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UNIVERSITA' DEGLI STUDI DI BARI FACOLTA' DI SCIENZE DELLA FORMAZIONE CORSO DI LAUREA IN EDUCAZIONE PROFESSIONALE NEL CAMPO DEL DISAGIO MINORILE, DELLA DEVIANZA E DELLA MARGINALITA' SEDE DI TARANTO TESI DI LAUREA IN SOCIOLOGIA DELLA DEVIANZA I CONFLITTI NEL MONDO DEL LAVORO: IL MOBBING, UNA PROSPETTIVA SOCIOLOGICA Relatore: Professor Pierluca Massaro Laureando: Eugenio Maggio ANNO ACCADEMICO 2006 - 2007 1

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UNIVERSITA' DEGLI STUDI DI BARI

FACOLTA' DI SCIENZE DELLA FORMAZIONE

CORSO DI LAUREA IN EDUCAZIONE PROFESSIONALE NEL CAMPO DEL DISAGIO MINORILE, DELLA DEVIANZA E DELLA

MARGINALITA'

SEDE DI TARANTO

TESI DI LAUREAIN

SOCIOLOGIA DELLA DEVIANZA

I CONFLITTI NEL MONDO DEL LAVORO: IL MOBBING, UNA PROSPETTIVA SOCIOLOGICA

Relatore:

Professor Pierluca Massaro

Laureando:

Eugenio Maggio

ANNO ACCADEMICO 2006 - 2007

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INDICE

CAPITOLO PRIMO Il conflitto in ambito sociologico

1.1.Le cifre del fenomeno, p. 2 – 1.2 Il conflitto in Emile Durkheim, p. 7 – 1.3. Il conflitto in Friedrich Glasl, p. 8 – 1.4. Il gruppo teatro del conflitto p. 15 – 1.5. Le motivazioni del lavoro, p. 18 - 1.6. L'organizzazione nelle aziende, p. 22

CAPITOLO SECONDO Il mobbing nel rapporto di lavoro

2.1. Il lavoro assediato, p. 26 – 2.2. Il mobbing in Heinz Leymann . p. 28 - 2.3. Il mobbing in Hrald Ege, p. 31 - 2.4. La vittima del mobbing , p. 35 - 2.5. Il mobber , p. 38 - 2.6 . Gli spettatori, p. 40- 2.7. Il bossing , p. 41 - 2.8. La durata e la frequenza , p. 45 - 2.9. La reazione della vittima, p. 46 - 2.10. Il doppio mobbing, p. 47 – 2.11. Un mondo di mobbizzati p. 48

CAPITOLO TERZO Gli strumenti giuridici e di tutela

3.1. Le risoluzioni del parlamento europeo, p. 51 - 3.2. Il mobbing nella responsabilità civile e penale, p. 54 – 3.3. Il mobbing come malattia professionale, p.59 - 3.4. Un caso di mobbing, p. 60

CAPITOLO QUARTO L'esperto del mobbing, p. 67

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CAPITOLO PRIMO

IL CONFLITTO IN AMBITO SOCIOLOGICO

1.1 LE CIFRE DEL FENOMENO

Le prime ricerche sul mobbing, sono opera del noto psicologo tedesco Heinz

Leymann il quale definisce il mobbing “una forma di terrorismo psicologico sul posto

di lavoro che implica un atteggiamento ostile posto in essere in forma sistemica da

uno o più soggetti, di solito nei confronti di un unico individuo che a causa di tale

persecuzione si viene a trovare in una condizione indifesa e diventa oggetto di

continue attività vessatorie e persecutorie che ricorrono con una frequenza

sistematica e nell'arco di un periodo di tempo non breve, causandogli considerevoli

sofferenze mentali, psicosomatiche e sociali”. Tali studi hanno storia recente,

Leymann formulò la citata definizione nel 1984. Le reazioni dell'intera comunità alle

ricerche di Leymann, da quella politica, a quella economica, sindacale ecc., furono di

completo disinteresse, nei migliori dei casi mostrarono un evidente scetticismo,

esponendo la motivazione che tali comportamenti, in ogni caso sempre da provare,

erano caratteristici dei normali rapporti nei luoghi di lavoro nei confronti dei quali non

potevano essere attribuiti significati diversi da quelli che tradizionalmente erano

annoverati. Leymann. non si è certo scoraggiato di fronte a tanta indifferenza e grazie

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alla sua caparbietà ha data inizio assieme ai suoi collaboratori a una battaglia di civiltà

che oggi sembra dare risultati apprezzabili anche se parziali. Da più parti si riconosce

il mobbing come fenomeno sociale vessatorio dalle vaste proporzioni contro cui

bisogna intervenire attraverso azioni legislative, culturali ed educative al fine di

operare una forte e adeguata azione di contrasto. Alcuni paesi del nord Europa

(Svezia, Germania, Inghilterra) hanno già iniziato a legiferare compiendo notevoli

passi in avanti, in altri, come l'Italia, il legislatore non sembra ancora in grado di

comprendere la portata del fenomeno per cui una legge sul mobbing sembra ancora

una chimera.

L'Unione Europea mostrandosi sensibile al problema ha prodotto una serie di

documenti di notevole interesse, sollecitando i paesi membri ad impegnarsi verso la

concretizzazione di misure idonee finalizzate alla soluzione del fenomeno mobbing.

La Carta fondamentale dei diritti dell'Unione europea consegnata il 2 ottobre

2000, determina appunto i diritti fondamentali che si fondano su valori ''indivisibili e

universali'', quali la dignità umana, la giustizia, l'uguaglianza, la solidarietà. Da questo

assunto molti commentatori, tra cui Stefano Rodotà(1) avvertono che “anche

attraverso una elementare lettura e partendo dal principio della dignità della persona,

intesa e presupposta come inviolabile, la Carta, si pone come un limite anche

___________________________________(1)Meucci M., Danni da mobbing e la loro risarcibilità, Ediesse Roma 2006

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all'esercizio della libertà di impresa”. Quanto alla Costituzione della Repubblica

Italiana, ricordiamo l'art. 2 (inviolabilità dei diritti dell'uomo anche nelle ''formazioni

sociali'' dove si svolge la sua personalità); l'art. 3 (pari dignità sociale e principio di

uguaglianza in senso sostanziale); l'art. 36 (retribuzione equa finalizzata ad assicurare

al lavoratore e alla sua famiglia un'esistenza dignitosa); l'art. 41 (dignità umana come

limite all'esercizio della libertà economica privata. A questi si aggiungono l'art. 37

(lavoro della donna e dei minori) e l'art. 38 (previdenza e assistenza sociale).

Il mobbing è una realtà da tempo assodata. Il Parlamento Europeo con una

risoluzione del 20 settembre 2001 ha evidenziato che almeno l'8% dei lavoratori sia

bersaglio di soprusi e prevaricazioni da parte del personale della della stessa azienda.

Si calcola quindi che tra i lavoratori attivi europei, i mobbizzati siano circa 12 milioni.

Di questi, 1,5 – 2 milioni sono italiani. La Gran Bretagna con il 16,3% dei mobbizzati

detiene il triste primato europeo, a seguire la Svezia con il 10,2%, la Francia con

9,9%, la Germania con il 7,3. L'Italia è tra gli ultimi posti con il 4,2%. Secondo molti

studiosi, questi dati risultano essere parziali in quanto da parte delle vittime, non vi è la

consapevolezza di essere oggetto di pratiche mobbizzanti. Da una ricerca condotta in

Italia da Harald Ege, tra i massimi studiosi di mobbing, risulta che il 38% delle vittime

figura nel comparto delle industrie produttrici di beni e servizi, mentre il 21% si

riscontra nel settore della pubblica amministrazione. Il 15% è del settore del credito e

delle poste, il 12% della scuola e l'8% nella sanità.

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I dati del Parlamento Europeo devono ritenersi sottostimati in quanto in una

inchiesta pubblicata da “Il Sole 24-Ore” del 21 ottobre 2002 vengono calcolati in 40

milioni i lavoratori colpiti da mobbing pari al 38% del totale della forza lavoro, tra

questi il 4% sono italiani. Secondo il quotidiano della Confindustria, il 71% dei casi

italiani si riscontra nel pubblico impiego, il 52% riguarda lavoratori di sesso maschile,

tra questi l'80% è costituito da quadri e impiegati. I danni provocati dal mobbing nella

comunità europea ammonterebbero a circa 20 miliardi di euro(2). In relazione alle

cifre esposte, è da ritenersi come il mobbing sia un fenomeno sociale dalle vastissime

e preoccupanti proporzioni. Lo studio del fenomeno nasce non a caso, verso l'inizio

degli anni ottanta a causa degli effetti provocati dalle grandi e nuove trasformazioni

socio-economiche. Prima tra tutte la globalizzazione che ha causato su larga scala lo

spostamento della produzione verso quei paesi con bassissimi costi della forza lavoro e

delle materie prime. Inoltre, la fusione di colossi societari e finanziari ha provocato in

quei settori un esubero di personale che in ogni caso andava estromesso dai luoghi di

lavoro. Condizioni nuove come, precarietà, flessibilità, hanno contribuito

notevolmente a creare un clima di incertezza tra i lavoratori verso il futuro. Maggiore è

l'incertezza maggiore sarà la possibilità che sia sufficiente una cosa da nulla per

perdere il posto di lavoro. I lavoratori vengono coinvolti in operazioni di concorrenza

___________________________________(2) Ibidem

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tra loro anche attraverso il ricorso a scorrettezze e colpi bassi. La competitività nei

luoghi di lavoro favorisce le aziende che colgono l'occasione per elaborare strategie

espulsive contro i loro dipendenti che senza responsabilità sono divenuti

improvvisamente di peso e in esubero rispetto alle necessità del mercato e del profitto.

Le organizzazioni sindacali dei lavoratori, si trovano impreparate a fronteggiare tale

situazione e in alcuni casi favoriscono con il miraggio della creazione di nuova

occupazione, il consolidamento della precarietà e della incertezza, stipulando accordi

con le parti datoriali che si rivelano sbagliati e inefficaci perchè a totale vantaggio

della logica del profitto. L'economia globalizzata ha prodotto quelle condizioni in

cui non si comprende con chiarezza in che parte del mondo devono ricercarsi le

responsabilità, per cui si assiste inermi a vicende in cui il destino di un gruppo di

lavoratori di una qualsiasi regione del mondo, si decide nel consiglio di

amministrazione di una società, di cui non si conoscono nemmeno la sede e i diretti

responsabili. Una battaglia insomma, contro i mulini a vento.

E' questo il quadro che fa da sfondo allo sviluppo del mobbing! Un quadro di

conflittualità diffusa, in cui le regole più elementari di convivenza e di relazioni tra gli

stessi lavoratori e datori di lavoro sembrano essere svaniti nel nulla. Il mobbing, nel

mondo del lavoro della società complessa può essere considerato a tutti gli effetti una

nuova frontiera dei conflitti sociali il cui studio non può prescindere dai saperi delle

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scienze umane.

1.2 IL CONFLITTO IN EMILE DURKHEIM

Uno degli elementi fondamentali necessari al vivere civile nei confronti del

quale il mobbing sembra scatenare la sua aggressività è la solidarietà. Per Emile

Durkheim (1858 – 1917) la solidarietà è il pilastro base su cui si basa la società. Essa

si manifesta attraverso due forme ben distinte: solidarietà meccanica e solidarietà

organica. La prima è tipica delle società semplici i cui membri sono uniti dagli stessi

interessi, valori e obiettivi. Tra di loro è alto il senso della relazionalità, della

reciprocità, dell'aiuto e dell'uguaglianza. Il fine è il raggiungimento del bene comune e

questo si rende possibile perchè prevale la coscienza collettiva su quella individuale.

La seconda è caratteristica delle moderne società complesse nelle quali il criterio della

differenza e della individualità produce interessi e aspirazioni tra le più diverse e

contrastanti. In questo secondo tipo di società si può parlare di solidarietà a condizione

che ogni soggetto attraverso la divisione del lavoro e dei ruoli collabori al

raggiungimento del bene comune. Come in un organismo dove ciascuna parte svolge

con responsabilità la propria funzione assicurando la salute di tutto il corpo, nella

società avviene lo stesso processo sempre che ognuno comprenda sino in fondo il

proprio dovere. Durkheim però mostra il rovescio della medaglia. La divisione del

lavoro, tipica della società capitalistica, attraverso la sua organizzazione, le sue diverse

specializzazioni, mansioni, responsabilità mette in discussione la solidarietà,

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producendo endemicamente nella società il conflitto come caratteristica costante e

inevitabile. Ogni soggetto secondo Durkheim è esposto a ciò che egli definisce

“anomia”, cioè al costante distacco dalle relazioni sociali causato dalla percezione

comune della mancanza di regole e riferimenti condivisi. L'anomia è caratteristica in

particolare nelle fasi di grande sviluppo economico o di recessione in cui si

evidenziano profondi processi di mutamento sociale e culturale con una nuova

ridefinizione delle regole. Questa in cui viviamo può essere definita senza dubbio una

fase dalle forti caratterizzazioni anomiche.

