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UNIVERSITA DEGLI STUDI "SUOR ORSOLA BENINCASA"

NAPOLI

FACOLTA' DI SCIENZE DELLA FORMAZIONE CORSO DI LAUREA

IN SCIENZE DELL'EDUCAZIONE

TESI DI LAUREA IN

Storia della scuola e delle istituzioni educative

IL SEMINARIO DI SANT'AGATA DE' GOTI Relatore Candidato Ch.mo Prof. Carmela Cesare Giuseppe Fioravanti Matricola 001004015

Anno Accademico 2005 – 2006

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IND IC E

Introduzione

I CAPITOLO

Storia di Sant'Agata de' Goti

1. Dalle origini alla caduta dell'Impero Romano.

2. La Saticula di Tito Livio

3. Sant'Agata durante il Medioevo

4. Sant'Agata e le Signorie

5. Dall'Unita d'Italia al XX secolo

6. Le strutture su cui poggia la vita civile della comunità santagatese

II CAPITOLO

Origine e fondazione del Seminario. Il Fondatore

1. Contesto storico: il Concilio di Trento

2. Trento e Sant'Agata de' Goti. Nascita del Seminario

3. II Seminario nel XVIII secolo

4. La vicenda del Seminario nella prima meta del XIX secolo

III CAPITOLO

Il Convitto Ginnasio nei locali del Seminario

1. Stato e Chiesa nelle prospettive educative del Risorgimento italiano

2. 'Nome Regolamentari pel Convitto-Ginnasio di Santagata dei Goti' 3. Statuto per gli alunni interni del Seminario di Santagata dei Goti'

4. Norme generali, disciplina scolastica, programma didattico

5. I1 Seminario: 1900/1967

CONCLUSIONI

BIBLIOGRAFIA

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INTRODUZIONE

Nei secoli passati il Seminario diocesano di Sant'Agata de' Goti era una delle istituzioni più importanti della provincia beneventana; a Sant'Agata c'era una sola scuola di secondo grado, frequentata da molti ragazzi, anche da quelli che già in partenza sapevano che non avrebbero compiuto gli studi teologici. In questo lavoro ho cercato di ripercorrere le diverse tappe storiche ed educative che hanno ca-ratterizzato la vita dell'Istituto. Nel primo capitolo mi sono soffermata ad analizzare anche la storia del luogo nel quale il Seminario è sorto, ovvero Sant'Agata de' Goti. Sant'Agata ha vissuto tutte le vicende belliche, politiche e religiose che hanno caratterizzato e plasmato il cammino di tutte le popolazioni e le contrade del meridione d'Italia e più partico-larmente di quella fascia interna della penisola che va sotto il nome di Sannio. Cammino che va dall'età pre-romana alla caduta dell'Impero, dalle invasioni barbariche al feudalesimo medieva-le, dalle dominazioni straniere alla formazione dello Stato unitario, dalla esperienza totalitaria fascista alla costituzione della repubblica democratica. Pertanto vari sono stati i popoli che l'hanno abitata e ognuno ha lasciato parte della propria civiltà, dando vita a un patrimonio cul-turale di ampio respiro. Nel secondo capitolo invece, ho trattato della origine e fondazione del Seminario, sofferman-domi ad esaminare gli aspetti educativi e pedagogici nel corso dei secoli. Il Seminario fu isti-tuito nel clima della Controriforma: l'allora vescovo Giovanni Beroaldo (1556-1566) trasferito dalla chiesa di Telese a quella santagatese e reduce dal Concilio di Trento, gettò le prime basi per la costruzione del Seminario. Successivamente la sede venne trasferita nel convento tardomedievale di Montevergine. Grande impulso all'attività del Seminario venne dato da S. Alfonso Maria de Liguori (1762-1775) che ristrutturò ed ampliò l'edificio, tale che un sempre maggior numero di alunni chiedeva di fre-quentarlo. Egli diede ai seminaristi un nuovo regolamento, che ne rinnovava i programmi culturali e lo svolgimento della vita all'interno. Verso la fine del Settecento, il Seminario, negli studi, raggiunse massimo splendore tanto da essere definito: “Liceo dei dotti e la sede di Minerva”. Successivamente, gli altri vescovi che si sono succeduti nel governo della Diocesi santagatese, han-no cercato di svolgere la loro attività per il sempre migliore sviluppo di questo Seminario. Nel terzo capitolo ho illustrato gli ulteriori sviluppi del Seminario: nell'anno 1881, in virtù di un contratto sottoscritto tra l'Amministrazione del Seminario e la Giunta Municipale, nei locali del Se-minario, fu fondato un Convitto-Ginnasio. Furono anche approvati un regolamento e uno statuto che prescrivevano i diversi doveri dei responsabili del Seminario, gli obblighi dei seminaristi, l'accesso al Convitto-Ginnasio, l'organizzazione degli studi e cosi via. Il Sistema d'Istruzione era quello voluto dai Programmi Governativi, al fine di ottenere il pareggia-mento di questo Istituto con quelli del Governo e la licenza conseguita per effetto degli esami soste-nuti nel Convitto, era cosi un documento legalmente riconosciuto per poter poi continuare gli studi. Dunque, ai vescovi era lasciata autonomia nella conduzione dei Seminari, però gli studi in essi compiuti non venivano riconosciuti dallo Stato se non si fossero adottati i regolamenti e i piani di studio previsti dalla legge. Il Seminario di Sant'Agata de' Goti fu uno dei luoghi fra i pia prestigiosi della provincia beneventa-na; bisogna però ricordare che le condizioni di gran parte delle famiglie erano troppo disagevoli per permettere ai loro figli la possibilità di accedervi. Col passare degli anni il numero dei seminaristi andò assottigliandosi e nel 1967 il Seminario fu chiuso. Oggi nei locali del Seminario vi è il Liceo classico statale.

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CAPITOLO I

STORIA DI SANT'AGATA DE'GOTII 1. DALLE ORIGINI ALLA CADUTA DELL'IMPERO ROMANO: LA SATICULA DI TITO LIVIO

Ancora oggi non si ha la certezza dell'origine e fondazione della città di Sant'Agata de' Goti, tutta-via, secondo gli studi storici accreditati essa sorge sul luogo dell'antica SATICULA. Saticula, territorio urbano posto ai confini della Campania e del Sannio, citta aspramente contesa dai sanniti e dai romani durante le guerre sannitiche per la sua peculiare posizione strategica che la metteva in condizione di controllare le falde meridionali del Taburno e l'accesso alle Valli Telesina e Caudina il cui possesso era indispensabile per giungere a dominare il cuore dell'Italia Meridionale. Nella letteratura antica la prima menzione di Saticula, ci giunge da Virgilio, quando narra che: " i Saticulani discesero dai monti per andare a combattere contro Enea sbarcato nel Lazio”. La prima testimonianza in testi storici risale a Tito Livio che narrando le vicende della prima guerra Sannitica del 343 a.c. , scrive: "i due consoli partiti da Roma con due eserciti, Valerio per la Cam-pania e Cornelio per il Sannio, il primo pone gli accampamenti presso monte Gauro, e l'altro pres-so Saticula". Un'altra prova tesa a confermare che Saticula sorge ove oggi è Sant'Agata de' Goti, ci vien data dall'itinerario percorso dal pretore Marcello Claudio durante la seconda guerra punica da Canosa a Nola, al fine di soccorrere quest'ultima assediata da Annibale. Questa è la strada (per agrum saticu-lam) che dovette fare Marcello dopo aver passato il Volturno, vicino Caiazzo, per andare a Suessola e poi a Nola. Un altro riferimento ancora e offerto da Festo Pompeo, nel secondo secolo d.c., che ci dà la certezza della localizzazione di Saticula nel recinto del Sannio prima affermando esplicitamente che: "Sati-cula oppidum in Samnio" e, poi precisando: "in Samnio ad confinia campaniae". Inoltre la ricostruzione della storia della città di Sant'Agata de' Goti, si avvale dei reperti archeolo-gici costituiti dalle necropoli. Gli scavi effettuati verso la fine del secolo XVIII sia da istituzioni borboniche che da privati nelle contrade di Presta e San Pietro (poco distanti dal centro storico), hanno portato alla luce vari bronzi e molti esemplari dei famosi vasi saticulani a figure rosse sul fondo nero che sono conservati in par-te nel museo di Napoli, di Benevento e in musei europei; inoltre una raccolta di vasi, bronzi e mone-te, patrimonio della famiglia Rainone, è tuttora conservata nell'abitazione della famiglia Mustilli, depositaria del materiale storico affidatole dal consiglio comunale, con delibera del 20-01-1903. Sui vasi molto è stato scritto e dato alla stampa dal Sig Cav. Hamilton, ambasciatore della Corte di Londra presso il nostro Regnante Ferdinando IV. La città - fortezza di Saticula giocò, è noto, un suo ruolo nelle guerre sannitiche e puniche. A partire dal IV secolo a.c. , la storia dei Sanniti si intreccia con quella di Roma, a causa di lunghi e ripetuti conflitti tra i due popoli. La prima guerra sannitica nasce dal contrasto per il dominio della Campania, aspramente contesa da ambo i popoli. "I Sanniti dopo aver espugnate le citta di Atella e Calatia, diedero battaglia ai Campani nella pianura di Capua, prostrando gli avversari. I Campani si chiusero nella citta di Capua dove fu-rono assediati. Atterriti si rivolsero ai Romani ai quali fecero volontaria dedizione di se e del territorio. Questo evento segnò l'inizio di un conflitto che durò molti anni, con alterne vicende". L'esercito romano venne affidato ai due consoli M. Valerio e Cornelio Cosso, "il primo scon-fisse i Sanniti presso il monte Gauro, nei campi Flegrei fra Cuma e Napoli; l'altro cadde in

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una imboscata presso Saticula". Riuscì a salvarsi dalla disfatta solo grazie all'astuzia tattica di uno dei tribuni militari P. Decio Mure. Nel 342 fu rinnovato il trattato di pace col quale i Sanniti, rimasti sconfitti, rinunciavano ai loro interessi nella regione dei Sidicini. La seconda guerra Sannitica scaturisce dalla comune tendenza ad espandersi dei Romani e dei Sanniti. Tuttavia fu nel corso di questo conflitto che i romani subirono una pesantissima sconfitta nel tentativo di conquistare Benevento, cadendo in un'astuta imboscata: bloccati in una strettoia vennero in gran parte uccisi o fatti ostaggi riportando uno degli insuccessi più clamorosi della storia romana. I sopravvissuti dovettero passare sotto un gioco di tre lance incrociate, segno di umiliazione e scherno. Questo episodio e ricordato col nome di "Forche Caudine" dal nome della località di Claudio vicina al teatro del combattimento. Cinque anni dopo la vicenda delle Forche Caudine, i Romani fidando sull'alleanza di Canosa e Tea-no, piombarono su Saticula e l'espugnarono. Nel mentre però i Sanniti, occuparono il valico Lentu-lae (tra Terracina e Fondi), passaggio obbligato per le forze armate romane e per i rifornimenti, e batterono nel 315 le legioni affidate al dittatore Quinto Fabio Rulliano. L'anno dopo i romani sconfissero i Sanniti sulla via di Capua, raggiungendo Boiano e rafforzando così le loro posizioni in Campania e nel Sannio. Rimasero occupate e presidiate diverse città tra le quali Saticula. Con la definitiva sconfitta presso Boiano, nel 304 a.c., i Sanniti furono costretti a chiedere nuovamente la pace, che fu accordata a condizioni gravose, infatti, dovettero rinunciare al-la valle del Liri e a ogni ampliamento territoriale, inoltre persero anche le città di Saticula, Lucera e Teano. La pace durò poco più di cinque anni. Nel 298 a.c. ebbe inizio la terza guerra Sannitica. I Sanniti, alleati con gli Etruschi, gli Umbri e i Galli, lanciarono l'offensiva nella valle del Tevere intorno a Roma. Ottennero qualche successo militare ma non riuscirono ad evitare la piena sconfit-ta. La guerra continuò fino al 290 quando Curio Dentato sconfisse definitivamente l'esercito sannita portando nel Sannio il ferro e fuoco. In questa occasione Saticula soffrì la completa distruzione. Dopo cinque anni, il Sannio, anche se devastato dalle milizie di Curio Dentato, ebbe la forza di in-sorgere nuovamente contro Roma, ma venne ancora una volta sconfitto. I Sanniti si allearono con Pirro sbarcato in Italia per combattere Roma nel 280 a.c. "La guerra durò fino al 275 e terminò a vantaggio dei Romani, questi ultimi sconfissero presso Maleven-tum Pirro re dell'Epiro; e alla citta venne allora cambiato il nome in quello beneaugurante di Benevento. Quando Pirro fu cacciato dall'Italia, nel 272, i sanniti furono costretti a sottometter-si a Roma, con un accordo di pace che fu molto più duro di quelli precedenti, a seguito del qua-le dovettero cedere altre zone del territorio e sciogliere le leghe esistenti tra le varie tribù, per-dendo cosi la loro unità interna. Per tenere i sanniti il più possibile a bada, Roma fondò altre due colonie, una a Benevento e un'altra a Isernia, nel 264 a.c. Questa pace decretò la disgregazione dello stato tribale di cau-dium: tutte le citta che vi appartenevano divennero individualmente alleate di Roma compresa Saticula. Tuttavia i sanniti, anche senza i caudini, ancora una volta si schierarono contro Roma in occa-sione della seconda guerra punica, appoggiando Annibale, dopo la battaglia di Canne. "Saticula invece, rimase sempre fedele a Roma, e le diede aiuto in uomini e mezzi, finendo nel numero delle diciotto citta fedeli riportate da Livio”. Quando, nel 209 a.c., Annibale abbandonò l'Italia, i sanniti nuovamente sconfitti, furono co-stretti a rinnovare la loro sottomissione a Roma. Come misura precauzionale e allo scopo di evitare successive riprese di ostilità, i romani costrinsero i sanniti a smantellare le loro posizio-ni montane e a trasferirsi in zone meno imprendibili.

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Per il mantenimento della pace organizzarono nelle varie città gruppi di sostenitori fidati, che in breve tempo divennero la classe egemone. Terminata la guerra annibalica cominciarono le spedizioni punitive da parte di Roma contro le popolazioni che avevano appoggiato Annibale, attraverso un'azione sistematica di distruzioni. Ormai Roma dominava tutta la penisola e andava a ingrossare l'insieme delle città confederate e delle colonie delle varie province. Questa politica finì per accrescere il potere dell'aristocrazia senatoriale a scapito di coloro che andavano sopportando le conseguenze e i costi delle guerre. La situazione diventava sempre più insopportabile e i tempi si presentavano maturi per una svolta. "Insorgevano, ancora una volta, i popoli sottomessi ma i tentativi di rivolta vennero sof-focati. Le sollevazioni provocarono emanazione della legge Sulspicia che equiparava gli Italici delle 35 tribù agli altri cives romani”. La legge portava allo scontro frontale tra i patrizi conservatori e i democratici di Caio Mario. Silla, patrizio romano, marciò con un esercito alla volta di Roma per ripristinare gli antichi pri-vilegi dell'aristocrazia, cacciando dalla citta gli avversari e bloccando la nuova legge. In seguito per esigenze belliche, Silla veniva inviato in Asia, dove Roma combatteva contro Mitriade. Ne approfittava Mario che, con i suoi sostenitori, tornava a Roma dove ripristinava le norme già appro-vate. Era la guerra civile. In questo frangente turbinoso, i Saticulani, erano rimasti neutrali, intenti alla ri-costruzione della città e ad alleviare, per quanto possibile, i disagi. Ma nella lotta tra Mario e Silla sposarono la causa di Mario. Non scelsero però la fazione vincente, perchè Silla, tornato dall'Asia, sconfisse l'esercito di Mario presso Sacriponto. "Silla sottometteva il Sannio ad una continua e sistematica devastazione, con l'intenzione di di-struggere l'intera popolazione fino all'ultimo sannita”. La battaglia di Porta Collina e le terribili conseguenze significarono la fine del Sannio, quale entità autonoma territorialmente e politicamente, incorporato nei domini romani. Il dittatore Silla non fon-dò alcuna colonia nelle terre degli sconfitti ma molti veterani delle sue legioni vennero insediati nel-le terre conquistate del Sannio. Anche i saticulani pagarono duramente la loro avversione all'aristo-crazia romana. Successivamente, nell'età augustea, "Cesare Ottaviano Augusto, intorno al 429 a.c. deduce nel ter-ritorio che apparteneva a Saticula una colonia militare, al tempo del triumvirato”. A seguito della battaglia di Filippi, estintosi il partito repubblicano, i triumviri si divisero il territorio delle province romane. Ottaviano ebbe l'incarico di riportare in Italia buona parte dei soldati veterani da ricompen-sare per i servizi prestati. Allo scopo fondò nelle città più importanti e nei territori più fertili delle colonie per poter assegnare terre e case ai 60.000 soldati rientrati in patria. Il territorio dell'antica Saticula fu prescelto per la sua fertilità e anche perché già sede di precedenti colonie. Dell'impresa coloniale ci dà testimonianza e certezza il marmo che fu scoperto nel 1728 in un muro in occasione della ricostruzione della chiesa cattedrale di Sant'Agata. Per consuetudine i padroni romani costruivano edifici pubblici destinati alla direzione e all'ammini-strazione della colonia e, soprattutto templi ai quali aggregavano collegi di sacerdoti e auguri, per l'esercizio delle pratiche religiose. "La prima preoccupazione dei colonizzatori era quelle della individuazione e della scelta dell'area sulla quale far sorgere l'arx o castrum, cittadella fortificata come l'acropoli greca destinata al culto degli dei e a tutte le altre attività connesse alle operazioni civili e militari”. L'attuale Sant'Agata de' Goti in buona parte conserva tuttora l'aspetto urbanistico romano, attraverso l'articolazione di un tracciato viario assomigliante a un accampamento; negli accampamenti romani si aprivano generalmente quattro punti di entrata in direzione dei quattro punti cardinali. Nella citta è possibile riscontrare quattro porte:

− la prima a sud all'altezza di via Pontevecchio, un piccolo segmento residuale di muro, che si trova

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in via Torrino ci orienta sul tracciato della cinta muraria. Da questa porta si accede alla seconda;

− la seconda a est denominata oggi porta San Marco, attaccata alla costruzione del castello costruito in epoca longobarda;

− la terza a nord che nel medioevo venne chiamata porta de Ferraris. "Essa scrive Rainone veniva chiusa e aperta, non so con quali strumenti, dalla parte superiore ed era tutta di un pezzo". La porta non è più visibile perchè fu demolita per pericolo di scollamento.

− La quarta porta, a ovest è di dubbia collocazione. Inoltre una cinta di mura difendeva la città tutt'intorno con numerose torri rotondeggianti. Questa caratteristica si può ancora riscontrare in via Riello. Il nome che porta di Sant'Agata de' Goti ha fatto credere a molti che essa fosse stata edificata dai Goti, ma "dagli antichi monumenti rinvenuti si ha una dimostrazione evidente che essa esisteva già nel tempo della Romana Repubblica, per cui ne segue che aveva prima un altro nome forse questo nome fu Saticula; e che poi occupata o ristorata o riedificata dai Goti fu chiamata Sant'Agata". 2. SANT'AGATA DURANTE IL MEDIOEVO

a) I GOTI Le continue invasioni barbariche determinarono la caduta dell'Impero Romano d'Occidente nel 476 d.c. Anche Saticula subì le conseguenze della calata dei barbari per poi ricomparire sul quadrante della storia con il nome di Sant'Agata de' Goti. Le popolazioni barbariche si distinguevano in vari gruppi: Vandali, Burgundi, Franchi, Svevi, Goti. I Goti, provenienti dalla Scandinavia, nella seconda metà del secondo sec. d.c. ripartitisi in due rami principali, Visigoti ed Ostrogoti, giunsero nella penisola Balcanica. Gli Ostrogoti, guidati poi da Teodorico, giunsero in Italia e, dopo aver vinto Odoacre e dispersi e uccisi i suoi soldati, costituiro-no uno Stato Ostrogoto con capitale Ravenna. I goti avevano forme istituzionali più evolute rispetto alle altre popolazioni barbariche. "Avidi di gloria mirano a rendere illustre ed immortale il loro nome meditando di distruggere la memoria del Romano Impero per erigerne uno gotico sulle sue rovine, come ci conferma Paolo Orasio". E il Platina in proposito afferma che "Atulfo III, re dei Goti, si portò con un poderoso esercito sotto Roma per raderla al suolo, per riedificarla e chiamarla Gotia. Fu distolto dall'eseguire l'insano dise-gno da sua moglie Placida, sorella dell'Imperatore Onorio". Circa l'anno 472, Recimere, generale goto, ottenne "un luogo in Roma dove vi fece edificare una Chiesa col titolo di Sant'Agata de' Goti, una Chiesa tuttora esistente con lo stesso nome nella Subur-ra sotto monte Magnanapoli in via Panispema; ed un altro luogo nei confini della Campania e del Sannio dove vi fece edificare una fortezza, questo luogo forse fu Saticula". La conquista di Saticula da parte dei Goti va però attribuita a Totila, che discese nel Sannio circa nell'anno 543. "Il Procopio, che scrisse cento anni dopo l'invasione gotica, narra che nel 543, Totila dalla Toscana si portò nella Campania, e indi nel Sannio, dove si impadronì di Benevento (da cui dipendeva S. Agata) e ne diroccò le mura". I Goti divenuti padroni della città le mutarono il nome e "dalla loro Diva tutelare che veneravano gli piacque nomarla Sant'Agata de' Goti". I Goti furono sconfitti definitivamente da Narsete, nel 553 d.c., in una battaglia combattuta alle fal-de del Vesuvio.

