Unde Malum? Il problema del male nella filosofia

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Si Deus, Unde Malum? Il problema del male nella storia della filosofia Indice 1. Parte Prima La filosofia e il problema del male Male fisico e male naturale Male morale Male Metafisico Il problema del male nel cristianesimo - Male come ignoranza - Male come privazione di bene - Imperscrutabilità della provvidenza divina - Teodicea irenea - male come strumento per realizzare un bene superiore - Male come Peccatum 2. Parte Seconda Il Problema del Male nella Filosofia Moderna Il male e il potere: Machiavelli e Hobbes Male e odiosità dell'io in Pascal Il male e la teodicea Il male nel migliore dei mondi possibili: Leibniz Kant e il fallimento di ogni teodicea razionale I filosofi e la catastrofe Il legno storto: Kant e il «male radicale» Il male e la potenza del negativo in Hegel 3. Parte terza Il Problema del Male nella filosofia Contemporanea Leopardi e il male ordinario Dostoevskij: la domanda sul male come punto d'incontro fra fede e ateismo Schopenhauer: il male come «volontà di vivere» Il male come sofferenza inutile Nietzsche: il male e il nichilismo Freud: malattia e normalità Il Novecento come secolo del male?

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trattazione del problema del male nella storia della filosofia. La posizione dei vari autori di fronte al problema del male morale, fisico e metafisico, fino ai nostri giorni e al problema del male dopo Auschwitz

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Si Deus, Unde Malum?

Il problema del male nella storia della filosofia

Indice

1. Parte Prima La filosofia e il problema del male Male fisico e male naturale Male morale Male Metafisico Il problema del male nel cristianesimo

- Male come ignoranza - Male come privazione di bene - Imperscrutabilità della provvidenza divina - Teodicea irenea - male come strumento per realizzare un bene superiore - Male come Peccatum

2. Parte Seconda Il Problema del Male nella Filosofia Moderna Il male e il potere: Machiavelli e Hobbes Male e odiosità dell'io in Pascal Il male e la teodicea Il male nel migliore dei mondi possibili: Leibniz Kant e il fallimento di ogni teodicea razionale I filosofi e la catastrofe Il legno storto: Kant e il «male radicale» Il male e la potenza del negativo in Hegel

3. Parte terza Il Problema del Male nella filosofia Contemporanea Leopardi e il male ordinario Dostoevskij: la domanda sul male come punto d'incontro fra fede e ateismo Schopenhauer: il male come «volontà di vivere» Il male come sofferenza inutile Nietzsche: il male e il nichilismo Freud: malattia e normalità Il Novecento come secolo del male? Il «male politico» del XX secolo: il totalitarismo Il «male assoluto»: rendere super-fluo l'umano Il «male banale» Il male e la «zona grigia» Il male nella ragione Il male come paranoia antisemita Pensare dopo Auschwitz Il male in Dio Male e pluralismo dei valori

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« Si Deus est unde malum? Et si non est, unde bonum? »Boezio, De consolatione philosophiae

Spesso il male di vivere ho incontratoera il rivo strozzato che gorgoglia

era l'incartocciarsi della fogliariarsa, era il cavallo stramazzato.

Bene non seppi, fuori del prodigioche schiude la divina Indifferenza:

era la statua nella sonnolenzadel meriggio, e la nuvola, e il falco alto levato.

Montale, Spesso il male di vivere, Ossi di seppia

La filosofia e il problema del male

La condizione umana è immersa nell'esperienza del male: morte, malattia, catastrofi naturali, guerre, ingiustizia, sofferenza, ecc. costituiscono una costante dell'esperienza quotidiana e un'evidenza della vita umana. La stessa riflessione filosofica nasce come messa in discussione dell'apparenza, del divenire e del male, al punto che un autore come Nietzsche, assume come atto di nascita della filosofia non lo stupore di fronte alle cose, secondo la classica tesi di Aristotele, ma lo stupore di fronte all'orrore dell'esistenza. La filosofia infatti, tematizzando questioni come la libertà, la felicità, la giustizia, l'essere, il logos e la razionalità, non può fare a meno di porsi anche il problema del male, visto, di volta in volta, come non essere, infelicità, ingiustizia, morte, disordine.

Prima di costituire una tematica fondamentale dell'indagine razionale, il problema del male costituisce il nucleo essenziale del mito e della religione. Nella narrazione mitica e religiosa il male è posto all'origine dell'essere e dell'esistenza, nella duplice immagine della nascita del mondo dal caos o della caduta dell'uomo per un atto di superbia e ribellione che corrompe un ordine armonico e buono e segna la nascita della storia come decadenza e prevalere del male.

