UNIVERSALE PAPERBACKS IL MULINO 000. - eurohex.eu · alla luce delle caratteristiche...

170
UNIVERSALE PAPERBACKS IL MULINO 000.

Transcript of UNIVERSALE PAPERBACKS IL MULINO 000. - eurohex.eu · alla luce delle caratteristiche...

UNIVERSALE PAPERBACKS IL MULINO

000.

I lettori che desiderano informarsisui libri e sull’insieme delle attività della

Società editrice il Mulinopossono consultare il sito Internet:

www.mulino.it

IL MULINO

RAPPORtO SULLA POPOLAzIONE

Salute e sopravvivenza

gRUPPO dI COORdINAMENtO PER LA dEMOgRAfIA

società italiana di statistica

ISBN 978-88-15-00000-0

Copyright © 2009 by Società editrice il Mulino, Bologna. tutti i di-ritti sono riservati. Nessuna parte di questa pubblicazione può essere fotocopiata, riprodotta, archiviata, memorizzata o trasmessa in qualsiasi forma o mezzo – elettronico, meccanico, reprografico, digitale – se non nei termini previsti dalla legge che tutela il diritto d’Autore. Per altre informazioni si veda il sito www.mulino.it/edizioni/fotocopie

5

INdICE

Prefazione p. 000

I. Più longevi e meno diversi. Recente evolu- zione della sopravvivenza 000

II. Salute e qualità della sopravvivenza 000

III. Salute riproduttiva e mortalità infantile 000

IV. La salute dei giovani e i comportamenti a ri- schio 000

V. gli anziani tra benessere e malattia 000

VI. Condizioni di salute nelle regioni italiane 000

Riferimenti bibliografici 000

gli autori 000

Attribuizioni 000

7

PREfAzIONE

Solo le società affrancate dalla paura della morte im-provvisa e prematura sono capaci di organizzare il proprio futuro. Una vita lunga e relativamente in buona salute per la stragrande maggioranza degli individui che fanno parte della popolazione è testimonianza ma anche requisito ne-cessario al progresso tecnologico e alla diffusione del be-nessere. L’allungamento e la buona qualità della vita rap-presentano infatti un presupposto dello sviluppo. Non a caso, la speranza di vita alla nascita è uno degli indici che vanno a costituire l’indicatore complesso Indice di Sviluppo Umano, alla base della classificazione dei diversi paesi del mondo in avanzati e in via di sviluppo.

La lotta contro la morte e contro la disuguaglianza nei confronti della salute continua così a costituire un obiet-tivo principale a livello mondiale, come dimostrano anche gli obiettivi del Millennio.

Se la morte prematura costituisce un problema tipico del mondo povero ancora purtroppo lontano dalle preoc-cupazioni di una elevata sopravvivenza alle età senili, i paesi ricchi hanno sperimentato, ormai da alcuni decenni, una diminuzione dei rischi di morte anche alle età più ele-vate. Questa vittoria, assieme al controllo sulle nascite in-desiderate, ha condotto ad osservare un numero assoluto e relativo di anziani sempre maggiore, i cui bisogni si fanno pressanti in ambito previdenziale e sanitario.

Anche nel 2007 la popolazione ha beneficiato di ulte-riori progressi di sopravvivenza. La stima della speranza di vita alla nascita è pari a 78,6 anni per gli uomini, men-tre supera gli 84 anni per le donne. I divari per genere nel progresso dell’allungamento della vita si vanno con-traendo, e questo argomento suscita svariati interrogativi. Pochi sono i Paesi nel mondo che godono di simili valori

8

della vita media: gli uomini italiani risulterebbero secondi in Europa soltanto agli svedesi, le donne seconde soltanto alle francesi. Come per altri fenomeni demografici, assi-stiamo ad una certa eterogeneità in Italia anche nei livelli della sopravvivenza: sia per gli uomini che per donne, le regioni più longeve sono quelle centrali ed alcune realtà del Nord, anche se – in un panorama regionale europeo – le nostre regioni del Sud sono collocate meglio delle corrispondenti medie europee [Istat 2007]. Nel contempo la vita è vissuta in media con problemi di disabilità meno diffusi: la disabilità, al netto delle variazioni della struttura per età della popolazione, si è ridotta di alcuni punti per-centuali, e questo è particolarmente vero nelle regioni del Nord.

di questi e di altri temi che vanno ad analizzare so-pravvivenza e salute in Italia alle diverse età della vita ci occuperemo nelle pagine che seguono, convinti che la salute della popolazione – argomento affrontato diffusa-mente nella stampa, in particolare sui maggiori quotidiani del paese, con inserti dedicati – costituisca, anche nel no-stro mondo inserito nella «società del benessere», un tema che va a cogliere la paura più antica dell’umanità, quella della morte. I media diffondono messaggi importanti con-cernenti le necessità della prevenzione e della ricerca per malattie rare o molto diffuse ma ancora incurabili; i fattori di rischio sono noti e sottolineati a profusione, con campa-gne sociali che godono di testimonial di eccezione. Noi vo-gliamo inserirci – con parole nostre, le parole della demo-grafia e della statistica, e quindi anche con numeri – nella corrente di coloro che vogliono tratteggiare quadri di rife-rimento, descrivere andamenti recenti e prospettive future di una realtà in movimento e che mostra caratteristiche del tutto diverse nelle diverse età della vita.

Il contenuto di questo volume poggia sui presupposti appena delineati.

Il capitolo 1 concentra l’attenzione sull’evoluzione della sopravvivenza e sulle tendenze delle principali cause di morte. L’osservazione di una popolazione sempre più longeva si accompagna a due riflessioni importanti: quella

9

sull’esistenza o meno di un limite biologico della vita umana e quella della diminuzione delle disuguaglianze di fronte alla morte.

Il capitolo 2 si propone di verificare l’ipotesi di com-pressione (o espansione) della morbosità in Italia. In par-ticolare, la valutazione della dinamica della qualità della salute farà riferimento alla presenza di disabilità nelle sue diverse dimensioni e alla non buona salute percepita sulla base delle risposte di coloro che stimano come cattiva la propria condizione di salute. Nel corso del capitolo verrà anche considerata l’evoluzione del tempo vissuto in buona o cattiva salute nei confronti dell’allungamento della vita.

Il capitolo 3 guarda alla salute riproduttiva e alla mor-talità infantile. L’attenzione alle cure prenatali, alla gravi-danza e al parto, oltre che il dibattito sempre aperto sul-l’abortività, sono tutti temi indiscutibilmente legati alla rappresentazione anche simbolica della nascita, e perciò ha radici culturali, oltre che socio-economiche, che condizio-nano segmenti numerosi della popolazione e soprattutto, il nostro futuro. Legati a questi aspetti sono altresì i livelli e le caratteristiche della mortalità infantile – che ormai ha raggiunto in Italia livelli estremamente bassi – ma anche specificità e criticità non banali quali le nuove tecniche connesse alla fecondità medicalmente assistita, il rinvio sempre più marcato dell’età alla prima gravidanza e i trat-tamenti per bambini prematuri.

La salute dei giovani e i comportamenti a rischio costi-tuiscono l’oggetto del capitolo 4. Si tratta di un tema che investe svariate dimensioni dell’«universo giovani». dopo un’introduzione generale circa le patologie che riguardano la fascia di età giovane (la soglia dei trent’anni è sembrata la più conveniente), nel capitolo si fornisce un quadro in-formativo sulle abitudini giovanili più «pericolose» per la salute: il fumo, il consumo di alcol, i disordini alimentari. Un’attenzione particolare è dedicata alla mortalità per inci-dente, verso la quale l’opinione pubblica mostra una sensi-bilità naturalmente elevata.

Nel capitolo 5 si prende in considerazione la salute de-gli anziani, per i quali aumentano i rischi di insorgenza di patologie sempre più gravi, e per i quali – anche in consi-derazione del processo di invecchiamento – occorre consi-

10

derare costi individuali e sociali in maniera attenta e sce-vra da stereotipi. Com’è noto infatti, la salute non dipende soltanto da fattori biologici come il trascorrere dell’età: esistono fattori che discriminano la salute in particolare nelle età anziane, quali lo stato socio-economico e il conte-sto in cui si abita che, mutando, fanno mutare il quadro di riferimento e i livelli delle disuguaglianze.

L’Italia, abbiamo già sottolineato, non è un paese omo-geneo, neanche a proposito della sopravvivenza e della salute. Nel capitolo 6 si tende a cogliere alcune eteroge-neità in maniera esplicita, soffermandoci sulle differenze territoriali e cercando non solo di fornire una griglia di riferimento descrittivo, ma intendendo interpretarle anche alla luce delle caratteristiche socio-economiche (attraverso indicatori di equità) e dei servizi resi ai cittadini a livello regionale.

Questo è il secondo volume sulla popolazione italiana che il Consiglio scientifico del gruppo di coordinamento della demografia (gcd) della Società italiana di statistica intende offrire ad un pubblico vasto, ma attento. Come con il precedente volume (Rapporto sulla Popolazione. L’Italia all’inizio del XXI secolo, a cura di g. gesano, f. Ongaro, A. Rosina), abbiamo cercato di raggiungere un compromesso fra il necessario rigore e approfondimento con cui i temi dovevano essere trattati e la semplicità espo-sitiva, che doveva escludere il ricorso a tecniche e meto-dologie per addetti ai lavori. Se l’obiettivo è stato in parte raggiunto, è merito di tutti gli autori di questo volume.

Fausta ongaro e silvana salvini

11

capitolo primo

PIù LONgEVI E MENO dIVERSI.RECENtE EVOLUzIONE dELLA SOPRAVVIVENzA

1. Uno sguardo al recente passato

In Italia, così come in altri paesi a bassa mortalità, ne-gli ultimi decenni, il processo ormai consolidato di ridu-zione della mortalità in tutte le età della vita continua ra-pido e regolare, consentendo ulteriori importanti guadagni nella speranza di vita anche alle età più elevate.

L’evoluzione della mortalità italiana per uomini e donne negli ultimi cinquant’anni è ben raffigurata nelle superfici di mortalità (fig. 1.1). Queste mappe rappresen-tano graficamente le serie di probabilità di morte definite per età e anno di calendario. Esse evidenziano la progres-siva riduzione della mortalità in tutte le età della vita, sia per le donne che per gli uomini. Nel tempo, i guadagni si fanno via via più sensibili alle età più anziane ma, men-tre per le donne tale processo è già avviato all’indomani del dopoguerra e accelera negli anni ’70, per gli uomini, la riduzione della mortalità alle età anziane diventa evidente solo a partire dagli anni ’80. La recente evoluzione della mortalità nelle età anziane continua quindi a favorire la sopravvivenza delle donne più di quella degli uomini an-che se, come si vedrà, le distanze tra i due sessi si restrin-gono nell’ultimo decennio. In particolare, si registrano due momenti di massima disparità tra i sessi: il primo, quando nelle età giovani-adulte la mortalità aumenta in misura maggiore per gli uomini per le cause di natura violenta e per incidenti; il secondo, quando nelle età adulte e anziane la mortalità degli uomini supera quella delle donne per le malattie cardiovascolari e per tumore.

Nel nostro paese, secondo le più recenti tavole di mortalità pubblicate dall’Istat [2008], oltre il 72% delle donne è ancora in vita a 80 anni mentre solo il 53% degli

12

uomini supera l’80o compleanno. La speranza di vita at-tuale per un neonato è di circa 84 anni se femmina, men-tre è di circa 78 se maschio. In poco più di un decennio, le bambine hanno guadagnato in media 3 anni e mezzo di vita, le ultra sessantenni 2 e mezzo e le ultra ottantenni 1 e mezzo, mentre gli uomini hanno aggiunto alla loro speranza di vita rispettivamente 4, 2 e mezzo e 1 anno

10090807060504030201001950

Età

1960 1970

Uomini

Anno1980 1990 2000 2005

10090807060504030201001950

Età

1960 1970

Donne

Anno1980 1990 2000 2005

0,20

710,

0768

0,02

880,

0108

0,00

370,

0017

0,00

110,

0007

Fig. 1.1. Evoluzione della mortalità per età dal 1950 al 2004: probabilità di morte per gli uomini e per le donne. Italia.

Fonte: Elaborazioni su dati dello Human Mortality database www.mortality.org.

13

(tab. 1.1). In altre parole, non solo continua ad aumen-tare il numero di anni vissuti dai più longevi, ma aumenta ulteriormente anche il numero di persone ancora in vita alle età più avanzate. Questo processo è ben descritto dalla recente evoluzione della curva di sopravvivenza, che non solo tende a rettangolarizzarsi sempre di più, ma si estende spostando continuamente in avanti l’età estrema alla morte (fig. 1.2).

Si pone dunque la questione che riguarda l’esistenza o meno di limiti alla durata della vita. Si assisterà ancora nel futuro a simili progressi nell’aumento della sopravvivenza? Per quanto tempo? La questione ovviamente rimane aperta, ma gli studi demografici suggeriscono che al mo-mento non vi sono segnali di convergenza verso un limite. Infatti, nei paesi a bassa mortalità, il processo di riduzione della mortalità continua inesorabile anche alle età da sem-pre considerate estreme (fig. 1.3).

Così come osservato per le differenze di genere, anche le differenze territoriali tendono a diminuire nell’ultimo decennio. In realtà, il processo di omogeneizzazione della mortalità tra le province italiane era già avviato nel venten-nio precedente per entrambi i sessi [Lipsi e Caselli, 2002].

La geografia della mortalità maschile del recente pas-sato sembra continuare ad avvalorare la tesi di una rela-zione inversa tra sviluppo e mortalità. Infatti, agli inizi de-gli anni ’90, fatta eccezione per alcune province del Sud, in particolare quelle della Sicilia, sono gli uomini delle province del Nord, economicamente e socialmente avvan-taggiate, ad avere la speranza di vita alla nascita più bassa (fig. 1.4). dieci anni dopo, le distanze tra province si ridu-

tab. 1.1. Speranza di vita alla nascita, a 60 e a 80 anni, 1991-2004

Anno Uomini donne

e0 e60 e80 e0 e60 e80

1991 73,76 18,75 6,77 80,32 23,21 8,202000 76,49 20,43 7,34 82,32 24,71 9,022002 77,11 21,81 7,51 82,95 25,21 9,362003 77,16 20,75 7,34 82,84 24,99 9,112004 77,91 21,38 7,84 83,75 25,81 9,85

Fonte: dati Istat.

14

cono (lo scarto quadratico medio passa da 1,07 nel 1992 a 0,81 nel 2004) e la contrapposizione che vede gli uomini più favoriti al Sud che al Nord è meno netta: alcune pro-vince del Nord, in particolare del Nord-Est, perdono il loro primato negativo, che diventa invece prerogativa di diverse province centrali e meridionali.

La geografia della mortalità femminile è radicalmente diversa e si contrappone a quella maschile: sono le donne

100.000

80.000

60.000

40.000

20.000

0

Curva di sopravvivenzaUomini

Età60 70 80 90 10050403010 200

100.000

80.000

60.000

40.000

20.000

0

Curva di sopravvivenzaDonne

Età60 70 80 90 10050403010 200

1991 2001 2004

Fig. 1.2. Curve di sopravvivenza per uomini e donne. Anni 1991, 2001 e 2004.

Fonte: Elaborazioni su dati dello Human Mortality database www.mortality.org.

15

delle province del Centro-Sud, in particolare quelle della Sicilia, ad essere le più svantaggiate mentre le più favo-rite sono le donne delle province del Nord (con qualche eccezione), in particolare, del Nord-Est. (fig. 1.4). Questo profilo geografico rimane sostanzialmente invariato nel-l’arco dell’ultimo decennio, anche se si registra una lieve riduzione nelle differenze dei livelli di sopravvivenza (lo scarto quadratico medio passa da 0,81 nel 1992 a 0,77 nel 2004).

Le differenze territoriali della speranza di vita ad 80 anni all’inizio degli anni ’90 (fig. 1.5), evidenziano come le aree a più bassa sopravvivenza degli uomini si trovino sia al Nord che al Sud, contrariamente a quanto osservato per la speranza di vita alla nascita. A queste età, nel corso di un decennio, le differenze provinciali si riducono lieve-mente (lo scarto quadratico medio passa da 0,36 nel 1992 a 0,33 nel 2004), ma la geografia è diversa: le province del Nord e quelle della Sicilia rimangono fortemente penaliz-zate; a queste si aggiungono alcune province del Centro, mentre le altre province del Sud si trovano ora nell’area a più alta sopravvivenza, riproducendo così un profilo geo-grafico più simile a quello osservato per la speranza di vita alla nascita.

Fig. 1.3. Probabilità di morte (scala logaritmica) per uomini e donne a 60, 80 e 100 anni, 1991-2004.

Fonte: Elaborazioni su dati dello Human Mortality database www.mortality.org.

1

0,1

0,001

0,0011991

60

80

100

1992 1993 1994 1995 1996 1997 1998 1999 2000 2001 2002 2003 2004

FM

16

Per le donne – che, come si è visto, anticipano la ridu-zione della mortalità alle età anziane rispetto agli uomini – la geografia della speranza di vita a 80 anni è, già all’ini-zio degli anni ’90, sostanzialmente la stessa di quella osser-vata per la speranza di vita alla nascita, con le province del Centro-Sud fortemente penalizzate. tale geografia, se pur

UOMINI

1992

e80= 6,75= 0,38

> 6,936,74-6,936,51-6,74< = 6,51

UOMINI

2004

e80= 7,84= 0,33

> 8,057,80-8,057,62-7,80< = 7,62

DONNE

1992

e80= 8,24= 0,53

> 8,638,30-8,637,95-8,30< = 7,95

DONNE

2004

e80= 9,85= 0,42

> 10,139,91-10,139,64-9,91< = 9,64

Fig. 1.4. Speranza di vita alla nascita nelle province italiane. Anni 1992 e 2004.

Fonte: Elaborazioni su dati Istat.

17

con differenze ridotte (lo scarto quadratico medio passa da 0,53 nel 1992 a 0,42 nel 2004), non subisce cambiamenti di rilievo nell’arco dell’ultimo decennio.

Chiaramente, quanto appena visto riflette il contributo sempre più importante delle età anziane e delle cause di morte tipiche di queste età al processo di aumento della

UOMINI

1992

e80= 6,75= 0,38

> 6,936,74-6,936,51-6,74< = 6,51

UOMINI

2004

e80= 7,84= 0,33

> 8,057,80-8,057,62-7,80< = 7,62

DONNE

1992

e80= 8,24= 0,53

> 8,638,30-8,637,95-8,30< = 7,95

DONNE

2004

e80= 9,85= 0,42

> 10,139,91-10,139,64-9,91< = 9,64

Fig. 1.5. Speranza di vita a 80 anni nelle province italiane. Anni 1992 e 2004.

Fonte: Elaborazioni su dati Istat.

18

sopravvivenza e alla sua evoluzione territoriale. Così, per gli uomini, lo svantaggio del Nord rispetto al resto del Paese, è determinato dalla mortalità per tumore e per le malattie ischemiche, ovvero per quelle cause che caratte-rizzano la mortalità maschile alle età anziane nelle indu-strializzate province del Nord. Lo svantaggio femminile al Sud è invece determinato dalle malattie del sistema circo-latorio di natura non ischemica e dal diabete, prevalenti tra le donne delle province del Sud, dove generalmente l’offerta sanitaria è meno adeguata [Lipsi e Caselli, 2002].

In particolare, la realtà siciliana, così penalizzante per le donne, ma anche per gli uomini, offre uno spunto di ri-flessione. Lo svantaggio registrato in termini di sopravvi-venza, soprattutto nelle età anziane, è in parte attribuito ad una più alta mortalità per quelle patologie, come ad esem-pio il diabete, la cui letalità può essere ridotta seguendo un’adeguata prevenzione. d’altro canto, la diminuzione della mortalità per le stesse cause potrebbe essere respon-sabile del vantaggio, soprattutto femminile, osservato nelle più ricche province del Nord-Est. Si può concludere che la variabilità nella presenza sul territorio di adeguate strut-ture sanitarie e, quindi, nella possibilità di diagnosi pre-coce e di accesso a terapie efficaci, può spiegare, almeno in parte, le differenze territoriali oggi osservate.

2. Età, sesso e causa di morte

L’evoluzione della sopravvivenza nelle diverse età della vita ha evidenziato come il nostro paese si trovi in una posizione di relativo vantaggio nell’ambito dei paesi a più bassa mortalità. Come si è visto, uomini e donne possono contare, secondo l’informazione del 2004, su un’attesa media di vita alla nascita di circa 78 e 84 anni rispettiva-mente (vedi tab. 1.1). Il confronto tra i valori degli ultimi tre anni consente di rilevare una flessione per le donne nel 2003. tale flessione appare più marcata se si considerano i livelli di sopravvivenza alle età anziane, per le quali questa interessa anche gli uomini. La diminuzione della soprav-vivenza media nel 2003, presente in Italia e in molti paesi europei, è dovuta all’aumento di mortalità degli anziani re-

19

gistrato nei mesi estivi di quello stesso anno. Un aumento provocato dall’eccezionale ondata di calore, che ha avuto conseguenze fatali per molti anziani che si trovavano in precarie condizioni di salute.

La recente evoluzione della sopravvivenza alla nascita fa emergere anche i primi segnali di un’inversione di ten-denza nelle distanze tra i due sessi. La forbice che fino alla metà degli anni ’90 tendeva continuamente ad allargarsi a favore delle donne, negli ultimi anni ha invertito il suo percorso restringendo il vantaggio femminile. Al contrario, se si esclude il risultato del 2003, le distanze tra i sessi si mantengono più o meno costanti nel tempo per la soprav-vivenza a 60 anni e addirittura aumentano per quella a 80 anni. Ciò significa che tra i più anziani il declino della mortalità continua a favorire in modo crescente le donne.

L’evoluzione della mortalità e delle sue caratteristiche per età e sesso sono da sempre al centro del dibattito tra gli studiosi che, partendo dalla considerazione della causa che porta al decesso, cercano di spiegare i diversi aspetti del fenomeno. Purtroppo, nel nostro paese le informazioni della mortalità per causa si arrestano al 2003, anno in cui si è adottata la X Classificazione internazionale delle ma-lattie (Cim). Classificazione a cui si fa riferimento nell’ana-lisi che segue (per i codici Cim, vedi www.istat.it).

tumori e malattie del sistema circolatorio producono circa il 70% della mortalità complessiva. In particolare, tra i 60 e gli 80 anni di età, per uomini e donne, la causa di morte dominante è il tumore, mentre dopo questa età sono le malattie del sistema circolatorio che superano di gran lunga tutte le altre cause di morte. Nella figura 1.6, l’immagine di sinistra illustra l’andamento della mortalità per le due principali cause, per le età 60-79 anni, mentre quella di destra fa riferimento alle stesse cause per le età 80 e più. Un confronto diretto tra le due immagini non è ovviamente possibile, visti i diversi livelli dei tassi, ma si possono cogliere analogie e differenze nell’evoluzione del fenomeno. È evidente che il generale declino della mor-talità per le malattie del sistema circolatorio interessa uo-mini e donne delle due classi di età. È a questa favorevole evoluzione, soprattutto nelle età anziane, che si deve l’im-portante aumento della speranza di vita conseguito negli

20

ultimi decenni [Caselli 1996; Aa.Vv. 2007] ed è al ruolo giocato dall’efficacia delle moderne terapie e della preven-zione che si devono gli importanti risultati conseguiti nella lotta contro queste patologie.

Osservando con attenzione la figura 1.6 si può co-gliere che la curva della mortalità delle ultraottantenni per le malattie del sistema circolatorio evidenzia una lieve crescita nel 2003. Crescita che certamente è da mettere in relazione alla supermortalità delle donne più anziane nel

140130120100908070605040

ETÀ 60-79 ANNI

UominiTs

per

10.

000

2001 2003199919971993 19951991

140130120100908070605040

Donne

Ts p

er 1

0.00

0

2001 2003199919971993 19951991

ETÀ 80 + ANNI

900

800

700

600

500

400

300

200

100

Uomini

St p

er 1

0.00

0

2001 2003199919971993 19951991

900

800

700

600

500

400

300

200

100

DonneSt

per

10.

000

2001 2003199919971993 19951991

M. S. CircolatorioTumori

Fig. 1.6. Evoluzione della mortalità per le due classi di età e per le principa-li cause di morte dal 1991 al 2003. Italia. tassi di mortalità maschili e femminili per 10.000, standardizzati con la popolazione italiana del censimento 2001.

Fonte: Elaborazioni su dati Istat.

21

periodo del gran caldo. È interessante notare che il feno-meno interessa particolarmente le donne e che si manifesta sia con una crescita della mortalità per le due principali patologie del capitolo delle malattie circolatorie, le cardio-vascolari e le cerebrovascolari (fig. 1.7 a sinistra), sia con un aumento della mortalità per i tumori del seno (fig. 1.7 a destra). La mortalità per malattie cardiovascolari registra un lieve incremento nello stesso anno anche per gli uomini

500

400

300

200

100

ETÀ 80 + ANNI

UominiSt

per

10.

000

500

400

300

200

100

2001 2003199919971993 19951991

Donne

St p

er 1

0.00

0

2001 2003199919971993 19951991

ETÀ 80 + ANNI

60

50

40

30

20

10

0

Uomini

St p

er 1

0.00

0

60

50

40

30

20

10

0

2001 2003199919971993 19951991

DonneSt

per

10.

000

2001 2003199919971993 19951991

CerobrovascolariCardiovascolari

T. Prostata T. SenoT. Trachea-bronchi-polmoni

Fig. 1.7. Evoluzione della mortalità degli ultraottantenni e per alcuni gruppi di cause di morte dal 1991 al 2003. tassi di mortalità maschili e femminili per 10.000, standardizzati con la popolazione italiana del censimento 2001.

Fonte: Elaborazioni su dati Istat.

22

più anziani. Per questi, però, i picchi più marcati si hanno per la mortalità per i tumori del respiratorio e per quelli della prostata. Sembra, quindi, confermata l’ipotesi che gli effetti negativi del gran caldo abbiano colpito gli anziani più fragili, a più alto rischio, e in particolare quelli con malattie cardiache o con tumori ormai all’ultimo stadio.

Relativamente ai tumori, si può notare che nelle età 60-79 anni (fig. 1.6) si è attuato il sorpasso tra la mortalità per questa causa e quella per malattie circolatorie. Ciò è avve-nuto per gli uomini con dieci anni di anticipo sulle donne, ma nel contesto di una generalizzata tendenza alla diminu-zione della mortalità per entrambi i gruppi di cause.

Al contrario, per gli uomini più anziani, la mortalità per tumori presenta un chiaro aumento, in contrasto con il marcato declino della mortalità per malattie del sistema circolatorio. Ciò è dovuto al fatto che alcune localizza-zioni tumorali, come quelle dell’apparato respiratorio, negli ultimi anni hanno registrato importanti aumenti di mortalità. A ben vedere il fenomeno si manifesta in coin-cidenza con il transito in queste età delle generazioni ma-schili nate durante la prima guerra, le stesse che hanno partecipato direttamente alla seconda e al processo di ri-costruzione del Paese. Queste, infatti, sono le generazioni che sono state avviate all’abitudine al fumo durante gli anni trascorsi in guerra e che sono state coinvolte nelle attività produttive ad alto rischio ambientale sviluppatesi negli anni successivi.

Le donne hanno, per tutte le principali cause di morte, livelli di mortalità più bassi di quelli dei loro coetanei, ma, come si è detto, nell’ultimo decennio il loro vantaggio in termini di anni attesi alla nascita si è ridotto di quasi un anno. Considerare nell’analisi la causa di morte può essere utile per capire come si sia prodotta questa inversione di tendenza e per individuare le ragioni che ne sono all’ori-gine. Per condurre questa analisi si è utilizzato un op-portuno modello di scomposizione [Pollard 1990], che consente di leggere le differenze di speranza di vita alla nascita in relazione alle caratteristiche della mortalità per causa nelle diverse età della vita di uomini e donne. I due periodi di riferimento sono il 1991 e il 2003. Si ricorda che per questi due anni le donne hanno una speranza di

23

vita alla nascita superiore a quella degli uomini di 6,56 e 5,68 anni rispettivamente.

Ciò che immediatamente si può notare osservando i risultati illustrati nella figura 1.8 e nella tabella 1.2, è l’im-portante modificazione che si è prodotta nella struttura

1,0

0,8

0,6

0,4

0,2

0

–0,2

1991

Età

Con

trib

uti

30-3

4

35-3

9

40-4

4

45-4

9

50-5

4

55-5

9

60-6

4

65-6

9

70-7

4

75-7

9

80+

25-2

9

20-2

4

15-1

9

5-9

10-1

4

0-4

1,0

0,8

0,6

0,4

0,2

0

–0,2

2003

Età

Con

trib

uti

30-3

4

35-3

9

40-4

4

45-4

9

50-5

4

55-5

9

60-6

4

65-6

9

70-7

4

75-7

9

80+

25-2

9

20-2

4

15-1

9

5-9

10-1

4

0-4

Altri tumoriT. Polmoni

S. Circolatorio

T. Seno

C. Violente

T.Prostata

Altre

Fig. 1.8. Contributi (in anni) della mortalità per età e per le principali cause di morte alle differenze tra i sessi della speranza di vita alla nascita. 1991e 2003. Italia.

Fonte: Elaborazioni su dati Istat.

24

per età dei contributi alle differenze di sopravvivenza. Mentre nel 1991, dominavano le distanze dovute alla su-permortalità maschile nelle età 55-74 anni, nel 2003 sono più importanti quelle dovute alla mortalità nelle età più anziane. Questo si è visto indirettamente descrivendo le distanze di sopravvivenza a 80 anni, le sole che nel tempo

tab. 1.2. Contributi (in anni) della mortalità per età e per le principali cause di morte alle differenze tra i sessi della speranza di vita alla nascita. Anni 1991 e 2003

Cause di morte 0-14 15-59 60-79 80+ totale

1991

t. trachea-bronchi-polmoni 0,01 0,32 0,64 0,07 1,03tumori maligni del seno 0,01 –0,22 –0,16 –0,03 –0,40tumori maligni della prostata 0,01 0,04 0,14 0,07 0,26Altri tumori 0,02 0,33 0,62 0,10 1,08Malattie cardiovascolari 0,01 0,49 0,73 0,11 1,35Malattie cerebrovascolari 0,01 0,08 0,19 0,06 0,34A. M. del sistema circolatorio 0,01 0,05 0,09 0,03 0,18Cause violente 0,06 0,87 0,12 0,00 1,06Malattie dell’apparato digerente 0,01 0,21 0,18 0,03 0,43diabete 0,01 0,05 0,01 –0,02 0,05M. acute s. respiratorio e infettive

(escluso Aids) 0,00 0,05 0,04 0,02 0,12Altre cause 0,14 0,41 0,34 0,18 1,07

totale 0,31 2,66 2,96 0,63 6,56

2003

t. trachea-bronchi-polmoni 0,01 0,19 0,58 0,11 0,88tumori maligni del seno 0,01 –0,18 –0,16 –0,04 –0,37tumori maligni della prostata 0,01 0,04 0,14 0,11 0,30Altri tumori 0,01 0,22 0,64 0,18 1,06Malattie cardiovascolari 0,01 0,38 0,62 0,17 1,18Malattie cerebrovascolari 0,01 0,07 0,15 0,05 0,28A. M. del sistema circolatorio 0,01 0,05 0,08 0,03 0,17Cause violente 0,03 0,68 0,10 0,03 0,85Malattie dell’apparato digerente 0,01 0,14 0,12 0,03 0,29diabete 0,01 0,05 0,05 0,00 0,10M. acute s. respiratorio e infettive

(escluso Aids) 0,01 0,06 0,05 0,03 0,15Altre cause 0,04 0,25 0,27 0,22 0,78

totale 0,17 1,94 2,64 0,92 5,68

Nota: Per i codici della Xa revisione della Classificazione internazionale delle malattie e cause di morte si veda www.istat.it.

Fonte: Elaborazioni su dati Istat.

25

sono aumentate in contrasto con quelle delle altre età. Ora, si può aggiungere che, mentre nel 1991 la più bassa mortalità femminile dopo gli 80 anni era responsabile del 10% dei contributi alle differenze tra i sessi di speranza di vita alla nascita, nel 2003 è responsabile del 16%.

È, al contrario, il gioco dell’evoluzione della mortalità nelle due classi di età 0-14 e 15-59 che, in termini asso-luti, determina la riduzione di queste differenze nel 2003. In effetti, in questo anno i contributi per queste età sono inferiori di 0,86 anni rispetto a quelli del 1991. All’interno della prima classe di età sembra prevalere il ruolo giocato dalla mortalità per le cause di natura violenta e per quelle considerate nella voce «altre cause», mentre nella classe di età successiva si evidenzia l’importanza della mortalità per il totale dei tumori e per le cause di natura violenta, la cui evoluzione dal 1991 al 2003 sembra aver favorito gli uo-mini più delle donne (vedi anche fig. 1.9).

Se si considerano le differenze di speranza di vita alla nascita dovute alla mortalità per tutte le età, si vede che, in termini assoluti, queste si sono in gran parte ridotte in quanto si è ridotto lo svantaggio maschile dovuto alla mor-

8

6

4

2

0

Cause violenteSt

per

10.

000

200320001994 19971991

8

6

4

2

0

T. Trachea-bronchi-polmoni

St p

er 1

0.00

0

200320001994 19971991

DonneUomini

Fig. 1.9. Evoluzione della mortalità per le età 15-59 anni, per le Cause violente e i tumori della trachea, bronchi e polmoni dal 1991 al 2003. tassi di mortalità maschili e femminili per 10.000, standardizzati con la popo-lazione italiana del censimento 2001.

Fonte: Elaborazioni su dati Istat.

26

talità per i tumori dell’apparato respiratorio e per le cause di natura violenta (tab. 1.2).

Combinando le informazioni relative alle età e alle cause di morte si può dire che, nell’ambito di un declino generalizzato della mortalità maschile e femminile, nel-l’ultimo decennio le differenze di sopravvivenza tra i sessi sono diminuite per ragioni che possono, almeno in parte, trovare una spiegazione nelle modificazioni dei comporta-menti e degli stili di vita di entrambi. da una parte, gli uo-mini hanno saputo trarre profitto da campagne di educa-zione volte a modificare i loro comportamenti alla guida di auto e moto e a ridurre il fumo di sigarette traducendo il ruolo positivo di queste misure in una sempre più favore-vole evoluzione della mortalità nelle età giovanili e adulte per le due cause indicate in figura 9. dall’altra, le giovani donne, che sempre più cercano di imitare le cattive abitu-dini maschili: fumano sempre di più e gli effetti negativi di questa pratica stanno giocano un ruolo importante nel-l’aumentare la loro mortalità per i tumori delle vie respira-torie. Pur conservando livelli per queste cause molto più bassi di quelli degli uomini, si intravede a distanza per le giovani di oggi un processo di avvicinamento ai loro coeta-nei, poiché l’aumento della mortalità femminile si combina con un’accelerata diminuzione di quella maschile. Negli Stati Uniti, ad esempio, questo andamento è già evidente per le generazioni di donne che hanno iniziato a fumare nel secondo dopoguerra.

box 1.1

l’italia tra i paesi a più bassa mortalità

dove si colloca la sopravvivenza italiana in un confronto internazionale? Come più volte osservato, gli italiani sono tra i più longevi (fig. 1.10). Ma non è stato sempre così. Infatti, agli inizi degli anni ’50, uomini e donne si trovavano in una posi-zione di svantaggio rispetto a quelli dei paesi del Nord Europa, quali l’Olanda, la Norvegia e la Svezia che vantavano all’epoca i più alti livelli di sopravvivenza. In Italia nel 1950 un neonato si attendeva di vivere mediamente 6,3 anni in meno di un neo-nato olandese e una neonata 5,8 anni in meno rispetto ad una

27

sua coetanea norvegese. da allora le cose sono cambiate, anzi la situazione si è capovolta tanto che, secondo i dati del 2004, sono gli italiani e le italiane a vivere più a lungo dei coetanei di questi paesi (circa 1,2 anni per gli uomini e 1,5 anni per le donne).

L’Italia, con giappone, Spagna e finlandia è tra i paesi che dal 1950 hanno riportato i maggiori guadagni (circa 15, 23, 18 e 15 anni rispettivamente, per entrambi i sessi).

Osservando l’evoluzione differenziale per paese e per sesso della sopravvivenza sperimentata dalle popolazioni nell’arco de-gli ultimi cinquant’anni (fig. 1.10), è possibile affermare che il ritmo di crescita della speranza di vita alla nascita, particolar-mente elevato per il nostro paese e il giappone, ha prodotto ne-

90

85

80

75

70

65

60

55

UOMINIe0

1974 1978 1982 1986 1990 1994 1998 2002 20061970196619621954 19581950

90

85

80

75

70

65

60

55

e0

1974 1978 1982 1986 1990 1994 1998 2002 200619701966

Paesi del Nord Europa

19621954 19581950

Paesi del Nord Europa

Paesi dell’ex Unione Sovietica

Paesi dell’ex Unione Sovietica

Italia RussiaGiappone

DONNE

Fig. 1.10. Speranza di vita alla nascita, dal 1950 al 2006 per 22 paesi industria-lizzati. Uomini e donne.

Fonte: Elaborazioni su dati dello Human Mortality database www.mortality.org.

28

gli anni più recenti una maggiore variabilità territoriale rispetto, ad esempio, a quella osservata verso la metà degli anni ’70. Que-sto ha contribuito ad allargare la forbice delle differenze tra gli attuali livelli di sopravvivenza dei paesi esaminati, in modo parti-colare per gli uomini. Nel 2004 infatti, la differenza di speranza di vita alla nascita maschile tra il valore minimo (58,9 anni dei russi) e quello massimo (78,7 anni dei giapponesi) osservato tra i paesi è di circa 19,8 anni mentre per le donne tale differenza scende a 13,3 anni.

Inoltre, si evidenzia una netta divergenza tra le caratteristi-che di sopravvivenza degli uomini che vivono nei paesi dell’Eu-ropa dell’Est e quelle di coloro che vivono nei restanti paesi esa-minati. Questa tendenza, non è così spiccatamente delineata per le donne, sebbene vi sia negli anni più recenti un abbassamento rispetto al passato dei livelli di sopravvivenza di quelle che vi-vono nei paesi dell’ex area socialista.

Queste considerazioni allontanano l’ipotesi, almeno nell’im-mediato futuro, di una eventuale convergenza delle caratteristi-che di sopravvivenza dei paesi considerati. tuttavia, non si può nemmeno parlare di totale divergenza. Quello che emerge in maniera piuttosto chiara, almeno per gli uomini, è l’esistenza di due raggruppamenti di paesi.

Il primo gruppo di paesi, che comprende anche l’Italia, è ca-ratterizzato da livelli di sopravvivenza più elevati e con un trend di crescita più omogeneo. All’interno di questo gruppo si po-trebbe parlare di convergenza solo per quei paesi che tendono più rapidamente a raggiungere i livelli di sopravvivenza dei giap-ponesi. Per i restanti non si può che parlare di «cammini paral-leli» di tali dinamiche.

Il secondo gruppo di paesi è caratterizzato, invece, da livelli molto più bassi di sopravvivenza e con trend di crescita più ar-ticolati. Appartengono a questo gruppo i paesi dell’Europa del-l’Est. All’interno di questo gruppo si osservano comunque delle divergenze tra le Repubbliche Baltiche e gli altri paesi dell’ex Unione Sovietica.

Infine, confrontano le dinamiche di sopravvivenza dei due gruppi, è evidente la netta contrapposizione tra i paesi dell’area occidentale e quelli dell’Europa dell’Est, che riflette le diffe-renze di sviluppo socio-economico, e soprattutto politico, delle due aree. Ciò dovrebbe indirizzare i paesi svantaggiati ad attuare quelle politiche sociali, economiche e sanitarie che hanno pro-dotto nei paesi a più bassa mortalità un maggiore benessere degli individui con conseguente miglioramento della sopravvivenza.