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Per quanto riguarda il collegamento tra la Chiesa fatta erigere in Roma e la città di Sant'Agata dei Goti dimostra tuttora in modo incontestabile che i Goti erano devoti della Vergine catanese, tanto è vero che ad essa intitolavano chiese e città. L'appellativo storico "gothorum" dei Goti, conferito alla citta, quasi a voler significare citta rico-struita dai Goti, non si riscontra in alcuno scritto nemmeno nei documenti normanni, svevi, angioini e, neanche nella Bolla di Landolfo nel 970 con la quale viene ripristinata la diocesi santagatese. Es-so appare ufficialmente e variamente trascritto nei documenti ufficiali e nei testi storici soltanto a partire dal XVI secolo con la dizione "De Goctis", "De' Goti" "Dei Goti". b) I LONGOBARDI Cessato il dominio dei Goti sul territorio italico, subentrò quello dei Longobardi; nel 570 una legio-ne longobarda, guidata da Zottone, penetrò nel Sannio dove diede vita nel 571, a un ducato molto esteso tanto da essere definito "Longobardia Minore" con capitale Benevento. Primo duca di Benevento fu to stesso Zottone che mantenne la carica sino alla sua morte, nel 591. Nei suoi anni di governo fu un vero flagello. Il re di allora, Aginulfo, nominò successore il nobile longobardo Arechi il quale governò per circa cinquant'anni. Arechi per facilitare l'amministrazione del ducato, lo divise in oltre trenta gastaldie nelle quali nominò uomini fidati a tempo determinato. Uno di questi gastaldati fu istituito a Sant'A-gata che, dal 568 al 640, fu alla dipendenza del duca di Benevento. "Il gastaldato di Sant'Agata fu affidato ai fratelli Grimoaldo e Rodoaldo, figli del duca del Friuli che si erano rifugiati a Benevento sotto la protezione di Arechi": ce lo assicura la lapide sepolcrale di Madelgrina, moglie di Rodoal-do, che fu sepolta nella chiesa di "Sant'Agata de Marenis". Dal 647 si rinnovano il buio e il vuoto circa le vicende e il governo della città di Sant'Agata, silen-zio che permane fino a circa 1'871. Nell'arco di questo periodo apprendiamo nella Chronica di Leo-ne Ostiense (riportata da Renzi ) che Arechi II, ultimo duca di Benevento nell'anno758, elevò a con-tea il castello di Sant'Agata e vi destinò al governo un suo fedele, con la carica di conte. Nell'anno 871 il conte di Sant'Agata Isembardo, assieme ad altri conti o gastaldi del Sannio, della Campania e della Lucania si ribellò all'Imperatore Ludovico II. Questi si portò alle porte di Sant'A-gata e la cinse d'assedio, obbligandola alla resa. "L'imperatore si riappacificò con il conte ribelle, grazie all'intercessione dell'abate di Montecassino Basacio, che si fermò nella citta ospite nel castel-lo”. Nell'anno 877 figura come conte di Sant'Agata Marino, non si sa se parente di Isembardo. Durante il suo regno, Marino si ribellò ad Aione, duca di Benevento alleandosi col generale greco Teofilatto. Il ducato e con questo Sant'Agata rimasero governato dai greci sino al 895. "Sant'Agata ritornò sotto il dominio longobardo nel 896 quando Guiamaro, principe di Salerno, recuperò Benevento e si pose al governo del ducato. I longobardi detennero il dominio della contea di Sant'Agata ancora a lungo, sino al 1077, con Landolfo principe di Capua. Terminò cosi il dominio dei Principi Longobardi. Nel periodo della dominazione longobarda fu costruito il castello di dimensioni piuttosto modeste. "Nel 970, durante la parabola discendente del dominio longobardo, si verifica un importante avve-nimento storico per il solenne ripristino della Diocesi per effetto della Bolla con la quale Landolfo, Vescovo Metropolita di Benevento, nomina vescovo di Sant'Agata de' Goti Madelfrido"28. c) I NORMANNI In Italia prima dell'anno 1077, arrivarono dalla Francia dei giovani normanni, ottimi combattenti a cavallo. Alcuni di questi si sistemarono presso i potentati meridionali, altri nelle fortezze del Gari-gliano assegnate loro dal Papa.

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"Per proteggersi dai Normanni, il duca di Benevento chiese aiuto e protezione al pontefice Gregorio VII accettando in cambio la signoria papale. Questo evento segnava, dopo cinque secoli, la fine del dominio longobardo nel meridione. Mentre Benevento, insieme ad altri pochi comuni limitrofi pas-sò alla Chiesa; Sant'Agata venne trasferita dal potere dei duchi Beneventani al Regno di Napoli, fondato da Ruggero I. Questi volle che le contee di Sant'Agata e Caiazzo venissero considerate de-manio regio". "I Normanni furono padroni della contea di Sant'Agata intorno all'anno 1066 con i principi di Capua Riccardo I e Giordano I. Con questi il forte castello di Sant'Agata passò dal dominio dei Longobardi a quello dei Normanni. Alla morte dei due principi la citta di Sant'Agata fu ereditata da Rainulfo I. A Rainulfo successe il figlio Roberto I intorno all'anno 1097, chiamato il Pio per la sua sudditanza e obbedienza alla Santa Sede e per aver fondato chiese e conventi. Nel 1125 conte di Sant'Agata è Rainulfo II figlio di Roberto I, anche questi come il padre rispettoso e seguace dell'autorità ecclesia-le. Il papa Innocenzo II e l'imperatore Rotario lo riconobbero conte di Sant'Agata e duca della Pu-glia". "Rainolfo II, che detenne la signoria di Sant'Agata dal 1125 al 1139, sostenne una lunga e aspra lotta con Ruggero, re della Sicilia e suo cognato (avendone sposato la sorella, Matilde) che tentò più volte di occupare Sant'Agata". "Nella lotta tra i due il papa mandò come mediatore Ber-nardo, abate di Chiaravalle, allo scopo di riappacificare i due contendenti. Fallito tentativo, l'abate venne condotto nella fortezza di Sant'Agata, dove ebbe la facoltà di fondare un convento del suo or-dine cistercense, che sorse sulla collina chiamata Pietrapiana, dove c'è ancora qualche traccia dell'abbattuto monastero". Alla morte di Rainulfo II, il re Ruggero si presentò nuovamente alla conquista del Regno di Napoli. Nell'occasione assali Sant'Agata che gli si arrese. Nella CRONICA di Falcone Beneventano si legge che, quando Ruggiero conquistò la città di Sant'Agata ne demolì le fortificazioni e la sottopose al suo dominio. "La contea fu ritenuta da Rug-gero come demanio regio e come tale fu considerata anche dai successori Svevi". Morto Ruggero a Palermo, nel 1152 divenne re di Napoli e, quindi, padrone di questa citta il figlio Ruggero II che la governò fino alla morte avvenuta nel 1154. Non avendo avuto figli maschi il suo regno fu ereditato dalla figlia Costanza, che lo portò in dote nel matrimonio con Enrico VI, di casa sveva. A seguito di questa unione la dominazione normanna si estinse nel regno di Napoli, ed ebbe inizio quella sveva. d) GLI SVEVI Nel 1197 il reame di Napoli fu ereditato da Federico II, che governò per 53 anni. Fu egli l'istitutore dell' università degli studi di Napoli, mirava infatti ad avere un organo statale di grande importanza culturale, capace di sostenere il suo sforzo di centralizzazione del potere. Durante la sua reggenza "la citta di Sant’Agata fu governata direttamente dal sovrano, come demanio regio, presieduta da truppe reali". La reggenza diretta da parte del monarca fu interrotta solo per due anni. Nel 1230, infatti, la contea di Sant’Agata fu in potere del papa. "Nel 1229, 1'imperatore Federico II, tomato da Terra Santa, cercò di recuperare le terre che, in sua assenza, erano state occupate dalla Chiesa, impegnando nella contesa i crocesegnati italiani e tede-schi. A seguito di questa operazione il papa fu costretto a sottoscrivere con l'imperatore un trattato di pace, che sancì la restituzione della città all'imperatore. L' accordo fu stipulato, ma un ostacolo ne tardava l'esecuzione: le città di Gaeta e di Sant'Agata erano rimaste ancora occupate dalle truppe papaline. Col congresso di San Germano del 1232 anche questo ostacolo fu superato con la restitu-zione delle due città all'imperatore". Federico, allora, si recò a Gaeta, che fu dotata di maggiori for-tificazioni, e a Sant’Agata, dove si stabilì una guarnigione al comando di due condottieri crocese-gnati di nome Giovanni d'Afflitto e Tommaso Sasso, nobili di Scala. Questi con degli amalfitani e altri compagni, avevano eretto già due ospedali per i pellegrini, uno in Gerusalemme e un altro in San Giovanni d'Acri. Federico che era venuto di persona a Sant'Agata, espulsi i guelfi papalini che ancora resistevano a

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presidiare il castello, riordinato buon governo della citta e stabilita la guarnigione diede facoltà di poter erigere anche a Sant'Agata un ospedale per i pellegrini che tornavano da Terra Santa. Per il mantenimento della casa di cura e assistenza assegnò molti fondi. L'ospedale rimase di patronato dei cavalieri Gerosolimitani e fu posto sotto gli auspici di San Giovanni Battisti, con la denominazione di ospedale di San Giovanni Gerosolimitano per i poveri pellegrini in Sant’Agata. Ben presto, per-dute le funzioni assistenziali ai pellegrini di ritorno da Terra Santa, l’ospedale fu dismesso. Allora il vescovo di Sant'Agata Giovanni IV chiese al papa Gregorio IX di poter ristrutturare e ampliare l’edificio, per dar luogo a un' opera assistenziale per i poveri, e fondare una Chiesa dedicata alla SS. Annunziata. Il papa, con bolla del 4 maggio 1238, autorizzò attuazione dell'opera. La Chiesa, a seguito dei danni procurati dal terremoto del 1349, venne riedificata, ampliata intorno all'anno 1354, secondo i canoni dell'arte gotica. La struttura ha subito poi nel tempo numerose modifiche. Nel 1591 1'ospedale fu riorganizzato e ampliato grazie al contributo dell' università di Sant'Agata, della duchessa Cornelia Pignatelli, dell'arcidiacono Simone Perna e di altri benefattori, con fina-lità di assistenza agli ammalati e ai poveri. Venne affidato alle premure dei frati Fatebenefratel-li di Napoli, che gli diedero il nome di S. Giovanni di Dio. Nel 1879 il re Umberto I approvò lo statuto organico dell'ospedale, affidato alla congregazione di carità. e) GLI ANGIOINI Nel 1266, Carlo I d'Angiò, chiamato da papa Clemente IV, venne alla conquista del regno di Napoli. "Insediatosi nel reame ebbe particolare cura dei francesi che lo avevano aiutato nella conquista del regno, assegnando loro città, terre e castelli. Tra questi assegnatari vi furono i principi d'Artois, cugini di Carlo che, tra il 1268 e il 1270, ebbero possesso della contea di Sant'Agata". Non si ha certezza sulla durata del loro dominio: si crede che, sul finire del secolo XIV, i d'Artois erano ancora nel feudo di Sant'Agata. L'incertezza è accresciuta dal fatto che la famiglia d'Artois, per ragioni comportamentali e di partito, fu più volte spodestata e più volte riammessa nel possesso. Durante il governo dei principi d'Artois, furono costruiti nel centro della città un Convento e una Chiesa, dedicata a San Francesco d'Assisi. La famiglia d'Artois, che manifestava un'aperta sudditanza al papa, vedeva di buon grado il dif-fondersi della cultura monastica attraverso l'opera dei successori di San Francesco. "Quando Roberto I, re di Napoli, concesse la contea di Sant'Agata alla famiglia Goth, estromise i d'Artois ai quali forse lasciò il solo feudo di Monte Odorisio che, all'epoca, risultava abbinato a quello di Sant'Agata. Morto Roberto I nel 1343, ereditò il regno di Napoli la nipote Giovanna che riportò nel possesso della contea di Sant'Agata la famiglia d'Artois nella persona di Carlo, gran camerlengo, in compenso dei tanti servizi resi allo Stato". Giovanna, nipote di Roberto, aveva sposato Andrea d'Ungheria nel 1333, ma il marito della re-gina venne assassinato nel castello di Aversa strangolato con una corda all'età di 18 anni. Gio-vanna, diciannovenne, sospettata di avere per amante il cugino Luigi di Taranto che sposò nel 1347, fu accusata dell'omicidio. "I nipoti di Carlo d'Artois, Beltrano e Carlo II duca di Terlizzi parteciparono anch'essi all'uccisione. L'assassinio di Andrea suscitò in Europa uno scandalo gi-gantesco tanto che Luigi d'Angiò d'Ungheria annunziò una spedizione punitiva in Italia, riven-dicando inoltre la sovranità sul regno di Napoli. Entrò nel territorio napoletano nel 1347, senza combattere. Giovanna I, per sfuggire alla cattura, abbandonata dagli amici e parenti, si imbarcò assieme al marito per la Provenza, contea che apparteneva ancora agli angioini. Il papa accolse Giovanna ad Avignone come legittima regina e come donna innocente. I fautori dell'assassinio Carlo II e Beltrano vennero a rifugiarsi nel castello di Sant'Agata presso il genitore Ludovico, che aveva ereditato dal padre la contea con un consistente tesoro”. "La città, allora, fu assediata da Caterina, principessa di Taranto allo scopo di appropriarsi del tesoro con il quale avrebbe dovuto finanziare il conflitto contro Ludovico d'Ungheria. Per l'oc-

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casione pose l'accampamento su di una delle colline che circondano Sant'Agata sul lato orienta-le. Comandava le truppe di Caterina il generale Gassone de Foix dal quale quella contrada pre-se il nome di Castrone. Sulla sommità della collina il generale pose delle guardie che potessero spiare i movimenti degli assediati. Dopo alcuni mesi di assedio, Beltrano e Carlo d'Artois per-misero alle truppe della principessa di entrare nella città. Caterina, impossessatasi del castello e del tesoro, fece morire in fondo alla torre Carlo II, mentre Beltrano fu relegato nelle carceri del castello di Melfi, dove, anch'egli trovò la morte". Nel 1348, prima di ritornare in Ungheria, il re Luigi confermò o sostituì, secondo il loro comportamento, i funzionari, i gastaldi, i conti ope-ranti nelle terre del regno di Napoli. In questa ristrutturazione amministrativa si rinnova l'incer-tezza circa i padroni della contea di Sant'Agata. Sappiamo, però, che nel 1370 in essa figura ancora conte Ludovico Artus, figlio di Carlo, stando all'iscrizione scolpita sul tumulo eretto in sua memoria nella Chiesa dei frati minori di San Francesco. Intanto, Giovanna I da Avignone nominò, come successore nel regno di Napoli, il parente Car-lo III Durazzo, con il quale, peò, entrò subito in lotta. Sposatasi con Ottone di Brunwick, nel 1381, ritornò a Napoli per rivendicare il possesso del regno a favore di un altro francese: Luigi d'Angiò. "Carlo III assediò Giovanna nel castello dell'Ovo e fattala prigioniera, la fece uccidere”. "Poi morto Carlo III Durazzo diventò re di Napoli il figlio Ladislao di appena dieci anni che gover-nò sotto la protezione e direzione della madre Margherita". Ma subito il regno si spacca in due: da una parte i sostenitori di Ladislao, dall'altro i fiancheggiatori di Brunwisck, che cerca di richiamare sul trono un altro francese, Luigi II d'Angiò, riuscendo a raccogliere i consensi tra i conti e i duchi del regno. Tra questi figurano Luigi de la Ratts conte di Caserta, Sanfromondo conte di Cerreto, Ludovico Artus conte di Sant'Agata. Dopo una lunga lotta durata circa dodici anni, nel 1399 torna nel regno di Napoli il re Ladislao, sostenuto dalla popolarità della madre e dall'esasperazione gene-rale dei baroni, dei conti dei borghesi e del popolo minuto a causa delle ruberie e delle violenze per-petuate dai mercenari venuti al seguito di Luigi d'Angiò. Nei dodici anni di lotta i d'Artois furono sospesi dal possesso della contea di Sant'Agata. "Nel 1404 il conte di Sant'Agata, Ladislao d'Artois si ribella al re Ladislao che fa arrestare e poi condannare a morte i congiurati per alto tradimento". Si estingue cosi tragicamente la famiglia d'Artois, che aveva tenuto fra tante vicissitudini, il castello do Sant'Agata. 3. SANT'AGATA E LE SIGNORIE

Durante la reggenza di Giovanna I, la signoria di Sant’Agata fu concessa a Pietro Cosso, Signore di Procida, in considerazione dei servizi resi. "Egli venne a stabilirsi a Sant’Agata e, intorno all'anno 1368, fondò nella cattedrale una cappella dedicata a Sant’Agata e Santo Stefano". Estintasi la fami-glia d'Artois, nell' anno 1412, assunse il titolo di conte e prese possesso della città Roberto Origlia, consenziente il re Ladislao. Senonché: " Baldassarre della Ratta, conte di Caserta, rivendicò il diritto di proprietà sulla contea, quale figlio di Isabella d'Artois. Ne seguì un pacifico accordo in virtù del quale la famiglia della Ratta, nel 1428, entrò nel legittimo possesso della contea di Sant'Agata, che rimase di sua proprietà fino al 1479. In quell' anno, con la morte di Francesco VII si estinse, per mancanza di eredi il ramo maschile della famiglia della Ratta. Per linea femminile la contea passò, alla contessa Caterina della Ratta la quale sposò il figlio del re Ferdinando I, Cesare d' Aragone, che assunse il titolo di duca di Sant’Agata. Cesare non ebbe lunga vita, dando occasione a Caterina di sposare in seconde nozze Andrea Matteo d'Acquaviva, che nel 1528 assunse la signoria di Sant'A-gata". "Essendo caduta in disgrazia con l'imperatore Carlo V per ragioni di partito, la famiglia Acquaviva perse i suoi vasti possedimenti. A seguito di queste vicende, circa nell'anno 1530, l'imperatore Carlo

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V concesse il ducato di Sant’Agata a Luigi Ram o Rams, nobile catalano, che lo possedette sino all'anno della sua morte, nel 1561. Successivamente il ducato fu ridato, nella persona di Gian Paolo alla famiglia Cosso che già ne era stata padrona ai tempi di Giovanna e lo detenne sino al 1674, quando si estinse l'ultimo discendente di linea maschile. L'ultima duchessa dei Cosso, donna Giovanna, morì nel 1687 senza lasciare eredi legittimi". Nel 1696 il ducato di Sant’Agata fu devoluto al fisco che lo mise in vendita. "Nella gara, mediante asta, se lo aggiudicò Carlo Marzio Carafa conte di Cerreto e duca di Maddaloni, che ne prese pos-sesso nello stesso anno". La famiglia Carafa detenne il feudo per oltre un secolo, sino a quando Giu-seppe Napoleone, con decreto dell'agosto 1806, abolì il feudalesimo. Infatti dopo la penetrazione delle truppe francesi al comando del generale Chambionnet e l'occupa-zione di Napoli, seguito dell'armistizio di Sparanise del gennaio 1799, viene sancito il possesso del regno di Napoli dai Borbonici ai francesi e conseguentemente la consegna di S.Agata ai nuovi pa-droni. "Il castello ducale, sottratto ai Carafa, fu acquistato dalla famiglia Nuzzo-Mauro di Arienzo; in se-guito, per compravendita venne in possesso del Cavaliere Goffredo Viscardi, figlio di Ludovico, no-to giurista. I successori di Goffredo hanno polverizzato l'unita del castello, riducendolo a un con-dominio". 4. DALL'UNITA D' ITALIA AL XX SECOLO

Con la costituzione dello Stato Unitario, Sant’Agata amministrativamente dalla giurisdizione di Terra di Lavoro passa a quella della nuova provincia di Benevento voluta da Garibaldi e successi-vamente definita nella circoscrizione da Eugenio di Savoia, luogotenente di re Vittorio Emanuele II. Nel confuso impatto con il nuovo Stato Unitario anche Sant’Agata coinvolta nella spirale dramma-tica del brigantaggio ed ha in Cipriano La Gala, detto "il brigante del Taburno", il suo eroe temera-rio, del quale sono ancora vive le tristi gesta al di qua e al di la del Taburno. Dal nuovo governo ita-liano Sant’Agata riceve qualche immediato vantaggio grazie alla costruzione di alcune opere pub-bliche, la pia importante delle quali è un ardito ponte sul Martorano che permette l'avvio di un nuo-vo quartiere residenziale al di fuori della antica cerchia muraria medievale. Ma nulla più. "Ed è così che subisce un primo fortissimo esodo di giovani operai e contadini, emigrati nelle Ame-riche in cerca di lavoro e di migliore fortuna. Come in altre parti del Sud, anche a Sant'Agata ha poi inizio grazie alle rimesse di numerosi emigrati, la formazione della piccola proprietà contadina, la quale però, col passare delle generazioni e col moltiplicarsi delle successioni e delle divisioni, di-viene via via sempre più piccola e meno consistente. Per quanto riguarda gli interventi della cassa per il Mezzogiorno più che alla struttura produttiva della sua economia sono indirizzati alle infra-strutture civili (strade, rete idrica, ecc.) e a qualche Chiesa e palazzo antico da restaurare e rivaloriz-zare sotto il profilo storico e artistico. Quella di Sant’Agata rimane cosi un economia prettamente agricola". Le origini di questo radicato e persistente carattere agricolo dell'economia e della società santagate-se vanno ricercate soprattutto nell'ambiente naturale in gran parte collinare e montagnoso e quindi poco idoneo ad insediamenti industriali; nell'isolamento in cui la carenza di grandi vie di comunica-zione tiene questa comunità; nell'attaccamento profondo e irrinunciabile che tutti apertamente mani-festano alla proprietà della terra; nella convinzione diffusa che un'azienda agricola anche piccola ga-rantisce sempre un minimo di reddito e rende il singolo e la famiglia più libera; nel ricordo di tempi non ancora così lontani da essere dimenticati in cui l'unica ricchezza davvero alla portata di tutti erano le braccia, sempre troppe rispetto alla domanda e per questo mal ripagate e sempre alla mercé di pochi proprietari. Tutti questi fattori, cui tanti altri potrebbero essere aggiunti sia di natura storica sia di natura culturale, non possono quindi non aver condizionato l'insediamento umano e l'assetto

