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UNIVERSITÁ DEGLI STUDI DI MODENA E REGGIO EMILIA Dipartimento Chirurgico, Medico, Odontoiatrico e di Scienze Morfologiche con Interesse Trapiantologico, Oncologico e di Medicina Rigenerativa CORSO DI LAUREA IN INFERMIERISTICA SEDE DI REGGIO EMILIA Il Caregiver del paziente con Gravi Cerebro Lesioni Acquisite Relatore: Studente: Prof.ssa ANGELINA SAFFIOTI MANUELA LUZAJ Anno Accademico 2013/2014

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UNIVERSITÁ DEGLI STUDI DI MODENA

E REGGIO EMILIA Dipartimento Chirurgico, Medico, Odontoiatrico e di Scienze

Morfologiche con Interesse Trapiantologico, Oncologico e di Medicina

Rigenerativa

CORSO DI LAUREA IN INFERMIERISTICA

SEDE DI REGGIO EMILIA

Il Caregiver del paziente con Gravi

Cerebro Lesioni Acquisite

Relatore: Studente:

Prof.ssa ANGELINA SAFFIOTI MANUELA LUZAJ

Anno Accademico 2013/2014

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Indice

INTRODUZIONE ................................................................................................... 3

CAPITOLO 1: PAZIENTE CON GRAVI CEREBRO LESIONI ACQUISITE E

CAREGICER

1.1 Definizione di gravi cerebro lesioni acquisite ................................................... 6

1.2 Disordini di coscienza ....................................................................................... 6

1.3 Lo stato di coma ................................................................................................. 8

1.4 Low level neurological state ............................................................................ 10

1.4.1 Lo stato vegetativo ........................................................................................ 10

1.4.2 Lo stato di minima coscienza ........................................................................ 12

1.5 Epidemiologia. ................................................................................................ 13

1.5.1 Dimensioni del problema nel mondo ............................................................ 14

1.5.2 Dimensioni del problema in Italia ................................................................ 15

CAPITOLO 2: PRESA IN CARICO DEL PAZIENTE E DEL CAREGIVER

2.1 Presa in carico riabilitativa della persona con grave cerebro lesione

acquisita ....................................................................................................... 18

2.2 Il caregiver. ..................................................................................................... 20

2.3 Famigliari e percorso riabilitativo .................................................................... 21

2.4 Il ruolo dell’èquipe: la presa in carico del paziente con grave cerebro lesione

acquisita e del caregiver. ............................................................................. 23

2.5 Aspetti psicologici del caregiver del paziente in stato vegetativo: Burden, stress e

depressione ................................................................................................... 25

2.6 La relazione tra caregiver formali e informali di pazienti in

stato vegetativo ............................................................................................ 28

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CAPITOLO 3: AIUTO PSICOLOGICO AL CAREGIVER

3.1 Singoli, èquipe e stato vegetativo .................................................................... 31

3.2 Interventi psicologici dedicati ai famigliari ..................................................... 33

3.3 Il lavoro psicologico del gruppo ...................................................................... 36

3.4 L’efficacia terapeutica del gruppo ................................................................... 38

CAPITOLO 4: COSA DICONO GLI STUDI?

4.1 Articoli rilevati nelle banche dati ..................................................................... 41

4.2 Il Progetto Nazionale CCM ............................................................................. 46

CONCLUSIONI ................................................................................................... 51

BIBLIOGRAFIA .................................................................................................. 54

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Introduzione

La presente tesi rappresenta la conclusione di un percorso formativo di studi di

“Scienze Infermieristiche”, corso di laurea che ha lo scopo di fornire conoscenze e

competenze in ambito infermieristico, volte alla tutela della salute e della persona.

La mia tesi non è il risultato di un percorso di tirocinio svolto in qualche unità

riabilitativa dove sarei potuta entrare in relazione col caregiver di qualche paziente,

bensì, l’esigenza personale e professionale di capire ciò che porta il caregiver del

paziente con gravi cerebro lesioni acquisite a pensare, sentirsi ed agire in un

determinato modo, di capire le sue necessità per capire come supportarlo nel duro

percorso di assistenza al proprio congiunto.

Nell’assistenza infermieristica l’infermiere, che si prende cura del paziente nella sua

totalità, deve tenere in considerazione la presenza del caregiver; troppo spesso questo

viene messo da parte, il suo parere non ascoltato, i suoi sentimenti non considerati.

Tra le mansioni dell’infermiere professionale (D.P.R. 14 marzo 1974, n. 225), tra le

attribuzioni di carattere organizzativo ed amministrativo, viene reso esplicito: “Gli

infermieri professionali sono tenuti a promuovere tutte le iniziative di competenza

per soddisfare le esigenze psicologiche del malato e per mantenere un clima di buone

relazioni umane con i pazienti e le loro famiglie”; viene inoltre attribuita sia

all’infermiere professionale che generico l’opera di educazione sanitaria al paziente e

dei suoi familiari. Il nuovo Codice Deontologico dell’infermiere, approvato il 10

gennaio 2009, enuncia, nell’articolo 2, quanto segue: “L’assistenza infermieristica è

servizio alla persona, alla famiglia e alla collettività. Si realizza attraverso interventi

specifici, autonomi e complementari di natura intellettuale, tecnico-scientifica,

gestionale, relazionale ed educativa”; più specificatamente l’articolo 39 spiega che:

“L’infermiere sostiene i familiari e le persone di riferimento dell’assistito, in

particolare nella evoluzione terminale della malattia e nel momento della perdita e

della elaborazione del lutto”; questo dimostra che l’assistenza alla famiglia, in cui

nella maggior parte delle volte è inserito il caregiver, sia da considerarsi un dovere

del professionista, non soltanto dal punto di vista tecnico, ma anche e aggiungerei

soprattutto relazionale. L’infermiere ha qui piena autonomia e responsabilità, ma può

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avvalersi di interventi complementari di altri professionisti, come viene espresso

nell’articolo 1 del Decreto 14 settembre 1994, n. 739

(Regolamento concernente l’individuazione della figura e del relativo profilo

professionale dell’infermiere): “L’infermiere agisce sia individualmente sia in

collaborazione con gli altri operatori sanitari e sociali”.

L’organizzazione della presente tesi compilativa, suddivisa in quattro capitoli,

sviluppa nei primi tre, attraverso una ricerca bibliografica il concetto di paziente con

gravi cerebro lesioni acquisite e la figura del caregiver con gli aspetti psicologici che

lo caratterizzano. É obiettivo specifico della tesi l’individuazione del ruolo del

caregiver, con i suoi sentimenti e difficoltà. Nell’ultimo capitolo viene fatta una

revisione delle ricerche scientifiche condotte sui caregiver di questi pazienti, con lo

scopo di valutare le conseguenze sulla salute psicofisica risultate dal care-giving a

questo tipo di paziente e il supporto che si può fornire loro.

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CAPITOLO 1: PAZIENTE CON GRAVI CEREBRO

LESIONI ACQUISITE E CAREGIVER

1.1 Gravi cerebro lesioni acquisite

Nella definizione di “grave cerebro lesione acquisita” rientrano quelle persone che in

seguito ad eventi di natura traumatica, vascolare, anossica o infettiva o, comunque,

da noxae acquisite, che non includono le patologie congenite, involutive e

degenerative, vanno incontro ad uno stato di coma, cui possono far seguito disturbi

permanenti di tipo motorio (ad esempio paralisi, o perdita di coordinazione),

cognitivo (ad esempio disturbi della memoria), o comportamentali (ad esempio

difficoltà a controllare le emozioni).

Spesso questi disturbi sono tali da determinare disabilità di vario grado, e difficoltà

di reinserimento sociale, scolastico o lavorativo.

1.2 Disordini di coscienza

Negli ultimi anni il miglioramento delle tecniche rianimatorie ha determinato un

aumento del numero di pazienti che sopravvive in seguito a lesioni cerebrali acute.

Sebbene alcuni di essi possano andare incontro ad un buon recupero, molti altri

restano in uno dei diversi stati definiti come “disturbi di coscienza”.

Il termine disturbi di coscienza implica che vi sia in comune tra essi un’alterazione di

un sistema sottostante, chiaramente definito, noto come coscienza. Ad oggi non

esiste alcuna definizione universalmente condivisa di coscienza, e inoltre essa non

può essere misurata da alcuna indagine strumentale.

Tradizionalmente si distinguono per la coscienza gli aspetti quantitativi (vigilanza)

da quelli qualitativi (consapevolezza). Clinicamente per vigilanza si intende la

presenza di apertura degli occhi da parte del paziente e, a livello neuro-anatomico, la

conservazione delle funzioni talamiche e tronco-encefaliche. La vigilanza è

determinata dall’attività di numerose popolazioni neuronali a livello del tronco

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encefalico e del talamo (definite sistema di attivazione reticolare ascendente) che

proiettano ai neuroni corticali.

Figura 1: Uno schema semplificato di coscienza e delle sue due componenti: la veglia e la

consapevolezza. L’area grigia rappresenta il sistema di attivazione reticolare ascendente che include il

tronco encefalico e il talamo; la freccia vicino al tronco encefalico denota la progressiva scomparsa

dei riflessi tronco encefalici nel corso di una deteriorazione rostro-caudale (per esempio evoluzione

dal coma alla morte encefalica).

La consapevolezza si riferisce alla capacità di avere esperienze di qualsiasi tipo. Si è

generalmente consapevoli di sé e dell’ambiente che ci circonda ma i contenuti della

consapevolezza possono anche essere i ricordi, i pensieri, le emozioni e le intenzioni.

Essa non è una capacità singola e indivisibile: una lesione cerebrale può

selettivamente danneggiare alcuni aspetti della consapevolezza lasciandone altri

intatti. Clinicamente la definizione operativa si limita alla capacità di un individuo di

percepire se stesso e il mondo esterno e di voler interagire con esso. A livello

neuroanatomico è determinata dall’attività della corteccia cerebrale e in particolar

modo dalle sue reciproche connessioni subcorticali.

Per essere consapevoli bisogna essere svegli, ma quando si è svegli non

necessariamente si è consapevoli; la coscienza dipende dall’ interazione tra l’attività

della corteccia cerebrale, del tronco cerebrale e del talamo, e risulta compromessa

quando una di queste attività viene a mancare.

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1.3 Lo stato di coma

Un soggetto colpito da una grave cerebro lesione acquisita subisce una grave

destrutturazione delle funzioni cerebrali che, nei casi più gravi, si traduce in uno stato

di coma (GCA ≤ 8). Nella fase di coma, la persona giace ad occhi chiusi e non è in

grado di rispondere volontariamente a nessuno stimolo esterno o bisogno interno. E’

presente una riduzione o abolizione delle funzioni somatiche (motilità, sensibilità,

espressione e comprensione verbale) associata ad alterazioni, talora marcate, del

controllo delle funzioni vegetative o vitali (respirazione, attività cardiaca).

Dal punto di vista descrittivo il paziente in coma:

Non apre gli occhi ne spontaneamente ne in risposta a stimoli esterni

Presenta pattern respiratori patologici

Non è reattivo a stimoli dolorosi

Non ha validi riflessi faringei, di deglutizione e della tosse

Può avere movimenti involontari

E’ incontinente

Raramente lo stato di coma persiste per più di 6-8 settimane, dopo le quali, i pazienti

che sopravvivono al danno cerebrale, riacquistano l’apertura degli occhi. La fase di

coma infatti può:

Portare direttamente al decesso

Avviarsi verso il recupero della coscienza (con sequele di diversa natura e

gravità)

Evolvere verso lo stato vegetativo

Il recupero della coscienza è un processo complesso, che può avvenire in tempi

brevi, in tempi estremamente lunghi, oppure non avvenire affatto. Il passaggio dalla

condizione di coma a quella di stato vegetativo avviene in seguito all’apertura degli

occhi del paziente. Il passaggio dallo stato vegetativo a quello di minima coscienza

avviene in seguito alla registrazione di manifestazioni cognitive anche minime (es:

fissazione, risposte emotive adeguate). L’uscita dallo stato di minima coscienza

necessita di una comunicazione interattiva volontaria da parte del paziente o dell’uso

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di oggetti funzionali. Tuttavia il processo di recupero della coscienza non avviene

necessariamente attraverso questa sequenza o attraverso queste fasi.

Figura 2: Schematizzazione degli eventi che segnano le diverse fasi del recupero

Le sequele invalidanti di una grave cerebro lesione acquisita

Manifestazioni

cognitive

minime

Apertura

occhi

Intenzione comunicativa

MCS SV COMA

Modificazioni

dello stato di

coscienza

Modificazioni

motorie

Modificazioni

sensoriali

Modificazioni

cognitive

Modificazioni

sociali

Modificazioni

comportamentali

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1.4 Low level neurological state

Negli ultimi decenni a seguito di gravi cerebro lesioni acquisite e grazie ai progressi

della medicina in Emergenza – Urgenza è emersa una nuova popolazione di pazienti,

in progressivo aumento, caratterizzata da quadri clinici complessi che hanno alla

base gravi alterazioni dello stato di coscienza che includono lo Stato vegetativo (SV)

e lo stato di Minima Coscienza (SMC). Queste condizioni cliniche implicano

un’alterazione della consapevolezza del sé e dell’ambiente. Se la ripresa dello stato

di veglia non si associa ad una ripresa dei contenuti della coscienza si parla di Stato

Vegetativo, se invece la ripresa dei contenuti di coscienza è parziale si parla di Stato

di Minima Coscienza. Lo Stato vegetativo e lo Stato di Minima coscienza

costituiscono il più ampio gruppo delle condizioni di basso livello neurologico (low

level neurological states).