29

box 1.2

la x revisione della classiFicazione internazionale

delle malattie

Le statistiche di mortalità per causa sono basate sui dati provenienti dall’Indagine sulle cause di morte condotta corren-temente dall’Istat e si riferiscono alla «causa iniziale» ossia alla malattia o evento traumatico che, attraverso eventuali compli-cazioni o stati morbosi intermedi, ha condotto al decesso. tale causa è individuata sulla base della Classificazione internazionale delle malattie stilata dall’Organizzazione mondiale della sanità la cui ultima revisione, la X [Icd-10 International Classification of Diseases], è stata adottata in Italia per la prima volta nel 2005 con riferimento ai dati del 2003.

L’Icd-10 presenta delle profonde innovazioni rispetto alle precedenti revisioni. La principale è rappresentata dalla varia-zione del sistema di numerazione delle cause, da numerico (4 cifre) ad alfanumerico (1 lettera e 3 cifre). Questo cambiamento ha consentito l’aumento consistente del numero delle voci in-cluse ed una maggiore specificità per molte delle cause conside-rate. Un esempio importante è rappresentato dalla «Malattia da virus dell’immunodeficienza umana Hiv (Aids)» che nella nuova revisione viene differenziata in 5 categorie a seconda della ma-lattia a cui da luogo: malattie infettive o parassitarie, neoplasie maligne, altre malattie specificate, altre condizioni morbose, Hiv non specificata.

Ulteriori importanti e sostanziali cambiamenti introdotti dalla X revisione sono legati a modifiche nelle regole di selezione della causa iniziale (per approfondimenti si veda Istat [2007b]). Ad esempio, la modifica delle regole di codifica introdotta con l’Icd-10 conduce ad attribuire meno frequentemente la «Polmo-nite» come causa iniziale poiché considerata più spesso come conseguenza di altre patologie e ad individuare un maggior nu-mero di casi, invece, di malattie cronico degenerative selezionate come cause iniziali di morte. In particolare, questo è il caso di alcune specifiche sedi tumorali, come la mammella o la prostata, e delle malattie cerebrovascolari.

Per poter utilizzare con continuità le statistiche sulle cause di morte e valutare l’impatto dell’introduzione della nuova re-visione, recentemente l’Istat ha condotto un approfondito stu-dio di Bridge Coding sulla base di un campione di dati del 2003 sottoposto a doppia codifica Icd-9 e Icd-10. Su tali dati sono stati calcolati coefficienti di raccordo definiti come il rapporto

30

tra il numero dei decessi classificati per grandi gruppi di cause secondo la X revisione e il numero dei decessi classificati per i corrispondenti gruppi di cause sulla base della IX revisione (per approfondimenti si veda il sito http://www.istat.it/dati/data-set/20080111_00/).

dall’analisi dei coefficienti di raccordo (Cr) è possibile eviden-ziare alcuni importanti cambiamenti rispetto al passato (tab. 1.3).

tra i risultati di maggior rilevo si registra un coefficiente di raccordo pari a 1,17 per le «Malattie infettive e parassitarie», corrispondente ad un aumento di circa il 17% dei casi attri-buiti in X revisione a questo gruppo di cause rispetto alla IX revisione. tale aumento è imputabile soprattutto all’incremento in Icd-10 dei casi codificati come Aids (+34%) e Setticemia (+48%). Per il gruppo delle «Malattie del sistema nervoso e degli organi di senso» si registra, invece, un incremento supe-riore al 15% imputabile all’aumento dei decessi per Alzheimer (+19%) e Parkinson’s (+5%). Per le «Malattie del sistema respi-ratorio», malgrado si osservi un coefficiente di raccordo molto vicino all’unità, è necessario sottolineare che vi è stata, nel pas-saggio alla nuova revisione, una diminuzione di circa il 29% dei casi attribuiti alla causa iniziale «Polmonite» a seguito, come già detto, della modifica di alcune regole di selezione della causa iniziale. Si segnala, infine, una forte diminuzione, anche questa imputabile soprattutto alle modifiche delle regole di selezione della causa iniziale, dei casi codificati come «Cadute accidentali» (Cr = 0,26) alcuni dei quali vengono ora classificati nel gruppo delle malattie del sistema circolatorio e in quello delle malattie croniche del sistema respiratorio.

tab. 1.3. Coefficienti di raccordo tra Icd 9 e Icd 10 per alcuni grandi gruppi di cause. Anno 2003

gruppi di cause Codici causeIcd 9

Codici causeIcd 10

Coefficientedi Raccordo

Malattie infettive e parassitarie 001-139, 279.1 A00-B99 1,1690 Aids (malattia da Hiv) 279.1 B20-B24 1,3416Malattie del sistema nervoso e degli organi di senso

320-389 g00-H95 1,1522

Morbo di Parkinson 332 G20-G21 1,052 Malattia di Alzheimer 331.0 G30 1,1889Malattie del sistema respiratorio 460-519 J00-J99 0,9830 Polmonite 480-486 J12-J18 0,7193Cause esterne di traumatismo e avvelenamento

E800-E999 V01-Y89 0,9737

Cadute accidentali E880-E888 W00-W19 0,2622

Fonte: Elaborazioni su dati Istat 2008.

31

I cambiamenti introdotti dalla X revisione della classifica-zione internazionale delle malattie consentono di produrre sta-tistiche di mortalità per causa più dettagliate, in grado di indivi-duare meglio che nel passato fenomeni legati a nuove emergenze sanitarie. grazie alla maggiore specificità del nuovo sistema di classificazione è ora possibile attribuire come causa iniziale ma-lattie di lungo decorso, come ad esempio l’Alzheimer o l’Aids, anche in presenza di patologie, dichiarate dal medico sulla scheda di morte, che conducevano in passato alla collocazione in altri gruppi di cause. È possibile così individuare la reale di-mensione del fenomeno e le sue caratteristiche demografiche e sociali e, quindi, indirizzare le scelte politiche verso interventi sanitari più mirati.

33

capitolo secondo

SALUtE E QUALItÀ dELLA SOPRAVVIVENzA

1. Salute: modelli concettuali, definizioni e misure

1.1. Teorie interpretative ed approcci alla salute

La condizione di salute rappresenta una delle dimen-sioni fondamentali della qualità della vita degli individui con un ruolo sempre più importante all’avanzare dell’età, fin quasi a divenire esclusivo tra i molto anziani.

Una delle domande che sta monopolizzando l’atten-zione nelle società moderne a lunga sopravvivenza è se all’allungamento della vita corrisponda un aumento della vita in buona salute o, al contrario, una crescita del nu-mero di anni che ciascuno trascorre in condizioni di malat-tia o di dipendenza fisica o mentale. Il verificarsi dell’uno o dell’altro scenario comporta importanti conseguenze tanto da un punto di vista individuale sulla qualità della sopravvivenza, che collettivo sulle risorse necessarie per far fronte ai bisogni della popolazione.

diverse teorie si stanno confrontando in questi anni per interpretare i mutamenti in atto e prevederne l’evolu-zione futura. gli ottimisti, di cui fries [1980] rappresenta il caposcuola, sostengono che l’allungamento della vita è stato prodotto da una riduzione del rischio di contrarre le malattie, provocando l’aumento della proporzione di anni vissuti in buona salute, tanto in senso assoluto che relativo. In sostanza gli individui oggi, e ancor più domani, potreb-bero beneficiare di vite più lunghe e più sane, mentre l’età alla quale iniziano a manifestarsi i primi problemi di salute o di mancanza di autonomia verrebbe spostata sempre più in avanti (teoria della compressione della morbosità).

All’altro estremo, i pessimisti – tra i quali gruenberg [1977] e Kramer [1980] – sostengono che la maggiore

34

durata della vita è stata ottenuta grazie ai formidabili progressi raggiunti nelle cure sanitarie. Questo avrebbe lasciato sostanzialmente inalterata l’incidenza della mor-bosità e il suo profilo per età, e solo ridotto la mortalità dei malati (letalità). La conseguenza di questi andamenti sarebbe stato il forte aumento della prevalenza delle ma-lattie e del tempo che ciascuno trascorre in condizioni di cattiva salute (teoria dell’espansione della morbosità). La proiezione di un simile scenario comporta un impatto estremamente negativo sulla qualità della vita e sulla do-manda sanitaria.

In una visione che combina elementi dell’una e del-l’altra teoria, Manton [1982] è meno radicale: per le pa-tologie più gravi e le condizioni più invalidanti si sarebbe determinata una compressione della cattiva salute, mentre per le malattie meno gravi e la disabilità lieve si sarebbe verificata un’espansione. Questo andamento differenziato è giustificato dalla capacità del progresso medico e, so-prattutto, diagnostico di impedire o rallentare la degene-razione di molti processi morbosi verso gli stadi più gravi e debilitanti.

In questa sede ci proponiamo di verificare se (e in che misura) in Italia si stia verificando compressione o espan-sione della morbosità.

tale obiettivo presuppone in primo luogo la defini-zione, quanto più possibile precisa e operativa, del con-cetto di salute a cui si fa riferimento. Molti modelli concet-tuali vengono usualmente utilizzati per misurare la salute o – più frequentemente in negativo – la condizione di man-canza di salute: come primo e più tradizionale indicatore è stata utilizzata la misura della mortalità [Bergner 1985]. Quando la morte era prevalentemente dovuta a malattie di natura acuta, la sua misura poteva fornire una rappre-sentazione non distorta delle condizioni di salute della po-polazione: una volta insorta la malattia, la scarsa efficienza dei trattamenti terapeutici portava a processi morbosi re-lativamente brevi e le malattie letali conducevano rapida-mente alla morte. Con la transizione sanitaria il quadro pa-tologico è completamente mutato e le malattie croniche, a lungo decorso, sono divenute le protagoniste assolute della mortalità dei paesi sviluppati. di conseguenza, la misura

35

della mortalità ha gradualmente perso la capacità di for-nire una misura indiretta dello stato di salute della popola-zione, e sono diventate indispensabili misure direttamente in grado di dar conto anche dei prolungati periodi in cui gli individui si trovano a confrontarsi con la malattia e la disabilità. diversi approcci sono stati proposti e utilizzati per descrivere lo stato di non buona salute, facciano essi riferimento a valutazioni oggettive o a percezioni sogget-tive [Mossey e Shapiro 1982; Kaplan et al. 1988; Idler e Beniamini 1997].

L’approccio medico, basato sulla presenza di patologie definite o alterazioni di parametri fisiologici, porta alla co-struzione di una grande varietà di misure (di morbosità). Questo stesso approccio, nato come «oggettivo», può es-sere utilizzato anche a partire da informazioni «sogget-tive», derivanti, cioè, dalle dichiarazioni che gli individui rendono al momento di una intervista [Sermet e Cambois 2006]. Si tratta in questo caso di misure di prevalenza che danno conto della diffusione delle malattie così come sono note agli individui.

Un altro approccio allo studio della salute è rappre-sentato dalla valutazione della capacità degli individui di condurre una vita autonoma che conduce alla costruzione delle misure di disabilità (salute funzionale). Indipenden-temente dalla presenza di malattie, si valutano, cioè, le performance della persona rispetto ad alcune attività fon-damentali: muoversi; mangiare, vestirsi, mantenere l’igiene personale; comunicare. Ancora una volta, la valutazione può effettuarsi mediante una rilevazione «oggettiva» da parte di personale medico o paramedico, o mediante la compilazione da parte degli individui di scale di misura basate sulle loro percezioni.

Recentemente, infine, sono state introdotte, e sempre più frequentemente utilizzate, misure che fanno riferi-mento a un concetto di salute molto più ampio di quello alla base sia dell’approccio medico, sia di quello funzio-nale. Si tratta della salute percepita, misurata mediante una domanda globale direttamente rivolta agli individui1 che ha incontrato inizialmente una forte avversione so-prattutto in ambiente medico, ma che, contrariamente alle aspettative, si è dimostrata altamente predittiva delle reali

36

possibilità di sopravvivenza dei più anziani [Kaplan et al. 1988; Idler e Benjamini 1997; Egidi et al. 2007].

Nei paragrafi successivi, dopo una breve presenta-zione dei concetti utilizzati e delle definizioni adottate, ci proponiamo di verificare l’ipotesi di compressione (o espansione) della morbosità in Italia mediante le indagini sulla condizione di salute condotte dall’Istat nel 1994; nel 1999/2000 e nel 2004/05 [Istat 1997; 2002; 2007a]. In par-ticolare, la valutazione della dinamica della qualità della salute farà riferimento alle limitazioni funzionali (presenza di disabilità nelle sue diverse dimensioni) e alla non buona salute percepita (persone che valutano «male, molto male e discretamente» la propria condizione di salute).

1.2. Definizioni

Nelle indagini sulle condizioni di salute svolte dal-l’Istat il questionario è rimasto invariato nella parte rela-tiva alla rilevazione sulla disabilità, consentendo di moni-torarne l’andamento nel corso di un decennio: dal 1994 al 2004/2005. Lo strumento fa riferimento ad una batteria di quesiti, predisposti da un gruppo di lavoro dell’Ocse (Or-ganizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico) sulla base della classificazione Icidh dell’Organizzazione mondiale della sanità. Questi quesiti raccolgono informa-zioni su specifiche dimensioni della disabilità: la dimen-sione del movimento, riferibile alle funzioni della mobilità e della locomozione (che nelle situazioni più gravi porta al confinamento nella propria abitazione, su una poltrona o, addirittura, a letto); la sfera di autonomia nelle funzioni quotidiane, che si riferisce alle attività di cura della per-sona (dal lavarsi al vestirsi, alla possibilità di alimentarsi autonomamente); la dimensione della comunicazione che riguarda le funzioni della vista, dell’udito e della parola. Ogni dimensione viene esplorata mediante una batteria di domande le cui modalità di risposta consentono di valu-tare il livello di autonomia della persona nello svolgere la specifica funzione: dalla piena autonomia alla parziale di-pendenza, fino alla completa incapacità di svolgere la fun-zione senza l’aiuto di altre persone. Sulla base di queste in-

37

formazioni, viene definita disabile una persona che, esclu-dendo le condizioni dovute a impedimenti temporanei, dichiara il massimo grado di difficoltà in almeno una delle funzioni rilevate, nonostante l’eventuale ausilio di apparec-chi sanitari (occhiali, protesi, bastone, ecc.). Per analizzare più nel dettaglio la dinamica del fenomeno, questo livello di disabilità si definisce «grave»2, in quando presuppone la completa mancanza di autonomia in almeno una delle funzioni fondamentali della vita. Per contro, si definisce «lieve» un livello nel quale la persona incontra qualche difficoltà nello svolgimento della funzione pur mantenen-dosi autonoma. di conseguenza è definita «non disabile» quella persona che non presenta alcun tipo di limitazione.

Un primo problema della stima della dimensione del fenomeno è legato al fatto che le indagini utilizzate esclu-dono tutte le persone che, vivendo stabilmente in convi-venze (residenze per anziani, istituti di cura, ecc.), non possono entrare a far parte del campione. Sono questi in-dividui che, d’altro canto, possono presentare una condi-zione di salute peggiore di quelle che vivono da sole o in famiglia. tuttavia, questo problema non sembra sostanziale in Italia, dove la quota di disabili che vivono in convivenza si mantiene ancora piuttosto ridotta (pari, nel complesso, a circa 190 mila persone [Istat 2006b]; possiamo quindi ri-tenere che la stima utilizzata sia un’approssimazione rela-tivamente buona del fenomeno, almeno nelle sue caratteri-stiche strutturali e dinamiche.

Un secondo problema è rappresentato dal fatto che la fonte utilizzata non permette né di stimare i disabili di età inferiore a 6 anni, né di individuare le persone con disa-bilità di tipo mentale. Questa carenza, tuttavia, rimane di lieve entità qualora si rifletta sulla ricchezza informativa del questionario e sulla comparabilità temporale delle in-dagini utilizzate.

38

2. Le condizioni di salute in Italia nel decennio 1994/95-2004/05

2.1. Il lato negativo della salute: le tendenze della disabilità e della cattiva salute percepita

Il numero complessivo di disabili si mantiene relativa-mente stabile nel corso degli ultimi dieci anni: intorno a 2 milioni e 600 mila disabili gravi (1 milione e 700 mila donne e 882 mila uomini) [Istat 2007a] e 6 milioni di di-sabili lievi (2 milioni e 400 mila uomini e 3 milioni e 600 mila donne). Questa stabilità, tuttavia, è il risultato di due fenomeni contrapposti: da un lato, una sensibile riduzione dei tassi di disabilità, generalizzata a entrambi i sessi, a tutte le età e forte soprattutto per la disabilità grave; dal-l’altra, un altrettanto sensibile invecchiamento della popo-lazione.

80

70

60

50

40

30

20

10

0

%

1994

1999

/200

020

04/2

005

1994

1999

/200

020

04/2

005

1994

1999

/200

020

04/2

005

1994

1999

/200

020

04/2

005

1994

1999

/200

020

04/2

005

1994

1999

/200

020

04/2

005

1994

1999

/200

020

04/2

005

1994

1999

/200

020

04/2

005

1994

1999

/200

020

04/2

005

1999

/200

019

94

2004

/200

5

6-44 45-64 65-74 75+ Totale 6-44 45-64 75+65-74 TotaleUOMINI DONNE

Disabilità lieve Disabilità grave

Fig. 2.1. Prevalenza della disabilità, lieve e grave, per genere e classi di età. Anni 1994, 1999/2000 e 2004/2005. Valori percentualia.

a tassi standardizzati con la popolazione italiana del censimento 2001.

Fonte: Nostre elaborazioni sui dati di indagine Istat, Condizioni di salute e ricorso ai servizi sanitari. Anni 1994; 1999/2000; 2004/2005

39

La figura 2.1 illustra, distintamente per i due sessi e per alcune grandi classi di età, l’andamento dei tassi stan-dardizzati di prevalenza della disabilità (lieve e grave).

La disabilità grave ha avuto un andamento positivo nel corso del tempo: nei dieci anni che separano l’inda-gine sulle condizioni di salute della popolazione del 1994 da quella del 2004/2005, la quota di disabili, al netto delle variazioni della struttura per età della popolazione, si è ridotta dal 5 al 4% per gli uomini e dal 6 al 5% per le donne. Una riduzione analoga è stata sperimentata dalla disabilità lieve che, nello stesso periodo è diminuita dall’11 al 10% per i primi e dal 14 al 12% per le seconde. Per entrambi i generi la riduzione è il risultato di una contra-zione generalizzata in tutte le classi di età, sia giovani sia anziane, con qualche incertezza per le donne oltre i 75 anni con disabilità lieve che, nell’ultimo quinquennio, ma-nifestano un lieve incremento. In proporzione, i progressi maggiori hanno riguardato i più giovani e coloro che sono stati colpiti da disabilità più grave. Nelle età giovanili e mature, sempre al netto delle variazioni della struttura per età, le condizioni di dipendenza più severe si sono ridotte di oltre un terzo, così come tra gli uomini di 65-74 anni. Per le donne anziane e, per entrambi i sessi, oltre i 75 anni di età, la riduzione è stata nettamente più contenuta e in-feriore a 1/10.

Considerando le diverse forme che la disabilità fisica può assumere, si rileva una relativa stabilità per le funzioni legate al movimento: tanto il confinamento, quanto la di-sabilità grave del movimento colpiscono quote entrambe pari al 2% per gli uomini e al 2% (confinamento) e al 3% (disabilità motoria grave) per le donne (tab. 2.1). tra gli anziani, soprattutto dopo i 75 anni, i problemi di mobi-lità colpiscono la gran parte degli individui: il 12% degli uomini e il 19% delle donne ultrasettantacinquenni è con-finato nella propria abitazione, su una poltrona o a letto. La disabilità motoria grave, pur senza produrre confina-mento, colpisce un altro 13% e 18% di uomini e donne della stessa età. Se poi si considera la disabilità motoria lieve, che colpisce una quota di circa il 40% degli uomini e oltre il 50% delle donne di questa età, si capisce chia-ramente quale impatto questa dimensione eserciti sulla

40

tab. 2.1. Prevalenza della disabilità, lieve e grave, per tipologia, genere e classi di età. Anni 1994, 1999/2000 e 2004/2005. Valori percentualia

EtàAnno

Confinamento Movimento Adl Comunicazione

Lieve grave Lieve grave Lieve grave

uomini

6-441994 0,2 1,4 0,1 1,0 1,0 1,4 0,31999/2000 0,3 1,1 0,2 1,5 0,6 1,1 0,32004/2005 0,2 1,2 0,2 0,6 0,6 1,2 0,345-641994 0,8 9,7 1,0 2,6 1,5 4,2 0,51999/2000 0,7 6,6 1,0 2,1 1,0 4,8 0,72004/2005 0,7 6,4 0,8 1,8 0,8 3,3 0,565-741994 3,3 28,1 4,11 0,5 5,6 13,2 2,01999/2000 2,4 23,8 4,0 9,2 3,91 2,9 1,92004/2005 2,2 22,9 2,7 7,2 3,7 10,7 1,275+1994 14,2 45,0 16,3 24,4 22,7 30,0 8,21999/2000 13,0 38,7 12,4 19,8 18,4 27,4 7,82004/2005 11,9 42,5 12,8 20,7 18,6 25,5 6,7Totale1994 1,9 10,4 2,2 4,5 3,5 6,0 1,21999/2000 1,8 8,4 1,9 4,1 2,6 5,7 1,22004/2005 1,6 8,6 1,8 3,4 2,6 5,0 1,0

donne

6-441994 0,2 1,5 0,2 0,8 0,7 0,9 0,21999/2000 0,5 1,7 0,2 1,6 0,5 1,2 0,32004/2005 0,2 1,7 0,1 0,7 0,5 1,0 0,245-641994 1,0 15,2 1,4 4,6 1,1 4,5 0,61999/2000 1,2 10,2 1,4 3,1 1,0 3,8 0,52004/2005 0,7 10,5 1,1 3,1 1,0 2,8 0,465-741994 4,2 38,4 6,4 18,2 5,5 13,4 2,01999/2000 4,1 32,7 5,5 15,0 5,0 12,4 1,52004/2005 3,5 33,2 4,8 14,1 4,3 10,0 1,675+1994 17,3 52,6 21,3 28,6 28,6 34,3 7,21999/2000 19,2 40,9 18,6 24,6 26,8 27,7 8,62004/2005 18,9 46,8 18,5 25,4 26,4 26,6 7,8Totale1994 2,4 13,7 3,1 6,2 3,8 6,2 1,11999/2000 2,7 10,8 2,8 5,5 3,5 5,5 1,22004/2005 2,4 11,5 2,5 5,0 3,3 4,7 1,1

a tassi standardizzati con la popolazione italiana del censimento 2001.

Fonte: Nostre elaborazioni sui dati di indagine Istat, Condizioni di salute e ricorso ai servizi sanitari. Anni 1994; 1999/2000; 2004/2005.

41

qualità della vita dei più anziani e, particolarmente, su quella delle donne. È anche da considerare che, all’interno di un quadro di sensibile miglioramento rispetto al 1994, l’ultimo quinquennio ha fatto registrare un aumento delle condizioni di lieve disabilità motoria, forte soprattutto per le donne (oltre i 75 anni, il tasso standardizzato passa dal 41 al 47% per le donne e dal 39 al 43% per gli uomini).

L’autonomia nello svolgimento delle attività della vita quotidiana (Adl) rappresenta un’altra fondamentale di-mensione della qualità della vita: intorno al 3% degli indi-vidui (poco meno per gli uomini e poco più per le donne) denunciano l’impossibilità di assolvere queste funzioni senza l’aiuto di qualcuno. A questi si aggiunge un ulteriore 3% di uomini e 5% di donne che accusano problemi di autonomia meno gravi. Entrambe queste quote si sono gradualmente ridotte nel decennio con un ritmo che, tutta-via, è stato generalmente decrescente nel corso del tempo. Qualche problema si rileva, tanto tra gli uomini che tra le donne oltre i 75 anni di età, per le disabilità Adl più lievi. Queste, dopo una forte riduzione nel primo quinquennio, accusano una lieve ripresa negli anni recenti. Un anda-mento che, accanto all’analoga evoluzione della disabilità motoria lieve, fa pensare che gran parte dei progressi otte-nuti nel corso degli ultimi anni dalla medicina in generale e dalla medicina riabilitativa in particolare, abbiano agito soprattutto impedendo ai processi morbosi di degenerare verso le loro più gravi conseguenze, senza tuttavia contra-stare efficacemente l’insorgenza dei processi o consentire il pieno recupero delle persone colpite da disabilità.

La dimensione che fa riferimento alle funzioni della co-municazione suggerisce considerazioni più positive, dando conto dei sostanziali passi in avanti fatti, sia per il recu-pero della vista, sia per quello dell’udito. Essa presenta una prevalenza nettamente più contenuta delle precedenti nelle sue forme più severe (circa l’1% degli uomini e delle donne dichiarano il massimo grado di difficoltà nelle fun-zioni del vedere, parlare, sentire) e livelli lievemente mag-giori per le disabilità lievi (5% per gli uomini e donne). In questo caso, tuttavia, l’andamento è risultato essere più favorevole nell’ultimo quinquennio rispetto a quello prece-dente sia per la disabilità grave sia per quella lieve.

42

La figura 2.2 descrive l’evoluzione della salute «sogget-tiva» della popolazione, ovvero la prevalenza di persone delle diverse classi di età che, in occasione della successive indagini, hanno risposto di sentirsi «molto male, male o discretamente» alla domanda sul loro stato di salute com-plessivo. Analizzando il periodo dal 1994 al 2004/2005 è evidente la dinamica positiva che, eliminato l’effetto del progressivo invecchiamento, ha investito tutte le età: la riduzione della prevalenza della non buona salute è stata mediamente pari all’11% per gli uomini e al 10% per le donne. Le punte massime si trovano per gli uomini in età 45-64 anni (15%) e per le donne in età 0-44 anni (15%). Questo andamento globalmente positivo è stato ottenuto grazie alla dinamica recente, in quanto nel primo quin-quennio si è verificato un peggioramento delle condizioni di salute percepita abbastanza generalizzato.

9080706050403020100

%

1994

1999

/200

020

04/2

005

1994

1999

/200

020

04/2

005

1994

1999

/200

020

04/2

005

1994

1999

/200

020

04/2

005

1994

1999

/200

020

04/2

005

1994

1999

/200

020

04/2

005

1994

1999

/200

020

04/2

005

1994

1999

/200

020

04/2

005

1994

1999

/200

020

04/2

005

1999

/200

019

94

2004

/200

5

0-44 45-64 65-74 75+ Totale 0-44 45-64 75+65-74 TotaleMASCHI FEMMINE

Fig. 2.2 Proporzione di persone che hanno dichiarato di sentirsi «male, molto male o discretamente» per genere e classi di età. Anni 1994, 1999/2000 e 2004/2005. Valori percentualia.

a tassi standardizzati con la popolazione italiana del censimento 2001.

Fonte: Nostre elaborazioni sui dati di indagine Istat, Condizioni di salute e ricorso ai servizi sanitari. Anni 1994; 1999/2000; 2004/2005.

43

2.2. Il lato positivo della salute: le tendenze della speranza di vita libera da disabilità e in buona salute

L’andamento nel tempo e alle diverse età della spe-ranza di vita libera da disabilità qui definita «grave» in quanto indicativa dell’impossibilità per l’individuo di svol-gere autonomamente le funzioni fondamentali della vita, che pone l’Italia ai primi posti della graduatoria europea (vedi box 2.1), indica un evidente processo di migliora-mento.

tale processo di miglioramento, combinato con l’au-mento della sopravvivenza, che porta a un aumento di an-ziani (con maggiori rischi di cattiva salute), conduce ad os-servare, attraverso i valori della speranza di vita libera da disabilità, una situazione meno positiva di quella delineata dalle misure di prevalenza, soprattutto nel quinquennio più recente (fig. 2.3). tra la metà degli anni ’90 e quella del primo decennio del 2000, la speranza di vita libera da disabilità, a 6 anni di età, cresce di 3,7 anni (da 58,2

9080706050403020100

1994

1999

2004

1994

1999

2004

1994

1999

2004

1994

1999

2004

1994

1999

2004

1994

1999

2004

1994

1999

2004

1994

1999

2004

1994

1999

2004

1994

1999

2004

E6 E15 E45 E65 E75 E6 E15 E65E45 E75UOMINI DONNE

Ex in disabilità lieveEx in disabilità grave Ex libera da disabilità

Fig. 2.3. Speranza di vita libera da disabilità, con disabilità lieve e grave per ge-nere ed età. Anni 1994, 1999/2000 e 2004/2005.

Fonte: Nostre elaborazioni su: dati di indagine Istat, Condizioni di salute e ricorso ai servizi sanitari. Anni 1994; 1999/2000; 2004/2005. Le tavole di mortali-tà utilizzate sono quelle degli anni: 1994, 1999 e 2004 (Istat, Sistema informativo dEMO, in www.demo.istat.it).

44

a 61,9) per gli uomini e di 3,1 anni (da 58,4 a 61,5) per le donne, a fronte di un incremento della speranza di vita complessiva rispettivamente di 3,5 anni (da 69,1 a 72,6) e di 2,6 anni (da 75,5 a 78,1). Parallelamente cresce anche la sua proporzione sul totale degli anni vissuti, tanto per gli uomini (da 84 a 86%) che per le donne (da 77 a 79%) e questo è vero a tutte le età. Per gli uomini, ad esempio, la speranza di vita libera da disabilità a 45 anni, che sin-tetizza le prospettive di salute all’inizio dell’età matura, è aumentata di 2,8 anni (da 22,5 a 25,3) a fronte di un au-mento della sopravvivenza complessiva di 2,6 anni (da 32,1 a 34,7 anni). La proporzione di anni in condizioni di autosufficienza è passata così dal 70 al 73%. Per le donne, che anche per questa dimensione della salute si mostrano nettamente sfavorite rispetto agli uomini, la proporzione di anni da vivere senza perdita di autonomia, nettamente più bassa, cresce dal 57 al 61%.

Questi valori indicano che l’aumento della speranza di vita, nonostante continui a provocare un graduale au-mento della quota di popolazione anziana (più fragile dal punto di vista della salute) è stato accompagnato da un miglioramento della qualità della sopravvivenza. Questa valutazione positiva si conferma dettagliando la gravità della disabilità: tanto la speranza di vita con disabilità lieve quanto quella con disabilità grave diminuiscono e diminui-sce, seppure lievemente, la loro proporzione sul totale de-gli anni vissuti. Per gli uomini, i valori passano dall’11 al 10% per la disabilità lieve e dal 5 a poco più del 4% per quella grave, mentre per le donne si passa dal 15 al 13% per la disabilità lieve, rimanendo invece pressoché costante la grave (intorno a 8%).

Considerata nel suo complesso, quindi, l’evoluzione della disabilità in Italia sembrerebbe confermare la teoria della compressione della morbosità, seppure le variazioni siano di entità piuttosto limitata.

Per completare il quadro, è utile fornire alcune indica-zioni sulle differenze territoriali della sopravvivenza libera da disabilità, generalmente più elevata nelle regioni del Nord del paese ed in particolare nel Nord-Est (cfr. box 2.2).

La specificazione della tipologia di disabilità aggiunge ulteriori elementi di riflessione (tab. 2.2).

ta

b. 2

.2.

Sper

anza

di v

ita

liber

a da

dis

abili

tà, c

on d

isab

ilità

liev

e e

grav

e pe

r ti

po d

i dis

abili

tà, g

ener

e ed

età

. Ann

i 199

4, 1

999/

2000

e 2

004/

2005

Età

Ann

oC

onfin

amen

toM

ovim

ento

Adl

Com

unic

azio

ne

Ex

liber

oE

x gr

ave

Ex

liber

oE

x lie

veE

x gr

ave

Ex

liber

oE

x lie

veE

x gr

ave

Ex

liber

oE

x lie

veE

x gr

ave

uo

min

i

e619

9467

,91,

261

,06,

71,

566

,83,

02,

464

,53,

90,

819

99/2

000

69,2

1,2

63,4

5,7

1,3

68,6

3,0

1,8

65,7

3,9

0,8

2004

/200

571

,01,

364

,46,

51,

470

,22,

72,

167

,73,

80,

8e1

519

9459

,11,

252

,26,

61,

458

,22,

72,

055

,73,

80,

819

99/2

000

60,3

1,2

54,6

5,7

1,3

59,8

2,4

1,7

56,9

3,9

0,8

2004

/200

562

,11,

355

,66,

41,

461

,42,

51,

958

,93,

70,

8e4

519

9430

,91,

224

,26,

51,

530

,12,

62,

027

,93,

50,

719

99/2

000

31,9

1,2

26,3

5,5

1,3

31,4

2,4

1,7

28,7

3,6

0,8

2004

/200

533

,51,

227

,16,

31,

432

,82,

51,

930

,53,

40,

7e6

519

9414

,31,

28,

65,

51,

513

,52,

52,

011

,63,

20,

719

99/2

000

15,0

1,2

10,0

4,9

1,3

14,5

2,3

1,7

12,3

3,2

0,7

2004

/200

516

,21,

210

,45,

71,

415

,52,

42,

013

,63,

10,

7e7

519

948,

01,

33,

64,

21,

67,

22,

22,

15,

82,

80,

819

99/2

000

8,4

1,3

4,8

3,8

1,2

7,9

1,9

1,8

6,3

2,7

0,8

2004

/200

59,

31,

34,

64,

51,

48,

52,

22,

17,

12,

70,

7

do

nn

e

e619

9473

,12,

460

,911

,63,

071

,65,

53,

968

,85,

61,

119

99/2

000

73,6

2,9

64,3

9,4

2,8

72,6

5,0

3,8

70,0

5,1

1,3

2004

/200

575

,13,

064

,410

,73,

073

,95,

04,

271

,75,

01,

3

ta

b. 2

.2.

(seg

ue)

Età

Ann

oC

onfin

amen

toM

ovim

ento

Adl

Com

unic

azio

ne

Ex

liber

oE

x gr

ave

Ex

liber

oE

x lie

veE

x gr

ave

Ex

liber

oE

x lie

veE

x gr

ave

Ex

liber

oE

x lie

veE

x gr

ave

e15

1994

64,2

2,4

52,1

11,5

3,0

63,0

5,2

3,6

60,0

5,5

1,1

1999

/200

064

,72,

855

,59,

22,

863

,84,

43,

761

,25,

11,

320

04/2

005

66,2

3,0

55,6

10,6

2,9

65,1

4,8

4,1

62,9

4,9

1,3

e45

1994

35,1

2,3

23,2

11,2

3,0

33,8

5,2

3,6

31,1

5,3

1,0

1999

/200

035

,52,

726

,68,

92,

834

,64,

33,

632

,34,

81,

220

04/2

005

36,8

2,9

26,6

10,2

2,9

35,7

4,7

4,0

33,8

4,7

1,3

e65

1994

17,1

2,3

7,6

8,8

2,9

15,7

4,6

3,6

13,6

4,8

1,0

1999

/200

017

,42,

710

,17,

32,

716

,44,

03,

714

,54,

31,

220

04/2

005

18,5

3,0

9,9

8,6

2,9

17,4

4,4

4,1

15,8

4,4

1,3

e75

1994

9,4

2,2

2,8

6,1

2,7

8,0

3,4

3,6

6,6

4,1

0,9

1999

/200

09,

52,

64,

84,

92,

48,

52,

93,

77,

33,

61,

220

04/2

005

10,4

2,9

4,5

6,1

2,7

9,2

3,4

4,1

8,2

3,8

1,2

47

Il confinamento, nonostante incida sul totale della so-pravvivenza in modo relativamente contenuto (meno del 2% della speranza di vita a 6 anni degli uomini e intorno al 4% di quella delle donne sono vissuti in condizione di confinamento) mostra una relativa tendenza alla sta-zionarietà per gli uomini e una preoccupante tendenza all’aumento per le donne. Più in generale, per quanto riguarda la dimensione del movimento, gli anni di vita vissuti senza disabilità rimangono pressoché costanti per entrambi i generi, con una lieve compressione in termini relativi.

Anche il quadro delineato dalla dinamica della spe-ranza di vita libera da disabilità nelle funzioni della vita quotidiana (Adl) mostra per gli uomini una sostanziale stabilità degli anni vissuti in condizione di autonomia (in-torno al 92-93% del totale degli anni vissuti oltre i 6 anni di età) e una stasi per le donne (88% circa). Questo anda-mento è solo di poco differenziato per età: in particolare per gli uomini, alla complessiva stazionarietà, fa riscontro una lieve riduzione della quota di anni vissuti in condi-zione di disabilità all’aumentare dell’età.

Un andamento più favorevole caratterizza la disabilità della comunicazione: a fronte di una sostanziale stabilità negli anni vissuti con disabilità lieve e grave, corrisponde una generale (e più marcata nelle età anziane) diminu-zione della proporzione rispetto alla speranza di vita com-plessiva.

Poiché la percezione di essere in «buona salute» si di-mostra anche in Italia un valido predittore della soprav-vivenza – soprattutto alle età anziane [Egidi et al. 2007] – il quadro evolutivo è confortante: la crescita della pro-porzione di anni vissuti in buona salute coinvolge sia gli uomini sia le donne di tutte le età, invertendo l’anda-mento negativo spesso verificatosi nel primo quinquennio (fig. 2.4).

Su un totale di 78 anni complessivamente vissuti da un uomo nel 2004, il 70% è vissuto in condizioni perce-pite come «buone» (la proporzione in buona salute della speranza di vita alla nascita era del 68% nel 1994 ed era scesa al 66% nel 1999). Per una donna, le proporzioni sono più basse (il 62% al 2004), ma l’andamento è al-

48

trettanto favorevole (era del 59% nel 1994 e del 57% nel 1999). Questa evoluzione positiva si registra a tutte le età, nonostante la proporzione di anni di buona sa-lute percepita diminuiscano nettamente all’aumentare dell’età.

3. Conclusioni

In Italia non sembrano esserci segnali decisi né della verifica dell’ipotesi di espansione né di quella della com-pressione della morbosità, piuttosto l’ipotesi dell’equili-brio dinamico sembra quella più frequentemente realiz-zata. Non sembra, quindi, giustificata la visione pessimi-stica di quanti sostengono che l’aumento della sopravvi-venza sia stato ottenuto pagando un alto costo in termini di qualità della salute. È vero, tuttavia, che neppure la visione ottimistica trova una conferma: i progressi sanitari di questi anni hanno consentito di impedire la progres-

Fig. 2.4. Speranza di vita in buona e cattiva salute, per genere ed età. Anni 1994, 1999/2000, 2004/2005.

Fonte: Nostre elaborazioni su: dati di indagine Istat, Condizioni di salute e ricorso ai servizi sanitari. Anni 1994; 1999/2000; 2004/2005. Le tavole di mortali-tà utilizzate sono quelle degli anni: 1994, 1999 e 2004 (Istat, Sistema informativo dEMO, in www.demo.istat.it).

9080706050403020100

E6

1994

1999

2004

1994

1999

2004

1994

1999

2004

1994

1999

2004

1994

1999

2004

1994

1999

2004

1994

1999

2004

1994

1999

2004

1994

1999

2004

1994

1999

2004

E15 E45 E65 E75 E6 E15 E65E45 E75UOMINI DONNE

Ex in buona saluteEx in cattiva salute

49

sione della disabilità verso condizioni più gravi, ma non sono stati in grado di impedirne l’insorgenza o consentire il completo recupero delle persone che ne sono colpite. Complessivamente, il progressivo miglioramento della salute, più o meno forte a seconda del concetto adot-tato per descriverla, è stato finora in grado di bilanciare il continuo invecchiamento della popolazione. L’aumento della speranza di vita che, soprattutto negli ultimi anni, si sta sempre più concentrando sulle età avanzate, continua a mantenersi un aumento di «buona qualità». Ma quanto potrà durare questo andamento positivo in mancanza di un ancor più deciso miglioramento della salute degli an-ziani? Alcuni primi sintomi di difficoltà si stanno mani-festando, soprattutto per le donne, negli anni più recenti. Sarà necessario tenere sotto stretto controllo questi anda-menti nel futuro se si vorrà impedire che la grande con-quista dell’umanità rappresentata dal miglioramento della sopravvivenza si trasformi, per la collettività, in insosteni-bili costi provocati dal peggioramento dello stato di salute della popolazione indotto dall’invecchiamento della strut-tura per età.

box 2.1

l’italia in europa: diFFerenze e somiglianze nella qualità della sopravvivenza

Uno sguardo alle relazioni fra la vita media nel suo com-plesso e quella senza limitazioni nelle attività fisiche nei paesi dell’Unione europea evidenzia, sia per gli uomini che per le donne, una migliore qualità della sopravvivenza all’aumentare della lunghezza della vita (fig. 2.5).