1.3 IL CONFLITTO IN FRIEDRICH GLASL

Il conflitto(3) è una eventualità naturale ed inevitabile della vita, così come lo

sono le differenze. Il modo in cui i conflitti vengono affrontati, accompagnati dalle

diversità interpersonali e sociali è decisivo per il nostro benessere individuale, per

rendere efficiente e piacevole il lavoro nelle organizzazioni e per realizzare una società

giusta e equilibrata. Alcuni individui, gruppi, vogliono prevalere sugli altri utilizzando

strategie come la minaccia, la prevaricazione e la violenza. La collettività, per arginare

tali tendenze deve esprimersi anche nella capacità di impedire le forme di arroganza

___________________________________(3)Glasl Friedrich, The Process of Conflict Escalation and the Role of Third Parties, in G. B. J. Bomers, R. P. Peterson (a cura di) Conflict Management and Industrial Relations, 1982, Kluwer-Nijhoh, Boston

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senza ricorrere alla violenza. Ciò può essere favorito utilizzando forme nuove di

comunicazione e gestione dei conflitti partendo dalle relazioni interpersonali che

spesso non tengono giustamente conto del valore della differenza. Il conflitto sociale

dunque, si presenta come una interazione tra singoli o gruppi che possiamo definire

''attori'' nel quale è presente almeno una delle seguenti condizioni:

− almeno uno degli attori è ostacolato o percepisce un ostacolo vero o

presunto da parte di altri attori;

− i comportamenti esprimono tensione e disagio oppure vengono vissuti sul

piano del pensiero, delle emozioni o della volontà.

Continuando possiamo affermare che un conflitto si genera se almeno due

attori, gruppi, nazioni, ecc., presentato obiettivi in contesa tra loro attraverso

comportamenti che sono osservabili, oppure, quando si percepiscono condizioni di

disagio comunque in grado di generare conflitti sino al quel momento in stato di

latenza.

Col termine conflitto si intendono diversi tipi di interazione tra gli attori, essi

sono:

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− la divergenza,

− la competizione;

− l'ostacolamento;

− l'aggressione.

Nella divergenza due o più persone non sono d'accordo su una opinione oppure

su una scelta da effettuare. Nella competizione due o più soggetti hanno lo stesso

obiettivo o desiderano la stessa cosa. Nell'ostacolamento uno degli attori del conflitto

agisce non per raggiungere il proprio obiettivo ma si adopera per bloccare l'azione

dell'altro e impedirgli di raggiungere il suo obiettivo. Nell'aggressione l'azione è

rivolta contro l'altro attore e non contro la sua azione.

Come si è detto gli attori del conflitto possono essere individui, gruppi, stati

ecc. I conflitti quindi si sviluppano su tre livelli:

− i microconflitti, i ''faccia a faccia'', quando gli attori si conoscono

personalmente;

− i mesoconflitti, costituiti da gruppi, organizzazioni, categorie: il contendente

è rappresentato da un insieme di individui:

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− i macroconflitti, grandi aggregati politico/sociali composti da una

molteplicità di organizzazioni: società, stati, nazioni, etnie, religioni,

economie ecc.

Il conflitto sociale si manifesta in tutti gli ambiti umani, conseguentemente vi

sono i seguenti conflitti:

− politici;

− economici;

− culturali;

− religiosi;

− etnici;

− generazionali;

− del lavoro;

− di genere;

− di quartiere;

− sportivi;

− interpersonali;

− intrapsichici, ecc.

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Quali logiche, schemi mentali e comportamenti alimentano le varie tipologie

del conflitto? In questo caso è necessario parlare di ''presupposti'' del conflitto

piuttosto che cause, in quanto queste ultime vengono definite tali dagli uni e quindi

non lo sono per gli altri. Questo avviene per due ragioni:

− una mancanza di accordo strutturale e comunicativo tra le parti;

− la tendenza a nascondere agli altri e a se stessi i termini del proprio

problema o delle proprie mire.

Secondo una visione diffusa, i conflitti violenti nascerebbero inevitabilmente

dalla realtà della natura umana caratterizzata da innata aggressività e dal bisogno del

dominio a cui si aggiunge la necessità di difendersi dagli altri per garantire la

sopravvivenza di se e della propria discendenza. Studiosi come Lewis A. Coser e

Ralph Dahrendorf hanno fornito, da parte loro, un notevole contributo per lo studio del

conflitto. Essi, spiegano che il conflitto rappresenta uno strumento di cambiamento

culturale e strutturale della società nel senso che non necessariamente il conflitto

produce effetti solamente negativi. Coser(4) nel sostenere che il conflitto rappresenta

una caratteristica fondamentale per lo sviluppo e il progresso della società rileva:

___________________________________(4)Coser L.A., Le funzioni del conflitto sociale, Feltrinelli, Milano 1956

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“nessun gruppo può essere completamente armonico poiché allora in esso non ci

sarebbe ne sviluppo ne struttura. I gruppi hanno bisogno di disarmonia come di

armonia, di dissociazione come di associazione ed i conflitti nel loro ambito non sono

affatto fattori di disgregazione..... Al contrario i fattori “negativi” come quelli

“positivi” contribuiscono a strutturare le relazioni di gruppo ed il conflitto adempie

funzioni sociali così come le adempie la cooperazione”. Dal canto suo Dahrendorf(5)

afferma che il conflitto svolge un elemento di stimolo per ogni società, uno tra i fattori

che determina il cambiamento sociale. Il conflitto quindi, come sostengono alcuni non

è il responsabile di “deviazioni patologiche della norma del sistema equilibrato” ma

piuttosto “stabilità e immobilismo indicano uno stato patologico della società”. A

questo punto Coser e Dahrendorf si chiedono cosa determina il conflitto. Essi spiegano

che il conflitto nasce quando in una società vi sono gruppi diversi i quali tentano di

esercitare potere e controllo su situazioni e eventi particolari come l'economia, la

politica, il prestigio, il possesso delle risorse, ecc. Glasl sembra riprendere gli studi

di Coser e Dahrendorf per cui intende i conflitti come un insieme di precondizioni

biologiche e scelte razionali che hanno le seguenti argomentazioni:

− la lotta per le risorse materiali ed immateriali limitate, finalizzate a soddisfare i

bisogni più o meno essenziali della vita;

___________________________________(5)Dahrendorf R., Uscire dall'utopia, il Mulino, Bologna 1958

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− la necessità di ottenere posizioni di vantaggio, direzione, dominio al fine di

garantire privilegi di ogni genere;

− la tendenza ad imporre le proprie convinzioni e modelli;

− la necessità di difendersi da qualsiasi aggressione degli altri.

Quanto detto è alla base della c.d. ''Realpolitik'' che giustifica il ricorso

all'aggressione e alla violenza di ogni genere come soluzione di qualsiasi conflitto.

Altro elemento che occorre tenere presente consiste nel ''sistema di valori'' il

quale verte sul ''come dover essere''. Questi vengono rivendicati dagli attori sul nascere

dei conflitti. La rivendicazione sui valori che devono dominare consiste spesso nel

sottolineare le differenze del proprio sistema valoriale rispetto ai valori altrui. Tale

condotta genera conflitti sulle norme e il loro rispetto e accentua a dismisura la

mancata accettazione delle differenze. I conflitti di valore spesso finiscono per coprire

altre caratteristiche. Infatti, fungono da giustificazione ideologica per conflitti miranti

all'ottenimento del controllo delle risorse materiali e di posizioni di vantaggio e

prestigio oppure alla necessità di imporre una identità comune. Altro elemento non

meno influente è il ''sistema delle credenze'' il quale verte sul ''come è la realtà'' Anche

in questo caso la strada per il conflitto è spianata anche se le controversie insistono

essenzialmente sul piano dialettico:

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− voler convincere e prevalere sull'altro per un bisogno di controllo;

− voler dimostrare di essere più bravi, anche di fronte ad altri spettatori, per

un bisogno narcisistico di affermazione;

− voler affermare e rafforzare il proprio sistema di credenze per salvare una

identità debole o in crisi.

1.4 IL GRUPPO TEATRO DEL CONFLITTO

Si parlava prima di ''gruppo'' (6) come uno degli attori del conflitto. Ma cos'è un

gruppo? Un insieme di persone costituisce un gruppo. Tale definizione da un punto di

vista formale è corretta, si presenta però insufficiente in quanto occorre uscire dal vago

ed entrare più approfonditamente nel dettaglio. Un gruppo è tale se innanzitutto viene

collocato in una dimensione spazio/temporale. Perchè un gruppo di persone si riunisce

in un luogo per un determinato periodo di tempo. Il gruppo si caratterizza anche per il

numero limitato di persone che lo compone, in caso contrario si potrebbe parlare di

''folla'' oppure di ''massa''.

I gruppi così si dividono:

___________________________________(6) Università di Bari., Laboratorio dinamiche di gruppo, A.A. 2006/2007

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- gruppo formale o istituzionale, esso ha un nome, una sua struttura

organizzata, un suo regolamento, uno statuto ecc. ( un'associazione, un

sindacato, un partito politico ecc.);

− gruppo spontaneo, esso si caratterizza per la mancanza di regole, di un fine

condiviso, a seconda delle circostanze e del momento si dota di regole

occasionali. Il gruppo cessa, si esaurisce quando l'attività per cui è nato

volge al termine;

− gruppo a formazione non volontaria e semi volontaria. Il primo si

costituisce tra persone che non si conoscono tra loro (una classe di studenti,

i colleghi di un luogo di lavoro); il secondo si forma quando le persone

vengono indotte a costituirlo generalmente su pressione di altre persone (i

ragazzi che prendono lezione di musica su insistenza dei genitori). A questi

si aggiunge il gruppo a formazione esclusivamente volontaria (gli amici, la

comitiva, ecc.) spesso si tratta di gruppi esclusivi. A questi ultimi si

aggiunge il gruppo già costituito nel quale il nuovo aderente per entrarvi ne

accetta le regole. Anche se non necessariamente il nuovo adepto ne

condivide le finalità, ma può essere spinto da altre motivazioni, addirittura

contrastanti, come ad esempio, l'ottenimento di un vantaggio personale

oppure in altri casi, la volontà di cambiarne dall'interno le finalità.

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I singoli componenti del gruppo, condividono i fini e gli obiettivi che esso

intende raggiungere. Per fare questo è anche necessario che i componenti del gruppo si

conoscano per poter tra loro interagire. Il gruppo quindi deve avere una sua vita che

deve perdurare nel tempo e spesso come tutte le cose, nasce, cresce e muore. Risulta

intanto evidente come il ''gruppo'' sia parte integrante della vita di ogni individuo.

Poiché l'individuo è un ''essere in relazione'' si può ben immaginare come la

relazionalità sia caratterizzante nei rapporti tra persone. Il gruppo, dagli amici, ai

colleghi di lavoro, alle associazioni ecc., è uno degli aggregati psico-sociali più

importanti all'interno del quale ognuno può esprimersi apportando la sua esperienza, il

suo vissuto per accrescere le proprie e le altrui qualità. Ma il gruppo può fungere anche

in alcuni casi da aggregato che mette in pratica la prevaricazione, l'abuso, la

prepotenza contro una o più persone. Il gruppo è parte fondamentale delle relazioni tra

individui, ha quindi la caratteristica della quotidianità. Ogni giorno ogni individuo per

svariate ragioni partecipa a uno o più gruppi essi siano istituzionali o spontanei.

All'interno del gruppo si prendono decisioni dalle più innocue alle più gravi. Pensiamo

ad esempio alla riunione di un consiglio di amministrazione di una società che deve

decidere la chiusura di un reparto che comporta il licenziamento di svariati lavoratori o

anche le strategie che un gruppo mette in atto per escludere e discriminare una

persona. L'orientamento che un consiglio dei ministri assume rispetto a una

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determinata questione. Oppure la riunione di un gruppo di persone che deve decidere

se è il caso o meno di ricorrere alla guerra per risolvere un contenzioso internazionale

o più semplicemente la decisione di un gruppo di amici in merito alla scelta di un film.

In questi gruppi sono rappresentate tutte le dinamiche che lo caratterizzano. Dalla

figura del leader con il suo ruolo di direzione oppure i diversi orientamenti che i suoi

componenti possono assumere, alle maggioranze e alle minoranze che si determinano.

Va inoltre considerato il suo livello di coesione, che se scarso, può produrre decisioni

eccessivamente mediate che lascia tutti insoddisfatti, oppure può produrre addirittura

la sua fine. In altre parole, il gruppo vive nella quotidianità e attraverso di esso

vengono prese decisioni che in alcuni casi possono cambiare anche il corso della vita

non solo lavorativa di una o più persone.

1.5 LE MOTIVAZIONI DEL LAVORO

Occorre accennare brevemente sulle motivazioni che spingono l'individuo a

lavorare. Per definire quali siano gli elementi che governano la motivazione sono state

formulate numerose teorie. Per F. Taylor(7) è necessario stimolare il lavoratore

mediante strumenti che ne incentivano la produttività. Propone quindi il sistema a

__________________________________(7) www.organizzazioni.blogspot.com

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''cottimo'' e la partecipazione al profitto. Ogni lavoratore consuma tutte le sue energie

nell'attività professionale, aumenta la produttività dell'azienda e aumenta la sua

retribuzione. Il risultato che ne conseguirebbe è una crescita della sua autostima e

attraverso il guadagno il suo status. La motivazione che si pone come obiettivo solo il

denaro si è dimostrata quantomeno discutibile e respinta come modello di riferimento.

Maslow(8) sostiene che il comportamento della persona, anche sul lavoro,

consiste nella soddisfazione dei bisogni ordinati secondo una precisa scala gerarchica

che partendo dal basso ne individua le seguenti categorie:

− bisogni fisiologici primari legati alla sopravvivenza (mangiare, bere, riposare,

respirare ecc.);

− bisogni di sicurezza (finalizzati alla sopravvivenza a lungo termine, evitare

pericoli, minacce, danni fisici, malattie, difficoltà economiche ecc.);

− bisogno di amore e appartenenza (relazioni affettive, stare insieme,

riconoscimento come membro del gruppo, ecc.);

− bisogno di stima e autostima (riconoscimento da parte degli altri e rispetto di

se);

− bisogno di autorealizzazione.

Il comportamento dell'individuo è caratterizzato dall'appagamento dei bisogni

___________________________________(8) Ibidem

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così come individuato nella scala gerarchica. Per soddisfare il secondo è necessario

passare dal primo e così via.