Ma è con l'esperienza del male nella storia che nasce una ermeneutica del male, ovvero la necessità di render conto del male, dare di esso una interpretazione che consenta di comprenderlo e giustificarlo per dare un senso all'esistenza. Nella storia l'uomo fa esperienza del male in molteplici forme, due eventi paradigmatici segnano l'ermeneutica filosofica del male: Il terremoto di Lisbona del XVIII secolo, Auschwitz e la Shoah nel XX secolo.

A Lisbona, a metà del XVIII secolo, si verificò un terribile terremoto cui seguirono un maremoto e l'incendio della città. Il disastro di Lisbona ebbe il potere di mettere in crisi il paradigma della natura come armonia divina che dominava nella mentalità comune e la teoria di Leibniz secondo cui il nostro sarebbe il migliore dei mondi possibili, tale infatti la tesi centrale della sua teodicea - dottrina della giustizia di dio - che mirava a giustificare dio per la presenza del male nel creato. Fu Voltaire a sottolineare la contraddizione tra l'ottimismo leibniziano e l'esistenza del male nella forma delle catastrofi naturali. Scrive a tal proposito Adorno: "il terremoto di Lisbona bastò a guarire Voltaire dalla teodicea". L’inquietante domanda che il filosofo come il teologo non possono non porsi è la seguente: dov’era Dio mentre il terremoto di Lisbona uccise miseramente i fedeli che Lo pregavano?

La catastrofe di Lisbona simboleggia i disastri che la natura compie ai danni dell’uomo: ma, secondo Adorno, si tratta di una catastrofe di minima entità se accostata ad Auschwitz, che "prepara l’inferno reale" sulla terra. Con Auschwitz esempio di male umano, entra in crisi qualsiasi ermeneutica del male elaborata nel corso della storia e tutte le precedenti concezioni ottimistiche della storia, dell'uomo e della razionalità, sono superate.

La tradizionale risposta al problema del male che ha caratterizzato la cultura occidentale è quella cristiana, le soluzioni prospettate dal cristianesimo sono riconducibili a due fondamentali modelli: - quello della nemesi divina per cui il male è la vendetta con cui Dio punisce l’uomo per il male che ha compiuto;

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- quello della teodicea: secondo cui il male, anche il più gratuito, ha un senso compiuto se inserito nell’economia del tutto: il tutto è bene, e il male perde la sua valenza di male se inserito in tale contesto.

L'idea fondamentale che sta alla base di entrambi i modelli è la possibilità di redenzione dal male dell'uomo e dell'essere: il male non è destinato a trionfare ma ad essere sconfitto dal bene, la fine della storia e la fine del mondo coincidono con il successo finale del bene e l'instaurarsi del regno di dio. Il Giudizio Universale è la realizzazione concreta di questa idea: alla fine dei tempi i malvagi saranno castigati e i buoni premiati con la felicità eterna, la storia ha un senso e la sua conclusione è positiva. Il male e la sofferenza subiti dall'uomo nel corso della storia hanno così un senso: per il trionfo finale del bene è necessario l'esercizio della libertà, sono necessari la colpa e il merito, alla fine l'intervento di dio ristabilire la situazione di perfezione del creato antecedente al peccato umano.

Anche quella tradizione culturale che prende le mosse dalla rivoluzione scientifica fino ad emanciparsi da una spiegazione religiosa dell'essere e dell'esistenza con l'illuminismo e il materialismo, porta ad uno scacco. La secolarizzazione, l'affermarsi cioè in ogni ambito di una spiegazione delle vicende umane che non faccia riferimento a una entità personale trascendente, pone al centro dell'ermeneutica del male l'uomo come soggetto della storia. Se la storia è frutto dell'agire dell'uomo allora è in essa che occorre cercare un senso che possa "redimerla" dal male, dalla sofferenza, dal prevalere dell'ingiustizia. Il senso dovrà essere cercato nell'esistenza di un ordine che regoli il divenire storico in modo da concepirlo come un processo attraverso cui si affermi gradualmente uno stato di cose positivo. Tali sono i modelli che interpretano la storia come una totalità processuale necessaria che conduce al finale trionfo del bene, di volta in volta inteso come piena realizzazione della razionalità (Hegel), eliminazione rivoluzionaria dell'ingiustizia e affermazione di un uomo che è in grado di recuperare la propria essenza libera e creativa (Marx), realizzazione del progresso in una società che ha sconfitto la miseria materiale e morale (positivismo).