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civile dell'intero comune. Lo squilibrio fra il Mezzogiorno e il resto del Paese continua ad aggravar-si anche dopo il primo conflitto mondiale. Nel periodo fascista, durante il sindacato di Pasquale Nuzzi, anche a Sant'Agata, le squadre del nascente fascismo effettuano "la marcia sulla città”. "I giovani squadristi si radunano nella contrada Bocca e da lì affrontano la salita Rullo per giungere "Ncoppa a porta" ed entrare in città. Sfilano per via Duomo, (ora via Roma), e giunti alla chiesetta S. Lazzaro, ritornano indietro per andare al Municipio dove iscenano una simbolica e composta ma-nifestazione inneggiante alla nascente rivoluzione. Sono capeggiati dal medico Francesco Sacco, molto amato dal popolo per la sua onestà e la sua professionalità. Si rileva un solo episodio violen-to: vien dato l'olio di ricino ad un poveraccio, perché si era espresso poco benevolmente nei con-fronti del fascismo”. Durante tale periodo vengono progettate e condotte a termine importanti opere. Nel gennaio del 1923 viene inaugurato nella parte iniziale del Giro dei Sanniti il "Parco della Rimembranza" per ri-cordare appunto i figli di Sant'Agata caduti nella Grande guerra del 1915-18. Per ognuno di essi vien messa a dimora una pianta di lauro mentre una targa ricorda il nome, il cognome, la data e la località in cui si compi il suo sacrificio. Nell'ottobre del 1935, l'Italia inizia la conquista dell'Etiopia. La schiacciante superiorità di armi e di mezzi consente all'esercito italiano di concludere vittoriosamente l'impresa. Essa apporta un notevo-le anche se temporaneo beneficio al Paese; anche a Sant'Agata infatti tante famiglie avvertono i be-nefici concessi ai volontari partiti per 1'Africa Orientale nella ricerca di "un posto al sole". Successivamente con il secondo conflitto mondiale, la guerra coinvolge tutto il Paese e le prime re-gioni a subirne i tragici effetti sono proprio quelle del Sud. Nella primavera del 1945 con la triste esperienza bellica si conclude l'altrettanto triste esperienza della dittatura fascista. Tra i vari problemi che si impongono all'attenzione vi e quello del Mezzo-giorno e delle sue popolazioni. I contadini più poveri e i salariati, non possono restare insensibili al richiamo della fabbrica e della grande città, dal momento che la terra non sembra assicurargli, occupazione e reddito sufficienti. "Ed ecco che si verifica una seconda ondata migratoria verso il Nord d'Italia e d'Europa, che più del-la prima priva la campagna di braccia e lavoro, lasciando la cura dei campi e degli allevamenti so-prattutto agli anziani e alle donne". E soltanto negli ultimi anni, che il fenomeno dell'emigrazione ha subito un arresto e Sant'Agata lentamente ha cercato di ristabilire l'equilibrio socio-economico. 5. LE STRUTTURE SU CUI POGGIA LA VITA CIVILE DELLA COMUNITA SANTAGATE-SE

Una struttura sociale che riveste un ruolo importante nella società santagatese è la SCUOLA. "La scuola si può definire come una comunità intermedia fra la famiglia e la società, che partecipa alle caratteristiche di ambedue, e che è organizzata artificialmente dall'uomo al fine di: aiutare i ge-nitori ad educare ed istruire i figli; soddisfare il diritto soggettivo all'istruzione di cui è titolare ogni componente il nucleo familiare, attraverso lo sviluppo e l'orientamento della studiositas; usufruire dell'opera di professionisti dell'istruzione riuniti in libere associazioni professionali; consentire a genitori, insegnanti ed alunni la libera e consapevole scelta di una comunità di persone, le quali se-guendo medesimi principi e metodi, abbiano fini, ideali ed obiettivi comuni". Attualmente nel territorio santagatese sono presenti scuole materne, elementari e medie inferiori; per quanto riguarda le scuole di secondo grado vi è l'Istituto tecnico commerciale per geometri e ra-gionieri, e il Liceo-Ginnasio. Nel passato, invece, il Seminario diocesano era una sola scuola di se-condo grado (ginnasio e liceo) di Sant'Agata, frequentata da molti ragazzi, anche da quelli che già in partenza sapevano che non avrebbero compiuto gli studi teologici. Oggi nei locali del seminario c'è il liceo classico statale, frequentato anche dai pochi giovani che si

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apprestano a passare ai corsi di teologia e pervenire quindi al sacerdozio. Nel 1629 il vescovo Diotallevi fondò la "Scuola Pia", ovvero, un'istituzione scolastica per i figli del popolo. Ancora, nel 1881 fu fondato dalla Giunta Comunale composta dai Signori Rainone, Mazzone, D'O-nofrio e Mustilli, l'Asilo Infantile. "Esso funziona nei locali siti a lato occidentale del piano terra di palazzo San Francesco opportunamente adattati e nel 1883 viene riconosciuto ente morale e affidato alle Suore di S. Vincenzo dè Paoli, dette le suore francesi. Viene frequentato dai bambini dai tre ai sette-otto anni ed accoglie alunni ricchi e poveri seduti allo stesso banco. Le suore vi fanno funzio-nare anche un "laboratorio" dove le giovinette apprendono a cucinare, a ricamare, a suonare il pia-noforte". Un'altra struttura pubblica che merita un'attenta considerazione per il ruolo insostituibile ad essa af-fidato nello svolgimento della vita civile di questa comunità è: la STRUTTURA SANITARIA. Ad avere poi un ruolo altrettanto importante è: l’AMMINISTRAZIONE COMUNALE. Sede degli uffici comunali è il palazzo San Francesco ex convento dei frati Francescani. Nel corso dell'XIX secolo, "il potere amministrativo era affidato ad una ristretta oligarchia di nota-bili sempre delle stesse famiglie, spesso imparentate tra loro, che si alternavano nella conduzione politico-amministrativa della città prodigandosi con intelligenza, appassionata ed onesta dedizione a conservare e ad abbellire il vistoso patrimonio artistico-monumentale e paesaggistico e facendo sor-gere opere ed istituzioni intese a migliorare il tenore di vita del popolo peraltro estremamente biso-gnoso. A partire dal 1923, invece, l'amministrazione della città viene affidata ad una serie di commissari prefettizi". E’ soltanto nella primavera del 1976 che l'amministrazione comunale è stata riorganizzata e poten-ziata nel suo organico. Altre strutture sociali presenti nella comunità santagatese sono: i CIRCOLI, le cui finalità sono però quasi esclusivamente di carattere ricreativo. Tra essi vi sono: Circolo Sociale: fondato nel 1880, col titolo di Circolo per artisti e professionisti.

Nacque nei locali dell'episcopio opportunamente ristrutturati e adeguati. In questo locale, specie nelle ore serali, si riunivano i professionisti e i notabili del tempo; per giocare a carte, a bigliardo, leggere il giornale e fare quattro chiacchiere. Il popolino lo chiamava "a casina di signori" e lo guardava con un certo sospetto perché in esso ve-nivano passati alla setaccio non sempre benevolmente le persone e i fatti del giorno. Con il passare del tempo il Circolo è andato democraticizzandosi. Nel suo Statuto è detto che esso è un'associazione che intende perseguire finalità ricreativo-culturali ed assicurare ai soci un luogo di comune ritrovo. Società Operaia di Mutuo Soccorso: fondata nel 1882 nella piazza del Popolo, su iniziativa

del dottore Pasquale Mosera allo scopo di promuovere lo sviluppo culturale dei soci e per po-terli soccorrere nei casi di necessità, in conseguenza di malattie, di inabilità, di disoccupazio-ne, all'insegna del simbolo di due mani incrociate e del motto "Morale, Lavoro, Risparmio".

Comunita di Lavoro: punto di incontro di pensionati e braccianti. Circolo Cacciatori e Pescatori; Circolo dei Ciclisti; Circolo Ricreativo Giovanile; Circolo Fine Europa.

In virtù dell'articolo 26 della legge 3 agosto 1862, in sostituzione della Commissione di Beneficen-za, viene costituita la CONGREGAZIONE DI CARITA', avente lo scopo di venire incontro alla

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classe indigente con i proventi delle Opere Pie comprendenti Chiese e Cappelle. Successivamente con decreto del re Umberto I del 30 marzo 1899 ne viene approvato anche to Statuto Organico. Un'altra struttura portante di questa comunità è la CHIESA. Sant'Agata è sede vescovile dal 970 come si evince dalla Bolla di Landolfo arcivescovo di Benevento "La cura delle anime tanto della città che dei suoi casali, risiedeva presso il Capitolo che l'esercitava per mezzo dei suoi Economi Curati ai quali veniva assegnata una porzione di territorio. Ciascuna di essa aveva una Chiesa, impropriamente chiamata parrocchiale, nella quale i Curati insegnavano la dottrina cristiana ed amministravano i sacramenti ad esclusione del battesimo. Quest' ultimo veniva somministrato nella sola cattedrale che diventava la vera Chiesa parrocchiale, tulle le altre erano a questa soggette e dipendenti". Per ciò che concerne invece l'atteggiamento dei santagatesi nei confronti del clero, esso è stato sem-pre improntato al rispetto e alla familiarità: rispetto per l'autorità religiosa che i sacerdoti rappresen-tavano, familiarità e confidenza per quel che essi sono come uomini e cittadini. ISTITUZIONE E SOPPRESSIONE DELLE PARROCCHIE CITTADINE E DEI CONVENTI

Nei tempi passati, essendo la popolazione di Sant'Agata molto numerosa, vi erano molte Chiese, poi man mano furono soppresse. "Nella prima divisione dei beni delle parrocchie, eseguita da Mons. Nicola da Sant'Ambrogio e rettificata da Mons. Papa nel 1398, la città, insieme alle contrade, aveva diciassette Chiese parrocchiali, oltre al castello di Bagnoli, comune a se, ma governato dal vescovo pro tempore di Sant'Agata". San Menna, abolita come parrocchia quando fu soppresso il convento dei canonici regolari

Agostiniani nel 1575 dal Papa Gregorio XIII; Sant'Agata Sopra la Porta, aveva sede nelle vicinanze della calata di via Reullo. Venne sop-

pressa, come parrocchia, nel 1547 da Mons.Guevara; di questa chiesa si sono perse le tracce; San Marco, collocata probabilmente nella piazzetta delle grazie, in via Riello. La parrocchia

fu soppressa da Mons.Alojsio; San Martino, parrocchia forse annessa al convento dei monaci Cistercensi. Fu soppressa da

Mons. Alojsio; San Donato, la Chiesa fu soppressa da Mons. Guevara nel 1528; San Giovanni in Astraco, probabilmente sorta nelle vicinanze di via Diaz. Fu soppressa nel

1529 da Mons. Guevara; Sant'Angelo in Laiano, soppressa nel 1530 da Mons.Guevara; Sant'Agata de Marenis, probabilmente doveva sorgere tra via Lucchese e Largo Ostieri. Fu

restaurata nel 1497 sotto il governo di Mons. Capobianco e affidata al parroco nella persona dell'arcidiacono della cattedrale;

San Simeone, situata nei pressi di largo Lapati. Fu soppressa nel 1623 da Mons. Diotallevi; San Benedetto, annessa al convento dei frati benedettini, nella zona che ancor oggi, viene

chiamata san Benedetto; fu soppressa nell'anno 1584 da Mons. Diotallevi; Cattedrale; Santa Maria de Futinis, Chiesa situata tra via Diaz e largo Lapati. La sede parrocchiale fu

soppressa nel 1736 da Mons. Danza; San Giovanni a Corte, individuata nella piazza San Giovanni, lungo via Riello, abolita nel

1523 da Mons. Guevara; Sant'Angelo de Munculanis, in piazza Viscardi, lungo via Roma;

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San Bartolomeo de Ferraris, oggi Santa Maria di Costantinopoli, in piazza Trento; San Nicola al Borgo, nella calata di via Reullo, completamente abbattuta; San Tommaso d'Aquino, nel casale che ancora oggi è chiamato San Tommaso.

Nel 1590, durante l'episcopato di Mons. Pelleo, le parrocchie furono ridotte a sette: Cattedrale; Santa Maria de Futinis, soppressa nel 1735; San Giovanni a Corte, soppressa nel 1735; Sant'Angelo de Munculanis; San Bartolomeo de Ferraris,soppressa nel 1735; Sant'Agata de Marenis, soppressa nel 1735; San Nicola al Borgo, soppressa nel 1735.

Nel 1736, con Mons. Danza, le parrocchie nell'interno del centro furono ridotte a due: Cattedrale; Sant'Angelo de Munculanis;

I CONVENTI

Nell'area meridionale tra la Cattedrale e il Castello si sviluppano ampie aree conventuali. In Sant'Agata nei tempi passati esistevano molti conventi, molti di essi poi furono soppressi tuttavia la loro presenza, aveva influito sulla diffusione di alcune devozioni legate al culto mariano. Il clero regolare, non mancò di esercitare un ruolo incisivo nei vari settori della vita civile, econo-mica, e religiosa. Convento di San Menna: "dopo i Rocchettiani, canonici di San Giovanni in Laterano, fu tenu-

to dai frati Agostiniani dell'Ordine di Sant' Agostino. Partiti gli agostiniani, il convento fu in-corporato al Collegio della nazione scozzese in Roma, amministrato dai Gesuiti. L'edificio monastico è oggi adibito ad abitazione di privati cittadini".

Convento dei Benedettini: "il monastero, che portava il nome di San Gabriele de Morola dell'Ordine di san Benedetto, fu costruito nel borgo delle immediate vicinanze della città visi-bile tuttora dalla piazza Torricella. Del monastero si osservano ancora i resti, adattati ad abita-zione.

Grancìa di Agnone: "dell'esistenza della grancìa benedettina di Agnone siamo assicurati dalla concessione fatta dal conte Roberto a favore dei canonici di San Giovanni in Laterano dell'Ordine dei Rocchettiani, chiamati al disimpegno delle funzioni sacre nella chiesa di San Menna. Il monastero doveva attestarsi nello stabile dell'attuale masseria che e chiamata tuttora Agnone; di proprietà della famiglia Mongillo che ha fatto restaurare la cappella, dedicata al Salvatore.

Convento dei Verginiani: "fu fondato intorno all'anno 1346 dal vescovo Giacomo Mortone, di origini santagatese. Fu soppresso con Bolla del Papa Innocenzo X. In seguito la sua struttura venne inglobata nella costruzione del Seminario vescovile. Del convento rimane la chiesa, sotto il titolo di Madonna di Montevergine. Oggi il complesso del Seminario è adibito a scuo-la. Dalla chiesa lo spazio antistante è chiamato, nella tradizione popolare, piazza Montevergi-ne.

Convento dei Francescani: "nel 1222, frate Francesco d'Assisi, di ritorno dal pellegrinaggio da Terra Santa, di passaggio per la città di Sant'Agata si adoperò a fondare un convento per i suoi fraticelli fuori dal centro abitato. Il convento fu edificato fuori le mura, a oriente della citta, su un fondo che i frati ebbero in dono e che, in seguito prese il nome di San Francesco vetere. Il

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monastero, essendo poi diventato obiettivo di gente malavitosa, fu soppresso. Ne venne co-struito uno nuovo, all'interno della fortezza nel luogo detto "lo quadro di Sant'Angelo". Nel 1802, per le conseguenze della rivoluzione francese, l'Ordine dei Minori Conventuali fu sop-presso e tutto il complesso monastico, con la chiesa, fu devoluta al comune. Lo stabile, chia-mato oggi palazzo San Francesco è diventato sede degli uffici comunali".

Convento dei Carmelitani Scalzi: "il vescovo Adelardo, intorno all'anno 1060, fece edificare, nel recinto della citta, un tempio in onore della SS.Vergine della Misericordia. Alla chiesa, in seguito fu annesso un convento tenuto dai Carmelitani Scalzi. La chiesa cambiò titolo e fu chiamata Santa Maria del Carmelo". Il tempio, che ha dato il nome alla piazza del Carmine, è oggi adibito a museo diocesano. Lo stabile conventuale, rimasto integro, serve da abitazione a privati cittadini.

Badia di Santa Sofia: "fu prima monastero delle religiose Brasiliane e, in seguito, dei monaci Cassinesi".

Badia di San Lorenzo a monte: "fu costruita sulla collina Pietrapiana e retta dai monaci Ci-stercensi. La chiesa e convento furono abbattuti e di essi non resta alcuna traccia".

Convento dei monaci Fatebene Fratelli: nel 1591 l'università di Sant'Agata, con l'aiuto dei be-nefattori, ampliò le strutture dell'ospedale già esistente a lato della chiesa della SS. Annunzia-ta, allo scopo di assistere gli ammalati e i poveri. L'organizzazione e la direzione sanitaria fu-rono affidate ai Fatebene Fratelli dell'Ordine di San Giovanni di Dio. Essi, per loro comodo e necessità, ottennero la costruzione di un edificio conventuale, attaccato al lato destro della chiesa dell'Annunziata.

Convento dei fratelli delle Scuole Cristiane: nel 1629 il vescovo Diotallevi fondò una istitu-zione scolastica per i figli del popolo. Allo scopo adattò un ampio palazzo, capace di ospitare le pubbliche scuole. Affidò l'organizzazione ai fratelli delle Scuole Cristiane che crearono un piccolo convento nello stesso edificio, nel luogo che fu chiamato Scuola Pia.

Convento con annessa chiesa denominata Santa Maria di Costantinopoli: Sin dal principio del secolo XVI, questa chiesa era tenuta da una congregazione di fedeli sotto il titolo delle stim-mate di San Francesco. Verso la fine dello stesso secolo Mons. Pellei vi aprì un conservatorio di donzelle, e vi chiamò da Aversa la prima superiora Suor M. Teresa Folgore, che vi intro-dusse 1'Istituto del Terzo Ordine. Dismesso questo conservatorio, Mons. Albini pensò di fon-darvi un nuovo monastero di sana pianta. Venuto poi al governo di questa diocesi Mons. De Liguori, ne approfittò di questo locale per introdurvi le Religiose del suo Istituto. Di fatto, ot-tenute le facoltà necessarie fece venire dalla citta di Scala tre religiose coriste. Tre giorni dopo il loro ingresso nel monastero, vi pose la Clausura, e fu denominato: il Monastero delle Reli-giose del SS. Redentore. Dalla sua fondazione questa Casa Religiosa fioriva, di giorno in giorno per numero ed esemplarità secondo lo spirito del suo fondatore. Ma come vennero i tempi nuovi, mediante le leggi sovversive dello Stato contro gli Ordini Monastici, doveva es-sere chiuso. Tuttavia grazie ad alcuni Padri Redentoristi questo Monastero fu rivendicato a prezzo legale. Oggi tale Istituto, sia per l'attenta osservanza delle regole, sia per il buon ordine delle cose, sia per la pietà delle religiose, può servire di specchio e di modello ad ogni altro monastero della diocesi.

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CAPITOLO II ORIGINE E FONDAZIONE DEL SEMINARIO.

IL FONDATORE

1. Contesto storico: il Concilio di Trento Il Seminario di Sant'Agata de' Goti fu fondato da Giovanni Beroaldo reduce dal Concilio di Trento. Concilio di Trento XIX concilio ecumenico della Chiesa cattolica, che, in reazione alla Riforma protestante, deliberò una riforma generale del corpo ecclesiastico e ridefinì i dogmi. Riforma e Concilio divennero il programma del papato di Paolo III; egli comprese che: "se il papato voleva arrestare la disgregazione in atto della Chiesa, doveva liberare le forze riformatrici per op-porre radicalmente la riforma cattolica alla riforma protestante". Un primo provvedimento disciplinare fu la ricostituzione del tribunale dell'Inquisizione romana per scoprire le infiltrazioni di eretici in Italia, "la prassi del tribunale dell'Inquisizione sotto Paolo III fu all'inizio mite, perciò si limitò a punire l'introduzione di libri protestanti . Più importante la decisione di rafforzare la volontà di riforma della curia romana mediante la nomi-na di cardinali capaci e competenti: "Gaspare Contarini che aveva assistito, in qualità di ambasciato-re di Venezia presso l'imperatore, all'esordio del luteranesimo; Gian Pietro Carafa, cofondatore dei teatini ed energico sostenitore di una linea severa; Giacomo Sadoleto umanista finissimo; Girolamo Seripando, che in qualità di legato aveva avuto modo di conoscere la situazione del mondo tedesco; Marcello Cervini, più tardi divenuto papa, tenace assertore del concilio; Giovanni Morone, che ri-troveremo tra i legati del concilio, fine diplomatico; i canonisti Guidiccioni, Sfondato e Ghinucci". Nel 1536 venne insediata una commissione di otto cardinali, che circa sei mesi dopo poté presentare al papa Paolo III un Consilium de emenda ecclesia che indicava come radice dei mali presenti nella Chiesa l'esasperazione del centralismo papale e il fiscalismo di curia. Il più grave abuso della Chiesa pretridentina venne ravvisato nell'inosservanza dell'obbligo di residenza del vescovo nella diocesi di cui era titolare e nel cumulo di benefici che vanificavano quell'obbligo: "molti vescovi non avevano mai visto la loro diocesi che facevano amministrare da vicari per lettera, ricevendo pe-raltro i proventi della mensa vescovile"79. Il merito maggiore di Paolo III fu la tenacia con cui seppe superare ogni difficoltà per radunare il concilio. L'apertura dei lavori avvenne a Trento nel dicembre 1545; ma soltanto nel giugno 1546 arrivarono numerosi prelati, questi erano in maggioranza italiani e spagnoli. In questa prima fase si discussero le norme procedurali. Venne deciso di affrontare congiuntamente sia i problemi legati alla riforma della curia sia i problemi dogmatici. "Il primo importante decreto approvato riguardava le fonti della Rivelazione, De sacris scripturis: fu confermato lt canone, ossia l'elenco dei libri che formano la Sacra Scrittura, da considerare come parola di Dio. Il canone comprende tutti i libri dell'Antico e del Nuovo Testamento. Con pari rive-renza vengono accettate anche letradizioni apostoliche riguardanti la fede e i costumi, conservate per successione ininterrotta dalla Chiesa cattolica. La traduzione in latino della Bibbia, risalente a San Girolamo, venne giudicata "autentica", ossia esente da errori dogmatici, ma si fecero voti per-ché venisse attuata una revisione del testo”. " Il secondo decreto, De iustificatione, riguardava il problema della giustificazione, ovvero della santità. Esso definisce la gratuità della giustificazione in tutti i suoi stadi; la necessità della fede e dei sacramenti; la possibilità del merito da parte dell’uomo e la vita eterna come grazia e come re-munerazione”. "Il decreto successivo, sull'obbligo di residenza dei vescovi fu tormentato. I vescovi spagnoli ave-vano proposto che l'obbligo di residenza fosse riconosciuto di diritto divino, cosicché neppure il pa-pa potesse dispensare dall'obbligo e le autorità civili fossero distolte dall'uso di affidare a vescovi

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incarichi politici"82. Fu confermato l'obbligo di residenza, ma considerato di diritto ecclesiastico e quindi suscettibile di dispensa papale; venne altresì vietato il cumulo di benefici, e quindi di diocesi, e stabilito il diritto di visita del vescovo in tutte le istituzioni ecclesiastiche presenti sul territorio della diocesi. Dopo un'interruzione provocata da una profonda incomprensione di natura politica tra Paolo III e Carlo V, la seconda sessione del Concilio, convocato nuovamente dal neoeletto papa Giulio III, ri-volse la sua attenzione soprattutto ai sacramenti. "I canoni approvati fissarono il numero dei sacra-menti, sette, affermando che erano stati istituiti da Cristo non solo per rafforzare la fede, ma anche per l'efficacia intrinseca dei segni che operano ciò che significano".