Salvemini(9) definisce una diversa scala di bisogni che l'uomo avverte nei

contesti di lavoro. Essi sono:

− bisogni di consumo;

− bisogni di sicurezza;

− bisogni di socialità;

− bisogni di stima;

− bisogni di potere;

− bisogni di realizzazione.

Secondo questo autore, il bisogno non solo viene definito dalla mancanza di un

oggetto desiderato ma questo può essere funzionale anche per l'appagamento di un

altro bisogno. Ad esempio, il bisogno della sicurezza può essere funzionale alla

socialità.

Herzberg(10) individua in un suo studio due fattori che determinano la

soddisfazione o la insoddisfazione nel lavoro. Nel primo caso si tratta di fattori che

non motivano e che se non trovano soddisfazione causano disagio e malcontento, tra

queste cause possiamo citare: il controllo posto in essere dai superiori, le politiche

___________________________________(9) Ibidem(10)Ibidem

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aziendali, l'orario di lavoro, i riposi, le relazioni con i superiori e con i colleghi, la

sicurezza sul lavoro e gli effetti che tutto ciò produce sulla vita personale. Nel secondo

caso si tratta dei fattori che motivano la persona al lavoro: il riconoscimento, la

responsabilità, la crescita professionale, il lavoro in se, i risultati ottenuti. Questi

elementi appagano i bisogni superiori e portano il lavoratore ad un aumento di

produttività.

McGragor(11) rileva che il comportamento di un dirigente d'azienda si

modifica in base all'idea che esso ha dell'uomo. Egli ritiene che esistono due modalità,

la modalità X e la modalità Y. Nel primo caso l'uomo non ama lavorare, è di natura

indolente, pigro e le studia tutte per fare il meno possibile. Di conseguenza il dirigente

esercita il suo ruolo caratterizzato dall'autorità, dalla supervisione, dal ricorso alle

punizioni, solo così vengono raggiunti gli obiettivi della produttività. Nel secondo

caso, le persone amano lavorare, sono responsabili, ricevono dal lavoro importanti

soddisfazioni, sono in grado di autogestirsi e autodirigersi. Il comportamento del

dirigente è volto a una supervisione generale, pone in essere incentivi, ricorre

all'elogio e al riconoscimento.

Se il lavoratore si comporta nel caso della teoria X significa che egli non ha la

___________________________________(11) Ibidem

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possibilità di soddisfare i suoi bisogni di ordine inferiore (quelli individuati da

Maslow), se invece il lavoratore soddisfa i bisogni di ordine superiore (Maslow) si

comporterà come descritto nella teoria Y.

1.6 L'ORGANIZZAZIONE NELLE AZIENDE

Ogni lavoratore, quotidianamente, trascorre parte della sua vita a lavorare. Esso

si reca nel suo luogo di lavoro dalle dimensioni ridotte o grandi, pubblico o privato.

Trascorrerà un terzo della sua giornata a contatto col datore di lavoro, coi dirigenti,

con i colleghi. Ognuno di essi dovrà svolgere la sua attività in contatto con gli altri in

un determinato ''ambiente di lavoro'' caratterizzato da un particolare ''clima'' che a

seconda dei casi può dimostrarsi ostile oppure sereno. Ma come sono gli ambienti di

lavoro? Che clima si respira? Che ricadute hanno sulla produttività? Quali rapporti si

consumano tra lavoratore e datore di lavoro e tra lavoratori?

Ogni azienda, fabbrica, luogo di lavoro è formato da persone che prestano una

attività professionale. Ognuna di queste organizzazioni si caratterizza in base alla sua

storia, antica o recente costituita da norme, valori, tecnologie, rapporti, simboli, ecc.

Queste caratteristiche interagendo tra loro e coordinandosi, permettono a quell'azienda

di raggiungere gli obiettivi prefissati. I dirigenti dell'azienda, dovrebbero adoperarsi

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per creare condizioni ottimali di lavoro non solo favorendo i rapporti umani tra tutti gli

addetti, ricordiamo che si parla di ''risorse umane'' ma anche incoraggiare il lavoro di

squadra e l'apprendimento che rappresentano la nuova cultura di sviluppo dell'impresa.

Inoltre, un ambiente di lavoro organizzato sui valori democratici e umanistici,

favorisce una crescita generale della stessa non solo in termini di profitto ma anche in

termini di coesione tra lavoratori e dirigenza. Le organizzazioni possono essere

''statiche'' o ''innovative''. Nello schema che segue vengono indicate le differenze.(12)

___________________________________(12)Bellino F., Filosofia del Successo, Bari, Cacucci, 2004

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CARATTERISTICHE DELLA ORGANIZZAZIONE AZIENDALE

ORGANIZZAZIONE STATICA ORGANIZZAZIONE INNOVATIVA

STRUTTURARigida, molta energia spesa per mantenere dipartimenti e comitati permanenti, rispetto esasperato per la tradizione la costituzione e lo statuto della organizzazione, gerarchia, rispetto della catena di comando, ruoli rigidamente definiti.

Flessibile, notevole uso di task forces a tempo determinato, facile spostamento dei confini dipartimentali, disponibilità a cambiare lo statuto e ad allontanarsi dalla tradizione, legami multipli basati sulla collaborazione funzionale, flessibilità nella definizione dei ruoli.

ATMOSFERACentrata su compiti, impersonale, fredda, formale, riservata, sospettosa.

Centrata sulle persone, sollecita, cordiale, informale, intima, fiduciosa.

FILOSOFIA E ATTEGGIAMENTI MANAGERIALI

La funzione della dirigenza è di controllare il personale mediante il potere di coercizione. Cauta, senza troppi rischi. Atteggiamento verso gli errori: da evitare. Enfasi sulla selezione del personale. Autosufficienza, sistema chiuso per quanto riguarda la distribuzione delle risorse.

La funzione della dirigenza è di liberare l'energia del personale. Il potere viene usato per incoraggiare. Propensa alla sperimentazione, ad assumere rischi. Atteggiamento verso gli errori: devono insegnare qualcosa. Enfasi sullo sviluppo del personale. Interdipendenza, sistema aperto per quanto riguarda la distribuzione delle risore.

PROCESSO DECISIONALE E POLITICA AZIENDALE

Alta partecipazione al vertice, bassa alla base. Chiara distinzione tra formulazione ed esecuzione della politica dell'organizzazione. Processo decisionale attuato attraverso meccanismi procedurali. Decisioni considerate definitive.

Partecipazione rilevante da parte di tutti gli interessati. Formulazione ed applicazione della politica aziendale effettuate in collaborazione. Processo decisionale del tipo problem-solving. Decisioni trattate come ipotesi da verificare.

COMUNICAZIONEFlusso ristretto, trattenuto, unidirezionale. Sentimenti repressi o nascosti.

Flusso aperto, facile accesso. Multidirezionale. Sentimenti espressi.

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In un ambiente di lavoro con un clima sereno, centrato sulle persone, con una

dirigenza che libera le energie del personale diventa improbabile che possano aver

luogo conflitti tra dirigenti e dipendenti oppure tra i soli dipendenti. Nel caso

contrario, in un'azienda caratterizzata da un clima che non favorisce la crescita

professionale, dove l'organizzazione del lavoro assume aspetti rigidamente gerarchici,

sono possibili fenomeni di conflittualità non solo tra dirigenza e lavoratori, ma anche

tra lavoratori. Tali conflitti possono generare a seconda della loro gravità casi di

''mobbing''.

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CAPITOLO SECONDO

IL MOBBING NEL RAPPORTO DI LAVORO

2.1 IL LAVORO ASSEDIATO

Il lavoro umano ha un significato diverso per chi lo commissiona e chi lo

svolge, per il primo è soltanto un elemento della produzione e del profitto, per il

secondo è quasi sempre un modo per sopravvivere. In ogni caso gli attori da una parte

e dall'altra considerano il lavoro come parte fondamentale della loro esistenza, con la

differenza però che gli imprenditori invocano il mercato come unica soluzione dei

problemi, mentre i lavoratori auspicano l'affermazione di nuove regole per arginarne lo

strapotere. E' una battaglia epocale tra chi vede la persona collocata al centro

dell'iniziativa politico-sociale contro chi interpreta il mercato come irrinunciabile e

insostituibile soluzione per il governo del pianeta.

Il fenomeno mobbing investe ormai a livello internazionale diverse discipline

di studio: la giurisprudenza, la sociologia, la medicina legale, la medicina, la

psicologia del lavoro, la psichiatria, la pedagogia. I risultati della ricerca spaziano sino

al riconoscimento della malattia professionale con ricadute di notevole importanza

sugli aspetti sociali e giuridici. Tutti concorrono nell'affermare come il mobbing sia

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parte attiva del tradizionale conflitto che caratterizza il mondo del lavoro. Il conflitto

si manifesta tra datore di lavoro e lavoratore, fenomeno sempre esistito ma proprio per

questo occorre tener presente che la legittimità del profitto non deve entrare in rotta di

collisione con la dignità e la libertà del lavoratore, con i suoi ''diritti inviolabili'' sanciti

tra l'altro dall'art. 2 della Costituzione.

Tra i lavoratori di ogni categoria, si percepisce sempre con più preoccupazione

la sensazione come le novità introdotte dalla globalizzazione alimentano a dismisura il

fenomeno mobbing. I lavoratori avvertono questa condizione con disagio e

preoccupazione per cui, la conservazione del proprio posto di lavoro diventa un

esigenza assoluta, non contrattabile.

Lo Stato, i datori di lavoro, la giurisprudenza, le scienze umane, i sindacati

ecc.,ciascuno nella propria autonomia, sono chiamati a intervenire con misure

adeguate finalizzate alla conservazione delle tutele e dei diritti inviolabili

dell'uomo, inteso anche come lavoratore, per garantirne il lavoro (art. 38 Cost.), la

sicurezza sociale (art. 4 Cost.), lo sviluppo della persona umana, dei suoi bisogni e

della sua realizzazione.

Sulla base degli studi di Leymann e Ege possiamo individuare i soggetti

implicati nel fenomeno mobbing: il mobber è la parte attiva del processo. E' la

persona (il capo, il collega, il gruppo), ma anche l'intera struttura organizzativa

aziendale che infligge azioni comportamentali caratterizzati da intenti persecutori e

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violenti contro la vittima. Questi soggetti mai ammetterebbero di essere persone

violente e ostili. La parte passiva del processo è la vittima cioè il mobbizzato.

2.2 IL MOBBING IN HEINZ LEYMANN

Lo psicologo del lavoro tedesco H. Leymann, deceduto nel 1999, iniziò ad

usare per primo il termine mobbing nel 1984. Lo intese come una forma di terrorismo

psicologico sul luogo di lavoro caratterizzato da un comportamento persistente

offensivo, intimidatorio, che si manifesta attraverso atti, parole, gesti, scritti, abuso di

potere ed uso di sanzioni ingiuste. Il tutto allo scopo ad umiliare, minacciare, e

offendere l'individuo bersaglio che diventa vulnerabile sino a perdere stima di se e

soffrire di patologie di natura psicologica (1). Il mobbing secondo Leymann può essere

descritto come un conflitto che cresce esponenzialmente, che viene praticato

quotidianamente per un periodo considerevolmente lungo e che ha la caratteristica di

umiliare l'individuo sino a provocarne le dimissioni dal posto di lavoro. Leymann,

emigrato in Svezia iniziò a studiare il fenomeno sui luoghi di lavoro di quella nazione

e poi successivamente in Germania e negli Stati Uniti. Così come gli animali scacciano

____________________________(1) Leymann H., The content and development of mobbing at work, in European Journal of work and Organizational psycology, 2/1995 vol. 5

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dal branco un proprio simile, Leymann applica tale comportamento aggressivo anche

nel mondo del lavoro. L'aggressione causa gravi danni al lavoratore quali:

- patologie che lo costringono ad assentarsi dal luogo di lavoro;

- gravi danni alla professionalità;

- licenziamento.

Leymann sostiene che il fenomeno mobbing si manifesta attraverso quattro fasi:

1) Fase dei segnali premonitori: da una situazione di rapporti positivi sia tra colleghi

che con la direzione, si passa in una situazione negativa che subisce un brusco

cambiamento. Se un dipendente riceve una promozione, può suscitare invidie dai suoi

colleghi i quali cominceranno a criticarlo per il suo modo di operare e condurre il suo

lavoro.

2) Fase della stigmatizzazione: si passa all'attacco vero e proprio. Si consumano

aggressioni giornaliere, in particolare questi attacchi hanno lo scopo di: colpire la

reputazione della vittima con maldicenze, calunnie, escludere il mobbizzato da

qualsiasi forma di comunicazione e informazione per isolarlo socialmente dal resto del

gruppo. Vengono assegnate mansioni umilianti al di sotto del livello contrattuale di

inquadramento. Minacce ripetute.

3) Fase della ufficialità: il caso diventa di dominio pubblico perchè segnalato alla

direzione. Di solito viene avviata un'inchiesta e quando vengono interpellati i colleghi,

questi attribuiscono la responsabilità dell'accaduto alla vittima che viene ulteriormente

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colpevolizzata a causa della sua personalità che a seconda dei casi può essere

rappresentata come debole oppure prevaricatrice e autoritaria.

4) Fase finale dell'allontanamento: la vittima è ormai totalmente isolata, le vengono

assegnati incarichi dequalificanti e inutili. Si sente pervaso da un malessere generale

caratterizzato da crisi depressive e psicosomatiche che possono condurre in alcuni casi

persino al suicidio. Può intervenire il licenziamento o il mobbizzato è costretto alle

dimissioni.

Leymann ha avuto l'indubbio merito di essere stato il primo ad occuparsi di

mobbing attraverso una ricerca puntuale e scientifica, anche se molteplici furono gli

ostacoli che dovette superare. In particolare lo scetticismo dell'intera comunità

politico-sociale-culturale internazionale la quale si è dimostrata poco disposta ad

accettare e comprendere un fenomeno di tale portata. La sua ricerca ha avuto però un

limite, cioè quello di intendere le caratteristiche del mobbing indagato nei paesi

nordici, esportabili in tutti i paesi europei compresi quelli di area mediterranea.