In questo quadro complessivo emergono somiglianze e dif-ferenze tra i diversi paesi europei. Alla generale migliore situa-zione dei paesi occidentali si contrappone la condizione più sfavorevole dell’Est Europa. Parallelamente all’eterogeneità Est-Ovest, osserviamo anche una certa omogeneità Nord-Sud. In particolare, per entrambi i generi, i paesi baltici e l’Unghe-ria mostrano, allo stesso tempo, una minore speranza di vita alla nascita e una ridotta speranza di vita di vita libera da disabilità; all’estremo opposto si collocano alcuni paesi dell’Europa medi-

50

terranea (come Italia e Spagna) e dell’Europa centro-settentrio-nale (come francia e Svezia).

L’Italia in Europa sembra occupare una delle più favorevoli posizioni sia in termini di sopravvivenza sia di qualità della sa-lute: entrambi i generi occupano uno dei primi posti della gra-duatoria europea per entrambe le dimensioni (tab. 2.3).

Per quanto riguarda le differenze tra generi, si nota il mi-nore campo di variazione nella sopravvivenza femminile (con uno scarto nella speranza di vita alla nascita di 7,5 anni, va-riando da 76,5 della Lettonia a 84,0 dell’Italia, a fronte di uno

70

65

60

55

50

45

40

Sper

anza

di v

ita a

lla n

asci

talib

era

dalla

dis

abili

Speranza di vita alla nascita65 67 69 71 73 75 77 79 81

Lettonia

Estonia

Ungheria

Slovacchia

Polonia

R.CecaSlovenia

Portogallo

DanimarcaMalta

ITALIA

Svezia

GreciaOlanda

Lussemburgo

Finlandia

Germania

AustriaCipro

Spagna

BelgioIrlanda

Regno UnitoFrancia

Lituania

UOMINI

75

70

65

60

55

50

Sper

anza

di v

ita a

lla n

asci

talib

era

dalla

dis

abili

Speranza di vita alla nascita75 76 77 78 79 80 8281 8483 85

LettoniaEstonia

UngheriaSlovacchia

Polonia

R.Ceca

Slovenia

Portogallo

Danimarca Malta

ITALIA

DONNE

Svezia

Grecia

Olanda

Lussemburgo

Finlandia

Germania

AustriaCipro

Spagna

Belgio

Irlanda

Regno UnitoFrancia

Lituania

Fig. 2.5. Speranza di vita e speranza di vita libera da disabilità alla nascita, nei paesi dell’Eu-27, 2005.

Nota: dati non disponibili per Bulgaria e Romania.

Fonte: Ehemu (European Health Expectancy Monitoring Unit), dati Eu-Silc.

ta

b. 2

.3.

Sper

anza

di v

ita

alla

nas

cita

com

ples

siva

e s

pera

nza

di v

ita

liber

a da

dis

abili

tà s

econ

do il

ses

so p

er i

paes

i del

l’Uni

one

euro

pea

MA

SCH

I (M

)f

EM

MIN

E (f

)f

-M

Sper

anza

di v

itaal

la n

asci

taSp

eran

za d

i vita

liber

a da

dis

abili

tàSp

eran

za d

i vita

alla

nas

cita

Sper

anza

di v

italib

era

da d

isab

ilità

Sper

anza

di v

itaal

la n

asci

taSp

eran

za d

i vita

liber

a da

dis

abili

Pae

si(a

)(b

)(a

)-(b

)(c

)(d

)(c

)-(d

)

Aus

tria

76,6

957

,79

18,9

082

,27

59,5

922

,68

5,58

1,80

Bel

gio

76,1

861

,66

14,5

281

,85

61,9

419

,91

5,67

0,28

Cip

ro76

,82

59,4

717

,35

81,0

957

,94

23,1

54,

27–1

,53

dan

imar

ca75

,96

68,4

47,

5280

,568

,16

12,3

44,

54–0

,28

Est

onia

67,3

348

,03

19,3

078

,15

52,1

625

,99

10,8

24,

13f

inla

ndia

75,5

951

,66

23,9

382

,51

52,3

630

,15

6,92

0,70

fra

ncia

76,8

362

,06

14,7

783

,864

,36

19,4

46,

972,

30g

erm

ania

76,7

154

,98

21,7

382

,03

55,0

626

,97

5,32

0,08

gre

cia

76,8

265

,66

11,1

681

,63

67,2

14,4

34,

811,

54Ir

land

a77

,29

62,9

614

,33

81,7

264

,07

17,6

54,

431,

11It

alia

78,1

666

,30

11,8

684

,03

67,4

516

,58

5,87

1,15

Let

toni

a65

,37

50,5

714

,80

76,5

53,0

923

,41

11,1

32,

52L

ituan

ia65

,31

51,1

714

,14

77,3

454

,31

23,0

312

,03

3,14

Lus

sem

burg

o76

,63

62,2

114

,42

82,2

462

,09

20,1

55,

61–0

,12

Mal

ta77

,26

68,4

88,

7881

,470

,15

11,2

54,

141,

67O

land

a77

,25

64,9

912

,26

81,7

263

,11

18,6

14,

47–1

,88

Pol

onia

70,7

560

,97

9,78

79,3

366

,64

12,6

98,

585,

67P

orto

gallo

74,9

058

,35

16,5

581

,33

56,7

424

,59

6,43

–1,6

1R

egno

Uni

to77

,08

63,2

013

,88

81,1

264

,95

16,1

74,

041,

75R

ep. C

eca

72,9

257

,85

15,0

779

,25

59,8

619

,39

6,33

2,01

Slov

acch

ia70

,17

54,9

515

,22

78,0

756

,36

21,7

17,

901,

41Sl

oven

ia73

,94

56,3

017

,64

80,8

659

,87

20,9

96,

923,

57Sp

agna

76,9

863

,16

13,8

283

,66

63,1

420

,52

6,68

–0,0

2Sv

ezia

78,4

964

,20

14,2

982

,963

,08

19,8

24,

41–1

,12

Ung

heri

a68

,69

52,0

316

,66

77,1

753

,94

23,2

38,

481,

91

52

scarto di 13,2 anni per gli uomini, passando dai 78,5 della Svezia ai 65,3 della Lituania). Un quadro del tutto simile si prospetta per la qualità della salute: se le donne si differenziano di 16 anni circa, variando da oltre 68 anni trascorsi liberi da disabilità in danimarca a 52 in Estonia, gli uomini sono caratterizzati da una differenza di oltre 20 anni per gli stessi Paesi.

Appare ragionevole interpretare queste disuguaglianze alla luce della diminuzione della lunghezza della vita media e della forte diffusione di comportamenti a rischio, quali l’uso di alcol e droghe, che ha caratterizzato soprattutto la popolazione ma-schile nei Paesi dell’Europa orientale nel corso degli ultimi due decenni. Non può inoltre essere trascurata la situazione del si-stema sanitario, che alle sue origini era organizzato in vista di combattere le più importanti malattie infettive. In seguito, e con-trariamente a quanto accaduto nei paesi occidentali, il sistema non è stato in grado di convertirsi ai bisogni derivanti dall’indu-strializzazione. Nel corso degli anni ’90, dopo la disgregazione dell’Urss, il vecchio sistema sanitario è stato smantellato senza che sia stato sostituito con un nuovo sistema [Angeli e Salvini 2007, 140].

box 2.2

la speranza di vita libera da disabilità nelle regioni italiane

Nel 2005 il numero medio di anni che un uomo italiano di 15 anni può contare di vivere senza disabilità è pari a 60,5, corrispondente al 95% dei 63,4 anni che a quella età si aspetta di vivere mediamente, quali siano le condizioni di salute (Istat, Health for all, in www.istat.it/sanita/Health). Nelle donne tale proporzione è più bassa e pari al 92% (63,5 rispetto a una spe-ranza di vita complessiva di 69,1 anni).

Le proporzioni variano sul territorio assumendo in generale caratteristiche simili per i due generi, con valori più elevati nelle regioni del Nord e più bassi nelle regioni del Mezzogiorno (fig. 2.6). Negli uomini la proporzione varia tra il 94% del Mezzo-giorno e il 96% del Nord (con una punta massima del 97% in friuli-Venezia giulia). Nelle donne, la proporzione varia tra il 90% del Mezzogiorno (con un minimo dell’89% in Sicilia) e il 93% del Nord (con un massimo del 95% in trentino-Alto Adige).

tra le donne, le regioni con le quote più alte di anni senza

53

disabilità tendono a presentare più frequentemente anche li-velli di sopravvivenza più elevati con la conseguenza di acuire la contrapposizione geografica tra il Nord e il Mezzogiorno in ter-mini sia di quantità sia di qualità della sopravvivenza rispetto a quanto rilevato tra gli uomini. tra questi ultimi, infatti, sono più diffusi i casi di regioni del Nord che presentano un’alta propor-zione di anni senza disabilità associata ad una speranza di vita complessiva inferiore alla media nazionale.

da un confronto con i dati del 2000 (Istat, Health for all, in www.istat.it/sanita/Health), a 15 anni gli uomini hanno recu-perato 1,7 anni di vita libera da disabilità e le donne 1,2 anni, a fronte di aumenti della speranza di vita complessiva (a 15 anni) di 2,3 e di 1,1 anni, rispettivamente. di conseguenza, la propor-zione di anni vissuti senza disabilità rispetto alla speranza di vita a 15 anni è rimasta sostanzialmente invariata intorno al 95% per gli uomini e al 92% per le donne.

A questa sostanziale stabilità nel valore medio nazionale ha fatto riscontro una grande variabilità nelle regioni (fig. 2.6): più marcati aumenti della proporzione di anni senza disabilità, ac-compagnati da altrettanto importanti aumenti della speranza di vita totale, hanno interessato indistintamente regioni delle di-verse ripartizioni. tra le regioni del Nord e del Centro, hanno avuto questo comportamento il trentino-Alto Adige, l’Emilia Romagna, le Marche, il friuli-Venezia giulia e la Lombardia per gli uomini; il trentino-Alto Adige, le Marche e la toscana per le donne. tra le regioni del Mezzogiorno, aumenti rilevanti hanno riguardato la Calabria e la Sardegna, sia per gli uomini che per le donne, e la Sicilia per le sole donne.

Nelle altre regioni, agli aumenti della speranza di vita to-tale, più o meno alti, si sono associate variazioni irrilevanti della speranza di vita senza disabilità, con una riduzione della pro-porzione di anni vissuti in condizioni di piena autonomia per le donne umbre e liguri.

Nel complesso, quindi, la dinamica registrata nel quinquen-nio ha lasciato praticamente inalterate le caratteristiche geogra-fiche della qualità della sopravvivenza, caratterizzate, sia per gli uomini che per le donne, a parità di livelli di sopravvivenza, da proporzioni di anni senza disabilità più elevate nelle regioni del Nord e del Centro che in quelle del Mezzogiorno.

Solo per alcune regioni si segnala una variazione della posi-zione rispetto alla media: perdono terreno, per gli uomini, to-scana e Umbria; per le donne, Umbria e Abruzzo. guadagnano invece posizioni Marche e Lazio per i primi, Marche e toscana per le seconde.

54

Fig. 2.6. Speranza di vita e speranza di vita libera da disabilità (dfle) a 15 anni per genere. Anni 2000 e 2005. graduatoria decrescente secondo la proporzione di anni liberi da disabilità.

Fonte: Health for all (Hfa), 2008.

Valle d’AostaLiguria

Friuli V. G.ToscanaVeneto

Trentino A.A.Emilia Romagna

UmbriaLombardia

PiemonteMolise

CampaniaITALIA

MarcheLazio

Puglia

AbruzzoSicilia

CalabriaSardegna

Basilicata

Valle d’Aosta

LiguriaFriuli V. G.

Toscana

Veneto

Trentino A.A.

Emilia Romagna

Umbria

Lombardia

Piemonte

MoliseCampania

ITALIA

Marche

Lazio

Puglia

Abruzzo

SiciliaCalabria

SardegnaBasilicata

UOMINI

66 68 70 72646258 605666 68 70 72646258 6056

2000DONNE

Valle d’Aosta

Liguria

Friuli V. G.

Toscana

Veneto

Trentino A.A.

Emilia Romagna

Umbria

Lombardia

Piemonte

MoliseCampania

ITALIA

Marche

Lazio

Puglia

Abruzzo

Sicilia

CalabriaSardegnaBasilicata

Valle d’Aosta

Liguria

Friuli V. G.

Toscana

Veneto

Trentino A.A.

Emilia Romagna

Umbria

LombardiaPiemonte

MoliseCampania

ITALIAMarche

Lazio

Puglia

Abruzzo

Sicilia

Calabria

Sardegna

Basilicata

UOMINI

66 68 70 72646258 605666 68 70 72646258 6056

2005DONNE

Dfle15 e15 – Dfle15

55

note al capitolo secondo

1 La domanda recita: «Come va in generale la sua salute?». Il ri-spondente ha 5 possibilità di risposta: molto bene, bene, discretamente, male e molto male.

2 Negli altri capitoli del volume la «disabilità grave» è denominata, in linea con la definizione Istat, semplicemente «disabilità».

57

capitolo terzo

SALUtE RIPROdUttIVAE MORtALItÀ INfANtILE

1. La salute riproduttiva

1.1. Le cure prenatali

Il concetto di «salute riproduttiva» implica il ricorso a tecniche e procedure definibili come cure prenatali fina-lizzate a prevenire ed eliminare ogni possibile danno alla salute del feto e della donna, favorendo così un sereno e sano decorso della gestazione. La salute riproduttiva, se-condo le organizzazioni internazionali [Un 1995; Who 2001], più che un concetto, è dunque un obiettivo da rag-giungere, che comprende anche: a) la possibilità di affron-tare una responsabile, soddisfacente e sana vita sessuale; b) la libertà di decidere se, quando e come riprodursi, grazie alla conoscenza e al ricorso ad efficaci, disponibili e accet-tabili metodi di controllo dei concepimenti1.

Considerando in particolare l’aspetto inerente la sor-veglianza della gestazione e del parto, è opportuno ricor-dare che la World Health Organization (Who) vi ha dedi-cato particolare attenzione fin dalla prima metà del XX secolo. Attualmente, però, in un contesto in cui, in tutto il pianeta, la diffusione delle cure prenatali sta subendo, sia pur con ritmi differenti, un progressivo incremento, in alcuni paesi, tra i quali il nostro, si registra un eccessivo ricorso a procedure diagnostiche (spesso complesse e inva-sive), la cui utilità non è stata provata da alcuna evidenza scientifica. Pertanto la Who ha elaborato e sperimentato un nuovo protocollo di assistenza prenatale che, mentre conferma la necessità di una serie di screening per alcune patologie [Villar e Bergsjo 2001], per le donne che non presentano fattori di rischio, prevede una forte riduzione

58

del numero di visite specialistiche, analisi del sangue ed ecografie ostetriche.

In Italia, dove la mortalità materna e infantile tocca i livelli più bassi tra quelli caratteristici dei paesi sviluppati2, il d.M. del 10/9/1998 ha stabilito che le donne in stato di gravidanza possono usufruire gratuitamente, presso strut-ture pubbliche, private convenzionate e consultori, di 8 vi-site specialistiche complete, 3 esami del sangue e 3 ecogra-fie. La diagnosi prenatale di tipo invasivo (amniocentesi o prelievo dei villi coriali) è offerta gratuitamente alle donne di almeno 35 anni di età o che presentino un qualsiasi fat-tore di rischio procreativo (ovvero riguardante i genitori) o fetale (ovvero inerente la gestazione o il nascituro).

Per descrivere l’intensità delle cure prenatali nel no-stro paese si può usufruire dei dati derivanti dalle ultime due indagini Istat su Condizioni di salute e ricorso ai ser-vizi sanitari realizzate rispettivamente nel 1999-2000 e nel 2005. tali informazioni mettono in luce che il ricorso alle tecniche «strumentali» è molto superiore rispetto a quanto prescritto dai protocolli ufficiali e che, inoltre, è aumentato nel tempo. Ciò è dimostrato soprattutto dal-l’incremento verificatosi nella quota di donne che ha ripe-tuto più di quattro volte le analisi del sangue (dal 58,5% del 1999-2000 al 76,0% del 2005) e nella proporzione di quante si sono sottoposte a metodi invasivi di diagnosi prenatale (passata, per l’amniocentesi dal 23,4% al 27,1% e, per il prelievo dei villi coriali, dal 5,7% al 7,0%). Leg-germente minore è invece l’aumento verificatosi nel nu-mero medio di ecografie (da 5,2 a 5,5) e di visite (da 6,8 a 7,0, livello inferiore a quello previsto dal protocollo na-zionale)3.

Volendo scendere più nel dettaglio e ispirandosi a quanto emerge, per il solo 1999-2000, da un recente con-tributo [Pinnelli e fiori 2007], in base alle informazioni disponibili è stato possibile costruire, anche per il 2005, ulteriori indicatori dell’intensità di tali cure. Considerando che la presenza di particolari condizioni di salute della ge-stante può influire sul livello di sorveglianza della gravi-danza, si è ritenuto opportuno considerare le sole donne che hanno portato avanti una gestazione priva di fattori di rischio, pari al 70% del campione nel 1999-2000 e al 77%

59

nel 20054. Per ciascun tipo di cure è stato così possibile di-stinguere le donne che ne hanno fatto uno scarso ricorso, rispetto a quelle che ne hanno fatto un uso normale e a quante le hanno praticate eccessivamente.

Con l’eccezione delle analisi del sangue, per più della metà delle gestanti i livelli di sorveglianza della gravidanza sono stati «normali», ovvero in linea con quanto previsto dal protocollo nazionale (tab. 3.1). Si nota però anche un incremento non facilmente spiegabile della quota di donne che hanno «abusato» di ogni tipo di cure, con una crescita più evidente per le analisi del sangue, alle quali, nel 2005, 9 donne su 10 si sono sottoposte per un numero di volte superiore a 3. In tale anno, l’eccesso di cure si è verificato, indipendentemente dal loro tipo, soprattutto nella riparti-zione centrale e nelle Isole, oltre che, con riferimento alle ecografie, al Sud. Il Centro si caratterizza per la presenza di oltre un quarto di donne che hanno fatto ricorso a me-todi invasivi di diagnosi prenatale anche in età inferiore ai 35 anni, mentre il Mezzogiorno si contraddistingue per una maggiore scarsità di visite. Analisi più approfondite (non riportate per motivi di spazio) mostrano, però, che il livello di sorveglianza della gravidanza è determinato da molteplici fattori, legati, oltre che al contesto in cui le fu-ture madri vivono la gestazione, anche alle loro caratteri-stiche individuali.

Relativamente ai primi, emerge che le donne che si sono rivolte alle strutture pubbliche si contraddistinguono per una maggiore aderenza dell’intensità di cure ai proto-colli ufficiali, mentre quelle che si sono dirette verso i cen-tri privati e convenzionati hanno generalmente fatto un ec-cessivo ricorso a tali pratiche, inducendo a ipotizzare una forte influenza del condizionamento del medico e dell’am-biente sanitario sul comportamento delle gestanti.

Con riferimento ai fattori individuali, si deduce il no-tevole effetto esercitato dal livello socio-economico delle gestanti (rappresentato dal grado di istruzione, dalla si-tuazione lavorativa e dalle condizioni finanziarie), al cui innalzamento consegue una diminuzione del rischio di sottoporsi a cure sia insufficienti sia eccessive. Ciò porta a ritenere che siano proprio le donne caratterizzate da una maggiore disponibilità di informazioni e di risorse econo-

60

tab. 3.1. Intensità delle cure prenatali, per ripartizioni, 1999-2000 e 2005, valori percentuali

Ripartizioni Scarse Normali Eccessive

1999-00 2005 1999-00 2005 1999-00 2005

Visitea

Nord-Ovest 11,5 15,8 60,4 57,2 28,1 27,0Nord-Est 17,3 16,1 61,1 59,9 21,6 24,0Centro 18,9 16,0 60,1 53,6 21,0 30,4Sud 26,4 24,7 58,2 57,7 15,3 17,7Isole 26,4 19,7 53,2 44,7 20,4 35,7Italia 20,0 18,3 58,9 56,1 21,1 25,6

Analisi del sangueb

Nord-Ovest 0,0 0,0 37,8 11,5 62,2 88,5Nord-Est 0,0 0,3 43,9 9,6 56,2 90,1Centro 0,0 0,0 45,3 7,7 54,7 92,3Sud 0,1 0,0 45,1 12,2 54,8 87,8Isole 0,0 0,0 43,3 7,4 56,7 92,6Italia 0,0 0,1 43,0 10,3 57,0 89,6

Ecografie ostetrichec

Nord-Ovest 31,6 27,0 51,5 47,4 17,0 25,5Nord-Est 31,0 21,7 54,0 57,5 15,0 20,8Centro 28,3 22,9 55,4 53,0 16,3 24,2Sud 24,0 24,0 48,1 43,3 27,8 32,7Isole 21,8 19,3 52,5 52,8 25,6 28,0Italia 27,5 24,1 51,7 49,5 20,8 26,4

diagnosi prenataled

Nord-Ovest 23,2 30,2 66,1 51,8 10,7 18,0Nord-Est 19,7 26,5 71,8 55,4 8,5 18,1Centro 21,1 26,3 65,1 47,1 13,9 26,6Sud 20,2 19,9 65,7 65,6 14,1 14,5Isole 19,3 21,8 68,1 68,7 12,6 9,5Italia 20,9 25,7 67,0 56,1 12,1 18,2

Note: a Il numero di visite effettuate è considerato scarso se è stato minore di 5, normale se compreso tra 5 e 8 ed eccessivo se superiore a 8. b Il numero di analisi del sangue effettuate è considerato scarso se è stato minore di 2, normale se compreso tra 2 e 3 ed eccessivo se superiore a 3. c Il numero di ecografie ostetri-che è considerato scarso se è stato minore di 4, normale se compreso tra 4 e 6 ed eccessivo se superiore a 6. d Il ricorso alla diagnosi prenatale è considerato scarso se questa non è stata eseguita dopo i 35 anni della donna, normale se questa non è stata eseguita prima dei 35 anni e lo è stata dopo i 35, ed eccessivo se questa è stata eseguita prima dei 35 anni. tali modalità sono state definite, per ogni tipo di cure, sulla base di quanto effettuato nel citato contributo di Pinnelli e fiori [2007].

Fonte: Nostre elaborazioni su dati individuali delle indagini su, Condizioni di salute e ricorso ai servizi sanitari, 1999-2000 e 2005.

61

miche quelle che riescono a «scegliere» con più adegua-tezza quanto e come sorvegliare la gestazione.

1.2. Gli aborti spontanei

Le cause per le quali una gravidanza può interrompersi possono essere naturali o volontarie. Le conseguenze delle prime, ossia gli aborti spontanei, comprendono, secondo le legge italiana, tutte le interruzioni della gestazione che avvengono entro il 180o giorno di amenorrea. tale defini-zione subisce varie modifiche nei singoli paesi, con ovvie conseguenze sulla comparabilità dei dati. Inoltre, nella no-stra penisola, la rilevazione avviata dall’Istat fin dal 1956 e riformata dal 1979 considera solo i casi che abbiano com-portato un ricovero ospedaliero (dal 1993 anche in day-ho-spital) escludendo quelli in cui l’aborto abbia necessitato solo di cure ambulatoriali o non abbia richiesto l’inter-vento medico. A ciò si aggiunge che l’interruzione spon-tanea della gravidanza può verificarsi in una fase talmente iniziale da non essere percepita neanche dalla donna che la subisce, con ovvie conseguenze sulla sua possibilità di registrazione.

I dati disponibili evidenziano che il numero di aborti spontanei in Italia è aumentato dai 59.000 rilevati nel 1991 ai 73.000 del 2005. Per descrivere meglio l’andamento del fenomeno del tempo si può fare ricorso a vari indicatori. Iniziamo con l’esame dei tassi di abortività spontanea, cal-colati, per ciascun anno di calendario, come rapporti fra l’ammontare degli eventi subiti dalle donne in età feconda (15-49 anni) e la popolazione media femminile in tale età (fig. 3.1). Questi indici mostrano che nell’ultimo quindi-cennio il trend è stato crescente in tutto il paese e che gli aumenti maggiori si sono verificati nel Centro (dal 4,1 al 5,9‰) e nel Nord-Est (da 4,4 al 5,6‰), probabilmente an-che a causa della diversa evoluzione della struttura per età delle donne in età feconda e delle differente presenza di donne straniere (cfr. box 3.2) nelle varie ripartizioni.

Se la quota di gestanti che sperimenta un’interruzione naturale della gravidanza è compresa, nell’intervallo osser-vato, tra 3 e 6 ogni mille, i rapporti di abortività spontanea

62

standardizzati (ovvero la proporzione di tali eventi ogni 1.000 nati vivi, depurata dall’effetto della struttura per età delle madri) mostrano livelli generalmente superiori al 100‰ (fig. 3.2). Nel corso del tempo, i rapporti sembrano abbastanza stabili nel complesso della penisola e, al con-trario dei tassi, tendono ad avvicinarsi al livello delle sin-gole ripartizioni, che fanno registrare, al 2005, valori com-presi tra il 107 e il 142‰, corrispondenti rispettivamente al Centro e alle Isole.

Uno tra i maggiori fattori di rischio di aborto sponta-neo è rappresentato dall’età della gestante, che, a partire dai 30 anni, provoca un progressivo incremento dei rap-porti. Questi indicatori, indipendentemente dal periodo di rilevazione, si innalzano in particolare per le età superiori ai 40 anni: considerando il 2005, si rileva che essi, pari al 128‰ per il complesso delle età delle madri, raggiungono addirittura il 427‰ se queste sono ultraquarantenni.

La letteratura in tema di aborti spontanei non è molto ampia, ma i risultati di recenti approfondimenti [Loghi et al. 2006] mostrano che ulteriori fattori di rischio corri-spondono all’essere una donna non coniugata, primipara e poco istruita. A queste determinanti possono aggiungersi

6,5

6,0

5,5

5,0

4,5

4,0

3,5

3,02003 20052001199919971993 19951991

Isole Italia

Nord-Ovest Nord-Est Centro Sud

Fig. 3.1. tassi di abortività spontanea (per 1.000 donne in età 15-49) per ripar-tizioni, 1991-2005.

Fonte: Nostre elaborazioni su dati Istat, Health for All.

63

l’esposizione a specifiche condizioni di lavoro (ad es. am-bienti non salubri o attività usuranti) e il ricorso a metodi di procreazione assistita. Rimane però ancora da esplorare l’effetto di una componente «endogena», di natura gene-tica o biologica e di difficile misurazione, la cui individua-zione potrebbe favorire un auspicabile calo di un feno-meno che può procurare sofferenza, anche profonda, nella donna che lo subisce.

1.3. Le interruzioni volontarie della gravidanza

In Italia l’interruzione volontaria della gravidanza (d’ora in poi Ivg) è stata legalizzata con la legge n. 194 del 1978, frutto di anni di lotte e rivendicazioni sociali e poli-tiche.

A partire dal 1979 l’Istat ha avviato, in accordo con le Regioni e il ministero della Sanità, la rilevazione dei casi di Ivg, che comprende anche notizie sulla gestante e sul-l’intervento praticato. Le quantificazioni che ne derivano potrebbero essere sottostimate a causa sia dell’abortività clandestina, sia della mancata registrazione o del mancato

170

160

150

140

130

120

110

100

902003 20052001199919971993 19951991

Isole Italia

Nord-Ovest Nord-Est Centro Sud

Fig. 3.2. Rapporti standardizzati di abortività spontanea (per 1.000 nati vivi) per ripartizioni, 1991-2005.

Fonte: Nostre elaborazioni su dati Istat, Health for All.

64

invio di informazioni all’Istat, anche se l’affidabilità della rilevazione è migliorata nel tempo [Loghi, Pierannunzio e giorgi 2006]. tutto ciò rende opportuno iniziare l’osser-vazione del fenomeno (fig. 3.3) dal 1980, anno dal quale è iniziato un leggero incremento, presumibilmente dovuto al citato miglioramento della rilevazione ed a un parziale tra-vaso dell’abortività clandestina in quella legale, che ha por-tato i tassi di abortività volontaria (calcolati come rapporti tra il numero di casi osservati in ciascun anno e la popola-zione media femminile in età compresa tra 15 e 49 anni) dal 15,9‰ del 1980 al 17,1‰ del 1982. dalla seconda metà de-gli anni ’80 il trend è caratterizzato, per circa un decennio, da una notevole diminuzione, mentre in tutto il periodo successivo mostra una sostanziale stabilità su un livello pari a circa 9 Ivg ogni 1.000 donne in età compresa tra i 15 e i 49 anni. Questo valore è uno tra i più bassi tra quelli ri-levati nei paesi dell’Europa nord-occidentale, mentre molto maggiori appaiono i livelli corrispondenti all’area orientale (che superano addirittura il 50‰ per la federazione Russa).

Il comportamento delle cinque ripartizioni, che appare sempre più omogeneo nel tempo, mostra che i tassi rela-

20

18

16

14

12

10

8

6

Isole Italia

Nord-Ovest Nord-Est Centro Sud19

92

1994

1990

1998

2000

2002

2004

1996

1988

1986

1982

1984

1980

Fig. 3.3. tassi standardizzati di abortività volontaria (per 1.000 donne in età 15-49) per ripartizioni, 1980-2005.

Fonte: Nostre elaborazioni su dati Istat, Health for All.

65

tivi alle regioni meridionali, pur subendo un decremento, sono i più elevati della penisola dal 1985 al 2000, mentre sono superati, nel quinquennio iniziale e in quello finale, da quelli della circoscrizione centrale. All’estremo opposto si trovano i valori riguardanti sia il Nord-Est, sia le Isole (soprattutto la Sardegna).

tra le caratteristiche della donna che influenzano maggiormente il ricorso all’Ivg compare in primo luogo l’età (tab. 3.2). Questa variabile fa sì che i tassi specifici di abortività indotta raggiungano i livelli più alti in corri-spondenza alle classi centrali, che sono le più coinvolte nel ciclo di vita riproduttiva. Nel corso del tempo, la maggior parte dei tassi subisce un notevole calo, ininterrotto per le età superiori ai 30 anni.

Il leggero aumento recentemente verificatosi per i va-lori riguardanti le classi più giovani dimostra la presenza di una progressiva anticipazione dell’abortività volontaria, che può ritenersi compatibile con il trend evidenziato da un’ulteriore caratteristica delle donne: lo stato civile. Men-tre negli anni precedenti il 1996 i livelli corrispondenti alle coniugate sono maggiori rispetto a quelli delle nubili, negli anni successivi si assiste ad un’inversione di tendenza, con un divario complessivamente crescente (fig. 3.4). tali tra-sformazioni inducono ad ipotizzare che in Italia si sia ve-rificato un progressivo riequilibrio nel peso delle compo-nenti interne dell’abortività indotta: accanto a un modello, più tradizionale, secondo cui essa contribuisce a control-

tab. 3.2. Tassi di abortività volontaria (per 1.000 donne in età 15-49) per classi di età, 1980-2005

Classi di età Quinquenni

1980 1985 1990 1995 2000 2005

15-19 6,2 7,0 5,6 6,1 7,1 7,120-24 21,6 19,5 14,3 12,3 14,3 14,425-29 25,1 23,5 17,1 13,2 13,6 14,330-34 24,8 23,5 18,1 13,5 12,8 12,435-39 19,3 19,2 15,5 12,0 10,7 10,240-44 9,6 9,1 7,2 5,7 4,9 4,645-49 1,2 1,0 0,8 0,6 0,5 0,4

Fonte: Nostre elaborazioni su dati Istat, Health For All.

66

lare «a posteriori» la fecondità all’interno del matrimo-nio, si registrerebbe la crescente diffusione di un modello «estemporaneo» adottato da donne giovani e non coniu-gate [Istat 2000].

L’indagine Istat non rileva la motivazione che induce la donna ad effettuare l’Ivg, ma il rinvio della fecondità verso le età sempre più elevate, avvenuto negli ultimi 30 anni in Italia come in altri paesi europei, ha determinato un cre-scente ricorso all’aborto indotto in caso di difetti congeniti del feto, in virtù del fatto che molte malformazioni sono le-gate all’età della madre ed il loro rischio cresce all’aumen-tare dell’età della donna al concepimento. I difetti fetali sono oramai diagnosticati, infatti, con tecniche moderne ed affidabili e sono spesso la causa principale nel determinare il ricorso all’Ivg oltre i 90 giorni di gestazione (fig. 3.5).

Considerando i dati dei registri delle malformazioni congenite (che non hanno copertura nazionale), si è sti-mato che circa il 40% delle Ivg avvenute dopo i 90 giorni può essere dovuto a una diagnosi prenatale di Sindrome di down, mentre circa il 60% a una qualsiasi diagnosi di mal-formazione cromosomica. gli ultimi dati dei registri italiani pubblicati a livello internazionale confermano tali risultati: la maggior parte delle Ivg a seguito di diagnosi di malfor-

12,011,511,010,510,09,39,08,58,07,57,0

2003 20052001199919971993 19951991

Nubili Coniugate

Fig. 3.4. tassi di abortività volontaria (per 1.000 donne in età 15-49) per stato civile, 1991-2005.

Fonte: Nostre elaborazioni su dati Istat, Health for All.

67

mazioni sono da attribuirsi alla Sindrome di down, seguita da idrocefalia, trisomia 18 e spina bifida [International Clearinghouse for Birth defects Monitoring System 2006].

terminiamo con alcune riflessioni sul problema degli aborti clandestini e della recidività, rinviando al box 3.2 l’analisi dell’abortività indotta delle straniere. La prima di esse concerne una stima delle Ivg clandestine che, rag-giungendo un valore pari a 15.000 casi nel 2005, eviden-zia un netto decremento rispetto alle 100.000 interruzioni stimate per il 1983. Considerando, inoltre, le proporzioni di Ivg disaggregate in base agli aborti indotti precedenti, si nota che l’andamento osservato nell’ultimo quindicen-nio è molto più basso rispetto a quello atteso al variare del tempo dalla legalizzazione e in costanza del rischio di abortire. Nel 2005, se tale rischio fosse rimasto uguale ai livelli tipici dei primi anni ottanta, la quota di donne con precedente esperienza di Ivg sottopostesi a un nuovo aborto avrebbe raggiunto il 44,6%, a fronte di un valore reale pari al 26,3% [Ministero della Salute 2008a].

L’insieme delle indicazioni fin qui sintetizzate eviden-zia, quindi, oltre che una notevole riduzione del ricorso all’Ivg (che ha portato i valori assoluti dai 208.000 casi

5

4

3

2

1

0

1992

1994

1990

1998

2000

2002

2004

1996

1988

1986

1982

1984

1980

40 e oltre Tutte le età

Fig. 3.5. Percentuale di Ivg effettuate oltre i 90 giorni da tutte le donne e da donne di 40 anni e oltre, 1980-2005.

Fonte: Istat, Indagine sulle interruzioni volontarie della gravidanza.

68

del 1980 ai 129.000 del 2005), un progressivo mutamento delle sue tendenze differenziali, probabilmente connesso, soprattutto per le donne meno giovani, a una progressiva diffusione di comportamenti più maturi, informati ed effi-caci in materia di pianificazione e gestione delle scelte in-dividuali di procreazione.

1.4. Le modalità di parto

Alla fine degli anni ’60 nel nostro paese solo 5 madri su 100 sperimentavano un parto cesareo. Questa propor-zione è passata a 11 nel 1980, a 21 nel 1990 e a ben 38 nel 2005 [Istat 2006a]. Se si considera che la quota massima raccomandata dalla Who non dovrebbe superare il 15% e che l’Italia da anni raggiunge la più alta proporzione di cesarei tra tutti i paesi dell’Unione europea (valore medio pari al 19,4% nel 2005 [Who 2007b]), ben si compren-dono i motivi per i quali questo indicatore viene conside-rato da vari punti di vista come sintomo di una progres-siva ed eccessiva medicalizzazione delle nascite [di Priamo 2007]. L’incremento della diffusione dei tagli cesarei non si è manifestato, però, con uguale intensità in tutta la peni-sola, nella quale si sono rese sempre più evidenti le diffe-renze tra le ripartizioni (fig. 3.6). Al 2005, infatti, l’insieme delle regioni settentrionali ha fatto registrare quote di ce-sarei inferiori al 30% (addirittura al 24% in friuli-Venezia giulia), mentre il Sud raggiunge valori superiori al 52%, con un picco pari al 60% in Campania.

La crescente diffusione del ricorso alla chirurgia non dovrebbe essere considerata con favore, visto che la lette-ratura vi associa maggiori rischi per la salute della puer-pera e più elevati livelli di mortalità materna e perinatale. Nonostante ciò, sembra che il cesareo sia il tipo di parto più praticato soprattutto nelle strutture private, in cui rag-giunge il 57% dei casi, a fronte del 33% di quelle pubbli-che e del 47% delle private convenzionate [Istat 2006a]. Questa discrepanza può essere connessa a fattori di natura innanzitutto economica, visto che i rimborsi erogati dal Ministero competente sono generalmente più elevati in caso di parto cesareo.

69

Sebbene non si debba dimenticare che tale parto di-venta per i sanitari una «scelta obbligata» nei casi in cui la gestante manifesti alcune patologie (gestosi, iperten-sione, diabete, ecc.), la bassa prevalenza di queste ultime giustifica solo in parte le cifre sin qui riportate. Inoltre, il ricorso alla chirurgia è maggiore quando il feto non si pre-senta di vertice, anche se circa il 33,5% dei parti in cui il feto è in tale posizione avviene comunque con il taglio cesareo [Ministero della Salute 2008a].

Le determinanti dell’opzione tra parto naturale e ce-sareo possono essere, però, di differente natura e possono variare in dipendenza sia del contesto territoriale, sia delle caratteristiche della gravidanza, e dei genitori.

Con riferimento a tali aspetti, i dati di fonte Istat fin qui riportati, risultano, a partire dal 1999, inadeguati5. Al data-set relativo ai nati del 1996 (circa 530.000 casi), che riporta notizie su tutte le nascite dell’anno, si è pertanto affiancato quello dell’Indagine campionaria sulle nascite del 2005 (circa 50.000 casi) che raccoglie i dati sugli iscritti in anagrafe nel 2003. Nostre elaborazioni con tecniche statistiche multivariate (qui non riportate in dettaglio per ragioni di spazio), miranti a cogliere con maggiore preci-

55

50

45

40

35

30

25

20

152003 20052001199919971993 19951991

Isole Italia

Nord-Ovest Nord-Est Centro Sud

Fig. 3.6. Percentuale di parti cesarei sul totale dei parti per ripartizioni, 1991-2005.

Fonte: Nostre elaborazioni su dati Istat, Health for All.

70

sione i fattori che comportano più alti rischi di ricorso ad un parto cesareo, confermano innanzitutto che tale rischio è aumentato tra i due anni osservati per quasi tutte le de-terminanti considerate. Inoltre, come già emerso dalle pre-cedenti considerazioni, a parità delle altre condizioni, tale probabilità è più che doppia per una donna che risiede nel Sud d’Italia, rispetto a quella di una «collega» che risiede nel Nord-Ovest.

