della talassemia: caratteristiche fisiologiche e complicanze

cliniche.

Le microcitemie non-α costituiscono il gruppo più importante e numeroso di tutte

le microcitemie; la β-talassemia viene classificata, a seconda del grado di mancanza di

globine β, in due categorie:

1. β0-talassemia, quando vi è la totale assenza di sintesi di β-globine;

rappresenta la variante della patologia caratterizzata dalla completa mancanza

dell’attività funzionale del gene per le β-globine e quindi di catene β-globiniche. Tale

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condizione presenta uno squilibrio di sintesi tra catene α e non-α molto accentuato e un

rapporto α/β medio di 1,80 anziché 1, con oscillazioni da 1,50 a 2,00.

2. β+-talassemia, caratterizzata da una ridotta sintesi di β-globine negli

omozigoti. La catena β-globinica nella β+-talassemia si presenta strutturalmente identica

alla proteina normale, inoltre, anche il tempo richiesto per la traduzione della catena è

invariato. Questi dati suggeriscono che l’mRNA per la β-globina sia qualitativamente

normale per quanto riguarda la sequenza nucleotidica codificante [64]. Il quadro

ematologico si presenta più lieve nei soggetti portatori di talassemia β+, nei quali lo

squilibrio α/β è meno accentuato e pari a 1,50; il gene per le globine β conserva dunque

una certa attività sintetica, che si manifesta nell’omozigote per β+-talassemie con la

presenza di una piccola quota di HbA. Un terzo gruppo di β+-talassemie è costituito dal

gruppo delle β-talassemie silenti o sub-silenti. In questi pazienti il quadro ematologico

ricade entro il range normale, anche se gli eritrociti presentano lievi alterazioni

morfologiche. Sia la quota di HbA2 che il rapporto α/β sono leggermente al di sopra dei

valori normali.

Inoltre, vi sono varianti delle patologie emopoietiche definite atipiche, poiché in

esse mancano uno o più caratteri tipici di questa patologia o perché presentano insolite

caratteristiche. Infatti, oltre 700 varianti strutturali dell’emoglobina sono state

identificate, ma solamente tre (HbS, HbC, e HbE), ricorrono con alta frequenza in

differenti popolazioni. In particolare il gene per l’HbS è distribuito ampiamente

nell’Africa sub-sahariana, nelle regioni mediterranee, in India e in certe regioni del

Medio Oriente. L’HbC è invece ristretta all’Africa e alle regioni mediterranee e, infine,

L’HbE, la variante più comune, è riscontrata con alta frequenza in India e nel sud-est

asiatico [65]. Inoltre, le relazioni tra le diverse varianti strutturali dell’emoglobina

descritte possono produrre una serie complessa di fenotipi clinici: ad esempio, le

relazioni tra la β-talassemia e due di queste varianti, l’emoglobina S e l’emoglobina E,

sono di particolare importanza [66].

L’emoglobina S deriva da una mutazione puntiforme, che causa la sostituzione di

un acido glutammico con una valina in posizione 6 nella catena β dell’HbA. Gli

omozigoti per questa alterazione genetica (HbSS) sono affetti da anemia a cellule

falciformi. In condizioni di bassa tensione di ossigeno, l’emoglobina S polimerizza,

determinando un cambiamento delle emazia che conferisce loro la tipica forma a falce.

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Le persone eterozigoti per l’emoglobina S e per la β-talassemia (HbS/β-thal) possono

presentare anemia a cellule falciformi, sebbene i loro sintomi tendano ad essere meno

gravi rispetto a quelli degli omozigoti per emoglobina S [67]; in questo caso le

conseguenze cliniche dipendono dall’allele responsabile della β-talassemia. Se l’allele

per l’HbS viene ereditato in associazione con l’allele responsabile di una β0-talassemia,

l’anomalia risultante potrebbe essere indistinguibile dall’anemia falciforme, mentre

quando l’allele per l’HbS viene ereditato in associazione ad un allele responsabile di

una β+ talassemia, il quadro clinico risulta più benevolo.

L'emoglobina C (HbC) è una variante dell'emoglobina, dovuta ad una mutazione

nel gene della β-globina, che causa la sostituzione di un acido glutammico con una

lisina in posizione 6 nella catena globinica(α2β26Glu-Lys). La prevalenza della HbC è del

40-50% nell'Africa Occidentale (Burkina Faso, Costa d'Avorio, Ghana). La malattia si

riscontra anche nel Togo e nel Benin (20%), nelle persone di discendenza africana nei

Caraibi (3,5%) e negli USA (3%), nel Nord Africa (dall’1% al 10% in Marocco e

Algeria) e nel Sud Europa (Italia, Turchia). Nel Burkina Faso, in particolare, un abitante

su dieci possiede il gene contenente il codice della forma mutante di emoglobina, che

garantisce alle persone che lo possiedono in eterozigosi di ridurre del 26% la probabilità

di prendere la malaria, mentre ai soggetti omozigoti un’eccezionale riduzione del

rischio, addirittura del 93% [68].

Da circa 50 anni gli studiosi sospettano che l’HbC abbia effetti protettivi contro la

malaria, ma essendo il gene molto meno comune dell’HbS, studiarlo è molto più

difficile, inoltre i soggetti omozigoti sono molto rari. Vi sono due differenti teorie alla

base della diffusione dell’HbS e dell’HbC in Africa, in associazione con la loro azione

protettiva nei confronti della contrazione della malaria. Da un lato c’è chi è

convinto che, a differenza dell’HbS, alla mutazione responsabile dell’HbC occorra

molto tempo per diffondersi e per insediarsi in tutta l’Africa, dal momento che è assai

rara al di fuori del gruppo etnico dei Mossi e che per avere una protezione totale dalla

malaria sia necessario possedere due copie del gene mutato, dall’altro si pensa che il

livello di protezione garantito da HbC o HbS dipenda piuttosto dagli altri geni della

persona che esprime quel tipo di emoglobina. In taluni gruppi etnici, per esempio tra i

nigeriani, l’HbS protegge in modo più efficace dalla malaria e quindi è più comune. Le

mutazioni che causano l’ HbS e l’HbC si verificano esattamente nello stesso punto della

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molecola di emoglobina, il che fa supporre che il meccanismo attraverso il quale hanno

luogo potrebbe essere universale.

I soggetti eterozigoti per l'HbC (HbAC) sono asintomatici e possono presentare

lieve microcitosi e aumento della resistenza degli eritrociti all'emolisi. Gli omozigoti per

HbC (HbCC), di solito, compensano l'emolisi con la splenomegalia, presentano un

aumento del rischio di ipersplenismo, litiasi biliare, deficit di folati e anemia grave.

L'associazione tra HbC e β-talassemia, in particolare β+-talassemia (più frequente della

β0-talassemia nei gruppi etnici interessati dalla HbC) determina un quadro clinico simile

a quello dell'HbCC [69].

Anche l’HbE (α2β226Glu-Lys) è una variante dell’emoglobina, ed è causata da una

mutazione nel gene β-globinico in cui si verifica la sostituzione dell’acido glutammico

con una lisina in posizione 26; tale mutazione produce una catena β aberrante (βE),

poiché viene a crearsi un sito di splicing alternativo. L’HbE è la seconda anomalia

dell’emoglobina più comune nel Sud-Est asiatico, dopo l’anemia falciforme; quindi, è,

anch’essa, classificata tra le emoglobinopatie. Per quanto riguarda l’associazione con

alleli causanti talassemia, è stata riportata una condizione clinica nella quale questo

allele viene ereditato in associazione con un allele causante β+-talassemia, che rende

attivo un sito di splicing alternativo nell’esone 1 del gene per le β-globine. Alcune

situazioni cliniche sono indistinguibili dalla talassemia major, altre, invece, che non

sono trasfusioni-dipendenti, possono avere un’entità più lieve.

Gli eterozigoti HbA/HbE, HbS/HbE e gli omozigoti HbE/HbE mostrano alcune

caratteristiche simili ai soggetti β-talassemici; infatti, i soggetti eterozigoti hanno una

condizione asintomatica, senza una rilevanza clinica, tranne per il rischio di trasmettere

alla prole il gene difettivo. Mentre per quanto riguarda la combinazione in eterozigosi

degli alleli β-thalassemia/HbE, questa condizione può portare ad un fenotipo clinico

talassemico grave [70].

La talassemia con Hb Lepore, ad esempio, è una varietà di talassemia non-α che,

oltre al tipico quadro ematologico microcitemico, presenta una quota del 10-20% di una

emoglobina che ha mobilità intermedia tra l’HbA e l’HbS, quando analizzata con

elettroforesi a pH alcalino. Una ricerca biochimica ha dimostrato che la catena

polipeptidica abnorme dell’Hb Lepore ha una sequenza aminoacidica che per il tratto

N-terminale è quella della catena δ-globinica, mentre per il tratto complementare

C-terminale è simile alla β-globina; questa evidenza fa ipotizzare che l’Hb Lepore

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origini dal punto di vista genetico da un crossing-over meiotico, fenomeno in seguito al

quale nel cluster non-α rimarrebbe funzionante il gene ibrido δ-β. Inoltre, l’influenza

del promotore del gene δ, determinante uno basso livello di espressione delle catene δ,

produrrebbe di conseguenza una bassa sintesi di Hb Lepore. Sull’altro cromosoma 11,

invece, resterebbero presenti dopo il crossing-over, oltre al gene ibrido, i singoli geni

per le globine δ e β. Sono noti tre differenti tipi di Hb Lepore (Olanda, Baltimora e

Boston), che si distinguono per il punto in cui avviene il crossing-over e per la struttura

delle catene abnormi, le quali, però, mantengono la stessa mobilità elettroforetica,

dando origine quindi a quadri ematologici tra loro molto simili. Nell’individuo

eterozigote l’Hb Lepore non supera il 7-8%, mentre nell’omozigote o nell’eterozigote

composto non supera il 12%, la quantità di HbA2 è circa il 2% e l’HbF è leggermente

aumentata (2-3%), il rapporto nella sintesi delle globine α/non-α è compreso tra 1,5 e

1,7. In conclusione la quota di Hb abnorme è in grado di ridurre lo squilibrio α/non-α e,

di conseguenza, la gravità delle manifestazioni fenotipiche.

Un’altra variante di talassemia non-α che presenta un quadro ematologico tipico

delle talassemie, ma con intensità simili alle forme più lievi, una quota di HbA2 normale

o bassa e una quota di HbF del 10-15% è la F microcitemia: con la separazione delle

catene globiniche in HPLC si evidenziano due piccoli picchi di catene Aγ e Gγ, non

presenti nel soggetto normale. La parziale attività dei geni γ-globinici rende meno grave

lo squilibrio globino-sintetico ed il quadro clinico dell’individuo omozigote o

eterozigote composto con altre emoglobinopatie è simile a quello della talassemia

intermedia [2].

Sebbene il difetto fondamentale delle talassemie sia rappresentato dalla riduzione o

dalla completa assenza della biosintesi di una catena globinica, anche il conseguente

eccesso della catena complementare contribuisce ad aumentare le complicazioni

fisiopatologiche.

Nella β-talassemia, in particolare, la diminuzione o l’assenza di sintesi di

β-globine, conduce ad un largo eccesso di catene α, le quali, se non incorporate a

formare HbA o HbA2, rimangono in soluzione, dove sono altamente instabili e tendono

ad aggregarsi tra loro per formare tetrametri e poi precipitare ad alte concentrazioni. Gli

aggregati di catene α sono visibili al microscopio elettronico sia nel citoplasma che nei

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nuclei di reticolociti e precursori eritroidi nucleati [64]. L’emazia diviene rigida e si

accresce la sua fragilità meccanica.

La denaturazione e la precipitazione di catene globiniche α o β libere, all’interno

dell’eritrocita del soggetto affetto da anemia mediterranea, sono causa della formazione

di radicali di ossigeno attivato e di conseguenti danni ai tessuti, ulteriormente

accresciuti dall’abbondante presenza di ferro nelle emazie del malato, che funge da

catalizzatore per la formazione di radicali liberi dell’ossigeno. Questi danni ossidativi si

vanno ad aggiungere alle alterazioni strutturali e funzionali che colpiscono le proteine

della membrana eritrocitaria e che sono causate direttamente dalle inclusioni cellulari.

Le catene γ- e β-globiniche, invece, avendo maggiore stabilità, formano tetrametri

ma precipitano più lentamente; le inclusioni che essi formano hanno localizzazione

sottomembranosa diffusa in tutta la cellula.

I danni ossidativi a carico della membrana eritrocitaria sono maggiormente noti

nelle β talassemie, nelle quali sono forse più gravi dei danni strutturali di membrana.

Nelle emazie dell’omozigote β-talassemico l’ossidazione delle catene globiniche

provoca un notevole aumento nella concentrazione di svariate forme strutturali

dell’ossigeno attivato come ad esempio il superossido. Questi ossidanti, insieme allo

ione Fe2+ che ossidandosi diviene Fe3+, avviano la perossidazione dei grassi insaturi e

delle proteine della membrana cellulare. I danni alla membrana delle emazie vengono

ulteriormente aumentati dal fatto che la formazione continua di ossidanti, associata alla

scarsa emoglobinizzazione e l’abbondante membrana che caratterizzano l’emazia

microcitemica, non permettono la normale azione protettiva esercitata dalle

superossidodismutasi, dalle catalasi o dalle glutatione-perossidasi [2].

Dalla mancata sintesi di catene β-globiniche e dalla conseguente eritropoiesi

inefficace scaturiscono una serie di eventi che conducono alle tipiche manifestazioni

cliniche della malattia, tra le quali, la prima e la più grave è l’anemia; il grave quadro

anemico presentato dagli omozigoti sia β+ che β0 suggerisce, comunque, che la sintesi

di catene β-globiniche è scarsa e inadeguata, quindi non sufficiente a diminuire i severi

sintomi clinici di questo disordine genetico [2, 64]. Inoltre, nonostante il tempestivo

intervento di processi proteolitici, le catene α-globiniche in eccesso restano libere

dentro la cellula, dove formano corpi inclusi che si vanno ad aggiungere ad aggregati di

ferritina, mitocondri carichi di ferro e accumuli di glicogeno soprattutto negli

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eritroblasti policromatofili in fase G1, fase in cui la maturazione in questi soggetti viene

bloccata. La precipitazione delle catene α-globiniche libere e la formazione di corpi

inclusi sono le cause principali dell’arresto della maturazione, della precoce distruzione

degli eritroblasti e di conseguenza dell’eritropoiesi inefficace [2].

Sebbene gli eritroblasti con scarso o assente contenuto di HbF vengano bloccati e

rapidamente distrutti nel midollo, prima di giungere a maturazione, una piccola quota di

essi e di emazie contenenti HbF riescono a raggiungere il circolo. Essi si presentano

però come cellule gravemente danneggiate e poco elastiche che, giunte alla milza,

vengono fagocitate e distrutte. In questi pazienti, quindi, la percentuale di HbF, che

comunque rappresenta la forma più presente di emoglobina, non è sufficiente per

compensare l’ingente diminuzione di HbA [64]. Questi ed altri aspetti fisiologici

determinati da patologie talassemiche sono riportati in Fig. 12.

La durata media di vita delle emazie del soggetto affetto da anemia mediterranea è

assai breve; la distruzione precoce e l’iperemolisi si manifestano con ittero, aumento

della bilirubinemia indiretta e dell’urobilinuria, che non è però mai troppo accentuata,

essendo poche le cellule effettivamente emoglobinizzate che vengono distrutte. Quanto

descritto finora conduce all’eritropoiesi inefficace, uno dei danni maggiori

caratterizzanti la patologia; le poche emazie contenenti HbF prodotte dal malato

derivano da un’enorme iperattività ed espansione midollare, che non sono in grado di

garantirne la sopravvivenza e, anzi, sono causa di gravi danni; nel midollo osseo le

cellule reticolari presentano segni evidenti di fagocitosi che colpisce gli eritroblasti in

varie fasi di maturazione e, allo stesso tempo, l’eccessiva espansione midollare dà

origine a gravi alterazioni di forma e di struttura delle ossa che conducono a

deformazioni cranio-facciali, rarefazione porosa delle ossa lunghe, causa di frequenti

fratture, aumento della volemia, che si accresce sempre più man mano che si incorre

nella splenomegalia. La splenomegalia, tipica della talassemia major e della talassemia

intermedia, è la fisiologica conseguenza della funzione cui è sottoposta la milza di

sottrarre dal circolo gli eritroblasti non vitali e carichi di catene α-globiniche precipitate.

Svolgendo questa funzione, la milza raggiunge dimensioni notevoli, diventando un

deposito voluminoso di sangue ristagnante, che oltre a distruggere le emazie non vitali

prodotte dal soggetto arriva a distruggere anche quelle sane fornite tramite terapia

trasfusionale. Infine, l’assorbimento continuo di ferro alimentare e l’ulteriore apporto di

questo elemento attraverso le emotrasfusioni, causano una diffusa siderosi che, nel

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corso della malattia, dà luogo a numerose complicanze in alcuni organi (cuore, fegato e

ghiandole endocrine) [2].

Fig. 12. Fisiopatologia della β-talassemia. L’eccesso di catene

α-globiniche produce dei precipitati nei precursori dei globuli rossi, causando l’eritropoiesi inefficace e favorendo l’anemia. Anche l’emolisi favorisce l’anemia, la quale stimola la sintesi dell’eritropoietina, con la sua successiva proliferazione nel midollo. Ne risultano deformità ossee e sovraccarico di ferro, incrementato ulteriormente dalle necessarie trasfusioni.

In condizioni di eterozigosi per la β+-talassemia o eterozigosi composta del tipo

β0/β+-talassemia, che si manifestano con il quadro clinico della talassemia intermedia, la

produzione di una piccola quota di catene β-globiniche garantisce una certa percentuale

di HbA, accanto ad una quantità equivalente o anche maggiore di catene γ-globiniche

che forniscono HbF. Quindi il numero di emazie che raggiunge il circolo, rendono

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l’eritropoiesi inefficace meno marcata e le sue conseguenza meno gravi, rispetto a

quanto accade per la forma di talassemia major [2].

Un altro disordine emopoietico è rappresentato dalla δβ-talassemia. Negli studi

condotti su δβ talassemici omozigoti, si è immediatamente notato che tale condizione è

caratterizzata da una lieve anemia, sebbene l’individuo non possieda né HbA, né HbA2;

questo fatto sembra dovuto al marcato aumento di HbF. Un aspetto molto interessante,

inoltre, è stato notato in soggetti talassemici omozigoti, ma aventi una condizione

denominata HPFH: essi non presentano un quadro anemico, pur essendo privi di HbA e

HbA2. Questo disordine garantisce all’individuo una totale compensazione della

completa assenza di forme adulte di emoglobina con forme di emoglobina fetali;

quest’aspetto verrà discusso nel dettaglio in seguito [64].

Mediante la tecnica di Kleihauer-Betke è possibile effettuare una chiara distinzione

tra talassemia e HPFH. Tale procedura permette infatti di eluire tutta l’HbA dalle cellule

eritroidi prelevate dai pazienti e di poter successivamente valutare il contenuto cellulare

individuale di HbF. Si è osservato che, mentre nelle cellule eritroidi derivate da

campioni di sangue isolati da soggetti affetti da β0-, β+- e δβ-talassemia, la

distribuzione dell’HbF era alquanto “eterogenea”, lo stesso saggio eseguito su sangue di

soggetti HPFH metteva in evidenza una distribuzione omogenea dell’emoglobina fetale;

questi dati supportano il fatto che nelle cellule eritroidi di individui HPFH la biosintesi

di HbF continua anche in età postnatale, mentre nei soggetti talassemici, la sintesi di

HbF è ristretta a un numero inferiore di precursori eritroidi e il suo livello varia in modo

marcato da cellula a cellula [64].

Le α-talassemie, frequenti soprattutto in Asia, in alcune regioni del bacino del

Mediterraneo e in Africa, sono causate dalla delezione di geni α-globinici, che possono

essere di diversa entità, dando, pertanto origine ad una vasta gamma di quadri clinici. Le

α-talassemie sono invece molto rare tra le razze bianche e sono diffuse soprattutto nel

continente asiatico, nel bacino del Mediterraneo e in Africa.

Avendo ciascun individuo quattro geni codificanti per l’α-globina, due per ciascun

cromosoma 16, si distingueranno differenti varianti della patologia α-talassemica sulla

base del numero di geni interessati dall’alterazione. La mancanza totale di tutti e quattro

i geni per le catene α-globiniche comporta l’insorgenze della cosiddetta idrope fetale,

una condizione patologica che conduce alla morte intrauterina del feto o alla

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sopravvivenza di poche ore del neonato, il quale presenta forme anomale di emoglobina

rappresentate per l’80% da Hb Bart’s, tetrametro di catene γ-globiniche, e per il restante

20% da Hb Portland, costituita dall’unione di due catene ζ con due catene γ.

L’emoglobina che si forma prevalentemente nel caso in cui si erediti solamente un gene

α funzionante su quattro è l’HbH, costituita dall’associazione di quattro catene β-

globiniche; i tetrametri β4 sono relativamente solubili, quindi la morte intramidollare

degli eritroblasti è ridotta, mentre nel torrente circolatorio si assiste alla formazione di

precipitati emoglobinici detti corpi di Heinz. I pazienti con HbH hanno un’aspettativa di

vita normale, tuttavia, in caso di infezioni, corrono il rischio che si aggravi il loro

quadro anemico.

La delezione di due dei quattro geni α-globinici, comporta la condizione definita

α-talassemia minor, in genere clinicamente silente; mentre mutazioni puntiformi e

delezioni causanti la ridotta espressione dei geni per le globine di tipo α sono

responsabili delle α+-talassemie. Per distinguere le α+-talassemia dalle α0-talassemie, si

esegue lo studio dell’Hb Bart’s alla nascita; in questo periodo, infatti, è presente nel

bambino una piccola quota di Hb Bart’s, che poi scompare rapidamente. La delezione di

un gene α-globinico su quattro è indicata da una quota di Hb Bart’s inferiore al 3% alla

nascita; in questo caso il soggetto è portatore di α+ talassemia. Se la quota di Hb Bart’s

è compresa tra 5,5 e 8,5% significa che è avvenuta la delezione di due geni α globinici

su quattro e il soggetto è portatore di α0-talassemia.

Il meccanismo patogenetico delle talassemie α intermedie si dimostra diverso. In

questa condizione la piccola quota di catene α-globiniche che viene sintetizzata

permette di avere piccole quantità di HbA, HbA2 e HbF. Inoltre, la precipitazione delle

catene β- e γ-globiniche presenta caratteristiche differenti da quella delle catene α,

essendo relativamente più solubili e formando dei tetrametri β4 (HbH) e γ4 (Hb Bart’s),

molecole emoglobiniche dotate tuttavia di una breve sopravvivenza e funzionalmente

inefficienti. A causa della loro grande affinità per l’ossigeno, queste molecole vengono

rapidamente ossidate e precipitano in questa forma, formando all’interno dell’emazia

dei granuli caratteristici a livello della membrana. Anche in questo caso le emazie che

entrano in circolo hanno, a causa di questi precipitati, una vita breve che causa nel

soggetto un iperemolisi cronica evidente.

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Infine, l’eterozigosi β- o α-talassemica, condizione denominata microcitemia, si

distingue per una lieve eritropoiesi inefficace e una leggera iperplasia midollare che

garantisce però al soggetto di compensare lo stato anemico. Con questo meccanismo,

associato probabilmente ad un’iperattività del gene β normale, l’individuo

microcitemico riesce a raggiungere una quota di emoglobina pari al 70-80% del

normale, rispetto al 50% previsto teoricamente nel caso di un solo gene per le catene β-

globiniche funzionante [2].

2.d. Alterazioni genetiche e basi molecolari della talassemia.

Le alterazioni che possono interessare il gene per le β-globine umane responsabile

della talassemia, sono rappresentate da: delezioni, difetti di trascrizione del gene, difetti

nella maturazione del pre-mRNA (alterazioni dello splicing, mutazioni nel sito di taglio

e della poliadenilazione del pre-mRNA), difetti nella traduzione dell’mRNA in proteina

(mutazioni del codone d’inizio, mutazioni non senso, frameshift, mutazioni nella

regione 3’ UTR), difetti che compromettono la stabilità della catena β-globinica.

• Delezioni del gene per le β-globine.

Tra i fattori genetici che determinano le talassemie, le delezioni sono piuttosto rare.

Alcune forme di talassemia, sia di tipo α che di tipo β, sono causate da delezioni di

segmenti, anche rilevanti, nei cromosomi 16 o 11. Esiste un certo grado di variabilità

nelle delezioni identificate e, naturalmente, la patologia che queste delezioni

comportano è in genere tanto più grave quanto più esse sono estese. Le delezioni

comportano una patologia grave (β0-talassemia, o δβ-talassemia) a meno che non

causino anche l'attivazione della trascrizione dei geni per le globine γ, con conseguente

manifestazione del fenotipo denominato HPFH. Gli individui affetti da tale patologia

esprimono, anche allo stadio adulto, i geni per le globine fetali e producono HbF. Un

caso particolare di delezione genica, inoltre, è quello della Hb Lepore, che risulta dalla

fusione di un gene per le catene δ e di un gene per le β per formare un gene ibrido.

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• Difetti di trascrizione del gene.

Nella maggior parte dei casi sono dovuti a mutazioni puntiformi nel promotore, in

regioni quali: il TATA box, nel quale sono state trovate mutazioni ai nucleotidi -28, -29,

-30 e -31; il CACCC box prossimale con le mutazioni ai nucleotidi -86, -87, -88, -90,

-92; il CACCC box distale con la mutazione a livello del nucleotide -101 [2].

• Alterazioni nel meccanismo di splicing.

Costituiscono un numeroso ed importante gruppo di mutazioni responsabili di circa

la metà delle β-talassemie; normalmente si tratta di mutazioni puntiformi che alterano

con vari meccanismi il normale processo di splicing. Infatti, può accadere che una

mutazione localizzata in un introne distrugga uno dei due dinucleotidi invarianti GT o

AG, la cui presenza è indispensabile per garantire uno splicing normale, che risulta di

conseguenza annullato. Oppure si può avere l’alterazione della sequenza consenso che

affianca i dinucleotidi AG e GT con conseguente riduzione dell’efficienza dello

splicing; infine, la mutazione può creare un pre-sito (sito criptico), cioè un nuovo sito di

splicing che andrà a competere con quello fisiologico preesistente. Questo tipo di

mutazione è causa di β0-talassemie ed è forse più frequente nei paesi mediterranei. In

Italia sono presenti con discreta frequenza le mutazioni IVSI-1 G A e IVSII-1 G A

(Fig. 13). La mutazione IVSI-1 G A, scoperta nel 1982, provoca un’alterazione di

splicing del pre-mRNA [71] dovuta alla sostituizione di una guanina del dinucleotide

invariante GT in posizione 5’ del primo introne, con un’adenina. Il risultato finale è la

distruzione del normale sito di splicing, con l’immediata abolizione del processamento e

annullamento della normale produzione di mRNA, che risulta nella manifestazione del

fenotipo clinico β0-talassemico [2]. La mutazione IVSII-1 G A [72, 73, 74] genera,

invece, una mutazione puntiforme in posizione 1 del secondo introne nel gene per le

globine β, provocando β0-talassemia.

La mutazione (β+) IVSI-110 G A, provoca la sostituzione di una guanina con una

adenina nella sequenza consenso nel 1° introne del gene β con conseguente attivazione

di un sito di splicing criptico; oppure la mutazione all’interno di un introne può ridurre

l’efficienza di un sito di splicing alterando la sua sequenza consenso e causando

β+-talassemie, tra queste, la mutazione IVSI-5 G A.

Per quanto riguarda la mutazione (β+) IVSI-6 T C, descritta nel 1982, coinvolge

la sequenza consenso del sito donatore di splicing del primo introne del gene per le

globine β [71] ed è caratterizzata dalla sostituzione di una timina, localizzata in

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prossimità del dinucleotide GT in 5’ all’introne, con una citosina. Il risultato finale è

l’alterazione della sequenza conservata e la riduzione dell’efficienza del processamento

del pre-mRNA [75].

Fig. 13. Distribuzione in Italia delle mutazioni responsabili della β-talassemia. La figura chiarisce la distribuzione delle zone talassemiche in Italia e il tipo di mutazione più rappresentata per ogni zona [Figura tratta dal sito www.abanet.it].

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• Mutazioni nel sito di taglio e della poliadenilazione del pre-mRNA.

Anche questo gruppo di alterazioni della maturazione dell’RNA, danno origine a

β+-talassemie. Se la sequenza AATAAA, sito di taglio enzimatico e segnale di aggiunta

della coda di residui di adenina (poliA), viene mutata i processi di termine della

trascrizione e di poliadenilazione si verificano più a valle rispetto al sito fisiologico,

producendo mRNA molto più lunghi e molto più instabili. Ne deriva un fenotipo

β+-talassemico con caratteri non marcati.