Sappiamo tutti che le caratteristiche del lavoro cambiano sensibilmente da regione a

regione, in relazione alla diversa organizzazione del lavoro, alle consuetudini, allo

stesso significato che si da al lavoro, alla diversa presenza delle organizzazioni

sindacali, al clima e più in generale alla cultura.

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2.3 IL MOBBING IN HARALD EGE

Harald Ege, studioso tedesco, trasferitosi in Italia, fondatore dell'associazione

''Prima'' che dal 1966 si occupa di mobbing ha adattato le ricerche di Leymann alla

situazione italiana elaborando una versione costituita da sei fasi e da una pre-fase

denominata condizione zero. La ricerca di Ege così si articola(2):

Pre – fase: secondo Ege questa fase è caratterizzata dalla situazione tipica delle

conflittualità endemicamente presente nelle aziende italiane. Non si può parlare

ancora di mobbing visto che siamo in una situazione del tutti contro tutti e quindi non

esiste ancora una vittima individuata. Non c'è lo scopo di danneggiare qualcuno in

particolare, ma c'è una situazione in cui tutti hanno la volontà di emergere e di

distinguersi dagli altri.

1° fase: il conflitto mirato. Viene individuato il mobbizzato il quale diventa

l'obiettivo specifico del mobber il quale ha come scopo la sua distruzione e

annientamento. Gli attacchi non riguardano più il suo lavoro ma invadono la sua sfera

privata.

2° seconda fase: l'inizio del mobbing. Il mobbizzato, a seguito degli attacchi

ricevuti dal collega o dal gruppo, comincia ad avvertire una sensazione di disagio e

___________________________(2) Ege H. Il mobbing in Italia. Introduzione al mobbing culturale, Pitagora, Bologna 1997

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frustrazione.

3° terza fase: primi sintomi psico/somatici. La vittima presenta problemi di

salute ( insonnia e disturbi gastro-intestinali ) e insicurezza.

4° quarta fase: errori ed abusi dell'amministrazione del personale. Il caso

di mobbing è ora di dominio pubblico e diviene oggetto di discussione e valutazione

della direzione. La direzione presta fede alle dichiarazioni del mobber.

5° quinta fase: serio aggravamento della salute psico-fisica della vittima. Le

condizioni generali di salute subiscono un peggioramento. La vittima viene interessata

da forme depressive di una certa gravità. Ricorre all'uso di psicofarmaci e terapie

varie, ma i risultati sono scoraggianti. L'azienda, come se non bastasse, adotta azioni

disciplinari contro il mobbizzato che aggravano ulteriormente la situazione.

6° Sesta fase: esclusione dal posto di lavoro. Il mobbizzato è costretto a

lasciare il suo posto di lavoro o con dimissioni volontarie o con il licenziamento. Dove

è possibile si ricorre al prepensionamento. In alcuni casi il mobbizzato da luogo a

manie ossessive che possono spingerlo anche al suicidio o all'omicidio del mobber

come manifestazione di vendetta.

Come si è visto, il concetto di conflitto non è affatto estraneo nel mondo

dell'economia e del lavoro soprattutto in quei settori dove la concorrenza è più forte e

più spietata. Harald Ege, addirittura, parla di guerra, una guerra sul lavoro e ne

descrive le caratteristiche utilizzando un linguaggio mutuato dal dizionario in uso in

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ambiente militare in teatro di guerra. Ege nei suoi studi si avvale dell'aiuto dell'opera

scritta dal generale prussiano Carl von Clausewitz: Von Kriege (trad, it. Della Guerra)

il quale impegnato direttamente nelle guerre napoleoniche, alla fine della sua carriera

scrisse il su citato testo, considerato tutt'oggi pilastro fondamentale della strategia

militare moderna.

Nel mobbing, esattamente come in guerra, se per ottenere la pace è necessario

l'accordo delle parti, in guerra è sufficiente l'intenzione di una sola parte a scatenare il

conflitto. Di conseguenza può succedere che uno dei contendenti non si renda conto di

essere in guerra e che nei suoi confronti è in atto una strategia finalizzata alla sua

distruzione. Se nella guerra si conoscono apertamente i contendenti perché si

combattono a viso aperto e ognuno conosce il suo nemico, quella sul lavoro è

sicuramente meno visibile, più subdola. Infatti se la strategia posta in essere consiste

nell'isolare e ignorare la vittima, non avremo nessun sintomo dichiarato di guerra.

Assai diverso è invece un conflitto aperto, visibile, caratterizzato da discussioni, litigi,

imprecazioni. In ogni caso, una cosa è certa, nel mobbing come in guerra, ci sono parti

che si fronteggiano, con alleanze palesi e nascoste, spie, false neutralità, oscure

connivenze.

Ege, passa poi a definire meglio gli attori del conflitto. Il termine “collega”

sembra inappropriato in quanto esprime rispetto e aiuto reciproco. Anche i termini

“avversario” e “antagonista” sembrano poco adatti in quanto possono presupporre una

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competizione alla pari nel luogo di lavoro comunque regolata da norme certe e

condivise. Alla fine Ege opta per “nemico”. Il nemico, secondo il dizionario della

lingua italiana , Devoto – Oli, è “chi si atteggia o si comporta in modo da provocare il

danno e la sconfitta altrui”. Anche il termine violenza entra a pieno titolo nel mobbing.

Con il termine violenza si indica “un'azione volontaria esercitata da un soggetto su un

altro, in modo da determinarlo ad agire contro la sua volontà”. La condizione comune

di tutti i mobbizzati consiste nell'agire non in base alla propria volontà ma secondo

quella del mobber.

Secondo von Clausewitz i tre scopi principali della guerra sono:

1) vincere e distruggere il nemico;

2) conquistare la posizione del nemico;

3) guadagnare il favore dell'opinione pubblica.

Riportando nel mondo del lavoro questi tre assunti notiamo che il mobber cerca

sempre di vincere e distruggere la sua vittima costringendola alle dimissioni, alla

malattia, o se è possibile al prepensionamento e persino in alcuni casi al suicidio. Il

mobber inoltre, riesce sempre a impadronirsi della posizione della vittima e per

concludere conquista subdolamente le simpatie dei suoi colleghi e della direzione.

Utilizzando tutti gli elementi a disposizione Ege formula la più corretta delle

definizioni del mobbing: “il mobbing è una guerra sul lavoro in cui, tramite violenza

psicologica, fisica e/o morale, una o più vittime vengono costrette ad eseguire la

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volontà di uno o più aggressori. Questa violenza si esprime attraverso attacchi

frequenti e duraturi che hanno lo scopo di danneggiare la salute, i canali di

comunicazione, il flusso di informazioni, la reputazione e/o la professionalità della

vittima. Le conseguenze psico-fisiche di un tale comportamento aggressivo risultano

inevitabili per il mobbizzato.”

2.4 LA VITTIMA DEL MOBBING ( Il mobbizzato)

L'estromissione di un lavoratore dal suo posto di lavoro può essere causata da

due soggetti ben distinti: l'azienda, o il collega (o i colleghi, il gruppo) di lavoro.

L'azienda, generalmente per liberarsi dei dipendenti indesiderati, ricorre a una

strategia espulsiva ben pianificata, tale strategia viene denominata bossing. Quando la

volontà espulsiva viene messa in pratica dai colleghi, viene denominata mobbing.

Nel mobbing, non esiste una tipologia precisa di vittima, ma persone più a rischio di

altre. Sono persone non gradite perchè possono in qualche modo nuocere all'equilibrio

relazionale costituito da ruoli, funzioni, mansioni, abitudini, gerarchie caratterizzanti il

gruppo dei colleghi. Queste possono essere:

- lavoratori con spiccate capacità creative e innovative;

- lavoratori che non si sono lasciati coinvolgere da comportamenti illeciti di colleghi o

dell'azienda;

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- lavoratore ''diverso'' per provenienza geografica, religione, tendenze politiche o

sessuali, ecc.;

- il lavoratore nuovo, l'ultimo arrivato, che spesso si caratterizza come creativo,

stravagante, ambizioso, pauroso, ecc.

Per meglio esaminare le potenziali vittime del mobbing si traccia di seguito un

elenco più dettagliato di profili esaminati da Laymann e Ege:

- il distratto è colui il quale non si avvede che la situazione lavorativa in cui vive è

cambiata e che non riesce a gestirla adeguatamente;

- il prigioniero, pur realizzando la difficoltà in cui si trova non riesce a uscirne,

vorrebbe cambiare reparto o lavoro, ma la difficoltà a trovare una nuova occupazione

lo lega tragicamente alla condizione in cui vive;

- il paranoico. Avverte una situazione di disagio, l'ambiente di lavoro è interpretato

come ostile, dalla direzione ai colleghi di lavoro esso vede nemici potenziali pronti a

estrometterlo. Si tratta di persona debole e estremamente suscettibile. All'inizio non è

un mobbizzato, ma col suo comportamento ostile nei confronti dei colleghi che si

sentono accusati ingiustamente, finisce col diventarlo realmente;

- il buontempone. E' quel lavoratore che si distingue per il suo fare socievole e

divertente ma col passare del tempo corre il rischio di diventare un buffone e di non

essere preso più sul serio;

- il presuntuoso, è quel lavoratore che la sa lunga su tutto e tutti a tal punto che i

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colleghi inevitabilmente si sentano autorizzati a mobbizzarlo;

- il servile, aspira ai continui riconoscimenti della direzione. Per ottenere questo è

disposto a fare tutto alla perfezione ed evita tutto ciò che potrebbe essere motivo di

scontento. Di contro diventa facile bersaglio dei colleghi che diventano suoi nemici,

pronti a ricambiare il suo comportamento con atteggiamenti ostili e mobbizzanti;

-l'ambizioso è quel lavoratore che adopera le sue qualità e competenze per fare

carriera. É disposto allo straordinario, si porta il lavoro a casa, è sempre pronto ad

assumersi responsabilità non richieste, è il più integrato nel ''sistema azienda''. Il suo

comportamento però, mette in cattiva luce i suoi colleghi che si sentono in dovere di

scatenare nei suoi confronti il mobbing;

- il vero collega, si dimostra gentile e disponibile con tutti è socievole è sincero. Ma a

causa della sua sincerità a volte si lascia scappare delle cose che non vanno dette, ad

esempio comportamenti scorretti dei colleghi. Spesso in un luogo di lavoro la

sincerità non paga per cui questo lavoratore sarà presto bersaglio di uno o più mobber;

-l'introverso. Si tratta di una persona con difficoltà relazionali. Questo comportamento

può essere travisato e scambiato come comportamento ostile verso i colleghi. Ben

presto si attirerà addosso le reazioni avverse dei colleghi di lavoro.

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2.5 IL MOBBER ( l'aggressore)

Si vogliono tracciare ora più dettagliatamente i profili delle tipologie più

importanti degli autori del mobbing. Si tratta di persone che più di altre possono

sviluppare quella carica ostile che verrà utilizzata contro la vittima. Essi sono soggetti

dal comportamento imprevedibile e che le loro azioni sono determinate dalle

circostanze che si creano di volta in volta.

- Il megalomane. E' colui il quale ha una percezione di se sbagliata. Non è in grado di

valutare con chiarezza le sue reali capacità e si vanta di essere quello che non è. Si

pone sempre al centro dell'attenzione e diventa ostile nei confronti di chiunque mette

in discussione la sua presunta autorità.

- Il frustrato. E' un individuo pervaso da problemi e frustrazioni personali vissuti al di

fuori del luogo di lavoro e che vengono riversati sul lavoro verso i colleghi. Per questo

soggetto, i colleghi sono un problema, perchè percepiti come nemici in quanto vivono

una esistenza serena e priva di conflitti. In questa categoria le donne sono la

maggioranza. Esse riversano sui rapporti familiari i bisogni di natura affettiva,

sentimentale e relazionale. Se vengono a mancare si determina una condizione di

frustrazione che si riverbera sul lavoro. Cause di frustrazione per gli uomini, invece,

possono essere problemi di natura economica e insoddisfacenti prestazioni sessuali.

- L'istigatore. E' colui il quale deve necessariamente prendersela con qualcuno. La

sua azione è martellante ed è finalizzata alla distruzione della vittima. Esso crede che

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attraverso il suo comportamento può trarre un cospicuo vantaggio. Si tratta di un

individuo la cui azione mobbizzante è posta in essere anche per sfogare i suoi cattivi

umori e non nasconde una certa dose di sottile piacere e di divertimento nel colpire la

vittima designata. Questo soggetto trascorre buona parte del suo orario di lavoro per

organizzare e pianificare strategie offensive. Non cede mai dal suo intento, da questo

punto di vista può essere definito un duro, la sua azione si protrae sino al

raggiungimento dell'obiettivo.

- Il collerico. Questo soggetto non riesce a contenere la rabbia che cova in

continuazione dentro di se. Ha un carattere incapace di autocontrollo. E' un intollerante

nato e si lascia andare ad esplosioni incontrollate di rabbia anche violente contro i

colleghi i quali vengono messi a dura prova dal suo comportamento . Si tratta di un

classico mobber perchè non sa trattenersi. Dopo una esplosione di rabbia violenta,

riprende normalmente il lavoro, come se niente fosse accaduto, per poi alla prima

occasione riprendere il suo comportamento ostile e violento.

- Il causale. A questa categoria fanno parte quelle persone che confliggono tra loro. Si

può pensare allo scontro tra due colleghi, pratica assai diffusa nei luoghi di lavoro. E'

una lotta tra pari, dotati della stessa forza che può durare a lungo sino a quando uno dei

due avrà il sopravvento sull'altro. A questo punto il vincitore può decidere di farla

finita o distruggere il suo avversario. Se sceglie la seconda ipotesi diventa un mobber.