La riforma della curia romana era di gran lunga la più attesa nella Chiesa. "Nell'autunno 1550, Giu-lio III richiamò a Roma i cardinali più capaci e decisi a operare in questo senso: Morone, Pole e Cervini"84. Si attendeva da un momento all'altro la pubblicazione di una bolla papale contenente i decreti del concilio già approvati, le norme per la riforma della curia e una riforma dei principi per stabilire su nuove basi i rapporti tra la Santa Sede e gli Stati. La bolla non fu pubblicata perché nel 1555 Giulio III morì. Il gruppo dei cardinali riformatori riuscì a far nominare papa uno di loro, Marcello Cervini, che conservò il suo nome, Marcello II ma dopo pochi giorni morì. Nel corso del successivo conclave fu eletto il cardinale Gian Pietro Carafa, Paolo IV da papa, stre-nuo sostenitore della riforma cattolica, ma anche noto per il carattere impetuoso e per la dichiarata ostilità nei confronti della Spagna e di Carlo V. Sotto il suo pontificato, la lotta contro l'eresia fu condotta con estrema decisione e si avvalse di ogni mezzo a sua disposizione: l'Inquisizione, 1'Indice dei libri proibiti, rogo degli eretici. "Per quanto riguarda 1'Indice il papa fece riferimento a un catalogo di libri ritenuti contrari alla fede e alla morale, pubblicato dall'università di Lovanio, ma superandolo in rigore; anche l'Inquisizione romana ricevette un ordinamento che la rendeva un tri-bunale della fede e dei costumi, tanto severo da mettere in prigione un cardinale benemerito come Giovanni Morone". Paolo IV mori nel 1559 senza lasciare buon ricordo di se: "se le intenzioni erano state le migliori, i mezzi impiegati furono troppo drastici". Il nuovo papa Pio IV abbandonò la prassi decisionistica del predecessore, tornando allo stile di Pao-lo III e Giulio III . Il concilio si riunì di nuovo a Trento nel gennaio 1562 e vi prese parte anche 1'episcopato francese. La terza sessione del concilio dibatté prevalentemente questioni disciplinari, in particolare il pro-blema irrisolto della residenza episcopale, da molti considerata la chiave di volta della riforma ec-clesiastica. "Nel luglio 1563, il concilio decise di respingere la dottrina protestante circa i vescovi senza pro-clamare il primato papale e la sua inerranza in tema di dogma e morale. Poiché si stava discutendo il sacramento dell'ordine, venne decretato che il sacerdozio neotestamentario era stato istituito da Cri-sto e si ribadì la distinzione fra i tre ordini maggiori (presbiterato, diaconato, suddiaconato). Di no-tevole importanza l'obbligo fatto ai vescovi di istituire nelle loro diocesi un Seminario per la con-veniente formazione e istruzione dei futuri sacerdoti. Infine venne affrontata la discussione circa il sacramento del matrimonio, conclusa con tre decreti: il primo proclamava il matrimonio un vero sa-cramento istituito da Cristo; il secondo proclamava la sua indissolubilità; il terzo riaffermava il di-ritto della Chiesa a introdurre le clausole impedienti e dirimenti"87. Venne introdotta la forma tri-dentina del matrimonio da celebrarsi davanti al parroco competente e a due testimoni, preceduto dalle pubblicazioni e con l'obbligo di trascrizione in un apposito registro che si affiancava ai registri dei battesimi e dei decessi. II decreto generale di riforma conteneva: "le norme di procedura per la nomina dei vescovi, il modo

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di condurre l'inchiesta sulla loro idoneità, per la celebrazione dei sinodi provinciali e diocesani, per l'obbligo di visita pastorale dei vescovi, per i capitoli delle cattedrali e per il conferimento a concor-so delle parrocchie". Nell'ultima sessione furono affrontati i temi del purgatorio, del culto dei santi e delle reliquie, della venerazione delle immagini e delle indulgenze. Venne deciso di rifare l'Indice dei libri proibiti, di riformare il Messale e il Breviario e di compilare un Catechismo a uso dei parroci, affidandone al papa la redazione. Infine furono letti tutti i decreti e i canoni, chiedendo ai padri conciliari di sotto-scriverli. La convalida orale dei decreti avvenne già nel gennaio 1564 e quella scritta, mediante la bolla Benedictus Deus, nel giugno successivo. Con il 1° marzo 1564 iniziò l'applicazione pratica dei decreti: "il papa obbligò i vescovi dimoranti in Roma a tornare nelle rispettive diocesi per iniziare le visite pastorali; gli ordini mendicanti inizia-rono l'adattamento delle loro costituzioni ai decreti conciliari; poi fu pubblicato il nuovo Indice dei libri proibiti; infine fu concesso l'uso del calice ai laici in sei province ecclesiastiche della Germa-nia, dell'Ungheria e della Boemia. Il papa cominciò a mettere ordine nella curia cominciando dal tribunale della Rota, fu poi la volta della penitenzieria, della camera apostoli-ca, della dataria". Il concilio di Trento ha acquistato importanza fondamentale per la storia della Chiesa. Da una parte ha delimitato il patrimonio della fede cattolica nei confronti dei protestanti: per quanto riguarda il primato papale e il concetto di Chiesa per allora non si poté arrivare a una decisione dogmatica per-ché perduravano profonde differenze sul piano teologico colmate solo nei concili Vaticani I e Vati-cano II; dall'altra furono poste solide fondamenta per effettuare la riforma cattolica, divenuta realtà nel corso dei successive decenni: gli abusi gravi erano stati rimossi. Il rinnovamento si espresse attraverso uno zelo religioso e un fervore di carità rinnovati al servizio degli umili e dei sofferenti da pane del clero secolare; in tal senso si distinse Carlo Borromeo arci-vescovo di Milano, diventando quasi il simbolo della Chiesa rinnovata. Realizzò un'ampia attività legislativa radunando undici sinodi diocesani e sei sinodi provinciali; per la formazione del clero istituì un grande seminario diocesano, splendidamente dotato; per arginare le infiltrazioni protestan-ti nelle valli svizzere, fondò il seminario elvetico; essendo la diocesi troppo vasta, istituì dodici de-canati, ciascuno affidato a un commissario di sua fiducia; chiamò i gesuiti e i teatini perché aprisse-ro collegi e scuole; promosse le scuole della dottrina cristiana; inoltre assistette la popolazione in occasione di epidemie e pestilenze, migliorando l'assistenza ai malati".

Con il concilio di Trento, "la Chiesa di Roma ha acquistato una maggiore consapevolezza della pro-pria funzione educativa ed ha dato vita ad una significativa fioritura di congregazioni religiose fina-lizzate in maniera specifica ad attività di formazione non solo degli ecclesiastici, ma anche dei gio-vani rampolli dei ceti dirigenti". Orsoline, Barnabiti, Somaschi, Scuole Pie: si proposero tale obiettivo. Ma è soprattutto l'ordine reli-gioso dei Gesuiti, fondato da Sant'Ignazio di Lojola nel 1540, che sviluppò un organico sistema d'i-struzione che si affermò in maniera capillare su scala mondiale e che si pose a fondamento della scuola moderna, laica e statale. 2. Trento e Sant'Agata de' Goti. Nascita del Seminario. Il concilio di Trento apri una nuova stagione nella storia dei rapporti fra Chiesa e Stato. Le istituzioni diocesane post-tridentine, avevano gradualmente mutato il loro ruolo, con la conse-guente perdita di ogni potere di iniziativa, finendo con il configurarsi come anello intermedio di una catena gerarchica, tra centro e periferia. I vescovi divennero la figura-simbolo del Concilio stesso, non solo sulla base della loro maggiore o minore "presenza" in diocesi, ma ancora di più sulla base del ruolo che essi stessi vollero, seppero o, ancor meglio, riuscirono a ricoprire.

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Il 30 dicembre del 1563, il papa richiamava vescovi e cardinali all'obbligo di risiedere in diocesi, un obbligo che mal si conciliava con gli impegni, sia di carattere politico che diplomatico, che molti di essi svolgevano a Roma. Indubbiamente un ruolo importante giocavano il cumulo dei benefici, una diffusa mondanizzazione del clero, gli abusi legati alle nomine, ma anche tutto un insieme di fattori direttamente dipendenti dall'ordinamento civile ed ecclesiastico. Quindi, "una serie di impedimenta di vario genere fungeva da freno all'azione pastorale dei vescovi, dove, fra l'altro, non bisogna di-menticare il forte peso esercitato dalla fiscalità papale, con un drenaggio di denaro diocesano che era andato sempre pia assumendo un carattere coloniale e che aveva finito con l'incidere, non poco, sull'alto tasso di assenteismo dei vescovi dalle loro sedi". Tuttavia erano proprio le Chiese locali a divenire protagoniste attive o passive della realtà post-tridentina, dove tutto era affidato alla maggiore o minore capacità dei vescovi di far leva sulle forze in loco, sulle istituzioni presenti nelle proprie diocesi, senza divenire soltanto pedissequi di norme provenienti da Roma. Nella celebrazione del Concilio di Trento, fu decisa l'istituzione di Seminari al fine di "professiona-lizzare" il clero, di arginare la corruzione attraverso norme precise, divenendo cosi uno dei canali privilegiati per la formazione del futuro sacerdote. Nel 1563, al momento della chiusura dell'assise tridentina, sedeva sulla cattedra santagatese Gio-vanni Beroaldo, nobile palermitano, traslato dalla Chiesa di Telese a questa sede il 1° ottobre 1556. Da vescovo di Sant'Agata nel 1557, "fu destinato da Paolo IV giudice nel Tribunale Concistoriale col siciliano Francesco Rabiba che ivi si doveva trattare per procedere alla fulminazione delle cen-sure contro Carlo V e il re Cattolico Filippo II suo figlio, sotto la presidenza del Cardinale Annibale Bozzuto Arcivescovo di Avignone, e del Cardinale Guglielmo Sirleta, celebri per la dottrina e sa-pienza"93. Beroaldo fu versatissimo in ogni genere di letteratura sacra e profana; e per la sua pro-fonda dottrina e vasta eloquenza si guadagnò la stima e l'affetto di più sommi Pontefici. " Interven-ne al concilio di Trento e cola fece ammirare la sua sapienza come ci attesta il cardinale Sforza Pal-lavicino"94 . Reduce dal concilio tornava a Sant'Agata portando con se uno spirito e una volontà di cambiamento, comuni a tanti altri vescovi che avrebbero dato vita vita ad una vera e propria prima-vera post-conciliare. I problemi con i quali Beroaldo era chiamato a confrontarsi erano quelli in cui da lungo tempo si dibatteva la Chiesa: impreparazione e corruzione del clero, ignoranza dei fedeli in materia di fede, difficoltà connesse sia alla tutela dei beni ecclesiastici, sia al controllo da parte ve-scovile della miriade di luoghi pii di giuspatronato laico. Già a pochi mesi dal suo insediamento Beroaldo aveva emanato una serie di capitoli sinodali in cui era costante il richiamo nei confronti del clero ad osservare sempre un comportamento consono al suo stato, a rispettare l'obbligo della residenza, a controllare la manutenzione dei luoghi di culto. Ebbe l'idea di fondare un Seminario, allo scopo acquistò con proprio danaro, da un certo Giuseppe delle Cave, una casa che si trovava nelle vicinanze dell'episcopio adattandola nel miglior modo pos-sibile all'uso prefisso. Non è nota la data precisa della fondazione. Certamente esisteva già nel 1569, poiché a quell'anno risale il documento più antico che ne fa menzione. " Detto Sac. Seminario, non si sa quando ebbe principio; mentre non vi si trovano scritture antiche, eccetto che dall’anno 1569 a questa parte, per lo che quando si può considerare che avesse avuto principio dal tempo che fu promulgato il Sac. Concilio di Trento”. Nella sua origine il Seminario non aveva rendite ma si manteneva con le congrue dei benefattori. "Con altre entrade non si manteneva, se non che con le congrue, che corrispondevano il Capitolo, Cleri, Arcipreti, Rettori e beneficiati della d.a citta di Sant'Agheta e sua Diocesi e con quello che si perveniva dalle tasse, che si facevano ogni anno; per le rendite di d.i beneficiati si mantenevano i figli in esso, e si pagavano il Maestro di scola” Fu poi il Perretti che meglio basò il Seminario in allora nascente. Dal Pontefice S. Pio V fu creato

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vescovo di questa Diocesi nel 1566 e dallo stesso fu decorato di Sacra porpora nel 1570 e ritenne questo vescovado fino al 1572. Nel 1585 fu eletto sommo Pontefice con ii nome di Sisto V. "La storia Civile parlando del suo pontificato non ebbe parole adeguate nel magnificare la fermezza, l'integrità, e la vigile disciplina del suo governo. Fu l'uomo di Dio in tempi difficili; e mediante lo zelo e la sua fermezza poté mettere un argine a tanti disordini civilireligiosi"97. Per quanto riguarda il Seminario di Sant'Agata, cominciò a dargli assegnamenti certi aggregandovi dei benefici semplici di sua libera collazione. "Nel 1570 Mons. Perretti, Vescovo di S. Agata e Cardinale, volendo dare un assegnamento certo al Seminario con sua Bolla dei 6 ottobre detto 1570 vi uni dei benefici”. Nonostante ciò anche il Seminario di S. Agata segui la sorte di tanti altri istituiti nella seconda meta del 1500 costantemente alle prese con problemi di natura economica. Difatti, alla fine del 1500, 1'Istituto ospitava 12 alunni, istruiti nella grammatica e nella musica, ma il numero dei convittori andava man mano assottigliandosi per la scarsità delle rendite assegnate sino a scendere a 4 unità. Tuttavia: " Mons. Ninguarda, dell'Ordine dei Predicatori e maestro in sacra teologia, restaurò le stanze del Seminario, ne ingrandì i locali e ne accrebbe le rendite con annessarvi nuovi benefici". Per cui, agli inizi del 1600, il numero degli alunni tornò a quota 10 con l'ammissione di convittori disposti a mantenersi integralmente a proprie spese. Nel 1621 il vescovo Diotallevi ne decretò la chiusura poiché solamente 2 alunni erano in grado di versare un contributo annuo di 12 ducati men-tre, per il mantenimento dell'Istituto, ne occorrevano almeno 200 e il clero si rifiutava di versare la tassa a benefici. Per poter ottenere almeno un piccolo contributo Mons. Diotallevi ridusse la tassa al 1,50%. Soltanto in questo modo, nel giro di pochi anni, gli fu possibile riaprire l'Istituto. "E le congrue che pagavano il Capitolo, Clero Arcipreti, Parroci e Beneficiati di d.a Citta e Diocesi si vede che pagavano alla ragione del cinque percento e poiche nell'anno 1621 vi furono alcuni seminaristi a pagare per parte di detto Sac. Seminario si consparse nella Cor-te Vescovile di S. Agheta, dalla quale non tutti i beneficiati furono condentati a pagare a ragione del 5%: come si vede da una sentenza data sotto il 2 ottobre 1621, e poi con altro decreto sotto il 22 dicembre 1622, fu moderata alla ragione d'uno e mezzo percento”. Successivamente, le rendite dei conventini dei Verginiani di Sant'Agata, dei Girolamiti di Durazza-no e degli Agostiniani di Arpaia, soppressi nel 1652, da Innocenzo X, furono assegnate al Semina-rio, ma con delle clausole. "Nel 1652 furono dalla Santità di Innocenzo X di felice ricordo soppressi i tre Conventi, cioe il Convento di Montevergine di questa citta, del B. Pietro da Pisa nella terra di Duraz-zano, e di S. Agostino in Arpaia, e nel 1653 a relazione e parere di Mons. Campanella Ve-scovo di S. Agata furono applicate ed incorporate tutte le rendite di beni stabili, fabbriche e Chiese dei tre Conventi al S. Seminario, coll 'obbligo di deputare tanti Cappellani a questi Conventi, i quali ne soddisfacessero il peso delle Messe, ed aiutassero i parrochi, special-mente nella Confessione e si contribuissero a detti Cappellani ducati 40, come appare dal decreto emanato in Roma sotto la data di 22 luglio 1659. Il Mons. Ordinario nella S. Visi-ta unì ed annessò a questo Seminario li detti ducati 40 che si contribuivano al cappellano di Montevergine con peso che il Rettore del Seminario doveva amministrare il Sacramento della confessione e portare il peso di celebrare ducati 5 di messe annue nella Chiesa di Montevergine, e che da seminaristi si abitasse almeno per 6 mesi di ciascuno anno in que-sto Convento e vi si recitasse da essi l'ufficio in tutte le feste dell'anno. Il che fu tutto ap-provato a suppliche del Mons. Della Congregazione dei Vescovi come appare dal decreto dato in Roma nel 1662. Sono interceduti altri decreti rispetto al Convento del B. Pietro da Pisa in Durazzano e di S. Agostino di Arpaia. Dipendono dal Seminario nella terra di Du-razzano le case, la Chiesa, i territori nella forma, come li descriverò di fatto, ma con peso che il Seminario contribuisca agli Economi del Corpo di Cristo, ducati 22 per celebrare messe. Le rendite del Convento di S. Agostino in Arpaia venivano tutte riscosse dalla col-

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legiata del luogo". Tuttavia, la situazione economica del Seminario non aveva registrato sostanziali miglioramenti. Un «mare di continui bisogni» non aveva mai consentito di poter mantenere un insegnante di filoso-fia e di altre discipline umanistiche. Infatti alla fine del XVII secolo non esisteva ancora uno studio di legge, ne di teologia morale o scolastica; tutto era affidato unicamente all'iniziativa dei vari mae-stri. Il «Modello del Progresso» consisteva nell'apprendere appena i primi rudimenti della lingua latina e nello «sgrassare» la grammatica; uomo di «gran progresso» era considerato colui che fosse in gra-do di spiegare una lettera dei Santi dal breviario romano. A completare il quadro già di per se precario, contribuiva la disorganizzazione della gestione patri-moniale; la mancanza di una platea dei beni non aveva mai consentito una regolare esazione delle rendite, effettuata sempre alla «cieca», per cui i debiti accumulatisi avevano ulteriormente peggiora-to le condizioni di vita dei seminaristi. Basti pensare che i convittori dovevano provvedere da se a procurarsi un letto, la biancheria, i vestiti, e che il Rettore, privo di stipendio era costretto a vivere fuori del Seminario senza avere, la possibilità di attendere la riforma dei costumi e incamminare i seminaristi nel santo timor di Dio. " Gli alunni son tenuti dalla proprie case portarsi i vestiti, procurarsi il letto, ed altre bianche-rie. Il Seminario ha di uso spendere per ciascun seminarista per vitto quotidiano alla ragione di grano, sale, olio, lardo, armati quanto basta, vino una caraffa per ciascheduno al giorno, di cacio mezzo rotolo per uno al mese, come anche di fare tutte le altre spese straordinarie. Risiede nel Seminario il Maestro di Scuola col peso di fare la scuola di Grammatica, e riceve lo stipendio a ragione di ducati 50 annui per rata di mesi insieme colle spese cioè ducati 4 per la pietanza e due caraffe di vino al giorno, un rotolo di cacio e 3/4 di tomolo di grano mese per il pane. Il rettore ha il peso di esigere tutte le paghe del Seminario e le mesate dei seminaristi, di fa-re la raccolta, conservare tutte le vettovaglie, dippiù impiegare anche del denaro suo per causa, che non si faceva a tempo, e non è sufficiente non risiedere nel Seminario; e non so-lo non ha le spese, ma nemmeno un piccolo stipendio, e cosi il rettore, non può attendere alla riforma dei costumi, ne incamminare i seminaristi nel santo timor di Dio. ne può dar regola allo stato Economico, poiché l'è d'uso consegnare il denaro del grano, giornali, ecc. e tutto ciò che vi appartiene al vitto quotidiano anticipare al maestro. Il Modello del Progresso e l'essenza del profitto del Seminario consisteva, che gli alunni avessero appreso i primi rudimenti della lingua latina, appena sgrassata la grammatica ed altro esercizio non si faceva. Era stimato per uomo di gran progresso colui che sapeva spiegare una lettera dei santi nel Breviario romano; eccetto però certi tempi, che alcuni maestri perché virtuosi, per loco genio grati oltre la grammatica hanno imparato altre eru-dizioni e fatto apprendere i buoni costumi. Non vi era studio né di Filosofia né di Legge, di Teologia morale o scolastica. Nelle predi-che si faceva sempre la parte degli ascoltanti perché non si attendeva alla retorica. Poi la mancanza di una platea dei beni, non aveva mai consentito una regolare esazione delle rendite, effettuata sempre alla cieca, per cui Seminario si e trovato sempre in una sorta di debiti” Durante l'episcopato del Circi si era deciso di annettere alla costruzione originaria i locali del sop-presso convento di S. Maria di Montevergine ad esso adiacente. Il terremoto del 1688, però era giunto a lesionare buona parte dei vani restaurati. E cosi anche l'esperienza vissuta dal Seminario di Sant'Agata de' Goti nel suo primo secolo di vita