• Difetti di traduzione dell’mRNA.

Mutazioni non-senso, oppure nel frameshift che ricadono nel codone d’inizio, negli

esoni e nel codone di termine o nella regione 3’ UTR, possono causare l’arresto più o

meno precoce della traduzione del messaggero in proteina. La traduzione incompleta

provoca la formazione di una proteina non funzionale. Le mutazioni nel codone d’inizio

causano β0-talassemie molto gravi, mentre le mutazioni che coinvolgono il codone di

stop o la regione 3’ UTR generano β+-talassemie. Le mutazioni non-senso consistono

nella sostituzione di una base purinica in un codone del DNA codificante, che dà luogo

alla formazione di un codone di termine (TAA, TAG oppure TGA) e quindi all’arresto

della traduzione dell’mRNA. A questo particolare gruppo di mutazioni appartiene la

talassemia β0-39, assai importante per la sua incidenza nei paesi mediterranei e

soprattutto in Italia, dove rappresenta l’unica mutazione non-senso presente (Fig. 13). A

livello nazionale la mutazione β0-39 C T riguarda i due terzi degli individui

talassemici, con frequenza pari al 66,8% [75], la cui incidenza è maggiore nell’Emilia

Romagna, e in particolar modo nella regione del Delta del Po, nel Lazio, nella

Campania e Basilicata [77]; la frequenza di questa mutazione è ancora maggiore in

Sardegna, con un’incidenza del 95,7% dove è stata identificata per la prima volta nel

1981 [76, 77, 78]. Questa mutazione converte il codone 39 CAG del gene per le

β-globine, che codifica per la glutammina, in un codone TAG, che impartisce il segnale

di termine alla sintesi globinica. Quindi non si ha affatto la formazione di catene

β-globiniche e il fenotipo che si manifesta è quello di una marcata β0-talassemia [2].

Le mutazioni puntiformi più frequentemente riscontrate responsabili di

β-talassemia sono descritte nella Fig. 14.

Delezioni o inserzioni di uno o più nucleotidi nel DNA, possono causare

l’alterazione del quadro di lettura dell’mRNA (frameshift) e di conseguenza l’arresto

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precoce della traduzione. Sia che lo slittamento abbia inizio in un codone molto lontano

da quello di termine fisiologico, sia che questo si verifichi in una regione più vicina alla

fine della traduzione, le catene β-globiniche sintetizzate si presentano totalmente

alterate, causando l’espressione di un fenotipo β0-talassemico. In Italia sono presenti

varie mutazioni di questo tipo: 1(-G), 5(-CT), 8(-AA), 59(-A), 76(-C) e, la più diffusa,

6(-A). Questo tipo di mutazioni possono causare anche un’instabilità della catena

β-globinica; si tratta principalmente di frameshift o mutazioni non-senso o delezioni di

pochissimi nucleotidi che avvengono per lo più a livello del 3° esone. Danno tutte

origine ad un catena allungata o troncata che, in ogni caso, risulta fortemente instabile e

precipita rapidamente anziché formare tetrametri. Ne deriva un rapporto catene α/β

fortemente sbilanciato, mentre quello tra α-mRNA e β-mRNA è paritario [2].

Mutazioni puntiformi che causano β-talassemia

Fig. 14. Rappresentazione schematica delle mutazioni puntiformi a carico del gene per la β-globina. Nella figura sono indicati i principali siti nei quali si riscontrano con più frequenza le mutazioni, il tipo di mutazione ed il fenotipo talassemico che ne deriva.

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3. Il fenotipo HPFH (High Persistence of Fetal Hemoglobin) e la

talassemia.

In alcuni pazienti affetti da β-talassemia è stata osservata un'anormale espressione

dei geni γ, che in alcuni casi porta il livello di HbF dal 2.5% al 20%. Quest'aumento di

HbF comporta una condizione clinica nota come HPFH (High Persistence of Fetal

Hemoglobin), nella quale l'espressione genica per le γ-globine è mantenuta elevata

anche nei soggetti adulti, dove normalmente la loro sintesi risulta repressa o

limitatamente espressa. I pazienti che presentano il fenotipo HPFH mostrano un

miglioramento del quadro clinico, in quanto la relativa riattivazione dei geni per le

globine γ causa un aumento di HbF tale da poter in parte supplire alla carenza di HbA

nelle sindromi talassemiche.

Le alterazioni geniche che causano l’incremento dei livelli di HbF sono oggetto di

continue indagini, ma attualmente sono suddivise in due tipologie differenti: il fenotipo

HPFH di tipo deletion e il fenotipo HPFH di tipo non-deletion, in cui è presente l’intero

cluster β. Sono state proposte tre possibili cause per spiegare il fenotipo HPFH deletion:

1. esso potrebbe derivare dalla delezione di alcune sequenze regolative del

cluster β-globinico, coinvolte nella regolazione sia positiva che negativa. Le sequenze

regolative restanti determinerebbero il fenotipo;

2. oppure una delezione può causare la giustapposizione in prossimità dei geni

per le γ-globine di elementi enhancers in 3’, che normalmente si trovano localizzati a

valle del gene β. L’azione enhancer della sequenza nella nuova localizzazione porta un

incremento dell’espressione γ-globinica.

3. Infine, una delezione può determinare l’insorgere di una zona di continuità

tra la LCR e i geni per le catene γ, normalmente silenti.

Rilevanti informazioni riguardo la localizzazione di importanti sequenze regolatrici

dei geni globinici possono essere raccolte dallo studio delle mutazioni che si verificano

naturalmente e che conducono ad un’espressione anormale di questi stessi geni. Un

modello di indagine utile è fornito dalla condizione denominata non-deletion hereditary

persistance of fetal hemoglobin. Mediante sequenziamento del DNA di questi soggetti,

sono state individuate svariate mutazioni puntiformi a carico della regione promotrice

dei geni per le globine γ sovraespressi [79]. Numerosi studi hanno confermato, infatti,

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che la condizione HPFH può originare, non solo da delezioni, ma anche da mutazioni

puntiformi nella regione del promotore dei geni per le globine Gγ e Aγ. E’ già stato

precedentemente trattato l’argomento relativo all’esistenza e alla funzione di sequenze

interne a questa regione del DNA che sono responsabili della regolazione della

trascrizione mediante legame con proteine ubiquitarie o eritro-specifiche. Le mutazioni

che ricadono in queste regioni esplicano la loro azione, probabilmente, mediante

l’alterazione delle sequenze di binding delle proteine di regolazione della trascrizione

genica. Tale alterazione può sia causare la diminuzione dell’affinità per i repressori

trascrizionali, sia aumentare l’affinità per il legame di fattori transattivanti. E’ altresì

probabile che in realtà l’effetto sia dovuto ad una combinazione dei due meccanismi

appena descritti. Si è dimostrato che mutazioni localizzate in una di queste sequenze

causano un’alterazione trascrizionale del gene per le globine γ e quindi una sintesi post-

fetale persistente, seppur parziale, che dà origine a livelli di HbF variabili dal 2% al

20%. L’aumentata attività dei geni per le γ-globine controbilancia la diminuita attività di

quelli per le β, in modo che la sintesi globinica sia sempre equilibrata e non compaia il

fenotipo talassemico [2].

Mediante studi strutturali è stato possibile evidenziare che le mutazioni puntiformi

non-deletion HPFH si raggruppano in tre regioni del promotore del gene per le γ-

globine e si accentrano attorno alle posizioni -200, -175 e -115 dal sito di inizio della

trascrizione. La regione -200 è particolarmente ricca in motivi GC ed è nota per essere il

target di cinque differenti, ma ravvicinate, mutazioni puntiformi, che colpiscono il

promotore del gene Gγ in posizione -202(C G) e il promotore di Aγ rispettivamente in

posizione -202(C T), -198(C G) e -195(C G). Con studi condotti in vitro si è

focalizzata l’attenzione sugli effetti che queste mutazioni hanno sul legame di differenti

proteine che legano il DNA. In particolare le mutazioni alle posizioni -202, -198, -196,

-195 sembrano coinvolgere il sito di legame della proteina ubiquitaria Sp1.

Considerando la similitudine di sequenza tra la mutazione -198 nell’HPFH e la proteina

Sp1 si è osservato che questa mutazione aumenta l’affinità di legame per il fattore

trascrizionale Sp1. Esperimenti condotti su topi transgenici per le mutazioni -117, -175

e -198 che dimostrano fenotipo HPFH, forniscono prova diretta della relazione che

intercorre tra mutazione e fenotipo. Si è dimostrato che la mutazione HPFH -198 è in

grado di conservare, nei topi transgenici, l’espressione genica di γ in età adulta quando

il motivo CACCC box risulta alterato. Essendo la funzione del CACCC box

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indispensabile per l’espressione γ-globinica nell’adulto, questo risultato suggerisce che

la delezione HPFH -198 permetta la creazione di un nuovo elemento in grado di

sostituirsi funzionalmente alla CACCC box nella vita adulta [80]. Attraverso l’impiego

sperimentale di anticorpi commerciali, è stato possibile confermare l’identità e la

specificità di legame per -198 HPFH di un sottoinsieme di proteine che include DNMT1

(DNA metiltransferasi 1), RAP74 (la subunità maggiore del fattore di trascrizione

generico TF-II) e il coattivatore p52. La proteina Sp1, invece, non è stata individuata

come componente di questo complesso proteico, confermando quindi che l’attività di

legame della mutazione -198 HPFH riguarda il CACCC box, ma differisce da quella di

Sp1. Le proteine di legame identificate con questi studi hanno dimostrato di essere in

grado di legare la mutazione -198(T C) presente nel promotore del gene per le Aγ-globine e di essere quindi coinvolte nella regolazione dell’espressione di tale gene

portante la mutazione -198 HPFH nell’eritropoiesi adulta [80]. La sequenza CACCC del

promotore γ globinico si è rivelata essere in stretta associazione con una sequenza

ottamerica situata a monte e con un elemento CCAAT localizzato a valle. Come nel

caso del CACCC box descritto sopra, anche per l’ottamero ATGCAAAT si è dimostrata

l’esistenza di un pool di proteine di legame OBP (octamer binding proteins). In

particolare, è stata identificata una proteina che migra assieme alla forma ubiquitaria di

OBP, NF-A1, e lega in modo specifico l’ottamero del promotore del gene per le globine

γ. La mutazione puntiforme HPFH -175(T C), che coinvolge appunto la sequenza

ottamerica, riduce severamente il legame di questa proteina alla sequenza stessa e causa

come conseguenza l’attivazione dell’espressione γ-globinica, indicando, infine, che

OBP agisce normalmente come un repressore [79].

Sono state identificate mutazioni puntiformi di questo tipo in soggetti con fenotipo

HPFH di differenti etnie; in particolare, la mutazione -196(C T) nel gene per le Aγ-

globine è stata riscontrata in Sardegna e si è notato che la sua associazione in cis con la

mutazione β0-39, dà origina alla F-talassemia sarda. Questa condizione presenta una

quota di HbF elevata fino al 10-20% e una quota di HbA2 normale, spiegabile

assumendo che la mutazione coinvolgente il gene per le catene γ possa essere la causa di

una ridotta produzione di catene δ-globiniche; la quantità di HbA2 risulta quindi

normale, anziché aumentare come nel caso di un soggetto affetto da β-talassemia.

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La mutazione -117(G A) del gene per le globine Aγ, anch’essa molto diffusa in

Sardegna e in Grecia, accresce di 2-3 volte il legame del fattore CP1 (poly(C)-binding

protein-1) con il CCAAT box distale e triplica l’affinità di legame di CDP (CCAAT

displacement protein). Risulta invece fortemente diminuito il legame dei fattori NF-E1

e NF-E3 (Nuclear Factor Erythroid 3) e proprio la mancanza di un normale legame di

questi, potrebbe essere la causa dell’assenza totale di repressione della trascrizione

genica di Aγ [81].

Un altro difetto localizzato nel CCAAT box distale è rappresentato dalla delezione

di 13 nucleotidi a partire dalla posizione -114 nel gene per le Aγ-globine, che abolisce il

legame con i fattori CP1, CPD e NF-E3, ma lascia intatto il legame con NF-E1. Infine, la mutazione -158(C T) a monte del gene per le globine Gγ, ha la

caratteristica di essere riconosciuta dell'enzima di restrizione XmnI, poiché essa crea un

sito di taglio per questo enzima. Questa mutazione, molto importante per la sua alta

frequenza in Arabia Saudita, è un esempio di alterazione genetica che si esprime solo in

condizioni di stress emopoietico: infatti, una quota elevata di HbF è assente nei genitori

sani dell’individuo malato, mentre è presente nel soggetto malato, che si trova in una

condizione di stress emolitico cronico [2].

4. L’induzione di HbF come approccio terapeutico per la cura delle

talassemie.

4.a. L’eritropoiesi e il differenziamento eritroide.

La vita delle cellule, nel torrente circolatorio, ha una durata piuttosto limitata,

perciò esse vengono continuamente rinnovate attraverso il processo dell’ emopoiesi, che

ha luogo nel midollo osseo.

Tutte le cellule ematiche derivano da un limitato numero di cellule staminali

pluripotenti di origine mesodermica, le quali costituiscono meno dello 0,01% delle

cellule nucleate presenti nel midollo osseo. Esse rappresentano l’unica tipologia

cellulare caratterizzata dalla capacità di autoreplicarsi e di crescere e differenziarsi in

senso mieloide e linfoide, dando origine a tutte le popolazioni cellulari del sangue.

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Alcune cellule staminali, dividendosi, danno origine ad una progenie che perde la

capacità di differenziamento lungo le differenti vie e indirizza il proprio sviluppo verso

una specifica linea dell’emopoiesi. Le cellule staminali che invece mantengono la

capacità di divisione, ma sono prive di un qualsiasi tipo di orientamento del loro

sviluppo verso una specifica linea emopoietica, sono denominate committed; esse sono

destinate a seguire, quindi, un’unica linea differenziativa e a continuare a proliferare e

differenziarsi in precursori morfologicamente identificabili, che vanno incontro ad

un’ulteriore maturazione attraverso cui acquisiscono funzioni altamente specializzate,

ma perdono la capacità di proliferare [82]. Quest’ultime, dopo diverse divisioni

cellulari, danno origine a cellule che possono differenziare ulteriormente, producendo: i

mieloblasti, da cui originano i granulociti, gli eritroblasti, da cui si formano i reticolociti

e in seguito quindi gli eritrociti e, infine, i megacariociti, da cui derivano le piastrine

(Fig. 15) [82, 83].

Fig. 15. Rappresentazione schematica del processo dell’eritropoiesi nell’uomo. L’eritropoiesi ha inizio dalla cellula staminale totipotente che differenzia dando origine ai progenitori multipotenti (BFU-E). Da questi derivano poi le cellule committed sempre più differenziate dalle quali origineranno le cellule mature del sangue [Figura tratta dal sito http://people.hofstra.edu].

In seguito alla risposta a stimoli poco noti e mediante un processo attivo, le cellule

mature derivanti dalle tre filiere emopoietiche appena descritte, passano al torrente

ematico causando la temporanea comparsa di pori sulla membrana delle cellule

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endoteliali [84]. Il differenziamento delle cellule ematiche si esplica attraverso una

particolare programmazione dell’attività genica, che ha la funzione di reprimere la

sintesi dei geni non specifici per quel determinato istotipo cellulare e di attivare, invece,

l’espressione di geni specifici. La diversa regolazione dell’attività genica dipende da

segnali chimici che giungono al nucleo dal citoplasma, dalle cellule circostanti o

dall’ambiente esterno alla cellula stessa. Questo stato differenziato è mediato da

sostanze chimiche che svolgono un’azione regolatrice anche a distanza; questo fatto è

supportato dalla dimostrazione che è possibile ripristinare lo stato di totipotenza di un

nucleo di una cellula differenziata, inserendolo in un citoplasma di una cellula

embrionale, privandolo, pertanto, dell’ambiente che lo sollecita verso un ruolo definito

[83]. I primi fattori di crescita coinvolti negli stadi iniziali dell’emopoiesi sono le

citochine, sintetizzate e secrete sia dalle cellule del midollo, che da cellule stromali o

del sistema immunitario; esse regolano, attraverso un complesso sistema di

cooperazione, il differenziamento e la proliferazione delle cellule progenitrici. Tra le

principali citochine che prendono parte a questo processo troviamo il fattore di crescita

per le cellule staminali (SCF, stem cell factor), l’inteleuchina-3 (IL-3) e il fattore

stimolante le colonie granulocito-macrofagiche (GM-CSF). In uno stadio di crescita più

avanzato, quando i progenitori cellulari maturi si orientano verso un’unica linea di

differenziazione, intervengono altri fattori di crescita, tra cui l’eritropoietina (EPO), la

trombopoietina (TPO), il fattore stimolante colonie macrofagiche (M-CSF) e il fattore

stimolante colonie granulocitarie (G-CSF). Questi fattori di crescita presentano, inoltre,

la comune caratteristica di poter legare recettori proteici ad attività tirosin-chinasica e di

promuovere, di conseguenza, risposte complesse mediate dalla fosforillazione di

proteine bersaglio [84].

Con il termine specifico “eritropoiesi” si intende indicare il processo attraverso cui,

dalle cellule staminali totipotenti, prendono origine gli eritrociti, in seguito alla

differenziazione di cellule staminali, che porta alla comparsa dei primi progenitori

eritroidi. Nonostante gli stimoli che governano le fasi iniziali di questo processo non

siano pienamente noti, è chiaro che la formazione dei progenitori eritroidi è aumentata

dall’IL-3 e da GM-CSF e che rivestono una certa importanza in questo primo momento

di sviluppo anche le interazioni con le cellule endoteliali, fibroblastiche e macrofagiche

del microambiente emopoietico [84]. Per completare l’intero processo è richiesta la

presenza di fattori ematopoietici di crescita (HGFs) ad azione sia stimolatoria, come

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quella esercitata dalle interleuchine, che inibitoria esplicata da molecole prodotte da una

vasta gamma di cellule. Per garantire una corretta differenziazione e maturazione delle

cellule staminali è richiesta la presenza di fattori quali la vitamina B12 e l’acido folico,

indispensabili per la sintesi del DNA, la disponibilità di ferro e la presenza di oligo-

elementi come il rame, il cobalto e il nichel.

I precursori degli eritrociti divengono, nel corso della divisione, sempre più

sensibili all’azione dell’eritropoietina, l’ormone polipeptidico che viene prodotto da reni

e fegato in risposta allo stimolo ipossico inviato dai globoli rossi, che ne stimolano la

produzione provocando la divisione cellulare fino alla completa maturazione dei

precursori. La cellula eritroide più immatura, derivante dalla cellula staminale

pluripotente, è la cosiddetta BFU-E (erythroid burst forming unit=unità eritroide

formante grappoli); essa può essere isolata dal midollo osseo e/o dal sangue periferico

ed essere altrettanto facilmente coltivata in vitro, ad esempio con la metodica trattata e

descritta nel dettaglio nel capitolo “Materiali e Metodi”.

Dopo 10-15 giorni di coltura, la cellula BFU-E, la cui crescita risponde ad alte dosi

di eritropoietina, dà origine ad una grossa colonia di precursori eritroidi già

riconoscibili. La cellula più matura CFU-E (erythroid colony forming unit=unità

eritroide che forma colonie), anch’essa molto sensibile all’eritropoietina, produce un

clone cellulare più piccolo dopo 4-7 giorni di coltura.

La funzione dell’eritropoietina probabilmente si esplica mediante l’interazione

della stessa con recettori specifici posti sulla membrana di cellule progenitrici

(committed), destinate a differenziarsi in senso eritroide; l’eritropoietina induce le

cellule committed a differenziarsi in precursori eritroidi più precoci, i pronormoblasti,

riconoscibili all’esame del midollo osseo. In condizioni fisiologiche, sono richieste tre o

quattro divisioni cellulari per realizzare il passaggio da proeritroblasto a eritroblasto più

maturo, e ciò si verifica in un tempo superiore ai quattro giorni, periodo durante il quale

il nucleo diviene più piccolo ed una quantità sempre maggiore di emoglobina viene

sintetizzata nel citoplasma. Dopo l’ultima divisione cellulare il nucleo picnotico viene

estromesso dall’eritroblasto e si forma così il reticolocita, che rimane nel midollo per

due o tre giorni, e viene poi rilasciato in circolo. Dopo 24 ore esso assume il tipico

aspetto morfologico dell’eritrocita maturo, perdendo mitocondri e ribosomi; l’eritrocita,

quindi, non può esser definito come una cellula in senso stretto, in quanto è privo di

organelli cellulari. Tuttavia la cellula eritrocitaria possiede caratteristiche che le

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garantiscono la capacità di trasportare ossigeno e CO2, mediante la sintesi

dell’emoglobina e una morfologia tale per cui il suo rapporto superficie/volume risulta

favorevole e rende lo scambio gassoso più semplice [85]. Inoltre, i precursori eritroidi

(dal proeritroblasto al reticolocita) sono caratterizzati dalla presenza di un recettore di

superficie per il complesso ferro-transferrina, attraverso il quale possono inglobare il

ferro necessario alla sintesi dell’emoglobina [82].

4.b. Strategie terapeutiche per la cura della talassemia.

Attualmente gli approcci principali adottati nella terapia clinica dei disordini

emopoietici sono costituiti dalla terapia trasfusionale, che rappresenta il trattamento più

comune per tutte le forme più gravi di talassemia, e il trapianto di midollo osseo. In

particolare, l’emotrasfusione associata alla terapia ferrochelante e alla splenectomia, ha

costituito negli ultimi anni il mezzo più importante in grado di garantire il

prolungamento e il miglioramento della qualità di vita del paziente talassemico.

TERAPIA TRASFUSIONALE. Nel malato di anemia mediterranea questo

approccio terapeutico non rappresenta soltanto una terapia sostitutiva applicata per

ridurre o alleviare lo stato anemico, ma un vero e proprio intervento sulle principali

manifestazioni della malattia, delle quali può modificare la patogenesi [2].

Il trattamento tradizionale si basa sulle trasfusioni di globuli rossi, in modo che al

paziente vengano fornite le quantità di emoglobina normale necessaria a trasportare

l’ossigeno a tutti i tessuti dell’organismo, consentendo la crescita e lo svolgimento di

tutte le funzioni d’organo, in particolar modo del cuore. La terapia trasfusionale elimina

le pericolose oscillazioni a livello emoglobinico e assicura al paziente crescita e

sviluppo regolari; attraverso la riduzione dell’attività midollare, causata dalla riduzione

della produzione di eritropoietina, si provoca l’arresto dell’espansione midollare e delle

manifestazioni cliniche che questa comporta, quali le alterazioni scheletriche cranio-

facciali e l’ipervolemia. Un altro effetto che si affianca al blocco dell’attività midollare

è l’arresto o la riduzione marcata dell’eritropoiesi inefficace, con un forte calo della

produzione di eritroblasti alterati e di precipitati di catene α-globiniche. L’immissione

in circolo di un numero minore di cellule alterate, il cui destino è quello di essere

sequestrate e distrutte dalla milza, provoca di conseguenza una comparsa più lenta del

fenomeno di ipersplenismo [2].

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L’inizio della terapia trasfusionale nei malati gravi di anemia mediterranea avviene

di solito nella seconda metà o verso la fine del primo anno di vita [2]; mentre i pazienti

affetti da talassemia erano in passato sottoposti a trasfusioni di sangue di tanto in tanto,

la ricerca clinica ha dimostrato che un programma terapeutico che prevede trasfusioni di

sangue più frequenti porta ad un netto miglioramento del tenore di vita dei pazienti.

Nei casi di maggiore gravità compare entro il primo decennio di vita

l’ipersplenismo, condizione determinata dall’aumentata attività emocateretica, che la

milza rivolge sia verso le emazia danneggiate del malato, che a quelle sane ricevute

mediante terapia trasfusionale; questa eccessiva distruzione eritrocitaria ha come

conseguenza un forte ristagno di sangue nella milza ed una difficile circolazione

intrasplenica del sangue, entrambi fenomeni che determinano l’aumento del volume

della milza. Pertanto spesso si rende necessario ricorrere ad un intervento di

splenectomia, ovvero all’asportazione della ghiandola; in passato era frequente

l’insorgenza di malattie infettive in seguito all’operazione, causate dalla riduzione delle

difese immunitarie del paziente, ma nell’ultimo ventennio questo inconveniente è stato

in parte risolto, grazie al miglioramento delle condizioni generali dei pazienti,

all’applicazione più tardiva di questo intervento e alla profilassi tramite vaccinazione

cui sono sottoposti i pazienti dopo la splenectomia [2].

Poiché non esiste un modo naturale attraverso il quale il corpo umano elimina il

ferro contenuto nell’eme, un trattamento trasfusionale prolungato comporta sempre

l’insorgere di un fenomeno rilevante conosciuto come "iron overload" o "sovraccarico

di ferro", condizione che danneggia le membrane cellulari degli organi in cui si

deposita. I principali danni d’organo coinvolgono cuore, fegato e ghiandole endocrine,

perché in questi organi vi è una grossa concentrazione di recettori per la transferrina. Il

sovraccarico di ferro è la causa principale di morte dei pazienti trattati con ripetute

trasfusioni di sangue. In associazione alla terapia trasfusionale, perciò, i soggetti

talassemici necessitano della terapia chelante, la cui funzione è quella di allontanare il

ferro in eccesso.

La causa principale dei danni cellulari causati dall’accumulo di ferro libero nei

tessuti è probabilmente la formazione di specie reattive dell’ossigeno (ROS) che fanno

in modo che le cellule perdano la capacità di ridurle, accelerando la formazione di

radicali liberi idrossilici responsabili della perossidazione dei lipidi e delle proteine di

membrana e, infine, del danno cellulare. A tal proposito, si è dimostrato che il livello di

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NTBI (non-trasferrin-bound iron) nel sangue rappresenta la causa maggiore del danno

ossidativo, tuttavia tale ipotesi richiede ulteriori conferme [86].

Il primo segno di sovraccarico di ferro nel malato trasfuso è l’aumento della

ferritina sierica, parametro utilizzato nella valutazione clinica degli stati di sierosi. La

ferritina sierica, che nel soggetto normale si presenta per l’80% nella forma glicosilata,

nel malato politrasfuso è in quantità molto più elevata e nella massima parte si trova in

forma non glicosilata; la correlazione tra la quota di ferritina sierica e il grado di sierosi

non è però assolutamente lineare e può essere alterata da fattori quali la presenza di

ascorbato, febbre o processi infiammatori, epatiti acute o croniche ed iperemolisi

cronica [2].

Le caratteristiche di maggiore importanza che sono richieste ad un agente chelante

il ferro sono, soprattutto, la selettività e l’affinità per lo ione ferrico Fe3+, una spiccata

capacità di penetrazione dei tessuti e delle cellule, la non tossicità, basso costo, la

possibilità di somministrazione orale e un tempo di emivita elevato. Caratteristiche del

composto quali il peso molecolare, il bilancio tra grado di lipofilia e idrofilia, la

farmacocinetica, la distribuzione e il metabolismo giocano quindi un ruolo determinante

per definire la sicurezza o la tossicità del composto chelante. Ottenere un agente

chelante ideale è un impresa molto difficile, poichè, se da un lato l’accumulo di ferro è

causa di tossicità e danni d’organo, dall’altro questo elemento è essenziale in molte

funzioni metaboliche tra cui il trasporto dell’ossigeno, la sintesi del DNA, il trasporto di

elettroni. Peranto, l’agente chelante deve essere in grado di rimuovere dall’organismo

solo il ferro in eccesso. Di conseguenza, tra i vari effetti collaterali, l’impiego di agenti

chelanti, può comportare l’alterazioni della normale omeostasi del ferro (assorbimento,

distribuzione e utilizzo), interferire con enzimi ferro-dipendenti o rimuovere altri metalli

come lo zinco e il calcio dai loro ambienti metabolici [87].