Si può dire mobber per caso, senza che se ne renda conto, perchè in origine, nelle sue

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intenzioni non era previsto nessun epilogo di questo genere. Spesso motivi banali e

senza senso danno luogo e sviluppi incontrollati. Questa tipologia di mobbing è

sicuramente tra le più diffuse nei luoghi di lavoro.

2.6 GLI SPETTATORI

Accanto a queste figure si colloca la categoria degli spettatori. Bisogna dire che

questa è una delle classiche situazioni in cui chi tace acconsente! Si tratta di tutte

quelle persone, dai dirigenti agli impiegati, agli operai che non sono direttamente

partecipi alla prevaricazione in corso, pur essendone a conoscenza. In una situazione di

mobbing, spetta proprio a coloro i quali non sono coinvolti, possibilmente

unitariamente, ad intervenire per porre fine alle azioni ostili in atto. Negli spettatori

possiamo individuare questi profili:

- il side- mobber, sostiene e appoggia concretamente il mobber alleandosi con esso, si

tratta del ruffiano, del premuroso, del falso innocente, ecc.;

- l'indifferente, assiste alle vessazioni del mobber senza intervenire e finendo quindi

col favorirlo;

- l'oppositore, si adopera col suo intervento di appianare la situazione assumendo una

posizione ''diplomatica'' ma che generalmente non produce nessun risultato di rilievo,

anzi, spesso finisce col diventare esso stesso un mobbizzato.

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2.7 IL BOSSING

Il bossing è un tipo di mobbing messo in pratica dal datore di lavoro. Esso viene

utilizzato contro i lavoratori per risolvere problemi aziendali che vanno dalla riduzione

del personale, alla eliminazione di un lavoratore indesiderato oppure costringere un

lavoratore divenuto scomodo alle dimissioni. Il bossing si attua in molteplici modi ma

questi hanno in comune lo stesso obiettivo, cioè l'estromissione del lavoratore

dall'azienda. Attorno al dipendente viene creato un clima di tensione insostenibile

fatto di minacce, vessazioni, maldicenze, calunnie, sanzioni disciplinari, molestia

sessuale, ecc. Quello che appare è come il contesto sia caratterizzato da una strategia

volutamente pianificata. Il fenomeno mobbing si manifesta in Italia in tutta la sua

drammaticità. La mancanza di lavoro, la disoccupazione, lo spettro del licenziamento,

l'impossibilità di avvalersi dei diritti sindacali, pesano come una spada di Damocle

sulle teste dei lavoratori. In questa situazione di grande incertezza, di precarietà,

mancanza della sicurezza del futuro, diventa facile per il datore di lavoro esercitare il

suo potere contro il dipendente attraverso la minaccia del licenziamento. La pratica

del bossing pianificato diventa quindi lo strumento a cui il datore di lavoro ricorre per

imporre la sua volontà. Paradossalmente, il bossing si presenta più frequentemente in

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quelle aziende dove è possibile l'applicazione delle tutele sindacali. In queste aziende

il licenziamento, trova ostacoli grazie alle norme previste dal diritto del lavoro per cui

il bossing diviene l'unica strada praticabile dal datore di lavoro per ottenere i suoi fini.

Nelle aziende invece dove la normativa della tutela non trova applicazione, il ricorso al

bossing è meno frequente in considerazione della facilità con cui il datore di lavoro

può licenziare un suo dipendente senza vincoli di legge. Il bossing diventa quindi

l'unico strumento praticabile per cacciare persone indesiderate. Per evitare il

conflitto con le organizzazioni sindacali per motivi di riduzione del personale,

l'azienda mette in atto strategie mirate a costringere un lavoratore alle dimissioni in

quanto queste ultime non sono impugnabili poiché si manifesta la volontarietà della

decisione. E' impressionante come un numero sempre più crescente di aziende ricorre

con estrema disinvoltura alla pratica del bossing per risolvere problemi di riduzione

del personale o di stravolgimento organizzativo. Tale comportamento finisce col

creare seri problemi alle aziende che lo praticano. Tra le conseguenze individuabili si

possono analizzare quelle di natura economica. Dal momento in cui l'azienda mette in

pratica il comportamento vessatorio sino al conseguimento del suo fine, trascorre un

certo periodo di tempo che può prolungarsi per anni. In quest'arco di tempo, il

lavoratore oggetto di discriminazione inizia ad accusare disturbi psico/somatici ed è

costretto a ricorrere a frequenti assenze per malattie. In questo caso secondo le

normative di legge viene erogata l'indennità di malattia con un evidente costo a carico

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dell'azienda. A questo si aggiunge il costo per le richieste ripetute delle visite fiscali di

controllo. Nei periodi in cui è presente sul posto di lavoro e in relazione al suo stato

precario di salute, il lavoratore non è in grado di esprime al meglio le sue potenzialità

professionali, anzi, il più delle volte risulta incapace di svolgere qualsiasi mansione, la

sua unica attività si riduce alla sola presenza fisica in quanto attorno a lui è stato creato

un clima di assoluto isolamento. Questo produce ulteriore costo all'azienda perchè si

vede costretta a sostituire la vittima con un'altra persona che dovrà formare

adeguatamente alle esigenze produttive. Come si è visto, quindi, il bossing rappresenta

un costo aggiuntivo per le aziende le quali il più delle volte per ottenere un

contenimento dei costi si trovano invece in una situazione inversa che non era stata

attentamente valutata.

Si illustrano di seguito, i comportamenti illeciti e lesivi che il datore di lavoro

mette in atto e che sono riconducibili al fenomeno bossing(3).

Tra i comportamenti più lesivi e più diffusi che il datore di lavoro pone in

essere c'è il demansionamento. Col demansionamento, si intende colpire la

professionalità del lavoratore a cui viene impedito l'espletamento delle sue funzioni

stabilite all'atto dell'assunzione. Tale condotta lede la dignità del lavoratore in quanto

lo priva della sua crescita professionale costringendolo ad una attività che lo

__________________________________(3) Greco L. Danno biologico e mobbing nel rapporto di lavoro, Ilsole24ore – I supplementi di Guida al lavoro, n. 2 maggio 2003, Pirola Milano

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impoverisce nelle sue mansioni. In pratica questo comportamento si manifesta

privando il lavoratore degli strumenti che abitualmente esso usa per l'espletamento del

suo incarico: scrivania, telefono, strumentazione varia, oggetti, ecc.

Altro comportamento vessatorio consiste nell'eccessivo carico di lavoro. Il

datore di lavoro pretende una prestazione sproporzionata rispetto all'inquadramento

professionale contrattuale assegnato al lavoratore. Tale pretesa si concretizza con

l'aumento dell'orario di lavoro, con la privazione dei riposi settimanali previsti, con la

richiesta da parte del lavoratore delle pause per i bisogni corporali e per il consumo del

pasto, con una turnazione estremamente sfavorevole, con l'impossibilità di godere

delle ferie, ecc. Altro comportamento caratteristico è quello delle visite fiscali di

controllo durante le assenze per malattia. Il datore di lavoro ricorre a reiterate visite di

controllo giornaliere, anche nelle domeniche e nei giorni festivi.

Le sanzioni disciplinari ripetute unitamente al ricorso del trasferimento sono

ulteriori manifestazioni di comportamento vessatorio nei confronti del lavoratore se

queste non rispondono a comprovate esigenze aziendali di natura organizzativa e non

rientrano nell'ambito della inevitabilità che l'azienda deve dimostrare.

Tra i comportamenti più lesivi si sottolinea la molestia sessuale nei luoghi di

lavoro . Tale pratica può essere posta in essere dal datore di lavoro e dai suoi più stretti

collaboratori. Si tratta di uno dei comportamenti più odiosi in quanto colpiscono la

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dignità e l'integrità psico/fisica del lavoratore o lavoratrice subordinato.

A tutto questo si aggiunge qualsiasi comportamento teso ad offendere la dignità

del lavoratore e la sua integrità psico/fisica con intento persecutorio finalizzato alla sua

espulsione dal posto di lavoro.

2.8 LA DURATA E LA FREQUENZA

Nel fenomeno mobbing, bisogna considerare la frequenza e la durata delle

vessazioni. Un singolo atto di ostilità non può essere riconducibile al mobbing, si

tratta di atti fisiologici caratteristici delle dinamiche aziendali e che non provocano

nessun tipo di danno tra i lavoratori. Il mobbing come si è detto deve rispondere a

criteri di persitenza. Ritornando a Leymann, esso sostiene che il mobbizzato per

essere considerato tale, dove subire almeno un attacco alla settimana per un periodo di

tempo di almeno sei mesi. In realtà tale considerazione risulta essere riduttiva in

quanto se prendiamo in esame il caso di un demansionamento, il soggetto, non subisce

attacchi specifici, ma il mobbing consiste proprio in quella scelta che priva il

lavoratore delle sue legittime mansioni con tutte le implicazioni connesse che

producono ad esempio derisione, umiliazioni ecc. Sempre Leymann, in una fase

successiva delle sue ricerche, in relazione alla durata e alla frequenza, rivede le sue

posizioni sino al punto da sostenere che è sufficiente determinare la sussistenza del

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mobbing nel caso in cui il lavoratore percepisce nel suo luogo di lavoro una qualsiasi

forma di disagio.

2.9 LA REAZIONE DELLA VITTIMA

Vediamo quali sono le razioni che la vittima pone in essere per difendersi dai

ripetuti attacchi del mobber. La donna mobbizzata aumenta la sua attività, tende a

parlare di più e in fretta, si comporta più nervosamente. Con questa strategia crede di

difendersi, una persona che lavora molto non può che essere accettata dalla direzione

e poi se sbaglia questo è dovuto alla sua notevole attività. L'uomo invece è l'esatto

contrario, riduce notevolmente la sua attività sia professionale che verbale e si chiude

in se stesso senza relazionarsi con nessuno dei colleghi. In entrambi i casi i

comportamenti posti in essere non fanno altro che peggiorare la situazione. Il mobber

rincara la dose, nei confronti della donna sostenendo che chiacchiera troppo ed è

eccessivamente distratta, l'uomo viene accusato di svolgere male la sua attività e che le

sue prestazioni lasciano a desiderare.

Il mobbizzato in realtà, reagisce senza criterio, estemporaneamente, senza

nessuna vera strategia difensiva. A volte a una provocazione reagisce con una

provocazione lasciando al mobber la possibilità di affermare di essere lui la vittima e il

mobbizzato diventa il carnefice. C'è una evidente inversione di ruoli.

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2.10 IL DOPPIO MOBBING

I familiari sono di solito i confidenti preferiti verso cui indirizzarci per un

consiglio o per uno sfogo. Il lavoratore mobbizzato, sfogherà nella sua famiglia tutta la

sua rabbia, la depressione, che ha accumulato durante la giornata lavorativa cercando

nella sua casa, l'attenzione che gli è stata negata dai suoi colleghi di lavoro. La

famiglia si rende partecipe del dramma che vive il suo congiunto, assorbendone tutta la

negatività offrendo comprensione, aiuto e protezione anche se così facendo, si

determinerà uno squilibrio nelle relazioni familiari. Il mobbing però è un conflitto

lento e continuo dove risulta impossibile prevederne l'esito e la sua fine.

L'assorbimento familiare degli sfoghi del mobbizzato implica che i membri della

famiglia subiscano il mobbing della vittima. La famiglia resisterà sino a un certo

tempo sino a quando esaurirà le scorte di comprensione e da protettrice,

improvvisamente cambia atteggiamento cessando di sostenere la vittima e

cominciando invece a proteggere se stessa dalla forza distruttiva del mobbing. Siamo

di fronte certamente a un processo inconscio in quanto nessun componente cesserà mai

di credere di non aiutare più il proprio congiunto. In seguito poi, i familiari

cominceranno a credere che le affermazioni del proprio congiunto siano il frutto di

problemi di sua esclusiva invenzione, magari scuse per coprire il suo fallimento sul

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lavoro. La vittima, non avendo più disposizione la famiglia come valvola di sfogo,

sentendosi rifiutato, verrà a trovarsi all'improvviso in una condizione di doppio

mobbing.

2.11 UN MONDO DI MOBBIZZATI

Per concludere questo excursus tra le vittime del mobbing si vuole prendere in

esame quei lavoratori che pur essendo mobbizzati non sanno di esserlo, anzi, sono

proprio convinti del contrario. Pensiamo a quei lavoratori, e sono in continuo aumento,

inquadrabili in livelli professionali di una certa importanza, che hanno sposato sino in

fondo il loro ruolo interpretandolo come unica ragione della loro esistenza e

annullandosi quindi nel servizio reso all'azienda(4). Questa immagine è alimentata dai

media attraverso messaggi di subdola persuasione. Abbiamo quindi l'uomo-manager

capace di districarsi tra mille difficoltà, sempre in ordine, dinamico, in grado di

assorbire con e strema facilità i cambi di fuso orario, utilizzatore delle ultime

tecnologie per impartire ordine da qualsiasi parte del mondo, conoscitore della lingua

inglese e pensa in inglese...... E' gente che ha smarrito la propria identità umana, si

tratta di mercenari del lavoro, al soldo di un padrone che neppure conoscono, che non

___________________________________(4) Provincia di Modena, Atti del convegno “Mobbing del 2 aprile 2004, in www.lavoro.provincia.modena.it

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ha un volto e magari al mattino hanno lavorato per un'azienda e al pomeriggio per

un'altra società. Così facendo non hanno la possibilità, (ma è necessario?) di

identificare la controparte sempre più impalpabile per cui quest'ultima coincide con il

lavoro in se. La controparte di Fantozziana memoria, inaccessibile, sconosciuta ai più,

il direttore megagalattico, sempre collocato nei posti all'ultimo piano, privo di una

precisa identità ma uguale sempre a se stesso sia se produce auto o investimenti

finanziari. In questo quadro entra dirompente il solito dilemma dell'essere o dell'avere.