1.4.1 Lo Stato Vegetativo (SV)

Lo Stato Vegetativo era una condizione praticamente sconosciuta fino a qualche

decennio fa. Oggi, in accordo con le direttive dell’American Congress of

Rehabilitation of Medicin, lo “Stato Vegetativo” si configura come un peculiare e

grave stato clinico caratterizzato da: apertura degli occhi, cicli sonno – veglia alla

registrazione EEG, assenza di manifestazioni di consapevolezza di se e dell’ambiente

e con parziale recupero delle funzioni vegetative ipotalamiche e troncali. La durata

dello stato vegetativo può variare di molto a seconda della gravità del danno

cerebrale (da poche ore o giorni a molti mesi o addirittura anni). Più lo stato

vegetativo si protrae nel tempo, più è difficile che la persona possa recuperare la

capacità di entrare in contatto con l’ambiente. Non è possibile stabilire con certezza

quanto una persona in stato vegetativo riesca a comprendere ciò che le succede o che

le viene detto poiché, non riuscendo ad entrare in contatto con l’ambiente, non riesce

a farci capire se sa cosa le stia succedendo. Può manifestare dei movimenti spontanei

degli occhi (senza una fissazione volontaria dello sguardo); della bocca, con

movimenti automatici di suzione, masticazione e deglutizione (ma non è in grado di

attivarli in modo coordinato per alimentarsi; degli arti (movimenti non diretti ad uno

scopo e non attuati in risposta a stimoli visivi, uditivi o tattili).

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Il paziente in SV può anche reagire al dolore, ad esempio con una smorfia o con

movimenti delle braccia o delle gambe, ma non si è certi che riesca ad elaborare lo

stimolo doloroso come “sofferenza”.

Dal punto di vista descrittivo lo stato vegetativo è caratterizzato da:

Totale assenza della consapevolezza di se e dell’ambiente (contenuto di

coscienza)

Apertura degli occhi spontanea o in seguito a stimoli

Ripresa dei cicli sonno – veglia

Recupero delle funzioni autonome ipotalamiche e tronco encefaliche (attività

cardiaca regolare, ventilazione spontanea, termoregolazione)

Incontinenza completa

Criteri Diagnostici per SV

Nessuna evidenza di

Coscienza di sè o di consapevolezza dell’ambiente ed incapacità ad interagire con gli altri

Comportamenti durevoli, riproducibili, finalizzati o volontari in risposta a stimoli

Produzione o comprensione verbale

Presenza di

Apertura occhi

Pattern più o meno rudimentale di ritmo sonno – veglia all’EEG

Funzioni vitali autonome (respirazione, circolazione sanguigna…)

Rigidità, spasticità e posture patologiche

Incontinenza vescicale e rettale

Deficit di vario grado della funzionalità dei nervi cranici

Presenza variabile di riflessi tronco encefalici e spinali

Schemi motori primitivi

Motilità oculare assente o erratica

Tabella 1: Criteri Diagnostici per lo SV – Commissione Tecnico – Scientifica (istituita con D.M. 12

settembre 2005) dal Ministero della Sanità.

Lo SV termina quando la persona torna in contatto con l’ambiente, cioè quando è in

grado di comunicare attendibilmente con il mondo esterno (recupero della

responsività) verificabile attraverso la capacità di eseguire ordini semplici.

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Non esistono terapie o trattamenti che possano far uscire la persona dallo SV. Le

stimolazioni che vengono effettuate sul paziente hanno lo scopo di “facilitare” il

recupero del contatto con l’ambiente ma non possono provocarlo. Se il danno

cerebrale è molto grave nessuno stimolo esterno, per quanto intenso e prolungato,

potrà aiutare il paziente a recuperare la funzione persa. E’ importante che questi

stimoli siano “siano significativi per la persona” ed inseriti in un contesto appropriato

per cercare di costruire intorno alla persona un ambiente in cui le attività quotidiane

riprendono una certa “regolarità”. Le stimolazioni protratte, come ad esempio

l’ascolto di musica o di registrazioni, per molte ore al giorno, non hanno mostrato

nessuna efficacia accertata; si ritiene invece utile cercare di limitare gli stimoli

“negativi, fastidiosi o disturbanti”.

1.4.2 Lo Stato di Minima Coscienza (MCS)

Lo “stato di coscienza minima” o “stato di minima responsività” include persone che

dopo la fase di coma, pur non essendo in grado di comunicare attendibilmente,

manifestano segni di ripresa di contatto con l’ambiente. Lo stato di Minima

Coscienza si definisce come una “condizione di grave alterazione della coscienza

nella quale è dimostrata una minima ma sicura prova comportamentale di

consapevolezza di sé e dell’ambiente”.

Criteri Diagnostici per MCS

Apertura spontanea degli occhi, fissazione visiva sostenuta (almeno 2 secondi)

Verbalizzazione comprensibile (Non comunicazione)

Esecuzione di comandi semplici (non attribuibile ad attività riflessa)

Ritmo sonno – veglia presente

Comportamenti ed azioni intenzionali minime a seguito di stimolazioni ambientali rilevanti, non

attribuibili ad attività riflessa (es: riso, pianto alla visione di stimoli significativi)

Riconoscimento verbale o gestuale di una risposta (si/no) indipendentemente dalla sua correttezza

Percezione minima, riproducibile

Attività motoria finalistica, riproducibile, ma inconsistente

Tabella 2: Criteri Diagnostici di MCS (Giacino J. The minimally conscius state. Definition and

diagnostic criteria, Neurol 2002;58;349-353).

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L’evoluzione dallo SV al MCS si ha quindi in presenza di comportamenti

intenzionali, riproducibili e che abbiano una durata tale da poter essere differenziati

dai comportamenti riflessi. I pazienti MCS, seppure in modo non costante, sono in

grado di eseguire ordini semplici, produrre risposte verbali o gestuali (si/no),

formulare parole di senso compiuto. Il persistere comunque di gravi deficit cognitivi

e motori impedisce una comunicazione adeguata ed il recupero delle ADL, rendendo

questi pazienti totalmente dipendenti dal caregiver. L’uscita dallo stato di minima

coscienza è segnato dall’interattività volontaria da parte del paziente o dall’uso di

oggetti funzionali.

1.5 Epidemiologia delle gravi cerebro lesioni acquisite

E’ da tutti condivisa la convinzione che, di pari passo con i progressi della scienza

medica ed in particolare con l’evoluzione delle tecniche rianimatorie, l’incidenza e la

prevalenza delle GCA sono in graduale crescita in tutti i paesi occidentali. Questo

fenomeno pone nuovi interrogativi sulle modalità di gestione di situazioni di

disabilità gravissima e cosiddetta non emendabile, le cui caratteristiche sono

l’andamento cronico, il profondo impatto psicologico ed operativo sulla famiglia e

sul team di assistenza, e la persistenza per lunghi tempi di problemi assistenziali

complessi.

I dati di incidenza (il numero di nuovi casi che si verificano nella popolazione di una

determinata area geografica in un certo periodo di tempo) e prevalenza (il numero di

soggetti sopravvissuti con vario grado di disabilità e abitanti in una determinata area

geografica nel momento della rilevazione dei dati) dello stato vegetativo (SV)

riportati in letteratura internazionale dimostrano la non omogeneità degli stessi:

l’incidenza stimata dello SV a sei mesi dall’evento per lesione cerebrale acuta da

qualsiasi causa varia da 0,5 a 4/100.000 abitanti, mentre i dati relativi alla prevalenza

sono ancora più variabili (da 0,6 a 10/100.000 abitanti) a causa della diversità dei

criteri di arruolamento adottati (in molti studi sono inclusi anche SV conseguenti a

cause non acute, come le demenze).

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Il problema dell’esecuzione di studi di incidenza e prevalenza dello SV e SMC è

stato diffusamente indagato in una review pubblicata nel 2005, nella quale sono state

ribadite le difficoltà di ordine metodologico e pratico che rendono difficile ottenere

dati epidemiologici accurati ricordando che i dati pubblicati sono di dubbia validità

soprattutto in rapporto all’impiego di criteri diagnostici non uniformi.

L’acquisizione di dati epidemiologici validi dipende dalla disponibilità di: criteri

precisi ed universalmente accettati per la diagnosi di un disturbo che si dovrebbe

presumere stabile nel tempo o per un certo arco di tempo; sistemi adeguati di raccolta

dati. Nessuna di queste due condizioni sussiste per gli SV e gli SMC, di conseguenza

si possono ottenere solo stime parziali e non del tutto soddisfacenti, con errori

diagnostici che possono arrivare fino al 42% in rapporto anche alle terapie

farmacologiche in atto che possono condizionare il quadro clinico, a problemi nella

modalità di raccolta dei dati ed alle variazioni nella collocazione dei pazienti in

strutture ospedaliere e non.

1.5.1 Dimensioni del problema nel mondo

L’incidenza annuale per milione di abitanti (PMP) dello SV da tutte le cause acute

(escluse le patologie congenite e le patologie degenerative a decorso progressivo) a

diversa distanza dall’evento acuto è nel Regno Unito di 14 a 1 mese, 8 a 3 mesi e 5 a

6 mesi; negli Stati Uniti 46 a 1 mese, 27 a 3 mesi e 17 a 6 mesi; in Francia 67 a 1

mese, 40 a 3 mesi e 25 a 6 mesi.

Per quanto riguarda gli studi di prevalenza oltre ai già citati problemi si devono

aggiungere quelli in rapporto ai cambiamenti nel tempo dell’approccio medico

pratico a questa tipologia di pazienti, alle differenti modalità legislative di fine vita in

vigore nei diversi paesi in rapporto alla sospensione della nutrizione enterale e

dell’idratazione ed all’identificazione tardiva di recuperi precoci. I dati di prevalenza

relativi agli Stati Uniti variano tra 40 e 168 casi PMP negli adulti e tra 16 e 40 nei

bambini. In Austria la prevalenza è di 19 casi PMP, in Danimarca 1,3 PMP a cinque

anni dall’incidente e nell’Irlanda del Nord di 23 PMP negli SV e negli SMC14,29.

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1.5.2 Dimensioni del problema in Italia

Gli studi epidemiologici condotti sulle GCA nella letteratura nazionale non sono

molti, e talora restituiscono poche informazioni circa gravità, incidenza, prevalenza e

la valutazione dei fattori di rischio. Secondo i dati della 3° Conferenza Nazionale di

Consenso sulle GCA si può tuttavia stimare che ogni anno in Italia vi siano almeno

10-15 nuovi casi anno/100.000 abitanti di GCA che rispondono ai criteri sopra

esposti. Questa stima può essere corretta qualora si escludano le GCA che pur

presentando menomazioni permanenti comportano disabilità lieve.

Con D.M. 18 ottobre 2008 è stato istituito dall’Onorevole Eugenia Rocella un

Gruppo di lavoro sullo stato vegetativo e di minima coscienza. Nel dettaglio, l’analisi

dei dati del Ministero del Lavoro, della Salute e delle Politiche Sociali, Direzione

generale della programmazione sanitaria, dei livelli di assistenza e dei principi etici

di sistema (Ufficio VI), desumibili dalle Schede di dimissione ospedaliera (SDO)

relative al quinquennio 2002-2006 dei pazienti dimessi con codice 780.03 in

qualsiasi diagnosi, corrispondente alla codifica dello stato vegetativo persistente ha

evidenziato:

- Un trend in aumento annuale delle dimissioni totali, compreso tra il 6,3% ed il

20%.

- Un trend di incremento globale delle dimissioni totali che può dipendere da un reale

aumento dei casi incidenti con diagnosi di stato vegetativo, da un crescente ricorso al

codice 780.03 per una maggiore attenzione diagnostica dei medici del SSN che si

occupano di pazienti con GCA oltre che maggiore accuratezza nella codifica delle

SDO.

- Un trend di incremento delle dimissioni per soli ricoveri ordinari.

- La presenza tra le patologie note che hanno contribuito all’identificazione dello

stato vegetativo persistente (codice 780.03) dell’emorragia cerebrale (codice 431)

che figura al primo posto dal 2002 al 2005 ed al terzo nel 2006; del danno encefalico

da anossia (codice 348.1) che occupa il sesto posto nel 2002, il settimo nel 2003, il

terzo nel 2004, il quinto nel 2005 e il sesto nel 2006; e dei postumi di traumatismi

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intracranici senza menzione di frattura del cranio (codice 907.0) al secondo posto nel

2002, al quarto nel 2003 e nel 2004, al quinto nel 2005 ed al secondo nel 2006.

Quanto alle modalità di dimissione nel quinquennio 2002-2006 dei 5344 pazienti in

stato vegetativo persistente 1480 (27,7%) sono deceduti, 2072 (38,8%) hanno avuto

una dimissione ordinaria al proprio domicilio, 369 (6,9%) in RSA, 55 (1%) in ADI,

25 (0,5%) una dimissione protetta, 170 (3,2%) una dimissione volontaria, 573

(10,7%) un trasferimento ad un altro istituto per acuti, 229 (4,3%) ad altro reparto

nello stesso istituto e 371 (6,9%) ad altro istituto per riabilitazione.

Una consistente possibilità di riammissioni ospedaliere, quantificabili in 170 nel

2004 (14,6% dei ricoveri), 318 nel 2005 (25,8%), 255 nel 2006 (17%). La

percentuale di riammissioni richiede una attenta riflessione sulle possibili cause del

fenomeno, non potendosi trascurare quelle correlate alle modalità di finanziamento

delle prestazioni a carico del Servizio Sanitario Nazionale.

Stime approssimate dei tassi di incidenza e prevalenza sui dati complessivi italiani

sono rispettivamente pari a 1,8-1,9/100.000 ed a 2,0-2,1/100.000 abitanti e sui dati

complessivi della regione Lombardia rispettivamente pari a 5,3-5,6/100.000 ed a

6,1/100.000 abitanti. La netta discrepanza tra questi dati, non giustificabile sotto

profilo epidemiologico-clinico, sottolinea l’urgenza di uno sforzo per omogeneizzare

le modalità di diagnosi e di codifica degli SV su tutto il territorio nazionale.