Com’era ragionevole attendersi, per le nascite molto premature e soprattutto per quelle gemellari, il rischio di parto chirurgico è più elevato rispetto alle nascite a ter-mine e singole e, inoltre, raddoppia tra il 1996 e il 2003 (da 2 a 4 volte per i nati a meno di 32 settimane di ge-stazione rispetto a quelli a termine e da 4 a 8 volte per i parti plurimi rispetto a quelli singoli). Ciò confermerebbe l’ipotesi che, per le condizioni di nascita più problema-tiche, il ricorso al taglio cesareo rappresenti ormai una routine (nel 2003 si verifica in quasi tre parti pretermine su quattro e nell’85% delle gravidanze gemellari). A tal proposito, infatti, sembra che molti medici ritengano che questo tipo di parto li protegga meglio, nei casi in cui si verificassero problemi, da eventuali conseguenze giudi-ziarie dovute al loro comportamento professionale [di Priamo 2007]. Sempre in riferimento alle caratteristiche della gravidanza, si nota che l’eventualità di ricorrere alla chirurgia si verifica più frequentemente per i primoge-niti e i secondogeniti, rispetto ai nati di terzo ordine e di ordini successivi. L’effetto di tale variabile non subisce, però, variazioni di rilievo nel tempo. La maggiore pro-babilità di una primipara di incorrere in un parto chirur-gico può risentire, in realtà, di un effetto di selezione, in quanto le donne che danno alla luce un maggior numero di figli sono più spesso quelle che in precedenza hanno partorito naturalmente. In altri termini, subire uno o più tagli cesarei consecutivi può scoraggiare le madri dal ge-nerare un ulteriore bambino.

Quanto alle connotazioni dei genitori, l’avanzare del-l’età della madre esercita un’influenza crescente sulla va-riabile dipendente (al contrario dell’età del padre, il cui effetto non è risultato significativo), ma la sua importanza tende a diminuire nel tempo, con l’eccezione di quanto

71

avviene per le ultraquarantenni. tale risultato potrebbe es-sere connesso alla progressiva posticipazione della mater-nità e al sempre maggior numero di donne che hanno figli anche oltre i 40 anni.

Infine, appare interessante constatare che, ad entrambe le date considerate, le coppie di genitori caratterizzate da un più basso livello di istruzione, a parità delle altre con-dizioni, riescono a «proteggersi» dall’uso improprio del cesareo in misura minore rispetto ai genitori più istruiti. Questa constatazione, insieme a quella, già espressa, se-condo cui le donne che hanno maggiori risorse socioeco-nomiche evitano più frequentemente di incorrere in un’ec-cessiva sorveglianza e medicalizzazione della gravidanza, induce a ipotizzare che una maggiore capacità di controllo e di scelta possa portare a vivere con maggiore serenità e autonomia la gravidanza.

2. La mortalità feto-infantile

2.1. L’evoluzione recente e le principali cause

La mortalità materna, la mortalità neonatale6, perina-tale e la natimortalità rappresentano indicatori importanti per valutare lo stato dell’assistenza sociosanitaria nel set-tore materno infantile e, più in generale, il grado di civiltà raggiunto da una nazione; il controllo dei fattori di rischio della salute materno-infantile rappresenta, quindi, un’as-soluta priorità. Proprio prendendo spunto da ciò, questa parte del lavoro è incentrata sullo studio dell’evoluzione recente della mortalità intorno alla nascita e delle sue in-terrelazioni con la salute riproduttiva, approfondendo il ruolo dell’età al decesso, l’analisi delle differenze di genere ed evidenziando le più significative diversità territoriali.

Nel 2005 il numero di decessi nel primo anno di vita ogni 1.000 nati vivi è pari, in Italia, a 3,84, valore ben al di sotto della media europea (Eur-A = 4,25‰), ma ancora elevato rispetto ad altre nazioni occidentali nelle quali si colloca tra il 3,5‰ e il 3‰ (Spagna, Repubblica Ceca, Portogallo e Norvegia) o addirittura al di sotto (finlandia e Svezia).

72

Soffermandosi sul trend relativo all’ultimo quindicen-nio (figg. 3.8 e 3.9) si nota, tuttavia, una consistente e con-tinua riduzione dell’intensità della mortalità sia infantile sia perinatale, entrambe a tutt’oggi con valori dimezzati rispetto a quelli osservati agli inizi degli anni ’90. Ciò è ri-

9876543210

2003 200520042001 20021999 20001997 19981993 1994 1995 19961991 1992

< 1 giorno < 1 settimana < 1 mese < 1 anno

Fig. 3.8. Evoluzione della mortalità infantile per età alla morte (valori per 1.000 nati vivi), 1991-2005.

Fonte: Nostre elaborazioni su dati Istat, Health for All.

12

10

8

6

4

2

02003 200520042001 20021999 20001997 19981993 1994 1995 19961991 1992

Mortalità perinatale Nati mortalità

Fig. 3.9. Evoluzione della mortalità perinatale e della natimortalità (valori per 1.000 nati), 1991-2005.

Fonte: Nostre elaborazioni su dati Istat, Health for All.

73

conducibile in buona parte al miglioramento globale delle condizioni in cui avvengono la gravidanza e la nascita. grazie allo sviluppo avuto in questi ultimi anni dalla dia-gnostica prenatale e dalla medicina perinatale, che mirano a ridurre i fattori di rischio della gravidanza e della nata-lità, vengono, infatti, garantite buone condizioni di soprav-vivenza ad un numero di nati sempre più elevato.

Il calo interessa in misura più che proporzionale il pe-riodo immediatamente successivo alla nascita, tant’è che cambia nel tempo la distribuzione per età degli esiti sfa-vorevoli. Aumenta, infatti, il peso dei nati morti rispetto al tutto il periodo perinatale, la quota di morti che, nel primo mese, si realizza oltre la prima settimana, e la pro-porzione di quelli che, nel corso del primo anno, si colloca dopo il primo mese.

I notevoli passi avanti nella pratica delle cure ostetri-che e neonatali e nella sorveglianza attenta delle gravidanze molto problematiche, oltre che, ovviamente, favorire una consistente riduzione del rischio di esito sfavorevole della gravidanza, potrebbero aver innescato un processo di slit-tamento in avanti dell’evento morte per i nati ad altissimo rischio, cioè di quelli con scarsissime possibilità di soprav-vivenza dopo il distacco dal grembo materno (cfr box 3.2). In altre parole, secondo gli esperti, i progressi recenti nelle cure neonatali avrebbero determinato un aumento molto consistente delle probabilità di sopravvivenza di neonati molto deboli e/o molto prematuri e nel contempo avreb-bero modificato il concetto di limite della sopravvivenza, ma, in alcune situazioni, il decesso verrebbe solo ritardato di qualche ora o giorno [Orzalesi e Cuttini 2005].

Come accade ormai da tempo (fig. 3.10) la stragrande maggioranza dei decessi nel primo anno di vita è attribui-bile ad alcune condizioni morbose che hanno origine nel periodo perinatale e alle malformazioni congenite, tra le quali prevalgono quelle a carico del sistema circolatorio. Queste cause di morte, responsabili, secondo gli ultimi dati del 2003, rispettivamente del 55,53% e del 28,73% dei morti tra la nascita e il primo compleanno, interven-gono soprattutto nella fase neonatale e, come in altre realtà geografiche, risultano fortemente associate alla nascita pre-matura e/o immatura [Who 2006]. Nel corso del tempo,

74

però, l’incidenza delle condizioni morbose che si manife-stano anche nei primissimi giorni di vita si è ridotta più di quella delle malformazioni congenite, contribuendo in misura più consistente alla riduzione della mortalità infan-tile in complesso. Ciò confermerebbe l’opinione di alcuni esperti [Scioscia et al. 2006] secondo i quali il contributo alla riduzione della mortalità tra la nascita e il primo com-pleanno dato dalle cure ostetriche e neonatali sia stato e sia ancora più importante del contributo offerto dalla me-dicina perinatale e dalle tecniche di diagnosi prenatale.

Una delle più frequenti cause di decesso nel periodo post-neonatale è, invece, secondo recenti stime dell’Istituto superiore di sanità, la Sids (Sudden Infant Death Syndrom: sindrome della morte improvvisa del lattante), responsa-bile del 6% circa dei decessi dopo il primo mese di vita. Per spiegare l’insorgenza delle morti inattese è stata pro-posta una genesi multifattoriale: le cause ipotizzate sono numerose, ma anomalie cardiologiche e respiratorie sem-brano giocare un ruolo importante.

Altri studi indicano anche l’esistenza di correlazioni significative tra le diseguaglianze socioeconomiche e la mortalità neonatale e postnatale [Ronfani et al. 2005], di-

9876543210

20032001 20021999 20001997 19981993 1994 1995 19961991 1992

Malformazioni congenite Alcune condizioni morbose di origine perinatale

Altre cause

Fig. 3.10. Evoluzione della mortalità infantile per causa di decesso (valori per 1.000 nati vivi), 1991-2005.

Fonte: Nostre elaborazioni su dati Oms, Health for All.

75

suguaglianze che andrebbero accentuandosi a seguito del-l’aumento della proporzione di nati da donne straniere che attualmente si attesta intorno al 14% (cfr. box 3.2).

L’analisi di breve periodo mostra, inoltre, che a una ri-duzione complessiva della mortalità nel primo anno di vita e della natimortalità corrisponde in linea di massima una diminuzione della supermortalità maschile, sempre signifi-cativamente più bassa nel periodo perinatale (fig. 3.11). Al-cune delle ragioni della diminuzione delle differenze di ge-nere andrebbero ricercate nell’utilizzo sempre più esteso di tecniche sofisticate di diagnosi prenatale, che consentono di individuare con quasi totale certezza malformazioni del feto, più spesso a carico del sesso maschile e interrompere, eventualmente, la gravidanza. Le diagnosi infauste, allora, avrebbero l’effetto di ridurre più che proporzionalmente proprio la prevalenza di nascite maschili con gravi malfor-mazioni congenite (cfr. punto 1.c..). I dati sulle cause di morte dimostrano, infatti, che è molto diminuita nel tempo la supermortalità maschile legata a tale causa di morte: agli inizi degli anni ’90 a ogni decesso femminile nel primo anno di vita facevano riscontro circa due casi tra i maschi, mentre attualmente il divario è nell’ordine del 20%.

160

150

140

130

120

110

100

90

802003 200520042001 20021999 20001997 19981993 1994 1995 19961991 1992

Nati morti Perinatale

< 1 giorno < 1 settimana < 1 mese < 1 anno

Fig. 3.11. Evoluzione delle differenze di genere per età alla morte nella mortali-tà feto-infantile (valori per 100), 1991-2005.

Fonte: Nostre elaborazioni su dati Istat, Health for All.

76

2.2. Le differenze territoriali

Entrando nel merito dello studio dei dati territoriali emergono evidenti disparità geografiche nella mortalità in età feto-infantile. Come già sottolineato in studi precedenti [fantini et al. 2006; Lauria, de Stavola 2003] risalta an-cora una volta il ritardo del Sud nel processo di riduzione dell’incidenza del fenomeno, ritardo tanto più marcato quanto più i decessi avvengono nel periodo immediata-mente successivo alla nascita (fig. 3.12). L’analisi di breve periodo mostra, inoltre, che la situazione rimane presso-ché invariata nel tempo ed attualmente le regioni meridio-nali continuano a far registrare, nel primo mese di vita, un eccesso di mortalità pari ancora al 20% rispetto all’Italia in complesso e del 40-50% rispetto alle regioni settentrio-nali. In altre parole permangono alcune sacche geografiche a mortalità elevata, tutte concentrate nel Sud, sempre più caratterizzate da arretratezza socio-sanitaria rispetto al re-sto del Paese. Le ragioni di tale divario (differenze nella mortalità neonatale), diversamente da quanto evidenziato in passato, andrebbero ricercate nelle profonde disugua-glianze di un sistema di cure materno-infantili che ancora

6

5

4

3

2

1

02001-20051991-19952001-20052001-2005 1991-19951991-1995

NEONATALE PRECOCE NEONATALE TARDIVA POST-NEONATALE

Nord-Ovest Nord-Est Centro Sud Isole Italia

Fig. 3.12. Evoluzione della mortalità infantile per età alla morte per ripartizioni (valori per 1.000 nati vivi), 1991-2005.

Fonte: Nostre elaborazioni su dati Istat, Health for All.

77

privilegia le regioni settentrionali del paese. Infatti il pro-cesso di «regionalizzazione» delle cure neonatali, cioè la costituzione di punti nascita dotati delle risorse minime indispensabili per far fronte all’evento nascita, sia durante il travaglio-parto sia subito dopo, non si è verificato allo stesso modo in tutt’Italia: nelle regioni meridionali scarseg-giano, per esempio, i centri di terapia intensiva neonatale di terzo livello, cioè quelli dedicati alle gravidanze forte-mente a rischio, con patologia fetale grave.

Le motivazioni di tali disuguaglianze «storiche e strut-turali» [fantini et al. 2007, 431] sono complesse e coin-volgono fattori culturali, sociali ed economici. È questa la sfida per il futuro, visto che le forti discrepanze territoriali farebbero pensare a notevoli margini di miglioramento, ma tale sfida necessita di una visione unificata dei motivi che condizionano la sopravvivenza e la salute nella prima in-fanzia. Un recente studio [Ronfani et al. 2005] individua, infatti, tra le aree prioritarie di intervento, proprio le cure perinatali nelle regioni del Sud, perché, se il livello di mor-talità infantile in Italia risulta molto vicino alla media Ue, tra le varie regioni persistono differenze notevoli nella sua componente principale, la mortalità neonatale.

diverso è il discorso per la natimortalità, per la quale, invece, nell’ultimo quinquennio le regioni settentrionali os-servano un’intensità del fenomeno appena più marcata ri-spetto al resto del paese (fig. 3.13). Ancora una volta non emerge alcuna correlazione tra natimortalità e mortalità neonatale precoce, invece più elevata al Sud, e ciò confer-merebbe che queste due misure riflettano aspetti socio-as-sistenziali in buona parte diversi. di conseguenza, la mor-talità perinatale, che è la risultante delle due, da sola non può fornire indicazioni sulla progettazione di provvedi-menti di politica sanitaria specificamente mirati al miglio-ramento delle cure da prestare alla donna in gravidanza e al bambino subito dopo la nascita.

2.3. Un tentativo di sintesi

data la diversa natura degli aspetti relativi alla sa-lute riproduttiva trattati in questo capitolo, che, come si

78

è visto, presentano tutti differenze a livello territoriale, si rende necessario un tentativo di sintesi dei risultati per consentire una visione complessiva del fenomeno. Uno degli aspetti più interessanti, ma anche attesi, è che l’area geografica caratterizzata da elevata mortalità neonatale è anche quella con la più alta proporzione di parti terminati con taglio cesareo, più frequenti nelle strutture private. Condizioni queste che si presentano più spesso in buona parte delle regioni meridionali ed in particolare in Cam-pania. Ciò a ulteriore supporto dell’ipotesi – fortemente sostenuta dai pediatri e meno spesso dai ginecologi – che il parto chirurgico, nel caso di gravidanza «normale», non sia necessariamente associato a minori rischi per la madre e il nascituro. Ma non solo: ricorrere al taglio cesareo, in particolare quando viene programmato in anticipo, po-trebbe essere in relazione con i tempi della nascita indu-cendo una significativa riduzione della durata «fisiologica» della gestazione anche in caso di gravidanza non a rischio, onde evitare che inizi il travaglio e si debba ricorrere ad un intervento d’urgenza.

Sorvegliare più del dovuto la gestazione, eccedendo nel numero di visite e di ecografie ostetriche e ricorrendo a diagnosi prenatale invasiva quando non strettamente ne-

12

10

8

6

4

2

02001-20052001-2005 1991-19951991-1995

NATI MORTALITÀ MORTALITÀ PERINATALE

Nord-Ovest Nord-Est Centro Sud Isole ItaliaFig. 3.13. Evoluzione della natimortalità e della mortalità perinatale per riparti-

zioni (valori per 1.000 nati), 1991-2005.

Fonte: Nostre elaborazioni su dati Istat, Health for All.

79

cessario, non appare, invece, essere in stretta relazione con le modalità di parto. Sembrerebbe, infatti, che alla medi-calizzazione «spinta» della gravidanza non corrisponda sempre una medicalizzazione della nascita, con differenze territoriali non omogenee tra i diversi tipi di cura. Sono le donne residenti nelle regioni del Centro, e in particolare in Lazio, toscana e Umbria, ad eccedere nell’uso delle dia-gnosi prenatali, mentre è nelle regioni meridionali che si fanno più ecografie ostetriche, ad ulteriore conferma della presenza di «una ginecologia basata sulle opinioni perso-nali o gli interessi economici piuttosto che sull’adesione ai protocolli ufficiali» [Pinnelli e fiori 2007, 500] e di un condizionamento dell’ambiente che sembrerebbe molto più forte delle scelte individuali.

box 3.1

le nascite premature e/o immature: evidenze scientiFiche e problemi etici.

Nella valutazione del neonato, l’età gestazionale è conside-rata il parametro più indicativo di maturazione, cioè di poten-ziale vitalità, ma nel corso degli ultimi decenni il concetto di «nato morto», conseguentemente all’aumento della sopravvi-venza dei nati molto pretermine, è andato continuamente ridefi-nendosi. Attualmente meno del 10% delle nascite avviene prime di 37 settimane di gestazione e poco più dell’1% prima di 32. È ben noto che ad una durata di gestazione progressivamente più bassa corrisponde un peso alla nascita sempre minore (immatu-rità) e un rischio di morte e disabilità più elevato: circa la metà dei decessi nel primo anno di vita e una buona parte di tutti gli handicap è relativo proprio ai nati molto prematuri, cioè di peso inferiore a 1500 grammi [Orzalesi e Cuttini 2005]. Il crescente buon esito dei neonati molto immaturi o con gravi malforma-zioni indica, d’altro canto, il verificarsi di progressi notevoli nella quantità e nella qualità delle cure prestate dai reparti di te-rapia intensiva neonatale (tin), progressi che, però, non hanno interessato in egual misura tutte le aree del paese. Secondo i dati relativi ai Cedap del 2005, i centri tin più qualificati e attrez-zati continuano ad essere più concentrati nel Nord, sempre in punti nascita di grandi dimensioni – con oltre 1.000 parti annui –, per la quasi totalità dislocati in strutture pubbliche nelle quali

80

si concludono la maggior parte delle gravidanze [Ministero della Salute, 2008b]. Ciò in buona parte spiega i differenziali di mor-talità che penalizzano ancora il Sud del paese dove, invece, sono più diffusi punti nascita medio-piccoli, meno spesso dotati di re-parti di tin qualificati e attrezzati, e dove quasi un terzo delle gravidanze si conclude in strutture che realizzano meno di 500 parti all’anno.

I progressi della medicina e il perfezionamento della tec-nologia sollevano però problemi di ordine etico e deontologico perché consentono oggi di far sopravvivere neonati estrema-mente compromessi con pochissime garanzie sulla futura qualità della vita. Si tratta sempre più spesso di neonati di peso bassis-simo (inferiore ai 750 grammi) che nascono a 22-25 settimane di gestazione. La proporzione di questi esiti della gravidanza è, infatti, raddoppiata negli ultimi venti anni, si attesta intorno a 2 casi ogni 1.000 nati vivi, e l’età gestazionale alla quale pos-sono sopravvivere si sta progressivamente abbassando. Inevita-bilmente ciò ha sollecitato una maggiore attenzione degli esperti ai problemi assistenziali di questi neonati, dando luogo, in molti paesi, alla messa a punto di indagini epidemiologiche sugli «esiti» a distanza – nell’età infantile, nell’età scolastica e perfino nell’adolescenza – dei danni conseguenti alle cause che hanno portato alla nascita così anticipata dell’individuo.

Ci si interroga allora già da tempo se si deve fare sempre tutto ciò che è tecnicamente possibile e quando la medicina in-tensiva deve lasciare il posto a quella palliativa, e se l’obiettivo terapeutico non deve più essere solo quello di salvaguardare ad ogni costo la vita, quanto quello di garantire il benessere, nel-l’immediato e per il futuro, o per lo meno di controllare la soffe-renza. tra i neonatologi, infatti, sorgono «perplessità e dilemmi etici, legali e sociali circa un adeguato utilizzo delle risorse tec-nologiche in particolari situazioni di gravità clinica del neonato, quando cioè la sua morte può essere solo differita a prezzo di grandi sofferenze o quando si teme che la sua sopravvivenza sia associata a eventuali gravi disabilità» [Biasini 2007]. Ancora più difficili sono le decisioni che riguardano i neonati che soffrono di gravi disordini o deformità, quando queste sono associate al dolore che non può essere alleviato e per i quali non esiste al-cuna speranza di miglioramento. La maggior parte dei neonato-logi oltrefrontiera considera appropriata ed eticamente giustifi-cata, in circostanze particolari, la limitazione dei trattamenti in-tensivi e, d’altra parte, già da tempo in alcune nazioni ha preso piede la politica di «non rianimare» i neonati fortemente a ri-schio grazie a legislazioni ad hoc (si pensi al protocollo di groe-

81

ningen del 2005 in Olanda) o, addirittura, di praticare interventi attivi di sedazione pesante in modo che non ci sia sofferenza [Verhagen e Sauer 2005]. Rimane il fatto che l’atto intenzionale di dare la morte al neonato (eutanasia pediatrica), incapace di esprimere un consenso informato, con l’obiettivo manifesto di risparmiargli sofferenze fisiche inutili, è vietato ovunque nel di-ritto europeo.

In Italia la questione, analizzata da un gruppo di lavoro istituito dal Ministro della Salute e meglio articolata nella co-siddetta Carta di firenze, è stata portata all’attenzione del Co-mitato nazionale per la bioetica che ha recentemente espresso il proprio parere [Comitato nazionale per la bioetica, 2008]. Il dibattito medico ed etico investe la decisione di sospendere trat-tamenti salvavita e di rianimazione a carico di nati in età gesta-zionale estremamente bassa o comunque portatori di patologie altamente invalidanti, sulla base sostanzialmente del giudizio in merito alla loro futura e precaria «qualità della vita».

box 3.2

l’abortività volontaria tra le donne straniere

Nel decennio 1996-2005 si è registrato in Italia un lieve in-cremento del numero di nati: ciò è da un lato imputabile all’au-mento del numero di nati da genitori stranieri. In particolare nel 2005 questi ultimi rappresentano il 13,5% dei nati in Italia. dal 1996 al 2005 il numero di nati con almeno un genitore straniero ha seguito un trend di crescita piuttosto sostenuto e costante nel tempo: il loro numero in pochi anni è praticamente triplicato passando da quasi 24.000 unità ad oltre 70.000. tra questi dimi-nuisce la quota dei nati con solo un genitore straniero, mentre aumenta quella dei nati con entrambi i genitori stranieri, passata dal 57,1 al 70,7%.

tra le principali cittadinanze presenti in Italia, le coppie omogame (ovvero in cui entrambi i componenti hanno la stessa cittadinanza) sono più numerose nella comunità cinese (pari al 96,5% di tutte le coppie con almeno un genitore cinese) e meno in quella rumena (68,1%). Le coppie miste presentano, nel 29% dei casi, la madre rumena e il padre italiano.

Il trend crescente registrato per le nascite da straniere ca-ratterizza anche la loro abortività indotta. L’informazione sulla cittadinanza è presente nelle rilevazioni Istat a partire dal 1995 e quindi si può valutare se i cambiamenti nel ricorso all’Ivg ri-

82

scontrati nelle pagine precedenti (cfr. par. 1.c) possano essere determinati anche da un differenziato atteggiamento delle citta-dine straniere rispetto alle cittadine italiane. Sia in termini asso-luti, che percentuali, si osserva chiaramente come il numero di Ivg effettuate da donne straniere sia aumentato continuamente: da un 6,6% riferito al 1995 si è giunti ad un 29,4% del 2005. Questa proporzione è molto elevata se rapportata alla corrispon-dente quota di popolazione femminile residente immigrata (fig. 3.14), il cui aumento quindi spiega solo in parte la crescita del numero di Ivg da straniere.

Il calcolo dei tassi di abortività permette il confronto della reale propensione all’aborto delle donne, con riferimento alle loro caratteristiche (età, stato civile e cittadinanza).

dal 1996 al 2005 i livelli di abortività delle italiane (consi-derando il tasso standardizzato per età che permette confronti più attendibili tra i due collettivi) presentano valori sempre più bassi: si passa da 8,8 casi ogni 1.000 donne di età 18-49 a 7,3 nel 2005. Invece il ricorso all’Ivg da parte delle straniere si man-tiene su valori superiori al 25‰ (tab. 3.3). Quindi, i due col-lettivi si differenziano per livelli di abortività circa da tre (nel 1996) a quattro (nel 2005) volte più alti tra le straniere rispetto alle italiane, con un andamento differenziato (in crescita tra le straniere, in declino tra le italiane).

Anche specificando per età e stato civile, i rapporti sono sempre superiori per le donne straniere. Le donne straniere gio-

Fig. 3.14. Percentuale di Ivg effettuate da donne con cittadinanza straniera e percentuale di donne con cittadinanza straniera, 1995-2005.

Fonti: Istat, Indagine sulle interruzioni volontarie della gravidanza. Istat, Ri-levazione sugli stranieri iscritti in anagrafe.

30

25

20

15

10

5

02001 20022000 2004 20052003199919981996 19971995

Ivg Straniere

83

vani e nubili presentano un ricorso all’Ivg più elevato, seppure in diminuzione, tra il 1996 e il 2005. Si osserva una riduzione dei rapporti per le classi di età 18-24 e 45-49, una sostanziale stabilità per la classe 40-44 e un incremento per le restanti (con l’eccezione della 25-29 che si differenzia per stato civile: i tassi aumentano per le nubili e diminuiscono per le coniugate).

La quota di donne straniere che hanno effettuato più di una Ivg è pari al 37% contro un 22% delle italiane, segnale che il più elevato ricorso delle prime può essere dovuto in parte anche all’abortività ripetuta.

Come è noto, le donne straniere presentano maggiori diffi-coltà di accesso ai servizi sanitari e questo include anche l’iter per effettuare l’Ivg. Queste ultime ricorrono maggiormente al consultorio per ottenere la certificazione e le loro difficoltà si traducono in tempi di attesa più lunghi che inevitabilmente vanno ad impattare sulla durata della gestazione. Nelle attività di prevenzione per ridurre ulteriormente il ricorso all’Ivg non si può quindi prescindere dal fatto che le donne giovani e spesso straniere rappresentano il gruppo di popolazione più a rischio e verso il quale dovrebbero essere effettuate campagne di sensibi-lizzazione mirate.

tab. 3.3. Tassi di abortività volontaria (per 1.000 donne) per cittadinanzaa e clas-se di età, 1995 e 2005

Classidi età

1996 2005

Italiane Straniere totale Stran./Ital.

Italiane Straniere totale Stran./Ital.

18-24 10,9 51,6 11,7 4,7 11,1 45,5 14,2 4,125-29 11,6 38,1 12,4 3,3 10,3 39,0 14,1 3,830-34 11,9 27,5 12,3 2,3 9,0 32,5 11,6 3,635-39 10,7 19,5 10,9 1,8 7,8 24,2 9,3 3,140-44 5,3 9,0 5,4 1,7 3,9 9,3 4,2 2,445-49 0,5 1,0 0,5 2,0 0,4 0,9 0,4 2,5

18-49b 8,9 30,3 9,3 3,4 7,0 28,3 9,0 4,018-49c 8,8 25,4 9,2 2,9 7,3 26,3 9,3 3,6

Note: a I tassi sono stati calcolati utilizzando al denominatore una stima della popolazione straniera residente per età ottenuta dai dati sui permessi di soggiorno. b tasso grezzo. c tasso standardizzato con il metodo diretto utilizzan-do come popolazione tipo quella residente media in Italia al 2001.

Fonti: Istat, Indagine sulle interruzioni volontarie della gravidanza; Istat, Ri-levazione sugli stranieri iscritti in anagrafe.

84

note al capitolo terzo

1 Relativamente al ricorso a metodi di pianificazione familiare, le informazioni disponibili per l’Italia rappresentative a livello nazionale non sono recenti (risalendo al 1995-96), ma permettono il confronto con altri paesi. Esse evidenziano che la nostra penisola si caratterizza per una prevalenza contraccettiva (pari al 60,2% delle donne coniugate o in unione stabile) più bassa rispetto sia alla media europea (67,0%), sia ai soli paesi dell’Europa meridionale (64,0%). Il divario si accentua se si considera il tipo di tecniche utilizzate, che corrispondono a metodi moderni solo nel 39,2% dei casi, a fronte di valori equivalenti all’intero continente e alla sola Europa del sud che raggiungono rispettivamente il 52,0 e il 47,0% [Population Reference Bureau 2008].

2 Relativamente alla prima, nel 2005 si rilevano 3 decessi per 100.000 nati vivi, a fronte di valori pari a 9 per l’insieme dei paesi in via di sviluppo e a 400 per l’intero pianeta (Who 2007a); per la seconda si vedano le pagine seguenti.

3 Un’ulteriore fonte per l’analisi dei livelli di sorveglianza della gra-vidanza è rappresentata dalle informazioni pubblicate dal ministero della Salute e rilevate attraverso i Cedap (certificati di assistenza al parto). In questa occasione si è preferito fare ricorso ai dati editi dall’Istat poiché questi, oltre ad essere disponibili anche a livello individuale, si riferisco-no all’insieme delle gravidanze e non solo a quelle che hanno dato luogo a un parto, che ovviamente, sono selezionate dall’abortività spontanea e volontaria.

4 La presenza di fattori di rischio sembra produrre un innalzamen-to del livello di sorveglianza della gravidanza con riferimento a tutti i tipi di cure considerati, tranne che per i metodi di diagnosi prenatale invasiva, i quali, in alcuni casi potrebbero rivelarsi dannosi per la pro-secuzione della gestazione e vengono pertanto sconsigliati dai medici [Pinnelli e fiori 2007].

5 Ciò avviene poiché, a seguito dell’entrata in vigore della legge «Bassanini-bis» del 1997, che ha vietato alle direzioni Sanitarie dei centri-nascita di inviare copia dei Cedap agli Ufficiali di Stato Civile, la rilevazione individuale delle nascite proveniente da tale fonte è stata sospesa. Essa è stata sostituita da indagini campionarie a cadenza pe-riodica, mentre i pochi dati che l’Istat continua a pubblicare sui parti provengono dal ministero della Salute, dove convergono i Cedap. Re-centemente, peraltro, il ministero della Salute ha recentemente avviato una propria pubblicazione basata sui dati provenienti dai Cedap, che nel 2007 è giunta alla terza edizione e riguarda i nati nel 2004 [Ministe-ro della Salute, 2007]. In questa occasione, però, si è preferito utilizzare i dati pubblicati dall’Istat, oltre che per motivi di omogeneità con il re-sto del capitolo, anche per disporre informazioni comparabili su in più ampio periodo di tempo.

6 Si definisce mortalità infantile il rapporto tra il numero di decessi nel primo anno di vita e i nati vivi dello stesso anno; si definisce mor-talità neonatale il rapporto tra il numero di decessi nelle prime quattro

85

settimane e il numero di nati vivi dello stesso anno, la stessa si distingue in precoce (relativa alla prima settimana di vita) e tardiva (relativa alle successive tre settimane); si definisce mortalità post-neonatale il rappor-to tra i decessi che nel primo anno di vita avvengono in età successiva al primo mese e i nati vivi dello stesso anno; si definisce natimortalità il rapporto tra i nati morti e il totale dei nati dello stesso anno; si defi-nisce mortalità perinatale il rapporto tra nati morti e morti nella prima settimana e il totale dei nati dello stesso anno.

87

capitolo quarto

LA SALUtE dEI gIOVANIE I COMPORtAMENtI A RISCHIO

1. I giovani e la salute

1.1. Una tessera nel mosaico della questione giovanile

Recentemente, quando si parla o si scrive sui giovani, si affrontano spesso temi legati all’istruzione, al lavoro, al-l’autonomia, alla demografia o, in una visione più ampia e sintetica, alla loro «condizione materiale» necessaria, seb-bene non sufficiente, a descrivere e comprendere la loro «condizione esistenziale». La popolazione giovanile sem-bra essere protagonista acclamata di una crisi generale, specificatamente italiana, dai tratti ben evidenti nel ritardo con cui completano gli studi, entrano nel mondo del la-voro, mettono su casa o formano la propria famiglia [Livi Bacci 2008].

di giovani si discute anche alla luce del declino demo-grafico inteso come riduzione della consistenza numerica delle nuove generazioni. Questo processo di degiovani-mento demografico, affiancato alla questione pensionistica, potrebbe infatti avere svariate ricadute sociali, impedendo al nostro paese di imboccare con dinamicità la via dello sviluppo e della crescita [Rosina 2008].

La dinamica di atteggiamenti, comportamenti e opi-nioni dei giovani può inoltre rilevare importanti trasforma-zioni culturali di una società. da qui, la crescente impor-tanza attribuita alla riflessione sulla condizione e le politi-che giovanili [Buzzi et al. 2007].

In questo mosaico anche il tema della salute, e nei casi più gravi, della sopravvivenza dei giovani, può sollecitare riflessioni e richiedere risposte urgenti alla collettività in-tera. Non ci sono dubbi sul fatto che, sulla scia del gene-rale processo di riduzione della mortalità e del carico di

88

malattie e disabilità, nel tempo, la capacità dei giovani di sopravvivere e di stare in buona salute si sia consolidata. Meno evidente è, invece, il quadro delle patologie specifi-che e delle cause di morte che coinvolgono la popolazione giovanile, il cui benessere psicofisico sta alla base di qual-sivoglia sviluppo virtuoso della «condizione materiale».

Più noto sul piano della divulgazione scientifica, ma raramente oggetto di riflessione e confronto tra i soggetti direttamente interessati (giovani, famiglie, scuole, educa-tori, istituzioni), è il tema dei comportamenti trasgressivi adottati dai giovani, spesso inconsapevoli dei danni che i loro modi di agire possono arrecare allo stato di salute at-tuale e/o futuro.

L’obiettivo di questo capitolo è perciò quello di arric-chire il quadro descrittivo della condizione giovanile, con riferimento allo stato di salute percepito, alla mortalità per genere e gruppi di cause – elemento irrinunciabile per la valutazione delle condizioni di salute – e ad alcuni di quei comportamenti che mettono a rischio la sopravvivenza stessa o l’insorgenza di gravi disabilità o patologie. Le ana-lisi condotte su questi temi si basano prevalentemente sui dati di indagini realizzate su campioni di popolazione di grandi dimensioni: l’indagine Istat sulle Condizioni di sa-lute e ricorso ai servizi sanitari; l’indagine Istat Aspetti della vita quotidiana [2007]; l’indagine 2003 dell’Istituto supe-riore di sanità del gruppo Amr (Analisi multi-rischio), su-gli studenti delle scuole superiori italiane.

Un’ultima precisazione riguarda la definizione dei gio-vani che può raggruppare al suo interno persone di età diverse a seconda del criterio adottato, indispensabile per effettuare confronti oggettivi nel tempo circa il peso rela-tivo della popolazione giovanile sul complesso della popo-lazione, ma meno necessario per il tipo di analisi qui ripor-tate. In questo contributo si è scelto di non seguire uno spe-cifico criterio classificatorio, considerando più flessibile un approccio con approfondimenti riguardanti preadolescenti, adolescenti, ragazzi o giovani, in base alla fonte analizzata, alla tenuta dei dati campionari, e alla possibilità di realizzare comparazioni temporali. L’unica limitazione che si è posta riguarda la soglia dell’età di 29 anni, oltre la quale riteniamo che sia doveroso parlare di adulti e non più di giovani.

89

1.2. Le patologie cronico-degenerative e la condizione di disabilità

La diffusione di patologie nella popolazione, siano esse in forma di episodi acuti che di tipo cronico-degenerative, è evidentemente più frequente in altre fasce di popola-zione, soprattutto anziane.

Le malattie acute, così come i traumatismi, sono eventi che turbano l’equilibrio psicofisico degli individui e pos-sono comportare limitazioni delle attività quotidiane, an-che se generalmente hanno un decorso temporaneo e più spesso non letale. Secondo le stime dell’ultima indagine Istat sulle Condizioni di salute del 2005, quelle che colpi-scono gli adolescenti e i giovani sono soprattutto le ma-lattie dell’apparato respiratorio (13,2% nelle quattro setti-mane precedenti l’intervista), i traumi (2,8%), le malattie del sistema nervoso (1,5% per i maschi, 3,7% per le fem-mine), dell’apparato dirigente e i denti (2,6%).

Le patologie croniche hanno generalmente un lungo decorso e possono avere un rilevante impatto in termini di qualità della vita, con una perdita di autonomia nelle abi-tuali attività della vita quotidiana, e costituiscono la prin-cipale causa di morte nella popolazione complessiva. Alla cura e al monitoraggio delle patologie croniche nella po-polazione giovanile sono spesso associati elevati costi sani-tari e sociali, dovuti in gran parte alle azioni di contrasto della diffusione dei fattori di rischio che inducono l’insor-genza di tali malattie in età più avanzata (tabagismo, ali-mentazione poco sana, inattività fisica e problemi di peso, abuso di alcol, ecc.)1.

Le stime relative al 2005 evidenziano che il 21,4% della popolazione di età compresa tra gli 11 e i 29 anni ha dichiarato di avere una qualche patologia cronica (tra i ragazzi sono il 20% e tra le ragazze il 23%). tra le va-rie patologie rilevate, quelle più diffuse sono le malattie allergiche: complessivamente ne soffrono oltre 1.600.000 giovani e adolescenti. La quota maggiore si rileva tra i maschi di 11-19 anni ed è pari al 144,7‰ a fronte del 110,7‰ tra le coetanee, mentre non si evidenziano dif-ferenze di genere tra i giovani di 20-29 anni (132,5‰ vs 138,9‰) (tab. 4.1).

ta

b. 4

.1.

Gra

duat

oria

del

le p

reva

lenz

e de

lle m

alat

tie

cron

iche

dic

hiar

ate

dalle

per

sone

di

11-2

9 an

ni. A

nno

2005

(qu

ozie

nti

per

1.00

0 pe

rson

e de

lla s

tess

a cl

asse

di e

tà e

gen

ere)

Cla

ssi d

i età

gene

re11

-19

anni

20-2

9 an

nito

tale

Mf

M f

Mf

M f

Mf

M f

Mal

attie

alle

rgic

hea

144,

711

0,7

128,

313

2,5

138,

913

5,7

137,

812

7,0

132,

5C

efal

ea o

em

icra

nia

rico

rren

te21

,835

,128

,228

,686

,157

,225

,664

,644

,8A

sma

bron

chia

le38

,322

,330

,629

,226

,127

,633

,124

,528

,9d

epre

ssio

ne e

ans

ietà

cro

nica

3,5

7,5

5,4

12,5

20,9

16,7

8,5

15,2

11,8

Bro

nchi

te c

roni

ca, e

nfis

ema

9,7

7,6

8,7

10,2

10,0

10,1

10,0

8,9

9,5

gra

vi m

alat

tie d

ella

pel

le5,

68,

77,

17,

411

,69,

56,

610

,48,

5M

alat

tie d

ella

tiro

ide

1,1

5,3

3,1

2,9

19,5

11,2

2,1

13,5

7,7

Altr

e m

alat

tie d

el s

iste

ma

nerv

oso

6,3

4,6

5,4

6,1

7,8

6,9

6,2

6,4

6,3

Art

rosi

, art

rite

3,0

1,7

2,4

4,9

10,7

7,8

4,1

6,9

5,5

Altr

e m

alat

tie d

el c

uore

4,4

3,4

3,9

4,6

3,9

4,2

4,5

3,7

4,1

Iper

tens

ione

art

erio

sa1,

71,

11,

45,

96,

16,

04,

04,

04,

0C

alco

losi

del

fega

to o

del

le v

ie b

iliar

i/ca

lcol

osi r

enal

e0,

51,

20,

83,

67,

55,

52,

24,

93,

5d

iabe

te1,

92,

32,

13,

53,

73,

62,

83,

13,

0

a In

clus

o as

ma

alle

rgic

o.N

ota:

Son

o st

ate

ripo

rtat

e le

mal

attie

cro

nich

e di

chia

rate

con

una

pre

vale

nza

pari

ad

alm

eno

il 3‰

nel

la p

opol

azio

ne o

sser

vata

.