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non era stata dissimile da quelli di tanti altri, fatta di difficolta economiche, di carenza di strutture e di personale. 3 IL SEMINARIO NEL XVIII SECOLO Il XVIII secolo è il secolo della «riscoperta» delle aree più rurali del Mezzogiorno e della maggiore attenzione prestata al miglioramento della catechesi. Formazione del clero ed educazione dei fedeli divengono sempre più assi portanti dell'azione episcopale, in una simbiosi marcata di controllo so-ciale e religioso. E, sulla scia dei cambiamenti in atto, la diocesi di Sant'Agata Goti troverà in Sant'Alfonso Maria de' Liguori (1762-1775), l'interprete ideale della sua realtà e delle sue contraddizioni, capace di trovare per esse risposte concrete sul piano della pastoralità. Agli inizi del 1700, la diocesi ritrovò nell'Albini una guida accorta e solerte. Infatti, rimasta negli ultimi otto anni precedenti la designazione dell'Albini priva di una guida pastorale, la vita diocesana sembrava aver subito uno sbandamento. II clero aveva assunto comportamenti non sempre leciti, la popolazione non disdegnava di ignorare i dettami della Chiesa in materia di vita religiosa e le auto-rità locali avevano spesso trascurato impegni assunti precedentemente, volti a garantire il funziona-mento di scuole pubbliche e di organismi assistenziali. I ventitré anni dell'episcopato Albiniano (1699-1722), furono caratterizzati da un impegno costante per il miglioramento della vita religiosa e morale all'interno della diocesi. Clero, fedeli, autorità divennero i suoi interlocutori e per ciascuno di essi cercò di trovare la via più giusta per un approccio diretto o mediato, ma teso, comunque, sempre a ribadire il ruolo di controllo della Chiesa sulle istituzioni. Naturalmente, le prime attenzioni furono rivolte al clero, nel duplice intento di riformare «l'uomo esteriore» e di perfezionare la preparazione dottrinale, in modo che es-so potesse divenire stimolo ed esempio per i fedeli. Nel suo programma di rinnovamento della dio-cesi, gli ecclesiastici erano giustamente considerati un tramite tra Chiesa e popolazione e, in quanto tali, dovevano svolgere nel miglior modo possibile la loro opera. Da qui scaturiva tutta una serie di raccomandazioni rivolte a quella frangia del clero a più diretto contatto con i fedeli, come i parroci e i predicatori. L'Albini guardò con particolare attenzione al clero impegnato nell'educazione catechi-stica e nelle scuole come a un canale privilegiato di approccio alle comunità. Le competenze del vescovo nel campo dell'istruzione andarono, però, ben al di là di un interesse circoscritto all'ambito di educazione prettamente religiosa. Il Seminario e la Scuola Pia di Sant'Aga-ta divennero durante l'episcopato albiniano, due punti di riferimento obbligato per coloro che vole-vano accostarsi allo studio delle discipline umanistiche, tanto più che fino al 1713 il Seminario aprì le sue porte anche a studenti esterni. Inizialmente il Seminario viveva grazie alle quote corrisposte dal capitolo e dal clero diocesano, pe-rò, nel corso degli anni, erano divenute sempre più insufficienti a garantire un regolare svolgimento della vita all'interno dell'Istituto. A partire dal 1706, la situazione cominciò a migliorare grazie an-che ai finanziamenti elargiti dallo stesso Albini "accrebbe le rendite, migliorò le istruzioni aumen-tando numero dei maestri, eresse un nuovo refettorio, una nuova cucina, due nuove sale, una cantina ampliata, un nuovo dormitorio per i convittori più anziani". Inoltre coinvolse nel suo progetto di risanamento del Seminario gli economi delle maggiori Chiese e Cappelle della città e li tassò sulla base delle rendite di ciascuna di esse. Da quel momento l'ente cominciò a rinascere sotto il costante controllo dell'ordinario. L'Albini, infatti, non solo fece completare i lavori di ristrutturazione del complesso, ma riuscì anche ad assumere insegnanti di diritto canonico, retorica, filosofia e teologia. Nel contempo obbligò il Rettore a risiedere nel Seminario e a compilare una platea dei beni. "Fu creato Vescovo di questa citta Filippo Albini, giunto dalla citta di Benevento. Questo buon Prelato per por fine ai disordini per applicare opportuni rimedi ha impresso nei cuo-

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ri di tutti viva la speranza dell'ottimo suo governo, coll'aver dato principio in procurare il decoro della Chiesa, l'esattezza dei divini uffici, e adoperato alla riformazione dei costumi con vigore, ma con pastorale zelo e molto più col buono suo esempio. Ha ordinato che si facesse da tutti gli Economi e Rettori, l'inventario di tutti i loro beni. E per ora ha obbligato a risiedere nel Seminario Rettore, ed in più ad apprendere il vivere cristiano. Ha cercato poi di introdurre i maestri della Retorica, Filosofia, e Teologia” L'Albini fu il primo vescovo santagatese ad avvertire la necessità della tutela dei documenti. Avendo rinvenuto l'archivio della sua curia in disordine, "le scritture mal disposte, confuse e logore, sul riflesso che le scritture formano la base del buon andamento delle cose, e la sicurezza dei diritti della mensa, capitolo, parrocchie e chiese tutte; fece venire da Rieti il sacerdote D. Giov. Francesco Colapauli, al quale affidò l'incarico del riordinamento delle scritture dell'archivio, della redazione degli inventari ed indici, onde conoscere a colpo d'occhio le scritture". In pochissimo tempo la curia ebbe non solo un locale appositamente costruito da adibire ad archi-vio, ma anche repertori dei manoscritti e dei libri, ordinati e catalogati. Nel 1713 il numero dei seminaristi era salito da 21 a 40 e potevano essere finalmente osservate le Regole per lo buono governo del sacro Seminario, elaborate nel 1706. Egli era stato indotto a scriverle poiché gli era stato impossibile rintracciarne delle precedenti. Per l’Albini, gli alunni, dovevano divenire 'fiaccole che illuminano la diocesi". Nelle Regole espliciti sono i riferimenti in merito all'accesso al Seminario, all'organizzazione degli studi, alle competenze del Rettore e del personale direttivo e ausiliario. La preparazione spirituale, lo studio e la disciplina rappresentavano i punti di forza di tutta l'orga-nizzazione. Alla prima era dedicata una particolare attenzione nel corso di tutta la giornata, scandita dal ritmo delle preghiere individuali e comunitarie e culminante nel momento dell'incontro eucari-stico. "Dovendo i seminaristi esser fiaccole che illuminino le diocesi, si ricorda loro essere dili-genti e parsimoniosi negli esercizi di devozione che si praticano nel Seminario. L'orazione mentale apriva la giornata, ad essa seguiva talvolta, la conferenza spirituale e sempre l'ascolto della messa. La fase mattutina veniva completata dalla recita degli uffici divini. Dopo la ricreazione, il vicerettore dedicava mezz'ora alla lettura di un libro spiritua-le, commentata poi dai seminaristi. La recita del vespro e della compieta precedevano lo studio serale. L'esame di coscienza e la meditazione sul tema dell'orazione mentale del mat-tino successivo chiudevano la giornata. Il direttore spirituale, in genere un lettore di filoso-fia morale, avrebbe dovuto proporre, sia nei giorni antecedenti che in quelli successivi al-la comunione, temi di riflessione ad essa attinenti”. Allo studio dei classici latini (ai seminaristi era vivamente raccomandato l'uso del latino durante tut-ta la giornata, ad eccezione del momento della ricreazione), si affiancava quello del Galateo di Monsignor Della Casa, con la sua applicazione pratica. Le regole di Monsignor Della Casa doveva-no essere osservate soprattutto durante i pasti; nel mangiare, ad esempio, era prescritto, fra l'altro, il "rispetto della pulizia che concerne alla civiltà" ed era vivamente raccomandato che lo sguardo di ciascuno si posasse unicamente sulle "sue vivande senza curiosità d'osservare quello del vicino o degli altri” Per introdurre allo studio dei riti sacri, l'Albini adottò il libro scritto dal Riceputi, edito a Benevento nel 1705 nella tipografia arcivescovile e dedicato ai seminaristi di Sant’Agata de' Goti. Nell'Regole per il Seminario traspaiono la stessa fermezza e decisione mostrate dall'Albini nelle normative rivolte al clero. Castighi, mortificazioni, erano sempre in agguato per ogni più piccola trasgressione e sarebbe bastato, ad esempio un commento negativo sul cibo servito in refettorio per essere espulsi dall’Istituto.

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Allo stesso modo, ossessiva risultava l'attenzione riservata al rispetto della "modestia" e di conse-guenza, al controllo dei rapporti interpersonali. Requisito essenziale per conseguire la modestia era " una speciale custodia dei sensi, particolar-mente occhi, lingua e orecchie" Su tutto e su tutti vigilava il Rettore pronto a "istruire, correggere, premiare" al fine di contribuire alla formazione di un tipo di sacerdote in grado di disciplinare se stesso e gli altri. Fu detto che "il suo capitolo è un collegio di dotti, quasi tutti laureati in Sacra Teologia o in ambe le leggi. Tutte le iniziative e gli interventi dell'Albini avevano avuto come scopo i1 recupero della vita dioce-sana nello spirito del Tridentino. In quest'ottica non potevano mancare normative specifiche rivolte ai fedeli; il vescovo ribadì la consacrazione delle festività attraverso la frequenza alla messa, l'ascol-to della parola di Dio. Ma il programma albiniano di coinvolgimento dei fedeli raggiunse il momen-to culminante nel 1712, quando "il vescovo ottenne l'elezione di S. Menna a patrono della diocesi, il santo più caro alla tradizione popolare"113. S. Menna diveniva terzo protettore della citti di Sant'A-gata de' Goti (dopo S. Stefano e S. Agata) e primo della diocesi. Nell'ottica della pastorale da lui perseguita, durante il suo episcopato Sant'Agata de' Goti visse uno dei periodi di maggiore vitalità artistica, proprio grazie ai contatti da lui mantenuti con vane mae-stranze romane e napoletane. "Fu l'Albini, infatti a chiamare a Sant'Agata, Lorenzo Fontana, Anto-nio Passani, Giovan Battista Antonini, commissionando loro opere nelle maggiori chiese della cit-tà. Impegno e tenacia contraddistinsero l'operato dell'Albini nel suo intento di rinnovamento mora-le e culturale del clero e dei fedeli. Nel 1723, fu proclamato vescovo della diocesi di Sant'Agata, Muzio Gaeta, nobile patrizio napoletano e fratello germano di D. Carlo Gaeta, presidente del sacro consiglio, e consigliere di Sua Maestà Carlo III Borbone. Durante il suo episcopato "accrebbe le rendite del Seminario collo smembramento di parte delle rendite delle pingui arcipreture di Dugen-ta e Bagnoli; ed unì allo stesso pio luogo circa 20 tra legati pii, e benefici vacati per morte di D. Gennaro de Santoro, canonico di S. Giovanni maggiore di Napoli". Nel Seminario si contavano circa 50 alunni, numero che andò costantemente aumentando, infatti, durante l'episcopato di Flaminio Danza (1735-1762) si raggiunsero le 60 presenze. Si osserva che l'interesse che si veniva a creare intorno al Seminario andava crescendo nel tempo. Nel 1762 veniva nominato vescovo della diocesi di Sant'Agata de' Goti, Alfonso Maria de Liguori, acclamato da ogni classe sociale con un entusiasmo di viva esultanza; patrizio napoletano, grande scrittore in ogni ramo di scienze sacre, fondatore di un ordine, porta gran nome di santo presso tutto il napoletano e fuori. Sant'Alfonso prestò fin da subito la sua energica mano alla Chiesa travagliata da attacchi interni ed esterni, e si prodigò per migliorare le condizioni spirituali e le sorti materiali del popolo. II suo ca-rattere positivo lo orientò verso i problemi più immediati della vita dei credenti, scossi nella fede e nelle certezze tradizionali da nuovi movimenti culturali e religiosi, soprattutto l'illuminismo, che minava alle fondamenta la fede cristiana, e il giansenismo, sostenitore di una dottrina della grazia che, invece di alimentare la fiducia e animare alla Speranza, portava alla disperazione o, per contra-sto, al disimpegno. Grande amico del popolo, al quale insegna che tutti sono chiamati alla santità, ognuno nel proprio stato, Sant'Alfonso si circondò di ecclesiastici e di laici di ogni ceto, sesso ed età, ovunque organiz-zandoli innumerose associazioni: degli Operai, dei Gentiluomini, dei Chierici, dei Missionari Diocesani, delle Donne Cattoliche, della Gioventù Femminile, delle Scuole Pie e altre ancora. Infatti, profondo conoscitore dei cuori e delle esigenze delle diverse realtà sociali, voile un'assisten-za materiale e spirituale adeguata alla particolare natura di ognuna di esse. Si dedicò in modo parti-colare ai ceti pia umili, compiendo innumerevoli missioni nelle campagne e nei paesi rurali e prodi-gandosi in un intenso apostolato nei quartieri più poveri di Napoli, dove organizzò, le Cappelle Se-

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rotine116, frequentate assiduamente da artigiani e da "lazzari", cioé dal popolo minuto, che si radu-navano la sera, dopo il lavoro, per due ore di preghiera e di catechismo. L'opera ebbe una rapida dif-fusione e diventò una scuola di rieducazione civile e morale. La scelta preferenziale per i poveri non significava trascurare la parte più abbiente della popolazione, dal momento che "ultimo" è chiunque si trova in pericolo di perdersi o per povertà materiale o per povertà spirituale ed intellettuale. Nel 1732, desiderando evangelizzare con più efficacia le popolazioni del Mezzogiorno, specialmen-te quelle più abbandonate e più sprovviste di aiuti spirituali, fondò a Scala, la Congregazione del Santissimo Salvatore, poi denominata del SS. Redentore, allo scopo vincendo l'ostilità di intellettua-li e di uomini di governo, che non volevano sentir parlare di nuovi ordini religiosi proprio mentre operavano per la soppressione di quelli già esistenti. Nel 1762, a sessantasei anni, pur conservando la carica di rettore maggiore della Congregazione, accettò l'incarico di vescovo della diocesi di Sant'Agata de' Goti. La sua nomina a vescovo si pose, fra l'altro, in un momento in cui giunsero a maturazione lunghi processi di trasformazione in ogni settore, e si avvertì in maniera più forte l'esigenza di recepire quanto elaborato dalla cultura illumi-nistica in merito all'impegno politico, religioso e sociale. Vecchi equilibri sembravano ormai vacil-lare sotto l'urto delle riforme avviate in più Stati e a Napoli il giurisdizionalismo sembrava rinvigo-rire i suoi attacchi contro Roma. Infatti nel Mezzogiorno il giurisdizionalismo napoletano post-tridentino aveva svolto un'azione antitetica rispetto alle usurpazioni, alle interferenze, agli abusi e al fiscalismo ecclesiastici nel tentativo di contenerli. Ma è con l'avvento di Carlo di Borbone e con l'affermazione della politica tanucciana che esso riprese con vigore maggiore di quanto non fosse avvenuto in passato i suoi attacchi alla manomorta ecclesiastica, alla pletora del clero, ai privilegi fiscali detenuti dalla Chiesa, facendone altrettanti motivi su cui puntare l'attenzione in vista di una riforma più generale dei rapporti tra Stato e Chiesa. I vescovi meridionali erano costretti a muoversi nell'ambito di normative statali che, pur senza voler rigidamente regolare la vita religiosa e l'attività pastorale, finivano, comunque, con il contrapporre il potere laico a quello ecclesiastico, dando ori-gine a lunghe e continue vertenze di carattere giurisdizionale. "Ciò accade soprattutto nelle zone ru-rali dove la forte presenza di giuspatronati laici rendeva ancora più difficile e complicato l'interven-to vescovile"117. I sinodi erano ormai supercontrollati dal potere statale e lo stesso de Liguori si ve-drà costretto a ricorrere agli editti ed alle notificazioni in sostituzione dell'assise sinodale da lui de-siderata. Tuttavia nell'ottica Alfonsina, Chiesa e società civile avrebbero dovuto compenetrarsi superando ogni tipo di conflitto e di interferenza reciproci. Inoltre in base alla molteplice esperienza personale si era reso conto della situazione concreta di gran parte dei Seminari nel Regno di Napoli nel Settecento. Nelle riflessioni utili ai vescovi aveva sottolineato che: «soltanto un Seminario ben regolato, avrebbe potuto costituire la santificazione della diocesi, altrimenti ne sarebbe stato la rovina». "Si sforzò di elevare il tenore spirituale e culturale dei Seminari, tenendo presenti, con opportuni aggiornamenti, le norme emanate nel 1563 dal concilio di Trento. Si ispirò soprattutto agli orienta-menti pastorali di San Carlo Borromeo e non esitò ad opporsi alle correnti laiciste del suo tempo e al letargo dei Seminari non aggiornati negli studi letterari, filosofici e teologici e nei sistemi forma-tivi". Per quanto riguarda il Seminario di Sant'Agata de' Goti, Alfonso gli riservò una particolare atten-zione, concepì una vera e propria rinascita dello stesso, nell'ottica di un reale indottrinamento del clero. "Decise di costruirlo ex novo in modo che potesse comportare comodità e decenza ai docenti e agli alunni; per l'esecuzione dei lavori affidò l'incarico agli architetti napoletani Pietro e Salvatore Cimafonte, impegnando ingenti somme di denaro anche con l'aiuto del Sovrano. Fece alloggiare temporaneamente i seminaristi in alcuni locali dell'episcopio, consentendo loro di continuare ad usufruire soltanto del vecchio refettorio”. I seminaristi trovarono nel nuovo vescovo un vero pater familias, il quale poco dopo l'arrivo in dio-cesi si dedicò alla stesura delle Regole per lo Seminario di Sant'Agata de' Goti, scritte con ogni

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probabilità nell'estate 1762. Precedentemente, nel 1756, era apparso a Napoli un suo Regolamento per li Seminari, nato dal desiderio di imporre una disciplina ed un controllo rigido all'interno degli stessi; dal momento che la vita all'interno dei seminari sia sul piano spirituale, che scolastico, che disciplinare, lasciava molto a desiderare. S. Alfonso mirava ad una riforma profonda e duratura, una riforma che potesse servire anche da modello ad altri istituti dello stesso tipo. A realizzarla non potevano però bastare le semplici esortazioni orali e alcune direttive isolate; fu per questo che compose un regolamento organico, nel quale fissò le idee che era andato maturando sulla formazione seminaristica, durante tanti anni di esperienze e di riflessioni. "Questo Regolamento di 43 pagine traumatizzerebbe oggi per la chiusura al mondo esterno, per una certa fissazione sulla «modestia» e per l'abuso di sorveglianza e di correzione, anche se quest'ultima e «alfonsiana», cioé opportuna, segreta e piena di amore. Ma era pratico in maniera sbalorditiva, permetteva di riprendere in mano decisamente la selezione dei candidati, gli studi e la pietà, soprattutto operava una rivoluzione copernicana: solo cinque pagi-ne alla fine erano dedicate agli obblighi dei seminaristi, mentre le altre ai doveri del vescovo, a quelli del rettore e del prefetto. "Se un seminarista va male, la colpa può essere anche sua, ma se tut-to un Seminario va male, allora le cause sono certamente nei quadri dirigenti, perchè lo sviluppo armonico di un uomo, di un sacerdote, come di un fiore, e un problema di clima e di terreno. Perciò, per Alfonso, la responsabilità era dei responsabili”. Le Regole per lo Seminario di S. Agata de' Goti, invece, anziché passare in rassegna i diversi do-veri dei responsabili del Seminario, si articolano in tre capitoli: 1) Degli Esercizi ordinari de' Seminaristi per tutto l'anno: con molto spazio per la meditazione, il SS. Sacramento (messa con comunione libera, visita) e la Madonna (piccolo ufficio, rosario, litanie, visita, letture); ognuno doveva attendere agli esercizi appartenenti alla sua scuola; ritiro mensile e annuale; proibizione delle flagellazioni. La vita era tanto umana quanto fervorosa con otto ore di sonno, quattro ricreazioni quotidiane e un giorno di vacanza la settimana; ed infine la lettura a tavo-la sulla vita dei santi e storia della Chiesa. 2) Dell'osservanza de' seminaristi circa le virtù: MODESTIA e ONESTA nei gesti, nei pensieri, negli sguardi. "Si guardino i seminaristi dal dire parole immodeste, che se mai la parola fosse ancora scandalosa, questa non passerà senza castigo notabile, come di frusta, di digiuno in pane ed acqua, o simile. E se in tal difetto alcuno ricaderá sa-rà licenziato dal Seminario. Si guardino similmente di leggere o di tenere romanzi, poemi od altri libri che parlano d'amor profano. Si guardino poi di far burle di mano con toccarsi l'un con l'altro. Ognuno dovrà sedere nel luogo assegnatogli dal rettore, così nella scuola come nella mensa. E at-tenda ognuno con somma cautela alla modestia degli occhi, con tenerli bassi non solo nella Chiesa e nella Cappella, ma anche nelle strade e nel refettorio, guardandosi di mirare alcuno oggetto che pos-sa essergli di tentazione. Infine, nelle uscite in campagna i seminaristi non alzino la sottana, né fac-ciano danno o altra insolenza, e perciò tutti stiano sempre a vista del prefetto e vicini, in modo che egli possa vedere e sentire quanto essi fanno e dicono". La virtu del SILENZIO, è da osservarsi, nella cappella, nella scuola, nella mensa, nei corridoi ed anche nelle camerate fuori della ricreazione dopo pranzo e cena, particolarmente quando si fa lo studio camerale; ancora nei luoghi abitati, quando si esce dal Seminario. "Alla virtù del silenzio non solo si appartiene il non parlare, ma anche il parlar bene, quando conviene parlare. Ciascuno all'in-contro si guardi dalle parole incivili come dal tu e dal chiamare i compagni con soprannome di di-sprezzo; si astenga poi dalle parole ingiuriose. Quindi ognuno sopporti con pazienza, senza rispon-dere, qualche parola di disprezzo, che gli venisse detta dai compagni. Chi si risente e non sa soffrire una parola di queste, da segno di riuscire poco buono ecclesiastico; che se mai taluno si vedesse poi troppo molestato dal compagno e non avesse la virtù di soffrirlo, potrà avvisarne il rettore perché quegli ci rimedierà. Inoltre avverta ognuno a non manifestar fuori le cose che avvengono in Semina-rio, come le penitenze date agli altri, le contese, i disturbi o altri sconcerti accaduti, perché possono far perdere presso la gente di fuori il buon concetto che si aveva del Seminario".