Al fine di rimuovere in modo efficace il ferro in eccesso che si accumula in seguito

alla terapia trasfusionale, i pazienti vengono sottoposti alla difficile e dolorosa infusione

di un farmaco chelante, la desferrioxamina (Desferal®). La desferrioxamina (DFO) è un

sideroforo naturale, che viene prodotto dallo Streptomices pilosus per captare ferro

dall’ambiente, che chela il ferro mascherandone i sei siti di coordinazione e in questo

modo il complesso non è in grado di generare ROS. L’eliminazione del ferro chelato

avviene per via fecale o urinaria; si pensa che il ferro eliminato con le feci derivi dalle

cellule epatiche, dove viene legato in situ ed escreto con la bile, mentre il ferro

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eliminato per via urinaria provenga sia dal ferro catabolico chelato entro il pool di ferro

labile, sia dal ferro libero non transferrinico rilasciato dalle cellule del reticolo

endoteliale [2]. Il farmaco può essere somministrato per via parenterale, ma anche

attraverso infusioni endovenose o sottocutanee. Per ottenere dei buoni risultati le

infusioni necessitano di essere prolungate per 8-12 ore, usando un ago attaccato ad una

piccola pompa per infusione funzionante attraverso batterie e infilato sotto la pelle di

varie parti del corpo. Gli alti costi del farmaco, della pompa e dei materiali di infusione

ne limitano, tuttavia, l’utilità e l’applicazione, spesso non ben sopportata dai pazienti

che con il tempo perdono gradualmente la disponibilità nei confronti di questa

complessa terapia; ma essere in grado di tollerare questo farmaco ferrochelante è

essenziale per la sopravvivenza a lungo termine del paziente talassemico, infatti, se la

terapia chelante non viene correttamente effettuata, si ha un aumento delle possibilità di

morte precoce per il soggetto talassemico. Al fine di porre rimedio a questo problema,

sono in studio nuovi composti chelanti il ferro che possano essere tollerati con più

facilità dai pazienti. Questo fatto e la necessità assoluta di fornire un’adeguata terapia ai

pazienti talassemici hanno sollecitato la ricerca a direzionarsi verso nuovi ferrochelanti

somministrabili per os [2].

Nel 1990 al VI Simposio Internazionale sul morbo di Cooley, che si è tenuto a New

York, le ricerche in questo settore hanno identificato quattro gruppi di molecole ad

attività ferrochelante, le cui strutture chimiche sono descritte in Fig. 16:

1. al primo gruppo appartiene l’idrazone di isonicotinoil-piridossale (PIH), la cui

capacità di chelare il ferro si è però rivelata modesta; tuttavia, assieme ad alcuni suoi

analoghi ha dimostrato di essere un potente inibitore della produzione di radicali liberi

dell’ossigeno [87];

2. il secondo gruppo annovera l’acido diacetico di idrossibenzil-etilendiammina

(HBED), che somministrato per via parenterale a ratti ipertrasfusi, ha dimostrato di

indurre sperimentalmente un’escrezione urinaria di ferro doppia rispetto a quanto

ottenuto in seguito a trattamento con Desferal;

3. nel terzo gruppo c’è la desferritiocina (DFT), un sideroforo isolato nel 1980

dallo Streptomyces antibioticus e attualmente prodotto per sintesi chimica. E’ un agente

chelante il ferro assumibile per via orale, con alta affinità di legame per lo ione Fe3+.

Immediatamente dopo la sua scoperta, la desferrioticina è stato testata su ratti in cui il

sovraccarico di ferro veniva effettivamente diminuito, in particolar modo a livello del

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fegato; tuttavia, sebbene i dati iniziali non abbiano dimostrato particolari effetti

negativi, una lunga esposizione dei ratti al farmaco ha dimostrato vari stadi di

alterazione, da lievi a più severi, dei tubuli prossimali renali [87];

4. infine, il quarto gruppo, è rappresentato dal deferiprone o CP20 o L1. Il suo uso

è stato autorizzato inizialmente in India nel 1995 e poi in Europa, nel 1999, dove è

attualmente impiegato per il trattamento di pazienti per cui la cura con desferrioxamina

risulta inadeguata [87]. Questa molecola sottrae il ferro dalla ferritina, dall’emosiderina

e dalla transferrina ferrica. Sono richieste tre molecole di deferiprone per chelare

efficacemente una molecola di ferro e prevenire la formazione di ROS. Il farmaco può

entrare nelle cellule [88], legare tre atomi di ferro e viene espulso dall’organismo in

questa forma, attraverso le urine. In ratti ipertrasfusi è stato rilevato che il ferro

eliminato per via urinaria proviene dal reticolo endoteliale, mentre quello espulso per

via fecale viene sequestrato dal fegato e dal miocardio. Le prove di tossicità a breve

termine condotte su animali non hanno segnalato effetti collaterali negativi, salvo lievi

alterazioni dell’elettroretinogramma simili a quelle causate dal Desferal [2]. L’effetto

collaterale più serio è rappresentato dall’agranulocitosi, mentre effetti avversi più

comuni, ma meno gravi sono dati da sintomi gastrointestinali (nausea, vomito), artralgia

e deficienza di zinco [87]; tuttavia, sono stati osservati casi in cui l’uso di deferiprone

ha causato fibrosi epatica, dimostrando così che questo farmaco, assunto abitualmente, è

meno efficace della desferrioxamina nella prevenzione dell’accumulo di ferro nel fegato

e causando l’astensione di paesi come gli Stati Uniti e il Canada dall’uso del

deferiprone. Al contrario, il farmaco è stato adottato in uso da ben 50 Paesi europei,

dopo che con studi recenti si è chiarito che la fibrosi epatica non è l’effetto collaterale

più comune e grave [89].

Dal deferiprone deriva un nuovo composto: il GT56-252, anch’esso a

somministrazione orale, che forma un complesso con il Fe3+ in rapporto 2:1.

Per sintesi chimica si è ottenuto il composto 40SD02 (CHF 1540), derivante

dall’attacco di un polimero di amido modificato alla desferrioxamina. La molecola

risultante, caratterizzata da un elevato peso molecolare che ne prolunga il tempo di

emivita, mantiene l’affinità di legame per Fe3+ tipica della desferrioxamina, senza però

produrre gli stessi effetti tossici acuti, come ad esempio l’ipotensione.

Infine, un ulteriore composto attivo per somministrazione orale è l’ICL670; esso è

un bis-idrossifenil-triazolo-N-sostituito, che ha dimostrato buona farmacocinetica e

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scarsissima tossicità. La sua azione è limitata alla rimozione di ferro dal fegato, mentre

non esercita il medesimo effetto sul cuore [87].

Alcuni studi hanno dimostrato che l’azione combinata del deferiprone con la

desferrioxamina è in grado di diminuire i livelli del ferro sia nel fegato che nel cuore

mediante un’azione sinergica. Infatti, il deferiprone somministrato per via orale entra

nelle cellule cardiache, dove lega il ferro, che viene trasferito nel sangue in questa

forma; dopo un determinato intervallo di tempo, si somministra per via parenterale la

desferrioxamina che lega il ferro entrato nel torrente circolatorio, e ne provoca

l’eliminazione con le urine e le feci.

Fig. 16. Struttura chimica di agenti chelanti il ferro di ultima generazione. HBED (acido acetico di idrossibenzil-etilendiammina); PIH (idrazone di isonicotinoil-piridossale); DFT (desferriotiocina); GT56-252 (derivato del desferiprone); ICL-670 (bis-idrossifenil-triazolo-N-sostituito) [Cohen et 2004].

TRAPIANTO DI MIDOLLO OSSEO. Il midollo osseo di un individuo

talassemico non è in grado di produrre una normale quantità di globuli rossi funzionali;

perciò, attraverso il trapianto di cellule normali e funzionanti si può garantire la

guarigione definitiva al paziente talassemico.

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Innanzitutto è necessario distruggere in parte le cellule del midollo del paziente con

farmaci chemioterapici (condizionamento pre-impianto), fase molto delicata poiché il

paziente viene privato delle difese immunitarie, in seguito il midollo distrutto viene

reitegrato con le cellule sane derivate dal donatore (trapianto). Per poter effettuare tale

sostituzione è necessaria un’assoluta compatibilità tra donatore e paziente; il midollo del

donatore deve possedere caratteristiche il più possibile uguali a quelle del ricevente

talassemico al fine di evitare qualsiasi fenomeno di rigetto, caso in cui il paziente

necessiterà di continuare a ricevere emotrasfusioni regolari per vivere. Le cellule

midollari, prelevate dal donatore, sono somministrate endovena al paziente, in maniera

simile ad una normale trasfusione di sangue. Il prelievo del midollo (sangue midollare)

viene eseguito in anestesia mediante ripetute punture delle creste iliache (ossa del

bacino) e la quantità di sangue midollare che viene prelevata varia in rapporto al volume

corporeo del ricevente, ma è di solito compresa fra i 700 e i 1000 ml.

Le probabilità di successo di un trapianto di midollo sono superiori al 70%,

percentuale variabile a seconda dell’età del paziente e, se il trapianto ha un buon esito, il

nuovo midollo comincia a produrre globuli rossi normali. La responsabilità degli

insuccessi, invece, viene attribuita principalmente agli interventi di condizionamento

pre-impianto, al trattamento con ciclofosfamide per l’immunosoppressione e alla

prolungata somministrazione dopo il trapianto di metotrexato per prevenire la GVHD

(graft versus host disease=malattia da reazione contro l’ospite) [2].

Quindi, il trapianto di midollo è una pratica terapeutica che presenta notevoli

vantaggi, ma contemporaneamente grandi rischi e richiede un’attenta valutazione della

possibilità di successo prima di essere eseguita.

4.c. Terapie sperimentali per la cura della β-talassemia basate sull’induzione

di emoglobina fetale.

Nuove strategie per il trattamento di emoglobinopatie e in particolare della

β-talassemia si basano sulla consapevolezza che questi disordini genetici sono causati

da difetti strutturali o funzionali di un gene in età adulta, per il quale, tuttavia, esiste

ancora la controparte fetale intatta. Durante l’ultimo decennio, molti composti

farmacologici sono stati testati e indagati per la loro potenziale attività come induttori

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della sintesi di emoglobina fetale nel trattamento dell’anemia falciforme e dell’anemia

mediterranea.

Sebbene queste due malattie abbiano un’origine comune in un’alterazione che

coinvolge il gene per le β-globine, la loro differente fisiopatologia e causa genetica

specifica, obbliga la ricerca ad adottare diversi approcci. Nella β-talassemia, la

mancanza parziale o totale di sintesi β-globinica, rende di rilevante importanza

l’incremento della produzione di qualsiasi altra catena globinica non-alfa. Questo può

essere ottenuto sia potenziando l’espressione di geni per le globine di tipo β introdotti

nelle cellule mediante vettori virali (terapia genica), sia riattivando la produzione di

emoglobina fetale nell’individuo adulto, nel quale normalmente questa si trova in

percentuale molto ridotta.

E’ stato ampiamente dimostrato da studi biochimici, molecolari e clinici che i

pazienti affetti da disordini genetici del gene per le globine β, traggono giovamento

dalla persistenza o dall’induzione farmacologia di emoglobina fetale (HbF), quando

essa raggiunge percentuali comprese tra il 9% e il 20%, particolarmente se l’HbF si

trova distribuita in modo sostanziale nella popolazione eritrocitaria. L’induzione di HbF

è perciò diventato oggetto di studi per il trattamento e la cura delle emoglobinopatie

[164]. Infatti, studi condotti su individui che manifestano persistenza dell’HbF in età

adulta, hanno portato a definire che un’alta percentuale di HbF è associata ad un

decorso lieve e benigno della patologia [90]. Considerando gli effetti positivi sul quadro

clinico esercitati dalla presenza di un’alta quota di HbF, è stata rivolta particolare

attenzione alla ricerca di sostanze capaci di riattivare la sintesi di HbF nella vita post-

fetale [2]. Quindi, uno degli obiettivi nella terapia sperimentale della β-talassemia è

quello di aumentare la sintesi delle catene γ-globiniche, per compensare il deficit di

quelle β, attraverso manipolazioni farmacologiche dello switch feto-adulto delle

globine. L’espressione di γ-globine nell’uomo può essere controllata sia a livello post-

trascizionale, traslazionale, o post-traslazionale ed i composti che esplicano la loro

azione su uno di questi steps, possono potenzialmente indurre l’espressione di

emoglobina fetale [91].

L’accellerazione dei processi apoptotici dei precursori eritroidi nella β-talassemia,

costituisce un ostacolo per trovare una terapia definitiva a questa patologia, poiché gli

effetti benefici degli agenti che inducono la produzione di HbF non possono essere

indotti in cellule in cui la morte programmata è stabilita ad uno stadio così precoce dello

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sviluppo. E’ quindi importante identificare, oltre a sostanze in grado di indurre

l’emoglobina fetale, anche metodi per ridurre l’apoptosi cellulare. E’ già stato condotto

un trial clinico pilota per determinare se l’uso combinato di un induttore di HbF come il

butirrato e di eritropoietina, il fattore di crescita ematopoietico che prolunga la

sopravvivenza delle cellule eritroidi e ne stimola la proliferazione, può produrre una

risposta positiva additiva su alcuni soggetti talassemici [92].

Sono numerosi i composti che hanno dimostrato la capacità di incrementare la

sintesi di HbF sia nell’uomo che in modelli animali; questi composti comprendono

farmaci citotossici, analoghi nucleotidici, fattori di crescita e derivati dell’acido

butirrico. Inizialmente erano quattro i composti di maggior interesse per questo scopo:

1. la 5-azacitidina, analogo della citosina e farmaco citotossico. Nel 1982 fu

osservato per la prima volta che questo farmaco somministrato ai topi per via

intravenosa provocava un aumento della quota di emoglobina fetale in questi animali.

Normalmente, nella cromatina, il DNA è metilato secondo un disegno tutt’altro che

casuale, bensì correlato strettamente all’attività genica. Questa relazione è stata

osservata inizialmente nel cluster β, in cui i geni per le γ-globine risultano essere

demetilati nel periodo fetale in cui sono espressi, ma fortemente metilati nel periodo

adulto in cui sono invece silenziati. Potenzialmente, quindi, la riattivazione dei geni per

le globine γ nell’adulto può essere indotta alterando questo quadro di metilazione,

andando ad agire, ad esempio, sugli enzimi coinvolti in tale processo [90]. Si è

ipotizzato che il meccanismo d’azione della 5-azacitidina consistesse proprio

nell’ipometilazione del DNA in corrispondenza della regione dei geni per le γ-globine

contenente siti di legame per fattori di trascrizione, similmente a quanto avviene negli

eritroblasti durante il periodo fetale. Con questo meccanismo il farmaco è dunque in

grado di annullare la down-regolazione della sintesi delle catene di tipo γ. Tuttavia si è

osservato immediatamente che la 5-azacitidina è soprattutto un agente citotossico-

citostatico specifico della fase S, quindi inibisce la replicazione di cellule in attiva

proliferazione, è potenzialmente cancerogeno, ha un’efficacia limitata nel tempo e causa

una marcata inibizione dell’eritropoiesi, tutti fattori che hanno portatao all’abbandono di

questo farmaco nella terapia della talassemia; un analogo della 5-azacitidina è la 5-aza-

2’-desossicitidina (decitabina).

2. L’idrossiurea (HU), un agente citostatico che blocca la replicazione del DNA

inibendo il complesso enzimatico della ribonucleotide difosfato reduttasi. Questo

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farmaco veniva preferito rispetto al precedente nella pratica clinica per il suo miglior

profilo farmacocinetico e per la possibilità di somministrazione orale. Tuttavia, il suo

effetto è transiente, variabile e, quindi, poco prevedibile, oltre a presentare anche una

certa citotossicità. L’idrossiurea ha dimostrato di avere numerosi effetti sulle colture

eritrocitarie; essa incrementa la porzione di HbF prodotta, diminuisce il numero delle

cellule a causa della sua azione di inibizione della proliferazione cellulare, aumenta il

contenuto cellulare di emoglobina (MHC) e infine fa aumentare il volume delle cellule

eritrocitarie. L’entità di questi effetti è tuttavia correlata e dipendente dalla dose di

farmaco e dal momento in cui è avvenuta la somministrazione. I risultati ottenuti

suggeriscono che l’idrossiurea influenza il fenotipo emoglobinico interagendo

direttamente con i precursori eritroidi tardivi, che sono già coinvolti nella produzione di

emoglobina; questa interazione non richiede né la mediazione di altri gruppi cellulari

(come ad esempio macrofagi, linfociti o cellule stromali), né fattori di crescita specifici

come GM-CSF. I meccanismi attraverso cui l’idrossiurea agisce potrebbero coinvolgere

la selezione di una popolazione cellulare, preesistente, rappresentata dalle F cellule, che

hanno dei vantaggi sia nella crescita che nella sopravvivenza. Si pensa che questa

tipologia cellulare possa essere coinvolta soprattutto nel caso di pazienti affetti da

β-emoglobinopatie, dove le cellule F sono resistenti all’eritropoiesi inefficace. Un

meccanismo alternativo potrebbe essere rappresentato dalla induzione diretta della

maggior parte delle popolazioni eritrocitarie a produrre HbF, per esempio mediante la

rimozione di proteine in trans che regolano negativamente la regione del promotore del

gene per le γ-globine, oppure indirettamente modificando la cinetica del ciclo cellulare

[93].

3. L’eritropoietina, il principale fattore di crescita della linea eritroide. La

somministrazione di quantità farmacologiche di eritropoietina, in soggetti affetti da

β-talassemia intermedia, causa, durante la maturazione dei precursori eritroidi, la sintesi

di γ-globine e, quindi, un incremento di HbF [94].

4. Dalla metà degli anni ’80 l’attenzione è stata rivolta verso gli analoghi

dell’acido butirrico, un acido grasso naturale con una catena di quattro carboni. E’

stato osservato che neonati di mamme diabetiche avevano alti livelli di HbF, fenomeno

attribuito ad alte concentrazioni ematiche di acido butirrico e di altri acidi grassi a

catena corta; sembra che il meccanismo con cui agiscono questi composti coinvolga

l’enzima istone deacitilasi, responsabile del mantenimento di una configurazione della

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cromatina che permette la trascrizione genica. Queste osservazioni sono state in seguito

avvalorate dalla dimostrazione che individui con gravi disturbi nel metabolismo

dell’acido propionico presentavano quantità elevate di HbF. Anche per quanto riguarda

l’acido butirrico la risposta clinica si presenta estremamente variabile, ma tale

fenomeno potrebbe dipendere dal background genetico del paziente. In vitro, il butirrato

ha dimostrato di essere un inibitore dell’istone deacetilasi (HD) [95] e di indurre

l’espressione dei geni per le globine γ. Il recente clonaggio dell’istone acetiltransferasi

(HATs) e dell’istone deacetilasi (HD) ha chiarito che l’acetilazione permette

l’attivazione trascrizionale dei geni bersaglio e che l’istone deacetilasi è responsabile

dell’impacchettamento e del silenziamento genico. Un incremento della sintesi di HbF è

stato notata in seguito alla combinazione di HD, agenti ipometilanti e gli inibitori

dell’istone deacitilasi. Gli elementi sensibili al butirrato (BREs) sono stati identificati

non solo nel promotore genico per le γ-globine, ma anche nei promotori di altri geni, la

cui espressione indotta dal butirrato risultava essere nociva [96, 97].

Per lo studio dell’efficacia di nuovi agenti terapeutici in grado di indurre il

differenziamento eritroide e l'espressione dei geni per le γ globine, sono state adottate

nei modelli sperimentali le cellule eritroleucemiche umane K562. Questa linea cellulare

rappresenta un modello d’indagine molto utile, in quanto le K562 presentano una sintesi

basale di emoglobina molto bassa, che però può essere significativamente incrementata

quando le cellule vengono trattate con molecole in grado di indurre il differenziamento

eritroide.

Un sistema innovativo per saggiare l'attività eritro-differenziante di nuove molecole

potenzialmente utilizzabili nella terapia delle emoglobinopatie, consiste nell’utilizzo di

colture di cellule staminali umane. Queste cellule staminali totipotenti, oltre ad essere

presenti fisiologicamente nell'individuo, hanno la capacità di riprodursi e di

differenziarsi, sotto l’influsso di determinati stimoli, divenendo così un potenziale

modello per la valutazione di eventuali alterazioni dell'espressione di geni globinici

embrio-fetali.

Le tradizionali tecniche per identificare composti induttori di emoglobina fetale

sono complesse e richiedono molto tempo; recentemente è stato sviluppata una

metodica più rapida ed efficiente che si basa sull’utilizzo di un costrutto di DNA

ricombinante nel quale le sequenze codificanti per i geni di due differenti luciferasi,

denominate firefly e renilla, sostituiscono rispettivamente i geni per le globine γ e β

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umane. L’attività di questi geni può essere distinta mediante un saggio enzimatico

semplice e altamente sensibile condotto sul lisato cellulare. Le cellule trasfettate

stabilmente con questo costrutto vengono messe in coltura con composti potenzialmente

induttori di HbF e i loro effetti vengono determinati misurando e valutando i

cambiamenti nell’attività delle due luciferasi. Gli induttori specifici per il gene per le γ-

globine vengono riconosciuti grazie alla loro abilità nell’aumentare l’attività del gene γ-

firefly luciferasi significativamente di più rispetto al gene β-renilla luciferasi. Tale

metodo permette quindi di effettuare un rapido screening di agenti chimici sospettati di

poter indurre l’espressione del gene γ globinico [98].

4.d. La Rapamicina come agente induttore dell’attività eritro-differenziante.

La Rapamicina, un macrolide lipofilico detto anche Sirolimus, è un prodotto di

fermentazione isolato da un ceppo di Streptomyces hygroscopicus, degli attinomiceti

trovati nel suolo dell’isola di Pasqua (Rapa Nui). Essa fu originariamente valutata per le

sue proprietà antifungine, ma in seguito furono evidenziate anche attività

immunosoppressiva e antitumorale in vivo [99]. L’uso della rapamicina è stato

approvato come agente di prevenzione del rigetto in seguito a trapianti d’organo, in

particolare di reni, nel settembre del 1999 dalla FDA e nel dicembre del 2000 dalla

CPMP (Committee for Proprietary Medicinal Products), il corpo consultivo dell’EMEA

(European Medicines Evaluation Agency) [100, 101].

Recentemente è stato dimostrato che la Rapamicina è in grado di indurre il

differenziamento eritroide della linea cellulare leucemica umana K562. Le indagini in

questa direzione hanno inoltre messo in evidenza che l’induzione prodotta dalla

Rapamicina è superiore e più potente rispetto a quella ottenibile in seguito a trattamento

con Ara C, Mitramicina e Cisplatino, noti induttori del differenziamento eritroide [102].

In aggiunta, mettendo in coltura precursori eritroidi umani, in presenza di

Rapamicina, si è osservato un incremento della quantità di γ-mRNA e di emoglobina

fetale in queste cellule, a livelli maggiori di quanto ottenibile usando l’Idrossiurea.

Questi effetti mediati dalla Rapamicina, inoltre, non sono associati ad inibizione della

crescita cellulare. E’ stato possibile testare e valutare tale composto su precursori

eritroidi derivati da pazienti affetti da β-talassemia; i risultati osservati inseriscono la

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Rapamicina nel gruppo dei composti in grado di incrementare i livelli di HbF e di

essere, quindi, un potenziale approccio terapeutico per svariati disordini ematologici

[100, 102].

In modo interessante, è stata presa in considerazione, in seguito, l’analisi di molte

molecole strutturalmente correlate alla Rapamicina, che hanno dimostrato di possedere

caratteristiche migliori rispetto alla stessa Rapamicina, in primis l’Everolimus [103].

5. L’Everolimus.

5.a. Struttura della molecola.

L’Everolimus (40-O-(2-OH-etil)-rapamicina; Certican®,Novartis Pharmaceuticals)

è un analogo strutturale della Rapamicina, sviluppato in seguito alla scoperta del primo

composto come promettente agente terapeutico in vari ambiti [99]. La sua formula bruta

è C53H83NO14 e il suo peso molecolare è 958,224 g/mol e la struttura chimica è riportata

in Fig. 17.

In seguito all’addizione covalente di un gruppo idrossietilico alla posizione 40 della

Rapamicina, si è ottenuto questo macrolide semisintetico con polarità maggiore rispetto

alla molecola da cui deriva; infatti, l’Everolimus è stato sviluppato nel tentativo di

migliorare le caratteristiche farmacocinetiche, in particolare la sua biodisponibilità orale

e la velocità di raggiungimento dello steady state. La sintesi dell’Everolimus è tuttavia

coperta da patent.

In seguito a somministrazione orale, l’Everolimus è assorbito rapidamente e

raggiunge il picco di concentrazione ematica in circa 2 ore, mentre lo steady state viene

ottenuto in 7 giorni; negli individui adulti, la farmacocinetica dell’Everolimus non

subisce variazioni dipendenti dal sesso, dal peso o dall’età, mentre nei bambini sono

necessari adattamenti nel dosaggio in base al peso. La variabilità individuale delle

caratteristiche farmacocinetiche dell’Everolimus possono essere spiegate dal sistema di

metabolizzazione del farmaco stesso; l’Everolimus viene metabolizzato dagli enzimi

della famiglia del citocromo P-450 3A (CYP3A) e costituisce un substrato anche per la

glicoproteina P, una proteina di membrana coinvolta nel trasporto energia-dipendente di

composti al di fuori della cellula. Di conseguenza l’Everolimus è in grado di interagire

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sia con inibitori, che con induttori del sistema CYP3A e della glicoproteina P [101] e si

è notata anche la presenza di interazioni farmaco-farmaco tra l’Everolimus e altri

substrati metabolizzati dallo stesso sistema enzimatico.

Fig. 17. Struttura chimica dell’ Everolimus. La molecola è formata

da un anello a 31 atomi, un gruppo pipecolinico, un gruppo piranoso, un triene coniugato ed una regione tricarbonilica. Nella struttura sono presenti anche 15 centri chirali.

Sia l’Everolimus che la Rapamicina condividono con il Tacrolimus (TAC)

similitudini strutturali e tutti e tre i composti legano la stessa immunofillina FKBP12

(FK506-binding protein), un polipeptide del peso di 12 kDa, che si è dimostrato essere

una peptidilpropil rotamasi citoplasmatica [104, 105]. Nonostante questa comune

affinità di legame per la stessa immunofillina, il meccanismo d’azione dell’Everolimus

(e della Rapamicina) è completamente differente da quello di TAC, che è un inibitore

della fosfatasi calcineurina e blocca il ciclo cellulare tra le fasi G0 e G1.

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5.b. Meccanismi d’azione.

Essendo l’Everolimus un derivato strutturale della Rapamicina, condivide con

questa molte caratteristiche e aspetti funzionali, tra cui il meccanismo d’azione, qui di

seguito descritto. L’azione immunosoppressiva dovuta al blocco della crescita e della

proliferazione delle cellule T della Rapamicina e dell’Everolimus, dipendono

sostanzialmente dall’affinità di legame di queste molecole per la proteina FKBP12,

molecola precedentemente nota per la sua capacità di legare il farmaco ad azione

immunosoppressiva FK506.

Il legame alla proteina FKBP12, non è tuttavia il reale meccanismo definitivo

attraverso cui avviene il blocco della crescita cellulare. L’attività antiproliferativa

esplicata dall’Everolimus (e dalla Rapamicina), richiede l’interazione con almeno due

proteine intracellulari; infatti, dopo aver legato la proteina citoplasmatica FKBP12, il

farmaco così complesso lega e inibisce l’attivazione di mTOR (mammalian Target Of

Rapamycin), altrimenti detta FRAP protein (FKBP12-rapamycin-associated-protein),

una proteina che si è rivelata avere un ruolo fondamentale nei meccanismi regolatori

che controllano il metabolismo, la crescita e la proliferazione cellulari (Fig. 18) [106].

La proteina mTOR è una molecola altamente conservata nel corso dell’evoluzione

ed omologa alle proteine TOR1 e TOR 2 del lievito Saccaromyces Cerevisiae, dal quale

la molecola è stata isolata [99]. Nei lieviti, le proteine TOR1 e TOR2 sono grandi circa

280 kDa e presentano tra loro un’omologia molto elevata, che le rende uguali per il

67%. TOR1 e TOR2 controllano una serie di processi che contribuiscono alla crescita

cellulare, in risposta alla disponibilità di azoto, inclusi: la progressione della fase G1, la

regolazione della trascrizione, l’uptake di amminoacidi, l’organizzazione del

citoscheletro e la degradazione delle proteine. E’ stato osservato che i lieviti mutanti per

la proteina TOR1, erano completamente resistenti all’inibizione della crescita cellulare;

questa osservazione, avvalorata dal fatto che mutazioni apportate a TOR1 (TOR1-1, Ser

1972 Arg) e a TOR2 (TOR2-1, Ser 1975 Ile) ne impedivano il legame da parte del

complesso FKBP12-Rapamicina, ha dimostrato che effettivamente TOR è il vero e

proprio target della Rapamicina e anche dell’Everolimus [107, 108, 109, 110, 111].

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Fig. 18. Rappresentazione dell’azione di mTOR sull’attività cellulare. La proteina TOR è un sensore di integrazione di segnali extracellulari ed intracellulari, grazie ai quali coordina la crescita e la proliferazione della cellula: è un chinasi che fosforila la proteina p70S6K, attivandola e incrementando la traduzione proteica; TOR ha come bersaglio di fosforilazione anche 4E-BP1, inibitore della traduzione quando è in forma defosforilata. Se viene fosforilato, invece, si dissocia dalla subunità eIF-4E e dà inizio alla traduzione proteica.