Font

e: E

labo

razi

oni s

u da

ti Is

tat,

Con

dizi

oni d

i sal

ute

e ri

cors

o ai

ser

vizi

san

itar

i, 20

05.

91

È ormai consolidato il trend di crescita di tali patolo-gie, che colpiscono soprattutto nella preadolescenza e nel-l’età giovanile, ma che negli ultimi anni non risparmiano nemmeno adulti e anziani. Si pensi che rispetto agli anni ’80 le prevalenze tra i giovani si sono più che quadrupli-cate. Non si può disconoscere che una parte dell’incre-mento possa essere attribuita alla maggiore attenzione nel-l’analisi delle sintomatologie e all’evoluzione delle attività diagnostiche. Nel dibattito sulle cause di tale incremento, prevale tuttavia la tesi che ciò sia dovuto al peggioramento delle condizioni ambientali, in primo luogo l’aumento del-l’inquinamento atmosferico per effetto dei cambiamenti climatici. Confrontando le dinamiche del fenomeno negli ultimi 10 anni, emerge che tra i maschi di 11-19 anni le malattie allergiche hanno subito un incremento percen-tuale di oltre il 50%, passando dal 92,2 ‰ al 144,7‰, ac-centuando le differenze di genere in questa fascia d’età. Invece tra i giovani di 20-29 anni tali differenze si sono at-tenuate, per il maggior incremento che si registra sempre tra i maschi (tab. 4.2).

Le altre malattie più diffuse sono alcune patologie a carico dell’apparato respiratorio, molto spesso associate a forme allergiche che compromettono organi di questo apparato: è il caso dell’asma bronchiale o della bronchite cronica. Le percentuali sono certamente più contenute: le persone colpite da asma bronchiale nel 2005 sono il 28,9‰, con lievi differenze di genere a favore delle ra-gazze; quelle affette da bronchite cronica sono il 9,5‰. Per entrambe le patologie si registra un andamento cre-scente delle prevalenze nel tempo, che complessivamente raddoppiano negli ultimi 10 anni (tabb. 4.1 e 4.2).

Non è poi da sottovalutare la quota di giovani e anche adolescenti che nel 2005 ha dichiarato di soffrire di cefalea o emicrania ricorrente (44,8‰), che nelle forme più gravi, con attacchi acuti e frequenti, compromette in misura no-tevole la qualità della vita. Sono soprattutto le giovani a soffrirne: tra i 20 e 29 anni le donne con queste patologie sono circa 300.000 (pari all’86,1‰) a fronte dei 100.000 coetanei maschi (28,6‰).

tra le principali malattie croniche che colpiscono la popolazione giovanile, emerge un’importante patologia

tab. 4

.2.

Prev

alen

za d

elle

pri

ncip

ali

mal

atti

e cr

onic

he d

ichi

arat

e da

lle p

erso

ne d

i 11

-29

anni

. A

nni

1994

, 20

00,

2005

(Q

uozi

enti

per

1.0

00 p

erso

ne c

on l

e st

esse

car

atte

rist

iche

)

Mas

chi

fem

min

eM

asch

i e f

emm

ine

1994

2000

2005

1994

2000

2005

1994

2000

2005

Mal

attie

alle

rgic

he11

-19

92,2

119,

514

4,7

87,0

112,

411

0,7

89,7

116,

012

8,3

20-2

910

9,5

115,

213

2,5

103,

813

4,2

138,

910

6,6

124,

513

5,7

tota

le10

2,0

117,

013

7,8

96,9

125,

312

7,0

99,5

121,

013

2,5

Asm

a br

onch

iale

11-1

912

,319

,338

,313

,220

,122

,312

,719

,730

,620

-29

11,7

21,2

29,2

9,1

19,1

26,1

10,4

20,2

27,6

tota

le12

,020

,433

,110

,819

,524

,511

,420

,028

,9

Bro

nchi

te c

roni

ca11

-19

4,7

6,2

9,7

2,9

6,8

7,6

3,8

6,5

8,7

20-2

98,

29,

110

,25,

78,

810

,06,

98,

910

,1to

tale

6,7

7,9

10,0

4,5

7,9

8,9

5,6

7,9

9,5

Cef

alea

o e

mic

rani

a ri

corr

ente

11-1

910

,418

,921

,831

,540

,135

,120

,529

,328

,220

-29

38,5

38,1

28,6

72,1

104,

786

,155

,470

,557

,2to

tale

26,3

30,3

25,6

55,4

78,2

64,6

40,6

53,7

44,8

Font

e: E

labo

razi

oni s

u da

ti Is

tat,

Con

dizi

oni d

i sal

ute

e ri

cors

o ai

ser

vizi

san

itar

i, an

ni d

iver

si.

93

riferita alla salute mentale: la depressione e l’ansietà cro-nica. I disturbi mentali (schizofrenia, depressione, disturbi d’ansia, anoressia e bulimia nervose, disturbi da abuso di sostanze e di alcool e disturbi ossessivi) sono da qualche tempo in modo più incisivo incluse nell’agenda dei pro-grammatori sanitari, anche per la notevole attenzione che ormai ricevono in ambito europeo2, dove questo tipo di di-sturbi sono in aumento. Si stima che circa il 50% dei di-sturbi mentali abbia origine nell’adolescenza, e tra questi la depressione è proprio uno dei disturbi mentali più diffusi e gravi. In Italia, sempre con riferimento all’ultima indagine Istat sulle Condizioni di salute e ricorso ai servizi sanitari, sono circa 150.000 i giovani e gli adolescenti che hanno dichiarato di essere affetti da forme depressive o ansietà cronica (11,8‰), con differenze di genere sfavorevoli per le giovani donne (15,2‰ vs 8,5‰ nei maschi). Se a que-sti si aggiunge la quota di persone che hanno dichiarato di avere avuto in passato episodi di depressione o ansia cro-nica, la prevalenza raddoppia, interessando complessiva-mente oltre 250.000 persone tra gli 11 e 29 anni, con quote molto più elevate nel Nord-Ovest (27,6‰) e più basse nel Sud (10,9‰). Occorre precisare che le stime fanno riferi-mento a forme depressive che nel 90% dei casi sono state diagnosticate da un medico. È ipotizzabile comunque che una parte non affatto residua del fenomeno sia ancora som-mersa, poiché non sempre un disagio esistenziale nella fase adolescenziale o giovanile viene riconosciuto come vero e proprio esordio di un disturbo mentale.

Ci sono infine patologie o condizioni croniche parti-colarmente gravi (che fortunatamente coinvolgono quote non rilevanti della popolazione giovanile) strettamente associate alla condizione di disabilità3, intesa come limi-tazione non temporanea nello svolgimento delle normali attività quotidiane.

Altre volte, in particolare tra i giovani maschi (il dop-pio rispetto alle coetanee), sono invece gli eventi trauma-tici a comportare, nelle situazioni più critiche, deficit fun-zionali permanenti. A prescindere comunque dalla causa della condizione invalidante, convivere con tali limitazioni in giovanissima età può rappresentare una sfida quoti-diana, sia a livello individuale che familiare, anche sotto il

94

profilo psicologico per scongiurare il rischio di esclusione sociale.

Pur nella consapevolezza che gli strumenti per rilevare la disabilità non si riferiscono ancora alla più recente clas-sificazione dell’Oms (Icf, International Classification of functioning, disability and Health), si stima che le per-sone con problemi di limitazioni funzionali o affetti da una qualche invalidità tra gli 11 e i 29 anni siano pari al 13,8‰. da essi è esclusa la quota estremamente esigua di giovani che vivono nei presidi socioassistenziali. In Italia, infatti, è soprattutto la famiglia che si fa carico della cura e dell’assistenza dei giovani disabili: questi più spesso dei loro coetanei vivono con la loro famiglia d’origine (l’83,3% vive con i genitori, contro il 70,6% dei loro coetanei senza problemi di disabilità o invalidità). Analizzando la tipolo-gia di problema invalidante che colpisce gli 11-29enni, ri-sulta che il 3,6‰ dichiara di essere affetto da un’invalidità di tipo sensoriale (sordità, cecità, sordomutismo), il 4,5‰ da un’invalidità di tipo motorio ed il 6,2‰ convive con un deficit mentale di tipo invalidante (insufficienza mentale o malattia mentale o disturbi del comportamento). Comples-sivamente le differenze di genere vedrebbero svantaggiati i maschi, mentre non emergono disuguaglianze territoriali, almeno in questa fascia di età.

1.3. La percezione dello stato di salute

Se si fa ricorso al concetto di salute nella più ampia prospettiva di benessere psico-fisico e sociale, come racco-mandato dall’Oms, emerge che in Italia la generazione dei giovani gode complessivamente di buona salute. dall’ana-lisi dell’indicatore di percezione dello stato di salute [Who 1996], in linea con la media dei paesi europei, si rileva in-fatti che ben il 90% delle persone tra gli 11 e i 29 anni dichiara di stare bene o molto bene (con una sostanziale equidistribuzione tra i due giudizi positivi: bene e molto bene), il 9,2% valuta discreto il proprio stato di salute e una quota esigua (0,6%) dichiara invece di stare male o molto male. Emergono, comunque, già in queste fasce d’età sensibili differenze di genere nella salute percepita,

95

con una tendenza a un lieve peggioramento al crescere del-l’età. Sono quasi sempre le ragazze e le giovani che si per-cepiscono in peggiori condizioni di salute rispetto ai loro coetanei maschi. Le differenze sono rilevanti: tra i 20 e 24 anni il 13,7% delle giovani percepisce al massimo discreto il proprio stato di salute (contro l’8,2% tra i maschi) e tra i 25-29 anni tra le giovani la quota raggiunge il 15,9% (vs l’11,5% tra i maschi).

Anche tra le persone con disabilità o almeno un’inva-lidità, la maggioranza valuta complessivamente positivo il proprio stato di salute: il 51,2% dichiara di stare bene o molto bene, anche se è proprio in questa sottopopola-zione che si rileva comunque la quota più alta di persone tra gli 11-29 anni che riferisce di stare male o molto male (16,5%), mentre il restante 32,3% dichiara discreto il pro-prio stato di salute.

Allo scopo di far luce anche su alcuni aspetti delle condizioni psicologiche dei giovani, ci sembra interessante sfruttare il potenziale informativo dell’indagine per co-gliere, in forma semplificata, il malessere psicologico che colpisce le età tra i 14 e i 29 anni. Con riferimento al mese precedente l’intervista, se il 64,3% dei ragazzi di questa età ha dichiarato di non essersi mai sentito giù di morale, la percentuale scende al 56,3% tra le ragazze. fa comun-que riflettere la quota di ragazze che dichiara di aver pro-vato questo disagio per molto tempo (3,3%) o parte del tempo (9,1%), con quote più basse tra i ragazzi: rispettiva-mente 2,6% e 6,4% (fig. 4.1). Le tendenze sono pressoché simili anche rispetto alle altre domande che indagano la dimensione della salute mentale: sentirsi scoraggiati e tristi o molto agitati, confermando le differenze di genere già ri-scontrate nell’ambito dei disturbi mentali diagnosticati dal medico.

1.4. Comportamenti e fattori di rischio per la salute

La maggior parte dei problemi di salute in questa fa-scia di età è causato da fattori di rischio per lo più modifi-cabili, quali: tabagismo, abuso di alcol, sovrappeso e obe-sità, scarso consumo di frutta e verdura, inattività fisica,

96

ipercolesterolemia, ipertensione, diabete. L’alcol, peraltro, è risultato uno dei principali fattori di rischio sia per la di-sabilità sia per la mortalità in giovane età in Europa [Oms 2006].

La gran parte dei comportamenti che determinano l’insorgenza e la diffusione di tali fattori di rischio si ori-ginano nella fase adolescenziale e si consolidano nell’età adulta giovanile. In questa nota ci soffermeremo in par-ticolare su alcuni dei principali comportamenti a rischio, per i quali sono stati avviati specifici interventi di sanità pubblica, anche attraverso campagne di sensibilizzazione volte a promuovere tra la popolazione la tutela della sa-lute, come bene collettivo.

• Abitudine al fumoIl tabagismo costituisce uno dei principali fattori di ri-

schio di morte precoce evitabile, incidendo sull’insorgenza di molte patologie tumorali, cardiovascolari e dell’appa-rato respiratorio. Per tale ed altre ragioni (il consumo di

Scor

aggi

ato

e tr

iste

Giù

di

mor

ale

Mol

toag

itato

Femmine

Maschi

Femmine

Maschi

Femmine

Maschi

0 10 20 30 40 50 60 70 80 90 100

Molto tempo Una parte del tempo Quasi mai Mai

7,1 18,8 46,5 27,6

13,0 44,5 37,5

4,8

3,1 31,2 56,3

3,3

6,4 26,7 64,3

2,6

16,67,5 40,8 35,2

11,6 39,1 44,3

5,2

Fig. 4.1. Persone di 14-29 anni secondo la percezione dello stato psicologico per genere. Anno 2005 (per 100 persone dello stesso sesso). Valori percentuali.

Fonte: Elaborazioni su dati Istat, Condizioni di salute e ricorso ai servizi sani-tari, 2005.

97

sigarette è spesso associato all’uso di droghe, vedi box 4.2) è utile soffermarsi prima di tutto sulle abitudini dei gio-vani riguardo al fumo. Nel 2005, si stima che i fumatori di età compresa tra i 14 ed 29 anni siano circa 2,5 milioni: il 28,9% tra i maschi e il 17,6% tra le femmine. Le dif-ferenze di genere si accentuano con l’età: tra i ragazzi di 14-19 anni fuma il 14,7% contro il 9,1% delle ragazze, tra i giovani maschi di 25-29 anni i fumatori sono il 37,6% e le fumatrici il 21,7% (tab. 4.3).

Se negli anni ’90 e fino al 2000 si registrava una ten-denza all’aumento della diffusione del consumo di tabacco tra i giovani e gli adolescenti, in particolare tra le ragazze, tra il 2000 e il 2005 si registra un’inversione di tendenza con una lieve flessione della quota di fumatori, in parti-colare tra i maschi. Nello stesso periodo si è complessiva-mente assistito ad una più sensibile riduzione del tabagi-smo nella popolazione di 14 anni e più, in particolare in quella maschile (va peraltro rilevato che ormai dagli anni ’90 il trend tra i maschi è sempre decrescente). tale trend, se da un lato conferma l’andamento atteso secondo la nota teoria dell’epidemia del fumo [Lopez et al. 1994], dall’al-tro può rappresentare l’auspicato conseguimento di obiet-tivi di salute pubblica dopo l’avvio delle molte attività, an-che di tipo normativo, di contrasto al consumo di tabacco.

Le modalità dell’abitudine al fumo sono diversificate tra i due sessi, anche rispetto al numero di sigarette fu-

tab. 4.3. Abitudine al fumo delle persone di 14-29 anni per ripartizione territoria-le e genere. Anni 2000 e 2005 (Quozienti per 100 persone della stessa zona e genere)

Ripartizioneterritoriale

2000 2005

fumatori forti fumatori fumatori forti fumatori

M f M f M f M f

Nord-Ovest 33,6 22,4 8,0 2,7 31,2 20,8 7,5 2,1Nord-Est 30,3 22,6 7,8 2,1 29,5 20,9 5,3 2,3Centro 33,7 22,1 9,8 4,1 30,1 20,4 8,6 2,9Sud 29,5 11,4 10,7 1,8 26,7 11,5 7,7 1,8Isole 33,8 15,2 11,9 2,6 26,7 17,1 9,6 3,4Italia 31,9 18,3 9,6 2,6 28,9 17,6 7,7 2,4

Fonte: Elaborazioni su dati Istat, Condizioni di salute e ricorso ai servizi sani-tari, 2000 e 2005.

98

mate. tra i maschi la quota di forti fumatori (cioè di co-loro che fumano venti e più sigarette al giorno) è molto più elevata e raggiunge il 12,6% tra i 25-29 anni, mentre per le giovani coetanee è pari al 3,4%. Nell’Italia insulare si registrano le più elevate quote di forti fumatori, sia per i maschi che per le femmine, ma in calo per i maschi ri-spetto al 2000.

Il fumo di tabacco è un’abitudine che si avvia preva-lentemente nell’adolescenza e nell’età giovanile, ma negli ultimi anni l’esordio al fumo, come altri comportamenti a rischio per la salute (abuso di alcol e/o droghe, vedi box 4.1] sta diventando sempre più precoce e riguarda sem-pre più i preadolescenti. Nel 2005 si stima che il 7,8% dei giovani di 14-24 anni inizia a fumare prima dei 14 anni. Rispetto al 2000 questa quota risulta in aumento in parti-colare tra i maschi, con un incremento del 60% (dal 5,0% all’8,0%), ancora più accentuato nel Nord-Est (dal 4,1% all’8,9%). Nell’adolescenza assumono grande rilevanza an-che i comportamenti dei genitori: la quota di fumatori tra i ragazzi si riduce della metà se nessuno dei genitori ha mai fumato, e tra le ragazze addirittura di una volta e mezza. Se invece fumano entrambi i genitori o anche solo la ma-dre è fumatrice la prevalenza raddoppia tra le ragazze e tra i ragazzi aumenta di oltre la metà.

• Problemi di peso e comportamenti alimentariL’obesità, cioè l’eccesso di massa grassa corporea, è un

importante fattore di rischio per la salute, in particolare per le malattie cardiovascolari, l’ictus, il diabete, alcuni tu-mori, per le malattie osteoarticolari. L’obesità che insorge in età preadolescenziale e adolescenziale, secondo alcuni studi, rappresenta un fattore predittivo della presenza di obesità in età adulta. Il trend del fenomeno in crescita per gli adulti (+34% rispetto al 1994), congiuntamente all’ele-vata diffusione dell’eccesso di peso in fase preadolescen-ziale che si registra in Italia (34% tra i 6-9 anni, per l’anno 2000), e all’accentuata familiarità dell’eccesso di peso (che fa raddoppiare le prevalenze dal 23 al 41% tra i 6-13 anni se si convive con genitori in sovrappeso o obesi: vedi gar-giulo et al. [2002]), giustificano la crescente attenzione nell’attivare strategie mirate a contrastare l’obesità.

99

L’eccesso di peso e il suo trend in crescita anche nei paesi sviluppati sembrerebbero molto più associati a stili di vita sedentari che alla maggiore diffusione di un’ali-mentazione ipercalorica [Liuzzi 2000]. Ciò sembrerebbe vero anche per l’Italia: nel Nord-Ovest, dove tra i maschi in età 18-24 anni si registra la quota più bassa di sovrap-peso (13,8%), si rileva anche quella più elevata di giovani che praticano un’attività fisica almeno di tipo moderato (63,9%, tab. 4.4).

Indipendentemente dai problemi di peso, una regolare attività fisica non solo compensa il maggior introito di ca-lorie, ma migliora le condizioni generali con ricadute posi-tive sia per la salute fisica, che per quella mentale. deficit si registrano peraltro anche nelle abitudini alimentari. tra i giovani il consumo di frutta e verdura è relativamente poco diffuso: a fronte delle cinque porzioni giornaliere raccomandate [Inran 2003], tra gli 11 e 29 anni esiste ben un 20,5% di persone (e tra i maschi uno su quattro) che consuma frutta o verdura meno di una volta al giorno

Ma nella popolazione femminile tra i 18 e i 29 anni emerge in modo evidente che tra i problemi di peso, quelli più diffusi, sono relativi al sottopeso, più che all’obesità. Le ragazze in sottopeso tra i 18-24 anni raggiungono il 16,3%, con un picco del 21% Nord-Ovest. In partico-lare, nell’ambito del fenomeno del sottopeso, si è cercato di individuare, sulla base della classificazione dell’Oms, la quota di giovani donne che presentano una magrezza grave o moderata e che ammontano al 2,6%. Circa un terzo di esse controlla il proprio peso più volte a settimana, quasi da rendere ipotizzabili comportamenti che più spesso sconfinano in vere e proprie patologie mentali classificabili tra i disturbi del comportamento alimentare.

ta

b. 4

.4.

Indi

ce d

i m

assa

cor

pore

a e

prat

ica

di a

ttiv

ità

fisic

a al

men

o m

oder

ata

nel

tem

po l

iber

o de

lle p

erso

ne d

i 18

-29

anni

per

rip

arti

zion

e ge

ogra

fica,

ge-

nere

ed

età.

Ann

o 20

05 (

per

100

pers

one

con

le s

tess

e ca

ratt

eris

tich

e)

Rip

artiz

ione

terr

itori

ale

Indi

ce d

i mas

sa c

orpo

rea

Att

ività

fisi

ca

Sott

opes

oN

orm

opes

oSo

vrap

peso

Obe

so

Mf

Mf

Mf

Mf

Mf

18-2

4 a

nn

i

Nor

d-O

vest

5,2

21,0

79,0

71,3

13,8

6,3

2,0

1,5

63,9

44,9

Nor

d-E

st3,

818

,976

,671

,516

,38,

33,

41,

462

,745

,7C

entr

o2,

115

,080

,975

,715

,27,

71,

81,

660

,939

,2Su

d2,

512

,072

,075

,222

,410

,53,

12,

253

,534

,6Is

ole

3,2

16,2

74,3

75,3

20,2

7,3

2,3

1,1

49,3

29,4

Ital

ia3,

416

,376

,273

,817

,98,

32,

61,

758

,138

,9

25-2

9 a

nn

i

Nor

d-O

vest

1,9

15,4

72,5

71,8

22,3

10,0

3,4

2,8

5641

,2N

ord-

Est

1,3

14,4

69,0

68,9

26,1

12,9

3,6

3,8

57,5

43,3

Cen

tro

1,3

12,9

66,4

75,0

30,3

10,2

2,0

1,9

50,8

42,1

Sud

1,0

9,4

63,7

75,3

30,6

12,2

4,7

3,2

46,6

26,1

Isol

e1,

111

,163

,677

,430

,98,

54,

42,

943

,122

Ital

ia1,

312

,667

,473

,527

,610

,93,

62,

951

,435

,4

Font

e: E

labo

razi

oni s

u da

ti Is

tat,

Con

dizi

oni d

i sal

ute

e ri

cors

o ai

ser

vizi

san

itar

i, 20

05.

101

box 4.1

il Fenomeno del binge drinking e il consumo di alcol Fuori pasto nella popolazione giovanile

Negli ultimi anni si stanno diffondendo in Italia, in parti-colare tra i giovani, abitudini nel consumo di alcol tipiche dei paesi del Nord Europa. tra queste una delle più preoccupanti è rappresentata dal fenomeno del binge drinking, con il quale si fa riferimento all’abitudine di consumare eccessive quantità (con-venzionalmente 6 o più bicchieri di bevande alcoliche) in una sola occasione, come ad esempio durante una stessa serata o una festa.

Importanti conferme si hanno dai risultati dell’indagine Istat sulle famiglie Aspetti della vita quotidiana, dai quali emerge tra gli adolescenti un incremento di consumatori di alcolici fuori pasto e il diffondersi di episodi di ubriacature connessi al binge drinking.

Il consumo di alcol in età giovanile risulta critico per un du-plice motivo: da un lato i minorenni non sono ancora in grado di metabolizzare adeguatamente l’alcol, dall’altro la precoce acquisizione di comportamenti non corretti potrebbe radicarsi e protrarsi anche nelle età successive. Ecco perché uno degli obiettivi dell’Oms per il 2010 è ridurre a zero la quota di ragazzi fino ai 15 anni che consuma alcol. tuttavia, il consumo di alcol fuori pasto degli adolescenti di 14-17 anni4, tra il 1998 e il 2007 è cresciuto dal 12,6% al 20,5%. Nel tempo permangono forti differenze di genere, infatti la prevalenza tra i maschi è più ele-vata (dal 15,2% al 22,7%), ma l’incremento è maggiore per le ragazze (dal 9,7% al 17,9%) (fig. 4.2).

La tabella 4.5 mostra invece il radicarsi tra i giovani del binge drinking. Nel 2007 il 12,1% dei giovani di 11-29 anni ha consumato quantità eccessive di alcol in un’unica occasione. Inoltre, il 10,1% consuma alcolici fuori dai pasti con frequenza almeno settimanale5. Il 16,9% dei giovani di 11-29 anni presenta almeno uno di questi due comportamenti (consumo settimanale di alcolici fuori pasto e binge drinking). Il fenomeno è crescente con l’età e mostra una prevalenza maschile più che doppia a tutte le età.

La combinazione del consumo almeno settimanale di alcolici fuori pasto e dell’abitudine ad ubriacarsi vede invece coinvolti il 5,3% dei giovani. Questa associazione si concentra proprio nella popolazione maschile di 20-24 anni dove la prevalenza comples-siva è più elevata (12,3%).

102

2003 2005 2006 200720022001

15,2

12,6

9,7

18,0

15,4

12,8

16,8

14,5

12,2

17,2

15,9

13,7

20,7

18,7

16,3

20,6

18,2

15,6

24,2

20,5

16,8

22,7

20,5

17,918,4

15,1

11,5

1999 20001998

Maschi Femmine Maschi e femmine

Fig. 4.2. Persone di 14-17 anni per abitudine al consumo di alcolici fuori pa-sto e sesso. Anno 1998-2007 (per 100 persone con le stesse caratteri-stiche).

Fonte: Istat [2008b].

Inoltre, il consumo di alcol secondo le due modalità consi-derate si associa fortemente all’abitudine ad andare nelle disco-teche. Si tratta di situazioni cui rivolgere forte attenzione per le connessioni con i rischi secondari per la salute. tale associazione è tanto più rilevante quanto maggiore è la frequenza con cui si va in discoteca. In particolare, oltre un quarto dei maschi di 11-29 anni che frequenta discoteche almeno una volta al mese asso-cia consumo settimanale di alcolici fuori pasto e binge drinking.

dal punto di vista territoriale, binge drinking e consumo settimanale di alcolici fuori pasto sono comportamenti più dif-fusi nella popolazione giovanile dell’Italia settentrionale (26,3% Nord-Est e 21,3% Nord-Ovest).

L’abitudine al consumo non moderato di bevande alcoliche da parte dei genitori, inoltre, sembra influenzare il comporta-mento dei figli. Infatti, beve il 32,3% dei ragazzi di 11-17 anni che vivono in famiglie dove almeno un genitore fa uso non mo-derato di bevande alcoliche; tale quota invece scende al 24,8% tra i giovani che vivono con genitori che non bevono o fanno un uso moderato di alcol. L’influenza del comportamento dei geni-tori su quello dei giovani rimane elevato per i maggiorenni fino ai 24 anni: più del 30% dei figli che vivono in famiglia (circa il 90% della popolazione di 18-24 anni) consuma alcol se ha geni-tori che eccedono, mentre sono circa il 20% quelli che consu-mano bevande alcoliche se i genitori hanno un consumo mode-rato.

103

2. La mortalità nei pre-adolescenti, adolescenti e giovani

In questa parte si analizzano i dati di mortalità della popolazione giovanile residente in Italia. La fonte di tali dati è l’Indagine sulle cause di morte dell’Istat e l’anno 2003 è l’ultimo per il quale si dispone di un dato ufficiale e definitivo sulla mortalità per causa. A partire dai dati relativi a tale anno è stata introdotta una nuova revisione della Classificazione internazionale delle malattie, Icd-10, per la codifica delle cause di morte, che ha comportato una revisione dell’intero processo di produzione del dato e un conseguente ritardo nel rilascio dei dati degli anni successivi. Per l’anno 2004 e 2006 si dispone attualmente

tab. 4.5. Persone di 11-29 anni per consumo di alcolici fuori pasto almeno una volta a settimana e binge drinking, sesso e classe d’età. Anno 2007 (per 100 persone dello stesso sesso e classe di età)

Classi d’età totale

11-17 18-19 20-24 25-29

maschi

fuori pasto almeno una volta a settimana 3,8 18,2 21,0 20,8 14,6

Binge drinking 6,5 22,2 24,1 23,6 17,6totale fuori pasto almeno

una volta a settimana e/o binge drinking 8,3 31,0 32,8 32,5 23,9

Femmine

fuori pasto almeno una volta a settimana 1,6 7,7 8,6 6,1 5,4

Binge drinking 2,7 8,8 10,2 6,9 6,6totale fuori pasto almeno

una volta a settimana e/o binge drinking 3,6 13,5 14,8 10,7 9,7

maschi e Femmine

fuori pasto almeno una volta a settimana 2,8 12,8 14,9 13,6 10,1

Binge drinking 4,7 15,3 17,2 15,5 12,1totale fuori pasto almeno

una volta a settimana e/o binge drinking 6,1 22,0 23,9 21,9 16,9

Fonte: Elaborazioni su dati Istat [2008b].

104

soltanto di dati stimati per classi di età e gruppi di cause diversi da quelli qui esaminati. Il passaggio al nuovo si-stema di codifica ha necessariamente introdotto delle di-scontinuità nelle serie storiche dei dati di mortalità (vedi box 1.2).

Per studiare la mortalità nella fascia di età giovanile, si è deciso di considerare due classi di età, 1-14 e 15-29 anni, e di analizzare, distintamente per genere, i trend di mor-talità a partire dal 1991 per le principali cause di morte. L’inclusione dei dati della fascia di età 1-14 anni, pur nella consapevolezza che tale classe comprende anche bambini molto piccoli, ha consentito di arricchire il quadro della mortalità giovanile con un’analisi delle principali cause re-sponsabili dei decessi nei giovanissimi.

2.1. Dinamica recente della mortalità tra i giovani

Soffermandosi sull’evoluzione della mortalità giovanile nell’ultimo decennio si evidenzia un sostanziale declino sia in termini di valori assoluti sia di tassi standardizzati6 (tab. 4.6).

Nel 2003 il numero di decessi nella classe 1-14 anni è pari a 560 per i maschi e a 413 per le femmine, con una riduzione dal 1991 rispettivamente del 50 e 45%. Meno marcata è la riduzione dei tassi di mortalità (meno 44 e meno 39%, rispettivamente nei maschi e nelle femmine), che nel 2003 corrispondono a 14,2 per 100 mila abitanti maschi e a 11,1 per le femmine. Nella classe 15-29 anni il declino dei decessi nell’arco di tempo esaminato appare ancora più evidente: meno 54% nei maschi e meno 52% nelle femmine, mentre i tassi nel 2003 sono pari a 72,3 per 100 mila nei maschi e a 22,8 nelle femmine, con una ridu-zione rispetto al 1991 del 42 e 38%, rispettivamente.

La differenza della mortalità tra i due generi risulta più marcata nella classe 15-29 anni, dove il valore del rapporto di mascolinità – calcolato come rapporto tra il tasso stan-dardizzato di mortalità maschile e quello femminile – ri-sulta sempre superiore a 3, ed è comunque costantemente a svantaggio dei maschi in tutto il periodo considerato.

105

2.2. Le principali cause di morte dei maschi e delle femmine

Lo studio delle cause maggiormente responsabili della mortalità nei giovani evidenzia il ruolo fondamentale delle cause esterne di traumatismo e avvelenamento e dei tumori per entrambi i generi e per le due classi di età esaminate, con un’incidenza molto più intensa del primo tipo di cause nel gruppo dei 15-29enni. Alla riduzione dei tassi per tali

tab. 4.6. Mortalità per genere e classi di età (1-14 e 15-29 anni). Anni 1991-2003 (decessi e tassi standardizzati per 100.000 abitanti)

Anni Maschi femmine

1-14 15-29 totale 1-14 15-29 totale

decessi

1991 1.109 7.976 9.085 757 2.316 3.0731992 1.052 7.457 8.509 757 2.274 3.0311993 1.098 6.600 7.698 858 2.163 3.0211994 941 6.151 7.092 776 2.043 2.8191995 980 6.043 7.023 702 1.944 2.6461996 894 5.636 6.530 690 1.890 2.5801997 810 5.145 5.955 687 1.614 2.3011998 726 4.998 5.724 521 1.615 2.1361999 612 4.589 5.201 481 1.491 1.9722000 612 4.430 5.042 497 1.449 1.9462001 618 4.115 4.733 439 1.286 1.7252002 671 3.880 4.551 437 1.228 1.6652003 560 3.664 4.224 413 1.117 1.530

tassi standardizzatia

1991 25,40 123,60 149,00 18,33 36,92 55,251992 25,30 114,80 140,10 19,19 36,17 55,371993 26,88 102,99 129,87 22,19 34,88 57,071994 23,24 97,61 120,85 20,20 33,65 53,851995 24,38 97,71 122,09 18,40 32,61 51,011996 22,42 93,52 115,94 18,22 32,43 50,651997 20,49 87,17 107,65 18,28 28,27 46,541998 18,51 86,75 105,26 13,98 28,88 42,861999 15,68 81,84 97,51 12,97 27,42 40,392000 15,70 81,26 96,96 13,45 27,33 40,782001 15,87 77,58 93,45 11,89 24,94 36,832002 17,18 75,18 92,36 11,81 24,52 36,332003 14,25 72,28 86,53 11,10 22,80 33,90

a Per il calcolo di tutti i tassi standardizzati riportati in questo paragrafo è stato utilizzato il metodo della standardizzazione diretta e la popolazione standard è la popolazione residente in Italia al 14o (2001) Censimento della popolazione e delle abitazioni, 2001.

106

cause peraltro è principalmente ascrivibile il declino della mortalità complessiva dei giovani (tab. 4.7).

La figura 4.3 mostra in generale un andamento in di-minuzione per tutte le principali cause sia per i maschi sia per le femmine. In particolare, per i maschi le cause esterne di traumatismo e avvelenamento passano, dal 1991

MASCHI16

14

12

10

8

6

4

2

0

80

70

60

50

40

30

20

10

02001 2003199919971993 19951991

Tass

i sta

ndar

dizz

ati p

er 1

00.0

00

Circol EsterneAids Tumori Droghe

FEMMINE16

14

12

10

8

6

4

2

02001 2003199919971993 19951991

Tass

i sta

ndar

dizz

ati p

er 1

00.0

00

Circol EsterneAids Tumori Droghe

Fig. 4.3. tassi standardizzati di mortalità per 100.000 abitanti e per le principali cause di morte. Anni 1991-2003. Classe di età 15-29.

a Per le sole cause esterne di traumatismo e avvelenamento i tassi standardiz-zati vanno letti con riferimento all’ordinata di destra.

Fonte: Elaborazioni su dati Istat [2008a].

ta

b. 4

.7.

Mor

talit

à pe

r ca

usa,

cla

sse

di e

tà 1

5-29

ann

i. A

nni 1

999-

2003

. Mas

chi (

dece

ssi e

tas

si s

tand

ardi

zzat

i per

100

.000

abi

tant

i)

Cau

se1

dec

essi

tass

i sta

ndar

dizz

ati

1999

2000

2001

2002

2003

1999

2000

2001

2002

2003

Mal

attie

infe

ttiv

e e

para

ssita

rie

4439

3629

320,

790,

720,

680,

560,

63tu

mor

i40

845

239

236

333

47,

298,

297,

397,

036,

58d

istu

rbi p

sich

ici e

com

port

am.

251

222

139

9010

04,

524,

092,

631,

751,

98M

alat

tie d

el s

iste

ma

circ

olat

orio

2.91

270

287

264

221

5,22

4,97

5,42

5,12

4,37

Mal

form

azio

ni c

onge

nite

e a

norm

alità

cro

mos

omic

he46

5351

4865

0,82

0,97

0,96

0,93

1,28

Sint

omi,

segn

i, ri

sulta

ti an

omal

i e c

ause

mal

def

inite

223

267

209

178

189

3,98

4,91

3,94

3,45

3,74

Cau

se e

ster

ne d

i tra

umat

ism

o e

avve

lena

m.

2.95

72.

800

2721

2639

2.45

552

,63

51,3

051

,28

51,1

348

,41

tutt

e le

cau

se4.

589

4.43

04.

115

3880

3.66

481

,84

81,2

677

,58

75,1

872

,28

Not

a: s

i rip

orta

no a

lcun

i chi

arim

enti

valid

i per

tutt

i i g

rupp

i di c

ause

men

zion

ati n

el p

arag

rafo

. Il g

rupp

o de

lle M

alat

tie

infe

ttiv

e e

para

ssit

arie

incl

ude

l’Aid

s. I

l gru

ppo

dei D

istu

rbi p

sich

ici e

com

port

amen

tali

incl

ude

la d

ipen

denz

a da

dro

ghe

e la

tos

sico

man

ia. I

l gru

ppo

delle

Cau

se e

ster

ne d

i tra

umat

ism

o e

avve

lena

men

to in

clud

e gl

i Acc

iden

ti, il

Sui

cidi

o e

auto

lesi

one

inte

nzio

nale

, l’O

mic

idio

e a

ggre

ssio

ne. t

ra g

li A

ccid

enti

ci s

ono

gli A

ccid

enti

da tr

aspo

rto

(Acc

iden

ti da

vei

colo

a m

otor

e e

Altr

i acc

iden

ti da

tras

port

o te

rres

tre,

che

rip

rend

ono

la v

ecch

ia a

ccez

ione

deg

li in

cide

nti s

trad

ali)

, le

Cad

ute

acci

dent

ali e

l’A

vvel

enam

ento

acc

iden

tale

.

Font

e: E

labo

razi

oni s

u da

ti Is

tat [

2008

a].

ta

b. 4

.7. (

segu

e) M

orta

lità

per

caus

a, c

lass

e di

età

15-

29 a

nni.

Ann

i 199

9-20

03. F

emm

ine

(dec

essi

e ta

ssi s

tand

ardi

zzat

i per

100

.000

abi

tant

i)

Cau

sed

eces

sita

ssi s

tand

ardi

zzat

i

1999

2000

2001

2002

2003

1999

2000

2001

2002

2003

Mal

attie

infe

ttiv

e e

para

ssita

rie

3026

2334

290,

560,

490,

450,

680,

59tu

mor

i32

434

928

326

023

45,

976,

595,

495,

194,

78d

istu

rbi p

sich

ici e

com

port

am.

4525

2917

200,

830,

470,

560,

340,

41M

alat

tie d

el s

iste

ma

circ

olat

orio

151

131

121

125

832,

772,

472,

342,

491,

69M

alfo

rmaz

ioni

con

geni

te e

ano

rmal

ità c

rom

osom

iche

4338

4134

370,

790,

720,

800,

680,

76Si

ntom

i, se

gni,

risu

ltati

anom

ali e

cau

se m

al d

efin

ite46

5052

5254

0,85

0,94

1,01

1,04

Cau

se e

ster

ne d

i tra

umat

ism

o e

avve

lena

m.

648

651

572

531

480

11,9

012

,27

11,1

010

,61

9,80

tutt

e le

cau

se1.

491

1.44

91.

286

1.22

81.

117

27,4

227

,33

24,9

424

,52

22,8

0

Font

e: E

labo

razi

oni s

u da

ti Is

tat [

2008

a].

109

al 2003, da 70,2 a 48,4 decessi per 100 mila abitanti. Il calo riguarda soprattutto gli accidenti, in particolare quelli da veicolo a motore, a testimonianza che certamente c’è stato un qualche effetto delle politiche di informazione e prevenzione sul comportamento giovanile su strada, non-ché delle innovazioni tecnologiche relative alla sicurezza dei mezzi di trasporto. Permane tuttavia una forte inci-denza di decessi per accidenti da trasporto che nel 2003 corrispondono ancora al 44% del totale delle morti nei giovani maschi7.

Molto interessante è l’evoluzione della mortalità per Aids (causa compresa nel gruppo delle malattie infettive e parassitarie) nel periodo 1991-2003 che, dall’essere la se-conda causa di morte nei primi anni ’90, crolla rapidamente fino al 1999 per poi «assestarsi» intorno a 0,3 casi per 100 mila abitanti. Questo andamento rispecchia certamente l’evoluzione delle terapie per la malattia, in particolare l’in-troduzione della triplice terapia dal 1997 che ha modificato sostanzialmente la sopravvivenza dei malati di Aids.