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Applicazione allo STUDIO, "attenda ciascun seminarista a studiare quanto piò. Sarà una cosa trop-po ingiusta il voler stare in Seminario a perdere tempo; e per studiare con merito avanti a Dio, ognuno si prefigga il fine di farsi santo e far santi gli altri". L'UBBIDIENZA alle regole, al vescovo e ai superiori. Circa il RITIRAMENTO, "nei tempi stabi-liti dalle regole tutti stiano ritirati nelle loro camere, dalle quali nessuno può uscire senza licenza del prefetto. A nessuno poi è permesso entrare in cucina, nella dispensa o nel refettorio fuori dal tempo del pranzo o della cena. E nell'uscire dal Seminario tutti si porteranno prima in Chiesa a cercar la benedizione al SS. Sacramento e l'aiuto per non commettere difetti in quell'uscita”. DEVOZIONE alla Vergine. L' insieme di queste virtù costituivano i cardini su cui ciascun seminarista santagatese avrebbe do-vuto impostare la sua vita. 3) Delle incombenze particolari degli Officiali del Seminario: rettore, prefetto generale, prefetti par-ticulari. Il rettore: "avrà pensiero di assegnare il luogo, dove ciascun seminarista dovrà tenere il letto nella camerata e dove dovrà sedere nella scuola e nella mensa. Assegnerà poi i luoghi ove dovranno an-dare i seminaristi, quando escono in campagna a divertimento. Nella sera antecedente al giorno di vacanza egli farà il catechismo o lo farà fare per mezz’ora in cappella; e nel sabato sera farà un ser-moncino sopra la bellezza delle virtù. Dopo il sermone un figliuolo per ciascuna camerata leggerà la nota dei difetti che ha veduti commettere dai compagni, indi il rettore farà l'ammonizione contro tali difetti, specie contro quelli più frequenti, e darà gli ordini opportuni per riparare agli sconcerti acca-duti. Inoltre il rettore usi rigore e fortezza in procurare che dal vescovo siano licenziati gli incorreg-gibili e gli scandalosi". Il prefetto generale o sia prefetto dei corridoi: "avrà cura dei seminaristi quando escono dalle came-rate per andare alla cappella, alla scuola, alla porta o a parlare al vescovo o al rettore; egli deve gira-re spesso per li corridoi, che non debbono lasciarsi senza custodia d'alcuno. Assisterà ai barbieri, calzolai, sarti e parenti dei figlioli quando vengono in Seminario in modo da evitare ogni disonore. Egli avrà dunque una sopraintendenza generale circa tutte le osservanze del Seminario e di tutte le inosservanze delle regole o degli ordini dei superiori, e di tutti gli altri sconcerti che accadono, ne avviserà rettore e, quando bisogna, anche il vescovo". I prefetti particulari invece: "devono far eseguire le regole e tutti gli ordini particolari del vescovo e del rettore ed far ubbidire a segni comuni. Il profitto o il rilasciamento del Seminario per la maggior parte da essi dipende. E vero che facendo i1 loro uffizio come debbono, si concilieranno contro l'a-nimosità di alcuni, ma bisogna che o si licenzino dal Seminario o che facciano quel che debbono, se non vogliono rendersi rei avanti a Dio della ruina della comunità, giacche il vescovo ed il rettore non possono sempre assistere ai seminaristi come assistono i prefetti, e perciò non possono rimedia-re ai disordini e scandali che accadono, se i prefetti lasciano di riferire le mancanze che vedono. E così, mancando essi di riferire ai superiori i disordini, è certa la ruina del Seminario". In quanto al formale del Seminario, Mons. de Liguori volle dunque riformare le regole e regolare anche gli studi. Per l'educazione degli alunni e convittori di questo Seminario. Sant' Alfonso, attendeva con sommo zelo alla cura di essi. Non mancò di tenere nel Seminario ottimi maestri; sul piano dell'insegnamen-to vale la pena di notare che il Santo prende nettamente posizione contro l'uso di non adottare un manuale, obbligando gli alunni a sobbarcarsi all'improba fatica di scrivere ciò che il professore det-tava loro. "Io stimo esser molto meglio il servirsi di libri che di scritti, avanzandosi cosi molto di tempo e molto di salute"13° Probabilmente obbligando professore a seguire un buon manuale, il ve-scovo poteva essere più tranquillo quanto alla sodezza della dottrina insegnata. Riservava poi una importanza fondamentale alla Teologia morale, secondo lui il sacerdote non do-veva limitarsi a celebrare la Messa e a godere un beneficio ecclesiastico: ma doveva soprattutto es-

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sere un pastore del popolo di Dio, completamente dedito sul modello del "Buon Pastore", alla cura delle anime. Senza una profonda conoscenza della Teologia morale, non era perciò possibile aiutare efficacemente i fedeli nei loro bisogni spirituali. E per la teologia, vi introdusse il suo manuale Ho-mo Apostolicus. Poi ogni giorno voleva che in ciascuna classe si leggesse a turno da ciascun seminarista, il libro del Padre Auriemma, Affetti Scambievoli tra la Vergine SS. e i suoi divoti. In materia di insegnamento delle lingue classiche era propenso all'abolizione dello studio della lin-gua greca, non ritenuta strettamente necessaria alla formazione di un buon sacerdote, al contrario si mostrò esigentissimo nei riguardi dell'apprendimento della lingua latina infatti affermava che nelle classi di grammatica e di umanità gli alunni dovevano essere ben istruiti in quest'idioma, "perché al-trimenti non l'apprenderanno più, e non intendendo poi perfettamente la lingua latina, saran sempre deboli in tutte le altre scienze". Inoltre voleva che i seminaristi si esercitassero nel sostenere conclusioni pubbliche, specialmente di Teologia o Filosofia131, a tal fine ordinò ai superiori del Seminario e specialmente al maestro di retorica, di parlare con stile chiaro e semplice e regalò al Seminario diverse copie di un libro che aveva composto di precetti retorici. Per lo studio della filosofia, consigliato anche dal domenicano Caputo, che fungeva da profes-sore di filosofia e di teologia, abbandonò le Institutiones di Pourchot, per un manuale più so-brio, la Philosophia mentis del cappuccino Fortunato da Brescia (Girolamo Ferrari); manuale di dommatica fu invece il Compendium di Honore Tournely, professore alla Sorbona, apparso in 16 volumi nel tempo in cui Alfonso era stato ordinato sacerdote (1725-1729). Inoltre per stimo-lare e valorizzare il lavoro del Seminario istituì le accademie di belle lettere cui invitava cano-nici e laici colti. Monsignor de Liguori, "affidava volentieri al rettore ed ai maestri gli esami da fare ai giovani che in Seminario dovevano passare da una scuola all'altra; ma quando si trattava d'esame di or-dinandi, questi si dovevano fare in sua presenza. Egli ha saputo compatire in Seminario i gio-vani che non erano di molta abilità, ma non ha mai saputo ne voluto compatire quelli che non sembravano di buona morale". Fu piuttosto rigido in esigere il buon costume, ma voleva che i seminaristi fossero ben trattati nel vitto e il suo impegno fu la santa educazione scientifica e morale dei giovani. II santo ve-scovo considerava il Seminario «la pupilla dei suoi occhi», e soleva dire: «il Seminario e quello che fonda, per il bene della diocesi, tutta la mia speranza; se questo non corrisponde ai miei de-sideri, ogni altra cura è perduta»133. Perciò era "inflessibile nell'allontanare gli incorreggibili e gli scandalosi, tanto che quando un professore del Seminario per un nipote cercò di ricattarlo, licenziò zio e nipote: la sua coscienza non si intaccava. Al posto degli indesiderati, si impegnò a ricercare e a ricevere gratuitamente ragazzi poveri, sani moralmente e ricchi di talenti, dei villaggi in cui nessun sacerdote voleva andare con il pretesto che non era del luogo. Diede cosi eccellenti vicari a Dugen-ta, a Bagnoli, a Cancello e a tanti altri villaggi che ne erano sprovvisti, malgrado le proteste dei ca-nonici amministratori. L'istituzione dei Seminari non fu fatta che per aiuto delle Diocesi, ed altro fine non potettero avere le persone pie, testando i loro averi in favore dei Seminari, che il bene delle Diocesi e specialmente dei poveretti. Il Seminario è in obbligo sostener ii peso degli impotenti, se costumati sono, e di ta-lento, e sollevar possono i propri paesi"I34. I regolamenti alfonsiani vanno inseriti nel contesto storico del Settecento e dell'Italia meridionale per non avere, alla prima lettura, l'impressione di grande rigidità, sorveglianza continua, formazione in un ambiente isolato dal mondo. A distanza di due secoli riscontriamo lacune, alcuni orientamenti superati nel quadro degli studi ed in certi accorgimenti pedagogici. Però questi regolamenti, nono-stante i loro limiti, restano un indice dell'opera di un santo, che in anni opachi riuscì a portare nei seminari aria di rinnovamento. Negli ultimi decenni si è generalizzata la tendenza a sollevare severe

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critiche nei confronti dell'educazione impartita nei seminari, tali critiche sono in parte giustificate, però, nonostante tutti i loro difetti i Seminari fornirono alla Chiesa ed alla società un grandissimo numero di eccellenti sacerdoti ed anche di uomini dotti. Inoltre Sant'Alfonso con lo studio, con la riflessione e in forza della sua esperienza, stabilì una via di mezzo tra il lassismo e il rigorismo, e creò un nuovo sistema morale, fatto di equilibrio e pruden-za detto probabilismo; sistema che con il passare del tempo venne accolto dai vescovi, fu approvato dai papi, divenne dottrina ufficiale della Chiesa. Santo del secolo dei lumi, si schierò decisamente per la libertà, la sua presa di posizione e tanto più sorprendente se si considera l'ambiente teologico e morale in cui dovette operare, e l'orientamento predominante allora nella Chiesa, che era a favore della legge, ma a scapito della libertà. Sant'Alfonso ebbe l'intelligenza e il coraggio di mettersi con-tro corrente, dimostrando che Dio ha creato anzitutto l'uomo libero; quindi la libertà prevale sulla legge che è venuta in un secondo tempo. " La libertà è l'esercizio non impedito dei propri diritti. Le leggi devono tutelare questo diritto non prevaricarlo. Se le leggi si conformano alla giustizia, l'uomo sarà libero, altrimenti sarà tiranneggia-to, indipendentemente dalla forma che il governo assume. Nell'ambito dell'insegnamento, la libertà è l'esercizio non impedito del diritto d'insegnare e d'imparare. L'uomo ha diritto di adoperare a fini onesti tulle le potenze dategli dal creatore purché il modo con cui le adopera sia inoffensivo ai suoi simili. Il diritto di insegnare esiste alle seguenti condizioni: scienza in colui che insegna; onestà in ciò che si insegna; inoffensività nel modo di insegnare"I35. Con il de Liguori si imponeva nel mezzogiorno di fine Settecento una pastoralità prima sconosciuta, soprattutto nelle campagne, e volta alla loro "riconquista", con metodi e tecniche rapportate alla realtà rurale. Il suo successore Onofrio Rossi, non apportò nessun sostanziale contributo alla cresci-ta del Seminario. Fu poi il Pozzuoli vescovo dal 1792 al 1799 che "ebbe a cuore l'educazione della gioventù e la cura del Seminario, infatti nel tempo del suo governo fiorì eminentemente nel morale e nello scibile. Sorvegliava le scuole, le sale, il refettorio, la cappella; ordinava circoli settimanali in tutti i rami del-le scienze; esercitava i giovani in orazioni panegiriche, materie predicabili e composizioni poetiche; esigeva in ogni anno esami degli studi, premiando coloro che più profittavano e promuoveva in tutti l'emulazione. Invitava poi dalle vicini sedi i Sacri Pastori per far mostra del valore letterario dei suoi giovani alunni, tanto che il dotto Prelato di Telese Mons. Lupoli nonché l'arcivescovo di Lanciano Mons. Amorosi in una pubblica accademia data dal Pozzuoli ne rimasero cosi sorpresi ed ammirati che non esitarono a definire il Seminario di Sant'Agata de' Goti: il Liceo dei dotti e la sede di Mi-nerva". 4. LA VICENDA DEL SEMINARIO NELLA PRIMA META DEL XIX SECOLO. Con la nuova circoscrizione delle Diocesi di questo regno, eseguita nel 1818, fu aggregato al vesco-vado di Sant'Agata de' Goti quello di Acerra. "Nel 1818, Orazio Magliola vescovo di Acerra prese possesso anche della cattedra santagatese; fu un uomo dotto, profondo canonista, giusto, disinteres-sato, caritatevole; egli innanzitutto riordinò gli affari e la disciplina della Diocesi, rinvenuti in disse-sto e in disordine, ed inoltre fece restaurare a proprie spese il Seminario e fece ricostruire la Chiesa annessa” Dopo il suo episcopato, gli altri vescovi hanno cercato di svolgere la loro attività per il sempre mi-gliore sviluppo di questo Seminario. Esso diventava uno dei luoghi più prestigiosi per la formazione del Clero della provincia beneven-tana; anche se bisogna ricordare che, le condizioni di gran parte delle famiglie erano troppo disage-voli per permettere ai loro figli la possibilità di accedervi.

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CAPITOLO III: Il CONVITTO-GINNASIO NEI LOCALI DEL SEMINARIO

I. STATO E CHIESA NELLE PROSPETTIVE EDUCATIVE DEL RISORGIMENTO ITA-LIANO Mentre la storia delle lotte fra Stato e Chiesa nel Settecento non si lega intimamente con la storia del pensiero religioso poiché è storia prevalentemente politica; nell'Ottocento, le controversie politi-che-ecclesiastiche sono dovute per lo più al problema dell'essenza e del significato dell'associazione religiosa, di cui l'età moderna aveva finito per vedere quasi soltanto l'aspetto esteriormente politico. Nel corso di questo secolo si cercò di attuare quella secolarizzazione dello Stato, che è alla base dei programmi di riforme fin dalla Restaurazione. Durante la prima fase della Restaurazione, la preoccupazione di formare un nuovo ceto dirigente, continuò a spingere il potere politico a dedicare un'attenzione prevalente all'istruzione secondaria e superiore ma, un'altra preoccupazione che emerge, è "la persuasione che il diffondersi dell'istruzio-ne tra le classi popolari rappresentasse un pericoloso fattore d'instabilità politica e sociale, nella misura in cui rischiava di contrastare i processi di normalizzazione e di ripristino dei vecchi ordi-namenti, di cui la Restaurazione aveva fatto uno dei principali obiettivi". La politica scolastica perseguita da diversi stati dopo il Congresso di Vienna, andò connotandosi, con il passare degli anni, "nel senso di un crescente interesse dei governi nei confronti della scuola e dell' insegnamento".. Verso la meta dell'Ottocento, l'Italia "presentava un altissimo tasso di analfabetismo oscillante tra il 75 e l’80%”, si guardava perciò, all'istituzione scolastica come allo strumento per combattere l'anal-fabetismo ed ottenere quel minimo di amalgama sociale indispensabile a garantire la vita del nuovo Stato. La libertà d'insegnamento era principio non solo sconosciuto ma anche negato da tutta la tradizione piemontese. "Sono i Savoia a fare del Piemonte lo stato guida e rendono Torino capitale "morale" d'Italia acco-gliendo gli esuli politici vale a dire i liberal-massoni di tutta la penisola assegnando loro dei posti prestigiosi nelle università, nei giornali, nella diplomazia e nello stesso Parlamento". Se sul piano della propaganda i Savoia si contrappongono agli altri Stati della penisola in quanto fautori di uno Stato costituzionale, nella realtà dei fatti la contrapposizione è netta solo sul terreno ideologico e re-ligioso: "i Savoia assecondano e promuovono l'ideologia massonica e la religione protestante, che combattono la cultura e la religione nazionali. Grazie a questa scelta strategica, che rende il Pie-monte docile feudo della cultura inglese, americana, tedesca, di parte del Belgio e dell'imperatore Napoleone III, i Savoia godono dell'appoggio internazionale dell'una o dell'altra potenza e realiz-zano l'unità sfruttando con grande spregiudicatezza l'unico elemento a loro favore: la propria radi-cale disomogeneità culturale e religiosa con il resto della penisola. La monarchia sabauda perse-gue una doppia radicale rottura con la storia d'Italia: instaura un'inedita rigidissima centralizza-zione e favorisce lo sfaldamento dell'identità profonda della nazione, fondata sulla comune adesio-ne alla fede cattolica. Una volta alla testa del moto risorgimentale, i Savoia non fanno che inco-raggiare la diffusione della letteratura e della fede protestanti; al tempo stesso sferrano un attacco senza precedenti ai gioielli della Chiesa cattolica: gli ordini religiosi". La progressiva laicizzazione della scuola piemontese subì una decisa accelerazione nel 1847 con la creazione del Ministero della Pubblica Istruzione e nel 1848 quando, dopo l'espulsione dei Gesuiti e delle Dame del Sacro Cuore dal Regno di Sardegna, venne sostituito il Regolamento scolastico del 1822 con la nuova Legge sulla Pubblica Istruzione emanata il 4 Ottobre dal ministro Carlo Bon-compagni. Pur lasciando nella scuola, oltre a "qualche pratica religiosa", l'insegnamento obbligatorio del cate-

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chismo e permettendo negli istituti tenuti da ordini religiosi la nomina dei docenti da parte dei ri-spettivi superiori, purché ratificata dal Ministro la legge determinava il pratico assoggettamento di tutto il sistema scolastico al controllo dello Stato. "Secondo il Progetto, dal ministro dell'istruzio-ne pubblica dipendono le scuole di ogni ordine e grado, e i convitti sì pubblici che privati (art.2); i programmi destinati a servire al pubblico insegnamento, dovranno ottenere l'approva-zione del Consiglio superiore della p. i. (art.11); le scuole secondarie private dovranno ottenere l'approvazione della Commissione permanente"I43 (art.33); le scuole e i convitti privati, e le isti-tuzioni private che abbiano per oggetto in tutto o in parte l'istruzione elementare, sono sottoposti a sorveglianza e ad ispezione (art. 34, 39, 41, 43); nelle scuole affidate a corporazioni religiose, i pre-fetti e gli insegnanti saranno ammessi quando siano riconosciuti idonei dalle autorità preposte alla p. dovranno perciò sostenere gli esami di abilitazione e adempiere tutte le altre condizioni prescritte dalle leggi e dai regolamenti (art.47, 48). "Lo stesso art. 49 precisa che gli studi compiuti nei Seminari non avranno valore legale tranne che questi istituti si conformino alle discipline stabilite nelle leggi e nei regolamenti.... L'art. 50 poi vieta esplicitamente l'ingerenza di qualsiasi podesta"144 , in sostanza la podestà ecclesiastica. E’ conservata la facoltà teologica (art.7) anche se la scelta dei professori di teologia tornerà ad ap-partenere al governo, com'era prima del Regolamento 23 luglio 1822. " Fatta 1'Italia si tratta di fare gli italiani, dirà Massimo D'Azeglio: per educare le nuove generazioni secondo una mentalità liberale, bisogna avere insegnanti e scuole liberali, scelti da amministratori locali ( i sindaci ), a loro volta nominati dal potere centrale, di fede liberale"I45. Impedendo la liber-tà d'insegnamento, tutti dovranno frequentare scuole statali, rigidamente controllate dalla Massone-ria. Se il governo non è ancora in grado di estromettere completamente il clero dall'istruzione, deve però proseguire nel presentare al popolo il clero come mistificatore che predica virtù ma che non ha dottrine o vive nell'ignoranza pubblica. La storico Spaventa sostiene la " libertà di stampa, libertà di culto, libertà di coscienza, divieto di libertà d'insegnamento. I liberali favoriscono solo quelle libertà che possono danneggiare la Chie-sa"I46. La massoneria condivide il punto di vista liberale poiché per essi il cattolicesimo è "nemico mortale della libertà", lo stato ha due grandi doveri: quello di vegliare sui grandi interessi sociali, e per conseguenza sulla diffusione dell'insegnamento, e quello di proteggere nella società romana la società civile. Il conte Solaro della Margherita, col Memorandum, indirizzato a Carlo Alberto, tenta invano di mettere sull'avviso il re della piega totalitaria ed anticattolica della rivoluzione liberale italiana; poi-ché la gran parte dei liberali mira solo all'abbattimento dei troni, alla distruzione delle chiese, alla confisca dei beni ecclesiastici, alla soppressione degli ordini religiosi e poco importa loro se 'Italia sia unificata o divisa in diversi stati: l'importante per loro è di esserne i padroni. Il conte, inoltre, nel presentare i problemi dell'istruzione strettamente congiunti ai problemi dell'assistenza sociale e alla questione dei diritti politici, rispecchia la consapevolezza di quanto siano collegate, interdipendenti, inscindibili l’istruzione, la vita sociale e la vita politica di un paese. La scuola diventa uno dei campi di battaglia su cui si decideranno le sorti della società del XIX se-colo. I democratici insistono per il ruolo direttivo che lo Stato deve avere nell'istruzione e nell'edu-cazione, e favoriscono i contenuti laici dell'insegnamento. I cattolici liberali condividono le tesi dei democratici sul piano sociale, ma chiedono che alla Chiesa sia conservata libertà d'azione nel settore educativo: sono perciò fautori della libertà d'insegnamento intesa come libertà di organizzazione scolastica, per far si che i genitori possano scegliere tra la scuola dello Stato e la scuola "libera", cioè privata e dunque organizzata e gestita dagli enti ecclesiastici. I liberali si distinguono dai cattolici liberali per una costante diffidenza verso la gerarchia ecclesia-stica; caldeggiano l'uso degli strumenti giurisdizionalisti in occasione dei conflitti che si verificano tra potere civile e potere ecclesiastico specialmente a proposito dell'ispezione delle scuole funzio-nanti all'interno dei conventi e delle case religiose in genere. Si voleva impedire o almeno limitare l'ingerenza del clero nella direzione dello Stato; ma poiché lo

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Stato era confessionale, si cercò di restringere l'area della giurisdizione ecclesiastica allargandone quella statale a danno della Chiesa, fino a spingere il controllo dello Stato fin dentro i Seminari. Dopo la crisi Calabiana, in seguito all'inasprimento dei rapporti con la Chiesa, quindi con i clericali, e con la destra dello schieramento politico e parlamentare, il Cavour cercò di consolidare il suo go-verno sulla sinistra affidando il dicastero dell'istruzione ad un uomo del centro sinistro: Giovanni Lanza. Con il Lanza, però, non ci fu una svolta laicista ma portò lo stesso ad un irrigidimento dell'azione di governo dinanzi alle resistenze del clero antiliberale; maggiore fermezza nel far rispettare la legge anche dalle congregazioni religiose, e soprattutto una politica volta a rendere indipendente la scuola pubblica dalla necessità di rivolgersi alle congregazioni religiose per avere i docenti che la società laica non forniva a sufficienza. "Il 10 dicembre 1855 il Lanza presentò alla Camera un vasto progetto di legge sull'istruzione ele-mentare, fondato sul principio dell'accentramento e dell'accresciuto controllo dello Stato sul settore; ma la Commissione nominata dalla Camera per l'esame del progetto, costituita di liberali fautori della libertà d'insegnamento, lo respinse”. Il Lanza lasciò il ministero dell'istruzione il 18 ottobre 1858; gli successe il Cadorna. In seguito alla vittoria di Solforino e l'armistizio di Villafranca, vi fu la creazione di un nuovo Stato e la formazione di un nuovo gabinetto, presieduto da Alfonso La Marmora, in cui l'istruzione fu af-fidata al lombardo Gabri Casati. "Nel 1853 era stato nominato senatore ed aveva da allora in poi partecipato a pieno titolo alla vita politica del regno subalpino, sostenendo la linea di Cavour e diri-gendo la politica scolastica nel governo, nel parlamento, nell'amministrazione e dalle cattedre uni-versitarie. La legge Casati, cosi indicata dal nome di questi quando fu nominato responsabile del Ministero della Pubblica Istruzione, "venne promulgata da Vittorio Emanuele II il 13 novembre 1859. Essa costituisce l'atto di nascita del sistema scolastico italiano e, per certi versi, ne rappresenta tuttora l'impalcatura fondamentale"148. Come è noto, essa fu promulgata senza essere discussa in Parla-mento a causa della guerra in Crimea e rimase in vigore fino al 1923, anno in cui venne parzialmen-te variata da Giovanni Gentile, anche questa volta in un contesto di emergenza nazionale. "Il vero centro motore della politica scolastica è il Ministro che governa l'insegnamento pubblico in tutti i suoi rami e ne promuove l'incremento. La legge prevede perciò un sistema centralistico-burocratico di tipo piramidale con a capo il Ministro, coadiuvato da un'organizzazione gerarchica, rigida e auto-ritaria: il Consiglio superiore della Pubblica Istruzione, gli Ispettori generali, un Provveditore agli studi in ogni provincia e Consiglio provinciale". "E’ riconosciuto il suo carattere limitativo della libertà di insegnamento, carattere che fu in gran parte determinato dall'allora costituenda analogia di scuola pubblica = scuola statale". Tale falsa analogia era a sua volta figlia di una precisa tradizione culturale, che rispondeva al nome di Statali-smo. La sua affermazione definitiva nella legge Casati fu il risultato di una lunga e combattuta guer-ra culturale. La preoccupazione principale di gran parte della stampa cattolica era legata all'inse-gnamento come libertà dell'individuo, e gli attacchi decisi della parte avversa si diressero proprio in quella direzione. Con la legge Casati si entra direttamente nella cronaca, perché "i principi totalitari da essa sanciti vennero estesi mediante una progressiva imposizione a tutti gli stati italiani conqui-stati dal Regno di Sardegna, attraverso il filtro costituito dal controllo assoluto del governo su pro-grammi, insegnanti, libri di testo, bidelli, aule, insomma su tutto"151. Quanto alle sue caratteristi-che, infatti, occorre ricordare "il monopolio esclusivo del governo sull'istruzione perpetuatosi fino ai giorni nostri nonostante il contrasto con l'articolo 30 della Costituzione, e che nessun governo ha mai sentito il bisogno di abrogare". Dunque la legge Casati ha posto dei limiti alla istituzione di scuole private; anche se altamente in-giusta risulta la pretesa dello Stato di monopolizzare ogni tipo di scuola, anche quelle non statali, anche se in modo indiretto.