Anche negli eucarioti la proteina TOR (Fig. 19) è stata ampiamente studiata ed è

stato verificato il suo importante ruolo nel controllo della crescita cellulare; gli

organismi eucarioti sembrano possedere però un unico gene codificante per TOR,

scoperto per la prima volta nei mammiferi e per questo motivo denominato mTOR. La

molecola mTOR è una serin-treonin chinasi importante per regolare l’attivazione e la

proliferazione cellulare ed è stata identificata grazie alla sua capacità di legare in vitro il

complesso FKBP12-Rapamicina [112, 113].

Successivamente è stato dimostrato che una mutazione di mTOR (Ser 2035 Ile),

analoga a quella effettuata sui lieviti, conferiva alle cellule di mammifero resistenza

all’azione della Rapamicina; si è ottenuta quindi conferma che, anche nei mammiferi, il

bersaglio del complesso FKBP12-rapamicina è ancora mTOR e che il meccanismo

d’azione di questo composto, per cui anche dell’Everolimus, viene conservato

nell’evoluzione dai funghi all’uomo [107].

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Per mantenere la funzione di TOR è necessaria l’integrità del suo dominio

chinasico, che presenta, all’estremità N-terminale, una regione costituita da 100

amminoacidi detta FRB (FKBP-Rapamycin Binding), a cui si lega il complesso

FKBP12-Rapamicina. Nella struttura molecolare della Rapamicina sono distinguibili

due domini funzionali, definiti dalla loro interazione con FKBP12 (binding domain) e

con mTOR (effector domain) [115].

Fig. 19. Struttura della proteina mTOR. La figura descrive i differenti domini strutturali che compongono la molecola. Dall’estremità ammino-terminale si riconoscono le sequenze ripetute in tandem HEAT, la sequenza FAT, il dominio FRB (importante per il legame con le Rapamicina), il dominio chinasico ed , infine, all’estremità carbossi-terminale le sequenza regolatoria NRD e la sequenza FACT.

Valutando la struttura cristallina del complesso ternario FKBP12-Rapamicina-

mTOR, si è evidenziato che l’unione delle due proteine è mediata quasi esclusivamente

dalla presenza tra loro della molecola di Rapamicina, che ha la capacità di occupare

simultaneamente due differenti tasche idrofobiche di legame; la struttura cristallina ha

rivelato ampie interazioni tra la Rapamicina ed entrambe le proteine, ma scarsi contatti

tra le due proteine [114].

All’estremità N-terminale della proteina TOR sono presenti, inoltre, 20 sequenze

ripetute in tandem, dette HEAT repeats, (Huntington, Elongation factor3, subunità A

della protein-fosfatasi di tipo 2A, proteina TOR), il cui nome deriva dalle iniziali delle

quattro proteine nelle quali fu riscontrata per la prima volta la presenza di questi domini.

Ogni sequenza HEAT ripetuta consiste in una struttura formata da due α-eliche

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antiparallele di circa 40 amminoacidi [116, 117]. La funzione di queste sequenze HEAT

ripetute nei lieviti potrebbe essere quella di ancorare la proteina TOR alla membrana

plasmatica, probabilmente mediante l’interazione con una proteina transmembrana

[118].

Ad una distanza di circa 500 amminoacidi dal dominio FRB, si trova il dominio

FAT, che sembra avere una funzione simile a quella delle HEAT repeats

nell’interazione proteina-proteina [119, 120].

All’estermità C-terminale della proteina si trova invece una sequenza di 35

amminoacidi, detta FATC, che sembra essere essenziale,assieme a FAT, alla funzione

chinasica di TOR, poiché consente l’esposizione corretta del sito di catalisi al bersaglio

[121, 122].Vicino a FACT è posizionato un elemento, con funzione di regolazione

negativa, detto dominio NRD; esso agisce mediando una variazione configurazionale

che impedisce l’esposizione fisiologica del sito catalitico [123]. La proteina mTOR è

una componente centrale della sequenza di eventi, sensibile alla presenza di nutrienti ed

ormoni, che controlla la crescita cellulare (Fig. 20).

Fig. 20. Legame di mTOR con Raptor. Raptor è una proteina coinvolta nel meccanismo di fosforilazione mediato da mTOR; la figura mette in evidenza i fattori influenzanti il processo di legame e gli eventi risultanti dall’interazione tra mTOR e Raptor. Tale interazione è stabilizzata da una proteina simile alla subunità β delle proteine G, anch’essa descritta in figura.

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La proteina mTOR, contiene all’estermità C-terminale un dominio chinasico,

correlato molto strettamente alla famiglia delle fosfatidil-inositolo-3-chinasi (PIK), che

include ATM, ATR e DNA-PK chinasi, le quali giocano un ruolo importante nel

controllo del ciclo cellulare; l’inattivazione di mTOR provoca l’inibizione della

fosforilazione della p70S6 chinasi (p70S6K, conosciuta anche come S6K1) e del fattore

di iniziazione eucariotico 4EBP1 (4E binding protein1) (Fig. 21), fatto che impedisce,

di conseguenza, la sintesi delle proteine necessarie alla crescita e alla proliferazione

della cellula e arresta il passaggio del ciclo cellulare tra la fase G1 e la fase S (Fig. 22)

[106].

Fig. 21. Rappresentazione schematica del meccanismo d’azione degli inibitori di mTOR (Everolimus e Rapamicina, in figura denominata SRL). Il ciclo cellulare è sottoposto al controllo mediato dai processi di assemblaggio, attivazione e rottura di complessi proteici composti da cicline e chinasi cicline-dipendenti. In particolare, un ruolo regolativo importante è rivestito dalle subunità catalitiche Cdk4 e Cdk6 delle cicline D.

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IL CICLO CELLULARE:

Fig. 22. Rappresentazione schematica delle fasi del ciclo cellulare. La mitosi e la citodieresi del ciclo cellulare hanno luogo dopo il completamento delle tre fasi preparatorie (G1, S, G2) che costituiscono l’interfase. Durante la fase S (sintesi) si duplica il materiale cromosomico. Due fasi G separano la divisione cellulare dalla fase S. Durante la fase G1, avviene l’accrescimento e la replicazione degli organuli citoplasmatici. Durante la fase G2 si assemblano le strutture direttamente associate ai mitocondri e alla citodieresi. Dopo la fase G2 vi è la mitosi (la divisione del nucleo) che è generalmente seguita dalla citodieresi (la divisione del citoplasma). L’Everolimus agisce bloccando le cellule nella fase G1 del ciclo cellulare [Figura tratta dal sito www.fhcrc.org].

Sebbene mTOR sia in grado di fosforilare entrambi questi target direttamente in

vitro, il meccanismo di regolazione parzialmente riportato in Fig. 23 rimane tuttora da

chiarire [124]. La p70S6K è un chinasi che viene attivata in seguito a fosforilazione

sequenziale multi-sito, in risposta a insulina o a mitogeni in vivo. La sua attività in vivo

è strettamente correlata alla fosforilazione del residuo di Thr-412, situato in un motivo

idrofobico al C-terminale del dominio catalitico canonico. La sua funzione consiste nel

fosforilare la porzione S6 della subunità 40S ribosomiale, consentendo l’attacco

dell’mRNA e incrementando la traduzione [125].

Il fattore 4E-BP1, invece, quando si trova allo stato defosforilato, agisce inibendo

la traduzione; esso possiede 7 siti di fosforilazione, di cui solo quattro (Thr37, Thr46,

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Ser65, Thr70) si sono rivelati importanti per ottenere il rilascio della subunità eIF-4E.

Infatti, in seguito alla fosforilazione di 4E-BP1, da esso si dissocia il fattore eIF-4E che,

una volta libero, può prendere contatto con eIF-4G, eIF-4A ed eIF-4B e formare un

complesso con il Cap 5’ di un mRNA per dare inizio alla sua traduzione in proteina

[126].

Fig. 23. Rappresentazione schematica dei principali effetti degli inibitori di mTOR. Inibendo l’attività di mTOR, si ottiene la defosforilazione di 4E-BP1 (in figura PHAS-1) e di p70S6K. L’up-regolazione di p27, inibitore delle cicline, provoca l’arresto del ciclo cellulare alla fase G1.

Lavori recenti hanno rivelato l’interazione di mTOR con una proteina di 150-kDa,

altamente conservata evolutivamente e denominata Raptor (Regulatory Associated

Protein of mTOR); questa proteina riveste un ruolo critico nel pathway di mTOR che

regola la crescita cellulare in risposta ai livelli di nutrienti (Fig. 24). La sua presenza è

necessaria per l’attivazione dell’effettore p70S6K e di 4E-BP1; in aggiunta, in

condizioni di repressione di mTOR, l’associazione di Raptor con quest’ultimo diviene

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più salda, conducendo ad una diminuzione dell’attività chinasica di mTOR [127]. La

fosforilazione di 4E-BP1 catalizzata da mTOR in vitro è interamente dipendente dalla

presenza di Raptor, mentre la fosforilazione di p70S6K, che normalmente avviene in

vitro anche in assenza di questa proteina ausiliaria, viene aumentata di almeno cinque

volte in presenza di Raptor. Recentemente, mediante mutagenesi sito-specifica, è stato

possibile definire una sequenza di cinque amminoacidi chiamata TOS (TOR signaling

motif), come regione minima funzionalmente importante, all’interno del segmento

N-terminale non catalitico di p70S6K; similmente un motivo TOS è stato identificato

anche in 4E-BP1. L’ipotesi che il motivo TOS fosse essenziale per il legame di

p70S6K e 4E-BP1 a Raptor, è stata confermata operando mutazioni del motivo TOS

che abolivano la fosforilazione di 4E-BP1 catalizzata da mTOR in vitro ed eliminavano

la stimolazione Raptor-dipendente della fosforilazione di p70S6k sempre da parte di

mTOR (Fig. 24). Raptor, dunque, non modifica in alcun modo la funzione catalitica di

mTOR, ma funziona da ponte tra quest’ultimo e i suoi bersagli favorendo l’ancoraggio

ad essi e la loro fosforilazione.

Fig. 24. Legame di Raptor a 4E-BP1 e a p70S6K. Il motivo TOS (TOR

signalling motif) è una corta sequenza conservata presente nei due polipeptidi e utile al legame con Raptor. Nella figura è dimostrato, mediante un esperimento di mutazione di sequenza, che il motivo TOS è essenziale affinché avvenga l’interazione di Raptor con le proteine 4E-BP1 e a p70S6K.

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Il legame di Raptor a mTOR, è mediato dalle sequenze HEAT repeats; questa

associazione, dipendente dalla quantità di nutrienti a disposizione della cellula, viene è

stabilizzata dalla proteina mLST8, un polipeptide simile alla subunità β delle proteine

G. In assenza di aminoacidi Raptor si associa a mLST8 impedendo l’interazione di

mTOR coi suoi substrati (4E-BP1 e p70S6K); invece, la presenza di nutrienti induce

una modificazione conformazionale che rompe il complesso Raptor-mLST8, e rende

mTOR in grado di fosforilare i suoi substrati [128, 129].

Uno dei possibili meccanismi d’azione della Rapamicina e dell’Everolimus, per

inibire l’attività chinasica di mTOR, potrebbe consistere proprio nell’impedire

l’interazione tra Raptor e mTOR.

Un secondo bersaglio di TOR, implicato nella cascata di trasmissione del segnale, è

rappresentato dalla proteina Tap42 di lievito, il cui omologo mammifero è la proteina

α4. Tap42 normalmente si lega alla subunità catalitica della proteina fosfatasi 2A

(PP2A), formata dalle subunità Sit4, Pph21 e Pph22; il trattamento con Rapamicina o

l’assenza di nutrienti, causano la dissociazione di Tap42 dalla subunità Sit4 di PP2A

[130]. A conferma dell’ipotesi secondo cui l’attività chinasica di TOR è mediata anche

da Tap42, sono state eseguite mutazioni di Tap42 che hanno dimostrato di provocare

parziale resistenza alla Rapamicina. Essendo l’associazione di Tap42 a PP2A

dipendente dalla fosforilazione operata da TOR, l’azione della Rapamicina su TOR

impedisce la fosforilazione di Tap42, libera PP2A e attiva il sito Sit4, che può quindi

esplicare la sua azione di defosforilazione su NPR1 e GLN3 [130]. NPR1 si trova allo

stato attivo quando è defosforilata, condizione in cui fosforila GAP1 e TAT2; GAP1 è

una permeasi che allo stato fosforilato è protetta dalla degradazione e consente agli

amminoacidi di fuoriuscire dalla cellula, mentre TAT2 fosforilata diventa suscettibile

alla degradazione e impedisce l’ingresso di azoto nella cellula. GLN3, invece, è un

fattore trascrizionale che regola l’espressione di Gln1 (Glutamina sintetasi); quando

GLN3 è defosforilato, si dissocia dal suo repressore URE2 ed è libero di traslocare nel

nucleo, dove attiva l’espressione di geni codificanti per proteine coinvolte nell’utilizzo

dell’azoto (Fig. 25).

In seguito alla repressione di TOR da parte della Rapamicina, si può assistere,

inoltre, all’attivazione dei fattori di trascrizione chiamati Mns2 e Mns4 e coinvolti in

situazioni di stress ossidativo, come ad esempio la carenza di carbonio per la cellula.

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Dissociandosi da BMH2, questi due fattori possono attivare l’espressione di geni

bersaglio specifici [131].

GAP1

Fig. 25. Rappresentazione del possibile ruolo della proteina Tap42 nella trasmissione del segnale mediato da TOR. Tap42 lega la subunità catalitica della proteina fosfatasi 2A (PP2A). Il trattamento con Rapamicina o la mancanza di nutrienti, dissocia Tap42 dalla subunità Sit4, una delle subunità della PP2A attivandola. Sit4 agisce defosforilando i suoi substrati, ovvero le proteine NPR1 e GLN3. Quando NPR1 è defosforilata, vengono attivate e fosforilate GAP1 e TAT2, proteine coinvolte nella permeabilità della membrana. GLN3 è un fattore trascrizionale regolante l’espressione di Gln1 (Glutamina sintetasi), che quando defosforilato si dissocia dal repressore URE2, viene traslocato nel nucleo, dove attiva l’espressione del geni codificanti per proteine relate all’utilizzo dell’azoto.

La proteina TOR può subire, oltre alle interazioni finora descritte, una regolazione

sia diretta che indiretta; indirettamente, la fosfatidilinositolo-3-chinasi (PIK3), attivata

da fattori di crescita esterni alla cellula, come l’insulina, produce fosfatidil-inositolo-3-

fosfato (PIP3), responsabile dell’attivazione di PDK-1 e dell’Akt-pathway, dove TOR

potrebbe rappresentare un substrato diretto di PKB [132, 133, 134]. Questo meccanismo

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può coinvolgere anche un complesso proteico, costituito dalle proteine TSC1 e TSC2,

con funzione di soppressione tumorale; TSC2 è un attivatore di GTPasi, stimola cioè

l’idrolisi di GTP operata da Rheb, una GTPasi simile a Rho appartenente alla

superfamiglia di Ras [135]. La Rapamicina blocca l’effetto stimolatorio che Rheb

esercita su TOR.

5.c. Impieghi terapeutici dell’Everolimus.

Come la Rapamicina, anche l’Everolimus è una molecola ad attività

immunosoppressiva, proprio grazie alla sua capacità di arrestare il ciclo cellulare nella

fase G1; esso è infatti in uso nel trattamento profilattico del rigetto d’organo, in pazienti

che hanno subito trapianto di reni o di cuore, in quanto l’Everolimus ha dimostrato di

essere in grado di alterare il meccanismo associato al rigetto vascolare e alla

proliferazione delle cellule muscolari lisce indotta da fattori di crescita [136].

La somministrazione orale di 0,75 o 1,5 mg di Everolimus, due volte al giorno,

riduce significativamente, nei soggetti adulti che hanno subito trapianto di cuore,

l’incidenza dei fallimenti già a 6 mesi dall’operazione, rispetto al trattamento con

1-3 mg/kg/giorno di Azatioprina (un profarmaco, rapidamente idrolizzato a

6-mercaptopurina, il principio attivo vero e proprio). La stessa dose di Everolimus ha

dimostrato di ridurre anche l’insorgenza di vasculopatia cronica, a due anni di distanza

dall’operazione. Dopo 1 o 2 anni dal trapianto cardiaco, i pazienti trattati con

Everolimus dimostrano livelli di fallimento dell’efficacia dell’operazione

significativamente inferiori a quelli dei pazienti trattati con Azatioprina. Rispetto

all’Azatioprina e del MMF (Mofetil Micofenolato), un profarmaco che in pochi minuti

viene idrolizzato nel principio attivo acido Micofenolico (MFA), l’Everolimus è

associato ad una minor incidenza di infezioni da CMV (citomegalovirus) in pazienti

sottoposti a trapianti di reni o cuore.

Composti come la Rapamicina e l’Everolimus formano perciò una nuova classe di

agenti immunosoppressori, il cui uso è in aumento nei casi di trapianto di reni, poiché,

quando non associati a inibitori della Calcineurina (CNIs), una serin/treonin fosfatasi

Ca2+/calmodulina dipendente, evitano l’insorgenza di nefrotossicità. I maggiori effetti

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collaterali dell’Everolimus, comuni alla Rapamicina, sono rappresentati da

ipercolesterolemia, ipertrigliceridemia, leucopenia e trombocitopenia

L’efficacia di un agente immunosoppressore nel trapianto renale generalmente si

traduce in un’altrettanto comparabile efficacia nel trapianto di fegato, ma bisogna

considerare tuttavia la potenziale tossicità di questi agenti, che spesso porta ad

abbandonare l’idea di applicarli in questo secondo impiego. Questo potenziale problema

è messo in luce dagli inibitori di mTOR (Rapamicina ed Everolimus), per i quali la

bassa nefrotossicità, notata negli studi sui trapianti di reni, potrebbe renderli idonei

anche alla terapia antirigetto del trapianto di fegato. Comunque, come con molti agenti

immunosoppressori, fatta eccezione per il tacrolimus (TAC), la valutazione del loro

ruolo in altri tipi di trapianti d’organo è stata erroneamente trascurata [99].

Inoltre, l’Everolimus dimostra proprietà antiproliferative bloccando il segnale di

trasduzione coinvolto nella progressione cellulare della proliferazione delle cellule T

IL2-indotte, così come l’induzione generale della crescita mediata da fattori, sia di

cellule ematopoietiche che non ematopoietiche, incluse le cellule della muscolatura

liscia vasale [137]. Prima di entrare nella fase G1 del ciclo cellulare, i linfociti T devono

essere stimolati dalla presenza di antigeni associati alle cellule APC (cellule presentanti

l’antigene) e questo complesso interagisce col recettore TCR (T-cell Receptor),

interazione che sfocia in una serie di reazioni di fosforilazione a cascata e attiva

l’espressione genica dei linfociti T. I linfociti T attivati esprimono due differenti pattern

di citochine: le citochine Th1 che producono IL-2 e IFN-γ e le citochine Th2 che

producono IL-4, IL-5 e IL-10 [106]. In particolare, l’IL-2 stimola la divisione cellulare

e la progressione del ciclo cellulare verso la fase G1, processo regolato, inoltre, da

numerosi fattori tra cui oncogeni, fattori di trascrizione e geni correlati al ciclo cellulare.

Il controllo del ciclo cellulare è dipendente, infine, dai processi di assemblaggio,

attivazione e rottura di complessi proteici composti da cicline e chinasi cicline-

dipendenti. In particolare, un ruolo regolativo importante è rivestito dalle subunità

catalitiche Cdk4 e Cdk6 delle cicline D, regolate da piccole proteine con funzione

inibitoria. Nei mammiferi, due famiglie di inibitori agiscono secondo meccanismi e

bersagli specifici; tra questi inibitori p21, p27KIP1, p57KIP2, inibiscono i complessi

proteici che contengono le cicline Cdk2, Cdk3, Cdk4 e Cdk6. L’attività di questi

inibitori può essere regolata da un’ampia varietà di segnali esterni alla cellula,

regolazione che porta ad impedire la sintesi di DNA e la progressione del ciclo

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cellulare, portando le cellule al differenziamento terminale [138]. L’azione degli

inibitori p21 e p27KIP1 media l’associazione del complesso ciclina D1/Cdk4 e Cdk6,

mentre la formazione del complesso p27/ciclina D1/Cdk4 è favorita da fattori di

crescita, attraverso il pathway di attivazione PI3K/Akt. L’arresto del ciclo cellulare in

G1 è dipendente dalla scissione di p27KIP1 dal complesso e dal suo assemblaggio alla

ciclina E/Cdk2 [139].

Nei linfociti T, mTOR rappresenta uno step intermedio nell’attivazione che segue

il legame dei recettori di superficie, come CD28, o di recettori per le citochine, come il

recettore per l’interleuchina-2. Gli inibitori di mTOR (TORIs, Rapamicina ed

Everolimus) perciò bloccano l’attivazione dei linfociti ad uno stadio più tardivo rispetto

ai CNIs (Tacrolimus e Ciclosporina) e impediscono la proliferazione delle cellule T,

bloccando il ciclo cellulare tra la fase G1 e S. Esperimenti condotti in vitro hanno

dimostrato che gli inibitori di mTOR riducono, inoltre, la proliferazione di cellule della

muscolatura liscia, di fibroblasti e di linee cellulari tumorali [99]. Con questo

meccanismo, l’Everolimus riesce a bloccare la proliferazione dei linfociti indotta dai

fattori di crescita IL-2 e IL-5, ma è in grado di inibire allo stesso modo anche la

proliferazione mediata da fattori di crescita sia di cellule ematopoietiche (linfociti T,

linfociti B e monoliti), che non ematopoietiche (cellule della muscolatura liscia

vascolare, macrofagi e fibroblasti).

Un’applicazione nuova e interessante di questo meccanismo di inibizione

proliferativa delle cellule T, sembra rappresentato dalla possibilità di utilizzare

l’Everolimus nel trattamento della psoriasi, una malattia autoimmune mediata, appunto,

dai linfociti T [106].

L’Everolimus e tutti gli altri inibitori di mTOR, possono essere utilizzati in

associazione agli inibitori della calcineurina, con i quali hanno dimostrato di sortire un

effetto sinergico [99]. L’azione associata dell’Everolimus e della Ciclosporina, ha

dimostrato di essere complementare e sinergica in studi preclinici condotti in vitro e in

vivo.

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5.d. Effetto eritro-differenziante dell’Everolimus.

Gli effetti dell’Everolimus sul differenziamento eritroide e sulla crescita cellulare

sono stati determinati inizialmente, mediante uno studio condotto su colture di cellule

eritroleucemiche umane K562 e, solo in seguito all’evidenza di un’attività della

molecola su questo modello cellulare, l’analisi è stata spostata su colture di precursori

eritroidi isolati dal sangue periferico di pazienti affetti da β-talassemia, impiegando

mezzi liquidi di coltura differenti in due fasi successive, secondo la metodica descritta

da E. Fibach [140, 141]. Per determinare gli effetti sul differenziamento eritroide, le

K562 sono state trattate con concentrazioni crescenti di Everolimus e il

differenziamento è stato valutato dopo alcuni giorni di coltura, attraverso il saggio della

benzidina. L’Everolimus ha così dimostrato di indurre il differenziamento eritroide nelle

cellule K562 (Fig. 26), manifestando un’inibizione superiore al 50% della

proliferazione cellulare solo a concentrazioni superiori a 25 µM (Fig. 27).

% c

ellu

le p

ositi

ve a

lla b

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dina

Tempo (giorni)

Fig. 26. Incremento di cellule contenenti emoglobina in seguito al trattamento delle colture di K562 con Everolimus. Il grafico evidenzia l’andamento della quantità percentuale di cellule differenziate in seguito a trattamento con: Everolimus 500 nM (cerchi bianchi), Everolimus 1 µM (cerchi neri), controllo non trattato (quadrati neri) [Figura tratta da: Cristina Zuccato et al., Acta Haematologica, 2006].

99

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Cre

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Everolimus (µM)

Fig. 27. Effetti dell’Everolimus sulla proliferazione delle K562. Le cellule K562 sono state trattate con concentrazioni crescenti di Everolimus; la determinazione della proliferazione cellulare (cell/ml) è stata effettuata dopo 4 giorni e confrontata con un controllo non trattato [Figura tratta da Cristina Zuccato et al., Acta Haematologica, 2006].

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Everolimus (µM)

Fig. 28. Induzione del differenziamento eritroide in cellule K562 da parte dell’Everolimus. Il grafico mostra i risultati ottenuti osservando le cellule al microscopio e sottoponendole al saggio della benzidina per evidenziarne l’avvenuto differenziamento in senso eritroide; la quota di cellule positive alla benzidina è stata valutata a partire dal 6° giorno di coltura [Figura tratta da Cristina Zuccato et al., Acta Haematologica, 2006].

100

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L’induzione del differenziamento si è rivelata essere dose-dipendente (Fig. 28) e

alla concentrazione di Everolimus 500 nM corrisponde un’induzione pari al 50% delle

cellule K562 (Fig. 29d) [103]. E’ da sottolineare che non sono rilevabili evidenti effetti

inibitori della proliferazione cellulare delle K562 a questa concentrazione (Fig. 27).

Fig. 29. Effetti sul differenziamento eritroide delle K562 mediato da Everolimus. La figura mostra microfotografie fatte al 4° giorno alle colture di K562, rispettivamente a: assenza di trattamento o controllo negativo (a); in presenza di 50 nM di Everolimus (b), 250 nM di Everolimus (c), 500 nM di Everolimus (d) [Figura tratta da: Cristina Zuccato et al., Acta Haematologica, 2006].

Perciò l’induzione del differenziamento avviene in condizioni non tossiche per la

cellula in questo modello sperimentale; questo fatto riveste una notevole importanza,

soprattutto a confronto con gli induttori finora noti e utilizzati, come ara-C , Cisplatino e

Mitramicina, che dimostrano invece una spiccata inibizione della proliferazione

cellulare. L’efficienza dell’Everolimus nell’indurre il differenziamento eritroide è stato

confrontata con quella di svariati agenti eritrodifferenzianti [103], quali Ara-C [142],

Mitramicina [143], Tallimustina [144] e Cisplatino [145]; inoltre, esso si è dimostrato

più attivo nell’indurre il differenziamento delle K562 rispetto a due composti in uso

nella terapia sperimentale della β-talassemia, come l’Acido Butirrico [146] e

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l’Idrossiurea [147, 148]. Per determinare se l’induzione del differenziamento eritroide

osservato nella linea cellulare K562 è associato anche ad un incremento selettivo

dell’accumulo specifico di mRNA per le γ-globine, è stata eseguita l’estrazione

dell’RNA totale, sia dalle cellule trattate che da quelle non trattate con Everolimus

(controllo negativo), e mediante Real-time quantitative PCR si è valutato l’incremento

di γ mRNA. Si è osservato che l’incremento di messaggero γ-globinico mediato

dall’Everolimus è comparabile a quello che si ottiene con un’induzione di Ara-C. I dati

descritti hanno condotto a pensare che l’Everolimus deve essere ulteriormente

analizzato e preso in considerazione per il suo possibile effetto attivante l’espressione

γ-globinica in precursori eritroidi derivati da pazienti sani o affetti da β-talassemia.

Infatti, la seconda parte dello studio, è stata condotta su cellule progenitrici eritroidi

umane derivate dal sangue periferico e coltivate in vitro. Il trattamento con Everolimus

500 nM è stato effettuato al sesto giorno di fase II e protratto per 4 giorni. Inizialmente,

lo studio è stato condotto su precursori derivati da 4 soggetti sani ed ha dimostrato un

incremento di 2,4 volte dell’aliquota di HbF rispetto al contenuto cellulare di

emoglobina totale, corrispondente in media ad un aumento di HbF da 0,052 a

0,12 pg/cell. Un esperimento parallelo con Mitramicina 25 nM, ha evidenziato una

concentrazione di HbF di 0,190 pg/cell [103].

Sulla base di tutte queste osservazioni, l’Everolimus ha attirato particolarmente

l’attenzione sulla sua potenziale azione come agente induttore di emoglobina fetale nel

trattamento di soggetti affetti da β-talassemia. Lo studio su questi soggetti è stato

tuttavia eseguito solamente su 4 pazienti di origine israeliana nei quali il γ-mRNA è

stato indotto dalle 2.8 alle 7.2 volte rispetto al controllo di cellule non trattate [103].

Inoltre, essendo l’Everolimus un composto già in uso clinico per la cura di altre

patologie [99, 106, 136, 137] e dal momento che deriva da una molecola, la

Rapamicina, già nota per la sua attività eritro-differenziante [103], si è ritenuto

opportuno approfondire le indagini sulle proprietà di questo composto riguardo una sua

possibile applicazione nella cura di disordini ematopoietici.