Notevole riduzione subisce anche la mortalità per di-pendenza da droghe e tossicomania (causa appartenente al gruppo dei disturbi psichici e comportamentali) nei giovani maschi (calo dell’84%, passando da 11,4 a 1,8 per 100 mila abitanti), probabile effetto della progressiva dif-fusione di campagne di prevenzione in merito, nell’arco dei tredici anni esaminati.

tra le giovani sono in calo le cause esterne di trauma-tismo e avvelenamento, e tra queste gli accidenti (dal 1991 al 2003 passano da 14,5 a 9,8 per 100 mila abitanti) (fig. 4.3). Sebbene con livelli dei tassi inferiori rispetto ai ma-schi, esse restano, peraltro, le principali cause di decesso

Un notevole contributo alla riduzione della mortalità in questo gruppo è dato anche dai tumori che diminuiscono del 33% passando da 7,1 a 4,8 per 100 mila abitanti. Si tratta di una riduzione che riguarda soprattutto i tumori maligni del tessuto linfatico/ematopoietico, i tumori mali-gni delle meningi, dell’encefalo e di altre parti del sistema nervoso centrale e i tumori maligni del seno (per questi ul-timi il tasso passa da 0,5 a 0,3 per 100.000 abitanti).

La mortalità per Aids delle femmine di 15-29 anni ha certamente livelli molto inferiori rispetto ai maschi della

110

stessa età, tuttavia segue un andamento analogo a quello maschile con una forte decrescita fino al 1999 e una suc-cessiva stabilizzazione con un valore del tasso nel 2003 pari a 0,2 per 100.000 abitanti.

Anche per i maschi giovanissimi (1-14), il primato negativo in termini di mortalità è detenuto dalle cause esterne di traumatismo e avvelenamento, sebbene il rischio si riduca nel tempo: infatti il tasso standardizzato per que-ste cause passa da 8,9 per 100 mila abitanti nel 1991 a 4,1 nel 2003, coinvolgendo principalmente gli accidenti (in particolare gli accidenti da trasporto, le cadute accidentali e gli avvelenamenti accidentali).

La seconda causa di morte più rilevante tra i maschi di età 1-14 anni è rappresentata dai tumori per i quali, nel periodo esaminato, si registra una diminuzione del 45% passando da 6 per 100 mila abitanti nel 1991 a 3,3 nel 2003. I tumori maggiormente responsabili dei decessi in questo gruppo sono i tumori maligni delle meningi, del-l’encefalo e di altre parti del sistema nervoso centrale e i tumori maligni del tessuto linfatico/ematopoietico, in par-ticolare le leucemie.

Rilevanti infine le malformazioni congenite e le anor-malità cromosomiche per le quali si registra un andamento in diminuzione nel periodo 1991-2003, seppure con un lieve incremento nel 2003 in parte ascrivibile al cambia-mento di classificazione delle cause, Icd-10, che ha com-portato un’attribuzione di decessi a questa causa superiore del 16% rispetto all’Icd-9. La significatività di tale causa in questa fascia di età può probabilmente trovare spiega-zione nella specificità del fenomeno osservato che colpisce soprattutto i bambini alla nascita e che pertanto, se grave, conduce al decesso in età abbastanza ravvicinate al mo-mento della diagnosi.

Per le femmine di età 1-14 anni l’ordine delle princi-pali cause di morte è invertito rispetto ai maschi: le prime cause sono infatti i tumori che mantengono il loro primato in termini negativi in tutto il periodo in esame seppure con una riduzione del tasso che passa da 4,6 per 100 mila a 2,9. Anche in questo caso, i tumori maggiormente coin-volti nella mortalità sono le leucemie. Le cause esterne di traumatismo e avvelenamento, e tra queste soprattutto gli

111

accidenti, rappresentano per le femmine la seconda causa di morte e per esse si registra una diminuzione nel periodo più marcata che per i tumori (meno 47 per cento).

2.3. La geografia della mortalità

L’analisi territoriale della mortalità giovanile è riferita al 2003, anno più recente dei dati a disposizione.

La regione a più alta mortalità nella fascia di età 1-14 anni è l’Emilia-Romagna per i maschi e la Basilicata per le femmine. L’Emilia-Romagna guida la mortalità dei ma-schi di questa fascia di età anche per le cause esterne di traumatismo e avvelenamento, con un tasso standardizzato pari a 8,4 per 100 mila abitanti che corrisponde quasi al doppio della media nazionale. Analoga posizione nella graduatoria ha la Basilicata per le femmine, con un tasso di mortalità per cause esterne di 7,2 per 100 mila abitanti ovvero 3,5 volte il tasso nazionale femminile.

Per i tumori femminili tra 1-14 anni si osservano tassi particolarmente elevati per la Valle d’Aosta e il Molise, pur trattandosi di regioni molto piccole pertanto soggette a forte variabilità nei valori di questi indicatori. tra le re-gioni a tasso meno elevato troviamo la Sicilia per le fem-mine (1,1 per 100 mila) e la toscana per i maschi (2 per 100 mila abitanti).

Per quanto riguarda la fascia di età 15-29 anni, per entrambi i generi, si osservano valori dei tassi di mortalità superiori alla media nazionale in Sardegna, che occupa il primo posto nella graduatoria della mortalità dei giovani maschi (96,8 per 100 mila abitanti) e nelle regioni del Nord.

Una geografia analoga a quella descritta in generale per la classe di età 15-29 anni, è riscontrabile per la mor-talità per cause esterne di trumatismo e avvelenamento in entrambi i generi, con punte pari a 77,3 per 100 mila abi-tanti per i maschi del trentino-Alto Adige e a 19,4 per le femmine del friuli-Venezia giulia.

Per i tumori, infine, il tasso più elevato tra i maschi di 15-29 anni si rileva in Valle d’Aosta, Molise e Liguria, re-gione quest’ultima che risulta anche in cima alla graduato-ria femminile per questa causa di morte.

112

box 4.2

guida su strada e comportamenti a rischio dei giovani

Quando, in materia di guida stradale, andiamo a conside-rare i comportamenti prevalenti dei giovani, troviamo una con-sistente presenza di fattori che possono spiegare l’elevata fre-quenza e gravità degli incidenti stradali in cui essi si trovano coinvolti: consumi elevati di bevande alcoliche, utilizzo di dro-ghe, lunghe percorrenze notturne, utilizzo del cellulare durante la guida, tendenza alla guida veloce, ed altro ancora. Un fatto importante è che questi rischi risultano spesso tra loro associati, cosicché, interagendo, il rischio complessivo risulta assai supe-riore alla somma dei singoli rischi. Inoltre, spesso la presenza di un rischio favorisce l’insorgenza di altro rischio (ad esempio, chi guida in stato di ebbrezza tende a viaggiare a velocità elevate).

Per comprendere quanto queste associazioni siano consi-stenti, riportiamo nella tabella 4.8 la matrice delle prevalenze condizionate relative a uso di alcol, droghe e tabacco, costruita in base alle risposte fornite nel 2003 al questionario multirischio dell’Istituto superiore di sanità da un campione di studenti ma-schi tra 14 e 19 anni di età, rappresentativo di tutto il paese [in-dagine Amr 2003)8. Come si può notare, il 67,0% di tali rispon-denti dichiara di far uso di bevande alcoliche; tra questi, ben il 38,7% dichiara di far uso anche di droghe. tra coloro che fanno uso di droghe (31,5%), l’83,6% fa uso anche di alcol. Inciden-talmente, si osservi come il fumo sia un forte tracciante dell’uso di droghe (tra coloro che fumano, il 70,0% usa droghe; tra quelli che non fumano le usa solo il 14,2%).

tali associazioni tendono a rinforzarsi al crescere dell’età. Come si osserva nella prima riga di tabella 4.9, la prevalenza di coloro che non fanno uso di alcunché (47,2% a 14 anni) tende a diminuire con l’età. A 19 anni solo uno su dieci (11,6%) per-mane in quello stato. La proporzione di coloro che fanno uso solo di alcol tende a rimanere piuttosto stabile (e corposa: circa uno su tre). La flessione che si osserva dai 18 ai 19 anni (da 33,2% a 25,1%) è dovuta al fatto che i soggetti di 19 anni tran-sitano verso altre modalità, quelle con associazione, in partico-lare quella dove c’è uso congiunto di alcol, sostanze e fumo, che passa dal 25,6% dei 18 anni al 33,6% dei 19 anni. Si osservi inoltre un fatto importante: mentre la prevalenza dell’uso di sole sostanze o di solo tabacco è irrisoria (rispettivamente, sul com-plesso, del 2,0% e del 2,3%), l’alcol ha prevalenze consistenti sia da solo che in associazione.

113

In sintesi, i giovani presentano prevalenze elevate di nume-rosi fattori di rischio per la sicurezza stradale, come pure forti associazioni tra questi. Si tratta di rischi strettamente collegati ai loro comportamenti, che vengono poi esaltati anche da altri fattori (tra i quali il più subdolo e imponente è certo dato dalla disponibilità ormai universale dei telefoni cellulari, il cui utilizzo durante la guida è continuo tra i giovani, anche viaggiando in moto o su ciclomotore. Agire con decisione per ridurre la pre-valenza dei fattori più importanti (guida sotto l’influenza di al-col e/o droghe, telefonare o inviare sms guidando, eccedere

tab. 4.8. Matrice delle prevalenze e delle prevalenze condizionate, maschi, 14-19 anni, Amr/Iss, 2003 (N = 10.704, soggetti di tutte le regioni)

Alcol sì fumo sì Sostanze sì

Alcol sì 67,0 36,9 38,7Alcol no 33,0 16,7 16,1fumo sì 81,9 30,3 70,0fumo no 60,8 69,7 14,2Sostanze sì 83,6 68,9 31,5Sostanze no 60,8 13,6 68,5

Nota: I numeri con carattere più piccolo indicano le prevalenze d’uso; quelli più grandi, le prevalenze condizionate. Ad esempio, nella prima riga vediamo che utilizza alcol il 67,0% dei rispondenti; tra questi, il 36,9% fuma anche e il 38,7% assume anche droghe. Nei restanti soggetti che non fanno uso di alcol (seconda riga), invece solo il 16,7% fuma e solo il 16,1% fa uso di droghe.

tab. 4.9. Matrice di ripartizione dei rischi [Taggi, 1998], Amr2003, maschi (N = 10.704)a

Tipo consumo Età totale

14 15 16 17 18 19

nAnfnS 47,2 35,0 24,1 15,5 13,6 11,6 24,4A 36,2 37,2 37,1 33,9 33,2 25,1 34,7f 2,0 2,1 2,0 2,5 2,2 3,6 2,3S 0,7 1,3 2,3 2,1 2,7 2,7 2,0A&f 4,3 7,0 6,8 8,2 7,6 8,0 7,0A&S 1,9 4,8 7,6 10,7 10,9 10,4 7,8f&S 1,3 2,1 3,0 4,1 4,1 4,8 3,2A&f&S 6,4 10,5 17,1 23,1 25,6 33,6 18,6

totale 100,0 100,0 100,0 100,0 100,0 100,0 100,0

a Sono considerate tutte le possibili modalità di consumo di alcol (A), so-stanze d’abuso (S) e fumo di tabacco (f). Ad esempio, la modalità nAnfnS è quel-la dei soggetti che non fanno uso di nulla; la modalità A, quella di chi fa uso solo di alcol; A&f&S, quella di chi fa invece uso congiunto di alcol, fumo e sostanze.

114

nella velocità, non mantenere la distanza di sicurezza, viaggiare su lunghi percorsi di notte e in condizioni di stanchezza/sonno-lenza) appare assolutamente necessario per contrastare gli inci-denti stradali che, dal 1969 ad oggi, sono stati la causa di morte di più di 125.000 giovani sotto i trenta anni (un terzo della mor-talità della strada) e che, secondo stime dell’Iss, ne hanno resi gravemente invalidi più di 300.000.

note al capitolo quarto

1 Vedi la strategia europea Guadagnare salute in Oms [2006]. http://www.ministerosalute.it/imgs/C_17_pubblicazioni_818_allegato.pdf.

2 Il più recente atto è stato il Patto europeo per la salute e il benes-sere mentale siglato a Bruxelles il 13 giugno 2008.

3 Per la definizione di disabilità si veda Istat, Le condizioni di salute della popolazione, in Informazioni, vol. 12/2002.

4 I dati sul consumo di alcolici fuori pasto sono comparabili in serie storica dal 1998 per le persone 14 anni e più, mentre dal 2003 i quesi-ti sul consumo di alcol sono stati posti anche ai preadolescenti di 11-13 anni ampliando, inoltre, la rilevazione anche al fenomeno del binge drinking.

5 Il consumo di alcolici fuori dai pasti viene indicato come poten-zialmente a rischio per la salute quando la sua frequenza è almeno set-timanale.

6 I dati dei decessi espressi in valori assoluti misurano l’entità reale del fenomeno, tuttavia non consentono di confrontare in modo sempli-ce e sintetico la mortalità tra i due generi o tra anni diversi. Le differen-ze tra i gruppi, infatti, potrebbero essere imputabili non solo all’inten-sità del fenomeno bensì anche alla diversa struttura per età delle popo-lazioni considerate. Per eliminare tali effetti occorre fare riferimento ai tassi standardizzati ovvero ad indicatori che, neutralizzando gli effetti della diversa composizione per età, rendono confrontabile il fenomeno tra i diversi gruppi.

7 I dati per questo livello di dettaglio delle cause non sono riportati nelle tabelle poiché si è preferito dare una visione di sintesi più facil-mente apprezzabile.

8 Il rapporto su detta indagine, finanziata dal ministero delle infra-strutture e dei trasporti, può essere reperito sia sul sito www.iss.it/stra che sul sito www.iss.ssps.

115

capitolo quinto

gLI ANzIANI tRA BENESSERE E MALAttIA

1. Malattie croniche, salute percepita e stato psicologico

Nei paesi sviluppati, gli anziani rappresentano una quota di popolazione sempre più importante. In Italia, nel 2007 gli ultrasessantacinquenni erano 11.800.000 e rappresentavano il 20% dell’intera popolazione. Negli ultimi dieci anni essi sono aumentati del 20%: nel 1997 erano infatti 9.800.000 (17%). In futuro essi aumente-ranno ancora: le proiezioni Istat della popolazione (www.demo.istat.it) prevedono che nel 2020 essi saranno oltre 14 milioni (23% della popolazione) e nel 2050 oltre 20 milioni (33%).

La fase avanzata della transizione sanitaria che sta spe-rimentando il mondo occidentale, d’altra parte, ha come conseguenza una concentrazione delle malattie nell’ul-tima parte del corso di vita individuale. Alla base ci sono i miglioramenti nell’alimentazione e, più in generale, nelle condizioni di vita delle persone, i progressi scientifici e tecnologici della medicina recente e meno recente (che hanno permesso non solo di debellare o prevenire molte malattie acute e infettive, ma anche di prolungare la vita a molti malati cronici) e la realizzazione di sistemi sani-tari pubblici estesi a tutta la popolazione: essi hanno con-tribuito a delineare un quadro della morbilità sbilanciato verso le malattie cronico-degenerative proprie dell’età anziana. Conoscere e monitorare lo stato di salute della popolazione anziana significa, dunque, non solo tenere sotto controllo la qualità della vita di una fascia sempre più ampia di popolazione, ma anche accendere un riflet-tore su una domanda di cure e assistenza che assorbe una quota importante della spesa sanitaria e sociale: si stima infatti che nei paesi sviluppati i costi delle cure sanitarie

116

per gli anziani siano da tre a cinque volte più alti di quelli sostenuti per le cure sanitarie della popolazione più gio-vane [Cdc 2007].

In questo capitolo si analizzeranno le condizioni di sa-lute degli anziani che vivono in famiglia utilizzando i dati della Indagine nazionale sulle condizioni di salute e il ri-corso ai servizi sanitari condotta dall’Istat nel 20051 [Istat 2007a]. Il riferimento ai soli anziani in famiglia fa trascu-rare evidentemente quanti sono ospiti di istituti. Consi-derando, tuttavia, che in Italia la quota di ultra-sessanta-cinquenni in istituto è, oltre che sostanzialmente invariata dagli anni ’90, anche relativamente bassa (2%) rispetto ad altri paesi europei o nordamericani [tomassini 2004], si può ritenere che la fotografia che emerge dall’analisi de-gli anziani in famiglia sia sufficientemente rappresentativa dell’intero aggregato nazionale. Con qualche cautela, tale valutazione può essere estesa anche alle età più avanzate, dove più forte è il tasso di istituzionalizzazione. Conside-rando che nel 2004 gli anziani ospiti di istituti erano per il 14,4% in età 65-74, per il 15,6% in età 75-79 e per il 70% in età 80 e oltre [Istat 2007c], con semplici calcoli si può stimare che, nel primo decennio degli anni duemila, coloro che vivono in famiglia rappresentino la quasi totalità degli anziani e, alle età elevate, la stragrande maggioranza: tra i 65-75enni sono il 99,5%; tra i 75-79enni il 98,5%; tra gli ultraottantenni il 94,3%.

Le malattie croniche sono la principale causa di peg-gioramento della qualità della vita degli anziani. Secondo la tabella 5.1, che presenta la distribuzione del numero di malattie croniche tra gli anziani di diverse classi d’età, la stragrande maggioranza degli anziani italiani ha almeno una malattia cronica2. già a 65-69 anni una quota varia-bile tra il 70 e l’80% dichiara di avere almeno una malat-tia cronica e con l’età la prevalenza aumenta: tra i grandi vecchi quelli malati sono nove su dieci. Le donne risultano più malate degli uomini: a pari classe d’età, esse registrano livelli di morbilità superiori a quelli dei maschi che oscil-lano tra i dieci (65-69 anni) e i quattro (85+) punti per-centuali. Sembra dunque che al crescere dell’età ci sia una specie di livellamento tra uomini e donne per quanto ri-guarda la prevalenza delle malattie croniche.

117

Non irrilevante è peraltro la quota di anziani affetti da tre o più malattie croniche. La presenza di malattie cro-niche multiple è un fenomeno tipico dell’età anziana: ad essa si associano alti rischi di disabilità, stress psicologico, in generale, caduta della qualità della vita, oltre che au-mento del rischio di mortalità. tutto ciò comporta inevita-bilmente rischi aumentati di ospedalizzazione e utilizzo di farmaci e cure sanitarie e assistenziali.

Poco più di un terzo degli uomini e circa la metà delle donne sono multicronici3. tra i grandi vecchi la maggio-ranza degli anziani ha tre o più malattie croniche, ma tra i più giovani la percentuale di multicronici oscilla comun-que tra il 29% (uomini) e il 39% (donne).

Le donne a tutte le età risultano più colpite degli uo-mini dal fenomeno.

Un quadro di questo tipo mette in luce bisogni com-plessi ed articolati che hanno ricadute sulle modalità di cura e assistenza fornite a questo tipo di malati (si pensi solo ai problemi legati all’assunzione dei farmaci), nonché sulle competenze richieste al personale sanitario.

tab. 5.1. Distribuzione del numero di anziani per sesso, età e numero di malattie croniche. Anno 2005

uomini

Nessuna 1-2 3 o più totale

65-69 29,1 42,3 28,7 10070-74 22,9 43,0 34,1 10075-79 16,1 43,9 40,0 10080-84 15,5 40,5 44,1 10085 e più 11,1 37,0 51,9 10065 e oltre 21,7 42,2 36,1 100Tasso std a 21,1 42,0 36,9 100

donne

Nessuna 1-2 3 o più totale

65-69 19,9 41,1 39,0 10070-74 15,6 37,7 46,7 10075-79 12,5 38,7 48,8 10080-84 10,3 34,0 55,8 10085 e più 8,1 32,7 59,3 10065 e oltre 14,3 37,6 48,0 100Tasso std a 14,7 37,9 47,3 100

a Standardizzazione con popolazione tipo al Censimento 2001.

118

Ma di quali croniche soffrono gli anziani? dall’esame della prevalenza delle prime dieci più diffuse malattie cro-niche emerge un quadro differenziato tra uomini e donne (fig. 5.1).

Entrambi i sessi condividono alcuni tipi di malattie croniche di media o limitata prevalenza quali il diabete, la cataratta, le malattie del cuore diverse da infarto del miocardio e angina pectoris e le malattie allergiche. En-trambi, inoltre, hanno in comune quelle più diffuse, re-lative all’apparato muscolo-scheletrico (artrosi e artrite) e al sistema circolatorio (ipertensione arteriosa). L’artrosi e l’artrite interessano circa i tre quarti dei malati cronici. già molto diffuse tra gli anziani più giovani (ben il 46% degli uomini e il 52% delle donne di 65-69 anni dichia-rano di soffrire di queste malattie), crescono rapidamente con l’età: oltre gli 85 anni la malattia colpisce la quasi to-talità dei malati cronici (interessa infatti il 76% degli uo-mini e il 73% delle donne). Si tratta peraltro di una pato-logia con relativamente moderati effetti disabilitanti: i tassi di disabilità4 associati agli anziani che presentano questo tipo di malattia oscillano infatti tra il 21 (uomini) e il 29% (donne). L’ipertensione arteriosa riguarda un po’ più della metà dei malati cronici. A differenza delle malattie dell’ap-parato muscolo-scheletrico l’ipertensione arteriosa non ha un netto gradiente per età: tra gli uomini si passa dal 32% (65-69) al 40% (80-84); tra le donne si oscilla tra il 40% (65-69) e il 49% (80-84). Anche questo tipo di malattia è associata peraltro a tassi di disabilità relativamente conte-nuti (14,9% per gli uomini e 26,3% per le donne).

Alcune malattie croniche sono però specifiche di cia-scun sesso: osteoporosi e depressione/ansietà cronica sono malattie proprie delle donne (rispettivamente 30 e 16% delle ultra-sessantacinquenni); le malattie dell’apparato respiratorio e l’infarto del miocardio riguardano invece soprattutto i maschi (la bronchite cronica/enfisema inte-ressa quasi un anziano su cinque). L’osteoporosi – la terza malattia più diffusa tra le donne (tasso di disabilità pari al 30%) – è una malattia che non presenta un forte gradiente per età della donna: le percentuali più alte (33%) riguar-dano le 80-84enni e quelle più basse (25%) le 65-69enni. Al contrario, la bronchite cronica /enfisema polmonare

119

14,6

17,5

35,9

50,5

10,9

9,7

9,5

7,4

7,4

6,7Malattie allergiche

UOMINI

Depressione e ansietà cronica

Asma bronchiale

Infarto del miocardio

Cataratta

Altre malattie del cuore

Diabete

Bronchite cronica, enfisema

Ipertensione arteriosa

Artrosi, artrite

0 10 20 30 40 50 60 70

16,5

29,2

43,9

60,7

14,5

14,4

11,7

11,6

11,5

9,5Malattie allergiche

DONNE

Depressione e ansietà cronica

Cefalea o emicrania ricorrente

Osteoporosi

Cataratta

Altre malattie del cuore

Diabete

Bronchite cronica, enfisema

Ipertensione arteriosa

Artrosi, artrite

0 10 20 30 40 50 60 70

Fig. 5.1. Prime dieci malattie croniche più diffuse negli anziani, per sesso.

120

– terza malattia più diffusa tra i maschi (tasso di disabilità del 25%) – ha una rapida crescita con l’età: a 65-69 anni riguarda solo il 12% degli uomini; oltre gli 85 anni ben il 28%. Se la dinamica osservata per età trovasse riscontro anche a livello generazionale, questi risultati evidenziereb-bero modalità di insorgenza differenziate per età su cui in-nestare specifici programmi di prevenzione, cura o riabili-tazione.

L’esame delle malattie croniche non può concludersi senza avere fatto qualche cenno a due tipi di patologie che, combinando un decorso relativamente lungo con un alto tasso di disabilità, hanno un forte impatto sulla qualità della vita dei pazienti e dei loro familiari: il parkinsonismo e l’alzheimer/demenza senile. L’esame del trend per età è in linea con quanto è noto per queste malattie e cioè che si tratta di patologie che colpiscono le età elevate. A 75-79 i malati di alzheimer/ demenza senile sono solo l’1,7% e altrettanti sono quelli colpiti da parkinsonismo. Oltre gli 80 anni però c’è un netto aumento, più veloce per la de-menza senile, più contenuto per il parkinsonismo: oltre gli 85 anni coloro che soffrono della prima malattia raggiun-gono il 10% mentre quelli che soffrono della seconda ma-lattia diventano il 4%.

dai dati non emergono importanti differenze di genere nella prevalenza del parkinsonismo (semmai si registra una debole prevalenza tra gli uomini). fino agli 85 anni non ri-sultano differenze di genere neppure per quanto riguarda la malattia di alzheimer e la demenza senile. Solo nell’ul-tima classe aperta, emerge una netta prevalenza del feno-meno tra le donne (11% contro il 6% degli uomini), ma in questo gruppo potrebbe operare anche un effetto età dovuto alla maggiore sopravvivenza femminile. Nel com-plesso, gli ultra65enni che soffrono di alzheimer/demenza senile sono il 2,2% per un totale di 248 mila individui; quelli colpiti da parkinsonismo sono l’1,4% pari a 159 mila persone. L’indagine sottostima senza dubbio la pre-valenza di queste patologie. dai pochi studi epidemiolo-gici svolti nel nostro Paese [Ilsa Working group, 1997; di Carlo et al. 2002] su queste malattie, tra gli anziani in età 65-85 anni, risultano prevalenze più alte sia di parkinsoni-smo (3% per uomini e donne), sia di demenza senile/al-

121

zheimer (5% per gli uomini e 7% per le donne). Rispetto a questi studi, nel nostro caso mancano evidentemente al-l’appello quanti, proprio a causa della malattia, sono rico-verati in istituto e quanti non sono ancora consapevoli di soffrire della malattia perché colpiti da forme ancora mo-deratamente severe. disporre di un quadro della loro pre-valenza per sesso ed età tra quelli che vivono in famiglia permette tuttavia di quantificare quanto meno una soglia minima (reticenze delle stesse famiglie intervistate sono possibili) di bisogni di assistenza espressi da anziani ad alto assorbimento di cure5 e da familiari coinvolti in un’at-tività di assistenza fortemente assorbente.

Se si esamina le condizioni di salute degli anziani con l’indicatore di salute percepita, il quadro che emerge è però meno negativo di quanto si ricava esaminandola at-traverso la prevalenza delle malattie croniche.

La maggior parte degli anziani dichiara, infatti, di es-sere in buona o discreta salute: cattiva salute è riportata solo dal 20% degli intervistati. tra i più giovani, quelli in cattiva salute sono una minoranza, anche tra le donne che sistematicamente dichiarano condizioni di salute peggiori degli uomini (fig. 5.2).

Per gli uomini bisogna arrivare agli ottantenni perché almeno uno su quattro dichiari di essere in cattiva salute; per le donne l’età a cui viene raggiunta la stessa propor-zione di cattiva salute arriva cinque anni prima. tra i grandi vecchi resta comunque una quota relativamente alta (tra gli uomini il 68%; tra le donne il 61%) di persone che dichiarano di sentirsi in buona o discreta salute. L’afferma-zione resta vera indipendentemente dalla consapevolezza che con il crescere dell’età opera una selezione che tende a trattenere in famiglia persone mediamente più sane di chi entra in istituto. È interessante peraltro, che a tutte le età i tassi di cattiva salute percepita sono sistematicamente più bassi dei tassi di presenza di malattie croniche (ad esempio, tra le donne di 80-84 anni la quota di persone affette da almeno una malattia cronica è del 89,8%, ma quelle che riportano una cattiva salute sono solo il 31%): ciò fa ritenere che a dispetto delle patologie dichiarate, gli anziani in famiglia – cioè la stragrande maggioranza degli anziani italiani – riescano a vivere questa fase della vita in

122

condizioni di relativa buona salute complessiva e presumi-bilmente, dunque, anche relativa buona qualità della vita.

Questa impressione sembra confermata anche dai dati della figura 5.3, che presenta come gli anziani descrivono il loro stato d’animo e l’interesse nei confronti della vita. Vo-lendo attribuire a questo semplice indicatore il significato di una proxy dello stato psicologico degli anziani, si do-vrebbe dedurre che, nonostante la presenza di acciacchi e malattie croniche, gli anziani dei giorni nostri mantengono una certa vitalità e gusto per la vita. gli infelici (molto o abbastanza) ci sono. tra le donne, lo è il 16,6% delle 65-

1009080706050403020100

80-84 85+70-74 75-7965-69Età

UOMINI

9,3 13,4 19,2 23,7 32,2

53,057,0

59,8 57,752,9

37,7 29,6 21,1 18,6 14,9

80-84 85+70-74 75-7965-69Età

DONNE

Bene o molto bene Discretamente Male o molto male

14,5 19,2 25,7 31,4 38,7

56,860,2

58,3 54,151,2

28,6 20,6 16,0 14,5 10,1

1009080706050403020100

Fig. 5.2. Salute percepita degli anziani per età e sesso.

123

69enni e il 37,6% delle grandi vecchie. gli uomini sem-brano trovarsi in condizioni migliori delle donne: nelle età più giovani gli infelici sono una minoranza (10%) e biso-gna arrivare ai grandi vecchi per trovare un 31% di infe-lici. Sarebbe importante approfondire le ragioni di queste differenze di genere per capire se all’origine sussistono dif-ferenze di patologia e disabilità (es. maggiore depressione) o anche differenze legate al corso di vita individuale (es. solitudine), superabili o prevenibili con interventi di na-tura non sanitaria.

UOMINI

DONNE

Felice ed interessato alla vita Abbastanza felice Abbastanza infelice

Infelice o molto infelice

80-84 85+70-74 75-7965-69Età

2,8

7,4

4,6

10,0 19,25,8

13,516,6

59,4 60,2 59,858,6

54,6

30,5 25,2 22,6 18,4 14,4

1009080706050403020100

80-84 85+70-74 75-7965-69Età

3,9

12,7

6,4

15,7 17,7

8,4

20,2

12,7

19,7

17,9

59,457,9 58,8 53,5 51,6

24,0 20,0 15,1 13,6 10,8

1009080706050403020100

9,5 14,4

Fig. 5.3. gli anziani si descrivono come una persona abitualmente...

124

Resta tuttavia il fatto che quelli infelici o molto infelici solo una minoranza, che la maggior parte degli anziani vi-vono una condizione psicologica complessivamente positiva e che da tale condizione non sono esclusi neppure gli an-ziani di età più elevata (almeno il 60% dei grandi vecchi dichiara di essere relativamente felice e interessato alla vita).

Lo stato di salute degli anziani non è però omogeneo al variare del contesto ambientale e delle caratteristiche individuali [Rueda et al. 2008]. In questa nota si prende-ranno in considerazione solo due fattori che possono avere implicazione sulla salute degli anziani: le risorse personali (livello di istruzione) e il contesto territoriale (area di resi-denza).

Esistono ormai numerosi studi che mostrano l’esistenza di una correlazione positiva tra condizioni socio-economi-che e stato di salute in età anziana. Il fenomeno è genera-lizzato [Huisman et al. 2003], ma non è ancora chiaro in che misura ciò sia frutto di differenti esposizioni a fattori di rischio durante la fasi di vita precedenti e in che mi-sura dipenda da differenti condizioni in età anziana, legate a differenze nelle risorse personali materiali e non. L’istru-zione, in particolare, risulta associata positivamente con la longevità e negativamente con il tempo trascorso in cattiva salute [deboosere e Neels 2008].

La tabella 5.2, che mostra i tassi standardizzati di al-cune misure di (cattiva) salute degli anziani secondo il ti-tolo di studio degli anziani, conferma che questi risultati sono applicabili anche agli anziani dei giorni nostri. Co-loro che hanno un titolo alto presentano condizioni di sa-lute migliore di quelli con titolo medio o basso e quelli che hanno titolo medio presentano generalmente condizioni di salute migliori di chi ha un titolo basso. Il fenomeno ri-guarda entrambi i sessi: prendendo come base le condi-zioni degli anziani con istruzione alta, quelli con istruzione bassa registrano livelli di multicronicità superiori del 12-16% e prevalenze di «infelicità»6 quasi doppi (85-92%).

differenze non irrilevanti di salute si registrano anche tra gli anziani che vivono nelle diverse aree della penisola (tab. 5.3). I tassi standardizzati che misurano la multi-cronicità, la percezione della salute e lo stato psicologico degli anziani risultano sistematicamente più alti nel Mez-

125

zogiorno rispetto al Nord. Le differenze risultano partico-larmente forti per quanto riguarda la percezione sogget-tiva di uno stato di cattiva salute. Analisi più dettagliate qui non riportate per ragioni di spazio, mostrano che tassi e relative differenze non cambiano anche utilizzando una standardizzazione congiunta per età e titolo di studio dei residenti. Le ragioni delle forti differenze tra Nord e Sud del paese possono evidentemente essere imputabili anche ad altre caratteristiche strutturali degli anziani non tenute sotto controllo nella presente analisi. Studi più approfon-diti alla ricerca dei fattori che sono all’origine di queste differenze, sono pertanto auspicabili. Va infatti sgombrato

tab. 5.2. Tassi standardizzati di multicronicità, percezione di cattiva salute e infe-licità per sesso e titolo di studio degli anziani. Anno 2005

Misure di malessere Altoa Mediob Bassoc

uomini

3+ malattie croniche 32,8 37,1 38,1Percez.ne cattiva salute 10,8 15,1 18,9Infelicità 3,6 5,4 6,8

donne

3+ malattie croniche 43,1 47,4 48,1Percez.ne cattiva salute 14,5 20,3 24,6Infelicità 4,6 7,0 8,8

Note: a laurea e diploma di scuola media superiore; b diploma di scuola me-dia inferiore; c nessun titolo o licenza elementare.

tab. 5.3. Tassi standardizzati di multicronicità, percezione di cattiva salute, infeli-cità per sesso e ripartizione territoriale di residenza degli anziani. Anno 2005

Misure di malessere Nord-Ovest Nord-Est Centro Sud Isole

uomini

3+ malattie croniche 34,0 35,3 39,8 37,5 38,0Percez.ne cattiva salute 13,2 12,3 18,9 21,2 21,4Infelicità 5,3 5,1 5,6 7,4 7,5

donne

3+ malattie croniche 43,0 46,9 49,9 47,5 52,5Percez.ne cattiva salute 16,5 16,1 23,0 23,6 27,8Infelicità 6,7 7,7 8,2 8,9 11,1

126

il dubbio che su questi risultati possa pesare anche una bassa omogeneità di accesso ai servizi sanitari (e, perché no, sociali) e di prestazioni offerte dal Servizio sanitario nazionale.

Quanto osservato suggerisce, peraltro, alcune conside-razioni. La prima è che nel paese sussistono ancora squi-libri tra la popolazione anziana in termini di salute, che una politica attenta dovrebbe imporsi quantomeno di at-tenuare. La seconda è che esiste evidentemente ancora spazio per migliorare le condizioni di salute e dunque la qualità della vita della popolazione anziana operando sulla disponibilità di risorse materiali e culturali. È stato detto che l’obiettivo di un invecchiamento sano è morire gio-vane il più tardi possibile nella vita. Investimenti orientati a rimuovere i fattori di decadimento della salute in età an-ziana potranno non solo avvicinare questo obiettivo ma anche contenere i rischi di appesantimento della domanda di cura (cfr. box 5.1) derivante dall’aumento della popola-zione anziana nei prossimi decenni.

2. Gli anziani disabili che vivono in famiglia

I disabili di cui si parla in questa nota sono quelli che vivono in famiglia. dall’analisi sfuggono pertanto quelli che vivono in istituto. I dati dell’Indagine Istat sui presìdi residenziali sociosanitari permettono di stimare la quota di disabili trascurata. Considerando che nel 2004 gli ultra-sessantacinquenni non autosufficienti in istituto erano 157 mila individui, pari al 70,3% di tutti gli ospiti degli istituti (66,5% se maschi e 71,4% se femmine), semplici calcoli permettono di concludere che, concentrarsi su quelli in famiglia nel 2005, significa trascurare il 7% del totale dei disabili. Con qualche approssimazione7 si può valutare an-che come cambia tale percentuale al crescere dell’età degli anziani: ipotizzando che i tassi di disabilità in istituto siano costanti per età8, si può stimare che tra i 65-74enni si tra-scuri il 4,7% dei disabili, tra i 75-79enni il 5,5%, tra gli ultraottantenni l’8,4%. Nonostante l’elevata prevalenza di non autosufficienti in istituto, il basso tasso di istituziona-lizzazione fa sì che, nel complesso, i disabili anziani viventi

127

in famiglia siano sufficientemente rappresentativi dei disa-bili anziani nel complesso.

Approfondimenti su di essi possono fornire pertanto elementi importanti per cogliere la domanda di cure sani-tarie e assistenziali che provengono da questa popolazione.

Quasi un anziano su cinque (19%) che vive in famiglia è disabile (per la definizione di disabile si veda la nota 3 del presente capitolo): in valore assoluto si tratta di circa 2 milioni di individui di cui quasi 900 mila donne ultraot-tantenni. Il tasso di disabilità ha un evidente gradiente per età: da una classe quinquennale all’altra c’è pressoché un raddoppio (tab. 5.4), cosi ché, se a 65-69 anni la percen-tuale di disabili è pressoché irrilevante, tra i grandi vecchi i disabili sono più della metà (60%). Come per altre con-dizioni di salute, anche in questo caso le donne sono più colpite degli uomini dal fenomeno e ciò a qualsiasi età. già a 65-69 anni la quota di donne disabili è due punti percentuali superiore a quella degli uomini; a 85 o oltre la differenza è di 13 punti percentuali. Ciò non stupisce considerando che, rispetto agli uomini, le donne sono maggiormente colpite da malattie croniche, in particolare da malattie croniche invalidanti come l’osteoporosi o l’Al-zheimer.

Le disabilità più comuni (12,4%) riguardano le fun-zioni della vita quotidiana (quali, per esempio, mangiare da solo o farsi il bagno/doccia). I problemi di movimento e il confinamento individuale sono nell’ordine il secondo e il terzo tipo di conseguenza della disabilità: ciascuno di essi interessa poco meno di un anziano su dieci (i tassi sono rispettivamente il 9,4 e l’8,7%). difficoltà della vista, udito e parola riguardano invece una quota relativamente

tab. 5.4. Tassi di disabilità (per 100 persone) per sesso ed età degli anziani

Classi d’età Uomini donne totale

65-69 4,3 6,5 5,570-74 7,7 11,4 9,775-79 13,4 20,8 17,880-84 27,9 39,0 35,185 e oltre 50,4 63,7 59,665 e oltre 13,3 22,5 18,7

128

bassa di anziani (4%). Questo ordine di prevalenza si rin-traccia sia tra gli uomini che tra le donne e pressoché a tutte le età fino agli 85 anni (fig. 5.4). dopo questa età, le difficoltà nel movimento (27%) lasciano il passo al con-finamento (34%): in valore assoluto gli ultra65enni confi-nati che vivono in famiglia sono un milione e di questi 350 mila sono rappresentati da grandi vecchi (di cui 268 mila donne).

Come per le precedenti misure di salute, anche la disa-bilità non è uniformemente distribuita tra i gruppi sociali [tabassun et al. 2008; Bootsma van der Wiel et al. 2005] e sul territorio.

tassi crescenti di disabilità si registrano al diminuire del livello di istruzione. Le differenze sono forti e non di-pendono da differenze di struttura per età dei diversi con-tingenti di popolazione (tab. 5.5): tra i settantenni maschi quelli con basso titolo di studio hanno livelli di disabilità che sono doppi di quelli con titolo alto; differenze un po’

Difficoltà vista, udito e parolaD

onne

Uom

ini

Difficoltà nel movimento

Difficoltà nel movimento

Disabilità nelle funzioni

Confinamento individuale

Difficoltà vista, udito e parola

Difficoltà nelle funzioni

Confinamento individuale

%0 10 20 30 40 50 60

65-69 70-74 75-79 80-84 85 e più

Fig. 5.4. Prevalenza dei diversi tipi di disabilità per sesso ed età degli anziani.