Altri dati epidemiologici interessanti emergono dal progetto GRACER (Gravi

Cerebro lesioni Emilia Romagna) che è stato elaborato con la finalità di realizzare

una rete integrata regionale di servizi riabilitativi per le persone affetta da GCA. I

dati relativi al periodo che va dal 2004 al 2008 mostrano che sono entrati nel progetto

2275 pazienti di età media di 55 anni che sono sopravvissuti almeno 96 ore ad una

GCA e che vengono ricoverati presso reparti per acuti della regione Emilia

Romagna. Per ogni paziente viene compilata una scheda comprendente dati

anagrafici ed identificativi del paziente, dati socio ambientali, dati relativi alla

lesione cerebrale, alla comorbidità, alla presenza di danni associati o secondari, alla

presenza di menomazioni disabilitanti precedenti, punteggio DRS, LCF, altre

variabili cliniche relative alle complicanze e al percorso di cura. Per quanto riguarda

l’eziologia delle GCA nei 2210 pazienti codificati sul totale dei 2275 segnalati: il

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42,9% risulta essere di origine traumatica (età media 46 anni); il 38,05% di origine

emorragica e il 4,33% di origine ischemica (età media dei pazienti con eziologia

vascolare intesa come ictus emorragici ed ischemici di 62 anni); l’11,24% di origine

anossica (età media 61,5 anni); l’1,27% di origine infettiva; il 2,21% origine diversa

non traumatica.

Per quanto riguarda il genere il sesso maschile è rappresentato in oltre il 50% delle

GCA di origine vascolare, nel 63% di origine anossica e nel 77% di origine

traumatica.

Per quanto riguarda i danni associati essi sono presenti nel 78% dei pazienti con

GCA di origine traumatica e si presentano come danni scheletrici, toraco-addominali

e del massiccio facciale mentre nei pazienti con GCA di origine anossica e vascolare

rispettivamente il 73% e il 96% non mostra danni associati.

Grafico 1: Eziologia delle GCA nei pazienti segnalati al registro GRACER dal 1 maggio 2004 al 1

maggio 2008

43%

38%

11%

5% 1% 2%

Eziologia

Traumatica

Emorragica

Anossica

Ischemica

Infettiva

Altro

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CAPITOLO 2: PRESA IN CARICO DEL PAZIENTE E

DEL CAREGIVER

2.1 Presa in carico riabilitativa della persona con grave

cerebro lesione acquisita

Il percorso del paziente con grave cerebro lesione acquisita viene di norma suddiviso

in diverse fasi temporali: la fase acuta, la fase post – acuta o riabilitativa e la fase

degli esiti. Nella fase acuta la persona necessita di ricovero ospedaliero per

trattamenti rianimatori o neurochirurgici. In questa fase predomina l’interesse verso

il danno cerebrale e le menomazioni; gli interventi si connotano essenzialmente come

sanitari intensivi e di tipo diagnostico, terapeutico ed assistenziale, che hanno come

scopo principale l’identificazione e il trattamento dei danni cerebrali e quelli

associati e la previsione della oro possibile evoluzione. Gli interventi riabilitativi in

fase acuta hanno principalmente lo scopo di prevenire i danni e le menomazioni

secondarie, facilitare la ripresa di contatto con l’ambiente, collaborare allo

svezzamento dai sistemi di supporto alle funzioni vitali, dare sostegno alle famiglie

offrendo informazioni “omogenee” sugli aspetti medici, prognostici e riabilitativi.

Nella fase post – acuta o riabilitativa, è possibile fare una ulteriore distinzione fra

fase post – acuta precoce e fase post – acuta tardiva.

Nella prima gli interventi sono finalizzati alla definitiva stabilizzazione clinica

(equilibrio metabolico-nutrizionale, cardiocircolatorio, respiratorio, risoluzione delle

complicanze intercorrenti), sul trattamento delle principali menomazioni invalidanti e

sul ripristino dell’autonomia nelle funzioni vitali di base e nelle attività elementari

della vita quotidiana (ADL primarie). Nella fase post-acuta tardiva, gli interventi

sono prevalentemente orientati al recupero dell’autonomia nelle cosiddette attività

“elaborate o complesse” della vita quotidiana (ADL secondarie) e all’addestramento

del paziente e dei famigliari alla gestione delle problematiche disabilitanti a lungo

termine. L’attenzione si sposta gradualmente all’apprendimento di nuove strategie

per effettuare attività che non possono più essere svolte come prima a causa di

menomazioni non emendabili.

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Nella fase degli esiti l’attenzione è focalizzata essenzialmente sulla facilitazione del

reinserimento sociale, lavorativo, scolastico, e sul contenimento dello svantaggio

sociale, sia della persona che della famiglia. Nella persona con esiti di grave

disabilità dopo la fase riabilitativa, assumono particolare importanza tutte le attività

orientate al contenimento dei danni secondari, al controllo delle condizioni che

potrebbero comportare instabilità clinica, alla prevenzione dell’ulteriore

compromissione funzionale e al mantenimento delle autonomie raggiunte.

FASE ACUTA

FASE

RIABILITATIVA

PRECOCE

FASE

RIABILITATIVA

TARDIVA

FASE DEL

REINSERIMENTO

SOCIALE

Sopravvivenza

Limitazione degli

effetti del danno al

cervello

Prevenzione delle

complicazioni fisiche

dovute al danno al

cervello

Supporto della

famiglia

Stabilizzazione

clinica

Autonomia nelle

funzioni vitali di

base (respirazione,

alimentazione,

controllo della

vescica e

dell’intestino..)

Recupero delle

funzioni motorie,

cognitive,

comportamentali

Autonomia nelle

attività di base della

vita quotidiana

(spostarsi, vestirsi,

lavarsi..)

Supporto e

informazione alla

famiglia

Autonomia nelle

attività complesse

della vita

quotidiana (uso di

mezzi di trasporto,

uso del denaro,

gestione della

casa..)

Predisposizione

dell’ambiente

domestico per il

reinserimento

famigliare

Predisposizione

dell’accoglimento

in strutture

protette quando

necessario

Predisposizione

dell’ambiente

scolastico o

lavorativo in vista

del reinserimento

Supporto e

informazione alla

famiglia, agli

amici, insegnanti,

datori e compagni

di lavoro

Mantenimento di

una soddisfacente

condizione generale

fisica e psicologica

Mantenimento del

livello di autonomia

raggiunto

Mantenimento del

livello di

inserimento

famigliare e sociale

Sostegno e

informazione al

nucleo famigliare e

alle persone

significative

dell’ambiente di vita

Tabella 3: Fasi della presa in carico riabilitativa.

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2.2 Il caregiver

Nella letteratura italiana non esiste una traduzione precisa e unica della parola

caregiver, in quanto si tratta di un termine di origine inglese entrato di recente

nell’uso del linguaggio comune del nostro paese; per tale ragione esistono diverse

interpretazioni della voce in oggetto. Letteralmente il termine significa “colui che si

prende cura”, accudisce cioè qualcuno che ha subìto una diminuzione o perdita di

autonomia per vari motivi (demenza, disabilità, …), una traduzione che induce ad

una definizione ad ampio raggio che può comprendere indistintamente tutti i soggetti

che svolgono un lavoro di cura. Secondo questa dicitura quindi, il caregiving, il

“prendersi cura”, comprende il lavoro svolto da professionisti sanitari e sociali, ma

anche e soprattutto dai soggetti che appartengono al contesto di vita della persona

destinataria della cura, quali i familiari, i vicini, gli amici e altri.

In generale possiamo distinguere un caregiving professionale (dove chi presta cure

è personale specializzato e abilitato, es. infermiere, badante, assistente domiciliare,

ecc.) ed un caregiving famigliare (in cui il caregiver sta accanto, supporta e

permette la quotidianità di un proprio caro ammalato).

Nel caso dei caregiver familiari si parla più di “farsi carico” che di prendere in

carico.

L’espressione “farsi carico” va oltre il fornire delle semplici prestazioni di aiuto,

accentuando un atteggiamento di fondo, “un preoccuparsi, un responsabilizzarsi in

toto, un accogliere globale”.

Le azioni di aiuto messe in atto dal familiare verso la persona destinataria della cura,

non sono azioni tecniche, ma azioni che nascono da un prendersi cura naturale, che si

impara in famiglia. Le azioni in oggetto, sebbene non siano di natura tecnica, sono

altrettanto fondamentali ed in alcuni casi si rivelano indispensabili.

Spesso, infatti, nella cura ad un paziente non autosufficiente, l’intervento terapeutico

può essere inefficace se non è accompagnato dalle cure e dal sostegno dei caregiver

familiari. Dalle due accezioni del “prendersi cura” sopra esaminate, si può trarre

quindi una distinzione tra il “prendersi cura” istituzionale e il “prendersi cura” non

istituzionale, per discernere i professionisti che svolgono un lavoro di cura dagli

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“informal carer”, ovvero coloro i quali svolgono un lavoro di cura “per effetto di

legami familiari o di amicizia”.

Da una ricerca effettuata in Italia sul caregiver risulta che la percentuale delle donne

impegnate nella cura è del 73.8%, senza distinzioni per gravità della non

autosufficienza. La presenza di caregiver di sesso maschile va dal 18% al 30%, in

base anche alla gravità della malattia. Lo squilibrio tra i carer di sesso femminile e

carer di sesso maschile è di notevole rilevanza e il riequilibrio della cura fra i due

generi è un processo in atto ma molto lento. Sebbene le donne costituiscano la

maggioranza tra i carer, il ruolo degli uomini nell’attività di cura è importante e non

va trascurato. Mentre tra il numero di carer maschili e femminili vi è un divario

difficile da colmare, la proporzione tra uomini e donne nei coniugi caregiver è più

bilanciata rispetto alle altre categorie di carer. Per quanto concerne infatti

quest’ultime, lo squilibrio rimane sempre molto evidente e marca nuovamente la

forte presenza delle figlie nel ruolo di caregiver.

Questi dati confermano come, nell’immaginario sociale collettivo, quella della donna

sia una competenza esclusiva nei confronti della cura di chi non può badare a se

stesso, impegno questo ritenuto, a ragione nella maggior parte dei casi, gravoso sia in

termini materiali che emotivi.

2.3 Famigliari e percorso riabilitativo

Quando la malattia, la sofferenza, la disabilità entrano in una famiglia la cambiano

profondamente, sempre. Coloro che si trovano ad affrontare il drammatico viaggio

nella disabilità più grave devono potersi dotare di tutto quello che può servire loro

per affrontare questo lungo e difficile percorso nel modo migliore. A tutti gli aiuti più

tangibili (ausili, sostegno economico, facilitazioni, leggi) devono necessariamente

aggiungersi il supporto psicologico e sociale.

La sofferenza più grave per le famiglie che vivono la realtà delle GCA, ma anche per

la società che li ospita, è data dalla solitudine. Essere lasciati soli accanto al proprio

congiunto in SV o di SMC, essere soli nella propria casa dopo una giornata trascorsa

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accanto al proprio paziente in struttura, essere soli di fronte all’imprevedibilità

dell’emergenza è ciò che più di ogni altra cosa atterrisce chi in prima persona, come

caregiver vive questa realtà.

Le conseguenze che si susseguono dopo un trauma cerebrale molto spesso lasciano

deficit cognitivi permanenti che richiedono un percorso di assistenza lungo e

complesso. La presa in carico della persona con GCA va oltre l'utente stesso e si fa

carico anche del sistema FAMIGLIA, tant'è che le GCA vengono definite come

“patologia di famiglia” (Ranieri Joelle, 2010).

L'infermiere deve confrontarsi con la difficile accettazione della situazione da parte

dei familiari, che inizialmente non sono preparati a farsene carico. Le difficoltà

maggiori, che sono portate nei momenti di visita medica o di riunione di progetto o

di equipe sono quindi quelle percepite e vissute dai familiari.

I principali bisogni dei caregiver riportati in uno studio recente (Yedidia MJ,

Tiedemann A, 2008) che presenta dati da interviste e 4 focus group rivolti a 40

caregiver, ordinati per priorità sono:

· informazioni sui Servizi disponibili,

· gestione dello stress e strategie di adattamento,

· agevolazioni finanziarie e copertura assicurativa,

· aiuto nelle comunicazioni con i professionisti,

· conoscenze sulla patologia,

· aiuto per avere supporto competente,

· aiuto per imparare le attività di cura e assistenza,

· consultare un avvocato,

· informazioni sui farmaci,

· aiuto per strutturare le indicazioni di fine vita,

· consigli sulla mobilizzazione passiva,

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· aiuto per gestire gli affari di famiglia.

I familiari si trovano inaspettatamente a vivere la drammaticità della situazione del

proprio caro davanti ad una realtà spesso a loro sconosciuta, che devono imparare

invece a padroneggiare e gestire: devono maturare un cambiamento di ruolo

veramente importante divenendo anche il principale caregiver di riferimento per la

persona con GCA. I familiari si sentono di fronte alla sofferenza del proprio caro

ingiustamente messi alla prova e ciò li porta ad interrogarsi e a porsi domande sul

senso e significato di una tale trasformazione della propria vita e di quella del

famigliare assistito.

2.4 Il ruolo dell’èquipe: la presa in carico del paziente GCA

e del caregiver

II primo passo, in questo difficile processo di adattamento e accettazione, è la presa

in carico del familiare insieme a quella del paziente offrendo punti di riferimento e

momenti dedicati, quali possono essere le Riunioni di Progetto. Ciò li aiuta a non

sentirsi soli nella loro nuova condizione.