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5.e. Trials clinici già effettuati con l’Everolimus.

Un trial clinico è un esperimento progettato secondo schemi metodologici

riconosciuti validi dalla comunità scientifica, che viene eseguito per testare l’efficacia e

la sicurezza di impiego di un trattamento farmacologico, chirurgico o di una procedura

diagnostica, nella cura o nella diagnosi di una malattia. Le fasi dello sviluppo clinico di

un nuovo agente terapeutico sono:

1. lo screening di un gruppo di molecole di interesse e l’individuazione tra queste

di un possibile candidato adeguato;

2. sviluppo pre-clinico;

3. sviluppo clinico, cioè gli studi di pre-registrazione dei composti in tre fasi

successive (fase I, fase II e fase III), effettuate al fine di ottenere la registrazione della

molecola da parte del Ministero della Sanità (A.I.C.);

4. registrazione;

5. lancio e fase IV (post A.I.C.), serve ad approfondire la conoscenza sull’efficacia

e la tollerabilità su casistiche più ampie e in particolari sottogruppi di pazienti;

La fase I degli studi clinici viene condotta su un numero limitato di soggetti,

generalmente volontari sani; questa fase rappresenta la prima somministrazione

sperimentale del farmaco all’uomo, allo scopo di valutarne la sicurezza, la

farmacocinetica preliminare ed eventualmente la tossicità.

Gli studi della fase II, condotti su un campione più folto di volontari (100-200),

mirano a dimostrare l’efficacia del farmaco, precedentemente ipotizzata in base alle

caratteristiche biochimiche della molecola e ai risultati ottenuti dagli studi sugli animali;

inoltre, sono studi effettuati per identificare la dose più efficace tra quelle non tossiche e

per definire in modo esauriente la cinetica del farmaco nei pazienti destinati ad usarlo.

La fase clinica III viene condotta su una casistica più ampia di pazienti (>1000) e

ha lo scopo di confermare l’efficacia del farmaco in soggetti non selezionati per gravità

e varianti qualitative della malattia per la quale quel farmaco è indicato. Con gli studi di

fase III si possono definire meglio la sicurezza d’impiego e la tollerabilità del farmaco

in condizioni quanto più simili e vicine a quelle del futuro impiego.

Gli studi post-registrazione, rappresentati dalla fase IV, consentono, infine, di

diffondere la conoscenza sull’uso del farmaco tra i medici interessati, mediante un suo

uso sperimentale controllato.

103

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Per progettare un trial clinico occorre innanzitutto definire un’ipotesi da testare

sulla base di un razionale scientifico, scegliere un valido trattamento di confronto e

definire un disegno sperimentale appropriato. Inoltre, occorre identificare una variabile

possibilmente sensibile al trattamento sottoposto allo studio, definire l’entità della

variazione ritenuta clinicamente significativa, calcolare il numero di pazienti necessari

affinché si evidenzi la variazione, definire criteri di inclusione ed esclusione e

predefinire quali test si utilizzeranno per l’analisi statistica.

Mediante il calcolo del campione viene determinato il numero di pazienti necessari

affinché i risultati della sperimentazione siano statisticamente attendibili; studi effettuati

con un numero di pazienti inferiore a quanto richiesto non mettono in evidenza

differenze significative, mentre l’utilizzo di un sovrannumero di soggetti comporta

solamente uno spreco di risorse. I pazienti vengono suddivisi in bracci di trattamento

(gruppi di soggetti che assumono lo stesso trattamento), in gruppi placebo (soggetti che

assumono solo gli eccipienti) oppure vengono randomizzati, cioè attribuiti a ciascun

braccio di trattamento in maniera casuale e predefinita. I soggetti, inoltre, possono

appartenere per tutto il tempo dello studio ad un solo braccio di trattamento (studio a

gruppi paralleli) oppure appartenere in fasi successive ai diversi gruppi (studio a

disegno “cross-over”).

Se tutti i partecipanti conoscono quale trattamento è stato loro attribuito lo studio si

dice “aperto”, se invece lo sperimentatore, ma non il soggetto, conosce il trattamento lo

studio è “in singolo cieco” e, infine, se né lo sperimentatore, né il soggetto sono a

conoscenza del trattamento lo studio viene definito “ in doppio cieco”.

In un trial clinico, gli aspetti etici e legislativi sono regolati dalle GCP (Good

Clinical Practice), normative sugli obblighi degli sperimentatori e degli sponsor, che

nacquero nel 1977 su proposta della FDA, con gli scopi principali di proteggere i diritti

degli individui che prendono parte alla ricerca e garantire l’affidabilità e l’accuratezza

delle informazioni ottenute. Le aziende che non aderiscono alle GCP non ottengono

l’approvazione dei loro farmaci, mentre lo sperimentatore che le infrange incorre in

sanzioni quali l’esclusione da ulteriori studi. Gli elementi fondamentali che governano

le GCP sono:

a) la protezione dell’individuo (Consenso informato e controllo da parte del

comitato etico);

b) Procedure operative standard (SOP);

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c) Documentazione e conservazione dell’archivio;

d) Monitoraggio delle procedure e dei dati;

e) Segnalazione degli eventi avversi;

Tre studi clinici pilota de novo che hanno previsto l’impiego dell’Everolimus sono

stati condotti su pazienti trapiantati, dopo aver considerato i risultati di studi pre-clinici

condotti su primati non-umani, sottoposti a trapianto renale; questi dimostravano che

l’Everolimus, non solo impedisce il rigetto e favorisce la sopravvivenza del soggetto,

ma impedisce la proliferazione delle cellule della muscolatura liscia e riduce anche la

nefrotossicità della Ciclosporina.

Questi studi clinici pilota sono stati chiamati:

1. B201 (condotto in Europa);

2. B251 (condotto in USA e Brasile);

3. B156 (condotto in Europa);

I primi due studi confrontano l’efficacia e la sicurezza dell’Everolimus rispetto al

MMF (Mofetil Micofenolato), mentre il terzo lavoro (B156) esamina gli effetti sortiti

dall’Everolimus in un regime di riduzione della Ciclosporina.

Nello studio B201, i tre gruppi di trattamento assumevano rispettivamente

Everolimus 1,5 mg/g, Everolimus 3 mg/g e MMF. Il rigetto acuto dimostrato con

biopsia è stato osservato essere il 23,2% e il 19,7% rispettivamente per i trattamenti con

Everolimus, contro il 24% riscontrato con il trattamento con MMF. Tuttavia, i soggetti

trattati con 3 mg/g di Everolimus, dimostravano un incremento pronunciato della

concentrazione lipidica ematica, mentre i livelli di creatinina serica erano superiori nei

pazienti sottoposti alla somministrazione di MMF.

Similmente allo studio precedente, anche il trial B251 è stato effettuato per

dimostrare la buona efficacia dell’Everolimus nel prevenire il possibile fallimento del

trapianto o la morte del paziente. Il tasso di rigetto d’organo, provato mediante esame

bioptico, non differiva sostanzialmente da quello riscontrato nello studio B201. Episodi

di rigetto acuto, richiedenti terapia con anticorpi, sono statisticamente meno frequenti

nei pazienti trattati con Everolimus 3 mg/g rispetto ai soggetti che assumono MMF. In

questo studio clinico i pazienti che assumevano Everolimus hanno dimostrato

incremento sia del colesterolemia che della trigliceridemia, ma anche della creatinina

serica.

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Infine, lo studio B156 ha raccolto, a 12 mesi dall’operazione, i dati relativi al

rigetto acuto dell’organo, alla sua perdita di efficacia o alla morte del paziente e ha

dimostrato, che tali valori erano significativamente inferiori nel gruppo di trattamento

che aveva assunto una dose di farmaco più bassa in associazione con Neoral®

(ciclosporina microemulsione), rispetto al gruppo trattato con la dose convenzionale. In

seguito è stata osservata che il gruppo con dose ridotta dimostrava anche un incremento

della filtrazione glomerulare (GFR) dal 25% al 30%, livello ancora più pronunciato

dopo 12 mesi.

La comparazione dell’efficacia d’azione dell’Everolimus rispetto a MMF nel

trattamento antirigetto in seguito a trapianto renale, è effettuata anche con uno studio

randomizzato, in gruppi paralleli e in doppio cieco; nonostante i risultati iniziali abbiano

evidenziato un’efficacia comparabile tra i due farmaci, il monitoraggio della

concentrazione ematica dell’Everolimus, ha permesso di definire che il rischio di rigetto

acuto aumenta se tale concentrazione scende al di sotto di 3 µg/L.

Il monitoraggio della concentrazione ematica è dunque uno strumento efficace per

ottimizzare la terapia, quando questo composto è inserito in un protocollo come farmaco

immunosoppressore [101].

L’unico studio randomizzato, riportato recentemente, per testare l’uso

dell’Everolimus nel trapianto di fegato, prevedeva la somministrazione di Everolimus in

combinazione con Ciclosporina (CsA). Un totale di 119 pazienti sono stati suddivisi in

gruppi per ricevere da 1 a 3 combinazioni di Everolimus-CsA oppure solo CsA e

placebo. Nessuna particolare differenza è stata osservata nella prevenzione del rigetto

acuto del fegato tra i vari gruppi. Non sono state riportate nemmeno differenze

riguardanti la dislipidemia o la soppressione midollare, mentre si sono verificati in tutto

tre episodi di HAT (Hepatic Artery Thrombosis); uno nel gruppo placebo (3,3%; 1/30),

due nei gruppi dell’Everolimus (2,2%; 2/89) [99].

Un altro studio clinico è stato effettuato indirizzando l’interesse sulla capacità

dell’Everolimus di ridurre l’insorgenza di vasculopatie post-trapianto; studi pre-clinici

condotti su ratti hanno evidenziato, infatti, che l’Everolimus impediva alterazioni

vascolari successive al trapianto di aorta in questi animali. Il primo scopo di questo

studio clinico è stato quello di valutare la sicurezza e la tollerabilità di quattro differenti

dosi di Everolimus in pazienti sottoposti a trapianto renale e riceventi terapia steady-

state con Ciclosporina; secondariamente si è voluto definire il profilo farmacocinetico

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dell’Everolimus. Questo rappresenta il primo studio su un’ampia gamma di

concentrazioni del farmaco in compressa, diversamente da un precedente studio a dose

singola o a un recente studio a dose multipla, che riportava però il farmaco in capsula,

formulazione non reperibile in commercio [137].

Uno studio ha confrontato l’efficacia dell’Everolimus a quella dell’Azatioprina nel

ridurre la gravità e l'incidenza di vasculopatia da trapianto cardiaco.

Un totale di 634 pazienti è stato assegnato in modo random a ricevere Everolimus 1,5

mg/die (n =209), Everolimus 3 mg/die (n=211) o Azatioprina 1-3 mg/kg/die (n=214 ) in

associazione a Ciclosporina(CsA), corticosteroidi e statine. L'endpoint primario di

efficacia dello studio era rappresentato da: morte, perdita del graft o ri-trapianto, rigetto

acuto di grado 3° o rigetto con compromissione emodinamica.

A 6 mesi, l'endpoint primario di efficacia è stato raggiunto nel 27% dei pazienti trattati

con Everolimus 3 mg, nel 36,4% dei pazienti trattati con Everolimus 1,5 mg e nel

46,7% dei pazienti del gruppo Azatioprina. A 12 mesi dal trapianto, l'ultrasonografia

intravascolare ha riscontrato un minor aumento dello spessore dell'intima tra i pazienti

trattati con Everolimus, inoltre, l'incidenza di vasculopatia era significativamente più

bassa nel gruppo Everolimus 3 mg (30,4%) e 1,5 mg (35,7%) che nel gruppo

Azatioprina (52,8%). Infine, l'incidenza di infezioni da Cytomegalovirus era

significativamente più bassa nel gruppo 3 mg (7,6%) ed 1,5 mg (7,7%) che nel gruppo

Azatioprina (21,5%). I livelli plasmatici di creatinina sono risultati più alti tra i pazienti

trattati con Everolimus [136].

Sulla base dell’ipotesi che farmaci come l’Everolimus e il Gefitinib possano

fermare la crescita di cellule tumorali, il primo bloccando il flusso sanguigno alla massa

tumorale e il secondo bloccando l’azione degli enzimi necessari alla crescita delle

cellule neoplastiche, nel giugno del 2004 è partito un trial clinico di fase I e II, con lo

scopo di studiare gli effetti collaterali e la dose migliore di Everolimus quando

somministrato insieme a Gefitinib e di valutare se questi due farmaci cooperano tra loro

nel trattamento di pazienti con glioblastoma multiforme progressivo. Tale studio clinico

non randomizzato, coinvolge in tutto 58 pazienti e viene condotto in open-label. La fase

I si propone di definire la massima dose di Everolimus tollerata dai pazienti affetti da

glioblastoma multiforme progressivo, quando somministrato in combinazione con

Gefitinib, mentre con la fase II ci si propone di stabilire la sicurezza e l’efficacia del

regime terapeutico definito con la fase I. Si intende, inoltre, determinare le eventuali

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interazioni farmacocinetiche tra i due farmaci e gli effetti farmacodinamici di tale

regime terapeutico.

Nella fase I i pazienti ricevono Everolimus per via orale al primo giorno di

trattamento e Gefitinib una volta al giorno, dall’ottavo al dodicesimo giorno di

trattamento; dal ventiduesimo giorno, ai pazienti viene somministrato Everolimus una

volta alla settimana e Gefitinib giornalmente. Il trattamento viene proseguito

somministrando l’associazione dei due farmaci solo se non si manifesta progressione

della malattia o tossicità inaccettabile [149].

Sempre agendo attraverso il blocco del flusso sanguigno che irrora il tumore, si è

pensato che l’Everolimus potesse essere un valido trattamento del melanoma maligno

metastatico o melanoma di stadio IV; pertanto nell’aprile 2005 è partito uno studio

multicentrico in open-label che coinvolge in tutto 73 pazienti e che ora è alla fase II. In

questo caso, l’Everolimus viene somministrato ai pazienti, in cui la forma maligna di

melanoma è stata confermata dall’esame istologico, una volta al giorno per 8 settimane;

il trattamento prosegue oltre le otto settimane solo se si evidenzia il blocco della

progressione della malattia e tossicità accettabile [150].

E’ in corso, inoltre, la fase I di uno studio che ha lo scopo di stimare sia la

sicurezza che l’efficacia dell’Everolimus, quando somministrato con il Cisplatino a

differenti dosaggi, in pazienti con tumori solidi allo stadio avanzato che non possono

essere trattati con radioterapia, chirurgia o chemioterapia convenzionale. Questo studio

nasce dall’osservazione secondo la quale l’Everolimus sembra migliorare l’attività del

Cisplatino contro le cellule tumorali in vitro [151].

Nel 2005, invece, l’attenzione di un trial clinico si è focalizzata sulla possibilità

che l’Everolimus impedisca la moltiplicazione cellulare di cellule tumorali. La fase I si

svolge su pazienti in età pediatrica, con tumori solidi o tumori al cervello ricorrenti o

refrattari, che non rispondono alle comuni pratiche terapeutiche, mentre la fase II si

propone di trattare pazienti con rabdomiosarcoma o sarcoma dei tessuti molli non-

rabdomiosarcomatoso. Nella prima fase, il maggior traguardo è raggiunto dalla

determinazione della massima dose tollerata dai bambini sottoposti allo studio, cioè la

dose più elevata di farmaco che può essere data ai pazienti in sicurezza; la seconda parte

dello studio deve invece chiarire l’efficacia del farmaco, tutti gli effetti (benefici e non)

che esso media ed eventuali variazioni nelle cellule del sangue e nelle cellule

neoplastiche dei piccoli pazienti [152].

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Uno studio di fase I/II è stato fatto per determinare sicurezza ed efficacia

dell’Everolimus nei pazienti con tumori ematologici maligni refrattari o recidivanti. Il

disegno sperimentale prevedeva due livelli differenti di dosaggio, 5 e 10 mg/die

somministarti per os in continuo, per definire la massima dose tollerabile da utilizzare

nella fase II. Su 27 pazienti che hanno ricevuto Everolimus, non è stata osservata

tossicità dose-limitante; gli effetti collaterali principali sono stati: iperglicemia (22%),

ipofosfatemia (7%), stanchezza (7%), anoressia (4%), diarrea (4%). Un solo paziente ha

sviluppato una vasculite leucocitoclastica cutanea, che ha richiesto il trapianto di pelle.

La fosforilazione dei target situati a valle di mTOR, p70S6K e 4E-BP1, è risulta inibita

in sei campioni su nove, inclusi quelli con elevata risposta piastrinica. In conclusione,

l’Everolimus è ben tollerato ad una dose giornaliera di 10 mg e può avere attività in

pazienti con patologie mielodisplastiche [153].

Tra gli studi più recenti, nel gennaio 2006 è iniziata la fase II di un trial clinico che

indaga l’associazione dell’Everolimus con l’Imatinib mesylate nel trattamento di tumori

renali metastatici o non resecabili [154] e nel gennaio 2007, infine, uno studio non

randomizzato, in open-label e ad assegnazione parallela dei trattamenti, è partito con il

proposito di investigare la combinazione di Everolimus, Trastuzumab e Paclitaxel nel

trattare 60 pazienti affetti da cancro metastatico della mammella “HER2-

overexpressing” [155].

Approfittando delle numerose informazioni relative alla tossicità e alla

farmacocinetica dell’Everolimus, ottenute da questa serie di trias clinici, si è pensato di

definire un sistema o modello di saggi sperimentali al fine di poter selezionare un

gruppo di pazienti talassemici da proporre per l’allestimento di un eventuale trial

clinico, volto a testare anche il potenziale dell’ Everolimus come induttore del

differenziamento eritroide, nel tentativo di proporre terapie alternative nella cura di

patologie emopoietiche.

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SCOPO

Nel trattamento di patologie ematologiche ereditarie come la β-talassemia, malattia

che può essere causata da molteplici mutazioni del gene per le β-globine e ampiamente

diffusa nei paesi mediterranei, l’individuazione di composti in grado di indurre HbF,

mediante la riproduzione della condizione fenotipica nota come HPFH, solleva uno

spiccato interesse, in quanto è noto che un incremento di emoglobina fetale negli

individui affetti da β-talassemia, permette un miglioramento delle loro condizioni

cliniche [79].

L’obiettivo comune a molti gruppi di ricerca è quello di sviluppare tecniche

innovative per l’individuazione della mutazione responsabile della patologia e

metodiche diagnostiche sempre più efficienti che, unite ad una adeguata informazione

ed educazione sanitaria, possano garantire ai soggetti affetti dalla patologia di poter

effettuare delle scelte riproduttive informate e supportate da opportune analisi

diagnostiche prenatali.

Dal punto di vista terapeutico, invece, una notevole importanza è rivestita dalla

terapia farmacologica per il trattamento della β-talassemia, soprattutto nei paesi in cui la

terapia chelante e i regimi trasfusionali non sempre sono disponibili a causa degli alti

costi e molto spesso gli investimenti delle compagnie farmaceutiche nel disegno e nella

sperimentazione di nuovi farmaci per la cura della β-talassemia sono scoraggiati,

proprio a causa del fatto che nei paesi sviluppati si può arginare la diffusione della

patologia con le campagne di prevenzione e la diagnosi prenatale. Tuttavia, la ricerca si

propone di individuare nei farmaci già in uso clinico per altre patologie, anche non

correlate alla β-talassemia, molecole in grado di esprimere attività di induzione

dell’espressione dei geni per le γ-globine.

In particolare, l’oggetto di questa tesi è stata la prosecuzione di studi

precedentemente avviati dal gruppo di ricerca coordinato dal Prof. Roberto Gambari e

presso il quale ho svolto la mia attività; questi studi puntavano l’attenzione sugli effetti

eritro-differenzianti dell’Everolimus, analogo strutturale della Rapamicina e molecola

interessante dal punto di vista terapeutico per la minore tossicità e le migliori

caratteristiche farmacocinetiche evidenziate da trials clinici riportati in letteratura [99,

101, 149, 150, 151, 152, 153, 154, 155]. L’interesse rivolto all’Everolimus deriva

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soprattutto dal fatto che è un composto relativamente poco tossico e presenta

caratteristiche farmacocinetiche favorevoli e già descritte per l’utilizzo dell’Everolimus

in altre patologie, come la terapia antirigetto post-trapianto renale [137]. L’Everolimus

ha poi dimostrato di essere in grado di incrementare l’espressione dei geni per le

globine embrio-fetali in cellule K562 ed di causare l’accumulo di mRNA per le

γ-globine anche nelle colture dei precursori eritroidi provenienti da soggetti non-

patologici, mentre sono stati riportati dati limitati ad uno studio condotto su 4 soggetti

israeliani affetti da β-talassemia [103].

Questi risultati hanno quindi aperto uno spiraglio sul potenziale effetto eritro-

differenziante che l’Everolimus potrebbe esercitare anche su precursori eritroidi isolati

da pazienti affetti da β-talassemia, fornendo quindi un nuovo punto di vista per la

valutazione di questo composto come potenziale agente terapeutico per la cura della

β-talassemia.

La mia analisi ha avuto come scopo soprattutto la quantificazione degli mRNA per

le α- β- e γ-globine su cellule derivate da pazienti che presentavano β-talassemia con la

tecnica della Real Time quantitative PCR, che unita alla quantificazione di HbF con la

tecnica dell’HPLC ha permesso di approfondire le conoscenze sugli effetti

dell’Everolimus in questo modello cellulare, più simile al target fisiologico. E’ stato

possibile realizzare questo studio grazie alla collaborazione attivata con il Servizio di

Immunoematologia e Trasfusione dell’Ospedale di Rovigo e con la Clinica Pediatrica I,

Centro Sindrome di Down, Ospedale "Santa Chiara" di Pisa, che ci hanno fornito il

sangue periferico di un numero significativo di pazienti talassemici di nazionalità

italiana.

I risultati incoraggianti ottenuti da alcune colture cellulari trattate in vitro con

diverse concentrazioni di Everolimus, sia relativamente all’accumulo di mRNA

specifico per le γ-globine, sia all’aumento dei livelli di HbF, ci hanno condotti a pensare

che l’analisi del genotipo dei soggetti coinvolti in questo studio ed i loro livelli iniziali

di HbF, potessero costituire un metodo di screening volto ad identificare un gruppo di

pazienti da sottoporre ad un eventuale trial clinico, impiegando saggi di colture in vitro

di precursori eritroidi derivati dal loro sangue periferico, oppure rappresentare un

metodo per la selezione di pazienti da sottoporre a mirati trattamenti terapeutici con

induttori di globine embrio-fetali.

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Lo scopo di questa tesi è stato quello di verificare se tale metodo di screening

potesse essere utile per selezionare, all’interno di un ampio gruppo di individui

talassemici, i soggetti con le caratteristiche genetiche più idonee e che manifestassero la

miglior risposta cellulare al trattamento farmacologico, nel caso specifico eseguito con

l’Everolimus.

In questo modo si è cercato di mettere a punto una metodologia d’indagine basata

su saggi condotti su colture cellulari, che potrebbero essere estesi anche

all’identificazione del miglior induttore all’interno di una serie di molecole attivanti

l’HbF e mimanti la condizione HPFH, allo scopo di identificare e tener conto, inoltre,

della sensibilità individuale ad un dato trattamento, ponendosi come obiettivo futuro

l’allestimento di terapie individualizzate e mirate a migliorare le condizioni associate ad

una particolare alterazione genetica responsabile della patologia, dando vita a nuove

strategie curative in grado di sostituire o limitare la terapia convenzionale con

trasfusioni di sangue.

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MATERIALI E METODI

1. Coltura di precursori eritroidi isolati da pazienti affetti da

β-talassemia.

Un sistema cellulare molto utile per identificare molecole in grado di stimolare la

produzione di HbF è rappresentato da precursori umani delle cellule eritroidi. Queste

cellule staminali totipotenti, oltre ad essere presenti fisiologicamente nell'individuo,

hanno la capacità di riprodursi e di differenziare, sotto determinati stimoli, divenendo

così un potenziale modello per la valutazione di eventuali alterazioni dell'espressione di

geni globinici embrio-fetali. Precedentemente questi precursori eritroidi non sono stati

considerati un buon modello sperimentale in quanto erano studiati utilizzando un

sistema di coltura semisolida, che impediva non solo un'analisi quantitativa, ma anche la

caratterizzazione biochimica ed immunologica dello sviluppo cellulare. Negli ultimi

anni è stata messa a punto una nuova tecnica che prevede il trattamento dei progenitori

emopoietici in un sistema di coltura liquido schematizzato nella Fig. 30 [93, 140, 141].

Le cellule staminali vengono isolate da campioni di sangue periferico di pazienti

affetti da β-talassemia che hanno sottoscritto un consenso informato. Per motivi etici

legati al fatto che la disfunzione oggetto dello studio è una patologia ematologica, il

volume di sangue che viene prelevato a questi pazienti è molto inferiore rispetto a

quello che si può prelevare da un individuo sano. Presentando, infatti, questi individui

bassi livelli di emoglobina a causa della loro patologia, un prelievo di sangue produce

un ulteriore peggioramento del loro già grave stato anemico. In genere, prima che il

paziente effettui la trasfusione, viene quindi prelevato il volume minimo di sangue

(21 ml) necessario per preparare 20 ml di coltura; tale quantità può essere sufficiente

per l’alta frequenza di precursori eritroidi, che vi sono comunque contenuti, situazione

che è sostenuta dalla carenza stessa di emoglobina che spinge le cellule a riprodursi e

differenziarsi. La coltura cellulare così ottenuta potrà produrre un massimo di

108 cellule.

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Fig. 30. Rappresentazione del sistema di coltura dei precursori eritroidi in due fasi liquide successive. Le cellule rimangono in coltura per 14 giorni, in cui proliferano e differenziano in normoblasti ortocromatici, che producono emoglobina [Figura tratta da: Pope SH et al. Two-phase liquid culture system models normal human adult erythropoiesis at the molecular level The European Journal of Haematology, 64, 292-303, 2000].

L’isolamento dei precursori eritroidi avviene a partire dal sangue (circa 20 ml di

sangue periferico); in seguito le cellule vengono coltivate in vitro secondo la metodica

che prevede due fasi in terreno liquido. Il sangue viene diluito 1:2 per il processamento

con PBS 1x (Buffer salino-fosfato) a temperatura ambiente. Il PBS 1x viene preparato

per diluizione con H2O distillata da una soluzione PBS 10x, che consiste in una

soluzione di NaCl 2 M, KCl 27 mM, Na2PO4 0,1 M, KH2PO4 18 mM, in H2O distillata;

effettuata la diluizione, la soluzione di PBS1x viene sterilizzata per filtrazione con filtri

di acetato di cellulosa aventi pori del diametro di 0,22 µm e conservata a 4°C.

Il campione di sangue diluito è ripartito in aliquote di 40 ml, sottoposte a

centrifugazione per gradiente di densità su Lympholyte-H (NycogradeTM polysucrose

400 e sodium diatrizoate, Celbio, Milano, Italy). In questo modo si crea un gradiente di

destrano ed altre sostanze che permette la separazione delle diverse parti corpuscolate

del sangue. La centrifugazione genera quattro strati distinti, che dall’alto verso il basso,

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sono rispettivamente rappresentati da: siero; un anello biancastro contenente linfociti,

fibroblasti, macrofagi e precursori eritroidi; una parte torbida contenente Lympholyte

con cellule non separate; un fondo rosso costituito dagli eritrociti. Si preleva l’anello

biancastro e lo si sottopone a lavaggi successivi con PBS 1x; le cellule ottenute vengono

messe in coltura di fase I in un terreno così composto: terreno α-MEM (α-minimal

essential medium, Sigma-Aldrich, St.Louis, Missouri, USA), preparato a partire da una

polvere e diluito con acqua distillata, sali per bilanciare il pH ed una soluzione di PEN-

STREP (penicillina 50 U/litro e streptomicina 50 mg/litro di terreno, Sigma-Aldrich,

St.Louis, Missouri, USA); FCS al 10% (Foetal Calf Serum, GIBCO, BRL, Life

Technologies, Milano, Italy), scongelato e sterilizzato per filtrazione; medium

condizionato (CM) al 10%, derivante dalla linea cellulare di carcinoma di vescica 5637;

tali cellule tumorali esprimono numerosi fattori di crescita ematopoietici, (come ad

esempio le interleuchine, ma non l’EPO), necessari per la crescita delle cellule staminali

emopoietiche totipotenti. Il medium condizionato viene separato dalle cellule che lo

producono per filtrazione del terreno di coltura; ciclosporina A (Sigma-Aldrich,

St.Louis, Missouri, USA) 1 µg/ml di terreno, preparata da ciclosporina diluita in etanolo

assoluto e PBS 1x nel rapporto di 1:1. La ciclosporina A favorisce in questo stadio la

selezione delle cellule staminali dai linfociti presenti nella coltura.