129

più attenuate ma comunque sull’ordine di quasi il doppio riguardano anche le donne settantenni. tra gli ottantenni le differenze di disabilità per titolo di studio si riducono un po’, ma lo scarto a sfavore dei titoli più bassi resta.

Come per gli altri indicatori di malattia analizzati al punto 5.1, anche i tassi di disabilità sono più alti nel Mez-zogiorno rispetto al Centro-Nord. differenze particolar-mente rilevanti riguardano gli uomini di 75 e più anni e le donne a partire dai 70 anni. Approfondimenti orientati a capire in che misura tali differenze dipendono da disomo-geneità territoriali nell’accesso agli istituti e in che misura da differenze di patologia tra gli anziani del paese sareb-bero utili per intervenire in modo più appropriato ad atte-nuare le disuguaglianze territoriali.

Ma qual è lo stato psicologico dei disabili? Uno su due dichiara di essere infelice o abbastanza infelice; uno su cinque (22%) è infelice. Se si considera che le stesse per-centuali per l’intero campione di anziani sono rispettiva-mente il 21,4% e il 7,3%, è evidente che una quota non marginale di disabili sperimenta condizioni psicologiche poco favorevoli. Il fenomeno non è influenzato dalla mag-giore anzianità media dei disabili né dal fatto che la mag-

tab. 5.5. Tassi di disabilità per età, sesso e titolo di studio degli anziani

Classi di età Bassoa Mediob Altoc

uomini

65-69 5,5 3,7 1,770-74 9,2 4,7 5,475-79 14,3 12,7 9,880-84 30,0 26,2 19,485+ 48,2 63,8 42,565 e oltre 15,2 11,5 8,5

donne

65-69 7,2 5,4 4,370-74 12,5 9,3 6,375-79 22,0 20,5 10,080-84 41,3 31,8 26,985+ 65,6 56,9 54,865 e oltre 24,9 17,8 12,2

Note: a nessun titolo o licenza elementare; b licenza media inferiore; c licenza media superiore o laurea.

130

gioranza di essi è di sesso femminile (fig. 5.6). La propor-zione di persone infelici o poco felici sembra essere poco variabile al variare dell’età dei soggetti ed è ampia anche (e soprattutto) nelle età più giovani. tra tutti i maschi di 65-69 anni, per esempio, la quota di persone che dichiara di sentirsi in questa condizione è solo del 10% (si vedano i dati di fig. 5.3), ma tra il sottogruppo dei disabili di que-sta classe d’età essa raggiunge il 50%. Risultati analoghi ri-guardano le donne.

tutto ciò lascia adito a interrogativi sulla qualità della vita di queste persone. In che misura la disabilità si associa a patologie depressive? In che misura le seconde sono una conseguenza della prima? Esistono altri fattori esterni che possono concorrere a peggiorare lo stato psicologico degli anziani disabili? Che spazio c’è per mirati interventi socio-assistenziali o psicologici?

Un fattore importante per il benessere delle persone anziane è il contesto familiare in cui sono inseriti [Ongaro 2002]. Come per tutti gli anziani nel loro insieme, il tipo di famiglia in cui vivono quelli disabili dipende molto dal sesso (fig. 5.7). Le donne, che hanno più alta probabilità degli uomini di restare vedove, per la maggior parte vi-vono: da sole, con il coniuge, in un nucleo monogenitore o aggregate al nucleo familiare di un parente (figli); po-

tab. 5.6. Tassi di disabilità per sesso, età e ripartizione geografica di residenza

Classi di età Nord-Ovest Nord-Est Centro Sud Isole

uomini

65-69 2,6 3,5 4,8 6,4 5,270-74 7,3 5,7 7,6 9,1 9,575-79 9,9 12,6 13,5 15,5 19,080-84 30,9 23,7 17,7 32,2 41,985+ 45,2 47,8 52,8 52,8 56,165 e oltre 11,4 11,8 12,8 15,4 17,9

donne

65-69 5,5 4,3 5,8 8,8 9,470-74 9,4 8,6 9,8 16,2 15,575-79 19,1 17,5 18,6 25,5 27,180-84 32,8 33,1 39,8 42,8 61,785+ 60,0 56,3 64,4 71,4 71,365 e oltre 19,5 19,5 22,1 26,5 29,7

131

chissime vivono con marito e figli. gli uomini, che hanno più probabilità di trascorrere gli ultimi anni di vita con ac-canto la moglie, per la maggior parte vivono: con la mo-glie, da soli, con moglie e figli. Colpisce che gli squilibri di genere restino molto accentuati anche in presenza di disabilità: di fatto gli uomini disabili, per oltre la metà (se si considerano anche quelli che vivono con moglie e figli, la percentuale arriva addirittura al 70%), condividono la loro vita con la moglie; le donne disabili invece, per metà, vivono da sole.

UOMINI

DONNE

Felice ed interessato alla vita Abbastanza felice Abbastanza infelice

Infelice o molto infelice

80-84 85+70-74 75-7965-69Età

1009080706050403020100

80-84 85+70-74 75-7965-69Età

1009080706050403020100

19,0

31,8

23,9

29,3 32,3

21,0

23,5

21,1

16,6

14,4

41,9 38,3 38,5 50,5 54,6

7,3 8,5 8,24,9

14,4

47,7

36,1

22,3

32,7 28,6

23,3

28,5

22,3

23,8

24,3

35,6 35,7 40,5 43,1 44,4

10,7 9,3 7,7 6,1 7,5

Fig. 5.6. gli anziani disabili si descrivono come una persona abitualmente ...

132

Vivere da soli in età anziana non è sempre sinonimo di solitudine: la contiguità abitativa di figli e parenti soppe-risce spesso alla mancata coresidenza; la presenza di aiuti a pagamento (badanti) è un’altra soluzione che le famiglie italiane hanno recentemente adottato per fornire assistenza agli anziani non più autosufficienti o particolarmente avanti in età. La tabella 5.7, che fornisce la quota di an-ziani che usufruiscono di aiuti esterni per tipo di famiglia ed età, indica che la quota di anziani disabili che usufrui-sce di assistenza esterna alla famiglia è pari al 14%.

gli aiuti di questo tipo crescono ovviamente con l’età dell’anziano (uno su quattro dei grandi vecchi è assistito da personale esterno a pagamento) e in presenza di an-ziani che vivono da soli (uno su cinque ne usufruisce). Quasi uno su tre dei grandi vecchi che vivono soli hanno assistenza esterna. Resta da approfondire che tipo di assi-stenza abbiano gli altri due che vivono soli e se in queste condizioni si celino situazioni di marginalità oltre che di disagio.

Ma quali sono le condizioni di salute dei familiari che vivono con un anziano disabile? Nella tabella 5.8 si riportano alcune misure di (cattiva) salute calcolate per

DonneUomini

60

50

40

30

20

10

0

%

Solo Coppiasola

Coppiacon figli

Mono-genitore

Anzianoaggregato

ad unnucleo

Disabilein nucleoallargato/

altrinuclei

In famigliasenzanuclei

Fig. 5.7. distribuzione percentuale dei disabili maschi e femmine per tipologia familiare.

133

i coniugi degli anziani disabili. I risultati indicano che in molti casi queste famiglie sperimentano un aggravio di problemi. L’elevata età media dei componenti configura coppie fragili dal punto di vista della salute: circa metà dei coniugi soffrono di muticronicità e almeno un terzo sono essi stessi disabili. Le situazioni di maggiore fragilità della coppia, ancora un volta, riguardano le anziane disabili che, avendo mariti mediamente più anziani, hanno più alte pro-babilità dei disabili maschi di condividere il loro problema con il coniuge.

L’analisi delle condizioni di salute della popolazione anziana evidenzia dunque luci ed ombre. Pure in presenza di malattie croniche diffuse, gli anziani dei primi anni duemila mostrano una «vitalità» e un interesse per la vita, che permangono anche ad età relativamente alte. Ciò pre-figura una concezione meno cupa e triste dell’ultima parte del corso di vita individuale e pone le premesse per ripen-sare anche ad un nuovo ruolo degli ultra-sessantacinquenni nella società. A fronte di ciò emergono peraltro situazioni critiche legate alla disabilità in cui sembrano concentrarsi una molteplicità di problemi: fragilità associata ad età ele-vate, infelicità e solitudine.

tab. 5.7. Percentuale di disabili assistiti da personale a pagamento per età dell’an-ziano e tipologia familiare

famiglia Età totale

65-74 75-84 85+

Solo 6,5 16,1 29,0 19,3Coppia sola 5,5 11,0 17,3 10,5Altro 6,6 10,3 19,9 12,6

totale 6,1 12,8 23,5 14,6

tab. 5.8. Condizioni di salute dei coniugi di anziani disabili che vivono in coppia

Stato di salutedel coniuge di disabile

Moglie dianziano disabile

Marito dianziana disabile

Multicronicità (3+) 52,1 49,4Salute percepita cattiva/m. cattiva 35,1 35,9Infelice o m. infelice 11,6 9,0disabile 33,8 40,9

134

tutto ciò suggerisce, da un lato, politiche di preven-zione e riabilitazione che incentivino il mantenimento degli anziani in condizioni di relativo benessere (e le differenze riscontrate tra i gruppi sociali e territoriali fanno ritenere che ci sia ancora ampio spazio per miglioramenti), dall’al-tro, interventi mirati (e costosi) per far fronte ai bisogni della parte più debole e sofferente di questa popolazione. Nel prossimo futuro i disabili dovrebbero aumentare meno velocemente di quanto aumenteranno gli anziani (cfr. box 5.2). Nei prossimi dieci, quindici anni entreranno inoltre in età anziana generazioni che, per dinamica della sopravvivenza e biografie familiari, avranno una rete fa-miliare ancora non troppo assottigliata [Ongaro 2009]: se non è certo che possano disporre della «risorsa figli» con la stessa ampiezza di chi li ha preceduti, è però molto pro-babile che possano condividere con il coniuge tratti più lunghi di vita in età anziana. Insomma, il quadro un po’ si complica, ma non è ingovernabile, e lascia margini per programmare interventi e politiche in questa direzione.

box 5.1

i costi della disabilità in italia

I costi della disabilità si riferiscono ai servizi di long-term care (Ltc) necessari per garantire assistenza continuativa alle persone in condizioni di non autosufficienza. La necessità di assistenza continuativa tocca la popolazione non autosufficiente di ogni età anche se si concentra maggiormente nelle età più anziane.

In genere si distinguono tre categorie di costi sociali legati alla disabilità: a) costi monetari diretti per l’acquisto di beni e servizi socio-sanitari, per l’assistenza presso strutture residenziali e semiresidenziali, per l’assistenza domiciliare formale e infor-male; si tratta sia di costi privati sostenuti dai non autosufficienti e loro famiglie, sia di costi pubblici sostenuti dal Ssn e dagli enti responsabili dei servizi socio-assistenziali; b) costi monetari indi-retti (perdite nette di produttività della persona divenuta non au-tosufficiente e dei familiari care-giver che modificano le loro abi-tudini di vita e di lavoro); c) costi non monetari o intangibili (si esprimono in termini di sofferenza fisica e psicologica – burn-out – della persona disabile e dei suoi care-giver formali e informali).

135

Alcuni studi hanno cercato recentemente di quantificare i costi della disabilità in Italia, limitandosi però alla sola prima categoria dei costi diretti [Capp et al. 2004; Rebba e Romanato 2005; Montanelli e turrini 2006]. In alcuni casi, l’analisi viene circoscritta al calcolo dei costi dei soli servizi di assistenza do-miciliare [Scaccabarozzi et al. 2005] o dei servizi di assistenza residenziale quali Rsa e presidi socio-assistenziali [Virgilio et al. 2007]. Molti studi si sono invece concentrati sulla valutazione dei costi legati a specifiche patologie croniche che determinano grave disabilità, quali ad esempio la malattia di Alzheimer.

Peraltro, anche la sola quantificazione dei costi monetari di-retti è piuttosto complessa in quanto molto spesso si riscontra una relazione non del tutto chiara (talora molto debole) tra li-vello di disabilità (misurato ad esempio con una scala Adl) e co-sti effettivi di assistenza. Infatti, l’impegno di risorse assistenziali viene sovente determinato sulla base di un percorso assistenziale (ricovero in struttura residenziale, accesso ad un centro diurno, assistenza domiciliare, ecc.) che, a parità di tipo e livello di disa-bilità, può modificarsi in funzione di una serie di fattori contin-genti quali l’offerta locale di servizi, gli orientamenti dei medici e degli assistenti sociali, la disponibilità delle famiglie. Per ov-viare a tale problema, molti degli studi sopra citati ipotizzano, in primo luogo, la disponibilità di una dotazione omogenea sul territorio di servizi di Ltc di diverso tipo e, in secondo luogo, per ogni tipologia e livello di disabilità (classe di iso-bisogno) definiscono uno specifico piano assistenziale. Assegnando op-portuni valori di mercato agli input diretti impiegati nell’ero-gazione delle singole prestazioni socio-sanitarie e assistenziali, i costi diretti della disabilità vengono calcolati per ogni classe di iso-bisogno pervenendo a gruppi finali iso-costo.

Ad, esempio, Rebba e Romanato [2005], considerando 14 classi di disabilità o di iso-bisogno (dal livello più basso al livello più elevato), relativamente ad un campione di 3099 persone ul-trasessantacinquenni residenti nel Veneto, stimano un costo me-dio annuo di circa 14.157 euro, con un minimo di 219 euro per la classe di iso-bisogno più bassa (persona non autonoma in una Iadl e autonoma in tutte le Adl) e un massimo di 49.187 euro per la classe più elevata (persona non autonoma in almeno 3 Adl, immobilizzata o semi-immobilizzata). La soluzione domici-liare, a diversi livelli di assistenza, risulta meno costosa rispetto al ricovero in struttura residenziale per persone con meno di tre Adl compromesse, mentre per le situazioni di maggiore di-sabilità (persone non autonome in più di 3 Adl) risulta meno costoso il ricovero in Rsa. Il ricorso della famiglia al supporto

136

dell’assistente familiare («badante») può spostare il limite di convenienza della soluzione domiciliare, anche se si tratta di una situazione temporanea legata al costo ancora molto basso di questo particolare tipologia di lavoro di cura e destinata a modi-ficarsi in futuro.

turrini e Montanelli [2006], utilizzando un diverso ap-proccio metodologico (ricostruzione analitica dell’impiego delle risorse pubbliche e private per la non autosufficienza in tre di-stretti lombardi), valutano in circa 18.000 euro il costo medio annuo per assistere una persona non autosufficiente con almeno una Adl mancante oppure costretta a letto o su una sedia a ro-telle. tale valore esclude molte spese mediche, ospedaliere e am-bulatoriali, ma comprende il costo opportunità dell’assistenza familiare contabilizzato a un valore orario pari a quello della re-tribuzione di una badante.

Il costo annuo di assistenza tende peraltro ad assumere va-lori molto elevati nel caso di grave disabilità associata a forme di demenza o di grave decadimento cognitivo. Ad esempio, lo studio Censis-Aima del 2007 stima in circa 60.000 euro il costo medio annuo di assistenza per la malattia di Alzheimer [Spadin e Vaccaro 2007].

Complessivamente, la spesa annua per i servizi di Ltc per i disabili in età anziana viene stimata per l’Italia, con riferimento al 2004, in un intervallo compreso tra i 13,8 e i 19 miliardi di euro, includendo anche il valore economico dell’assistenza of-ferta direttamente dai familiari [Mesini e gambino 2006]. Con-siderando la stima superiore, maggiormente in linea rispetto alle più recenti stime della Ragioneria generale dello Stato, la fonte di finanziamento più importante della spesa è rappresentata dal privato (la spesa diretta delle famiglie non sussidiata) che pesa per il 38% (7,2 miliardi), mentre l’Inps (erogazioni per inden-nità di accompagnamento) e gli enti pubblici territoriali (spesa a carico di Regioni, Asl, Comuni e Province) pesano ciascuno per il 31%, con una spesa pubblica complessiva pari a circa 11,8 miliardi. Le componenti di spesa più rilevanti per le famiglie ita-liane sono quelle legate all’acquisto – nel mercato privato – dei servizi delle badanti e al pagamento delle rette nelle strutture re-sidenziali.

Appare quindi evidente come le conseguenze economiche della non autosufficienza siano piuttosto pesanti per chi ne è coinvolto e per i suoi familiari: i costi dei servizi richiesti sono piuttosto elevati e tendenti a crescere in futuro con una dina-mica superiore a quella dell’inflazione media; inoltre devono essere sostenuti per periodi di tempo talora piuttosto lunghi

137

(sotto questo profilo andrebbe considerato opportunamente il cosiddetto lifetime cost). Esiste quindi un vero e proprio «ri-schio di non autosufficienza» che, se circoscritto alla perdita di autonomia in età anziana, rientra tra i rischi assicurabili. tenendo conto delle risorse attualmente impegnate per il Ltc dal pubblico e dalle famiglie, e considerando le principali pre-visioni sulla prevalenza del fenomeno della disabilità nei pros-simi 30 anni, si potrebbero prospettare opportunità di sviluppo piuttosto rilevanti per le assicurazioni private long-term care (as-sicurazioni Ltc). tuttavia, molte ragioni di efficienza e di equità spingono ad assegnare alle assicurazioni Ltc un ruolo integra-tivo (e non sostitutivo) rispetto ad una copertura base garantita da uno schema pubblico di tipo universale [Rebba 2006], solu-zione quest’ultima adottata da tutti i paesi che hanno cercato di affrontare organicamente il problema della copertura del ri-schio di non autosufficienza (Olanda, germania, Austria, Lus-semburgo, giappone).

box 5.2

previsione degli anziani disabili al 2020

Il previsto aumento della popolazione anziana nel futuro porta con sé l’aumento, in termini assoluti, del numero di disa-bili. Ciò pone problemi rilevanti dal punto di vista assistenziale: contemporaneamente all’aumento degli anziani, è prevedibile infatti anche una diminuzione delle cure informali fornite dalla famiglia, il principale caregiver nel nostro paese, e ciò, a causa della riduzione del numero di figli e dell’inevitabile aumento dell’occupazione femminile nelle società industrializzate.

In questa breve nota viene effettuata una previsione della di-sabilità e del numero di disabili in Italia al 2020. Essa si basa su due componenti: il numero di anziani, stimato fino al 2051 dalle più recenti previsioni Istat; il trend dei tassi di disabilità per sesso ed età, stimati con estrapolazioni ragionate, a partire dai tassi di disabilità forniti dall’Istat nelle indagini sulle condi-zioni di salute del 1994, 2000 e 2005.

In figura 5.8 sono presentati i risultati delle estrapolazioni sui tassi di disabilità per età di uomini e donne: essi si riducono tutti ad eccezione di quello relativo alle donne ultra85enni. fino agli 80 anni le riduzioni dal 2005 al 2020 dei tassi sono consistenti, addirittura del 36% fra gli uomini e del 28% fra le donne in età 65-69. Oltre gli 85 anni il tasso aumenta solo per

138

le donne: qui opera evidentemente la maggiore età media delle donne di questo gruppo a cui si associano più alte probabilità di disabilità.

Ma se la propensione alla disabilità diminuisce, contestual-mente aumenta la popolazione, per cui il numero complessivo di disabili è il risultato dei due effetti.

In tabella 5.9 si riportano le stime del numero di disabili per età a sesso nei prossimi quindici anni. fino ai 79 anni l’effetto di riduzione della disabilità ha la meglio e, nonostante aumenti la popolazione anziana, si riduce il numero di disabili, sia fra i maschi che fra le femmine. A partire dagli 80 anni aumenta il numero di disabili, ma è la classe d’età da 85 anni in su a regi-

UOMINI70

60

50

40

30

20

10

02020201520102000 20051994

Tass

o

DONNE70

60

50

40

30

20

10

02020201520102000 20051994

Tass

o

75-79 80-84 85+65-69 70-74

Fig. 5.8. trend del tasso di disabilità (disabili/popolazione per 100 anziani) in Italia, osservato fino al 2005 e previsto per gli anni successivi, per ge-nere e classi d’età.

139

strare gli aumenti maggiori: dal 2005 al 2020 il numero di disa-bili risulta praticamente raddoppiato.

Nel complesso degli ultra65enni, tra il 2005 e il 2020 il nu-mero di disabili passerebbe pertanto da poco meno di 2 milioni e 216mila unità a poco più di 2 milioni e 830mila unità: tra que-ste ultime, oltre i due terzi sarebbero donne. tale aumento è pe-raltro attribuibile in grandissima parte all’aumento della popola-zione anziana e solo per le donne molto anziane ad un effettivo aumento della propensione alla disabilità.

I valori di tabella 5.9 risultano dall’applicazione a tutta la popolazione anziana (compresa quella dei presidi residenziali) di tassi di disabilità stimati su anziani in famiglia. L’ipotesi di base è dunque che il tasso di disabilità degli anziani sia lo stesso per coloro che vivono in famiglia e in residenze socio-assistenziali. Poiché la percentuale di anziani che vivono in residenze socio-assistenziali è molto bassa (2%), l’errore che si commette è re-lativamente contenuto. Se nei prossimi quindici anni le propor-zioni di anziani ospiti di istituti e di disabili in istituto si man-tenessero sugli stessi livelli osservati nei primi anni duemila, si può calcolare che le stime effettuate per il 2020 porterebbero ad una sottostima di circa 113mila disabili: nel complesso nel 2020 avremmo infatti 2 milioni e 950mila anziani disabili, 700mila in più rispetto ai disabili del 2005 in famiglia e in istituto.

Nel prossimo futuro avremo dunque un aumento degli an-ziani disabili ma anche una quota consistente di anziani che vi-vrà meglio rispetto ad oggi, poiché l’insorgenza della disabilità tende ad essere posticipata nel corso di vita individuale. Ci sono

tab. 5.9. Numero di disabili in Italia nel 2005 e previsione per gli anni 2010, 2015 e 2020, per genere e classi d’età

Anni 65-69 70-74 75-79 80-84 85+ totale

uomini

2005 66.039 98.057 131.884 175.940 175.427 647.3472010 57.603 91.918 125.914 193.670 228.595 697.7002015 52.103 83.625 124.078 216.342 306.554 782.7022020 45.658 80.472 119.312 233.816 377.913 857.172

donne

2005 113.170 181.507 293.614 437.557 542.674 1.568.5222010 98.883 171.961 287.486 438.108 689.749 1.686.1882015 92.829 161.004 280.653 444.580 868.715 1.847.7822020 85.329 157.507 272.979 448.138 1.014.525 1.978.478

140

d’altra parte preoccupazioni per gli ultra85enni, in particolare le donne, che rappresenteranno la fascia a maggiore bisogno di assistenza. Si tratterà in buona parte di donne sole, in quanto vedove. Alla luce di tutto ciò il problema di come far fronte alla disabilità degli anziani diventa soprattutto il problema di come far fronte alla disabilità dei grandi vecchi.

note al capitolo quinto

1 gli autori ringraziano Lidia gargiulo e gabriella Sebastiani del-l’Istat per la collaborazione e la consulenza fornita in occasione della stesura del presente capitolo.

2 Le malattie croniche sono rilevate in base a quanto riportato dal-l’intervistato, dunque con un approccio soggettivo (cfr. cap. 2).

3 Altri paesi registrano tassi anche più elevati di multicronicità: in Australia nel 2004-05 l’80% degli anziani riportavano 3 o più malattie croniche; valori simili sono stati trovati anche per Canada e USA [Cau-ghey et al. 2008].

4 La definizione di disabilità utilizzata in tutto questo capitolo è quella utilizzata dall’Istat: è disabile chi non è in grado di svolgere almeno una delle 15 abituali attività della vita quotidiana previste nel questionario dell’indagine sulle condizioni di salute.

5 Il tasso di disabilità associato all’alzheimer/demenza senile è pari all’82% per le donne e al 71% per gli uomini; quello del parkinsoni-smo è rispettivamente del 70 e del 50%.

6 La voce comprende solo la modalità «infelice o molto infelice».7 I dati sui presidi residenziali forniscono la classificazione per età

degli ospiti senza distinzione a seconda della loro autosufficienza.8 L’ipotesi non è irragionevole considerando che gli anziani giovani

in istituto dovrebbero essere a maggior rischio di disabilità.

141

capitolo sesto

CONdIzIONI dI SALUtENELLE REgIONI ItALIANE

1. Lo stato di salute ed i servizi sanitari offerti nelle regioni

La condizione di salute degli italiani può variare sen-sibilmente da una regione all’altra, così come accade per i fenomeni economici e demografici. Vale la pena, dunque, soffermarsi sulle differenze esistenti tra le varie regioni in termini di stato di salute della popolazione. gli aspetti su cui ci si potrebbe soffermare sono numerosissimi ed im-possibili da riassumere in poche pagine, perciò la scelta su alcuni di questi a discapito di altri è praticamente obbli-gata. La salute, infatti, è un concetto complesso che rac-chiude in sé diverse dimensioni. Nondimeno, è importante fornire anche una panoramica della diversa presenza delle strutture sanitarie nelle varie regioni italiane per capire se le risorse offerte dalle varie aziende sanitarie locali sono adeguate rispetto alle necessità di cure e di assistenza della popolazione, necessità che vengono, in parte, riflesse dalle misure delle condizioni di salute. Abbiamo, quindi, da una parte ciò che offre il Sistema sanitario nazionale, e dall’al-tra quello che potrebbe essere visto come l’esito di questa offerta, ovvero le condizioni di salute della popolazione. Appare evidente che questi due aspetti sono fortemente correlati tra di loro, ma va precisato che non possiamo facilmente avventurarci in interpretazioni di tipo causale sui risultati. Non sappiamo, infatti, fino a che punto sono le risorse mediche presenti nel territorio a determinare lo stato di salute della popolazione o viceversa. dunque, ci limiteremo ad una descrizione di questi aspetti, facendo emergere anche le correlazioni tra diverse dimensioni ma senza mai addentrarci nei nessi causali che determinano queste correlazioni.

142

Cominceremo con la descrizione, attraverso vari indici, della condizione di salute della popolazione per poi descri-vere i servizi sanitari offerti nelle varie regioni.

gli indicatori presentati sono stati calcolati utilizzando due fonti: l’indagine sulle Condizioni di salute e ricorso ai servizi sanitari del 2005 condotta dall’Istat per calcolare gli indici relativi allo stato di salute della popolazione e la base di dati del ministero della Salute per calcolare gli in-dici sulla spesa del Servizio sanitario nazionale e i servizi offerti dalle regioni.

1.1. La condizione di salute nelle regioni

Il concetto di condizione di salute è tutt’altro che ba-nale con le conseguenti difficoltà nel definire una misura di tale concetto. La salute è, secondo la Costituzione del-l’Organizzazione mondiale della sanità uno «stato di com-pleto benessere fisico, psichico e sociale e non semplice assenza di malattia». Questo significa che essa è costituita da un insieme di diverse dimensioni che dovrebbero es-sere misurate singolarmente, per poter dare una rappre-sentazione completa dell’effettivo stato di salute di una popolazione. In questo capitolo, si focalizzerà l’attenzione solo su alcune di queste dimensioni tralasciandone altre di più difficile misurazione (specialmente quelle attinenti alle sfere sociali ed economiche). Concentreremo l’atten-zione su quegli aspetti che si attengono più strettamente al benessere di tipo fisico: l’invalidità, ovvero la condi-zione di chi è affetto da una menomazione fisica o men-tale riconosciuta a livello medico; la disabilità, ovvero la limitazione nelle attività quotidiane, dovuta non necessa-riamente a menomazioni certificate, ma ad una riduzione delle facoltà fisiche e mentali che limita il grado di auto-nomia degli individui; le malattie croniche, ovvero malattie persistenti per un tempo relativamente lungo (almeno tre mesi). Oltre a queste dimensioni considereremo anche la percezione soggettiva del proprio stato di salute da parte degli individui.

Quanto sono valide queste misure? Siamo consci che tutte sono basate sull’autodichiarazione e, in particolare,

143

l’ultima dimensione è soggetta a critiche essendo conside-rata da molti troppo suscettibile di variazioni dovute più a meccanismi psicologici che all’effettivo stato di salute. È anche vero che molta della ricerca epidemiologica ha mo-strato che la percezione soggettiva della salute può essere un predittore della mortalità futura più affidabile di altre misure oggettive, basate su diagnosi cliniche [ferraro e farmer 1999]. A favore dell’utilizzo della percezione sog-gettiva dello stato di salute, va anche detto che questa è l’unica misura che ci permette di dare una valutazione globale dello stato di salute di un individuo, e non tiene conto di una sola dimensione del concetto di salute. Non va trascurato, infine, il fatto che anche le misure basate sull’autodichiarazione relativamente all’invalidità o alle ma-lattie croniche non sono esenti da distorsioni, determinate da variazioni della percezione del proprio stato di salute da parte dei rispondenti e dalla diversa conoscenza che essi hanno delle specifiche malattie.

Per misurare il livello della salute utilizzeremo dei tassi standardizzati per età in modo da tenere sotto controllo la diversa struttura per età nelle varie regioni1. In quasi tutti i casi (con esclusione della scala Adl) riporteremo degli in-dici di prevalenza che indicano quante persone sono me-diamente affette dal problema di salute considerato.

Nella tabella 6.1 (colonna a) vengono riportati i valori relativi alla invalidità nelle regioni. La provincia autonoma di trento è quella che mostra il livello di invalidità più basso (il 3,9% della popolazione ha almeno una forma di invalidità) mentre la regione Umbria è quella che ha il li-vello più alto (6,9%).

Per quanto riguarda la disabilità, possiamo conside-rare tre sotto-dimensioni che la caratterizzano2: le difficoltà motorie, ovvero le difficoltà incontrate nel percorrere un determinato tragitto; il confinamento, ovvero la condizione di incapacità di muoversi dal proprio letto, da una sedia a rotelle o dalla propria casa; le difficoltà nelle attività quo-tidiane, misurate attraverso l’apposita scala Adl (Activity of daily living), la quale misura la capacità dell’individuo a svolgere da solo alcune funzioni basilari quotidiane quali lavarsi, parlare al telefono, o mangiare. Queste tre sotto-dimensioni sono, ovviamente, molto correlate tra di loro,

144

ma ognuna di esse coglie un aspetto leggermente diverso della disabilità della persona.

Possiamo notare, dai valori riportati nella tabella 6.1 (colonne b, c, d), che per tutte e tre le dimensioni, la Sici-lia è la regione che presenta il più alto grado di disabilità: il 2,5% degli individui hanno difficoltà motorie ed il 2,4% è costretto ad una qualche forma di confinamento, e anche il valore medio della scala Adl è il più alto (0,083) rispetto alle altre regioni3. Molto vicine ai valori della Sicilia sono le regioni della Calabria e della Basilicata. Le province autonome di trento e Bolzano sono, invece, quelle con i valori più bassi: solo lo 0,7% dei Bolzanini è costretto ad una qualche forma di confinamento e solo l’1% dei tren-tini soffre di difficoltà motorie. Questi valori sono in linea con quanto mostrato nella figura 2.6, relativamente alla speranza di vita libera di disabilità.

Si noti, inoltre, come le statistiche sulla disabilità diano un’immagine diversa dell’Italia di quanto emerge dall’ana-lisi sull’invalidità, per cui la regione con il più alto tasso di invalidità è l’Umbria che, invece, non ha livelli partico-larmente alti di disabilità. Al contrario, la Sicilia, che ha i più alti livelli di disabilità, mostra livelli di invalidità abba-stanza bassi.

Per quanto riguarda le malattie croniche, calcoliamo tre tipi di indici: un indice di prevalenza di tutte le malattie croniche, un indice di prevalenza delle malattie croniche che possiamo considerare gravi4, ed un indice di preva-lenza delle malattie multicroniche (presenza di tre o più malattie croniche nello stesso individuo). gli indici sono riportati in tabella 6.1 (colonne e, f, g).

Come si può vedere, confrontando questi indicatori con quelli precedenti, la prevalenza delle malattie croniche è molto più elevata della disabilità e dell’invalidità, anche quando si considerano solamente le malattie croniche gravi o le malattie multicroniche. da notare che la «graduato-ria» regionale è nuovamente cambiata rispetto a quanto mostrato dagli indicatori relativi ad invalidità e disabilità: la Sicilia non è più la regione con i valori più elevati, anzi la percentuale di individui affetti da una malattia cronica è inferiore al 30%, soglia superata, invece, da molte altre regioni come, ad esempio, la Sardegna, il Veneto, la Valle

ta

b. 6

.1.

Indi

ci d

i liv

ello

di a

lcun

e di

men

sion

i del

lo s

tato

di s

alut

e pe

r re

gion

e

Inva

lidità

(a)

Con

finam

ento

(b

)d

iffic

oltà

m

otor

ia(c

)

Adl (d)

Mal

attie

cr

onic

he(e

)

Mal

attie

cro

nich

e gr

avi

(f)

Mal

attie

mul

ticro

nich

e(g

)

Stat

o di

sal

ute

fisic

o pe

rcep

ito(h

)

Abr

uzzo

0,04

80,

015

0,01

70,

062

0,28

70,

102

0,07

40,

047

Bas

ilica

ta0,

055

0,01

90,

020

0,07

80,

292

0,11

50,

079

0,05

9B

olza

no0,

051

0,00

70,

009

0,03

20,

263

0,08

70,

053

0,03

0C

alab

ria

0,05

50,

022

0,02

60,

081

0,32

20,

127

0,10

20,

073

Cam

pani

a0,

048

0,01

90,

019

0,07

70,

290

0,11

80,

079

0,05

5E

mili

a R

omag

na0,

050

0,01

20,

015

0,04

90,

323

0,10

10,

080

0,04

3f

riul

i-Ven

ezia

giu

lia0,

046

0,01

30,

015

0,05

20,

279

0,08

50,

059

0,03

6L

azio

0,05

00,

014

0,01

50,

057

0,30

00,

109

0,08

80,

054

Lig

uria

0,04

70,

013

0,01

60,

059

0,32

00,

091

0,07

30,

046

Lom

bard

ia0,

044

0,01

20,

015

0,05

20,

295

0,10

30,

068

0,03

5M

arch

e0,

047

0,01

60,

016

0,06

40,

317

0,11

00,

079

0,05

4M

olis

e0,

041

0,01

50,

021

0,06

00,

294

0,10

60,

076

0,04

3P

iem

onte

0,04

20,

013

0,01

50,

048

0,28

50,

091

0,06

20,

041

Pug

lia0,

047

0,02

10,

024

0,07

30,

273

0,11

00,

077

0,05

3Sa

rdeg

na0,

059

0,01

60,

019

0,06

60,

338

0,11

70,

100

0,07

0Si

cilia

0,04

60,

024

0,02

50,

083

0,29

50,

113

0,08

40,

073

tosc

ana

0,04

90,

014

0,01

70,

064

0,29

80,

094

0,07

00,

055

tren

to0,

039

0,00

80,

008

0,02

70,

293

0,09

00,

059

0,03

1U

mbr

ia0,

069

0,01

70,

015

0,07

50,

342

0,12

10,

091

0,05

5V

alle

d’A

osta

0,04

10,

010

0,01

50,

060

0,30

20,

099

0,06

40,

037

Ven

eto

0,05

90,

014

0,01

60,

061

0,32

00,

107

0,07

40,

039

Font

e: E

labo

razi

oni s

u da

ti Is

tat.

146

d’Aosta, l’Emilia Romagna e la Liguria. La provincia di trento (che ha la percentuale più bassa di individui affetti da disabilità) è sugli stessi livelli della Sicilia, mentre è Bol-zano ad avere il livello più basso. Le cose cambiano un po’ quando si considerano solo le malattie croniche gravi, e la Sicilia torna ad essere tra le regioni con il livello di morbi-dità più elevato e trento tra quelle con il livello più basso. dunque, anche questa sotto-dimensione dello stato di sa-lute offre un quadro delle regioni italiane meno netto di quanto si potesse presagire.

Infine, esaminiamo lo stato di salute della popolazione utilizzando un la percezione soggettiva dichiarata dagli in-tervistati. La misura qui impiegata rileva la percentuale di individui che ritengono che la loro salute vada «Male»o «Molto male». È ben noto nella letteratura [Butler et al. 1987] che la misura della salute percepita è soggetta a vari tipi di distorsione. Come già detto però, essa ha il pregio di poter considerare lo stato di salute nel suo complesso e non soltanto una singola dimensione, come, invece, suc-cede per gli indicatori che abbiamo visto finora.

dalla tabella 6.1 (colonna h) risulta che la regione con il miglior livello medio dello stato di salute percepito è, ancora una volta, la provincia di trento mentre la re-gione con il peggior livello è la Calabria assieme alla Sici-lia (7,3% che dichiarano che la salute va «male» o «molto male»). dunque, sebbene la salute percepita sia, come detto, una misura soggetta a distorsioni, essa fornisce una «graduatoria» delle regioni che è coerente con le altre mi-sure, le quali, pur con qualche distinguo mostrano l’esi-stenza di un gradiente Nord-Sud nelle misure delle condi-zioni di salute della popolazione, con le regioni del Nord (specialmente quelle montane) che vantano un miglior stato di salute e le regioni del Sud che, invece, mostrano lo stato di salute peggiore.

Per concludere questa sezione, vogliamo capire se il miglior stato di salute è, in qualche modo, associato con una migliore condizione economica. detto più sempli-cemente: è vero che le regioni più ricche sono anche le regioni con una popolazione più «in salute»? A quanto mostra la figura 6.1, sembra proprio di poter rispondere di sì. La relazione tra il Pil pro capite delle regioni e la

147

prevalenza di malattie croniche gravi5 è molto evidente. Questo non significa necessariamente che un aumento del Pil di una regione porti automaticamente anche ad un mi-glioramento delle condizioni di salute della popolazione residente nella regione stessa. Si noti, per fare un esempio, come Veneto e Piemonte abbiano un prodotto interno lordo simile ma prevalenze di malattie croniche gravi ab-bastanza diverse, a dimostrazione del fatto che a parità di risorse economiche si possono avere condizioni di salute molto diverse.

1.2. I servizi sanitari offerti

Considerato il gradiente Nord-Sud che abbiamo ri-levato nello stato di salute all’interno delle regioni, viene spontaneo chiedersi se queste differenze territoriali siano associate da un analogo gradiente nella disponibilità di servizi sanitari. Questa associazione è ancora più plausibile alla luce di quanto mostrato dalla figura 6.1, ovvero che le differenze territoriali rispetto allo stato di salute sono as-

Tass

o st

anda

rdiz

zato

di m

alat

i cro

nici

gra

vi

0,12

0,11

0,10

0,09

Pil pro-capite al 2003 (in potere d’acquisto)35.00030.00015.000 20.000 25.000

Calabria

Campania SardegnaBasilicataSicilia

Puglia

Molise

Abruzzo

Marche

Umbria

LazioVeneto

LombardiaEmilia Romagna

Val d’Aosta

ToscanaPiemonte

Trento

Friuli-Venezia GiuliaBolzano

Fig. 6.1. Grafico del tasso di prevalenza delle malattie croniche gravi e Pil per regione.

Fonte: Elaborazioni su dati Istat.

148

sociate con le differenze in termini di ricchezza della re-gione. Per verificare se effettivamente la disponibilità di ri-sorse sanitarie è associata con lo stato di salute della popo-lazione, forniamo alcuni indicatori che ci informino sulle risorse economiche erogate dal Sistema sanitario nazionale per le singole regioni e sui servizi sanitari resi disponibili, risultato dell’investimento delle risorse economiche. Come misura delle risorse economiche utilizziamo la spesa pro capite del Servizio sanitario nazionale (Ssn) per regione. Per quanto riguarda, invece, le risorse sanitarie rese dispo-nibili, consideriamo tre diversi indicatori: il numero di me-dici di medicina generale per 1.000 adulti residenti6, il nu-mero di personale medico ospedaliero per 1.000 residenti, ed il numero di posti letto per acuti per mille residenti.