Una scelta non libera perchè oggi la proposta dominante consiste nell'affidare ai

meccanismi aziendali e alla produzione la possibilità di realizzazione della persona in

uno schema funzionale al liberismo che premia i più forti, e lusinga i più deboli. Si

corre sempre più verso un mondo in cui sofisticatissime tecnologie condurranno la

nostra civiltà a fare a meno dei lavoratori. Per cui avremo una elite(5) di professionisti

che controlleranno le tecnologie e la produzione a fronte di un numero crescente di

lavoratori sempre in esubero con speranze praticamente nulle di trovare un

occupazione degna di questo nome.

La potenzialità di crescita professionale, la prospettiva imprenditoriale per tutti,

le presunte capacità dei singoli, indirizzano verso un percorso in cui l'ansia

___________________________________(5) Rifkin G. La fine del lavoro, Baldini e Castoldi, Milano 1995

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dell'affermazione diventa l'obiettivo da raggiungere a tutti i costi. Il mobbizzato

deventa nello stesso tempo mobber e scatena la guerra contro il suo simile. Svanisce

qualsiasi tensione solidaristica e ogni presupposto di appartenenza.

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CAPITOLO TERZO

GLI STRUMENTI GIURIDICI E DI TUTELA

3.1 LE RISOLUZIONI DEL PARLAMENTO EUROPEO

Innanzitutto, parlando di disciplina legale del mobbing, è necessario fare

riferimento alla Risoluzione del Parlamento Europeo A5-0283 del 20 settembre 2001,

significativamente titolata “Mobbing sul posto di lavoro” Le Risoluzioni, come noto,

non sono atti precettivi, e neanche atti vincolanti per i suoi destinatari. Gli Stati

membri sono lasciati sostanzialmente liberi di adeguarsi o meno alle prescrizioni del

Parlamento. La Risoluzione ricerca le cause del mobbing, che individua sia in

fenomeni collegati alle particolari condizioni del mercato del lavoro attuale

(allargamento dell’area di impiego precario e a termine, aumento della competitività),

sia in fenomeni interni all’azienda (carenza di organizzazione lavorativa, di

informazione interna, di direzione). Agli Stati membri, la risoluzione rivolge

esortazioni ad intervenire a vari livelli tra cui l’invito a rivedere ed aggiornare la

legislazione vigente sotto il profilo della lotta al mobbing. Da un punto di vista sociale,

viene richiesto di imporre alle imprese, ai pubblici poteri e alle parti sociali, di attuare

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iniziative soprattutto a livello di prevenzione del fenomeno, anche attraverso idonee

procedure di informazione verso i lavoratori. Qualche mese dopo la Risoluzione del

Parlamento Europeo, è toccato alla Commissione delle Comunità Europee esprimersi

in argomento, in occasione della Comunicazione della Commissione 11 marzo 2002,

avente per oggetto “Adattarsi alle trasformazioni del lavoro e della società: una nuova

strategia comunitaria per la salute e la sicurezza 2002-2006”. In quest’ultima

risoluzione tra l’altro si osserva: “le malattie considerate emergenti quali lo stress, la

depressione o l’ansia, nonché la violenza sul luogo di lavoro, le molestie e

l’intimidazione rappresentano ben il 18% dei problemi di salute legati al lavoro, un

quarto dei quali comporta un’assenza dal lavoro pari o superiore alle due settimane”…

(omissis)… Lo stress, le molestie sul luogo di lavoro, la depressione e l’ansia, devono

essere oggetto di azioni specifiche…(omissis)… “Le varie forme sotto cui si

presentano le malattie psicologiche e la violenza sul lavoro rappresentano oggi un

problema particolare che giustifica un’iniziativa legislativa”. La recente

Raccomandazione della Commissione del 19 settembre 2003 sull’elenco europeo delle

malattie professionali, la quale all’art.1 par.7) raccomanda agli Stati membri di

“promuovere la ricerca nel settore delle affezioni legate a un’attività professionale, in

particolare per le affezioni descritte all’allegato II e per i disturbi di natura psico-

sociale legati al lavoro”. Inoltre non bisogna dimenticare come la stessa Carta dei

diritti fondamentali dell’Unione riconosca ad ogni lavoratore il diritto a “condizioni di

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lavoro sicure e dignitose” (art.31), e in genere ad ogni cittadino il diritto “alla propria

integrità fisica e psichica” (art.3).

In Italia, similmente ad altri stati membri dell’Unione Europea, la reazione al

mobbing si sta giocando su diversi fronti e livelli:

autoregolamentazione delle imprese;

contrattazione collettiva, aziendale e nazionale;

estensione della tutela INAIL alle vittime di mobbing;

apporto delle corti attraverso l’elaborazione giurisprudenziale;

progettazione di norme ad hoc volte ad incidere sia sul piano della prevenzione

che sul versante della responsabilità civile e penale degli autori del mobbing;

possibilità di utilizzare in molti casi di mobbing le normative (DLGS n.215 e

216 del 9 luglio 2003), in materia di divieto della discriminazione sul posto di

lavoro a tutela dei c.d. “gruppi a rischio di esclusione sociale” (come minoranze

religiose, politiche e di pensiero; gruppi etnici e razziali; donne; anziani;

omosessuali, ecc.).

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3.2 IL MOBBING NELLA RESPONSABILITA' CIVILE E PENALE

In Italia non esiste nessuna normativa(1) sul mobbing. Diverse sono le proposte

di legge presentate in questi anni dai diversi schieramenti politici ma per una ragione o

per l'altra sono tutte rimaste nel cassetto. E' evidente come in questo paese, l'intera

classe politica non abbia ancora maturato la dovuta sensibilità verso il fenomeno

ritenendolo marginale e di scarso interesse. Questo dipende dal fatto che nei confronti

del lavoro, dei lavoratori, tutte le parti in causa: partiti, sindacati, imprenditori, enti,

ecc., conservino una tradizionale e ormai superata visione quasi esclusivamente di

natura economica, come se il lavoratore o meglio, “risorsa umana” dotato è vero di

specifiche professionalità, competenze e abilità, fosse però sprovvisto di qualità

intrinseche uniche e quindi interpretato come produttore di profitto e nient'altro.

Sul versante della repressione del fenomeno è di tutta evidenza come la lotta

contro il mobbing chiami direttamente in causa non solo la responsabilità del

legislatore, che in Italia ha tempi lunghi di reazione, ma anche, in prima battuta, le

corti nello svolgimento della loro funzione giurisdizionale. La stessa Risoluzione del

__________________________________(1) CGIL-INCA Taranto, atti del convegno “Uno sportello per il Mobbing” del 10/03/07

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Parlamento europeo, al punto 22, avverte “l'importanza di ampliare e chiarire la

responsabilità del datore di lavoro per quanto concerne la messa in atto di misure

sistematiche atte a creare un ambiente di lavoro soddisfacente”. In questo contesto la

responsabilità penale può svolgere nel mobbing importanti funzioni. L'art. 582 c.p.

punisce il reato di lesione personale dolosa che causa una malattia del corpo e della

mente. Si intende qualsiasi danno anatomico, funzionale o psichico del soggetto. L'art.

583 c.p. punisce la lesione personale grave o gravissima. La lesione grave si ha quando

provoca una malattia che mette in pericolo la vita della persona oppure se provoca

l'indebolimento di un senso o di un organo. La lesione personale gravissima si ha

quando il fatto provoca una malattia sicuramente insanabile. L'art. 590 c.p. riguarda

l'ipotesi in cui il datore di lavoro non osservi le norme in materia di sicurezza previsti

dal D.L.vo 626/94 le quali tutelano la salute dei lavoratori nei luoghi di lavoro. L'art.

594 c.p. punisce il reato di ingiuria che offende l'onore e il decoro della persona. L'art.

595 c.p. punisce la diffamazione cioè la reputazione di una persona assente.

Assume un certo qual rilievo una sentenza della Suprema corte di Cassazione

Penale. Sez. VI, 12 marzo 2001 n. 10090 nella quale il reato di violenza privata, art.

610 c.p., ha trovato applicazione nei confronti di un imprenditore, che era venuto

meno ai doveri di cui all’art. 2087 c.c. per avere omesso di porre fine alle vessazioni

attuate dai capigruppo sui lavoratori dipendenti, rendendosi dunque corresponsabile. In

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altri processi, risulta che il capo di imputazione sia l’art.572 c.p. che, per quanto

rubricato come “Maltrattamenti in famiglia o verso fanciulli”, si ritiene applicabile

anche all’ambito lavorativo stante l’espresso richiamo contenuto nella norma alle

persone sottoposte all’autorità o affidate per l’esercizio di una professione o arte.

L'art. 660 c.p. Punisce il reato di molestia o disturbo alle persone con l'aggravante di

cui all'art. 61 n. 11 c.p. per aver commesso il fatto con abuso di autorità di relazioni di

ufficio o di prestazioni d'opera. Sono stati registrati anche alcuni casi di suicidio, l'art.

580 c.p. punisce chiunque istighi o aiuta al suicidio.

Per quanto riguarda la molestia sessuale la legge punisce con l'art 609 bis c.p. e

l'art. 660 c.p. chiunque manifesti una costante e fastidiosa attività di allusioni a sfondo

sessuale, a questi si aggiunge l'art. 61 n. 11 c.p. che punisce coloro i quali commettono

molestie sessuali con abuso di autorità, relazioni di ufficio o prestazioni d'opera. Nel

pubblico impiego si applica l'art. 323 c.p. che punisce l'azione del pubblico ufficiale

che nello svolgimento delle sue funzioni in violazione di legge o di regolamento,

arreca ad altri un danno ingiusto.

La responsabilità civile, al di là di ogni dubbio, offre oggi nel nostro

ordinamento una serie di strumenti in grado di garantire in concreto la sicurezza, la

libertà e la dignità umana dei prestatori di lavoro, valori, questi ultimi, sanciti dalla

stessa Costituzione (art. 41 Cost.) e che il mobbing mortifica unitamente ad altri

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beni, quali ad esempio la salute (art. 32 Cost.) e la personalità (art. 2 Cost.). Le

manovre di emarginazione, persecuzione o comunque di trattamento peggiorativo,

in qualunque modo concretizzate, a fini di discriminazione politica, sindacale,

religiosa, di lingua o di sesso, trovano sulla loro strada numerose norme idonee a

fare scattare i meccanismi della responsabilità civile, norme ben radicate da tempo

nella nostra cultura sociale e giuridica, sia a livello di ordinamento nazionale che

sovranazionale. In altri termini, l’ingresso del mobbing sulla scena della

responsabilità civile non ha affatto modificato quanto già risultava pacifico: ogni

molestia morale, che incida negativamente sulla personalità morale del lavoratore,

può costituire, almeno in linea di principio, un comportamento rilevante per il

diritto e, più specificatamente, per l’art. 2087 c.c., in base al quale “l’imprenditore

è tenuto ad adottare nell’esercizio dell’impresa le misure che, secondo la

particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica sono necessarie a tutelare

l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro”, e per l’art. 2049

c.c., che, stabilendo che il datore di lavoro è responsabile “per i danni arrecati dal

fatto illecito dei loro domestici e commessi nell’esercizio delle incombenze a cui

sono adibiti”, svolge per certo un ruolo chiave nella tutela dei prestatori di lavoro.

Fa discutere la recentissima sentenza che ha visto protagonista la Corte di

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Cassazione(2) la quale proprio in mancanza di una legge in merito, riporta indietro

la discussione sul mobbing sostenendo che lo stesso non deve essere considerato

reato. La vicenda in esame riguarda un caso di mobbing posto in essere da un

preside di una scuola nei confronti di una docente che subiva lesioni gravi

permanenti all'organo della funzione psichica. Il giudice, però, aveva ritenuto

“insostenibile” la tesi, espressa dall'accusa e dal consulente tecnico, rilevando che

non era possibile individuare un atto a cui fossero riconducibili le cause della

malattia della docente. Contro tale sentenza, il PM e la parte offesa si erano rivolti

alla Suprema Corte, la quale però ha rigettato i ricorsi. “Con la nozione di

mobbing, spiegano i giudici della Cassazione, si individua la fattispecie relativa ad

una condotta che si protragga nel tempo con le caratteristiche della persecuzione

finalizzata all'emarginazione del lavoratore, onde considerare una vera e propria

condotta persecutoria posta in essere dal preposto sul luogo di lavoro”. La

sentenza prosegue sostenendo che “ Risulta difficile inquadrare la fattispecie "in

una precisa figura incriminatrice, mancando in seno al codice penale questa

tipicizzazione". Non esiste quindi il reato di mobbing perchè il codice penale non lo

prevede!

__________________________________(2) Corte di Cassazione, sentenza n. 33624/2007 in www.studiolegalelaw.it

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3. 3 IL MOBBING COME MALATTIA PROFESSIONALE

L'INAIL, da tempo attento al fenomeno mobbing con delibera n. 473 del

25/07/2001 ha approvato l'iniziativa tesa a: definire percorsi metodologici per la

diagnosi eziologica delle patologie psichiche e psicosomatiche da stress da

ambiente da lavoro, compreso il cosiddetto mobbing. Alla luce di questo studio,

sono state determinate le condizioni più frequenti di ''costrittività organizzativa'' nei

confronti di lavoratori, traendo spunto anche dall'esame dei primi casi denunciati

all'istituto. Si elencano le condizioni individuate:

1) marginalizzazione della attività lavorativa, svuotamento delle mansioni,

mancata assegnazione dei compiti lavorativi, con inattività forzata, mancata

assegnazione degli strumenti di lavoro, ripetuti trasferimenti ingiustificati o

prolungata attribuzione di compiti dequalificanti rispetto al profilo professionale

posseduto;

2) prolungata attribuzione di compiti esorbitanti o eccessivi anche in relazione

ad eventuali condizioni di handicap psico-fisici;

3) impedimento sistematico e strutturale all'accesso a notizie;

4) inadeguatezza strutturale e sistematica delle informazioni inerenti l'ordinaria

attività di lavoro;

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5) esclusione reiterata del lavoratore rispetto ad iniziative formative, di

riqualificazione e aggiornamento professionale;

6) esercizio esasperato ed eccessivo di forme di controllo.