La coltura cellulare viene poi incubata a 37°C, in atmosfera di CO2 al 5% ed

umidificata. Ogni giorno le cellule vengono osservate al microscopio per verificare la

vitalità cellulare e l’assenza di contaminazioni della coltura.

Dopo 5-7 giorni di coltura in questo terreno di fase I, le cellule non aderenti alla

fiasca vengono recuperate, lavate con PBS, centrifugate e risospese in un terreno fresco

di fase II. La seconda fase, detta anche eritropoietina-dipendente, consiste nel coltivare

le cellule in un terreno di coltura composto da: terreno α-MEM, FCS al 30%, albumina

di siero bovino deionizzata (BSA, Sigma-Aldrich, St.Louis, Missouri, USA) al 10%,

disciolta in α-MEM, β-mercaptoetanolo (β-ME, Sigma-Aldrich, St.Louis, Missouri,

USA) 0,01 mM, preparato da una soluzione di partenza 100 mM diluita con H2O sterile,

desametasone (Sigma-Aldrich, St.Louis, Missouri, USA) 0,001 mM, preparato da una

soluzione di partenza 6,4 mM diluita in metanolo sterile (questo composto è in grado di

stimolare la linea eritroide, permettendo la proliferazione e la maturazione delle cellule

staminali, dapprima in normoblasti cromatici e poi in eritrociti enucleati). Vengono

aggiunte anche glutammina (Glu) 2 mM (Sigma-Aldrich, St.Louis, Missouri, USA),

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eritropoietina umana (EPO) (Tebu-bio, Magenta, MI, Italy) 1 U/ml, Stem Cell Factor

(SCF, PeproTech EC Ltd, London, England) 10 ng/ml, solubilizzato in acido acetico

10 mM. Alcuni di questi componenti (BSA, β-ME, desametasone, Glu) sono stati

sterilizzati per filtrazione con filtrini aventi pori del diametro di 0,22 µm, e conservati al

buio a -20°C. L’EPO e l’SCF, essendo fattori proteici, devono essere conservati a -80°C

per evitarne la degradazione.

Questa procedura frutta una popolazione eritrocitaria ampia e pura, che permette di

studiare nel dettaglio la maturazione eritrocitaria, normale o patologica, e di analizzare

gli effetti di vari farmaci sulla coltura primaria [93, 140, 141].

L’incubazione delle cellule in fase II dura da 4 a 6 giorni, periodo durante il quale è

importante osservare quotidianamente le cellule al microscopio per verificarne la

vitalità, l’assenza di contaminazioni, ma soprattutto per rilevare la formazione di gruppi

o “cloni” di cellule nel supernatante. Solo se ci sono tali agglomerati cellulari di

proeritrociti si può proseguire col trattamento addizionando le molecole in analisi. Se

dopo i 4-6 giorni canonici della fase II, si evidenziano agglomerati cellulari scarsi e/o

piccoli a causa di una crescita molto lenta, si può prolungare la fase II per altri 4-5

giorni al fine di avere una sufficiente proliferazione delle colonie e poter proseguire col

trattamento. In ogni fase le cellule vengono contate utilizzando il Coulter Counter Z1

(Coulter Electronics Limited, Luton, Beds, England). Al quarto giorno della fase II

viene aggiunto l’Everolimus a concentrazioni scalari, da 100 nM a 1500 nM, in modo

da ricoprire un certo range di concentrazioni entro le quali individuare quella più

efficace ed il valore di IC50, ovvero la concentrazione alla quale il farmaco inibisce la

proliferazione cellulare del 50%. Quindi le cellule sono riposte nell’incubatore per altri

4 giorni di trattamento durante i quali il terreno di coltura non viene sostituito; al

termine di questo periodo si procede con l’estrazione dell’RNA. Per avere un controllo

negativo al quale fare riferimento per la valutazione dei risultati, un’aliquota di cellule

non trattate sono state mantenute in coltura nelle stesse condizioni di quelle trattate.

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2. Preparazione dell’Everolimus.

L’Everolimus utilizzato per il trattamento delle colture cellulari è stato acquistato

dalla Sigma Aldrich (Sigma-Aldrich, St.Louis, Missouri, USA). La soluzione madre è

stata diluita con EtOH per ottenere la concentrazione di 10 mM utilizzata per il

trattamento e conservata al buio a -20°C. Nei trattamenti delle colture di precursori

eritroidi da soggetti talassemici sono state impiegate le seguenti concentrazioni di

Everolimus: 100 nM, 250 nM, 500 nM, 1000 nM e 1500 nM.

Oltre all’Everolimus, le cellule sono state sottoposte a trattamento o con

Rapamicina, o con Mitramicina, che rappresentano i controlli positivi di induzione al

differenziamento eritroide, essendo questi noti essere agenti differenzianti [100, 156,

157]. La Rapamicina utilizzata per il trattamento delle cellule è stata acquistata dalla

Sigma Aldrich (Sigma-Aldrich, St.Louis, Missouri, USA). La soluzione madre è stata

diluita con EtOH e DMSO nel rapporto di 1:2 per ottenere la concentrazione utilizzata

nel trattamento e disciolta ad una concentrazione di 10 mM, quindi conservata a -20°C

al buio. Negli esperimenti condotti è stata impiegata alle concentrazioni di 100 nM, 250

nM e 500 nM finale. Mentre la Mitramicina utilizzata per il trattamento è stata diluita

con acqua e impiegata alle concentrazioni di 25 nM e 50 nM finale.

3. Estrazione dell’mRNA totale derivante da precursori eritroidi

umani.

Al termine della fase II è stato estratto l’mRNA citoplasmatico totale sia dai

precursori eritroidi trattati con Everolimus che da quelli di controllo negativo non

trattati, sia di controllo positivo trattati con Rapamicina o Mitramicina, utilizzando la

metodica del “TRIzol”. Le cellule vengono centrifugate per 10 min a 1200 rpm,

separate dal supernatante e quindi risospese in 1 ml di TRIzol per 5-10x106 cellule

(Total RNA Isolation Reagent, Celbio, Milano, Italy). I campioni vengono incubati per

5 min a temperatura ambiente, si aggiungono 200 µl di cloroformio per ogni ml di

TRIzol impiegato e si agita energicamente per 15 sec. Segue una centrifugata a

12000 rpm per 15 min a 4°C per estrarre la fase acquosa, alla quale vengono aggiunti

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500 µl di isopropanolo per ml iniziale di TRIzol usato. I campioni vengono incubati per

10 min a temperatura ambiente e in seguito centrifugati a 12000 rpm per 15 min a 4°C.

Il supernatante viene eliminato e al pellet, formato dall’mRNA precipitato sul fondo

della provetta, viene aggiunto 1 ml di etanolo al 75% per ml di TRIzol.

I campioni di mRNA ottenuti applicando questa metodica di estrazione, vengono

conservati a -20°C fino all’esecuzione del saggio per valutare la loro quantità e

integrità, effettuato impiegando l’elettroforesi su gel di agarosio e la lettura allo

spettrofotometro.

4. Saggi per testare la quantità e la qualità dei campioni di RNA.

4.a. Quantificazione dell’RNA allo spettrofotometro.

I campioni di RNA vengono centrifugati per 20 min a 12000 rpm a 4°C, essiccati

all’aria e rispospesi in H2O DEPC. Per la quantificazione vengono usate cuvette di

quarzo che consentono la lettura dei campioni allo spettrofotometro, ad una lunghezza

d’onda di 260 nm. L’unità di lettura dello strumento è l’OD (optical density). La

concentrazione si ricava dall’equazione:

µg/ml=ODx40xDIL

dove OD è il valore letto dallo strumento, 40 è il coefficiente di correzione per la lettura

dell’RNA allo spettrofotometro (secondo la legge di Lambert–Beer) e DIL è il

coefficiente di diluizione dell’RNA nella cuvetta, dove il volume del campione deve

raggiungere l ml. Per verificare il grado di contaminazione proteica bisogna valutare il

rapporto tra l’ assorbenza misurata a 260 nm e quella misurata a 280 nm, tale rapporto

deve risultare intorno ad un valore di 1,8: se il valore del rapporto risulta inferiore,

significa che c’è stata una contaminazione proteica, se invece è superiore, c’è stata una

contaminazione organica, dovuta a residui fenolici derivati dalla metodica di estrazione.

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4.b. Elettroforesi su gel di agarosio.

Il gel di agarosio all’1% si prepara sciogliendo 1 g di agarosio in polvere in 150 ml

di TAE 1x (ottenuto per diluizione dal TAE 50x = 2 M Tris-HCl, 0,05 M EDTA pH=8,0

e 5,71% acido acetico al 99,8%) e facendo bollire i reagenti per sciogliere la soluzione.

Una volta ottenuta una soluzione limpida vi si aggiunge, sotto cappa, l’etidio

bromuro10 µg/ml. Si fa quindi colare lentamente l’agarosio nell’apposito apparato

elettroforetico, descritto in Fig. 31, in cui è stato precedentemente inserito il pettine per

la formazione dei pozzetti per il caricamento dei campioni, evitando la formazione di

bolle che potrebbero ostacolare la corsa dell’RNA lungo il gel.

Fig. 31. Apparato elettroforetico per la corsa dei campioni di RNA o DNA su gel d’agarosio.

Mentre il gel solidifica si preparano i campioni da caricare per l’analisi. L’RNA

totale (in etanolo) viene fatto precipitare mediante centrifugazione a 12000 rpm, a 4°C

per 20 min. Il supernatante viene prelevato con una siringa e buttato, mentre il pellet

viene risospeso in 10 µl di acqua trattata con dietilpirocarbonato (DEPC) 0,1%, una

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molecola in grado di disattivare eventuali RNasi presenti. I campioni vengono essiccati

o all’aria, oppure in centrifuga sottovuoto (Speedvac) per 5 min. Le aliquote dei

campioni da caricare sul gel vengono preparate in un volume totale di 10 µl, composto

da: RNA (in genere 1-0,5 µg), un colorante contenente glicerolo per appesantire il

campione, ed acqua DEPC per portare a volume.

Una volta che il gel d’agarosio si è solidificato, si rimuove il pettine e si ottengono

così i pozzetti in cui caricare i campioni; il gel viene sommerso con tampone di corsa

formato da TAE 1x ed etidio bromuro (5 µl ogni 100 ml di tampone). Si caricano i

campioni nei pozzetti e si fanno migrare a 80-100 Volt; le molecole migrano lungo il

gel separandosi in base al loro peso molecolare e alla loro carica. La posizione

dell’RNA sul gel è indicata dal colorante caricato col campione.

Quando termina la migrazione elettroforetica dei campioni, il gel viene posto sotto

illuminazione con raggi UV e fotografato. Le emissioni dell’etidio bromuro intercalato

tra le basi azotate dell’acido nucleico lo rendono infatti visibile all’UV.

L’analisi della foto ottenuta permette di ottenere informazioni relative allo stato del

materiale (degradato o meno), osservando ad esempio, l’intensità relativa alla banda del

28S che deve essere circa il doppio rispetto a quella relativa al 18S, e di valutare

indicativamente la quantità di RNA e/o la presenza di DNA genomico, che potrebbe

essere presente accidentalmente nel campione.

5. Reazione di retro-trascrizione per la produzione del templato di

cDNA dall’RNA di precursori eritroidi indotti e non dalla

somministrazione di Everolimus.

Le analisi mediante RT-PCR quantitativa dei geni bersaglio, la cui espressione può

essere modulata dal trattamento con l’Everolimus, vengono condotte sul cDNA

(sequenza di DNA codificante) complementare all’RNA citoplasmatico totale estratto

dalle cellule trattate e non trattate. Questa conversione è effettuata mediante una

reazione di retro-trascrizione; si esegue innanzitutto una PCR di controllo direttamente

sull’RNA per verificare che non vi sia la presenza di contaminazioni di DNA genomico,

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in questo caso sarebbe necessario trattare prima della reversione i campioni con

DNasi I, prima di eseguire la reazione di retro-trascrizione.

Come substrato per la produzione di cDNA a singolo filamento viene impiegato

1 µg di RNA totale citoplasmatico, che rappresenta la quantità massima utilizzabile per

avere una retro-trascrizione efficace e quantitativa, nella quale tutte le molecole di RNA

possano essere efficientemente retro-trascritte in modo stechiometrico in nuove

molecole di cDNA.

L’RNA viene inizialmente incubato per 10 min a temperatura ambiente con 10 U di

inibitore dell’RNasi e con oligonucleotidi d’innesco della reazione di polimerizzazione

alla concentrazione 2,5 µM, rappresentati da esameri random (l’utilizzo di questi

oligonucleotidi d’innesco a differenza dell’utilizzo di oligod(T) dipende dal fatto che,

essendo frammenti di soli sei nucleotidi con sequenza casuale, permettono l’innesco

della reazione anche su substrati di RNA non completamente integri e privi della

sequenza terminale stabilizzatrice di poli-(A). Questi oligonucleotidi hanno una

temperatura di melting piuttosto bassa, per cui in queste condizioni si legano all’RNA.

Le fasi successive prevedono 30 min a 48°C e 5 min a 100°C in tampone

contenente MgCl2 5,5 mM, dNTPs 500 µM, RT-Buffer 1x (TaqMan RT Buffer 10x,

Applera Italia, Applied Biosystems, Monza, Italy) e 1,25 U dell’enzima MultiScribe

Reserve Transcriptase. Terminata la reazione, l’amplificato viene velocemente

centrifugato in modo che non sia disperso lungo le pareti dell’eppendorf e conservato a

-80°C.

6. Real Time Quantitative PCR per quantificare l’espressione dei geni

globinici.

Quando le colture cellulari utilizzate come modello sperimentale vengono trattate

con potenziali agenti induttori del differenziamento eritroide con lo scopo di verificarne

l’efficacia, i meccanismi cellulari coinvolti nella normale regolazione dei geni globinici

subiscono dei cambiamenti. Per indagare queste variazioni sono stati ideati dei saggi

che permettono di quantificare gli mRNAs prodotti dalle cellule in esame e specifici per

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ciascun gene globinico. In particolare è interessante indagare l’espressione dell’mRNA

γ-globinico, codificante per la subunità che costituisce l’emoglobina fetale.

Partendo dal cDNA ottenuto dalla retro-trascrizione dei campioni di mRNA totale,

si è voluto quantificare attraverso la tecnica della Real Time Quantitative PCR

l’espressione dei diversi geni globinici. Questa tecnica d’indagine si basa sull’emissione

di fluorescenza dovuta alla degradazione di sonde nucleotidiche fluorescenti, che si

legano a substrati di acido nucleico in modo sequenza-specifico. La sonda è in genere

costituita da un singolo filamento di DNA, che presenta all’estremità 5’ un gruppo

cromogeno FAM (6-carbossi-fluoresceina), chiamato anche reporter, legato

covalentemente e all’estremità 3’ un gruppo TAMRA (6-carbossi-N,N,N’,N’-tetrametil-

rodamina), detto quencher. Prima che la reazione di PCR inizi, la vicinanza del gruppo

reporter al gruppo quencher impedisce l’emissione di fluorescenza da parte del

cromogeno FAM; col procedere della reazione di polimerizzazione, la DNA polimerasi,

durante la fase di estensione dei primers, incontra la sonda, sulla quale esplica la sua

attività esonucleasica rimuovendo il reporter dalla sonda. A questo punto il gruppo

quencher, non trovandosi più in posizione adiacente al reporter, non è più in grado di

assorbirne l’emissione, fatto che ha come conseguenza la rilevazione della fluorescenza

emessa da parte del sistema. Questo processo è descritto in Fig. 32.

Ad ogni ciclo, aumentando il numero di sonde che ibridizzano il bersaglio e

vengono degradate dalla DNA polimerasi con l’amplificazione, si registra un

incremento della fluorescenza; i vantaggi principali offerti da questo sistema sono la

possibilità di monitorare l’amplificazione ad ogni ciclo in tempo reale e la garanzia di

rilevare solamente i prodotti amplificati in modo specifico, grazie alla selettività della

sonda, che ibridizza col DNA o cDNA bersaglio.

L’enzima impiegato è una particolare DNA polimerasi, prodotta dal batterio

Thermus aquaticus, resistente alle temperature elevate e dotata di attività esonucleasica

5’-3’, attraverso la quale rimuove e degrada la sonda appaiata al DNA target che

incontra durante la fase di estensione sul filamento di DNA.

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Fig. 32. Emissione di fluorescenza dovuta alla degradazione di sonde nucleotidiche fluorescenti legate in modo sequenza-specifico a substrati di acido nucleico. La figura descrive la sonda sequenza specifica legata al DNA con il reporter in 5’ e il quencher in 3’. La fluorescenza diviene evidente e rilevabile dal sistema solo quando il reporter viene separato dal quencher dall’azione esonucleasica della DNA polimerasi.

La Real Time Quantitative PCR è una tecnica sensibile e precisa per la

quantificazione degli acidi nucleici, in grado di rilevarne anche minime quantità

mediante la loro amplificazione. Per questo studio sono state utilizzati due primers

specifici per ogni gene bersaglio indagato, uno forward e uno reverse. Le sequenze

delle sonde ed i primers utilizzati per la quantificazione degli specifici mRNA sono

riportati nella tabella 1.

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Tabella 1. Sequenze degli oligonucleotidi impiegati nelle reazioni di PCR quantitativa.

primer forward α-globine 5’-CACGCGCACAAGCTTCG-3’

primer reverse α-globine 5’-AGGGTCACCAGCAGGCAGT-3’

sonda α-globine 5’-FAM-TGGACCCGGTCAACTTCAAGCTCCT-TAMRA-3’

primer forward β-globine 5’-CAAGAAAGTGCTCGGTGCCT-3’

primer reverse β-globine 5’-GCAAAGGTGCCCTTGAGGT -3’

sonda β-globine 5’-FAM-TAGTGATGGCCTGGCTCACCTGGA-TAMRA-3’

primer forward γ-globine 5’-TGGCAAGAAGGTGCTGACTTC-3’

primer reverse γ-globine 5’-TCACTCAGCTGGGCAAAGC-3’

sonda γ-globine 5’-FAM-TGGGAGATGCCATAAAGCACCTGC-TAMRA-3’

Nella miscela di reazione, avente un volume finale di reazione di 25 µl, sono

contenuti: TaqMan Universal PCR Master Mix 1x (Applera Italia, Applied Biosystems,

Monza, Italy); la coppia di primers forward e reverse, utilizzati ad una concentrazione

finale pari a 300 nM; la sonda TaqMan impiegata alla concentrazione finale di 200 nM.

La TaqMan Universal PCR Master Mix contiene anche: i desossinucleotidi trifosfato

(dNTPs), con il dUTP che sostituisce il dTTP; MgCl2 1 mM; il cromoforo “Rox”, che

serve come riferimento per la normalizzazione dei dati da parte dello strumento e che è

utile per annullare gli eventuali errori di volume effettuati durante le operazioni svolte

dall’operatore stesso; l’enzima AmpliTaq Gold DNA Polimerasi; l’enzima AmpErase

Uracil–N glicosilasi, che degrada sequenze contenenti uracile al posto di timina,

lasciando intatto il filamento originario di templato. Questo enzima agisce nel primo

step della reazione (quando la temperatura è di 50°C) eliminando tutte le molecole

contaminanti, che possono essere presenti nella piastra o nei puntali; alla temperatura di

95°C si inattiva irreversibilmente.

Sugli stessi campioni sono state effettuate in parallelo le reazioni di amplificazione

per il gene housekeeping 18S, usato come gene di riferimento; la sonda e i primers

specifici sono contenuti nel kit r18S (Applera Italia, Applied Biosystems, Monza, Italy),

dove la sonda è stata marcata in 5’ con la molecola cromogena VIC (un composto sotto

segreto brevettale) ed al 3’ col TAMRA.

124

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Tutte le reazioni di PCR quantitativa sono state eseguite in doppia serie.

L’amplificazione è stata eseguita utilizzando il sistema ABI Prism 7700 Sequence

Detector costituito da: un Thermal Cycler, ABI Prism 7700, all’interno del quale sono

posizionati i reagenti in piastre di plastica ottica da 96 pozzetti MicroAmp Optical

(Applera Italia, Applied Biosystems, Monza, Italy); un computer ed un software

(Sequence Detector Application Program versione 1.7) che gestisce la strumentazione e

l’analisi dei dati. Inizialmente vengono effettuati due cicli (50°C per 2 min e 95°C per

10 min) necessari all’attivazione della funzione esonucleasica 5’-3’ della polimerasi; i

successivi 40 cicli sono costituiti da una fase di denaturazione a 95°C per 15 sec ed una

fase a 60°C per 1 min, nella quale avviene sia l’appaiamento dei primers e della sonda

che l’estensione del filamento di DNA. Il sistema ABI Prism 7700 è dotato di una

“camera a dispositivo di carica accoppiata”, che permette di misurare lo spettro di

emissione della fluorescenza in un intervallo da 500 a 650 nanometri. Ad ogni reazione

il segnale emesso viene controllato in modo sequenziale per 25 msec, con un

monitoraggio continuo durante l’amplificazione, al termine della quale, ogni campione

viene riesaminato per 8,5 sec. La variazione di fluorescenza emessa dal gruppo

quencher durante l’amplificazione è minima rispetto a quella del gruppo reporter; per

questo motivo essa viene utilizzata come riferimento interno, per ottenere in modo

automatico la normalizzazione dell’emissione del gruppo reporter.

Il sistema si basa sulla seguente relazione matematica:

∆Rn= (Rn+)-(Rn-)

dove (Rn+) rappresenta il rapporto tra l’emissione del quencher e quella del reporter

calcolato a ciascun ciclo di amplificazione, ed (Rn-) rappresenta il rapporto tra le due

emissioni prima dell’inizio della reazione di PCR [Gison UEM, California 94080-

4990]. Considerando i diversi valori di ∆Rn ad ogni ciclo, è possibile ricavare uno

spettrogramma, che riporta il numero di cicli sull’asse delle ascisse e il valore calcolato

∆Rn (Normalized Reporter) su quello delle ordinate. Dallo spettrogramma si può

ricavare il valore del ciclo Threshold, detto CT o ciclo “soglia”, che rappresenta il ciclo

al quale è possibile registrare il primo apprezzabile aumento di intensità nella

fluorescenza emessa, non coperta dal segnale di background. La linea di Threshold

viene considerata nella fase esponenziale della reazione di PCR il più lontano possibile

dal plateau, che rappresenta la fase di saturazione della reazione di amplificazione. Il

valore della Threshold viene scelto dall’operatore e corrisponde ad un determinato

125

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valore di ∆Rn al quale vengono confrontati tutti i campioni e sulla base del quale

vengono ricavati i loro rispettivi valori di CT (riportati in ascissa).

Per minimizzare l’errore sperimentale, la quantificazione di cDNA provenienti da

campioni diversi è più attendibile se viene considerato anche un gene di riferimento

interno al sistema. Attraverso questa strategia si ottiene una quantificazione “relativa”,

basata cioè sulla differenza tra i livelli di espressione di un gene bersaglio in campioni

differenti valutata rispetto ad un gene di riferimento, che deve essere ugualmente

espresso in tutti i campioni analizzati. Solitamente i geni utilizzati come riferimento

sono: il gene per la β-actina, la gliceraldeide 3-fosfato-deidrogenasi (GAPDH), la

β2-microglobulina, oppure l’rRNA 18S. E’ possibile eseguire un’analisi quantitativa

eseguendo una serie di reazioni con quantità differenti di cDNA dello stesso e

calcolando la differenza tra il CT del gene bersaglio ed il CT del gene di riferimento,

cioè ∆CT, che deve rimanere costante o al massimo variare di valori inferiori all’unità

per tutti i punti della scalare di diluizione. Essendo il valore di CT inversamente

proporzionale alla concentrazione del templato in analisi, il valore del “ciclo soglia”

diminuisce all’aumentare della concentrazione di cDNA bersaglio. Allo scopo di

quantificare un trascritto in campioni che lo esprimono a diversi livelli, si calcola la

differenza tra i valori di ∆CT di ciascun campione in analisi ed il ∆CT del campione

usato come standard di riferimento, ottenendo il ∆∆CT; considerando il ∆∆CT come

esponente negativo di 2 (2-∆∆CT) è possibile valutare quante volte un determinato DNA o

cDNA templato è espresso in un campione rispetto ad uno di controllo [157].

L’RT-PCR quantitativa presenta numerosi aspetti vantaggiosi, come la capacità di

poter analizzare un elevato numero di campioni (96 per ogni analisi), nel momento in

cui sia necessario eseguire una reazione di retro-trascrizione prima della PCR, per la

produzione di cDNA a partire da RNA come templato, sia la reversione che

l’amplificazione vera e propria possono venir eseguite anche in unico passaggio e,

infine, consente di ottenere una visione in tempo reale, durante ciascun ciclo di

amplificazione, ovvero un grafico da cui si può ricavare l’incremento di fluorescenza

sviluppato da ciascun campione ad ogni singolo ciclo.

126

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RISULTATI

1. Dati relativi ai pazienti appartenenti al gruppo di volontari

considerato nello studio riguardante la risposta cellulare

all’Everolimus, mediante lo screening su precursori eritroidi coltivati

in vitro.

La talassemia è una patologia ereditaria, autosomica recessiva, causata da

alterazioni a livello della sintesi dei componenti proteici che costituiscono

l’emoglobina. Le sindromi talassemiche sono classificate, sulla base delle catene

globiniche coinvolte, in α-, β-, δ-talassemia; ognuna di queste forme patologiche

presenta caratteristiche eterogenee.

Il fenotipo talassemico, determinato da mutazioni a carico dei geni per le β-globine,

raramente è rappresentato dalle stessa alterazione su entrambi i geni, mentre più spesso

la patologia è la risultante della combinazione di genotipi differenti. Le alterazioni a

carico dei geni globinici, sono solitamente rappresentate da delezioni più o meno estese

o da mutazioni puntiformi di diversa natura. Gli effetti di queste alterazioni si possono

manifestare nei processi di trascrizione e traduzione, portando di conseguenza alla totale

assenza della sintesi proteica, ad uno squilibrio nella velocità di sintesi oppure alla

produzione di catene proteiche altamente instabili.

Si deve considerare, inoltre, che la gravità del quadro ematologico di un soggetto

affetto da β-talassemia può essere influenzata anche da altri fattori, che possono

interferire sull’espressione dei geni per le α- e le γ-globine.

Solo in seguito alle evidenze sperimentali secondo cui l’Everolimus si è dimostrato

un composto di notevole interesse come induttore del differenziamento eritroide nella

linea cellulare K562 e in colture di precursori eritroidi di soggetti sani, l’analisi

dell’espressione dei geni globinici è stata effettuata anche su cellule di pazienti affetti da

β-talassemia [103]. Tuttavia questo studio riguardava un gruppo di soli 4 soggetti di

origine israeliana affetti da questa patologia.

127

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Il nostro interesse, invece, è stato rivolto a testare l’efficacia dell’Everolimus,

impiegato su colture in vitro di cellule staminali umane, su un numero maggiore di

pazienti di nazionalità italiana, che potesse apportare dati significativi aventi una

valenza territoriale.

I campioni di sangue periferico dai quali allestire le colture di precursori eritroidi e

sulle quali testare gli effetti dell’Everolimus, sono stati donati da un gruppo totale di 14

pazienti affetti da β-talassemia volontari; 10 campioni provengono dalla Clinica

Pediatrica I, Centro Sindrome Down, Ospedale “Santa Chiara” di Pisa e 4 dal servizio

di Immunoematologia e Trasfusione dell’Ospedale di Rovigo. Ciascuno di questi

soggetti ha dato la propria disponibilità alla ricerca, tramite la compilazione di un

consenso informato, per il prelievo di 20 ml sangue necessari per allestire una coltura

cellulare in vitro contenete circa 108 cellule.

Per alcuni di questi pazienti è stato possibile ottenere anche alcune informazioni

relative al sesso e all’età ed alcuni dati clinici come la quantità di Hb valutata prima

della trasfusione, l’eventuale splenectomia, intervento necessario per evitare ulteriore

danno da emolisi splenica, e l’attuazione di terapia trasfusionale; tutte queste

informazioni sono riportate nella tabella 2. Tuttavia i dati relativi ai soggetti provenienti

dall’Ospedale di Rovigo non sono ancora stati resi disponibili.

Tabella 2. Dati clinici di alcuni dei soggetti impiegati nello studio degli effetti differenzianti dell’Everolimus.

Paziente età sesso splenectomia trasfusioni Hb Pre-trasfusione Talassemia

1 31 a M + Ogni 4 sett 9,5 g/dl major 2 35 a F + regolari nd major 3 7 a M + Non regolari 8,5-9 g/dl intermedia 4 17 a F - regolari nd major 5 20 a F - regolari nd major 6 12 a F + no 9,2 g/dl intermedia

7 23 a F + regolari nd Beta-thal/ Hb Lepore

8 35 a M + regolari nd major

9 29 a M - no 7,5 g/dl Talasso-drepano10 31 a M + regolari nd major

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2. Caratterizzazione genotipica: mutazioni responsabili della patologia

talassemica nei soggetti presi in esame.