L'obiettivo di rendere più forti le famiglie di questi pazienti, richiede un

avvicinamento sia psicologico che fisico da parte dell'equipe e diventa poi

fondamentale comprendere quelli che loro percepiscono come bisogni nel percorso

che dovranno affrontare.

I familiari hanno il diritto di essere informati, partecipi e attori delle scelte su tutto

ciò che riguarda la salute del paziente (vedi Carta di San Pellegrino).

I professionisti sanitari coinvolti, dovranno perciò saper rispondere alle loro

domande e alle loro necessità con sensibilità e competenza.

La presa in carico consente di instaurare un rapporto di fiducia che, secondo alcuni

autori, è un primo passo per poter cogliere eventuali bisogni specifici (Bond Elaine

A.et al, 2003).

Fra le principali necessità espresse da questi familiari ci sono i bisogni informativi.

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La maggioranza dei parenti intervistati riferiscono di voler essere messi al corrente

sulle condizioni di salute del proprio caro a costo di veder svanire le loro speranze,

nel ricevere notizie negative (Bond Elaine, 2003).

Le famiglie cercano informazioni sulla malattia, sui segni, sintomi ed esiti, sul

significato di particolari comportamenti e sulla gestione del loro assistito da parte dei

professionisti. Le informazioni fornite devono essere presentate utilizzando un

linguaggio semplice e una terminologia chiara, comprensibile e coerente con il

livello recettivo della persona in quel determinato momento tale da non confonderla

ma specificatamente orientata alla richiesta del familiare.

Importante è fornire oltre a informazioni verbali, anche materiale cartaceo, riguardo

alla patologia e alla diagnosi o ai trattamenti riabilitativi in modo da far comprendere

esattamente lo stato in cui si trovano i pazienti e rafforzare gli apprendimenti potendo

prendere visione del materiale cartaceo informativo quando se ne senta la necessità o

in momenti di bisogno (Yedidia e Tiedemann, 2008).

L’assistenza a questi pazienti, va concepita in termini di percorso e non di strutture a

ciclo completo. Il processo informativo accompagna le famiglie durante tutto il

percorso riabilitativo, dall'accoglienza alla dimissione organizzando incontri specifici

in un ambiente idoneo garantendo la privacy, orientati a momenti personali

formativi, in cui siano a disposizione professionisti del team.

E' importante sottoporre tutte le informazioni con gradualità e omogeneità da parte di

tutti i professionisti coinvolti a seconda del disagio familiare presente.

Successivamente il professionista deve accertarsi che questi familiari abbiano

recepito correttamente le informazioni ricevute, invitandoli a formulare domande e

chiedere eventuali approfondimenti. Solo con l'apertura al dialogo si possono avere

risposte per far luce sulle difficoltà e sui problemi che ci sono da superare. Tuttavia

non è una strada facile in un momento così difficile.

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2.5 Aspetti psicologici del caregiver di pazienti in stato

vegetativo: Burden, stress e depressione

Il Burden del caregiver viene comunemente definito come il “peso dell’assistenza”

percepito dal caregiver che si traduce in un disagio psicologico caratterizzato da

ansia, depressione e malessere fisico e in un carico soggettivo che investe gli aspetti

sociali ed economici dell’assistenza. Si tratta di un concetto multidimensionale che si

ripercuote in modo globale sulla qualità della vita delle persone che si occupano del

proprio congiunto ammalato, soprattutto in certi ambiti.

Il "caregiving" è dunque un'attività difficile e destabilizzante.

Come emerge dalla maggior parte degli studi al riguardo, il caregiver esperisce

rabbia, stanchezza, senso di colpa (per il timore di non essere adeguato al

compito), o percepisce una propria supposta "inutilità".

Dal punto di vista psicologico sono i sintomi depressivi e i problemi d'ansia il

vissuto più diffuso nel caregiving (stress cronico).

La tensione del caregiver finisce per manifestarsi anche sul piano fisico (già provato

dalle incombenze pratiche) ed è quindi più facile trovare in queste persone problemi

gastrici, mal di testa, dolori dovuti anche alle manovre pesanti che attuano, e tutta

una serie di disfunzioni immunitarie e problematiche che spesso derivano dal non

avere tempo e risorse per poter curare se stessi.

L'assenza di spazi dedicati al proprio benessere può essere deleteria e

comportamenti alimentari e abitudini che sono sfogo (come alcool o fumo) portano

nel lungo termine a conseguenze nefaste a livello psico-fisico.

L’impegno nell’assistenza di un famigliare in SV ha ricadute piuttosto rilevanti sulla

salute del caregiver, sia a livello fisico che psicologico. La necessità di ristrutturare i

propri tempi richiesta dall’assistenza, la riorganizzazione del proprio stile di vita, le

nuove decisioni da prendere e i problemi economici legati all’assistenza possono

portare l’intero sistema famigliare a subirne le conseguenze, come ad esempio

l’attivazione di tensioni e conflitti. E’ possibile inoltre che chi per diverse ore è

impegnato nella cura del proprio caro perda interesse o rinunci volontariamente a

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coltivare le proprie passioni e i propri hobby. A ciò a volte si aggiunge la possibilità

che si riducano le opportunità professionali sino ad arrivare all’abbandono del lavoro

(Sherwood, 2008; Mazanec, 2011). A questo profondo cambiamento dello stile di

vita spesso si affiancano altri importanti cambiamenti a livello emotivo e

psicologico, dovuti alla natura stessa dello stato in cui si trova il proprio caro.

L’esperienza clinica e la letteratura scientifica hanno inoltre evidenziato un

deterioramento della qualità di vita percepita, che può essere definita come un

costrutto multidimensionale comprendente almeno tre domini: fisico, psicologico e

legato al funzionamento sociale (Cella & Tulsky, 1990).

Recentemente è stato osservato che il carico dell’assistenza incide particolarmente

sul benessere psicofisico (Ayre, 2000; Berglund & Ericsson, 2003). In letteratura, vi

è un sostanziale accordo nel definire tale impatto come il “peso dell’assistenza”

percepito dal caregiver (ClarK, 2002) che spesso si concretizza sia in un disagio

psicologico caratterizzato da un aumento degli stati ansiosi, depressivi e di malessere

fisico, sia in un aumento delle preoccupazioni relative gli aspetti sociali ed economici

dell’assistenza. A questo concetto multidimensionale si affianca l’aspetto, che più di

altri contraddistingue questo tipo di caregiver rispetto a coloro che assistono malati

con altre patologie gravi, che è quello della sofferenza psichica, grave e prolungata,

strettamente connessa al caregiving di una persona in stato vegetativo. La difficoltà

ad accettare la diagnosi di stato vegetativo, il senso di colpa e di frustrazione e il

distress psicofisico generale collocano il caregiver di pazienti in stato vegetativo

all’interno di un sistema caratterizzato da un sovraccarico emotivo molto simile a

quello che deve affrontare una persona che vive la perdita di una persona

(Chiambretto, 2008; Chiambretto et al., 2008), ma al contempo caratterizzato

dall’impossibilità di un’elaborazione del lutto non essendo il proprio caro morto.

Stern e colleghi (1988) lo definiscono paradosso emozionale poiché la persona è allo

stesso tempo viva e morta, presente e assente; ciò porta il caregiver a sentirsi

imprigionato nel senso di colpa, nel dolore e nei ricordi, ostacolando la capacità di

reagire a questo evento stressante e rendendo socialmente inaccettabile

l’elaborazione del lutto (Lezak & O’Brien, 1988). Tali livelli di disagio e sofferenza

si mantengono pressochè inalterati con il passare degli anni. Intrappolati nel tempo, i

famigliari paiono rispecchiare quella condizione d’immutabilità che cratterizza il loro

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congiunto malato (Chiambretto & Vanoli, 2006). Tale condizione di sofferenza

prolungata determina una specifica forma di patologia correlata al distress psichico

derivato dalla perdita ed è chiamata “Prolonged Grief Disorder” (PGD; Zhang, 2006;

Prigerson, 2007; Chiambretto, 2008), ossia disturbo da sofferenza prolungata.

Le strategie a cui le persone ricorrono per far fronte a eventi stressanti sono

considerate tra i fattori che contribuiscono a modulare il carico soggettivo del

caregiver. Gli stili con cui i diversi caregiver fronteggiano lo stress possono essere

molto differenti (strategie di coping). In generale, la capacità di avere una buona

consapevolezza dei problemi che si devono affrontare e delle risorse disponibili, la

convinzione che le risorse non debbano essere esclusivamente interne alla persona e

la possibilità di avere un adeguato supporto esterno rappresentano alcuni dei punti

chiave per riuscire a sviluppare e/o migliorare la capacità di affrontare l’evento

stressante.

Lo stress dei caregiver di pazienti in stato vegetativo

Da quando le famiglie sono state riconosciute come i principali fornitori di cure per

le persone affette da danni cerebrali, alcuni autori (Verhaeghe et al. 2005) hanno

investigato l’estensione dello stress e del fardello che vivono i familiari.

“Lo stress è concettualizzato da Monat e Lazarus come una caratteristica della

relazione fra individui e ambiente. Uno stressor è uno stimolo che l’individuo

percepisce come una minaccia, perché la persona pensa o sente che l’individuo è

inadeguato, nel senso di incapace di reagire” (Verhaeghe et al., 2005).

Le conseguenze dell'episodio di malattia, hanno chiaramente rilevanza sul grado di

stress nei membri della famiglia. I problemi di personalità, comportamento,

emozione ed intelletto della vittima mostrano una forte correlazione con il grado in

cui i membri della famiglia provano pressione, ansia e depressione.

Una persona in stato di minima coscienza ha un impatto maggiore sui

compagni/coniugi rispetto agli altri parenti. La relazione fra partner diventa meno

stabile e lo stress provato è maggiore. I partner esprimono maggiore dolore fisico e

psicologico, hanno punteggi più alti sulle scale di depressione e si trovano di fronte a

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situazioni di crisi più spesso dei genitori. Le famiglie giovani con poco supporto

sociale, e problemi finanziari o psichiatrici e/o medici sono le più vulnerabili.

Lo stress genitoriale è maggiore quando ci sono bambini che vivono in casa piuttosto

che figli già cresciuti che vivono da soli. Si osserva anche una differenza fra uomini

e donne, non solo riguardo ai bisogni, ma anche con riguardo a depressione e ansia.

Le donne hanno sempre punteggi più alti di stress e depressione sulle scale.

La ricerca indica quali membri sono più vulnerabili: coniugi, bambini, famiglie con

problemi finanziari o medici. Bisogna trovare interventi adeguati che diano maggiori

attenzioni ai gruppi di persone che hanno priorità.

Un ulteriore studio sulla qualità di vita dei familiari durante la gestione della persona

assistita a domicilio evidenzia che prima della lesione i familiari riuscivano a gestirsi

in modo soddisfacente, mentre dopo il trauma vi è un cambiamento radicale che

rende la qualità di vita meno incoraggiante (Kolakowsky-Hayner, 2001).

Il protrarsi dell'assistenza che le famiglie forniscono, a lungo-termine potrebbero

causare disturbi psicosomatici, depressone, insonnia e perdita di appetito.

Alcuni familiari esprimono un vissuto di isolamento e una delle cause è la mancanza

di condivisione che accresce la fragilità già esistente.

La loro qualità di vita risulta inferiore dal punto di vista della salute rispetto alla

popolazione generale.

2.6 La relazione tra caregiver formali e informali di pazienti

in stato vegetativo

L’attuale filosofia dei servizi socio-sanitari riconosce il coinvolgimento della

famiglia nel processo di assistenza quale aspetto da incoraggiare, dato il ruolo

fondamentale che essa svolge per garantire il benessere fisico ed emotivo del

paziente. Tale approccio all’assistenza sta quindi ricevendo sempre maggior

attenzione (Logue, 2003), anche in considerazione del fatto che agli operatori sanitari

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non sono richieste solo capacità tecnico-professionali specifiche, ma anche

competenze di tipo relazionale (Cinotti & Wienand, 1999). Difatti, nelle ultime

decadi, molti studi sono stati condotti con l’obiettivo di comprendere la relazione tra

caregiver e operatori impegnati in quelle che sono state definite le “helping

professions” (Gladstone & Wexler, 2001; Maas & Reed et al., 2004; Funk &

Stajduhar, 2011). In particolare l’accento è stato posto sulle caratteristiche

intrinseche ed estrinseche che le relazioni tra questi due tipi di caregiver dovrebbero

possedere al fine di godere dei benefici che la condivisione dell’assistenza può

promuovere (Duncan & Morgan, 2002; Gladstone & Wexler, 2000; Couture,

Ducharme & Lamontagne, 2012).

Tensioni e conflitti tra questi due tipi di caregiver possono avere diverse cause

(Shield, 2003; Utley-Smith, Colòn-Emeric & Lekan-Rutledge, 2009). Possono

emergere quando i professionisti falliscono nei riconoscere ai famigliari una

competenza basata sull’esperienza, quando lo staff è insensibile ai sentimenti o ai

bisogni dei familiari, quando i ruoli si sovrappongono o quando sono definiti in

modo eccessivamente rigido, quando esistono contatti limitati tra staff e caregiver

famigliari e quando le aspettative professionali dei famigliari sono contraddittorie.

Sembra che i caregiver professionisti attribuiscano ai caregiver famigliari una

posizione ambigua: a volte sono percepiti quale fonte di problemi, altre volte quali

soluzioni all’emergere di questi (Kaye, 1985; Nolan & Grant, 1989; Twigg & Atkin,

1994).