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2. NORME REGOLAMENTARI PEL CONVITTTOGINNASIO DI SANTAGATA DEI GOTI'. In virtù di un contratto sottoscritto tra la Deputazione del Seminario e la Giunta Municipale il 12 Ottobre 1881, fu fondato nella Città di Sant'Agata de' Goti un Convitto-Ginnasio nei locali del Se-minario. Nelle Norme Regolamentari si legge: "difficile, anzi vano sarebbe stato ogni sforzo per impiantare un Convitto-Ginnasio in questa Città se non fosse venuto in mente all'attuale Am-ministrazione Comunale di provocare un accordo con la Deputazione del Seminario per tro-var modo onde riuscire nel desiderato intento". Il Regolamento approvato si articolava in 19 capitoli passando in rassegna i diversi doveri dei re-sponsabili del Seminario, gli obblighi dei seminaristi, espliciti erano poi i riferimenti in merito all'accesso al Convitto-Ginnasio, all'organizzazione degli studi e cosi via. Al novello Istituto, i mezzi gli erano forniti tanto dalle rendite del Seminario quanto dal Bilancio Comunale. "Giunto dunque sotto una duplice tutela siffatto Istituto, è naturale che debbono essere raddoppiate le cure di vigilanza e di amorevole assistenza, più energia il volere per raggiungere lo scopo altissimo della morale e della civiltà, della istruzione e della educa-zione. Guidati da così nobili sentimenti e sorretti da ottimi consigli i convittori apprende-ranno i principi della Religione Cristiana; impareranno i doveri verso la patria e gli obbli-ghi e gli affetti che li legano alla famiglia; saranno istruiti per tempo a rettificare le impres-sioni che ricevono dai sensi esterni; ed impareranno a formare il giudizio ed il raziocinio, l'analisi e le virtù coltivando le loro facoltà mentali, con la memoria, con la immaginativa, con l'attenzione e con la riflessione. Ma se grande sollecitudine debba aversi per la cultura dello spirito e per l'educazione del cuore non bisognerà certo negligere ogni assidua cura per tutelare la salute e per vigilare sul regolare sviluppo del corpo in ragione dell'età. Per riuscire dunque a tutto ciò si avrà la massima diligenza nella scelta dei professori e di colo-ro che saranno preparati a mantenere l'ordine e la disciplina nel Convitto " Il Sistema d'Istruzione era quello voluto dai Programmi Governativi per l'insegnamento a ciascuna classe del Ginnasio, "affinché cosi si potrà al più presto ottenere il pareggiamento di questo Istituto con quelli del Governo, e la licenza conseguita per effetto degli esami sostenuti nel Convitto, sia documento legalmente riconosciuto, perché i giovanetti possono poi conti-nuare lo studio classico nei licei". In quel periodo ai vescovi era lasciata totale autonomia nella conduzione dei seminari, però gli studi in essi compiuti non venivano riconosciuti dallo Stato se non si fossero adottati i regolamenti ed i piani di studio previsti dalla legge. Con la legge Boncompagni prima e poi con la legge Casati si determinò il pratico assoggettamento di tutto il sistema scolastico al controllo dello Stato. L'insegnamento all'interno del Convitto-Ginnasio era diviso in due sezioni: elementare e classica, la prima conteneva quattro classi, l'altra il Ginnasio ne comprendeva cinque. Per l'ammissione degli alunni al Convitto-Ginnasio era necessario sostenere l'esame di ammissione richiesto per essere iscritti nella classe in cui si chiedeva di entrare. Era il Consiglio di Amministrazione composto da quattro membri, due della deputazione del Semi-nario e due del Consiglio Comunale che fissava il giorno degli esami. Negli esami di promozione da una classe all'altra "potevano essere invitate le Autorità Scolastiche della Provincia, i notabili cittadini nonché i rispettivi genitori degli alunni; potevano essere presie-duti da ameno 3 professori estranei onde dare un giusto apprezzamento sul merito degli insegnanti e sul profitto o meno dei discenti" Nel Convitto si accoglievano alunni che avevano un'età non minore di 7 anni, né maggiore di 14; tuttavia il Consiglio di Ammissione poteva ammettere per ragioni speciali giovanotti di un'età mag-giore o minore di quella indicata.

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Le domande per l'ammissione dovevano essere scritte in testa del genitore del convittore o di chi ne faceva le veci con espressa dichiarazione di accettare tutte le condizioni indicate nel Regolamento e dovevano presentarsi al Direttore con l'aggiunta: dell'attestato di nascita e l'attestato di vaccino e di buona costituzione organica. L'annua retta era di Lire 360 da pagarsi a quadrimestri anticipati; inoltre ciascun convittore nell'atto di ammissione doveva depositare Lire 20 nelle mani del Censore, tale deposito era destinato sia a riparare i danni che l'alunno colpevolmente arrecava agli utensili dello stabilimento, sia per le picco-le spese di carta, inchiostro, penne, libri di scuola ecc. I convittori che per qualsivoglia causa erano costretti a lasciare il Seminario, non avevano diritto ad alcuna restituzione; eccetto quei convittori che colpiti da cronica malattia non potevano ulteriormen-te rimanere in convitto, "per cui sarebbe andato a beneficio dell’istituto un solo mese di paga, mentre il dippiu veniva restituito alle famiglie”. I giovanetti ammessi al Convitto erano tenuti a soddisfare agli obblighi che prescrive la Religione Cristiana, poiché "la civiltà, la sapienza, come ogni altra virtù, hanno principio nel Santo timor di Dio". Non era lecito ai convittori discutere le credenze religiose, "custodiscano gelosamente nelle loro anime la Fede e l'Amore che derivano dal Cristianesimo; senza di che non è possibile né istruzione né educazione, mancherebbe il cardine di tutte le virtù per combattere vizi ed er-rori, onde aver riparo dalla tempeste della vita e trovar un conforto ai dolori che 1'accompagnano". Ai convittori si chiedevano poche e brevi pratiche religiose, ma che procedeva-no dal cuore con sincera devozione. Entrando in qualche Chiesa dovevano avere rispetto e timore, e senza far rumore dovevano mettersi in ginocchio per adorare il SS. Sacramento; oltre la preghiera del mattino e della sera che si faceva nei dormitori, i convittori dovevano sia nei giorni festivi che in altri che il Direttore credeva opportuni, convenire nella Cappella al S. Sacrificio della Messa. Poi ogni mese dovevano accostarsi al Sacramento della Penitenza "per ricevere nelle loro anime tutto quel bene che viene dalla Santità del Sacramento medesimo e dai savi consigli del buono e amorevole confessore”. Per qualunque atto o segno di noia, di impazienza, o irriverenza nella Cappella, o in Chiesa il convittore veniva ripreso e castigato. La direzione del Convitto-Ginnasio era affidata a un Direttore il quale doveva provvedere "alla re-golare distribuzione dell'insegnamento e della efficacia dello stesso per gli effetti voluti dalle Istru-zioni e Programmi Governativi; ancora doveva badare all'esatto adempimento della disciplina non solo nel Convitto ma anche nelle annesse Scuole Elementari. Era il vigile custode della condotta morale dei Convittori, di tutti gli insegnanti e di tutti coloro che erano addetti al Convitto. Era lui a conservare il registro di presenza degli insegnanti; ancora aveva il diritto di infliggere punizioni temporanee. Inoltre poteva nominare un Vice-Direttore, quest'ultimo però doveva avere costante e permanente residenza nel Convitto". Il Consiglio di Amministrazione provvedeva invece "a nominare gli altri responsabili del Convitto-Ginnasio: Censore, Tesoriere, Maestro di Casa o Economo, personale di servizio ecc. Sorvegliava lo stato economico del Convitto, badava che i convittori fossero trattati e serviti beni e non venissero defraudati di ciò che loro spettava delegando a tal fine uno dei suoi membri per assistere al pranzo dei convittori per ispezionare le vivande sia dal punto di vista della qualità che della quantità. Stu-diava poi il modo "acconcio" per migliorare sempre più l'istruzione, visitando spesso la scuola o de-legando anche in questo caso uno dei suoi membri per assicurarsi che Maestri e discepoli adempies-sero ciascuno al proprio dovere. Il Tesoriere, invece, dava "cauzione a beneficio del Convitto sopra fondi liberi da qualunque ipoteca, o sopra certificati di rendita sul Debito Pubblico dello Stato, non vincolati per la somma di lire diecimila che poteva essere modificata a seconda delle maggiori o minori entrate. Curava poi l'esazione di lire 30.000 dalla Deputazione del Seminario nel novem-bre di ogni anno e di lire 2.740 dal Municipio in due rate uguali, una al 30 Aprile e l'altra al 31 Agosto di ogni anno” Esigeva le rette dei convittori, le tasse, gli onorari degli alunni secondo le norme prescritte nel Re-

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golamento. Doveva estinguere prontamente i mandati che gli venivano trasmessi dal Consiglio di Amministrazione ritirandone le debite quietanze a norma di legge. E nella prima quindicina di Set-tembre doveva presentare il Conto Consuntivo accompagnato da tutti i documenti all'Amministra-zione, che trovato tutto in piena regola, gli rilasciava analoga dichiarazione per sua cautela. Doveva poi dar nota al Censore di quegli alunni che non avevano a tempo utile soddisfatto agli ob-blighi loro imposti dal presente Regolamento. Al capo III del Regolamento erano indicati i doveri del Maestro di Casa o Economo, innanzitutto egli doveva avere fissa e permanente dimora nel Convitto; era lui a vigilare attentamente la cucina e le persone addette. "Faceva la proposta alla Commissione in tempo utile, delle provviste an-nuali che erano necessarie nel Convitto, queste erano da lui custodite ed inoltre aveva l'ob-bligo di notare giornalmente in uno statino tutti i movimenti di consumo che si verificava-no; una copia di questo statino mensile da lui firmata doveva essere consegnata al Consi-glio di Amministrazione". Colui che invece era incaricato di sorvegliare il buon andamento disciplinare delle Scuole e del Convitto era il Censore o anche chiamato Prefetto degli Studi. Durava in carica 2 anni ma, "poteva essere riconfermato dopo il biennio in considerazione della condotta da lui serbata o pote-va essere rimosso anche prima per incapacità o per altri motivi. Era lui a custodire i Registri Scolastici, della cui esattezza era responsabile, era poi incaricato degli insegnamenti speciali laddove mancavano, come Aritmetica, Geografia o Storia. Da lui dipendeva-no i Prefetti, ai quali doveva comunicare gli ordini del Direttore e doveva presentare mensilmente al Consiglio di Amministrazione un prospetto dello Stato d'insegnamento e di disciplina in cui si tro-vava il Convitto, proponendo se occorreva opportuni provvedimenti. Accompagnava poi gli alunni esterni alle rispettive Scuole, facendoli situare in un luogo diverso da quello degli alunni interni, impedendo anche qualunque tipo di comunicazione tra loro; finite le scuole aveva l'obbligo di an-darseli a rilevare. Molto delicato ed importante era il compito dei Prefetti preposti a vigilare, dirigere ed educare gli alunni " per adempire utilmente il loro ufficio, bisognava che si guadagnassero l'amore, la fiducia e il rispetto dei Convittori". " Tali sentimenti non si ispirano col vigore tirannico, con la molle accondiscendenza o con lo zelo minuzioso; ma si ottengono con la bontà e pazienza con la dignità ed autorevolezza, con la discrezione ed imparzialità in ogni cosa. I prefetti debbono attendere a conoscere bene i propri alunni e secondo le diversità dell'indole, dell'ingegni e dei temperamenti sappiano usare parole, correzioni e trattamenti più convenienti”. Essi avevano il dovere di eseguire gli ordini del Direttore e del Censore; "dovevano essere pronti, diligenti, esatti dando così buon esempio ai convittori di come si conviene rispettare l'autorità supe-riore. Dal canto loro i convittori dovevano sempre ubbidire al prefetto, e se qualche ordine sembra-va loro poco ragionevole, potevano dopo aver ubbidito, reclamare al Direttore o al Censore, i quale non mancava di far ragione a chi spettava". Al mattino i Prefetti dovevano alzarsi alquanto prima del tocco della sveglia per essere pronti a vigi-lare che tutti facessero il loro dovere; mentre di sera andavano a letto per ultimi, dopo che gli alunni erano già a letto per fare in modo che niente potesse turbare la quiete della notte. Tranne dunque il tempo della scuola, i Prefetti in tutte le altre ore della giornata dovevano stare con i convittori e os-servare che da loro si osservi quanto prescritto nel Regolamento, non potendo essi dispensarli in nessuna cosa; soprattutto nel tempo della ricreazione dovevano avere maggiore cura della nettezza della morale e della civiltà dei convittori, stando attenti ad ammonire, dirigere e cogliere ogni occa-sione per dar loro utili ammaestramenti. Avevano poi la facoltà e l'obbligo di fare continue riviste nei tavoli e nei cassettoni dei convittori per controllare che tutto fosse in ordine e non avessero libri o altri oggetti non permessi. Dipendevano immediatamente da loro i camerieri i quali venivano con-tinuamente vigilati affinché adempiessero con diligenza ogni loro dovere.

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Tuttavia, diventavano indegni dell'ufficio che ricoprivano, quei Prefetti, che non adempievano al proprio dovere o quando in presenza dei convittori osavano di criticare gli ordini loro dati dai supe-riori. Al capo VI delle Norme Regolamentari si fa riferimento agli obblighi, ai doveri e a tutto ciò che concerne "i Professori Docenti", innanzitutto è interessante osservare come al sostantivo professore viene aggiunto l'aggettivo docente. Era prescritto che "ciascun professore svolgerà il Programma particolareggiato, preventivamente concordato col Direttore, al quale dovrà presentarlo non più tardi del mese di Novembre. Egli avrà piena libertà nel trattare le materie di cui gli fu affidato l'insegnamento però dovrà necessariamente ottemperare alle esigenze dei Programmi ufficiali". In realtà si tratta di una vera e propria contraddizione, "la distinzione tra istruzione pubblica ed istruzione privata, potrebbe far pensare a due criteri diversi di istruire; in realtà la differenza è più formale che reale se si considera che coloro che frequentano le scuole private, per avere il ricono-scimento dei titoli di studio, dovevano sostenere un esame con professori della scuola di Stato, e aver seguito i medesimi programmi e studiato sugli stessi libri di testo"168. Inoltre i professori do-vevano osservare puntualmente l'orario prescritto per la classe e per lo speciale insegnamento affi-datogli, a tal proposito "al momento di arrivo dovevano apporre la loro firma sul registro di presen-za che trovavasi presso il Direttore. In caso di impedimento per malattia o per altra causa dovevano dame avviso in tempo opportuno al Direttore affinché vi potesse provvedere; trascurandosi il pre-scritto avviso o non constatata la legittimità della causa addotta, i professori andavano soggetti ad una multa uguale al doppio della rata di stipendio"I69. L'insegnante era poi obbligato "a segnare sul registro scolastico rimessogli dal Censore in principio della lezione i punti di merito degli allievi per i compiti e per le conferenze; le assenze; ed ogni altra indicazione richiesta dal modulo"170. In caso di trasgressione di un alunno ai doveri disciplinari o scolastici, il professore ne faceva rapporto al Direttore. Per ciò che concerneva l'organizzazione dello studio e i doveri dei convittori era indicato che "cia-scun convittore all'ora stabilita doveva prendere posto al proprio tavolo sul quale disponeva con di-ligenza i libri, i quaderni, ed altro che gli poteva occorrere; non era permesso a ciascuno di muover-si dal suo posto, se non per manifesta ed improvvisa necessità, chiedendone licenza al Prefetto. In tutto il tempo dello studio il convittore doveva serbare silenzio, tranquillità e compostezza senza turbare l'attenzione dei compagni. Ciascuno doveva stare attento e raccolto ad imparare le lezioni ed a fare i lavori assegnatigli dal Professore nella scuola. Inoltre il convittore senza espressa licenza del Direttore non poteva tenere altri libri che quelli puramente scolastici e nelle ore di studio non poteva leggere altri libri che quelli riguardanti le lezioni della scuola, in caso contrario veniva severamente punito come di grave mancamento; in tempo di studio non era permesso nemmeno di scrivere lette-re senza licenza del Direttore o del Censore, solo nel Giovedi o Domenica si poteva scrivere ai pro-pri parenti". Nel capo XIII intitolato "Della Scuola" si legge " il convittore vorrà andare alla scuola con gioia e piacere, desiderio di acquistare cognizioni utili per tutta la vita ". Nel Regolamento erano anche indicati i doveri dei convittori verso i professori innanzitutto, il salu-to una volta entrati nella scuola; dovevano poi mostrare sempre rispetto e gratitudine verso il pro-fessore come a colui che col sapere e con la bontà gli rendeva più durevole e maggiore beneficio che gli potesse mai fare; "per dimostrargli cotal gratitudine e reverenza i convittori dovevano adem-piere esattamente ai propri doveri col mostrare attenzione e docilità alle sue parole ed ammonimenti e col trarre il maggior profitto possibile dal suo insegnamento". Ecco quindi che la svogliatezza, l'i-nerzia, la disattenzione erano indizio di non curanza al professore. "Veniva poi punito dal Direttore sia quel convittore che si mostrava indocile ed arrogante coi compagni sia quello che per la condotta e per to studio non conseguiva i punti di approvazione". Era anche prescritto che il convittore non doveva invidiare il compagno che si portava avanti negli studi ma specchiarsi invece nel suo esempio e prenderne coraggio a progredire nella buona via. Il convittore di generosa indole e ben educato non cerca lode o premio per le cose imparate ma gli ba-

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sta in compenso la stima dei compagni, l'amore dei superiori, la gioia della propria famiglia e il lu-singhiero proposito di migliorare sempre più se medesimo. Nel capo X, relativo alle Regole Generali, si pone l'accento sulla virtù del silenzio; si afferma l'im-portanza di parlare correttamente la lingua italiana, infatti era proibito espressamente usare il pro-prio dialetto. Era ribadito che " i convittori si pongano bene in mente ed in cuore di non dover mai mancare di rispetto all'autorità dei superiori, altrimenti saranno severamente puniti. Il con-vittore colpevole che si industria di sembrare innocente, rovesciando in altrui la propria colpa sarà doppiamente punito perché doppiamente reo. Non bisognava poi dare ai compagni nessun soprannome che aveva qualche relazione con i loro difetti o per essi ingiurioso, nel caso in cui qualche convittore riceveva ingiurie da un suo compagno, poteva avvisare i superiori". Era poi stabilito che nessun convittore poteva tenere denaro presso di se, "avendone dai parenti doveva immediatamente depositarlo nelle mani del Censore, che gliene forniva secondo il bi-sogno come pure non poteva né doveva tenere coltelli, tabacchi oggetti preziosi o di lusso. Era proibito anche lo scambiare, prestare o regalare qualunque oggetto nonché passarsi i biglietti, parlare con i compagni di altra camerata o con persone esterne senza l'espressa licenza del Di-rettore o del Censore. Dovevasi avere grandissima cura della pulizia, poiché essa è indizio di gentilezza e civil costume e giova alla sanità del corpo come alla vivacità dell'ingegno, perciò, " il convittore tenga cura di se stesso, e dei suoi abiti, e si guardi bene dal macchiarli o strapparli né si presenti mai a nessuno se non sia pulito di vesti o di persona; inoltre nel vestire stia lontano sia dalla fretta che dalla non curanza". Ancora i convittori non dovevano lacerare o sporcare libri o quaderni ed altri oggetti badando sempre alla conservazione delle proprie cose e di quelle che gli forniva il Convitto. Era poi disposto, che almeno una volta al mese si doveva leggere durante il pranzo, il Regolamen-to, per quella parte che maggiormente riguardava i doveri dei convittori. Anche nel recarsi a pranzo, i convittori dovevano osservare una rigida disciplina, ordinatamente do-vevano andare ai posti assegnatigli, serbare silenzio, aspettare il segno della preghiera per poi poter cominciare a mangiare ma sempre con garbo. "Il giovine ben educato si guardi da voler essere servito per primo, e senza voltarsi aspetti che gli si ponga innanzi il cibo; e se qualche cosa gli sembri non andar bene, non si metta a brontolare o piangere. Allorché i convittori avranno il permesso di conversare tra loro durante pranzo, badino a tenersi dentro i limiti del convenevole e del decente: discorrino con i compagni della propria camerata, non alzino troppo la voce, non si sforzino di favellare con la bocca piena di cibo, non entrino in dispute calorose"I78. Inoltre non era permesso tra i convittori nemmeno il regalarsi o lo scambiarsi le pietanze o il vino, "cio era segno di brutta golosità per le prime, coll'altro si veniva procurando un vizio nocivo al corpo e allo spirito; era poi contrario alla civile educazione il guardare le pietanze dei compagni e farne paragone con la propria tanto per la quantità tanto per la qualità"179. Finito il pranzo i convittori dovevano fare la preghiera ed uscire in ordine. In ogni caso non era impedito a nessuno di recarsi, previo permesso del Prefetto, nelle stanze del Direttore o del Censore, per di-re, modestamente ciò che di non buono si era trovato nel pranzo o nella cena, e per fare in modo che se c'era qualche inconveniente non si verificasse un'altra volta. Nel poco tempo che rimaneva disponibile dallo studio, dalle scuole o da altre occupazioni, si per-metteva che i convittori di ciascuna camerata facessero ricreazione tra loro, " al fin di ristorare le facoltà mentali e fisiche, e disporsi a tornare con più amore alle ordinarie occupazioni"18° . Era proibito mettersi in disparte o restringersi in pochi a parlare in segreto e in gergo da non essere inte-si dai compagni e dal Prefetto. Durante la ricreazione era permesso invece, il gioco della dama, del domino, degli scacchi o altro che i superiori stimavano essere conveniente. Un convittore invitato a giocare "poteva accettare, o rifiutare ma con modi urbani e civili; i giochi non dovevano aver nessun fine di lucro; ed erano proibiti tutti quei giochi e trastulli per quali si era in pericolo di offendere la purezza del costume, di nuocere alle persone, di lacerare i vestiti, di danneggiare vetrate, mobili o le pareti del convitto; ancora era proibito lo sdraiarsi per terra, lo schiamazzare, il fischiare; in breve