La richiesta presso l'INAIL del riconoscimento del mobbing come malattia

professionale in quanto malattia “non tabellare” necessita generalmente

dell'intervento delle organizzazioni sindacali confederali che attraverso i

rispettivi istituti di patronato istruiscono la pratica corredata dalla

documentazione richiesta da presentare all'INAIL. Per questa ragione i sindacati

hanno promosso i c.d. “sportello mobbing”. Qui, il mobbizzato trova assistenza

tra gli operatori del patronato. Dopo vari colloqui, il caso viene esattamente

inquadrato facendo attenzione nel distinguere tra singole azioni mobbizzanti e

mobbing vero e proprio. Terminato l'iter diagnostico, il lavoratore mobbizzato

viene inviato a consulenza medico-legale sia per una qualificazione dei danni

derivati (danno biologico sia temporaneo che permanente, danno esistenziale e

danno morale) che per una valutazione in ambito INAIL. Solo a questo punto la

richiesta del lavoratore può essere inoltrata con il patrocinio del patronato

all'INAIL che valuterà la richiesta di indennizzo.

3.4 UN CASO DI MOBBING

L'Ilva di Taranto è un vero e proprio gigante. Una classica cattedrale nel

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deserto. Nata negli anni 60, il primo altoforno entra in funzione nell'ottobre del 1964

come Italsider su finanziamento pubblico (IRI) e gestita per molto tempo con molta

distrazione e approssimazione, senza avere una vera e propria strategia industriale. La

fabbrica doveva produrre non per essere competitiva sul mercato internazionale ma

per mettere in attività gli impianti e per far lavorare gli operai. Poi arrivò la crisi

dell'acciaio, a partire dall'inizio degli anni 90 e ormai in una situazione debitoria, con

un numero di addetti superiore alle necessità produttive, l'azienda fu messa in vendita.

L'acquistò nel 1995 l'industriale milanese E. Riva a prezzo di vero realizzo. Gli

impianti dell'ILVA si estendono su una superficie (15 milioni mi mq.) che è il doppio

della città di Taranto, ha oltre 13mila dipendenti, a questi si aggiungono altri 3000

addetti dell'indotto (la popolazione residente del comune di Taranto è pari a 200mila

abitanti), ha nel suo interno una rete stradale di 50 Km., una ferrovia di 200 Km.,

nastri trasportatori per 190 Km., 10 batterie di forni per coke e 5 altiforni. La città

convive con questa azienda, anzi sembrerebbe che l'ILVA inglobi l'intera città. Da qui

si può immaginare il ruolo di orientamento socio-economico-politico che lo

stabilimento ha avuto nel corso di questi ultimi decenni nei confronti della città di

Taranto. Dal comparto pubblico L'Ilva si è trovata improvvisamente a far parte

dell'industria privata con le enormi differenze che questo passaggio ha provocato

soprattutto sul piano delle relazioni sindacali. I lavoratori e le loro organizzazioni

hanno dato vita a un lungo braccio di ferro con la nuova proprietà, nel tentativo di

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arginare e contrastare le modifiche delle politiche aziendali finalizzate sostanzialmente

nei confronti di una decisa ristrutturazione che aveva come oggetto una considerevole

riduzione del personale che coinvolgeva dirigenti e operai. In una situazione

conflittuale che spesso ha assunto toni drammatici, si sono verificati numerosi casi di

mobbing compiuti dall'azienda, si vuole qui ricordare la vicenda della Palazzina LAF

che ha inizio nel 1997.

La nuova proprietà interpreta il sindacato come un ostacolo alle premesse per

una maggiore produttività. In tal senso, esso non viene per nulla preso in

considerazione, anzi, le politiche aziendali si concretizzano come se il sindacato non

esistesse. Da qui nasce il frequente ricorso alla magistratura che viene chiamata come

arbitro sulle mancate relazioni sindacali peraltro previste dalla legge. L'attivismo

sindacale è volto soprattutto ad arginare sia le strategie aziendali tendenti allo

svuotamento e alla delegittimazione dello stesso sia a contrastare il clima di

prevaricazione e intimidazione posti in essere dall'azienda verso i lavoratori. Tra

l'altro l'azienda ricorre ai licenziamenti nei confronti di coloro i quali hanno scioperato

o in altri casi sostituisce interi gruppi di lavoratori con altri considerati più

''malleabili'' costringendo i primi a mansioni nettamente inferiori. In questo quadro si

colloca la vicenda della Palazzina LAF(3) del laminatoio a freddo. Si tratta di edificio

___________________________________(3) Senato della Repubblica, Indagine conoscitiva sulla situazione degli stabilimenti del gruppo ILVA di Taranto e Novi Ligure, anno 1998

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in disuso, un tempo utilizzato come uffici. Nella palazzina vengono ''trasferiti''

inizialmente 60 dipendenti (maggiormente sindacalizzati) le cui mansioni ''sono da

definire''. Si tratta di personale tecnico, impiegati, programmatori e di altre

professionalità altamente specializzate che non hanno accettato le ''pretese'' aziendali

di demansionamento. Sono dunque stati confinati nella palazzina dotata di una sola

scrivania e condannati a non fare assolutamente nulla. Tale operazione viene

giustificata dal Riva come la volontà di riprendere le relazioni sindacali, in quanto, se

avesse voluto anche per questi sarebbe stata prevista la risoluzione del rapporto di

lavoro. I 60 lavoratori si sono macchiati delle seguenti infrazioni: non hanno accettato

mansioni inferiori, hanno rifiutato orari di lavoro non previsti nel contratto, non hanno

accettato il ''consiglio'' di dimettersi dalle organizzazioni sindacali e di astenersi da

azioni conflittuali contro l'azienda. In questa situazione interviene la locale Direzione

Provinciale del Lavoro che con una informativa alla Procura della Repubblica

sostiene: << se le minacce arrivano a privare il lavoratore della sua capacità

lavorativa, impedendogli di fornire le sue prestazioni lavorative contrattualmente

dovute, allontanandolo dal suo posto di lavoro, relegandolo in un locale privo di

collegamento telefonico e acqua potabile, allora la minaccia di dequalificarlo o di

licenziarlo si aggrava, in quanto mette a rischio la sua salute psicofisica e mortifica

la sua dignità di uomo>>. Da una dichiarazione d i Claudio Virtu', tecnico

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informatico(3) di 52 anni: <<Il capo mi aveva proposto un giorno di ferie, ma io ho

scioperato lo stesso. Venti giorni dopo, il coordinatore di turno mi ha chiamato: "Non

puoi entrare in ufficio, c'è una ristrutturazione in corso". Otto giorni in una stanza

vuota, con solo una sedia. Nessuno osava parlarmi, erano stati "consigliati" così. Poi

l'Ufficio personale mi ha mandato al reparto Riparazione locomotori. Un colloquio

durato sei minuti, il tempo di chiedermi le generalità e: "Le farò sapere". Il giorno

dopo: "Sa, il colloquio ha avuto esito negativo..". Erano le 10. Alle 12 un collega mi

accompagna davanti alla famigerata palazzina Laminatoio a freddo. "Ti saluto", ha

detto, senza neanche guardarmi negli occhi, ed era come un addio. Davanti a me un

portone di vetro, vecchio, sporco, grande. L'ho aperto con un piede per non

sporcarmi. Al di là, un lungo corridoio e gente che passeggiava. Ero annientato. Poi

ho sentito gridare: ''Nuovo arrivo''. Dalle stanze hanno fatto capolino un sacco di

teste, guardavano. Anch'io le guardavo, ma era come fossero senza volto. Qualcuno

mi ha chiamato per nome, ed è stato come uscire da un incubo. Mi hanno accolto in

un "ufficio": due scrivanie malandate, un tavolino e tre sedie per sei persone. Non

veniva mai nessuno, tranne quello dell'Ufficio personale a proporci di dare le

dimissioni da impiegati per essere riassunti come operai. È durata nove mesi: 79

__________________________________(4) Virtù C., Palazzina LAF – Mobbing la violenza del padrone , Ed. Archita, Taranto 2001

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mesi prigionieri in uno spazio vuoto, senza niente da fare se non il rimuginare

ossessivo sull'umiliazione. Ora siamo in cassa integrazione con un processo penale in

corso.>>

Il 6 novembre del 1998 la palazzina viene chiusa e posta sotto sequestro dalla

autorità giudiziaria a seguito di numerose iniziative ed esposti alla magistratura

predisposti dalle organizzazioni sindacali confederali. A seguito di tali iniziative, ha

inizio un contenzioso giudiziario tra lavoratori-organizzazioni sindacali contro

l'azienda che dura per i tre gradi processuali previsti dalla legge. Con sentenza emessa

il 7 dicembre 2001 il Tribunale di Taranto condanna E. Riva ed altri in concorso alla

pena di anni due e mesi tre di reclusione per svariati episodi di violenza privata tentata

e consumata ai danni di numerosi lavoratori , commessi all'interno dello stabilimento

ILVA di Taranto nel periodo compreso dal dicembre 1997 al novembre 1998 (il

periodo della palazzina LAF). Con sentenza del 12 aprile 2005 la Corte di Appello di

Lecce, sezione distaccata di Taranto, conferma sostanzialmente la condanna inflitta dal

Tribunale di Taranto anche se con uno sconto di pena degli imputati. La Corte di

Cassazione con sentenza n. 31413 del 21 settembre 2006 ha confermato la sentenza

della Corte di appello di Lecce, sezione distaccata di Taranto, che aveva condannato

undici persone, fra titolari, dirigenti e quadri dello stabilimento Ilva, per la vicenda di

mobbing riguardante 60 lavoratori che nel 1998 vennero confinati nella ex palazzina

Laf del siderurgico. Gli imputati rispondono di tentata violenza privata e, tre di loro,

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fra cui il presidente del consiglio di amministrazione dell’Ilva, E. Riva, e il direttore

dello stabilimento di Taranto, L. Capogrosso, anche di frode processuale.

Nella sentenza della Cassazione tra l'altro si legge: <<la singolare vicenda

oggetto del processo si innestava nell'ambito del fenomeno sociale generalmente noto

come mobbing (più specificatamente ''bossing'') fenomeno non ancora previsto dalla

nostra legislazione ne nella contrattazione collettiva, ma, tuttavia, già esaminato

dalla giurisprudenza di merito e di legittimità e consistente in ''atti e comportamenti

(violenza, persecuzione psicologica) posti in essere dal datore di lavoro che mira a

danneggiare il lavoratore al fine di estrometterlo dal lavoro, atteggiamenti svolti con

carattere sistematico e duraturo''.

La parola fine di questa storia triste ma nello stesso tempo drammatica viene

posta da una sentenza della magistratura, sicuramente più sensibile e all'avanguardia

rispetto al potere politico e legislativo. Nella sentenza infatti, viene usata una

terminologia caratteristica degli studi sul mobbing. Non solo, ma una sentenza del

genere, assieme a tante altre, dimostra l'esistenza e quindi il riconoscimento di un

problema che deve essere più adeguatamente affrontato con strumenti legislativi idonei

e mirati.

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CAPITOLO QUARTO

L'ESPERTO DEL MOBBING

Esiste un esperto del mobbing? Allo stato no! Abbiamo visto come la vittima

del mobbing subisce ogni sorta di prevaricazione le cui pesanti ripercussioni

provocano un danno sulla sua salute, sul suo lavoro, sulla sfera privata. Un esperto in

mobbing dovrebbe possedere quelle competenze necessarie finalizzate al possesso di

una visione d'insieme del fenomeno. Non esiste nessun indirizzo scolastico, formativo,

universitario che formi figure professionali adatte alle necessità. L'esperto del mobbing

è un esperto di più saperi, dovrebbe avere le caratteristiche dell'educatore, capace di

intervenire presso datori di lavoro e lavoratori attraverso progetti formativi finalizzati

alla prevenzione e soluzione dei conflitti. Inoltre dovrebbe possedere elementi di

conoscenza degli ambienti di lavoro e della loro organizzazione, della contrattazione

collettiva nazionale, e conoscenze in materia di diritti e tutela dei lavoratori. Questa

prima definizione non esclude altre figure professionali in grado di fornire un

notevole contributo, come il legale, lo psichiatra, lo psicologo del lavoro. Solo però, il

ricorso a questi ultimi, evidenzia come la rete di protezione del lavoratore non ha per

nulla funzionato lasciando lo stesso in una condizione di vulnerabilità totale verso la

pratica mobbizzante. Nel frattempo che tali figure professionali vengano formate,

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vediamo chi allo stato può comunque, ciascuno nella propria specificità e ruolo,

intervenire nelle aziende per svolgere attività di tutela e prevenzione. Partiamo da un

dato di estremo interesse. L'Organizzazione Mondiale della Sanità (O.M.S.) definisce

la salute come “uno stato di completo benessere fisico, mentale e sociale, che non

consiste soltanto nell' assenza di disturbi o infermità, ma è una condizione di

armonico equilibrio funzionale, fisico e psichico dell'individuo, dinamicamente

integrato nel suo ambiente naturale e sociale”. La salute quindi è un concetto dalle

varie componenti legate alla persona, alla sua famiglia, all'ambiente di vita, alle

condizioni socio-economiche, ecc. Che è come dire: la salute dei cittadini che sono

anche lavoratori dovrebbe essere intesa in relazione alla definizione dell'O.M.S. Le

prima figura professionale che viene individuata in base alle competenze in suo

possesso è il “Tecnico della Prevenzione”, nato con la legge 626/94, recante norme in

materia di salute e sicurezza nei luoghi di lavoro, è un operatore che tra l'altro, vigila e

controlla gli ambienti di vita sul lavoro e valuta la necessità di effettuare accertamenti

ed inchieste su infortuni e malattie professionali. L'altra figura che può svolgere

attività di tutela dei lavoratori nei luoghi di lavoro in relazione ancora alla 626/94 è il

Rappresentante dei lavoratori per la sicurezza. Il numero dei rappresentanti e la

modalità della loro designazione sono rimesse alle modalità della contrattazione

collettiva. Egli, deve essere consultato dal datore di lavoro in merito alla prevenzione e

valutazione dei rischi e sull'organizzazione della formazione dei lavoratori sul tema

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della salute e della sicurezza. A questi si aggiungono i Rappresentanti Sindacali

Aziendali (R.S.A.) i quali eletti direttamente dai lavoratori, li rappresentano e li

tutelano in base alle norme presenti nei contratti nazionali di lavoro e della

legislazione pià in generale. Per ultimo ma non per questo meno importanti,

ricordiamo le organizzazioni sindacali confederali e di categoria a cui spetta il

compito attraverso le loro strutture organizzate della tutela dei lavoratori e della

promozione della contrattazione.