Una chiara comprensione dei fattori che possono influire positivamente nella

relazione tra caregiver formali e informali è pertanto un nodo cruciale, e la sua

importanza cresce ancor più se si considera la gravità della condizione del paziente in

stato vegetativo, la durata dell’istituzionalizzazione e la stretta dipendenza che

s’instaura tra caregiver-paziente-operatore.

Gladstone e Wexler (2002) individuano diverse modalità di interazione tra caregiver

e staff di istituti di lunga degenza. I risultati del loro studio indicano che i caregiver

famigliari percepiscono maggiormente positive le modalità di interazione

caratterizzate da professionalità e disponibilità da parte dello staff. Inoltre, gli autori

rilevano come anche la partecipazione alle decisioni riguardanti l’assistenza, il

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condividere esperienze e lo stabilire un rapporto di fiducia sono associati

all’instaurarsi di relazioni positive. Risultati analoghi sono stati osservati anche in

altri studi (Hertzberg & Ekman, 2000; Ward-Griffin, Bol, Hay & Dashnay, 2003). In

quest’ottica sembra emergere che collaborazioni efficaci tra caregiver formali e

informali possano essere percepite come processi dinamici e in continua evoluzione

che subiscono l’influenza di fattori a più livelli.

Un recente approccio che tenta di fornire un’interpretazione alla complessa relazione

tra caregiver formali e informali è stato proposto dal Convoy of care model (Kemp,

Ball & Perkins, 2013). Tale approccio, che trae le sue radici nell’antropologia (Plath,

1980) e nella psicologia (Kahn & Antonucci, 1980), si basa su una prospettiva

evolutiva del sostegno sociale e postula che gli individui siano incanalati in reti

dinamiche di strette relazioni personali che servono come “veicoli attraverso i quali il

supporto sociale è “distribuito o scambiato” (Antonucci, 1985). Pertanto l’idea è che

gli attori della relazione siano immersi all’interno di un insieme di relazioni sociali,

dove tutti forniscono, ricevono e scambiano sostegno attraverso diverse modalità: in

forma di aiuto, a livello emotivo, e ancora attraverso supporto e incoraggiamento.

Nell’affrontare il rapporto tra individuo, gruppo e organizzazione che li contiene è

operativamente utile distinguere tra la cosa e la sua rappresentazione, per dare un

respiro dialogico alla connessione tra le tre componenti di questa relazione. Proprio

per questo Rouchy (1999) considerava l’organizzazione come la “cosa” e

l’istituzione come la “rappresentazione della cosa”. D’altro canto anche in autori

(Burlini & Galletti, 2000) che definiscono l’istituzione come un’organizzazione che

condivide un obiettivo concreto comune, nel tempo e nello spazio, è ben presente la

distinzione tra la dimensione concreta dell’organizzazione e i suoi correlati simbolici.

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CAPITOLO 3: AIUTO PSICOLOGICO AL CAREGIVER

3.1 Singoli, équipe e stato vegetativo

Il contatto diretto con la persona sofferente satura l’operatore sanitario di sensazioni,

di impressioni e di ricordi personali che egli riesce talvolta a elaborare soltanto nel

piccolo gruppo dei suoi colleghi e con le persone che riflettono sulla stessa materia.

Tale riflessione gli permette di rappresentarsi questa esperienza in maniera che possa

essere, di volta in volta, risignificata alla luce della sua motivazione, senza assumere

degli aspetti automatici e programmati, oppure sacrificali ed esasperati. Tutti questi

elementi sottraggono all’incontro la disponibilità emotiva e l’immediatezza che sono

indispensabili perché la persona sofferente possa, mano a mano che perde alcune

abilità, vicariarle su un altro disponibile ad aiutarla e, mano a mano che sviluppa

altre, sentirsi incoraggiata ad assumerle e a esercitarle autonomamente. Questo

mutuo lavoro tra accudente e accudito appare così importante che non si apprende

solo teoricamente che presuppone dedizione ed esperienza, spesso arricchita dall’età

dell’operatore sanitario. Il contatto con le angosce di una vita sospesa contribuisce in

modo significativo a verificare su di sé ciò che è opportuno e tempestivo operare

nelle singole circostanze. E’ qui che s’impone l’opportunità/necessità di sentirsi

sostenuti dal gruppo affinchè la libertà la libertà delle scelte non si tramuti in

angoscia depressiva.

La presa in carico di una malattia cronica coincide, come nello stato vegetativo, con

la presa in carico di una situazione complessa che rinvia ai gruppi che

necessariamente devono incontrarsi e confrontarsi. Essi sono la famiglia e il gruppo

équipe. Se ciò non avvenisse, sarebbe impossibile evitare che gli operatori sanitari

che si prendono cura dello stato vegetativo non sperimentino un senso di fallimento

come quando una malattia diviene cronica. L’alienazione terapeutica, che si

determina spesso nella cronicità, è indotta da un clima di spossante immobilità e

pieno di sentimenti mortiferi (Fasolo, 2011; Bellotti & Madera, 2008) che abitano nei

reparti dove il gruppo équipe gestisce i bisogni dello stato vegetativo in assenza del

confronto con la famiglia e tra di loro.

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La realtà dello stato vegetativo si presenta complessa e altamente specifica. Essa

implica diversi aspetti (organici, psicologici e istituzionali) che convergono e

divergono con la presa in carico di altre malattie croniche. Il percorso di cura dello

stato vegetativo attiva e origina sia atmosfere di cura diverse, sia dialoghi interni ed

esterni all’équipe. Il paziente in stato vegetativo è una presenza assente; quindi, il

solo campo relazionale vivo e presente è quello famigliare. Lo stato vegetativo è una

condizione che cade nell’immediatezza del fatto traumatico e quando ciò avviene il

tempo si ferma: l’équipe, allora, deve trovare delle risorse per mantenere vivo lo

sforzo di cura che può apparire vano, se inteso narcisisticamente. Il curare dovrà

coincidere con il prendersi cura.

E’ utile quindi porre l’accento sul fatto che la gestione di un’équipe che si prende

cura di un paziente in stato vegetativo in una struttura ospedaliera di terzo e secondo

livello è una gestione che prevede vari momenti di passaggio, varie fasi. Non

considerare la specificità di questa condizione rischia di occultare situazioni che

possono avere una rilevanza cruciale nella comprensione delle dinamiche che

accompagnano la cura della malattia. In altri termini, esiste una dimensione

temporale nella cura delle gravi cerebro-lesioni acquisite. A partire dal coma, si

susseguono scenari che prevedono climi emotivi e affetti diversi. Il coma comporta

una situazione d’incertezza che adombra le speranze; l’attesa del risveglio implica,

invece, un atteggiamento attonito che sollecita speranze o amarezze.

Lo stato vegetativo è l’ultimo atto di un percorso non semplice, che disillude e pone

notevoli questioni. La mancata considerazione di questi aspetti psichici ed

emozionali diversi nel tempo, nel corso delle diverse fasi delle crisi provocate dal

trauma cranico, rischia di amplificare i sentimenti di disagio, solitudine e dolore non

solo del paziente e del suo contesto famigliare, ma anche dell’équipe che si occupa

dell’assistenza medico infermieristica al malato traumatizzato.

Nasce così la necessità di vivere il gruppo di lavoro come un “possibile spazio”

espressivo, simbolico e contenitivo della propria vicenda personale, la quale in forma

universale si confronta inconsciamente con la nascita, la sessualità, a famiglia, la

malattia e la morte.

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Le èquipe che operano all’interno delle Istituzioni di cura non possono essere pensate

solo come un insieme di parti, di ruoli gerarchici e professionali e di funzioni

articolate (Correale, 1999). L’èquipe è un mondo complesso, un sistema

affettivamente potente, dotato di una sua delimitazione verso l’esterno, di una storia,

di un suo insieme di miti, affetti, valori, esperienze comuni.

“Comunque vadano le cose siamo autorizzati a pensare l’èquipe come un tutto, un

apparato globale che può rispondere a stimoli, esperienze, vissuti innovativi; come

un insieme dotato in larga misura di caratteri di globalità e unitarietà” (Correale,

1999).

Appare dunque fondamentale illuminare e cercare di creare una scia teorica in grado

di individuare come le èquipe rispondano allo stimolo della malattia e alla

perturbazione ad esse conseguenti, per evitare che si crei una specie di zona muta e

silenziosa nella mente degli operatori. Tale zona muta si manifesta principalmente

sotto forma di incapacità di pensare agli eventi da angolature nuove, costretti invece

a rifugiarsi nella sensazione rassicurante, ma sterile, che di quel paziente si sappia già

tutto (Correale, 1999).

3.2 Interventi psicologici dedicati ai famigliari

I centri riabilitativi di III° livello predispongono una presa in carico complessa cui

partecipano molte figure professionali; tra questi spesso vi è lo psicologo che,

accogliendo le famiglie, apre uno spazio relazionale dedicato ai famigliari, che può

durare anche alcuni mesi e comunque per il periodo di permanenza presso la struttura

riabilitativa.

Durante la fase riabilitativa, la famiglia, nella quasi totalità dei casi, viene

considerata come un mezzo utile per riabilitare il soggetto malato. Il nucleo

famigliare accompagnato dallo psicologo individua con il passare del tempo la

persona di riferimento alla quale l’èquipe riabilitativa fa riferimento. Nasce così il

caregiver la cui individuazione è un effetto spontaneo di dinamiche famigliari: egli

avrà il compito di salvaguardare la salute del soggetto e di mediare tra le esigenze

famigliari e quelle dello staff medico.

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Procedure psicologiche consolidate, gruppi di auto aiuto, percorsi psicoterapeutici

individuali che si attivano per le famiglie già durante la fase della rianimazione, sono

presenti nei protocolli operativi dei centri riabilitativi di III° livello e sono applicate

per l’accoglienza e il trattamento dei famigliari di pazienti con una grave cerebro

lesione acquisita. Le numerose Conferenze di consenso, dedicate al problema, hanno

sempre espresso la necessità di avviare fin dalla fase acuta il sostegno psichico e

sociale da dedicare ai famigliari.

Nel 2011 un gruppo di esperti (Nistri, Zampolini, Avesani et al., 2011) ha

riesaminato tutta la letteratura scientifica internazionale dedicata al problema,

decretando che il sostegno psichico è necessario e utile nei reparti per pazienti acuti.

Lo scorrere dei giorni in acuto definisce la prognosi dei soggetti. L’incapacità del

paziente di stare dentro una relazione e di rispondere alle stimolazioni dell’ambiente

esterno induce a definire il deficit della coscienza come probabilmente cronico o

persistente. Lo stato vegetativo, nel suo divenire, pone i famigliari a confronto con

un’assenza che declina un vissuto simile al lutto, ma che lutto non è. Il vissuto può

essere descritto per caratteristiche specifiche che sono state ben documentate dal

gruppo italiano coordinato dalla Chiambretto (2001, 2006, 2010) e per altre

peculiarità che denotano una condizione esistenziale di sospensione che è alimentata

dall’essere del soggetto malato. Questa sospensione comunque non è mai un

esperienza vuota e se bene esplorata è ricca di elementi psichici che possono

costituire un utile materiale per il percorso psicoterapeutico.

Il ruolo dello psicologo in acuto è di garantire uno spazio relazionale alla famiglia e

al caregiver dei pazienti in stato vegetativo. In prima istanza questo setting ha il

compito di proteggere i famigliari dal dolore devastante e di avviare un processo di

riconoscimento delle trasformazioni prodotte dalla vita che continua a scorrere.

Attorno a questo setting va costruito un témentos (“spazio sacro”, bisogno di

delimitare e proteggere) che protegga e promuova nell’èquipe la conoscenza di

quella determinata situazione famigliare.

I tempi di elaborazione e di riconoscimento della nuova realtà non coincidono con le

esigenze dell’èquipe che molto spesso preme sul tèmentos affinchè la famiglia possa

velocemente accettare questa nuova condizione di vita. La capacità di ogni èquipe di

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comprendere tempi e modalità di elaborazione di ogni singola famiglia è una

funzione che deve essere curata ed incentivata all’interno dello staff dallo psicologo,

il quale, avendo in mente il progetto terapeutico sarà responsabile anche dei processi

di mentalizzazione della cura da parte dell’èquipe curante.

Una volta giunti al termine della fase riabilitativa senza sostanziali cambiamenti,

inizia la fase degli esiti, durante la quale si stabilizza la condizione di stato

vegetativo. In questa fase la famiglia deve decidere se istituzionalizzare o no il

proprio congiunto.

Se il percorso scelto è l’ingresso in un nucleo per stati vegetativi, si apre una nuova

stagione per il caregiver e la sua famiglia. La famiglia vi arriva con una forte e

lacerante delusione per il mancato recupero del proprio famigliare, dopo molti mesi

di attesa che si avverasse il miracolo, e con il vissuto di impotenza per non essere in

grado di accudirlo a casa (Lucca & Raso, 2008).

L’avvicinamento dei famigliari, sin dalla fase acuta, è un lavoro lungo e lento che

prevede la capacità dello psicologo di inserirsi nella loro vita, spesso senza che ne sia

espressa la richiesta.