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tutto ciò che sapesse di immorale, rozzo o maligno"181. Appena dato il segno che finiva la ricrea-zione finiva anche ogni gioco ed ognuno in perfetto silenzio tornava alle proprie occupazioni. Nel corso della giornata era previsto anche un intervallo per il passeggio. "Dato l'ordine di uscire a spasso nessun convittore poteva restare in convitto senza permesso del Direttore o del Censore. La strada da percorrere e l'ora per rientrare in Convitto, erano indicate dal Censore ai Prefetti che dove-vano osservare esattamente. Era disposto che nel transitare l'abitato, ogni convittore doveva aver cu-ra di non uscire dalla fila, di non parlare, di non fare smorfie, di non ridere, di non tenere le mani in tasca, dunque tutti dovevano serbare decenza, costume e ordine; e nel mostrarsi al pubblico era ne-cessario dare maggiore prova, per rispetto al luogo ove stavano ad educarsi"182. Dato dal prefetto l'ordine di tornare indietro, tutti dovevano rientrare nel Convitto, se qualcuno non ubbidiva veniva punito con gravi pene o persino con l'espulsione dal Convitto stesso. Nel Regolamento era anche prescritto che ogni Giovedi o Domenica dalle 10 alle 12 era permesso ai parenti di visitare i convit-tori nella Sala di Udienza, ma sempre con il permesso del Direttore o del Censore. Le visite non do-vevano essere un chiacchierare ozioso ma "produrre tutta quella grande utilità cui erano ordinate e dovevano giovare specialmente a mantenere saldi i sacri vincoli dell'amore domestico, e rinnovare quel ricambio di rispetto filiale verso i genitori "183. Inoltre, i genitori dal registro posto nella Sala di Udienza, potevano rilevare i gradi di merito e di demerito dei propri figli, per lo studio, per la scuola, per la disciplina per confortarli a camminare sempre più animosi per la dritta via. Il Direttore o il Censore non mancava di farsi trovare nella Sala di Udienza pronto ad ascoltare, rispondere, ed avvisare su tutto le famiglie dei convittori. " Nessuno chiederà privilegi ed esenzioni alla Regola, perché questa deve mantenersi ferma ed uguale per tutti". Nelle Norme Regolamentari al capo XIX vengono anche descritti i PREMI e le PENE cui andavano soggetti i seminaristi. "I premi son dati per suscitare nei giovanetti la emulazione al ben fare e per farli continuare nella buona via; le pene d'altronde sono correttivo del mal fare e sono necessarie per ri-chiamare nel retto sentiero quei giovanetti che traviati se ne sono discostati. Per cui quei convittori che hanno ricavato molto profitto dallo studio, che hanno serbata lodevolissima condotta, sono degni di premio; all'opposto gli altri che per la scarsezza nello studio, e per irregolarità nella condotta, non possono non meritare quei castighi che secondo la gravezza delle mancanze saranno applicati”. I premi attribuiti ai convittori riguardavano: l'iscrizione nel quadro dei distinti esposto nella Sala di Udienza; nomina a Capo-classe e a Sotto-capo-classe da conferirsi per ragione di merito ai primi classificati; un diploma firmato dal professore che attesta che il convittore durante l'anno scolastico ha sempre ottenuto una media non inferiore a sette decimi e si terrà conto negli esami di promozio-ne; una medaglia di argento della grandezza di una doppia lira. Mentre le pene disciplinari pronunciate dall'Autorità erano: ammonizione; privazione dell'uscita con o senza un compito straordinario da eseguire in un dato tempo; pubblicazione del nome nel quadro delle punizioni; lettera ai parenti per informarli delle mancanze commesse; espulsione dal Convitto. Da tutto ciò si evince che la vita all'interno del Convitto-Ginnasio era caratterizzata da una certa ri-gidità, disciplina severa, sorveglianza continua; a distanza di oltre un secolo riscontriamo lacune, orientamenti superati. In ogni caso queste Norme Regolamentari, vanno inserite nel contesto storico della seconda meta dell'Ottocento e dell'Italia meridionale, dato che le pratiche educative di ogni epoca storica sono profondamente legate alle forme adottate dal sistema sociale, per cui vanno poste in relazione al contesto storico, sociopolitico nel quale sorgono e assumono un senso. 3. `STATUTO PER GLI ALUMNI INTERNI DEL SEMINARIO DI SANTAGATA DEI GOTI' La parola Statuto deriva dal latino "Statutum" ciò che è stato stabilito, da "Statuere" stabilire; è un documento scritto, contenente norme che disciplinano l'organizzazione e l'attivita interna di un ente.

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Lo Statuto per gli alunni interni del Seminario di Santagata dei Goti, fu approvato il 1° Settem-bre 1893; in esso è disposto che il Seminario era aperto 10 mesi all'anno: "l'anno scolastico comin-ciava il 10 Ottobre, il giorno 12 cominciavano gli esami, sia di ammissione per i novelli sia di ripa-razione per i vecchi, ed il giorno 16 erano aperte le Scuole; mentre la chiusura delle Scuole era fis-sata per il 10 Agosto". Le vacanze previste durante l'anno scolastico erano solo quelle della Pasqua di Resurrezione, tuttavia "quegli alunni che volevano rimanere in Seminario durante le Feste Pa-squali, dovevano pagare altre Lire 15 in più ed avevano diritto al solito trattamento". L'annua retta era di Lire 300; in più "gli alunni di 3° 4° e 5° classe Ginnasiale dovevano pagare Lire 10 ogni anno per la lezione obbligatoria di Lingua Francese, obbligatoria, secondo i Programmi Governativi per le classi suddette". Come diritto di entrata, solo per il primo anno era prevista una quota di Lire 17, ed inoltre non era ammesso chi non aveva prima esibito la ricevuta dell'esattore. Nel caso in cui vi erano più fratelli, erano previste delle riduzioni; inoltre chi per qualsivoglia causa era costretto a lasciare il Seminario, doveva osservare le condizioni indicate nello Statuto circa la restituzione o meno delle rette pagate. Alla fine dell'anno scolastico, "i padri di famiglia nel ritirare i loro figli dovevano dichiarare al Ret-tore se intendevano o meno ricollocarli in Seminario". "I novelli dovevano indirizzare la domanda di ammissione non più tardi del 10 Settembre, la quale doveva essere corredata del certificato di buona condotta e di quello di nascita, da rilasciarsi dal proprio parroco, nonché di quello dell'esegui-ta inoculazione vaccinica, da rilasciarsi dal medico-chirurgo. I vecchi alunni invece, nel rientrare in Seminario, dovevano presentare l'attestato di buona condotta serbata in tempo di vacanza e della frequenza dei sacramenti. I provenienti da altri istituti dovevano pure presentare la fede di buona condotta cola serbata. Nello statuto era anche disposto che i convittori dovevano vestire tutti uniformemente secondo il modello approvato dalla Commissione e "forniti del corredo così come disposto nello Statuto stesso, che restava a carico degli alunni". Per quanto riguardava il vitto, si aveva la massima cura affinché i convittori fossero decorosamente trattati sia quanto alla salubrità che alla sufficienza dei cibi. 4. NORME GENERALI, DISCIPLIN A SCOLASTICA, PROGRAMMA DIDATTICO Nella prefazione dell'opuscolo contenente le `Norme Generali, la disciplina scolastica e il program-ma didattico' per gli alunni del Seminario di Sant'Agata de Goti, è messa in evidenza la figura e pro-fessione del MAESTRO. Egli "esplica il suo influsso su tutta la massa sociale; il maestro forma le intelligenze, maneggia i cuori, dirige le volontà, ispira le fantasie, volge le chiavi delle coscienze, e quindi può fare della sua scolaresca o de' fervorosi cattolici ed onesti cittadini, o degli spudorati mi-scredenti e dei rivoltosi da barricate". Ciò significava che nelle mani del maestro erano affidate le sorti delle nazioni, e che a lui toccava risolvere il problema dell'avvenire. Non valeva nemmeno distinguere tra il magistero religioso ed magistero delle scienze delle lettere e delle arti "poiché l'uno non meno che l'altro deve essenzialmente mirare allo scopo supremo di mo-ralizzare l'individuo non meno che la società, e quindi deve avere per base Dio e per principio mo-vente lo zelo del bene, il disinteresse, la carità. Senza questo spirito di zelo, disinteresse e carità, il magistero si converte in un mestiere o speculazione più o meno volgare. Il magistero è una missione divina, che non a tutti e dato di compiere, ma richiede una speciale vo-cazione del cielo, non altrimenti che il sacerdozio". L'insegnante si percepiva dunque come "missionario", con la conseguenza che l'insegnamento veni-va fatto consistere in una "missione", fondata non sulla capacità di suscitare e coltivare desideri, ma sulla trasmissione di alti ideali. "L'atteggiamento missionario, indotto e favorito dall'inizio della scuola obbligatoria, era diffuso non solo tra i cattolici, ma anche fra i cosiddetti laici; nella esperienza quotidiana dell'insegnamento pe-rò, si viveva lo stridente contrasto fra la definizione spiritualistica e vaga di missionario, e la realtà di una burocrazia scolastica ottusa, centralizzata ed inefficiente, che prescriveva addirittura anche il

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colore con cui andavano tinteggiate le pareti delle aule o la dotazione di matite e di quaderni, forniti a cura del Provveditorato generale dello Stato”. Sempre nella prefazione, era affermato, che la statistica annuale degli esami ginnasiali e liceali e la relazione delle autorità scolastiche, sul progresso compiuto della Pubblica Istruzione, lamentavano il progressivo decrescere del gusto e del genio nella gioventù studiosa. L'obiettivo del Seminario era dunque "quello di educare la mente ed il cuore dei giovani, curare il loro benessere fisico e morale, provvedere alle possibili esigenze con la massima economia, e pur avendo a base i programmi go-vernativi per abilitare i giovani al conseguimento dei gradi accademici, si aveva soprattutto cura di ispirare loro qualche cosa di più sostanziale, nel gusto del vero, del bene e del bello fondato nella religione". Ai professori era affidato il compito di curare l'esatta osservanza disciplinare, "perché non si per-metta nelle scuole ciò che dalle regole del Seminario è vietato; siano perciò essi i primi ad entrare in classe per ricevervi gli alunni col massimo ordine, serbando la divisione tra le diverse camerate e vietando ogni comunicazione cogli esterni, se ve ne siano". A scuola era vietato qualunque discorso estraneo all'insegnamento, come anche dettare o far copiare lezioni manoscritte; mentre da tutti indistintamente si esigeva la recita delle lezioni del giorno, "per-ché tutti siano preparati e nessuno possa lamentarsi di essere dimenticato". I lavori dovevano essere tutti riveduti dal professore, e dopo le opportune osservazioni restituiti agli alunni per le correzioni; in ogni classe si doveva avere un registro della punteggiatura giornaliera riportata dagli alunni, "perché in fine di mese se ne pubblichi la media". Era anche prescritto che non si doveva assegnare materia alcuna senza prima delucidarla e svilup-parla secondo la capacita della classe; e nelle correzioni dei lavori si doveva tener conto sia della buona elocuzione che della calligrafia, "nella conferenza si riprendano severamente i difetti di pro-nuncia e di dialetto patrio, né si permetta che i compagni suggeriscano a chi recita. I commenti sia-no limitati, né si perdano in discussioni, ma versino nell'esame della lingua, dello stile e dell'arte per formare i giovani al gusto del bello". I componimenti italiani dovevano essere non meno di due per settimana nel Ginnasio inferiore, e di uno nelle Classi superiori, "tornando più utile l'esercizio prati-co che non le astratte teorie". Inoltre le letture complementari e supplementari, dovevano essere ri-partite in modo che gli alunni non restavano troppo aggravati durante la settimana. Per preparare gli alunni all'insegnamento secondario, nel Seminario si svolgevano anche le scuole Elementari Superiori. Il Programma Didattico, relativo alle Scuole Elementari comprendente la classe 3° 4° 5°, (secondo l'ultimo programma governativo), prevedeva: esercizi relativi alla grammatica; lettura corrente, con spiegazione delle cose lette, il testo adottato era Cuore di EdmondoDe Amicis. "La diffusione di questo testo, la profondità e la capillarità della penetrazione che intenti educativi di questo genere hanno avuto nella mentalità di varie generazioni di questo secolo possono dare un'idea di quanto sia necessario oggi cambiare rotta; ne consegue un modello di vita scoraggiante, negativo, fatto di fru-strazioni e di eccitazioni che non conosce la profondità dell'amicizia e che è totalmente chiuso alla chiarezza ed alla razionalità della Fede, relegata in qualche espressione del tipo "se Dio vuole" e na-scosta in qualche angolo di sacrestia buia". L'istruzione comprendeva poi l'Aritmetica pratica, Storia d'Italia, Geografia, Diritti e doveri del cit-tadino, "mediante l'esposizione dei fatti più notevoli della storia nazionale". Per la Calligrafia, gli esercizi metodici di Cerruti e Nozioni varie relative "agli alimenti, vestiario, abitazioni, norme igie-niche, proprietà fisiche dei corpi, fenomeni riguardanti l'aria, l'acqua, la luce, il calorico, il suono; e le principali invenzioni e scoperte"2°3. "Il programma didattico per le Scuole Secondarie (Ginnasio, Liceo ), prevedeva l'insegnamento di: lingua e lettere italiane: nel Ginnasio, i libri di testo adottati erano gli scritti del Gozzi, la Ge-

rusalemme liberata del Tasso, scritti scelti dal Giordani, 1'Iliade di Omero tradotta dal Monti e l'Odissea tradotta dal Pindemonti, l'Eneide di Virgilio tradotta dal Caro, Discorsi del Mac-

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chiavelli sulla 1°deca di Tito Livio e la Grammatica del Fornaciari; mentre nel Liceo, nella classe I si studiava la Storia letteraria sino ai principi del rinascimento, esposizione dell'Infer-no, novelle del Boccaccio; nella classe II, Storia letteraria sino all'Arcadia, esposizione del Purgatorio, letture del Macchiavelli; infine nella classe III, Storia letteraria sino alla morte del Manzoni, esposizione del Paradiso, poesie del Manzoni, prose scelte del Leopardi.

Lingua e lettere latine: studio della grammatica, flessione regolare ed irregolare dei nomi e dei verbi, letture graduali (Fedro, Cornelio, Cesare, Ovidio, Sallustio, Cicerone, Virgilio); mentre nel Liceo vi era lo studio della storia letteraria fino all'Impero.

Lingua e lettere greche: nella classe IV e V Ginnasio, lo studio della grammatica di Curtius, flessione dei nomi e dei verbi e lettura di prose e poesie; nel 1° liceo: cenni di storia letteraria sino all'età di Pericle, nozioni sul dialetto Omerico, principali regole della sintassi, luoghi scelti dall'Iliade di Omero e dall' Anabasi di Senofonte; nel 2°liceo: cenni di storia letteraria sino ad Alessandro, luoghi scelti dall'Odissea e dalle Storie di Erodoto; nel 3° liceo ripetizione della Storia letteraria, e studio dei luoghi scelti da Omero e dai Dialoghi di Platone.

Lingua francese: si insegnava nella classe 3°4°5° Ginnasio, l'insegnamento prevedeva lo stu-dio della grammatica per tutte e tre le classi, e lo studio della letteratura solo nella classe V "Dalle origini della lingua fino ad oggi".

Geografia: solo nel Ginnasio con lo studio dell'Italia e dell'Europa, e delle altre parti del mon-do; nozioni di geografia astronomica e fisica; sistemi orografici nelle loro diverse ramifica-zioni.

Storia: nella classe IV del Ginnasio: storia Orientale, storia Greca, dall'origine alla caduta sot-to la dominazione romana; nella classe V storia Romana, dall'origine di Roma alla caduta dell'impero d'Occidente; nel Liceo studio dell'Europa e in particolare dell'Italia dalla fine dell'impero d'Occidente sino ai giorni nostri.

Filosofia: nella classe I del liceo si insegnava Psicologia (Prisco), nella II Logica (Prisco), nel-la III Etica (Gambardella).

Matematica: nel Ginnasio l'istruzione prevedeva lo studio dell'Aritmetica pratica e razionale (Poggi e Cuneo), e della numerazione e delle frazioni. Nel Liceo era previsto lo studio dell'Algebra e della Trigonometria.

Fisica e chimica: impartita solo nel Liceo. Storia naturale: nel IV e V Ginnasio studio della descrizione e comparazione di animali e

piante; nel I Liceo zoologia; nel II botanica, e nel III nozioni di geografia, fisica e di geologia. Lezioni straordinarie: canto Gregoriano, Musica sul piano e canto fratto, Declamazione, Cal-

ligrafia, Galateo, Catechismo religioso. Corso di Scienze Sacre in quattro anni: Teologia Dommatica e Morale, Diritto Canonico, Esigesi ed interpretazioni delle Sacre Scritture, Elo-quenza Sacra, Storia Ecclesiastica, Sacra Teologia. La direzione degli studi era assegnata a Monsignor Ferdinando M. Cieri, vescovo coadiutore di Sant'Agata de' Goti".

Il vescovo Cieri era figlio di benestanti, proveniva dalla borghesia ottocentesca preunitaria; il centro intorno al quale ruotò tutta la sua attività pastorale e le sue preoccupazioni di Pastore fu appunto il Seminario, inteso come ‘istituzione’, centro di formazione del Clero sì, ma che in un Italia già in preda ai `furori' anticlericali, divenne roccaforte ideale e materiale per la Chiesa. Mons. Cieri assunse personalmente la guida del Seminario, dandogli un nuovo impulso, facendo un nuovo programma di studi, preoccupandosi della disciplina e della scuola, sanando l'economia e re-staurando l'edificio. Ma in realtà è tutta la Chiesa italiana che si muove in tal senso: con l'avvento di Pio X la Chiesa punta e scommette su un rinnovato impegno verso i giovani, guidarli fin dalla prima fanciullezza, intensificando i corsi catechistici, vera palestra di formazione spirituale. C'è bisogno in definitiva che la Chiesa si attivi affinché l'insegnamento della "verità cristiana", prevalga sulla "fal-sità" che il secolo ateo e corrotto ha inculcato negli animi degli italiani.

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5. IL SEMINARIO: 1900-1967 Nel 1907 il Seminario di Sant'Agata de' Goti fu dichiarato centro di studi superiori di Scienze Sacre. A partire da tale periodo si accolsero nel Seminario anche gli alunni delle due Diocesi limitrofe: Cerreto e Piedimonte D'Alife. Però mentre a Sant'Agata restarono le scuole di Ginnasio Inferiore e le classi Elementari al completo, i corsi liceali si fecero a Piedimonte e le ginnasiali superiori a Cer-reto. In seguito a tale avvenimento il vescovo Cieri, in un foglio fatto stampare in occasione della festa di S. Alfonso dell'Agosto 1907, illustrò la riorganizzazione degli studi nel Seminario santaga-tese: "il Corso Elementare comprenderà la III e la IV classe nelle quali terrà lezioni il professore don Stefano Desiderio. Il corso è aperto anche ad alunni esterni ai quali s'intende dare altresì l'edu-cazione civile, morale e religiosa. Il Ginnasio Inferiore abbraccia le classi I, II, e III le quali procederanno interamente a seconda dei Programmi governativi, di guisa che gli alunni siano messi in grado di ottenere, volendolo, i diplo-mi di passaggio di classe presso i ginnasi del Regno. II professore don Enrico De Masi terrà la I ginnasiale, don Saverio Petti la II e il Canonico professor Pasquale Iannotta la III. Uno sviluppo maggiore, da raggiungere quasi la perfezione delle università scientifiche pontificie, sarà dato alto studio delle Scienze Sacre. A fine anno scolastico le diverse prove di esame saranno date in pubblico, alla presenza degli Ecc. Ordinari del Gruppo, dei Rev. Canonici del Capitolo Cattedrale, dei parroci e del clero diocesano. Terranno le diverse cattedre i professori: Mons. Cesare Carbone, Canonico Antonio Renzi, don Achille Nara, Canonico Francesco Sacco, tutti laureati in Sacra Tologia; e il professore don Antonio Grasso". Tuttavia bisogna ricordare che le condizioni di gran parte delle famiglie erano troppo disagevoli per permettere ai loro figli la possibilità di accedere al Seminario. Col passare degli anni il numero dei seminaristi andava assottigliandosi, e nel 1967, per mancanza di alunni, il Seminario fu chiuso. Oggi nei locali del Seminario, c'ê il Liceo Classico statale. CONCLUSIONI

In questo lavoro ho cercato di ricostruire la storia e le pratiche educative del Seminario sin dalla sua origine, soprattutto attraverso una serie di documenti tratti dall'Archivio storico diocesano di Sant'Agata de' Goti. Le documentazioni curiali ed archiviali di diocesi, parrocchie, ecc, hanno un'importanza fondamen-tale in una ricerca di storia della scuola e delle istituzioni educative, in quanto rappresentano una chiave di volta per spiegare la complessa realtà scolastica, sociale e religiosa di un paese, sicura-mente in termini nuovi ed originali. Molte sono le difficoltà per chi si cimenta in questo tipo di ri-cerca, soprattutto nel leggere i documenti non sempre di chiara scrittura; ma questo lavoro è stato per me coinvolgente ed appassionante e mi ha permesso di acquisire una maggiore conoscenza del patrimonio storico ed educativo della mia città. E’ necessario avere sempre presente e viva una memoria storica, saper tradurre nella vita concreta questa consapevolezza, sapere che si parte da un'eredità impegnativa, un'eredità che va molto indie-tro nel tempo. Anche se alcuni orientamenti e certe pratiche educative oggi sono superate, esse van-no in ogni caso poste in relazione al contesto storico nel quale sorgono e assumono un senso.

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DOCUMENTI

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