In generale non è detto che ad una maggiore spesa pro capite del Ssn corrisponda un maggiore presenza di risorse sanitarie. Ciò emerge in modo evidente se analizziamo i dati per la provincia autonoma di Bolzano, la quale ha il livello di spesa pro capite del Ssn più elevata (circa 2 euro per persona) ma ha il più basso numero di medici di medicina generale per persona (0,771 per 1.000 resi-denti adulti). Questo dato, apparentemente contro intui-tivo, dipende probabilmente anche dalla diversa presenza di strutture di cure private nelle varie regioni: le regioni montane quali trentino-Alto Adige a Val d’Aosta hanno una bassa presenza di strutture private, e quindi tutto il costo dell’offerta sanitaria dipende dal Ssn. Altro elemento confondente è la dimensione della regione: le regioni re-gioni molto popolose, quali, ad esempio, la Lombardia o il Lazio, ricevono un finanziamento molto più elevato di regioni più piccole. dividendo questo finanziamento per il numero di residenti si ottiene l’indicatore riportato in ta-bella 6.2, ma questo indicatore non tiene conto che i fi-nanziamenti versati dal Ssn devono sovvenzionare anche dei costi fissi. Nelle regioni molto popolose questi costi fissi vengono «ammortizzati» molto di più che nelle re-gioni poco popolose. Questo è anche il motivo per cui i finanziamenti per la Lombardia risultano particolarmente bassi.

detto questo, mediamente la relazione che ci si attende (maggior spesa corrisponde a maggiori risorse) è valida,

ta

b. 6

.2.

Indi

ci d

i inp

ut e

di o

utpu

t de

ll’of

fert

a sa

nita

ria

per

regi

one

Inpu

tO

utpu

t

Spes

a pr

o ca

pite

del

Ssn

Med

ici d

i med

icin

a ge

nera

lepe

r 1.

000

resi

dent

i adu

ltiP

osti

lett

o pe

r 1.

000

resi

dent

iP

ers.

Med

ico

ospe

d.pe

r 1.

000

resi

dent

i

Abr

uzzo

1,70

01,

298

4,62

91,

768

Bas

ilica

ta1,

477

1,28

04,

045

1,46

7B

olza

no2,

076

0,77

14,

184

1,80

5C

alab

ria

1,40

41,

145

4,04

11,

598

Cam

pani

a1,

603

1,12

83,

320

1,68

1E

mili

a R

omag

na1,

686

1,21

04,

025

1,83

9f

riul

i-Ven

ezia

giu

lia1,

658

1,27

24,

401

1,89

2L

azio

1,81

61,

320

4,55

62,

240

Lig

uria

1,83

31,

391

4,45

82,

166

Lom

bard

ia1,

575

1,06

14,

036

1,69

0M

arch

e1,

542

1,24

73,

850

1,70

1M

olis

e1,

854

1,32

84,

876

2,32

0P

iem

onte

1,65

51,

219

3,51

91,

728

Pug

lia1,

432

1,19

33,

534

1,56

2Sa

rdeg

na1,

593

1,19

24,

751

1,76

2Si

cilia

1,55

61,

242

4,00

11,

844

tosc

ana

1,63

71,

307

4,02

91,

997

tren

to1,

721

1,18

13,

793

1,43

7U

mbr

ia1,

618

1,36

63,

841

1,92

3V

alle

d’A

osta

1,85

71,

213

3,80

12,

059

Ven

eto

1,61

61,

111

3,69

31,

466

Font

e: M

inis

tero

del

la S

alut

e.

150

anche se esistono le eccezioni come quella, già citata, di Bolzano.

La domanda che viene spontaneo chiedersi è quale sia il grado di correlazione tra le risorse sanitarie disponibili e lo stato di salute della popolazione: sono le regioni che hanno una maggiore incidenza riguardo a disabilità, inva-lidità, e malattie croniche anche quelle che dispongono di maggiori risorse sanitarie per farvi fronte? E quale corre-lazione esiste tra l’offerta sanitaria e l’equità dello stato di salute?

Analizzando la figura 6.27, si vede che esiste una asso-ciazione tra stato di salute e spesa pro-capite del Ssn: au-mentando la spesa diminuisce il livello di confinamento e la percezione generale della salute. Questo vale anche (grafici non mostrati qui) per le malattie multicroniche, le difficoltà motorie, e l’Adl. Non vale, invece, per il livello di invalidità e per la prevalenza di malattie croniche. La relazione, infatti, tra questi indicatori e la spesa del Ssn è poco evidente. È interessante notare che l’invalidità è, in-vece, maggiormente correlata con gli indicatori relativi alla disponibilità di servizi sanitari quali la disponibilità di po-

Liv

ello

di i

nval

idità

0,10

0,09

0,07

0,08

0,06

Spesa pro capite del Ssn2,12,01,4 1,61,5 1,7 1,8 1,9

Liv

ello

di c

onfin

amen

to

0,025

0,020

0,010

0,015

Spesa pro capite del Ssn2,12,01,4 1,61,5 1,7 1,8 1,9

Fig. 6.2. Relazione tra spesa pro capite del Ssn per regione e livello di alcuni indicatori dello stato di salute.

Fonte: Elaborazioni su dati Istat e del ministero della Salute.

151

sti letto e il numero di personale medico per 100 abitanti, mentre non si scorge una relazione significativa con il li-vello di spesa pro capite. Al contrario, gli altri indicatori che sono maggiormente correlati con la spesa del Ssn, mo-strano una correlazione vicina allo zero con gli indicatori relativi ai servizi offerti. Ancora una volta, vale la pena di ricordare che queste analisi non ci consentono di conclu-dere che una maggiore spesa del Ssn determina un miglior stato di salute della popolazione anche alla luce del fatto che la relazione tra spesa e i vari indici di salute non è così forte, anzi in alcuni casi non è visibile.

2. Un aspetto da non trascurare: la diseguaglianza

Nella parte precedente abbiamo posto l’attenzione al livello medio delle condizioni di salute della popolazione di ogni regione italiana. In questa parte si focalizzerà l’at-tenzione, invece, su un’altra caratteristica dello stato di salute: l’equità nella distribuzione. Se le informazioni sul livello di salute ci dicono, sostanzialmente, quali siano le zone del paese in cui si gode di una salute migliore e quali in cui si gode di una salute peggiore, l’analisi sull’equità, invece, ci dice se il bene «salute» si concentra su fasce particolari della popolazione – ad esempio coloro con un status socioeconomico più elevato – oppure si ripartisce uniformemente sulla popolazione. La ricerca sul grado di equità con cui si distribuisce il bene salute nella popola-zione è in costante crescita negli ultimi anni [O’donnel et al. 2008] e quello di una equa distribuzione del bene «salute» è una preoccupazione emergente a livello euro-peo come si può vedere da Marmot [2005] e da il recente rapporto dell’Organizzazione mondiale della sanità [Csdh, 2008]. tuttavia questa letteratura ignora spesso il possibile trade-off esistente tra il livello medio dello stato di salute e distribuzione dello stesso. da quanto emerge da altra lette-ratura [Bommier e Stecklov 2002] ci si aspetta che questo trade-off esista: più aumenta il livello generale di salute più diminuisce l’equità e viceversa. È interessante vedere se questa «legge» viene rispettata anche tra le regioni italiane. In caso affermativo, le conseguenze a livello di politiche

152

sono importanti: non è possibile limitarsi a ridurre la dise-guaglianza dello stato di salute senza considerare che que-sta riduzione potrebbe voler dire anche una diminuzione del livello medio dello stato di salute stesso. d’altra parte, è possibile che un aumento medio del buon stato di salute della popolazione di una regione corrisponda anche ad un aumento della diseguaglianza. Ci aspettiamo, dunque, che nel momento in cui ci si pone obiettivi di miglioramento del livello medio di salute ci dediche anche attenzione a tenere sotto controllo i livelli di disuguaglianza tra i gruppi di popolazione interessata.

Per misurare l’equità ci avvaleremo di un indice di con-centrazione che misura se la salute si concentra maggior-mente nelle fasce di popolazione più ricche, in quelle più povere, o si distribuisce in modo equo su tutta la popo-lazione. Rimandiamo a O’donnel et al. [2008] chi volesse approfondire i dettagli di come costruire tale indice di concentrazione C, in queste pagine accenniamo solo che se C assume valori positivi, allora la distribuzione della salute è sbilanciata a favore dei più poveri, se C è negativo, allora la distribuzione della salute è sbilanciata a favore dei più ricchi, se C = 0 allora c’è equità perfetta.

La tabella 6.3 riporta i valori dell’indice di disegua-glianza per gli indicatori considerati nella tabella 6.1. Se confrontiamo, ad esempio, l’indice di equità relativa all’in-dicatore di invalidità (colonna a) rispetto ai corrispettivi indici di livello, il trade-off a cui abbiamo accennato trova conferma: trento ha i valori più bassi del tasso di invali-dità ma ha anche il grado di diseguaglianza più elevato, una diseguaglianza che svantaggia i più poveri. Viceversa l’Umbria, che ha la maggior prevalenza di invalidità non mostra di avere un indice di diseguaglianza particolar-mente alto.

La figura 6.3 mette in evidenza maggiormente la rela-zione tra livello dell’invalidità nelle regioni ed equità che abbiamo descritto. dunque, sembra essere proprio vero che dove è alto lo stato di salute è alto anche il grado di diseguaglianza8. Le implicazioni politiche di questa rela-zione sono non banali, in quanto non è chiaro se e quando sia meglio investire sul miglioramento dello stato di salute in generale (a scapito dell’equità) o investire sull’equità

ta

b. 6

.3.

Indi

ci d

i equ

ità

di a

lcun

e di

men

sion

i del

lo s

tato

di s

alut

e pe

r re

gion

e

Inva

lidità

(a)

Con

finam

ento

(b

)d

iffic

oltà

m

otor

ia(c

)

Adl (d)

Mal

attie

cr

onic

he(e

)

Mal

attie

cro

nich

e gr

avi

(f)

Mal

attie

mul

ticro

nich

e(g

)

Stat

o di

sal

ute

fisic

o pe

rcep

ito(h

)

Abr

uzzo

–0,1

26–0

,160

–0,2

49–0

,088

–0,0

21–0

,123

–0,0

54–0

,087

Bas

ilica

ta–0

,064

–0,2

460,

009

–0,2

01–0

,009

–0,0

47–0

,068

–0,0

63B

olza

no–0

,057

0,04

10,

265

0,01

2–0

,089

–0,1

55–0

,250

–0,2

56C

alab

ria

0,04

1–0

,086

–0,0

65–0

,010

0,04

9–0

,013

0,03

40,

048

Cam

pani

a0,

022

–0,1

33–0

,035

–0,0

490,

024

–0,0

15–0

,002

–0,1

12E

mili

a R

omag

na–0

,079

–0,0

72–0

,182

–0,0

83–0

,011

–0,0

58–0

,057

–0,0

67f

riul

i-Ven

ezia

giu

lia–0

,083

–0,2

03–0

,102

0,05

4–0

,013

–0,0

46–0

,018

–0,1

07L

azio

–0,0

29–0

,072

–0,1

62–0

,018

–0,0

17–0

,047

–0,0

47–0

,151

Lig

uria

–0,0

45–0

,093

–0,0

32–0

,025

–0,0

06–0

,025

0,02

4–0

,111

Lom

bard

ia–0

,131

–0,2

26–0

,250

–0,2

73–0

,039

–0,0

96–0

,127

–0,2

14M

arch

e–0

,103

–0,1

66–0

,254

–0,2

020,

016

–0,0

19–0

,010

–0,0

63M

olis

e–0

,071

–0,1

24–0

,226

–0,1

72–0

,038

–0,0

81–0

,157

–0,0

47P

iem

onte

0,03

9–0

,048

–0,2

08–0

,128

0,05

90,

021

0,04

8–0

,068

Pug

lia0,

060

0,02

90,

029

0,09

20,

059

0,02

80,

096

0,06

9Sa

rdeg

na–0

,006

0,00

60,

023

0,07

50,

043

0,04

60,

065

–0,0

37Si

cilia

0,02

70,

026

–0,0

190,

021

0,08

60,

093

0,11

20,

078

tosc

ana

–0,1

13–0

,098

–0,1

65–0

,145

–0,0

37–0

,056

–0,0

83–0

,100

tren

to–0

,329

–0,6

52–0

,606

–0,5

20–0

,106

–0,1

84–0

,330

–0,3

71U

mbr

ia–0

,079

–0,2

06–0

,227

–0,1

90–0

,012

–0,1

00–0

,100

–0,1

14V

alle

d’A

osta

–0,2

53–0

,291

–0,2

37–0

,296

–0,0

14–0

,179

–0,2

32–0

,180

Ven

eto

–0,1

13–0

,073

–0,1

74–0

,115

–0,0

17–0

,047

–0,1

13–0

,167

Font

e: E

labo

razi

oni s

u da

ti Is

tat.

154

della distribuzione del «bene» salute a scapito del livello. Si noti che esistono certi casi (ad esempio in Piemonte) in cui è particolarmente alto il livello della salute e l’indice di equità è comunque molto vicino allo zero.

Andando ad analizzare l’equità della distribuzione della disabilità, è, ancora una volta, trento il luogo in cui si registra il più alto indice di diseguaglianza, confermando il trade-off tra i due fattori, un trade-off che, tuttavia, non è sempre confermato: Bolzano ha un basso indice di di-seguaglianza pur mostrando livelli particolarmente bassi di disabilità. dunque, non è detto che un aumento dello stato di salute di una regione corrisponda necessariamente ad un aumento della diseguaglianza. Sarebbe interessante, quindi, cercare di comprendere come Bolzano e Piemonte siano riuscite ad ottenere una graduatoria così favorevole sia per gli indici di livello che per gli indici di disegua-glianza.

Per quanto riguarda le malattie croniche, invece, l’in-dice di equità sembra essere mediamente più basso per questo genere di problema e sembra di poter dire che an-che la variabilità tra le regioni sia minore rispetto agli altri indicatori.

fig. 6.3. Livello di invalidità ed indice di diseguaglianza.

Fonte: Elaborazioni su dati Istat.

Tass

o st

anda

rdiz

zato

di i

nval

idità

0,070

0,065

0,060

0,055

0,050

0,045

0,040

Indice di diseguaglianza0,0–0,1–0,3 –0,2

Calabria

Campania

Sardegna

Basilicata

SiciliaPuglia

Molise

Abruzzo Marche

Umbria

Lazio

Veneto

Lombardia

Emilia Romagna

Val d’Aosta

Toscana

Piemonte

Trento

Friuli-Venezia Giulia

Bolzano

155

Vi sono vari modi in cui questo dato può essere in-terpretato: una prima ipotesi potrebbe essere che ci sia effettiva indipendenza di certe malattie croniche dallo status economico e sociale dell’individuo e della regione in cui essa vive. Malattie quali Parkinson, Alzheimer, e al-cune forme tumorali e di diabete non sono collegate con i classici fattori di rischio «manipolabili» (si può smettere di fumare, e magari i più ricchi si possono far aiutare da strumenti specifici pagando, ma non si può smettere di invecchiare) allo stesso modo di altre malattie. In realtà, molte altre malattie croniche (diabete, ictus, malattie del cuore, infarto del miocardio, alcuni tumori) dipendono anche dallo stile di vita e dovrebbero essere soggette allo stesso tipo di disuguaglianze che si generano per le inva-lidità. Un’interpretazione alternativa è che per le malattie croniche ci sia una distorsione introdotta dal fatto che i più poveri sottostimino le loro malattie e i più ricchi le sovrastimino. tuttavia, l’indagine dell’Istat, da cui sono stati tratti i dati per calcolare gli indici proposti, chiede in modo molto accurato la presenza sia di invalidità che di malattie croniche e sembra difficile che si possa essere creato, in modo così visibile, un meccanismo del genere. Comunque sia, rimane il fatto che le malattie croniche si distribuiscono in modo equo nella popolazione e quindi è più opportuno puntare ad un abbassamento del livello di queste.

Concludiamo riportando l’indice di diseguaglianza ri-spetto alla salute percepita (tab. 6.3, colonna h): i numeri mostrano ancora che laddove la percentuale di persone che si lamenta del proprio stato di salute è bassa, è alto l’indice di diseguaglianza, e viceversa. Questo risultato suggerisce l’opportunità di differenziare l’intervento pub-blico per il miglioramento della salute della popolazione a seconda della regione: regioni con un alto grado di dise-guaglianza e un alto livello di salute dovranno puntare ad azioni che mirino a facilitare l’accesso al bene salute alle classi sociali più basse, mentre le regioni con bassi livelli di diseguaglianza e di salute dovranno puntare maggiormente su un incremento della salute della popolazione.

156

note al capitolo sesto

1 Per standardizzare gli indici useremo la distribuzione per età della popolazione al censimento del 2001.

2 Si tratta di tre delle quattro dimensioni già prese in considerazio-ne in altri capitoli del volume (cfr. capp. 2 e 5).

3 L’indice Adl non deve, al contrario degli altri, essere letto come percentuale, essendo in realtà un punteggio che varia da 0 a 6. Si noti, inoltre, che normalmente la scala Adl da il punteggio più elevato a chi è completamente indipendente nelle sue attività e quello più basso a chi è completamente dipendente. Per coerenza con gli altri indicatori, qui abbiamo invertito la scala, per cui 0 corrisponde al massimo dell’indi-pendenza e 6 al massimo della dipendenza.

4 Utilizziamo qui la stessa definizione di «malattie croniche gravi» usata dall’Istat, la quale include: infarto del miocardio, diabete, angina pectoris, altre malattie del cuore, ictus, emorragia cerebrale, bronchite cronica, enfisema, cirrosi epatica, tumore maligno (inclusi linfoma/leu-cemia), Parkinsonismo, Alzheimer e demenze senili.

5 tale relazione sussiste anche tra il Pil regionale pro capite e le al-tre misure di invalidità, disabilità e salute autopercepita.

6 La popolazione di riferimento è la popolazione residente al 1o gennaio 2005.

7 Le linee rappresentano il risultato di una regressione di tipo non parametrico (lowess) che mostrano la relazione tra la due quantità, non necessariamente lineare.

8 Questa relazione è, almeno in parte, fisiologica: se tutti godono di cattiva salute c’è perfetta equità. Se qualcuno sta meglio degli altri è del tutto prevedibile che questo qualcuno appartenga alla fascia di popola-zione più agiata.

RIfERIMENtI BIBLIOgRAfICI

159

RIfERIMENtI BIBLIOgRAfICI

AA.VV.2007 Rapporto sulla popolazione. L’Italia all’inizio del XXI se-

colo, Bologna, Il Mulino.Angeli A. e Salvini S.2007 Popolazione e sviluppo nelle regioni del mondo. Conver-

genze e divergenze nei comportamenti demografici, Bolo-gna, Il Mulino.

Bergner, M.1985 Measurement of health status, in «Medical Care», vol. 23,

pp. 696-704.Biasini A.2007 Neonatal Euthanasia in Europe, in «Journal of Medicine

and the Person», vol.5, n. 4, pp. 166-170.Bommier A. e Stecklov g.2002 Defining health inequality: Why Rawls succeeds where

social welfare theory fails, in «Journal of Health Econo-mics», vol. 21, n. 3, pp. 497-513.

Butler J.S., Burkhauser R.V., Mitchell J.M. e Pincus t.P.1987 Measurement Error in Self-Reported Health Variables, in

«The Review of Economics and Statistics», vol. 69, n. 4, pp. 644-650.

Buzzi, C., Cavalli A. e de Lillo A.2007 Rapporto giovani. Sesta indagine dell’Istituto Iard sulla

condizione giovanile in Italia, Bologna, Il Mulino.

Capp, Cer, Servizi nuovi2004 Diritti di cittadinanza delle persone anziane non autosuffi-

cienti. Un contributo alla definizione dei livelli essenziali dei servizi per la non autosufficienza (Lesna), Roma, Edi-zioni LiberEtà.

Caselli g.1996 Future longevity among the elderly, in g. Caselli e A. Lo-

pez (acura di), Health and Mortality among Elderly Popu-lation, Oxford, Clarendon Press.

160

Caughey g.E., Vitry A.I., gilbert A.L. e Roughead E.E.2008 BMC in «Public health» vol. 8, n. 221, pp. 1-13.Centers for disease Control and Prevention2007 Improving the health of older Americans: a Cdc priority,

«Chronic disease, Notes & Reports», vol. 18, n. 2.Comitato Nazionale per la Bioetica2008 I grandi prematuri. Note Bioetiche, Roma, 28 febbraio.Csdh2008 Closing the gap in a generation: health equity through ac-

tion on the social determinants of health. final Report of the Commission on Social determinants of Health, ge-neva, World Health Organization.

deboosere P. e K. Neels2008 The relation between educational attainment and healthy

ageing, relazione presentata alla European Population Conference, Barcellona, 2-12 luglio.

di Carlo A., Bardereschi M., Amaducci L., Lepore V., Bracco L., Maggi S., Bonaiuto S., Perissinotto E., Scarlatto g., farchi g. e Inzitari d.

2002 Incidence of Dementia, Alzheimer’s Disease, and Vascular Dementia in Italy, The ILSA Study, in «Journal of Ameri-can geriatric Society», vol. 50, pp. 41-48.

di Priamo, C.2007 I parti con taglio cesareo: fattori territoriali, organizzativi e

ruolo delle donne, in Pinnelli A., Racioppi f., terzera L. (a cura di) «genere, famiglia e salute», Milano, Angeli, pp. 502-518.

Egidi V., Salvatore M.A. e Spizzichino d.2007 The perception of health: relevance and dimensions, Atti

del Convegno Intermedio 2007, Società Italiana di Stati-stica, Venezia 6-8 giugno.

fantini M.P., Stivanello E., dallolio L., Loghi M. e Savoia E.2006 Persistent geographical disparities in infant mortality rates

in Italy (1999-2001): comparison with France, England, Germany and Portugal, in «European Journal of Public Health», vol. 16, pp. 429-432.

ferraro K.f. e farmer f.f.1999 Utility of health data from social surveys: Is there a gold

standard for measuring morbidity? In «American Sociolo-gical Review», vol. 64 n. 2, pp. 303-315.

fries J.f.1980 Aging, natural death, and the compression of morbidity, in

«N. Engl. J. Med.», vol. 303, pp. 130-135.

161

gargiulo L., gianicolo E. e Brescianini S.2002 Eccesso di peso nell’infanzia e nell’adolescenza, in Sistan,

Istat, Atti del convegno «Informazione statistica e politi-che per la promozione della salute» Roma 10-12 settem-bre, pp. 25-44.

gruenberg E.M,1977 The failure of success, in «Milbank Memorial fund Quar-

terly/Health Soc», vol. 55, pp. 3-24.

Hmd2008 Tavole di mortalità della popolazione residente in ciascun

paese considerato. Anni dal 1950 al 2006, Human mor-tality database. University of California, Berkeley (Usa), e Max Planck Institute for demographic Research (ger-many). disponibili sul sito www.mortality.org oppure www.humanmortality.de (dati scaricati il [28.08.2008]).

Huisman M., Kunst A.E. e Mackenbach J.P.2003 Socioeconomic inequalities in morbidity among the elderly;

A European overview, in «Social Science & Medicine», vol. 57, pp. 861-873.

Idler E.L. e Benjamini Y.1997 Self-rated health and mortality: a review of twenty-seven

community studies, in «Journal of health and social beha-viour», vol. 38, pp. 21-37.

Inran2003 Linee guida per una sana alimentazione – Revisione 2003,

in http://www.inran.it/servizi_cittadino/stare_bene/guida_corretta_alimentazione/Linee%20guida.pdf.

ILSA Working group1997 Prevalence og Cronic Diseases in older Italians: comparing

self-reported and Clinical Diagnoses, in «International Journal of Epidemiology», vol. 26, n. 5, pp. 995-1002.

International Clearinghouse for birth defects monitoring system2006 Annual Report 2006 with data for 2004, Roma, the In-

ternational Centre on Birth defects in http://www.icb-dsr.org/filebank/documents/Report2006.pdf.

Istat1997 Condizioni di salute e ricorso ai servizi sanitari. Anno

1994. Informazioni n. 54, Roma, Istat.2002 Le Condizioni di salute della popolazione. Anni 1999-

2000. Informazioni n. 12, Roma, Istat.2006a Gravidanza, parto, allattamento al seno, 2004-2005, Stati-

stiche in breve, Roma, Istat.

162

2006b L’assistenza residenziale in Italia: regioni a confronto. Anno 2003, Roma, Istat.

2007a Condizioni di salute, fattori di rischio e ricorso ai servizi sa-nitari – Anno 2005. Nota per la stampa del 2 marzo 2007.

2007b Istruzioni integrative per l’applicazione dell’Icd-10 nella codifica delle cause di morte – Metodi e norme, n. 35, http://www.istat.it/dati/catalogo/20080108_00/

2007c L’assistenza residenziale e socio-assistenziale in Italia, dati diffusi on-line il 4 maggio 2007, http://www.istat.it/dati/dataset/20070504_00/.

2008a Cause di morte. Anno 2003 – tavole di dati on line http://www.istat.it/dati/dataset/20080111_00/.

2008c L’uso e l’abuso di alcol in Italia, Anno 2007, Statistiche in breve.

Istat, Iss, Alteg2008 I tumori negli adolescenti e nei giovani adulti: i dati epi-

demiologici recenti come base per le prospettive future. Comunicato stampa, http://www.istat.it/salastampa/co-municati/non_calendario/20080508_03/_03/.

Kaplan g., Barell V. e Lusky A.1988 Subjective state of health and survival in elderly adults, in

«Journal of gerontology: Social sciences», Vol. 43, n.4, pp. 114-120.

Kramer M.1997 The rising pandemic of mental disorders and associ-

ated chronic diseases and disabilities, in «Acta Psychiatr Scand», vol. 62, pp. 282-97.

Lauria L. e de Stavola B.L.2003 A district-based analysis of stillbirth and infant mortality

rates in Italy: 1989-93, in «Paediatric and Perinatal Epi-demiology», vol. 17, n. 1, pp. 22-32.

Lipsi R.M. e Caselli g.2002 Evoluzione della geografia della mortalità in Italia, fonti

e Strumenti, dipartimento di demografia, Università di Roma «La Sapienza».

Liuzzi A.2000 Il dibattito scientifico in Istituto Auxologico Italiano (a

cura di), «Secondo rapporto sull’obesità», Milano, An-geli, pp. 56-90.

Livi Bacci M.2008 Avanti giovani alla riscossa. Come uscire dalla crisi giova-

nile in Italia, Bologna, Il Mulino.

163

Loghi M., Burgio A., Pierannunzio d. e giorgi P.2006 Evoluzione territoriale degli aborti spontanei, in g. Ca-

selli, M. Loghi, P. Pierannunzio (a cura di), Comporta-menti riproduttivi ed esiti sfavorevoli delle gravidanze. La Sardegna come caso paradigmatico, Roma, dipartimento di Scienze demografiche, Università di Roma «La Sa-pienza».

Lopez A.d., Collishaw N.E. e Piha t.1994 A descriptive model of sigarette epidemic in developed

countries, in «tobacco Control», vol. 3, pp. 242-247.

Manton K.g.1982 Changing concepts of morbidity and mortality in the el-

derly population, in «Milbank Memorial fund Quart/Health Soc», vol. 60, pp. 183-244.

Marmot M.2005 Social determinants of health inequalities, in «the Lan-

cet», vol. 365, pp. 1099–1104.Mesini d. e gambino A.2006 La spesa per l’assistenza continuativa in italia, in gori C.

(a cura di), La riforma dell’assistenza ai non autosuffi-cienti. Ipotesi e proposte, fondazione Smith-Kline, Bolo-gna, Il Mulino, pp. 45-82.

Ministero della Salute2008a Relazione del Ministro della Salute sulla attuazione della

legge contenente norme per la tutela sociale della maternità e per l’interruzione volontaria di gravidanza (legge 194/8), Roma 21 aprile 2008, in http://www.ministerosalute.it/imgs/C_17_pubblicazioni_804_allegato.pdf.

2008b Certificato di assistenza al parto (CeDAP). Analisi del-l’evento nascita – Anno 2005, Roma.

Montanelli R. e turrini A.2006 La governance locale nei servizi sociali. Risorse, attori,

strumenti, Collana Cergas, Milano, Egea.Mossey J.M. e Shapiro E.1982 Self-rated health: a predictor of mortality among the el-

derly, in «American Journal of Public Health» vol. 72, n. 8, pp. 800-808.

O’donnel O., van doorslaer E., Wagstaff A. e Lindelow M.2008 Analyzing Health Equity Using Household Survey Data.

A Guide to Techniques and Their Implementation, the International Bank for Reconstruction and development / the World Bank.

164

Oms2006 Guadagnare Salute – La strategia europea per la preven-

zione e il controllo delle malattie croniche. Copenaghen 11-14 settembre 2006. http://www.epicentro.iss.it/temi/croniche/pdf/Strategia_europea_italiano.pdf.

Ongaro f.2002 (a cura di) In famiglia o in istituto. L’età anziana tra ri-

sorse e costrizioni, Milano, Angeli.2009 Risorse familiari degli anziani in un contesto demografico

e sociale in trasformazione, in g. Bertin (a cura di), Invec-chiamento e politiche per la non autosufficienza, trento, Edizioni Erickson.

Orzalesi M. e Cuttini M.2005 Ethical Considerations in Neonatal Respiratory Care, in

«Neonatology», vol. 87, pp. 345-353.

Pinnelli A. e fiori f.2007 Le cure prenatali: protocolli, pratica medica e competenze

delle donne, in Pinnelli A., Racioppi f. e terzera L. (a cura di), Genere, famiglia e salute, Milano, Angeli, pp. 485-501.

Pollard J.H.1990 Cause of death and expectation of life: some international

comparisons, in J. Vallin, S. d’Souza e A. Palloni (a cura di), Measurement and Analysis of Mortality: New Approa-ches, Oxford, Clarendon Press, pp. 269-291.

Population Reference Bureau2008 Family Planning Worldwide. 2008 Data Sheet in www.

prb.org/Publications /datasheets/2008/.

Rebba V.2006 Il ruolo dell’assicurazione volontaria, in gori C. (a cura

di), La riforma dell’assistenza ai non autosufficienti. Ipo-tesi e proposte, fondazione Smith-Kline, Bologna, Il Mu-lino, pp. 395-419.

Rebba V. e Romanato S.2005 I costi della disabilità nell’anziano. Alcune riflessioni dallo

studio Pro.V.A (Progetto Veneto Anziani), in «Politiche Sanitarie», vol. 6, n. 3, pp. 127-148.

Ronfani L., Macaluso A. e tamburlini g.2005 (a cura di) Rapporto sulla salute del bambino in Italia:

problemi e priorità, IRCCS Burlo garofolo, Associazione Culturale Pediatri, Centro per la Salute del Bambino, Milano.

165

Rosina A.2008 L’Italia nella spirale del degiovanimento, www.neodemos.

it e www.lavoce.info.Rueda S., Artazcoz L. e Navarro V.2008 Health inequalities among the elderly in western Europe

in «Journal of Epidemiology and Community Health», vol. 62, pp. 492-498.

Scaccabarozzi g., Lovaglio P., Limonta f., Colombo C., Re M. e Balestra g.

2005 Progetto finanziare i costi per la long-term care – U.O. n. 2 Asl Lecco, edizione a cura dell’Asl di Lecco, Ricerca fi-nalizzata ex art. 12, pp. 1-123, disponibile sul sito www.asl.lecco.it.

Scioscia M., Vimercati A., Maiorano A., depalo R. e Selvaggi L.2007 A critical analysis on Italian perinatal mortality in a 50-

year span, in «European Journal of Obstetrics & gyne-cology and Reproductive Biology», n. 130, pp. 60-65.

Sermet C. e Cambois E.2006 Measuring the state of health in g. Caselli, J. Vallin e g.

Wunch (a cura di), Demography: Analysis and Synthesis. A Treatise in Population, Academic Press.

Spadin P. e Vaccaro C.M.2007 (a cura di) La vita riposta: I costi sociali ed economici della

malattia di Alzheimer, Censis – Aima, Milano, Angeli.

tabassun f., gjonca E., Nazroo J.2008 Social class differences in disability and disability free life

expectancy at old alge: evidence from the English Longi-tudinal Study of Ageing (ELSA), relazione presentata alla European Population Conference, Barcellona, 2-12 luglio.

taggi f.1999 L’approccio multi-Rischio (Amr) e le sue rappresentazioni

elementari: alcune considerazioni generali per applicazioni alla sicurezza stradale, Atti della LV conferenza del traf-fico e della Circolazione, Riva del garda, 27-30 ottobre, pp. 226-230.

tomassini C., glaser K., Wolf d., Broese van grenou M. e grundy E.

2004 Living arrangements among older people: an overview of trends in Europe and the USA, in «Population trends», n. 115, pp. 24-34.

Un1995 Guidelines to Reproductive Health, in http://www.un.org/

popin/unfpa/taskforce/guide/iatfreph.gdl.html.

166

van der Wiel A.B., de Craen A., van Exel E., Macfarlane P. e gussekloo J.

2005 Association between chronic dieases and disability subjects with low and high income: the Leiden 85-plus Study, in «Eur. Jou. of Publuci Health», vol. 15, n. 5, pp. 494-497.

Verhagen E. e Sauer P.J.J.2005 The Groningen Protocol – Euthanasia in Severely Ill

Newborns, in «New England Journal of Medicine», vol. 352, n. 10A, pp. 959-962.

Villar J. e Bergsjo P.2001 Antenatal Care Randomized Trial: Manual for the Imple-

mentation of the New Model, geneva, Who.Virgilio g., trisolini R., Mall S., Moro M.L., Mongardi M., Mar-

chi M., Boldrocchi g. e donatini A.2007 Strutture residenziali per anziani: strumenti di classifi-

cazione e costi, in «Politiche Sanitarie», vol. 8, n. 4, pp. 164-176.

Who1996 Health Interview Survey: Towards international harmoni-

zation of methods and instruments. Copenhagen: Who Re-gional Office for Europe. Who – Regional Publications, European series n. 58.

2001 Who Regional Strategy on Sexual and Reproductive Health, Copenhagen, Who Regional Office for Europe.

2007a Maternal Mortality in 2005. Estimates Developed by Who, Unicef, Unfpa and The World Bank, geneva, Who.

2007b European Health for All Database, in http://data.euro.who.int/hfadb/.

167

gli autori

domenico adamo è ricercatore dell’Istat – Istituto nazionale di sta-tistica, direzione centrale per le indagini su condizioni e qualità della vita, Roma.

elisabetta barbi è professore associato di demografia presso la facoltà di Scienze statistiche, Università di Messina.

giovanna boccuzzo è ricercatore in Statistica sociale presso la fa-coltà di Scienze statistiche dell’Università di Padova.

silvia bruzzone è ricercatrice all’Istat – Istituto nazionale di stati-stica.

luigi di comite è professore ordinario di demografia presso la facoltà di Scienze politiche, Università di Bari.

gennaro di Fraialla è collaboratore tecnico dell’Istat – Isituto nazionale di statistica, direzione centrale per le statistiche e le indagini sulle istituzioni sociali, Roma.

viviana egidi è professore ordinario di demografia presso la fa-coltà di Scienze statistiche dell’Università «La Sapienza» di Roma.

lidia gargiulo è ricercatore dell’Istat – Istituto nazionale di stati-stica, direzione centrale per le indagini su condizioni e qualità della vita, Roma.

marco giustini è collaboratore tecnico dell’Iss – Istituto superiore di sanità, Roma.

laura iannucci Ricercatrice presso la direzione centrale per le in-dagini su condizioni e qualità della vita dell’Istat.

rosa maria lipsi è titolare di assegno di ricerca presso l’Università «La Sapienza» di Roma.

marzia loghi è ricercatrice presso il Servizio sanità e assistenza dell’Istat – Istituto nazionale di statistica.

teodora macchia è primo ricercatore dell’Iss – Istituto superiore di sanità, Roma.

paola mancini è professore associato di demografia presso la fa-coltà di Economia, Università del Sannio di Benevento.

steFano mazzuco è ricercatore in Statistica sociale presso la fa-coltà di Scienze statistiche dell’Università di Padova.

168

Fausta ongaro è professore ordinario di demografia e direttore del dipartimento di Scienze statistiche, Università di Padova.

marilena pappagallo è ricercatore dell’Istat, Istituto nazionale di statistica, direzione centrale per le statistiche e le indagini sulle istituzioni sociali, Roma.

anna paterno è professore associato di demografia presso la fa-coltà di Scienze politiche, Università di Bari.

vincenzo rebba è professore straordinario di Scienza delle finanze presso la facoltà di Economia dell’Università di Padova.

giulia rivellini è professore associato di demografia presso la facoltà di Sociologia, Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano.

antonio salvatore è dottorando di ricerca in demografia presso il dipartimento di Scienze demografiche, Università «La Sa-pienza» di Roma.

silvana salvini è professore ordinario di demografia e direttore del dipartimento di Statistica «g. Parenti», Università di fi-renze.

daniele spizzichino è collaboratore tecnico presso l’Istat – Isti-tuto nazionale di statistica, direzione centrale per le indagini su condizione e qualità della vita, Roma.

marc suhrcke è professore di Public Health Economics presso l’Università di East Anglia a Norwich (UK).

Franco taggi è dirigente di ricerca dell’Iss – Istituto superiore di sanità, Roma.

alessandra tinto è ricercatore dell’Istat – Istituto nazionale di statistica, direzione centrale per le indagini su condizioni e qualità della vita, Roma.

daniele vignoli è titolare di assegno di ricerca presso il diparti-mento di Statistica «g. Parenti», Università di firenze.

169

attribuzioni

Il Rapporto è a cura di fausta Ongaro e Silvana Salvini.

Capitoli

Capitolo primo: a cura di Elisabetta Barbi.Contributi di: E. Barbi (§1); g. Caselli (§2).

Capitolo secondo: a cura di Silvana Salvini e Viviana Egidi.Contributi di: V. Egidi, S. Salvini (§1 e §2.3); d. Spizzichino (§2.1);

d. Vignoli (§2.2).

Capitolo terzo: a cura di Anna Paterno.Contributi di: L. di Comite (§2.1), P. Mancini (§1.4, 2.1, 2.2), A.

Paterno (§1.1, 1.2, 1.3, 1.4).

Capitolo quarto: a cura di Giulia Rivellini.Contributi di: L. gargiulo e A., tinto (§1); M. Pappagallo e g. di

fraialla (§2).

Capitolo quinto: a cura di Fausta Ongaro.Contributi di: g. Boccuzzo, f. Ongaro e C. tomassini (§1); g. Boc-

cuzzo, L. Iannucci e f. Ongaro (§2.)

Capitolo sesto: a cura di Stefano Mazzuco.Contributi di: S. Mazzuco (§1) e M. Suhrcke (§1).

Box

1.1. L’Italia tra i paesi a più bassa mortalità, di R.M. Lipsi1.2. La X revisione della Classificazione Internazionale delle Malat-

tie, di S. Bruzzone2.1. L’Italia in Europa: differenze e somiglianze nella qualità della so-

pravvivenza, di d. Vignoli2.2. Speranza di vita libera da disabilità nelle regioni italiane, di A.

Salvatore3.1. Le nascite premature e/o immature: evidenze scientifiche e pro-

blemi etici, di P. Mancini3.2. L’abortività volontaria tra le donne straniere, di M. Loghi4.1. Il fenomeno del binge drinking e il consumo di alcol fuori pasto

nella popolazione giovanile, di d. Adamo4.2. Guida su strada e comportamenti a rischio dei giovani, di f. tag-

gi, M. giustini e t. Macchia5.1. I costi della disabilità in Italia, di V. Rebba5.2. Previsione degli anziani disabili al 2020, di g. Boccuzzo e f.

Ongaro