Gli incontri, la prossimità, le sensazioni, le prime parole e gli elementi che

compongono dall’inizio la storia medico-biografica e famigliare, si compongono e si

amalgamano in un contesto ambientale e in una cultura specifica. Anche la persona

dello psicologo, ancor prima della sua funzione, è vissuta, conosciuta e osservata. I

primi contatti e i primi accenni di conoscenza tra i famigliari e lo psicologo sono

spesso indiretti, informali, occasionali. Quello che si avverte è una sensazione di mal

celata diffidenza, soprattutto se i famigliari hanno vissuto, durante la fase acuta, un

vissuto di isolamento e non hanno incontrato la funzione psicologica di accoglienza e

contenimento. In altri casi, invece, il processo di stabilizzazione avviene molto

rigidamente con l’instaurarsi di relazioni di dipendenza o fusionali, che impongono

già da subito le difficoltà di creare un setting terapeutico chiaro e definito. Talvolta

avviene che i famigliari si inseriscano in uno stato iniziale di semiparalisi

psicologica, caratterizzata dal blocco del pensiero e dalla ridondante presenza di

alcune emozioni come la rabbia, l’ostilità e la rinuncia malinconica. Un approccio

affrettato a queste persone profondamente ferite può generare molte occasioni di

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fallimento per chiunque si proponga come persona qualificata per l’aiuto psicologico

e anche di fronte a un semplice invito a incontrare lo psicologo. Solitamente chi

invita o consiglia i famigliari ad avvalersi dell’aiuto dello psicologo sono gli

operatori o altre figure professionali nell’ambito sanitario. Il processo di invio dallo

psicologo, rivolto al famigliare, non risulta mai facile, anche se spesso,

ingenuamente, è considerato tale. Gli operatori sanitari che non siano adeguatamente

formati e che non abbiano maturato una consapevolezza personale relativa alle

condizioni psicologiche dei famigliari del paziente dovrebbero essere aiutati in

questo compito assai problematico. Ne consegue che la cultura psicologica e la

preparazione alla comprensione del proprio ruolo all’interno delle dinamiche di cura

con questo tipo di famigliari costituisce una grande differenza tra le strutture che

istituzionalmente hanno integrato la funzione psicologica e quelle che non l’hanno

fatto. Appare evidente che i percorsi che possono favorire l’avvio di una relazione

che preveda delle reali possibilità di svilupparsi in forma positiva dipendono molto

dalla consapevolezza dell’èquipe, oltre che dalla messa in organico dello psicologo.

Perché l’intervento dello psicologo con questi famigliari sia positivo, occorre che

egli sappia osservare e osservarsi, ascoltarsi e vivere un rapporto di vicinanza e di

contatto con il paziente. Chi non è in grado di frequentare interiormente queste

condizioni in modo autentico e di lasciarsi condurre da quanto suscita

un’immaginazione libera, non potrà ampliare il proprio orizzonte esistenziale e

psicologico, adeguandosi ai compiti che l’attendono. Le grandi patologie o i grandi

eventi traumatici coinvolgono esistenzialmente le persone. Esse sono molto attente e

veramente selettive rispetto al valore della vicinanza emotiva e in generale verso

tutto ciò che riguarda il mondo degli affetti.

3.3 Il lavoro psicologico del gruppo

La tecnica della terapia di gruppo è stata scelta come strumento elettivo, che più si

presta a processi dinamici di confronto e di rispecchiamento, per far fronte al vissuto

di isolamento e di autoreferenzialità che spesso caratterizza la condizione di questi

famigliari (Mazzucchi, 2008).

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Il gruppo è in grado di generare effetti oggettivi ma ha anche la capacità di produrre

manifestazioni reali d’identificazione, dipendenza, realizzazione sociale e sicurezza,

che si generano dal desiderio di appartenere a un gruppo. Il gruppo diventa così un

ancoraggio di riferimento per l’individuo: esso possiede valenze affettivo-cognitive

per le quali l’individuo singolo si identifica, traendone beneficio per la sua identità e

la capacità di modificare la propria condotta sostanzialmente e in misura maggiore di

qualsiasi forma di persuasione soggettiva. Il gruppo consente, quindi, di creare

particolari spazi di esperienza e di comportamento, offrendo la possibilità di

innescare reali e positivi processi di cambiamento (Salvini & Guicciardi, 1983).

Il lavoro terapeutico generalmente si realizza dopo otto-dieci mesi, a volte anche

dopo. Infatti, l’aspetto terapeutico-trasformativo di gruppo ha bisogno di un tempo di

incubazione in cui si depositano le ansie dell’ambiguità e dell’incertezza e si

consolida il senso di fiducia e di appartenenza (Corbella, 2003).

La molteplicità di stimoli presenti in questo tipo di setting porta l’individuo a un

grado di complessità e di universalità tale da permettergli il recupero di fondamentali

potenzialità narcisistiche positive, ma anche a essere in grado di dosare il

coinvolgimento seguendo il tipo di risposte e di relazioni costruttive che il conduttore

promuove con gli altri partecipanti. Si crea così una compartecipazione che diventa

un’esperienza maturativa e anche rassicurante rispetto al sentimento ferito e alle

perdite subite, mai raccontate e perciò mai realmente riparate. Gli psicologi Lo

Verso e Papa (1995) hanno posto l’accento sull’importanza del “tempo vissuto” tra il

passato, il presente e il futuro, cogliendo in tale movimento psicologico un

“movimento libero”, il quale può guarire ciò che è compromesso e bloccato nella

condizione di queste persone. Gli autori hanno denominato come “spazio senza”

questo movimento psicologico “libero” il quale può entrare terapeuticamente nella

“terra di nessuno” in cui le persone declinano nella rinuncia l’esperienza di dover

accedere a una possibile graduale separazione dal famigliare collocato nell’assenza

di una presenza pensante (Corbella 2003). Tale situazione soggettiva è condivisa e

riconosciuta dal gruppo, così che l’aiuto da esso innescato permette al soggetto di

riattualizzare alcune sue vecchie e coattive posizioni, di diminuire le ansie e le paure,

e di riscrivere la sua storia.

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3.4 L’efficacia terapeutica del gruppo

La terapia di gruppo, rispetto alle dinamiche che regolano un setting individuale,

appare la metodologia di aiuto più appropriata per innescare processi trasformativi

nei famigliari che accompagnano i pazienti ricoverati in queste strutture lungo un

percorso di assistenza e di relazione possibile, rendendo reali i sentimenti di vita e

aiutando a ridefinirne il concetto stesso.

Un gruppo terapeutico di caregiver è il “luogo” nel quale la persona che si occupa del

congiunto procede verso un’individuazione nuova e trasformata della propria

famiglia e di sé, proprio in virtù dell’atto del prendere in cura il congiunto e del

prendersi cura di se stesso.

Raccontando e analizzando l’ampiezza e l’intensità del prendere in cura e del proprio

prendersi cura, nel gruppo terapeutico inizia il processo di elaborazione della

perdita.

Tutti i partecipanti del gruppo, in un crescendo di coscientizzazione di cosa ha

comportato l’assunzione di tale impiego, di come l’hanno affrontato e di cosa hanno

perso, provano sentimenti di smarrimento e di perdita di parti interne di sé.

Non è del lutto o della morte i cui si parla, ma del “morire dentro”, della scomparsa

del mondo, “dell’incubo della vita bloccata”, ostaggi di una vita vegetativa, induriti

come legno e ripiegati in nodose forme. Il dolore angosciante di sentirsi impediti,

completamente incapaci di risvegliarsi, si traduce in un bisogno crescente di

trasformare questa situazione, così che anche la morte, in quanto cessazione di questa

condizione, appare come una soluzione.

Il lavoro psicologico/terapeutico che s’impone in diversi gradi d’intensità e

nell’estrema variabilità di condizioni e personalità, consisterà nella ricerca di un

equilibrio prima e di una trasformazione dopo l’incubo. Ciò cui il caregiver è

esposto, in conflitto con la famiglia oppure in sua delega, è di reggere il peso di

quell’incubo, quasi dovesse pian piano riuscire a sopportarlo, renderlo sempre più un

fatto privato, individuale, incomprensibile agli altri, fino in fondo, quasi a

convincersi di averlo fatto sparire dentro di sé, proteggendosi e proteggendo così

anche gli altri.

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Molto raramente il caregiver parla di lutto nel senso della morte del suo congiunto. Il

lutto del congiunto non è al centro dei timori del caregiver, anzi, spesso egli si trova

piuttosto collocato in un rapporto di fusionalità o di estrema intimità. Solo raramente

e alla presenza di pregresse condizioni patologiche, tali fusionalità possono essere

osservate e capite come il risultato di un fallito tentativo di elaborazione di un lutto

anticipato. Sono invece percepite in quanto riferibili ai complessi di colpa o a

dinamiche di dipendenza. Per lo più, è il morire dentro la condizione del sentimento,

forse la stessa intera “funzione sentimento” della personalità che si appresta a far la

parte dell’oggetto psichico di cui si parla. Quasi consciamente, ma di sicuro in modo

intuitivo, possiamo comprendere che è il luogo interiore, lo spazio psicologico

occupato dal sentimento verso il congiunto, che ha bisogno di una certa

delimitazione e riconoscibilità da parte del caregiver.

La stabilizzazione, come condizione prolungata può essere considerata come

l’aspetto esterno della condizione del sentimento nella relazione con l’assistito. Un

comportamento rigido e ripetuto, quasi automatico e quotidiano del caregiver, può

essere messo in relazione a una dinamica irrigidita e a una quasi completa riduzione

del mondo degli affetti, diversamente da un comportamento più variabile che invece

entra in relazione con dinamiche e contenuti anche più espressivi e trasformabili. In

tutti i casi comunque è il sentire che conta, e riuscire ad ascoltarlo permette o

impedisce una certa variabilità nel flusso dei sentimenti e delle emozioni.

Stabilizzazione, dunque, vuol dire che la persona ha raggiunto, in rapporto al tempo

vissuto, un certo tipo di atteggiamento da dovere e poter affrontare, a partire dalla

sua condizione interiore.

In sintesi è tutto questo ciò che riguarda la vicenda inerente alla relazione e gestione

del proprio caro, sia rispetto all’istituzione, sia rispetto alla famiglia. Tale tipo di

compito, che il caregiver assume su di sé in modi e significati sempre originali e

unici, è un punto di arrivo e allo stesso tempo un momento esistenziale e psicologico

importante della sua vita anche se non così raramente si appresta a diventarne il

principale, se non addirittura l’unico.

Quello che succede alla personalità del caregiver e probabilmente anche ad altri

componenti della sua famiglia, non è da ricercare soltanto nella perdita luttuosa di

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diversi e profondi ordini fisiologici, ma anche nell’origine violenta di nuovi e, per

alcuni aspetti, mostruosi ordini di vita e di come questi due piani, pur essendo in

maniera ineludibile presenti e oscillanti, possano elidersi a vicenda riducendo il tutto

a una insostenibile e insulsa fatica, con conseguente rinuncia alla produzione di un

nuovo “senso” del prendere in cura e del prendersi cura.

Il lavoro sull’accettazione dell’evento e degli accadimenti successivi, attraverso lo

scambio e la circolazione delle esperienze nel gruppo, lentamente deposita un

substrato di storia e di vissuti nuovi, prepara a una comprensione di sé e della propria

vita diversa, aiuta ad andare avanti, ma è la grande ferita narcisistica che questi

eventi procurano che necessita quasi esclusivamente di terapia.

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CAPITOLO 4: COSA DICONO GLI STUDI?

4.1 Articoli rilevati nelle banche dati

Quali sono, quindi, le emozioni prevalenti nel caregiver del paziente in stato

vegetativo e di minima coscienza?

Esistono studi in proposito?

Esistono interventi per migliorarne la condizione e il benessere?

Dopo essermi posta queste domande, ho cercato evidenze scientifiche che

rispondessero ai miei quesiti individuando in PubMed 10 studi osservazionali

rispondenti ai miei quesiti, che ho descritto nella Tabella 4.

Gli atricoli 3-7-8 hanno indagato la presenza di disturbo da sofferenza prolungata

(PGD), il Burden (peso dell’assistenza), la depressione e l’ansia, e come questi siano

correlati al tipo di Coping adottato dal caregiver: l’accettazione implica minori livelli

di ansia e depressione ed una migliore salute psicofisica.

Gli articoli 1-2-9- hanno indagato la presenza di depressione, Burden, distress, PGD,

tensioni famigliari e qualità della vita dei caregiver, rilevando alti livelli di

depressione, Burden, distress, PGD e tensioni famigliari ed una bassa qualità di vita.

L’articolo 4 ha indagato eventuali differenze di Burden correlato alla diagnosi del

proprio congiunto (SV o MCS), dimostrando che i bisogni e il Burden rilevati nei

caregiver erano sostanzialmente simili a prescindere dalla diagnosi del congiunto.

L’articolo 5 ricercava correlazioni tra PGD e PTSD (sindrome da stress post-

traumatico), rilevando che i sintomi di PTSD siano predittivi di PGD.

L’articolo 6 ha indagato eventuali correlazioni tra la salute psicofisica del caregiver

e i sintomi depressivi, di ansia, l’età e la durata della malattia del congiunto,

rilevando che i sintomi di ansia e depressione avevano un impatto negativo sia sulla

salute fisica che mentale, specialmente su quella mentale, e specialmente sulle

donne. In entrambi i sessi i risultati hanno evidenziato che la giovane età era

correlata ad una migliore salute fisica.

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L’articolo 10 ha indagato nel caregiver, la presenza di paradossi emotivi tra la vita e

la morte, rilevando che il caregiver arresta la propria vita per dare voce al corpo

vivente del proprio congiunto che non può esprimersi.

Inoltre, tutti gli studi rilevati confermano la presenza di problemi psicologici severi nei

caregiver di pazienti con gravi cerebro lesioni acquisite e che sia dunque necessario

pianificare le strategie di supporto completo, individuale e personalizzato da dedicare a loro

con una presa in carico paziente-caregiver.

Articoli rilevati su PubMed

1. “A study of the psychological distress in family caregivers of patients with prolonged disorders

of consciousness during in-hospital rehabilitation”

P. Moretta, A. Estraneo, Clin Rehabil 2014 28: 717

Obiettivi: Studiare il distress psicologico in un campione di caregiver di pazienti affetti da disturbi

di coscienza prolungati, durante la permanenza in un unità neuro-riabilitativa.