Altro aspetto che occorre chiarire riguarda l'idea che il mondo del lavoro, datore

di lavoro, parti sociali, enti, esperti, ecc, hanno del mobbing. In realtà, quei pochi che

la posseggono hanno in comune l'opinione, anche a causa della mancanza di una legge

a proposito che chiarisca i termini della questione, secondo la quale vittima del

mobbing è soltanto colui che presenta patologie varie, come ansia, depressione, stress

da lavoro, anoressia, bulimia, gravi disturbi della personalità ecc. In altre parole, si

sostiene che bisogna essere di fronte a una persona “malata”. Se questo è vero per

l'inoltro all'INAIL della richiesta di indennizzo come malattia professionale, risulta del

tutto falso per quei casi di mobbing, la stragrande maggioranza, le cui vittime non

presentano alcun tipo di patologia. Per cui in base a questa opinione ormai consolidata

sarebbero rarissimi i casi di mobbing. In realtà le cose stanno diversamente, il

mobbing è una pratica che come si è visto colpisce milioni di lavoratori i quali

fortunatamente non tutti sviluppano una patologia ma risulterebbe sbagliato

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considerarli non mobbizzati. Consegnando alla medicina la responsabilità

dell'accertamento della pratica mobbizzante si continua sulla secolare strada

interpretativa di natura positivistica che vuole il sapere medico(1) come depositario

della verità. Nella certificazione dei casi di mobbing, ma ciò si deve anche a causa del

colpevole silenzio delle altre discipline, è la medicina che ne accerta l'esistenza: hai

una patologia? Allora sei vittima del mobbing! Non hai nessuna patologia? Allora puoi

ritornare tranquillamente al lavoro. Ai primi studiosi del mobbing, Leymann e Ege,

psicologi, si deve il merito, soprattutto dopo aver affrontato innumerevoli e

estenuanti battaglie, ad aver dato visibilità al fenomeno considerato inesistente.

Ringraziamoli per il servizio reso, e esprimiamo profonda riconoscenza. Si tratta di

prospettiva psicologica, che ha prodotto studi e ricerche praticamente in un'unica

direzione, come se il mobbing non necessitasse di un approccio multidisciplinare.

L'assenza di altre prospettive di studio ha subito spianato la strada al sapere medico

che libero di agire senza vincoli ha imposto la sua metodologia a tal punto che

attualmente è l'unico sapere che viene accettato come vincolante, non solo per il

riconoscimento della malattia professionale in se ma anche più in generale della

sussistenza del mobbing.

Ad essere malato non è il singolo lavoratore ma il grande malato è il lavoro il

__________________________________(1) Barone P., Pedagogia della devianza e della marginalità, Guerini, Milano 2001

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quale ha perso in questi ultimi tempi quelle caratteristiche di riscatto sociale,

emancipazione, contenuto educativo, realizzazione, stabilità nei confronti del quale era

riposta l'esistenza e il futuro di milioni e milioni di persone. Il mobbing non è altro che

un sintomo di questa malattia, uno fra i tanti. Occorre ridare dignità al lavoro. Nel

sistema globalizzato, dove si susseguono i processi di trasformazione, le sicurezze e

garanzie del lavoro subiscono una dopo l'altra un processo di svuotamento,

l'economia di mercato, ormai autocelebrativa, ha posto nell'angolo la “persona

lavoratore” privandola di qualsiasi centralità e interesse. Ogni azione di governo,

qualsiasi governo, senza ricadere in un facile qualunquismo, sembra ormai totalmente

assorbita dalla cultura del mercato, e antepone nelle scelte strategiche, quelle che

contano, l'economia all'uomo, la quale, agisce praticamente nella logica del profitto,

fornendo l'illusione che solo attraverso il suo sviluppo ci può essere benessere per tutti.

Il risultato di questo modo di procedere è sotto gli occhi di tutti. Non è questa la sede

per sollevare tale argomento, ma la crescente instabilità internazionale ha origine da

quella fallimentare politica economica guidata dalla regia occulta dei suoi apparati

oligarcici che costringe le politiche socio-economiche nazionali a una inevitabile

subalternità. La precarietà sul lavoro, il carrierismo sfrenato, la competizione

esasperata, il miraggio dell'arricchimento facile a danno dei valori come innanzitutto la

solidarietà hanno provocato guasti quasi insanabili nella coscienza collettiva degli

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uomini. Il lavoro viene considerato come qual cosa d'altri tempi, quasi come un

impaccio, un impedimento alla logica del profitto perchè il lavoro è fatto da persone e

come si sa in una condizione di forte concorrenza non c'è posto per tutti. Il lavoro

soffre di una paradossale contraddizione: da una parte necessita delle competenze

professionali e delle qualità intrinseche dell'uomo, ma nello stesso tempo tende a farne

a meno perchè solo la sua stessa inevitabile presenza pone una linea di resistenza alle

finalità totalizzanti e lucrative dell'economia. Non è sbagliato affermare che il lavoro

sta assumendo caratteristiche di marginalità. Per cui, se il lavoro è così caratterizzato,

non è più degno del nome che porta. Per questo occorre ridare nuova dignità al lavoro.

Occorre cimentarsi in una battaglia culturale e in questa prospettiva, l'educazione può

svolgere un ruolo insostituibile se solo si riappropria di quel ruolo che gli è stato

privato. L'educazione per lungo tempo ha assistito distratta all'evolversi degli eventi,

forse perchè colta impreparata o forse perchè isolandosi su se stessa voleva

volutamente estraniarsi, separarsi dagli avvenimenti epocali o forse perchè pensava di

vivere di rendita attraverso la sua storia millenaria per cui con una certa aria di

sufficienza ha evitato di “sporcarsi le mani” come se tutto questo non rientrasse nel

suo oggetto di indagine. Sta di fatto che oggi tutti parlano di educazione, tranne che

gli educatori. Infatti, basta guardarsi intorno e rendersi conto che la vastità dell'offerta

formativa ed educativa ha assunto proporzioni vastissime ed inquietanti. Si fa

formazione ed educazione in ogni ambito e si spaccia come tale qualsiasi cosa che

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prevede la trasmissione di una informazione, di una conoscenza, di un esercizio

ginnico, giardinaggio, balli di gruppo, aiuti vari, da una persona all'altra. Si “educano”

gli operai, i manager, i disoccupati, anziani, pazienti di ospedali, infermieri, papà,

mamme, figli, nonni, il cane e il gatto.... Di fronte a questa esplosione educativa senza

precedenti si assiste allo svuotamento della professionalità educativa, l'educazione,

non è un mestiere, è una missione(2). Anche qui, forse sarebbe il caso di ridare dignità

alle cose e chiamarle con i termini giusti. Le scienze umane devono prendere

posizione, non è più sufficiente l'indagine fine a se stessa. Si rende necessario

contrastare quella tendenza ideologica dal chiaro contenuto liberista e reazionario che

si caratterizza con una forte capacità di penetrazione nel tessuto sociale. E fra tutti, il

sapere pedagogico e l'educazione, hanno il compito non più rimandabile del

coinvolgimento diretto per evitare la marginalità del lavoro. Bisogna evitare che il

concetto “risorsa umana”(3), tanto decantato in convegni, congressi, studi, interventi,

normative ecc. rimanga solo uno slogan vuoto e privo di significato reale, ma partendo

di qui, dalle “risorse umane” si può sviluppare un processo di intervento educativo e

formativo capace di coinvolgere le forze in campo ad iniziare dal singolo lavoratore,

passando per le organizzazioni sindacali e di categoria a finire alle forze politiche. La

formazione, può rappresentare uno strumento formidabile per ridare non solo dignità al

_________________________________(2) Mantegazza R., La fine dell'educazione, Città Aperta, Troina (EN) 2005(3) Calaprice S. Pedagogia generale e pedagogia sociale, Laterza Bari 2005

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lavoro, ma può svolgere anche un ruolo dissuasivo alla conflittualità se solo viene

utilizzata nella giusta direzione, cioè per la “buona occupazione”(4), quella libera da

vessazioni, in un ambiente sereno, democratico, in cui il lavoratore è direttamente

responsabile della propria attività in una logica di “lavoro di squadra” caratterizzata

dall'apprendimento continuo sia sul piano delle competenze che sul piano sociale e

umano proprio perchè “risorsa umana” . Vediamo quali caratteristiche fondamentali

essa deve avere. Intanto, deve avere un reale riconoscimento. Parlare di formazione è

come parlare di apprendimento, apprendimento lungo il corso della vita. Succede però

che tale impostazione culturale, benchè molto frequentata nei discorsi dei protagonisti

politici, imprenditori, esperti, ecc. non ha prodotto sino ad ora a risultati e strumenti

apprezzabili in relazione alle aspettative. C'è da aggiungere che l'interpretazione più in

uso della formazione continua consiste nel circoscriverla soltanto alla formazione

professionale cioè esclusivamente all'aggiornamento delle competenze necessarie

all'espletamento delle prestazioni lavorative mentre non valorizza il ruolo strategico

che essa può avere più complessivamente nell'educazione degli adulti. Ciò deriva

dall'annoso ritardo e dalla immaturità del nostro paese nel valorizzare la cultura

dell'apprendimento lungo tutto il corso della vita. Ma cosa significa educazione degli

adulti? La risposta parte da lontano, già nel 1996 nel Libro Bianco della Commissione

__________________________________(4)AA.VV.LaRivista delle politiche sociali,Educare e formare per la buona occupazione,n.4 Ediesse Roma 2006

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Europea si sollecita la necessità di favorire l'apprendimento in ogni età non solo

quello tradizionale, ma anche di “nuove conoscenze tecniche” e di “attitudini sociali”

in direzione della valorizzazione “del sapere acquisito dall'individuo nell'arco di tutta

la vita” Nel “Memorandum del 2000” (Commissione Europea 2000) tale sollecitazione

viene meglio esplicitata e argomentata per cui gli obiettivi della formazione diventano

più ricchi e significativi rispetto a quelli proposti dalle culture economiciste e lavoriste

le quali interpretano l'apprendimento nella età adulta soltanto come aggiornamento

delle competenze professionali da adattare alle trasformazioni tecnologiche e

produttive. Il “Memorandum”, propone invece il concetto di “occupabilità” nel senso

di fornire la possibilità alle singole persone di conseguire quelle conoscenze culturali

e professionali finalizzate non solo al competente svolgimento della professione ma di

acquisire anche la consapevolezza che il mercato del lavoro subisce profonde

trasformazioni. Non si tratta soltanto di trovare e mantenere un lavoro, ma se è

necessario di cambiarlo, anche se per costrizione o necessità e quindi acquisire quelle

abilità sociali e culturali da utilizzare in diverse scelte lavorative. E' in gioco la tutela

dei lavoratori dalla instabilità del mercato nonchè la sua responsabilità e libertà nel

lavoro. In questo quadro la Commissione Europea del 2001 fornisce della formazione

continua la seguente definizione: “qualsiasi attività di apprendimento intrapresa nelle

varie fasi della vita al fine di migliorare le conoscenze, le capacità, le competenze in

una prospettiva personale, civica, sociale e/o occupazionale conseguite attraverso ogni

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tipo di percorso formativo, formale, non formale, informale”. Ne consegue come la

formazione permanente propone anche una nuova idea di “welfare”, volta non solo

alla prevenzione del disagio e della marginalità sociale ma anche al miglioramento del

lavoro e della vita civile. La formazione continua dunque rappresenta una risposta

concreta non solo alla crescita etica e professionale della “risorsa umana” ma come

parte decisiva del nuovo welfare è in grado, tra l'altro, anche di prevenire parte

consistente della conflittualità nei luoghi di lavoro. Tutti coloro che hanno a cuore il

futuro dell'uomo, che in massima parte si concretizza attraverso il lavoro, sono

chiamati a impegnarsi senza esitazioni per guadagnare il terreno perduto, ognuno per

la sua parte, la politica, il governo, parti sociali, ecc. La pedagogia in questo quadro

può e deve avere uno dei ruoli fondamentali cioè quello di elaborare una nuova

cultura del lavoro in cui la risorsa umana abbia giusta collocazione, riconoscimento

professionale e centralità in quanto persona. Agli educatori nella loro funzione di

esperti dei processi formativi spetta il compito di realizzare tale prospettiva. Non è un

compito facile, gli ostacoli da superare sono tanti e di diversa natura, ma noi ci

proviamo lo stesso, non vorrei che qualcuno un giorno dicesse: e tu, dov'eri?

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