Con la tecnica del sequenziamento del DNA, la cui utilità non è limitata solo al

campo della diagnostica prenatale, è stato possibile effettuare la caratterizzazione della

mutazione responsabile della patologia nei pazienti considerati per questo studio. Di

questo aspetto si sono occupate alcune collaboratrici del Prof. Gambari, utilizzando un

metodi di sequenziamento enzimatico automatizzato. L’analisi e l’identificazione della

mutazione, responsabile di β-talassemia nei soggetti considerati in questo studio,

rivestono una notevole importanza per la ricerca di un’eventuale correlazione con la

risposta individuale al trattamento farmacologico. I dati genetici ottenuti potrebbero

aiutare a definire o meno l’idoneità di ciascun soggetto considerato anche per

l’inserimento in un eventuale trial clinico o futura applicazione terapeutica.

Le mutazioni più frequenti nelle diverse regioni d’Italia, in particolare nella

regione del Delta del Po, sono riportate nella tabella 3.

Tabella 3. Distribuzione regionale delle mutazioni che più frequentemente sono responsabili della β-talassemia in Italia. I valori sono espressi in percentuale riferiti a ciascuna regione; la riga indicata come “percentuale” si riferisce alla percentuale nazionale.

Allele Regione

Codon39 C T

IVS-I-110

G A

IVS-I-6

T C

IVS-I-1

G A

IVS-II-745

C G

Codon 6

-A

IVS-II-1

G A

-101 C T

Hb Lepore

Sardegna Sicilia Calabria Basilicata Puglia Campania Lazio Po Delta Genova Altri %

95,7 35,5 30,9 64,5 34,9 48,8 48,1 61,5 33,3 38,4 66,84

0,5 23,6 22,4 16,1 26,4 14,8 11,5 25,6 15,0 19,9 11,21

0,1 16,0 16,6 3,2 11,3 8,6 3,8 2,6 18,3 19,2 7,54

0,03 8,2 7,7 16,1 13,8 8,6 5,8 2,6 10,0 4,7 3,99

0,4 6,1 4,4 5,0 8,0 11,5 5,0 3,6 2,78

2,2 1,1 3,3 0,3 7,7 3,3 2,2 1,90

0,03 1,6 3,9 4,1 4,9 5,8 2,6 4,5 1,48

0,08 0,3 0,3 0,6 1,3 1,7 0,25

0,4 1,8 1,9 0,5 0,20

129

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Mentre in tabella 4 sono riportati i dati relativi alla caratterizzazione genica dei

campioni oggetto di studio. I campioni 1-3-8-9-10, relativi ai soggetti provenienti

dall’Ospedale di Pisa, non sono ancora stati caratterizzati.

Valutando i dati della caratterizzazione genotipica, si può osservare che i pazienti

7-11-12-14, sono tutti omozigoti per la mutazione non senso β0-39, la più diffusa in

Italia; questa mutazione è caratterizzata dalla conversione, in corrispondenza del codone

39, del codone CAG codificante per una glutammina, in un codone TAG, che

rappresenta un segnale di stop nell’mRNA e causa pertanto l’arresto della sintesi

proteica, conducendo alla produzione di una catena proteica troncata prematuramente

[158].

Un quadro clinico di talassemia major è stato visto essere associato alla co-

ereditarietà della mutazione non senso β0-39 e di (β+) IVSI-110 G A, come nel caso

del paziente 5 [159]. La mutazione (β+) IVSI-110 G A, causata dalla sostituzione di

una guanina con un’adenina nella sequenza consenso, collocata nel primo introne del

gene β-globinico a 19 nucleotidi di distanza dal sito di splicing AG, conduce

all’attivazione di un sito criptico di splicing che causa, a sua volta, un difetto nel

riconoscimento della regione di giunzione esone/introne [160, 161].

Una situazione analoga è stata riscontrata per il paziente 2, che presenta le

mutazioni (β+) IVSI-110 e (β0) IVSII-1 G A; la seconda è una mutazione puntiforme

in posizione 1 del secondo introne nel gene β-globinico, che annulla il normale sito di

splicing distruggendo il suo GT o il suo AG [2].

La mutazione del gene β-globinico individuata nel soggetto 4 è la (β+) IVSI-6, cioè

la sostituzione T C nel sito di splicing del 1° introne che comporta la riduzione

dell’efficienza del processo di processamento dell’mRNA [71]; il paziente presenta

inoltre un polimorfismo C T nel codon 2 in eterozigosi, un polimorfismo C G

IVSII-16, probabilmente in omozigosi e un polimorfismo G T IVSII-74 in eterozigosi.

L’altra mutazione patologica non è ancora stata individuata.

Analogamente, nel paziente 13 è stata riportata l’eterozigosi per la mutazione

β+IVSI-110, ma non è ancora nota l’altra mutazione.

Il paziente 6 presenta l’inserzione di una A nel codone 17, che produrrebbe uno

sfasamento del frame di lettura e porterebbe ad ottenere una catena peptidica

completamente alterata o abortiva.

130

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Tabella 4. Mutazioni riscontrate in alcuni dei pazienti considerati nel nostro studio.

Paziente Alterazione genetica

2 Eterozigote β+IVSI-110/β0IVSII-1

4

Eterozigote β+IVSI-6

Polimorfismo C T in codon 2

Polimorfismo T G IVSII-74

Non individuata l’altra mutazione

5 Eterozigote β+IVSI-110/β039

6

Eterozigote +A in codon 17

Polimorfismo T C in codon 2

Delezione dell’altro allele β

7 Omozigote β039

11 Omozigote β039

12 Omozigote β039

13 Eterozigote β+IVSI-110

Non individuata l’altra mutazione

14 Omozigote β039

La mutazione del paziente 6 è in condizione di eterozigosi, mentre l’altro allele del gene

per le β-globine è completamente deleto. Inoltre, questo soggetto presenta una

sostituzione T C nel codone 2, che tuttavia non altera l’amminoacido inserito nella

catena proteica in fase di sintesi. Quest’ultimo polimorfismo è presente anche nel

paziente 4.

Nel gruppo di volontari selezionati le mutazioni riportate rispecchiano la

frequenza attesa sulla base della distribuzione nazionale.

131

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3. Considerazione del contenuto di HbF iniziale nei soggetti indagati,

per la loro suddivisione in fenotipo HPFH e non-HPFH.

Un altro fattore importante da considerare, prima di un ipotetico trattamento con

un agente eritro-differenziante, è la quantità di HbF prodotta costitutivamente dal

paziente. Normalmente la sintesi dell’emoglobina fetale in un adulto è ridotta all’1-2%

dell’emoglobina totale ed è ristretta ad una sottopopolazione eritrocitaria, detta F-cell

(eritrociti contenenti HbF). Tuttavia, alcuni individui esprimono in età adulta i geni per

le γ-globine agli stessi livelli riscontrati durante la vita fetale, manifestando il fenotipo

denominato HPFH (High Persistence of Fetal Haemoglobin). I soggetti che manifestano

il fenotipo HPFH presentano un miglioramento del quadro clinico, dovuto alla

riattivazione dei geni per le γ-globine, in cui gli aumentati livelli di HbF compensano,

almeno in parte, la carenza di HbA caratteristica delle sindromi talassemiche [2].

La determinazione della quota di emoglobina fetale nel sangue dei soggetti

β-talassemici in esame permette di distinguere i pazienti in due gruppi: quelli con

fenotipo HPFH, il cui quadro clinico talassemico è fortemente alleviato dalla

persistenza di HbF nel soggetto e i soggetti non-HPFH, la cui percentuale di

emoglobina fetale, seppur presente, è insufficiente a garantire loro un miglioramento

evidente dei sintomi talassemici; come limite che suddivide le due categorie è stato

considerato il valore di HbF pari a 15-20%.

Tramite la tecnica dell’HPLC (High Performance Liquid Cromatography), una

metodica molto rapida, ripetibile ed accurata, i vari tipi di emoglobina presenti nei

campioni di sangue provenienti da ciascun paziente sono separati in bande distinte,

definite frazioni di eluizione. Mediante un’analisi HPLC condotta precedentemente su

un campione di sangue di un soggetto adulto sano, è stato possibile caratterizzare i

picchi corrispondenti nel cromatogramma alle diverse emoglobine, che vengono eluite

dalla colonna cromatografica in tempi diversi, in base alla loro affinità per la fase fissa

di cui è costituita la colonna e la fase mobile rappresentata dalla miscela di eluenti, alla

loro carica ed al loro peso molecolare. Dalla valutazione dei singoli picchi

cromatografici è possibile determinare la quantità relativa di ciascuna emoglobina

presente nello stesso campione, espressa come percentuale rispetto alla quantità totale.

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La tabella 5 riporta i valori di HbF e delle altre componenti emoglobiniche

ottenute dal sangue dei pazienti analizzati.

Considerando i dati riportati in tabella si può concludere che solo i pazienti 2-3-6,

esprimono il fenotipo HPFH, mentre i soggetti 1-4-5-10-11-12-13 non presentano

questa favorevole condizione clinica. L’analisi dei campioni 7-8-9-14 non è ancora stata

eseguita. La valutazione dell’HbF nel sangue dei pazienti talassemici prima della

trasfusione è importante per una corretta e adeguata valutazione dell’effettivo accumulo

di trascritti per globine fetali nelle colture cellulari di precursori eritroidi, in seguito a

induzione farmacologica in vitro con agenti differenzianti.

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Tabella 5. Valutazione dei dati relativi alla percentuale dei differenti tipi di Hb nel sangue.

Paziente Emoglobine Composizione %Hb

Donatore sano

HbF

HbA1

HbA2

3.39%

91.76%

2.5%

1

HbF

HbA1

HbA2

2.54%

84.89%

4.31%

2

HbF

HbA1

HbA2

15.52%

46.21%

3.82%

3

HbF

HbA1

HbA2

35.69 %

37.13%

5.31%

4

HbF

HbA1

HbA2

8.74%

74.56%

3.65%

5

HbF

HbA1

HbA2

6.27%

67.76%

4.20%

6 HbF

HbA2

88.09%

0.57%

10

HbF

HbA1

HbA2

11.01%

73.24%

3.5%

11

HbF

HbA1

HbA2

4.89%

75.51%

5.27%

12

HbF

HbA1

HbA2

4.63%

71.96%

1.86%

13

HbF

HbA1

HbA2

3.06%

80.16%

6.54%

134

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4. Colture di precursori eritroidi isolati dal sangue periferico di

pazienti affetti da β-talassemia.

Le cellule staminali derivate dal sangue prelevato dai donatori affetti da

β-talassemia sono state messe in coltura secondo la metodica di coltura di precursori

eritroidi in due fasi liquide, come schematizzato in Fig. 30 (capitolo “Materiali e

Metodi”). Durante la prima fase, detta EPO-indipendente, i progenitori eritroidi precoci

committed, cioè le cellule BFU-E, proliferano e si differenziano in CFU-E. Dopo sei

giorni di coltura nel terreno di fase I, quest’ultima tipologia cellulare viene messa nel

terreno fresco di fase II, addizionato con EPO e con fattori stimolanti e selettivi per la

proliferazione cellulare verso la linea eritroide; in questa fase, infatti, le cellule CFU-E

proliferano e maturano divenendo normoblasti ortocromatici e in seguito eritrociti

enucleati [93].

Nella fase II di coltura le cellule iniziano quindi a produrre emoglobina, anche se a

livelli bassi. Al 6° giorno di fase II viene eseguito, senza rinnovare il terreno di coltura,

il trattamento farmacologico con Everolimus addizionato alle concentrazioni 100 nM,

250 nM, 500 nM, 1000 nM, 1500 nM. Un’aliquota di cellule non trattate rappresenterà

il controllo di riferimento negativo. Per avere invece un parametro di riferimento

positivo, alcune cellule sono state sottoposte a trattamento con altri composti

eritrodifferenzianti, come Rapamicina (impiegata alle concentrazioni di 100 nM o

500 nM) e Mitramicina (impiegata alle concentrazioni di 25 nM o 50 nM). Dopo 4

giorni di trattamento, viene estratto l’RNA dalle cellule seguendo la metodica del

TRIzol descritta in “Materiali e metodi”.

Si è cercato di creare un duplice approccio analitico all’indagine sull’Everolimus,

basato da un lato su saggi condotti su colture cellulari, e dall’altro su un’indagine

genetica. In questo modo si è ritenuto di poter sia verificare l’azione eritro-

differenziante del composto in esame, sia la variabilità nella risposta individuale delle

cellule del paziente, correlata probabilmente alla tipologia di mutazione che lo

caratterizza. Questo studio combinato potrebbe aprire nuove strategie applicative nella

terapia della β-talassemia, creando una corsia preferenziale per ciascun paziente, che

potrebbe essere sottoposto ad una terapia su misura, in quanto più mirata e studiata sulla

base di una particolare alterazione genetica. Oltre ad avere sviluppi importanti per la

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terapia futura della talassemia, la caratterizzazione genotipica dei pazienti in studio può

permettere di selezionare, all’interno di un ampio campione di soggetti, i pazienti che

rispondono positivamente all’azione di un determinato composto farmacologico.

L’analisi effettuata sulle colture cellulari dei precursori eritroidi permette di valutare la

risposta individuale, mentre la caratterizzazione genetica potrebbe rivelare una

corrispondenza diretta tra la risposta al trattamento e la mutazione responsabile della

patologia. Si riuscirebbe in questa maniera, nell’ambito di un futuro trial clinico, a

restringere fortemente il campo d’indagine attorno a soggetti con caratteristiche

predisponenti alla responsività al trattamento.

5. Effetti del trattamento con Everolimus sulla proliferazione dei

precursori eritroidi da ottenuti dai pazienti affetti da β-talassemia.

La proliferazione dei precursori eritroidi viene monitorata contando le cellule nelle

varie fasi di coltura utilizzando il Coulter Counter Z1 (Coulter Electronics Limited,

Luton, Beds, England). La determinazione del numero di cellule permette di verificare

la crescita ed eventualmente di osservare, dopo aver effettuato il trattamento con il

composto in analisi, gli effetti di inibizione della proliferazione che le differenti

concentrazioni di Everolimus possono provocare. Nel protocollo sperimentale eseguito,

l’Everolimus è stato addizionato al 6° giorno di fase II in concentrazioni scalari in modo

da coprire un range da 100 nM a 1500 nM. Ogni coltura allestita con i precursori

eritroidi derivati da ogni singolo donatore ha evidenziato una sensibilità soggettiva al

trattamento: gli effetti sulla proliferazione cellulare indotti dall’Everolimus si verificano

a concentrazioni differenti per le diverse colture. Questo evento è probabilmente

imputabile da un lato a fattori di sensibilità intrinseca delle cellule del paziente,

dall’altro a condizioni dipendenti dall’andamento della coltura.

La Fig. 33 descrive un esempio dell’andamento della proliferazione cellulare, in

questo caso relativo al paziente 6, considerando il 1° giorno di fase I, il 1° giorno di fase

II, il 6° giorno di fase II, prima del trattamento, e il 4° giorno di trattamento (10° giorno

di fase II). Nell’istogramma è riportato il numero di cellule/ml osservato dopo un

trattamento con Everolimus alla concentrazione 250 nM, ma anche i dati relativi alle

136

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cellule trattate con due agenti noti essere induttori del differenziamento eritroide, cioè la

Rapamicina (500 nM) e Mitramicina (25 nM) [93, 100], che rappresentano i controlli

positivi di induzione.

0

500000

1000000

1500000

2000000

2500000

cellu

le/m

l

1° giornofase I

1° giornofase II

6° giornofase II

10° giornofase II

tempo (giorni)

ControlloEverolimus 250 nMRapamicina 500 nMMitramicina 25 nM

Fig. 33. Proliferazione cellulare colture eritroidi del paziente 6. I precursori eritroidi derivati dal soggetto 6, sono stati incubati al 6° giorno di fase II con Everolimus 250 nM, Rapamicina 500 nM e Mitramicina 25 nM. Dopo quattro giorni di trattamento la proliferazione cellulare ha messo in evidenza che nessuno dei tre trattamenti farmacologici ha ridotto sensibilmente la crescita cellulare rispetto ad una coltura di controllo non trattata.

I risultati descritti in Fig. 33 evidenziano una riduzione della proliferazione

cellulare durante la fase II, dovuta al fatto che le cellule in coltura differenziano in senso

eritroide e non proliferano più, alcune di essere termineranno il loro ciclo vitale durante

il trascorrere del tempo e non saranno sostituite da nuove cellule nella coltura, pertanto

il numero totale tenderà a diminuire. Inoltre, dal confronto del campione non trattato

con quelli sottoposti ai trattamenti farmacologici è possibile ricavare il valore di IC50,

ovvero la concentrazione alla quale si ottiene un’inibizione della proliferazione del

50%, che è in parte associata a fenomeni di tossicità cellulare. Nello specifico, la

concentrazione di Everolimus 250 nM e quelle di Rapamicina 500 nM e Mitramicina

25 nM, concentrazioni attive per quanto riguarda l’induzione al differenziamento di

questa coltura cellulare, non inibiscono in modo significativo la crescita.

137

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Analogamente, la Fig. 34 riporta gli effetti sulla proliferazione delle colture

provenienti da sei pazienti (1-6-8-9-10-11), prodotti dalle varie concentrazioni di

Everolimus considerate utili per ottenere in vitro un’induzione eritroide. Infatti, ogni

singola coltura cellulare risponde a concentrazioni differenti di Everolimus, all’interno

del range di trattamento applicato (che va da 100 nM a 1500 nM), confermando una

variabilità individuale nella risposta all’azione dell’agente differenziante.

0

200000

400000

600000

800000

1000000

1200000

cellu

le/m

l

paziente 1

paziente6

paziente 8

paziente9

paziente10

paziente 11

pazienti

controllo

Everolimus

Fig. 34. Proliferazione cellulare al 10° giorno di fase II (corrispondente al 4° giorno di trattamento). Le cellule dei pazienti sono state incubate con concentrazioni differenti di Everolimus al 6° giorno di fase II; dopo 4 giorni di trattamento le cellule sono state contate con Coulter Counter per verificare l’azione dell’Everolimus sulla proliferazione cellulare, facendo riferimento ad un controllo non trattato. Le concentrazioni di Everolimus mostrate sono quelle che non davano, per quella determinata coltura, un’inibizione della crescita cellulare superiore al 50% (IC50). Le concentrazioni utilizzate nelle diverse colture cellulari sono rispettivamente: Everolimus 500 nM (per quelle provenienti dal paziente1), Everolimus 250 nM (6-9-11), Everolimus 100 nM (8-10).

Tutte le concentrazioni efficaci di Everolimus sono state comparate in Fig. 34 al

rispettivo controllo negativo, costituito dalle cellule non trattate; per nessuna

concentrazione rappresentata è stato evidenziata un’inibizione della crescita cellulare

superiore al 50%.

138

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Quest’analisi sottolinea, sia una variabilità nella risposta individuale delle cellule

provenienti dal soggetto talassemico, sia che le concentrazioni di Everolimus utili per

ottenere un effetto differenziante, non inibiscono significativamente la proliferazione

cellulare, indicando una bassa tossicità del composto in queste condizioni sperimentali.

6. Selezione dei soggetti sensibili al trattamento in vitro con

l’Everolimus, mediante quantificazione dell’espressione dei geni

globinici, utilizzando la tecnica della Real Time Quantitative PCR.

Per studiare l’effetto sortito dal trattamento con Everolimus sull’espressione dei

geni globinici nelle colture cellulari oggetto del presente studio, è stato estratto da

queste cellule l’RNA totale, seguendo la metodica del TRIzol descritta in “Materiali e

metodi”, ed in seguito ne è stata valutata l’integrità mediante analisi su gel d’agarosio

all’1% e la quantità attraverso l’indagine con lo spettrofotometro. L’RNA messaggero

di ciascun campione è stato amplificato con una reazione di retro-trascrizione, che ha

condotto all’ottenimento dei cDNA corrispondenti agli mRNA di partenza. Ogni

campione è stato sottoposto ad una reazione, eseguita in duplice copia, di Real Time

Quantitative PCR, secondo quanto descritto nel capitolo “Materiali e metodi”.

Oltre ai trascritti relativi ai messaggeri per le globine umane α, β e γ, è stato

amplificato il trascritto dell’rRNA 18s, usato come controllo endogeno e rappresentante

il gene di riferimento, che deve avere la stessa entità di espressione sia nelle cellule

trattate che in quelle non trattate. Oltre al trattamento con opportune concentrazioni di

Everolimus, alle colture cellulari sono state somministrate la Rapamicina e la

Mitramicina, noti essere agenti differenzianti.

In tabella 6 sono riportati i dati ottenuti in seguito all’analisi di Real Time

Quantitative PCR, relativi all’espressione genica di α-, β-, γ-globine conseguente al

trattamento con concentrazioni diverse di Everolimus, Rapamicina e Mitramicina. La

tabella mostra i dati raccolti da tutti i campioni considerati in questo studio e derivanti

dai donatori affetti da β-talassemia.

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Tabella 6. Analisi di PCR quantitativa sulle colture di precursori eritroidi indotte con Everolimus ed altri agenti differenzianti.

Paziente Everolimus Rapamicina Mitramicina Conc.

ever

Conc.

rapa

Conc.

mitra

1 β=6.82

γ=4.50

α=2.89

β=3.89

γ=2.75

α=2.19

β=9.13

γ=11.16

α=3.84

500 nM 100 nM 25 nM

2 α=14.12

β=8.17

γ=4.35

α =40.79

β=11.47

γ=7.84

α=20.82

β=8.75

γ=3.78

100 nM 500 nM 25 nM

3 β=1.84

γ=1.82

α=1.33

β=6.87

γ=5.10

α=0.70

β=0.99

γ=0.98

α=1.64

250 nM 250 nM 50 nM

4 β=1.16

γ=1.12

α=13.27

nd

β=0.97

γ=0.82

α=13.00

100 nM nd 25 nM

6 β=4.99

γ=1.74

α=2.55

β=9.92

γ=3.99

α=4.41

β=5.24

γ=1.39

α=1.62

1500 nM 500 nM 25 nM

7 β=5.13

γ=0.40

α=1.13

β=2.66

γ=0.64

α=1.25

β=2.28

γ=0.35

α=0..96

1500 nM 500 nM 25 nM

9 β=2.95

γ=5.90

α=1.37

β=0.70

γ=0.89

α=1.26

β=0.14

γ=0.75

α=0.25

100 nM 250nM 50 nM

10 β=1.07

γ=0.42

α=1.75

β=2.85

γ=2.97

α=2.46

β=0.25

γ=0.17

α=0.78

250 nM 1500 nM 25 nM

12 β=0.47

γ=0.48

α=0.46

nd

β=1.24

γ=7.57

α=1.09

500 nM nd 25 nM

13 β=0.69

γ=1.79

α=0.96

nd

β=1.09

γ=1.64

α=1.77

1000 nM nd 25 nM

14 β=2.87

γ=3.25

α=1.53

nd

β=5.46

γ=7.52

α=0.34

500 nM nd 25 nM

140

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Da questi dati riassuntivi appare evidente che nelle colture provenienti da ogni singolo

paziente l’effetto eritro-differenziante è ottenuto a diverse concentrazioni per lo stessa

molecola impiegata nel trattamento, in dipendenza da fattori quali la sensibilità

individuale. Solo valutando accuratamente questa variabilità soggettiva sarà possibile

definire in modo più preciso, sia un trattamento specifico e quindi con maggiori

possibilità di successo terapeutico, sia un gruppo di soggetti adatti a rappresentare i

pazienti da inserire in un eventuale trial clinico.

Da queste due considerazioni deriva l’importanza che la nostra analisi riveste nello

screening di una popolazione di individui affetti da β-talassemia, ai fini di poter

individuare, in futuro, l’applicazione di trattamento terapeutico mirato all’induzione di

globine embrio-fetali.

Sono quindi descritti e considerati nel dettaglio i dati ottenuti dal trattamento di

ciascuna coltura di precursori eritroidi mediante i saggi di Real Time Quantitative PCR.

In una reazione di PCR quantitativa il prodotto generato raddoppia ad ogni ciclo di

amplificazione, ma affinché sia rilevabile, sulla base della fluorescenza emessa dalla

degradazione della sonda ibridizzata al templato (vedi la descrizione del principio in

“Materiali e Metodi”, Fig. 32), sono necessari parecchi cicli. Lo spettrogramma, che

rappresenta la fluorescenza registrata ad ogni determinato ciclo, ha un andamento

sigmoide; mentre nel tratto terminale la curva comincia ad appiattirsi, poiché i substrati

di reazione iniziano a scarseggiare ed i prodotti PCR non raddoppiano più, nel tratto

iniziale della sigmoide si è certi di trovarsi in condizioni quantitative di amplificazione,

in cui l’andamento della curva segue la funzione 2n. Qui la fluorescenza è direttamente

proporzionale alla quantità di acido nucleico utilizzato come stampo. Si calcola a questo

punto il numero di cicli (CT) necessari affinché il materiale in analisi abbia un

emissione di fluorescenza superiore al rumore di fondo o background. Una volta

calcolata l’intensità di fluorescenza significativa, il detector del sistema d’analisi traccia

una retta parallela all’asse delle ascisse (linea di threshold) che interseca tutte le curve

sigmoidi, relative ai differenti campioni analizzati, nel punto in cui ogni campione

emette la stessa fluorescenza, ovvero possiede la stessa quantità di amplificato, che può

corrispondere a cicli diversi nel processo di amplificazione in dipendenza dalla quantità

di materiale di partenza.

Nel nostro caso, i geni per le catene globiniche considerati per la quantificazione

sono espressi con la stessa efficienza rispetto al gene di riferimento endogeno, per cui è

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possibile quantificare l’incremento dell’espressione genica usando un approccio

cosiddetto di quantificazione relativa. Per ciascun campione trattato e non trattato è

necessario calcolare il valore definito ∆CT, cioè la differenza tra il valore di CT del

gene globinici analizzato e il valore di CT del gene per la subunità ribosomale 18s.

Dalla differenza tra il ∆CT dei campioni di cellule trattate ed il ∆CT dei campioni delle

cellule di controllo, si ricava il ∆∆CT; tale valore rappresenta l’esponente negativo di 2

nel risultato finale di un’elaborata equazione matematica. Il calcolo del valore di 2-∆∆CT

permette quindi di ottenere il numero di volte in cui un mRNA bersaglio viene espresso

in più rispetto al riferimento non trattato.

Di seguito vengono riportati, come esempio, gli spettrogrammi più significativi

delle amplificazioni effettuate mediante Real Time Quantitative PCR sui geni per le

globine nei campioni riassunti in tabella 6. Ogni spettrogramma comprende quattro

curve, poiché ogni analisi è stata eseguita in duplicato, sia sul trattato che sul controllo;

per ogni soggetto considerato le figure A, B e C, rappresentano l’andamento relativo

all’amplificazione rispettivamente dei geni per le globinici α, β e γ. Le curve del

campione trattato sono sempre indicate in blu e giallo, mentre le curve relative al

controllo non trattato sono in rosso e verde. Le figure D di tutti gli spettrogrammi di

seguito riportati, rappresentano l’amplificazione del gene interno di riferimento 18s;

qui, le curve in verde e giallo descrivono l’andamento delle cellule trattate, mentre le

curve in rosa e blu sono riferite al controllo.

Per il paziente 1, sono riportate le curve di amplificazione relative ai tre differenti

trattamenti; la Fig. 35 riporta gli spettrogrammi riferiti all’amplificazione dei geni per

le globine umane (α, β, γ rispettivamente in figura A, B e C) e del gene di riferimento

interno 18s (fig. D), per il quale il valore di CT delle cellule trattate (curve in verde e

giallo) non si discosta in modo significativo dalle curve delle cellule di controllo non

trattato (in rosa e blu). Le cellule trattate con Everolimus 500 nM (curve in blu e giallo)

presentano, rispetto al controllo non trattato (curve in rosso e verde), un basso

incremento delle α-globine (2.89), trascurabile se confrontato con l’induzione più

elevata, esercitata sulle globine β e γ, rispettivamente 6.82 e 4.50, risultato che riveste

notevole interesse terapeutico. Gli spettrogrammi riportati nelle Fig. 36 e Fig. 37 sono

riferiti all’analisi parallelamente condotta sui campioni trattati, invece, con Rapamicina

100 nM e Mitramicina 25 nM rispettivamente. L’incremento di globine β e γ è pari a

3.89 e 2.75 per l’induzione con Rapamicina, che ha prodotto invece un basso

142

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incremento di α-globine pari a 2.19, mentre l’incremento di globine β e γ è pari a 9.13 e

11.16 per l’induzione con Mitramicina, che ha prodotto invece un basso incremento di

α-globine pari a 3.84. L’espressione delle α-globine non viene incrementata in maniera

significativa in nessuno degli esempi riportati, soprattutto se posta a confronto con

l’aumento registrato, invece, per l’espressione delle γ-globine e delle β-globine.