Materiali: 24 caregiver di 22 pazienti affetti da disturbi di coscienza prolungati, hanno compilato il

Self Reported Questionnaires per l’assessment dei sintomi depressivi, stato d’ansia, disturbi

psicologici, dolore da sofferenza prolungata, strategie di coping, qualità dei bisogni percepiti,

supporto sociale percepito e il burden (peso dell’assistenza) del caregiver; all’ammissione e a 4 e 8

mesi di distanza dalla prima compilazione.

Risultati: All’ammissione i sintomi depressivi furono individuati in 20/24 caregiver, alti livelli di

ansia in 16 caregiver, disturbi psicofisiologici rilevanti in 10 caregiver e in 8 caregiver sono stati

riscontrati criteri di disturbo da sofferenza prolungata (PGD). I punteggi dei questionari non

differivano in funzione della relativa diagnosi (SV o MCS). Questo studio longitudinale ha

mostrato un aumento progressivo e statisticamente significativo del “carico emotivo” (emotional

burden) dei caregiver durante la permanenza in ospedale, mentre le rimanenti variabili non sono

cambiate significativamente.

Conclusioni: I dati confermano la presenza di alcuni problemi psicologici severi nei caregiver di

pazienti con disturbi di coscienza prolungati. I livelli di distress psicologico tendono ad essere

costanti nel tempo, mentre il carico emotivo aumenta.

2. “Changes over time in the quality of life, prolonged grief and family strain of family caregivers

of patients in vegetative state: A pilot study”

A. Bastianelli, E. Gius, 2014, J Health Psychol

Obiettivo: questo studio ha esplorato i cambiamenti nel tempo della qualità di vita, il disturbo da

sofferenza prolungata e le tensioni famigliari dei caregiver di pazienti in SV ospedalizzati in unità

di cura a lungo termine di cinque differenti regioni dell’Italia. I Materiali: sono stati utilizzati

questionari di valutazione quali: Anxiety and Depression Short Scale, Prolonged Grief 12, Family-

Strain Questionnaire (FSQ) e the Caregiver Quality of Life (QOL). I dati ottenuti da 52 caregiver

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(30 donne e 22 uomini tra i 19 e gli 85 anni) sono stati analizzati prima e dopo i test.

Risultati: sono emersi alti livelli di disturbo da sofferenza prolungata e tensioni famigliari, ed una

bassa qualità di vita, ancora più alti nel post-test per le tensioni famigliari e la bassa qualità di vita.

Conclusioni: gli interventi clinici con i caregiver dei pazienti in stato vegetativo dovrebbero essere

differenziati e personalizzati in base alla durata del periodo di assistenza del proprio congiunto.

3. “Caregivers of patients with disorders of consciousness: coping and prolonged grief”

E. de la Morena MJ, Cruzado JA. Acta Neurol Scand: 2013: 127: 413–418.

Obiettivo: studiare la relazione tra le strategie di coping e il disturbo da sofferenza prolungata

(PGD) nei caregiver dei pazienti in SV e di MCS.

Materiali: 53 caregiver di 43 pazienti in SV e MCS sono stati valutati utilizzando i questionari di

valutazione: PG-12 e Brief COPE-28. Le differenti strategie di coping dei caregiver, con o senza

PGD sono state comparate utilizzando il Bonferroni-adjusted t-tests.

Risultati: La frequenza di PGD era molto alta (n=32; 60,40%). Le strategie di coping più comuni

erano: coping attivo, supporto strumentale, pianificazione e accettazione.

Conclusioni: I caregiver dei pazienti in SV e MCS hanno mostrato un alto rischio di PGD. Le

strategie di coping incentrate sul problema erano le più utilizzate. L’accettazione è altamente

protettivo dal PGD, mentre la negazione e il senso di colpa erano associate ad un aumentata

presenza di PGD. Il PGD nei caregiver dei pazienti in SV o MCS dovrebbe essere valutato.

L’accettazione come strategia di coping dovrebbe essere promossa e la negazione ed il senso di

colpa dovrebbero essere diminuiti.

4. “Burden of caregivers of patients in Vegetative State and Minimally Conscious State”

Giovannetti AM, LeonardiM, Acta Neurol Scand: 2013: 127: 10–18.

Obiettivo: Valutare le differenze del Burden del Caregiver di pazienti in stato vegetativo e stato di

minima coscienza.

Metodi: 487 caregiver hanno compilato scale di valutazione quali: The Family Strain

Questionnaire, Coping Orientations to Problem Experiences, Caregiver Needs Assessment, Short

Form-12, Beck Depression Inventory e la State-Trait Anxiety Inventory.

Le differenze della condizione psicologica tra i caregiver di pazienti in SV e MCS, furono valutate

con il test di krushall-Wallies e i fattori associati a tutti i livelli di Burden con UNIANOVA

(modello di analisi della varianza, ANOVA = Variabile indipendente).

Risultati: le ore diurne di car-giving sono state significativamente associate al livello di Burden

percepito dai caregiver. La tensione, i bisogni e le strategie di coping sono simili a prescindere

dalle condizioni dei pazienti e dalla distanza temporale dall’evento acuto. I caregiver dei pazienti

post-acuti hanno riportato punteggi bassi per quanto riguarda la salute mentale (median = 33,8) e

alti livelli d’ansia (median = 54), mentre i caregiver di pazienti con lunga malattia hanno espresso

bisogni di coinvolgimento sociale (median = 19).

Conclusioni: il Burden e il distress erano elevati per tutti i caregiver di pazienti in SV e MCS.

Siccome il processo di care-giving è un impegno a lungo termine, il supporto ai caregiver dovrebbe

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essere garantito per tutta la durata della malattia a prescindere dalla diagnosi del paziente o il posto

dove egli viene accolto/ricoverato.

5. “Prevalence and Comorbidity of Prolonged Grief Disorder in a Sample of Caregivers of

Patients in a Vegetative State”

C. Guarnerio, A. Prunas, 2011, Psychiatr Q.

Obiettivo: effettuare un analisi per verificare la relazione tra PGD e PTSD (disordini da stress

post-traumatico), ed ed investigare i fattori predittivi di PGD, in un campione di caregiver di

pazienti in SV e MCS.

Metodo: 40 caregiver di pazienti in SV e MCS ammessi nelle unità di cura a lungo termine hanno

compilato il PG-12, il Depression Questionnaire, il SCID I e il Davidson Trauma Scale.

Risultati: 6 partecipanti (15%) rientravano nei criteri di PDG, 10 (25%) per depressione e 10 (25%)

per PTSD.

Conclusioni: I sintomi di PTSD sono risultati essere predittivi di PGD (fattori predittivi di PGD:

età e genere del caregiver, educazione, relazione con la famiglia, relazione tra caregiver e paziente,

tipo di evento (traumatico/non traumatico), diagnosi (SV/MCS), durata della malattia).

6. “Physical and Mental Health, Anxiety and Depressive Symptoms in Caregivers of Patients in

Vegetative State and Minimally Conscious State”

M. Pagani, A. M. Giovannetti, (2014), Clin. Psychol. Psychother. 21, 420–426

Obiettivi: valutare se la salute fisica e mentale dei caregiver, considerando le differenze di genere,

sia collegata alla presenza di sintomi depressivi, l’età e la durata della malattia del paziente.

Materiali: 418 caregiver (294 donne e 124 uomini) hanno compilato questionari di valutazione

quali: State Trait Anxiety Inventory-Y, Beck Depression Inventory, second version e Short Form-

12.

Risultati: I sintomi di ansia e depressione avevano un impatto sia sulla salute fisica che mentale,

specialmente su quella mentale. Gli uomini hanno riportato livelli di salute mentale più alti, mentre

non c’erano differenze sulla salute fisica tra i due generi. Alti livelli di ansia sono associati ad una

cattiva salute mentale e fisica in entrambi i generi, mentre i sintomi depressivi avevano un impatto

solo sulla salute mentale e fisica delle donne. In entrambi i sessi i risultati hanno evidenziato che la

giovane età era correlata ad una migliore salute fisica.

Conclusioni: Uno screening completo, economicamente vantaggioso, dei sintomi di ansia e

depressione, può aiutare ad identificare i determinanti di peggioramento della salute dei caregiver,

al fine di pianificare in caso di necessità, un supporto personalizzato.

7. “How the burden of caring for a patient in a vegetative state changes in relation to different

coping strategies”

S. Cipolletta, E. Gius, (2014)

Department of General Psychology, University of Padua,

Italy and Department of Computer Science, University of Verona, Italy, Vol. 28, No. 1, Pages 92-

96

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Obiettivo: Differenziare il burden dei caregiver dei pazienti in SV in base alle differenti strategie

di coping e il disturbo da sofferenza prolungata PGD.

Metodo: 61 caregiver di pazienti in stato vegetativo ospedalizzati in unità specializzate in italia,

hanno compilato scale di valutazione quali: “The Anxiety and Depression Short Scale, the

Prolonged Grief 12 e Family Strain Questionnaire” per misurare il burden dei caregiver e la scala

“Coping Orientations to Problem Experiences” per identificare le strategie di coping dei caregiver.

Risultati: I caregiver sono stati suddivisi in due gruppi definiti dalla maggior vicinanza tra i casi

dello stesso gruppo e la maggior distanza dai casi dell’altro gruppo.

Il primo gruppo era caratterizzato da minori livelli di ansia, depressione, tensioni famigliari e PGD.

Questo gruppo utilizzava strategie di coping che si riferivano principalmente a tre fattori: sostegno

sociale, atteggiamento positivo e orientamento sul problema.

Il secondo gruppo ha mostrato livelli più alti di ansia, depressione, tensioni famigliari e PGD ed

utilizzava strategie di coping di evitamento/negazione più del primo gruppo.

Conclusioni: il burden di chi provvede alla cura di pazienti in SV è mediato da fattori che

includono le differenti strategie di coping adottate dai caregiver. Il supporto ai caregiver dovrebbe

tenere in considerazione questi fattori ed essere successivamente personalizzato.

8. “Coping and distress in caregivers of patients with disorders of consciousness”

A. Cruzado, E. Morena, (2013), Vol. 27, No. 7-8, pp. 793-798

Obiettivo: studiare la depressione, l’ansia il disadattamento (non adattamento) e il coping nei

caregiver di pazienti in SV e MCS.

Materiali: 43 caregiver di 43 pazienti in SV e MCS hanno compilato: Beck Anxiety Inventory,

Beck Depression Inventory, maladjustment scale e Brief Coping Orientation of Problems

Experienced (COPE-28).

Risultati: sono emersi 15 casi clinici di ansia (28,30 %); 16 di depressione (30,20%); e 45 di

disadattamento (84,8%). Le strategie di coping più utilizzate erano di tipo attivo e incentrato sul

problema (coping attivo, supporto strumentale, pianificazione e accettazione).

L’accettazione era predittiva dell’assenza di depressione e ansia. La negazione era associata ad un

alto livello di depressione e ansia. Il senso di colpa è stato associato a livello ancora più alti di

depressione e ansia.

Conclusioni: i caregiver di pazienti in stato vegetativo e di minima coscienza presentavano alti

livelli di distress. L’accettazione è altamente protettiva nei confronti del caregiver ma la negazione

e il senso di colpa sono strategie molto negative. Il supporto psicologico a questi caregiver è

necessario.

9. “Burden and needs of 487 caregivers of patients in vegetative state and in minimally conscious

state: Results from a national study”

M. Leonardi, A. M. Giovannetti, 2012, Neurological Institute Carlo Besta IRCCS Foundation,

Milan, Italy, Vol. 26, No. 10, pp. 1201-1210,

Obiettivo: valutare il burden dei cargiver di pazienti con disordini di coscienza considerando le

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difficoltà psicologiche, le condizioni di saulute e gli aspetti finanziari.

Metodo: 487 partecipanti hanno compilato scale di valutazione quali: Caregiver Needs

Assessment, Family Strain Questionnaire, Short Form 12, Spielberger State Trait Anxiety

Inventory-Y, Beck Depression Inventory, Prolonged Grief Disorder Questionnaire e Coping

Orientations to Problem Experiences.

Risultati: Più della metà del campione ha manifestato alti livelli depressivi (59,5%) e il 27,6%

soddisfa i criteri per dolore da sofferenza prolungata (PGD). Questo campione riporta il bisogno di

conoscere la malattia del proprio congiunto, un grande bisogno di informazione e comunicazione,

diversi problemi di impegno sociale e di Burden. Le strategie di coping più frequentemente adottate

erano l’accettazione, la conversione religiosa, la reinterpretazione, la pianificazione positiva. Infine

il 40,2% dei caregiver segnalava un reddito netto inferiore a 17.000,00 € l’anno.

Conclusioni: questi risultati mostrano alti livelli di Burden correlato all’assistenza al paziente in

SV e MCS. Questo studio pone le basi per pianificare le strategie di supporto completo ai

caregiver, al fine di diminuire il livello di Burden.

10. “Vita tua, mors mea: The experience of family caregivers of patients in a vegetative state”

S. Cipolletta, M. Pasi1, (2014), J Health Psychol.

Obiettivo: capire se, ed eventualmente come, i caregiver di pazienti in stato vegetativo vivano un

paradosso emotivo tra la vita e la morte.

Metodo: sono state condotte interviste individuali semi-strutturate su 24 caregiver (19 femmine e 5

maschi) di pazienti in SV che vivono nel nord d’Italia. I dati sono stati analizzati con il metodo IPA

(interpretative phenomenological analysis/analisi interpretativa).

Risultati: I caregiver sentivano di essere gli unici in grado di rispondere ai bisogni del paziente, ma

trascuravano le proprie vite a causa del totale impegno nei suoi confronti.

Conclusioni: I caregiver arrestano le proprie vite per dare voce al corpo vivente del paziente che

non può esprimersi. La ricerca evidenzia l’importanza per i caregiver di pazienti in SV nel

considerare nuove possibilità di vita che vadano aldilà dell’assistenza ai propri congiunti.

Tabella 4.

4.2 Il Progetto Nazionale CCM

Il Progetto Nazionale CCM “Funzionamento e disabilità negli Stati Vegetativi e negli

Stati di minima Coscienza” è stato finanziato dal Ministero della Salute, attraverso il

Centro Prevenzione e Controllo Malattie (CCM) ed è stato coordinato dalla

Fondazione IRCCS Istituto Neurologico Carlo Besta di Milano.

La ricerca, realizzata da marzo 2009 a marzo 2010, ha coinvolto e valutato la

condizione clinica di 602 pazienti (566 adulti e 36 bambini) in SV e SMC,

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l’impatto di tale condizione su 482 caregiver familiari (in particolare i loro bisogni,

il livello di tensione/stress, gli stili di coping messi in atto, i livelli di ansia e/o

depressione e la qualità della vita), e i livelli di stress di 1247 operatori socio

sanitari che lavorano con questi pazienti.

Lo studio ha coinvolto 78 centri socio-sanitari (riabilitazione e lungo assistenza)

di 16 regioni italiane, 39 associazioni e federazioni di famigliari che si occupano di

persone in SV e SMC, la Federazione Italiana Medici di Medicina Generale

(FIMMG) e l’Associazione Italiana Donne Medico (AIDM).

Gli strumenti di valutazione utilizzati per raccogliere dati sui caregiver sono:

Questionario socio-demografico; Family Strain Questionnaire FSQ (questionario per

l’assessment delle problematiche correlate all’assistenza di una persona cara malata);

Coping Orientation to Problems Experienced COPE (è un questionario self-report

che prende in considerazione 15 diversi meccanismi di coping); Caregiver Needs

Assessment CNA (questionario finalizzato alla raccolta dei bisogni espressi dal

caregiver); Prolonged Grief Disorder PG-12 (il PG-12 è costituito da 12 item che

descrivono sentimenti, pensieri, azioni che possono essere provate da chi ha perso

una persona cara o ne sente la mancanza a causa di una grave malattia cronica);

Inventario per l’ansia di “stato” e di “tratto” forma Y STAI-Y (questionario per la

valutazione dei livelli di ansia di stato e di tratto); Beck Depression Inventory BDI-

II(questionario formato da item descrittivi di sintomi e di atteggiamenti per la

valutazione della depressione); Short Form 12 SF-12(questionario sulla qualità della

vita che misura lo stato di salute fisica e mentale);

Strumento di valutazione per gli operatori: Maslach Burnout Inventory MBI

(Questionario per la valutazione dello stress in ambito lavorativo).

I famigliari

La scelta di includere i familiari in questa ricerca nasce dalla constatazione di come

sia importante documentare in maniera scientifica il loro coinvolgimento in termini

emotivi e pratici nella cura e assistenza di pazienti in Stato Vegetativo (SV) o in

Stato di Minima Coscienza (SMC).

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In un’ottica biopsicosociale, i caregiver possono rappresentare un’importante

facilitatore e componente della rete di assistenza. Sostenere loro è quindi

essenziale anche per aiutare il paziente stesso, pertanto occuparsi adeguatamente dei

pazienti vuol dire anche non trascurare i loro caregiver.

L’assistenza e la cura del proprio caro in SV o SMC sono fortemente associate a un

notevole carico assistenziale, che può essere teoricamente distinto in tre sotto-

componenti: economica, fisica e psicologica.

Gli obiettivi dello studio sono stati:

1.Indagare i cambiamenti effettuati e percepiti dal caregiver a livello economico e

finanziario, a seguito dell’evento che ha coinvolto il proprio caro.

2.Valutare l’effetto che l’occuparsi di un familiare in SV o SMC può avere sullo

stato di salute, fisico e mentale.

3. Approfondire le componenti psicologiche maggiormente in gioco in una tale

situazione.

> Informazioni socio-demografiche

Il campione di caregiver ha un’età media di 52,3 anni, è prevalentemente composto

da donne (77%) sposate. Questo dato è ovviamente fortemente legato al fatto che la

maggior parte dei pazienti risultano essere uomini di circa 50 anni.

> Piano Occupazionale

Sul piano occupazionale, il 49,1% dei caregiver lavora, il 24,2% è pensionato, il

23,6% casalingo.

> Piano Assistenziale

Valutando il tempo di assistenza, tenendo presente che la maggior parte del

campione è istituzionalizzato, il 55% dedica più di 3 ore al giorno all’assistenza del

proprio familiare, di cui il 26% tra le 4 e le 6 ore quotidiane, il 12% oltre le 6 ore/die.

La maggior parte dei caregiver dei minori, invece, dichiara di prestare assistenza

continua 24 ore al giorno.

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> Gestione del Tempo Libero

Dopo l'evento che ha colpito il congiunto, i caregiver hanno modificato molto il

proprio modo di trascorrere il tempo libero, in particolare le attività più ridotte sono

quelle svolte fuori casa e che richiedono più frequentemente il relazionarsi con gli

altri.

> Condizione Economica

Rispetto alla condizione economica, quasi il 40% dei caregiver dichiara un reddito

annuale sotto i 17.000 euro netti all’anno, collocandosi in una fascia piuttosto bassa

rispetto ai dati Istat che indicano una media di reddito annuale netto, in una famiglia

di 3 persone, di circa 42.000 euro.

Nonostante ciò, circa la metà del campione dei caregiver intervistati riferisce di avere

una condizione economica sufficiente.

> Motivazione al Prendersi Cura

Il 31% dei caregiver dichiara di dedicarsi alla cura del paziente perché si sente il più

adatto a farlo, il 15% perché non c’è nessun altro, e tra le “altre motivazioni” la

maggior parte ha risposto che si occupa del loro caro “per amore”.

> Il carico emotivo dei caregiver

Più del 75% dei caregiver reputa che siano aspetti molto importanti essere informato

e coinvolto dal personale sanitario su quanto si sta facendo e si farà per la cura del

proprio familiare, essere messo in grado di affrontare i compiti assistenziali che la

malattia del proprio caro comporta, comunicare in modo soddisfacente con gli

operatori dell'equipe curante.

Emerge inoltre un quadro di elevato carico emotivo, in cui i familiari esprimono un

forte bisogno di informazione, difficoltà nel coinvolgimento sociale e scarsa

soddisfazione nelle relazioni familiari. La presenza di un familiare con DOCs e il

carico della cura e assistenza incide in maniera significativamente negativa sullo

stato di salute generale dei familiari, sia a livello fisico, sia mentale.

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L’elevato carico emotivo che questi caregiver devono affrontare è testimoniato anche

dal fatto che manifestano un livello di tensione e apprensione generalmente elevato

(nel 59,9% dei casi), sul versante emotivo ciò può manifestarsi come perdita di

interesse, stanchezza, agitazione, pianto, mentre a livello cognitivo si esprime

principalmente come pessimismo, senso di colpa, auto-svalutazione e bassa

autostima.

> Carico emotivo rispetto alla diagnosi del congiunto

I profili di burden emotivo dei familiari di pazienti in SV e SMC sono piuttosto

simili, anche se è stato possibile individuare alcune differenze.

In particolare i caregiver di pazienti con diagnosi di SV esprimono un maggiore

“senso di perdita” del proprio caro rispetto ai caregiver di persone in SMC:

manifestano quindi un maggior senso di impotenza di fronte alla malattia, un più

forte senso di colpa e pensano più frequentemente alla possibile morte del proprio

caro.

Caregiver di pazienti in SMC esprimono più bisogni, sia di supporto emotivo e

sociale, sia di informazione e comunicazione.

> Carico emotivo e luogo in cui il paziente è ricoverato

Confrontando il burden dei caregiver in base al luogo in cui il paziente è ricoverato,

emergono alcune differenze significative. In particolare i caregiver di pazienti, sia in

SV che in SMC, ricoverati in lungo degenza (RSA) riportano meno difficoltà, hanno

meno problemi nel coinvolgimento sociale, ma sono meno soddisfatti delle loro

relazioni familiari rispetto ai caregiver dei pazienti in riabilitazione o a casa.

> Carico emotivo e tempo trascorso dall’evento acuto

Se si considera il tempo trascorso dall’evento acuto, familiari che sono caregiver da

meno di due anni manifestano un peggiore stato di salute mentale e un maggior

burden emotivo.

Il livello d’ansia è significativamente elevato nella totalità del campione, a

prescindere dalla distanza dall’evento acuto.

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Conclusioni

La mia tesi voleva mettere in evidenza quanto le gravi cerebrolesioni acquisite

rappresentino una realtà ancora poco conosciuta e i loro caregiver siano ancora

troppo soli e poco supportati nel difficile e doloroso percorso di assistenza ai propri

congiunti: in particolare è emersa la necessità di raccogliere informazioni

epidemiologiche, cliniche, organizzative, politiche, socio-assistenziali relative ai

pazienti con disturbi della coscienza. Inoltre, gli studi condotti su tali caregiver

dimostrano sicuramente il grosso impatto emotivo conseguente l’assistenza al

paziente GCA: i risultati hanno mostrato alti livelli di stress, ansia, depressione,

Prolonged Grief Disorder (disturbo da sofferenza prolungata), Burden (peso

dell’assistenza), tensioni familiari e trascuratezza di se stessi.

Per quanto riguarda i possibili sviluppi della ricerca, i ricercatori sono uniti nel

proporre i seguenti suggerimenti:

• seguire l'evoluzione longitudinale delle famiglie dei pazienti in stato vegetativo

dall'acuto alla cronicità. Abbiamo ampiamente riferito a riguardo del trauma subito

dal familiare al momento dell'evento. Tale esperienza è e rimane una ferita

psicologica che sottende l'intero percorso, nel tempo, che separa l'evento acuto dalla

stabilizzazione del congiunto nello stato vegetativo cronico. Comprendere (nel senso

di prendere-in-sieme) la prima sofferenza vissuta dai caregìver, da parte dello

psicologo e anche dagli operatori, è fondamentale per coniugare e modulare gli

interventi di sostegno e di accompagnamento dei familiari e che dovranno essere

messi in atto nelle fasi seguenti, fino alla stabilizzazione della situazione

assistenziale;

• creare e standardizzare gli strumenti valutativi e descrittivi delle condizioni

psicologiche della famiglia per facilitare la comunicazione e la trasmissione dei dati

raccolti nello scambio tra i diversi Servizi socio-assistenziali. È questo un compito

fondamentale perché le strutture sociali e assistenziali siano in grado, ciascuna al loro

interno, di configurare un setting chiaro e preciso a riguardo dei compiti

responsabilmente assunti e dei ruoli occupati. Tutto ciò prefigura sia una chiarezza

identitaria intra-gruppo, di compiti e di ruoli precisi, la quale permette di veicolare

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comunicazioni chiare e non soggette ad essere erose da interpretazioni soggettive e

stereotipiche, sia di attenuare gli inevitabili conflitti in-ter-gruppi che normalmente

sono presenti quando gruppi diversi devono confrontarsi su un preciso compito;

confrontare gli standard qualitativi di vita della famiglia che assiste un

paziente in stato vegetativo nelle strutture assistenziali e quelli della famiglia che

assiste un paziente in stato vegetativo a domicilio.

Questo tema merita un'attenzione speciale e anche uno studio di ricerca accurato e

capillare che faccia emergere le molteplici variabili, sia quelle attinenti ai vissuti

soggettivi dei componenti i due tipi di famiglia, sia quelle attinenti agli ambienti

strutturali e ambientali, per tutto quanto riguarda le attese e le risposte di aiuto;

estendere la ricerca a un campione più ampio comprendente altre realtà

regionali.

Il caregiver principale non deve diventare esclusivo ma deve poter concedersi dei

momenti per vivere altri ruoli relazionali importanti e per dedicarsi a se stesso e ai

propri interessi. Ogni caregiver ha propri bisogni e situazioni peculiari: è importante

pianificare interventi sociali, clinici e riabilitativi individualizzati partendo da una

valutazione soggettiva del rischio stress e delle caratteristiche individuali.

Inoltre, da parte dell’équipe sanitaria e del servizio sociale è necessario: comunicare

in maniera chiara la diagnosi e le fasi della malattia per consentire al caregiver di

acquisire una buona conoscenza di quello che sta accadendo / accadrà. Informare e

dare consigli pratici su come gestire i problemi assistenziali, orientare rispetto alle

risorse (servizi pubblici e privati, centri, attività, ecc.) presenti sul territorio

aumentandone l’accessibilità.

La conoscenza della malattia, delle risorse a disposizione e i consigli su come gestire

i problemi assistenziali può attenuare il senso di frustrazione provato in alcune fasi

della cura e rafforzare l’affetto e la gratitudine del caregiver.

Il supporto sociale percepito dal caregiver è dato dalla possibilità di recuperare

informazioni (sulla malattia, sui servizi a disposizione) e consigli pratici

sull’assistenza, di condividere l’esperienza (attraverso gruppi psicoeducativi, di auto-

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mutuo-aiuto e di supporto – anche non professionali) e di apprendere strategie di

adattamento (tecniche di gestione dello stress e di rilassamento, ecc.).

Favorire nel caregiver l’accettazione e la consapevolezza della malattia e dei

cambiamenti ad essa connessi, attraverso percorsi di aiuto e supporto psicologico,

counselling, meglio se individuali, attribuendo un “senso” al proprio ruolo.

Sarebbe, inoltre, opportuno promuovere un’integrazione “robusta” ospedale –

territorio, nonché pubblico – privato, per ottimizzare il supporto alle famiglie e

fornire un’assistenza continuativa.

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