Fig.

35.

PC

R q

uant

itativ

a su

l cam

pion

e 1.

In A

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spet

trogr

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a re

lativ

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B, q

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e β;

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ulta

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lativ

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lule

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M,

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le n

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di

ampl

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B D

CA

143

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L’aumento dell’espressione genica per le α-globine, è un evento da tenere sotto

controllo e possibilmente da limitare, poiché l’induzione della produzione di queste

globine aumenterebbe il danno dovuto alla formazione di tetrametri di catene α. Il

soggetto 1, risponde in modo positivo a tutti e tre i trattamenti farmacologici applicati,

dimostrando, in tutti i casi, un accumulo sia dei trascritti γ-, che β-globinici,

accompagnato tuttavia anche da un modesto aumento delle α-globine. La valutazione

dei risultati riguardanti l’accumulo di mRNA per le globine γ ottenuto con trattamento

con l’Everolimus è di notevole importanza dal momento che il paziente considerato non

presenta nel sangue elevati livelli di HbF, per cui l’induzione dell’espressione delle

catene γ ottenuta è da considerare soddisfacente e sufficientemente rilevante.

Anche le colture di precursori del paziente 2 si sono dimostrate sensibili

all’induzione con tutte e tre le molecole: Everolimus 100 nM, Rapamicina 500 nM e

Mitramicina 25 nM. Questi composti hanno indotto un accumulo di tutti gli mRNAs

globinici (α, β, γ) i cui valori sono riportati in tabella 6. Per quanto riguarda il paziente

2, la caratterizzazione genotipica ha sottolineato uno stato di eterozigosi per le

mutazioni β+IVSI-110/β0IVSII-1; questa evidenza rende molto interessante, ai fini della

nostra indagine, sia l’incremento di mRNA per le globine β, dal momento che una

piccola aliquota di catene β viene prodotta endogenamente, che quello, anche se meno

intenso, di γ-mRNA. L’aumento di mRNA per le γ-globine, nonostante risulti meno

spiccato rispetto a quello degli altri trascritti globinici, è tuttavia molto significativo se

si tiene conto del fatto che il paziente 2 presenta livelli iniziali di HbF (15.52%) già

sufficientemente elevati, essendo un soggetto HPFH. Si dimostra quindi che i

trattamenti applicati riescono ad indurre l’accumulo di mRNA per le γ-globine,

nonostante una quantità di HbF endogena già fisiologicamente elevata.

Tra i donatori che hanno risposto positivamente a tutti i trattamenti farmacologici

effettuati, un altro esempio è descritto in Fig. 38, che riporta i quattro spettrogrammi

relativi all’induzione, con Everolimus 1500 nM, delle globine α, β e γ (A, B e C) e del

gene di riferimento interno 18s (D) per il paziente 6. Egli è affetto da β0-talassemia, in

quanto presenta un gene per le globine β deleto e l’altro mutato per inserzione di una A

al codon 17, mutazione che causa la formazione di un codone di stop e la produzione di

una catena proteica non funzionale.

146

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In questo caso gli aumenti di mRNA per le β-globine registrati in risposta ai trattamenti

non sono utili dal punto di vista terapeutico, poiché dovuti unicamente alla rilevazione

da parte della sonda di mRNA aberranti, che non produrranno catene globiniche

funzionali. Tuttavia, è particolarmente interessante notare che, nonostante la scarsa

induzione di γ-mRNA, il suo incremento seguito al trattamento, con tutti e tre gli agenti

induttori usati, è eccezionale se si considera che il soggetto in esame è un individuo

HPFH, che presentava già nel sangue una quota di HbF iniziale del 88,09%.

Un ulteriore caso nel quale viene evidenziata un’induzione al differenziamento

eritroide per tutti i trattamenti eseguiti con Everolimus, Rapamicina e Mitramicina,

riguarda le cellule ottenute dal paziente 7, dove si è rilevato solo l’aumento della

produzione di β-mRNA, che tuttavia è rappresentato da un trascritto aberrante. Dal

punto di vista della mutazione responsabile della patologia talassemica, questo soggetto

è infatti omozigote β0-39, quindi l’induzione di mRNA per le β-globine non è efficace

per migliorare il suo quadro clinico. Poiché non è stata osservata alcuna induzione di

mRNA per le γ-globine, il soggetto 7 non potrà trarre vantaggi da eventuali trattamenti

con le tre molecole prese in considerazione.

Nelle colture ottenute dai precursori eritroidi derivati dal sangue del paziente 3, gli

mRNAs per le β- e le γ-globine sono state indotti solo con i trattamenti di Everolimus

250 nM e Rapamicina 250 nM, mentre nessuna induzione è stata ottenuta con

l’addizione alla coltura di Mitramicina 25 nM. Questo dimostra che non tutti i soggetti

in esame rispondono ai trattamenti applicati allo stesso modo e con la stessa intensità, a

conferma dell’ipotesi sostenuta, secondo la quale la risposta è individuale in relazione

alle caratteristiche del paziente. Del soggetto 3 non è nota la mutazione del gene per le

globine β, tuttavia i valori di HbF del sangue (35.69%) evidenziano la presenza di un

fenotipo HPFH, per il quale l’induzione di mRNA per le γ-globine mediata dai tre

composti in analisi è sufficientemente elevata per poter produrre un beneficio clinico in

questo soggetto.

Per i campioni 13 e 14 l’induzione farmacologica è stata effettuata solo con

Everolimus e Mitramicina, che hanno indotto, nei precursori eritroidi isolati dal sangue

di questi due soggetti, l’accumulo di trascritti per le globine. Nel caso del campione 13,

l’accumulo di trascritti era limitato e selettivo per le γ-globine; questo risultato è

riportato in Fig. 39 e mette in evidenza, in C, come il trattamento con Everolimus

148

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1000 nM agisce sulle cellule derivate dal paziente 13 inducendo esclusivamente

l’incremento della produzione di messaggeri γ-globinici. Visti i risultati positivi ottenuti

con l’Everolimus e la Mitramicina, che producono per ambedue i pazienti un accumulo

di γ-mRNA, si può concludere che entrambi i composti potrebbero apportare un

miglioramento effettivo del quadro clinico.

149

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La Fig. 40 riporta gli spettrogrammi che mostrano gli effetti sortiti dal trattamento

delle colture cellulari relative al paziente 9 con Everolimus 100 nM. L’incremento

dell’espressione dei geni per le globine è stata ottenuto esclusivamente con

l’Everolimus, mentre sia la Rapamicina, che la Mitramicina si sono dimostrate inattive.

L’accumulo di mRNA per le γ-globine è quasi il doppio rispetto a quello per le β (Fig.

40 B), come osservato dalle curve di amplificazione relative al gene per le γ-globine

(Fig. 40 C); infatti, a parità di threshold e di valore di fluorescenza emessa dal sistema

(∆Rn), le due curve che rappresentano il campione trattato compaiono prima nei cicli di

reazione e presentano valori di CT inferiori rispetto a quanto si osserva per il controllo

non trattato. Nonostante il genotipo del soggetto 9 non sia stato definito, la spiccata

attività dimostrata dal trattamento con Everolimus sulla coltura cellulare da esso

derivata, rende questo composto un potenziale agente utile al trattamento terapeutico del

soggetto.

Un aspetto importante emerge dall’osservazione che alcuni campioni non sono

stimolati a differenziare in senso eritroide in seguito all’esposizione a certi induttori,

bensì rispondono selettivamente solo al trattamento con alcune delle molecole proposte,

confermando quando suggerito dai dati relativi ai campioni 3-9-10-12, cioè che

l’induzione genica dipende anche dalla sensibilità individuale ad una determinata

molecola.

Per quanto riguarda il soggetto 10, l’espressione dei genica per le globine è indotta

esclusivamente con l’addizione di Rapamicina 1500 nM, mentre l’Everolimus

incrementa prevalentemente i trascritti per le globine di tipo α; queste analisi

preliminari rivelano l’inutilità di sottoporre il soggetto 10 ad un trattamento con

Everolimus. Tale fenomeno è indesiderato, in quanto un aumento eccessivo di

α-globine è la causa principale che sostiene la fisiopatologia di per sé caratteristica della

patologia talassemica.

Per il paziente 12 la risposta un’induzione significativa delle γ-globine è ottenuta

solo con Mitramicina 25 nM, mentre l’Everolimus 500 nM non sortisce alcun effetto

rilevante.

150

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Il campione 4, sottoposto al trattamento con Everolimus 100 nM e Mitramicina

25 nM, in nessuno dei due casi ha mostrato incrementi di trascritti per le

β- o γ-globine, che potessero essere significativi dal punto di vista terapeutico, bensì ha

evidenziato solo un aumento ingente di trascritti α; questo risultato conduce a

concludere che egli non sia sensibile a nessuno dei trattamenti testati, infatti, se la totale

mancanza di induzione γ- e β-globinica fosse dovuta ad un problema relativo alle

colture cellulari, non si avrebbe nemmeno il risultato riguardante l’incremento delle

catene α.

Tra tutti i 14 campioni analizzati, solo i soggetti 5, 8 e 11 (non riportati in tabella 6)

non hanno mostrato alcun dato positivo al trattamento eseguito con Everolimus,

Rapamicina o Mitramicina. Si è concluso che, con molta probabilità, questa totale

assenza di risultati sia da imputare a problemi riguardanti le condizioni di coltura in

vitro dei precursori dei pazienti stessi.

Riassumendo i dati ottenuti e riportati per esteso in tabella 6, sette campioni

(1-2-3-6-9-13-14) hanno risposto positivamente al trattamento con Everolimus che ha

portato in ogni caso ad un aumento sia di β-, che di γ-mRNA, mentre il campione 7 ha

evidenziato un accumulo di trascritti globinici solo a carico di β-mRNA, che non

rappresenta tuttavia un risultato effettivamente utili ai fini terapeutici, essendo un

soggetto β0-39. Per tre campioni (4-10-12), invece, le colture cellulari e l’induzione in

vitro con l’Everolimus non hanno dimostrato risultati apprezzabili. Il campione 10

tuttavia si è dimostrato sensibile all’attivazione del differenziamento operata dalla

Rapamicina, mentre il campione 12 è risultato sensibile alla Mitramicina.

E’ importante notare che le concentrazioni efficaci di Everolimus usate nel

trattamento sono variabili da paziente a paziente: i campioni 2 e 9 rispondono a 100 nM

Everolimus, mentre il soggetto 3 a 250 nM, i pazienti 1 e 14 a 500 nM, il soggetto 13

alla concentrazione di Everolimus 1000 nM e il paziente 6 a 1500 nM. Anche da questi

risultati si evince che la componente individuale gioca, per ciascun soggetto, un ruolo

essenziale nel determinare la reazione positiva ad un trattamento.

Inoltre, solo in base alla contemporanea valutazione dei dati riportati in tabella 4 e

5, relativi alla percentuale di HbF nel sangue del soggetto e alla determinazione della

mutazione genica presente in ciascun paziente talassemico, sarà possibile effettuare uno

screening, all’interno del gruppo in esame, degli individui con le caratteristiche

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genetiche e molecolari più idonee per definire trattamenti mirati e quindi

potenzialmente più efficaci .

Si può concludere che nei campioni indotti al differenziamento eritroide operato

con Everolimus, è stata osservata un’aumentata espressione a carico dei geni per le

γ-globine. Questo risultato è essenziale per tutti quei soggetti che, essendo affetti da β0-

talassemia, possono ottenere un effettivo beneficio terapeutico unicamente

dall’innalzamento della quota di γ-globine e quindi di HbF, che potrebbe sostituire

funzionalmente, almeno in parte, l’HbA. L’induzione γ-globinica riveste uno spiccato

interesse anche se avviene a livelli molto bassi, quando essa si realizza nei soggetti

definiti HPFH; infatti, viene così dimostrato che è possibile indurre farmacologicamente

l’espressione genica γ-globinica anche se già presente e fortemente attivata. Per i

soggetti affetti da β+-talassemia (campione 2 in eterozigosi), invece, anche l’induzione

β-globinica da parte dell’Everolimus, diventa un fatto rilevante dal punto di vista

terapeutico.

L’allestimento di saggi di questo tipo permette di valutare la soggettività della

risposta all’induzione nelle cellule di pazienti talassemici con agenti eritro-

differenzianti. La selezione mediante lo screening su colture cellulari di precursori

eritroidi permette di discriminare, in una vasta popolazione di candidati, quelli più adatti

ad essere eventualmente sottoposti al trattamento con Everolimus. Questa molecola ha

finora evidenziato risultati interessanti e scarsi effetti avversi e potrebbe quindi

potenzialmente entrare nella rosa di composti utilizzabili nella terapia farmacologica

della β-talassemia, addirittura surclassando composti già impiegati in passato come

l’idrossiurea, ma presentanti una notevole tossicità [93].

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DISCUSSIONE

Le sindromi talassemiche sono un gruppo di anomalie ereditarie, autosomiche

recessive, causate da alterazioni a livello della sintesi dei componenti dell’emoglobina e

caratterizzate da una quantitativa riduzione o abolizione delle catene globiniche α o β,

che provocano rispettivamente l’α-talassemia o la β-talassemia [162, 163]. Le

alterazioni a carico dei geni globinici riguardano mutazioni puntiformi o delezioni che

determinano anomalie relative alla trascrizione, allo splicing dell’RNA, alla stabilità dei

messaggeri e alla loro traduzione [2]. La condizione talassemica non è quindi

associabile ad un unico difetto genetico, ma è piuttosto la conseguenza della somma di

differenti alterazioni che producono effetti clinici simili.

In alcuni pazienti affetti da β-talassemia è stata osservata un’anomala espressione

dei geni per le γ-globine in età adulta, periodo nel quale normalmente la sintesi di catene

γ risulta repressa e quindi praticamente assente; in alcuni casi questa riattivazione porta

il livello di HbF di questi soggetti ad elevarsi dal 2.5% al 20%. Questo aumento di HbF

comporta una condizione clinica nota come HPFH (High Persistence of Fetal

Hemoglobin), che causa in questi individui un netto miglioramento del quadro clinico;

infatti, la relativa riattivazione dei geni γ-globinici causa un aumento di HbF tale da

poter in parte supplire alla carenza di HbA caratteristica delle sindromi talassemiche

[79].

Lo sviluppo di tecnologie innovative e strumentazioni sofisticate hanno permesso,

negli ultimi anni, la progettazione di nuove strategie terapeutiche, basate sulla

modulazione dell’espressione di geni bersaglio e sviluppate in seguito allo studio e alla

comprensione dei complessi meccanismi molecolari che regolano l’espressione genica.

Si è quindi approfondito fortemente l’interesse della ricerca verso la progettazione e la

sperimentazione di molecole in grado di avere un ruolo sulla modulazione

dell’espressione di geni coinvolti nel differenziamento eritroide.

La cura di patologie a carico del sistema emopoietico, come ad esempio la

β-talassemia o l’anemia falciforme, potrebbe derivare proprio dalla ricerca e dallo

sviluppo di molecole biologicamente attive capaci di provocare la riattivazione dei geni

per le γ-globine; durante l’ultimo decennio, molti composti sono stati testati e indagati

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per la loro potenziale attività come induttori della sintesi di HbF nel trattamento di

disordini ematologici.

In seguito alla dimostrazione che i pazienti affetti da disordini genetici al gene per

le globine β traggono giovamento dall’induzione farmacologia di HbF, quando essa

raggiunge percentuali comprese tra il 9% e il 20%, questo approccio terapeutico

rappresenta un metodo alternativo per la cura delle β-emoglobinopatie e talassemie

[164]. Quindi, uno degli obiettivi nella terapia sperimentale della β-talassemia è quello

di aumentare la sintesi delle catene γ-globiniche, per compensare il deficit di quelle β,

attraverso manipolazioni farmacologiche dello switch feto-adulto delle globine [91].

Tra i composti in grado di riattivare l’espressione dei geni endogeni per le γ-

globine, un discreto interesse è stato rivolto in questi ultimi anni alla Rapamicina, una

molecola molto complessa sia dal punto di vista chimico-strutturale, che per quanto

riguarda il potenziale meccanismo d’azione. Successivamente, anche analoghi della

Rapamicina sono stati presi in considerazione, poichè hanno dimostrato di possedere

minori effetti tossici [103].

L’Everolimus (40-O-(2-OH-etil)-rapamicina; Certican®,Novartis Pharmaceuticals),

ad esempio, è un analogo strutturale della Rapamicina, disegnato in seguito alla

rivelazione del primo composto come promettente agente terapeutico in vari campi [99].

L’Everolimus è stato sviluppato nel tentativo di migliorare le caratteristiche

farmacocinetiche della Rapamicina, in particolare la sua biodisponibilità orale e la

velocità di raggiungimento dello steady state. Essendo l’Everolimus un derivato

strutturale della Rapamicina, esso condivide con questa molte caratteristiche e aspetti

funzionali, tra cui il complesso meccanismo d’azione, che vede coinvolte molte proteine

[101, 104, 105]. Il target biologico dell’Everolimus (e della Rapamicina) è la proteina

mTOR, una chinasi che risente della regolazione a monte di molteplici fattori, tra cui

fattori di crescita, infatti la proteina mTOR è una componente centrale della sequenza di

eventi che controlla la crescita cellulare [107, 108, 109, 110, 111]. Il meccanismo

d’azione che riguarda all’attività eritro-differenziante dell’Everolimus è attualmente

supportato da molte ipotesi e alcune evidenze sperimentali, tuttavia si tratta di un

processo non ancora pienamente conosciuto.

L’Everolimus è attualmente impiegato in terapia come agente antirigetto, per la sua

attività immunosoppressiva dovuta al blocco della crescita cellulare e della

proliferazione delle cellule T; come la Rapamicina, proprio grazie alla sua capacità di

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arrestare il ciclo cellulare nella fase G1, esso è in uso anche nel trattamento profilattico

del rigetto d’organo in pazienti che hanno subito trapianto di reni o di cuore [136].

Inoltre, la bassa nefrotossicità dell’Everolimus, notata negli studi sui trapianti di reni,

potrebbe trovare una sua applicazione anche nella terapia antirigetto del trapianto di

fegato [99]. Inoltre, esperimenti condotti in vitro hanno dimostrato che gli inibitori di

mTOR riducono la proliferazione di cellule della muscolatura liscia, di fibroblasti e di

linee cellulari tumorali [99]. Un’applicazione nuova e interessante di questo

meccanismo di inibizione proliferativa delle cellule T, sembra rappresentato dalla

possibilità di utilizzare l’Everolimus nel trattamento della psoriasi, una malattia

autoimmune mediata, appunto, dai linfociti T [106]. Un ulteriore indagine ha riguardato

uno studio di fase I/II nel quale l’efficacia dell’Everolimus è stata testata in pazienti con

tumori ematologici maligni refrattari o recidivanti. Il disegno sperimentale prevedeva

due livelli differenti di dosaggio, 5 e 10 mg/die somministarti per os in continuo, per

definire la massima dose tollerabile da utilizzare nella fase II. Su 27 pazienti che hanno

ricevuto l’Everolimus, non è stata osservata tossicità dose-limitante; gli effetti

collaterali principali sono stati: iperglicemia (22%), ipofosfatemia (7%), stanchezza

(7%), anoressia (4%), diarrea (4%). In conclusione, l’Everolimus può avere un ruolo nel

trattamento di pazienti con patologie mielodisplastiche, nei quali è ben tollerato ad una

dose giornaliera di 10 mg [153].

Gli effetti esercitati dall’Everolimus sul differenziamento eritroide sono stati

analizzati inizialmente su cellule eritroleucemiche umane K562, sulle quali

l’Everolimus ha manifestato un’attività eritro-differenziante; in seguito a questa

evidenza sperimentale, l’analisi è stata condotta anche su colture di precursori eritroidi

provenienti da soggetti sani, ed infine su precursori isolati da pazienti β-talassemici.

Tuttavia questo studio preliminare riguardava un gruppo di soli 4 soggetti talassemici di

origine israeliana [103].

Il nostro interesse, invece, è stato rivolto a testare l’efficacia dell’Everolimus su un

numero maggiore di pazienti italiani, che possa apportare dati significativi con una

valenza territoriale. I campioni di sangue periferico dai quali allestire le colture di

precursori eritroidi e sulle quali testare gli effetti dell’Everolimus, sono stati donati da

un gruppo totale di 14 pazienti volontari affetti da β-talassemia; 10 campioni

provengono dalla Clinica Pediatrica I, Centro Sindrome Down, Ospedale “Santa

Chiara” di Pisa e 4 dal servizio di Immunoematologia e Trasfusione dell’Ospedale di

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Rovigo. Per le colture in vitro dei precursori eritroidi sono stati impiegati terreni liquidi

di coltura in due fasi successive; tali cellule rappresentano un sistema fisiologicamente

migliore rispetto alle K562 [140, 141]. Dopo il trattamento con Everolimus dei

precursori eritroidi coltivati in vitro, è stato estratto l’mRNA totale e retro-trascritto in

cDNA; in seguito la quantificazione dell’mRNA dei geni globinici è stata effettuata

mediante la tecnica dell’RT-PCR quantitativa. Inoltre, per alcuni pazienti in esame, è

stato possibile ottenere anche informazioni relative alla caratterizzazione genotipica,

effettuata mediante la tecnica del sequenziamento del DNA, che ha permesso la

determinazione della mutazione responsabile della patologia talassemica in ciascun

soggetto, e alla quantità di HbF nel sangue, valutata mediante HPLC, che ha

evidenziato quali individui presentassero un fenotipo HPFH.

La valutazione dei dati raccolti e l’intreccio delle caratteristiche riguardanti ciascun

paziente, hanno permesso di effettuare un primo screening all’interno del gruppo di 14

soggetti, per selezionare tra questi gli individui che presentano le caratteristiche più

idonee ad un eventuale trattamento terapeutico con l’Everolimus, impiegato come

agente eritro-differenziante.

Nel protocollo sperimentale eseguito, l’Everolimus è stato addizionato alle colture

al 6° giorno di fase II, in concentrazioni scalari in modo da coprire un range da 100 nM

a 1500 nM. Ogni coltura, allestita con i precursori eritroidi derivati da ogni singolo

donatore, ha evidenziato una sensibilità soggettiva al trattamento: gli effetti sulla

proliferazione cellulare indotti dall’Everolimus si verificano a concentrazioni differenti

nei diversi campioni. Il monitoraggio della proliferazione cellulare ha permesso di

verificare la crescita e di osservare gli effetti di inibizione della proliferazione che le

differenti concentrazioni di Everolimus possono provocare. Dal confronto del campione

non trattato con quelli sottoposti ai trattamenti con Everolimus, è stato possibile ricavare

il valore di IC50, ovvero la concentrazione alla quale si ottiene un’inibizione della

proliferazione del 50%, in parte associata a fenomeni di tossicità cellulare.

L’analisi di Real Time Quantitative PCR ha riguardato l’eventuale espressione di

α-, β-, γ-globine in seguito al trattamento con concentrazioni scalari di Everolimus e di

altre due molecole, la Rapamicina e la Mitramicina, impiegate in quanto agenti

differenzianti noti [93, 100]. I dati ottenuti dallo studio condotto sui 14 campioni

disponibili, hanno evidenziato un aumento sia di β-, che di γ-mRNA in sette dei

campioni (1-2-3-6-9-13-14) trattati con Everolimus. Un accumulo di trascritti globinici

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è stato osservato anche per il campione 7, tuttavia limitato solo all’mRNA per le catene

β; in tal caso, essendo questo un soggetto omozigote per la mutazione β0-39, il

trattamento con Everolimus non avrebbe alcuna utilità terapeutica. Per tre campioni (5-

8-11) l’assenza di risultati è da imputare a problemi riguardanti le condizioni di coltura

in vitro, mentre i campioni 4-10-12 non sono stati indotti in modo specifico

dall’Everolimus, pur presentando una risposta positiva ad altri agenti differenzianti.

E’ importante notare che le concentrazioni efficaci di Everolimus usate nel

trattamento sono variabili da paziente a paziente: i campioni cellulari 2 e 9 rispondono a

100 nM Everolimus, mentre il soggetto 3 a 250 nM, 1 e 14 a 500 nM, il campione 13

alla concentrazione di Everolimus 1000 nM e il campione 6 a 1500 nM. Questi risultati

suggeriscono che la componente individuale giochi un ruolo essenziale nel determinare

una reazione positiva di ciascun paziente al trattamento farmacologico.

Inoltre, anche la contemporanea valutazione dei dati relativi alla percentuale di

HbF nel sangue e la determinazione della mutazione presente nel gene per le globine β

di ciascun paziente, aiuteranno la selezione degli individui appartenenti al gruppo in

esame, presentanti le caratteristiche genetiche e molecolari più idonee ad un eventuale

stimolazione con l’Everolimus, quale agente induttore di trascritti per globine embrio-

fetali.

Si può concludere che, nei campioni che rispondono in modo positivo al

differenziamento indotto da Everolimus è evidente un accumulo di mRNA per le

γ-globine, una condizione importante per tutti quei soggetti affetti da β0-talassemia, che

possono in questo modo ottenere un effettivo beneficio terapeutico dall’innalzamento di

γ-globine e quindi probabilmente anche di HbF. L’induzione γ-globinica riveste uno

spiccato interesse anche se avviene a livelli molto bassi, quando essa si realizza nei

soggetti definiti HPFH, come nel caso dell’incremento osservato per i campioni 2-3-6.

Per i soggetti affetti da β+-talassemia (campione 2 in eterozigosi), invece, anche

l’induzione β-globinica da parte dell’Everolimus, diventa un fatto rilevante dal punto di

vista terapeutico.

L’allestimento di saggi di questo tipo permette di valutare la soggettività della

risposta all’induzione nelle cellule di pazienti talassemici con agenti eritro-

differenzianti. La selezione di campioni che si dimostrano sensibili al trattamento,

permette di discriminare, in una vasta popolazione di candidati, quelli più adatti ad

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essere inseriti nel futuro trial clinico per l’Everolimus o selezionati per essere sottoposti

ad un eventuale futuro trattamento terapeutico.

Per l’allestimento di un eventuale trial clinico saranno da considerare anche gli

effetti collaterali dell’Everolimus, rappresentati da ipercolesterolemia,

ipertrigliceridemia, leucopenia e trombocitopenia, quando impiegato nei trapianti renali

come agente immunosoppressore post-trapianto; in questo caso la concentrazione

efficace determinava una concentrazione ematica di 3-15 µg/l [101]. Mentre per i

trapianti cardiaci l’effetto desiderato è riportato ad una dose di 3 mg/die [136]. Infine,

quando l’Everolimus è stato impiegato in pazienti con patologie mielodisplastiche, una

dose di 10 mg/die era ben tollerata, producendo come effetti indesiderati per lo più

iperglicemia, ipofosfatemia, stanchezza, anoressia, diarrea [153].

Pertanto essendo già riportati per l’Everolimus alcuni impieghi terapeutici e

presentando questo composto notevoli vantaggi dal momento che la sua farmacocinetica

è già stata indagata, il suo utilizzo come agente eritro-differenziante presenta

innumerevoli aspetti positivi. Dal momento che il nostro scopo non è quello di inibire la

proliferazione cellulare, bensì quello di indurre il differenziamento eritroide

incrementando l’espressione dei geni per le β- e γ-globine, il dosaggio eventualmente

utilizzabile non dovrà superare la concentrazione equivalente al valore di IC50.

Sulla base di queste considerazioni, la tipologia di coltura cellulare dei precursori

eritroidi da sangue di pazienti talassemici, si rivela particolarmente utile ai fini di pre-

testare l’efficacia reale di un potenziale agente terapeutico, prima di sottoporre il

paziente stesso al trattamento farmacologico. Oltre ad essere un nuovo approccio per

creare terapie mirate e più adatte alle caratteristiche patologiche del singolo, lo scopo di

questa indagine, associata alla valutazione delle variabili riguardanti il paziente, è

proprio quello di effettuare una selezione dei soggetti più idonei al trattamento in

esame, di modo da evitare la somministrazione di terapie non efficaci o di causare

effetti non desiderati, anziché terapeutici. La realizzazione di strategie terapeutiche

future basate sull’induzione farmacologica dei geni globinici endogeni,

rappresenterebbe un’interessante alternativa alla terapia convenzionale, oggigiorno

ancora basata prevelentemente sulle trasfusioni di sangue e potrebbe portare al

miglioramento delle condizioni di vita dei soggetti affetti da emoglobinopatie.

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