Male fisico e male naturale

E' quello che caratterizza l'esistenza degli esseri viventi in quanto esseri naturali: la sofferenza fisica, la malattia, la vecchiaia, il dolore del corpo, è rilevabile anche come conseguenza di eventi naturali che infliggono sofferenza come i disastri naturali. Esso appare come qualcosa di ineluttabile che fa parte dell'esistenza ma che diviene un problema filosofico qualora si assuma come causa che produce l'esistenza naturale, un principio positivo (dio, la ragione, l'evoluzione, ecc).Tradizionalmente il male fisico o naturale diviene oggetto di una ermeneutica del male quando si pone come sofferenza dell'innocente e del giusto, come nel caso di un bambino che soffre o nell'episodio biblico di Giobbe.L'esistenza del male fisico risulta non giustificabile con l'argomento del libero arbitrio o della colpa poiché esso non è interpretabile come pena che viene inflitta in conseguenza di una colpa specifica imputabile alla responsabilità di chi ne è colpito. Esso infatti colpisce casualmente. Il naturalista inglese David Attenborough cita come esempio il caso del nematode:

« La mia risposta è che quando i creazionisti parlano di Dio che ha creato ogni singola specie come atto separato, citano sempre come esempi i colibrì, o le orchidee, i girasoli e le cose belle. Ma io tendo a pensare, invece, ad un verme parassita che sta perforando l'occhio di un bambino seduto sulla riva di un fiume in Africa Occidentale, un verme che sta per renderlo cieco. E chiedo loro, "Mi stai forse dicendo che il Dio in cui credi, che tu dici anche essere un Dio infinitamente misericordioso, che si prende cura di ciascuno di noi individualmente, stai proprio dicendo che Dio ha creato questo verme che non può vivere in nessun altro modo se non nella pupilla di un bambino innocente? Perché ciò non mi sembra coincidere affatto con un Dio pieno di misericordia".»

Il problema è quindi perchè a soffrire non sia l'ingiusto, ma il giusto, l'innocente. Naturalmente questo problema non sorge se si ritiene la naturale e il male fisico che la caratterizza come totalmente slegati da qualsiasi valore morale.

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Male morale

Il male morale è il male come colpa o malum culpae può essere inteso sia come risultato del libero arbitrio e quindi della scelta deliberata del male, sia nel senso generale di una colpa originaria che coinvolgerebbe l'intero genere umano, come nel mito del peccato originale.

Nel primo caso, il male è il risultato di un cattivo uso della propria volontà o per ignoranza del bene o per volontaria trasgressione di una norma morale e religiosa ritenuta vincolante e universale. Questo tipo di male è oggetto di analisi della filosofia morale e qui il dibattito si incentra sul concetto di responsabilità. Se infatti il male fisico è gratuito e casuale nel suo accadere, il male morale è imputabile al soggetto che lo compie in quanto frutto di una scelta consapevole e deliberata della volontà che opta per il male. Il libero arbitrio si pone infatti come possibilità di scegliere tra il fare il bene e il fare il male, senza scelta non si darebbe libero arbitrio, né responsabilità, né colpa.

Nel secondo caso, l'inspiegabilità del male e della sua distribuzione che colpisce senza distinzioni il giusto e l'ingiusto, conducono ad assumere la presenza del male come risultato non della creazione divina ma di una colpa umana che avrebbe corrotto sia il creato che l'uomo stesso. Tale colpa originaria sarebbe consistita nella disobbedienza al volere divino e nella conseguente caduta dell''uomo che perde la sua innocenza e con lui la perde l'intero creato. In luogo della vita dominata dalla pace e dall'armonia dello stato precedente alla colpa originaria, si viene infatti a produrre il male, sia nella natura che nella storia. In questo modo anche il male fisico viene spiegato attraverso il male morale. A questo punto la natura di tutti gli uomini è irrimediabilmente corrotta ed essi non sono più in grado di compiere il bene e sono dominati da una forza che determina verso il male la loro volontà

Male Metafisico

Se il male fisico e morale fanno riferimento all'esperienza del male che si ha nell'esistenza, porsi il problema del male metafisico significa invece chiedersi cosa sia in se stesso il male, quale il suo statuto ontologico, che tipo di realtà esso possieda. La tradizione religiosa e filosofica, non solo occidentale, la risposta a questa domanda ha sempre negato che il male possa essere concepito come una realtà contrapposta al bene, ma ha interpretato il male come non essere, non quindi una realtà negativa contrapposta a una realtà positiva, ma una non realtà, una mancanza di essere. Tutto ciò che è, in quanto è, è bene, ma in quanto non realizza pienamente la propria natura o essenza è mancanza di essere e quindi mancanza di bene e quindi è male. Per esempio l'essenza dell'uomo è data dalla razionalità (Aristotele, l'uomo è un animale razionale), ma nell'uomo la razionalità non si realizza mai pienamente in tutta la sua perfezione, in questo senso l'irrazionalità non è una realtà positiva, ma la mancanza di razionalità data dall'impossibilità per l'uomo di raggiungere una razionalità perfetta.

Questa negazione della realtà del male per cui esso è privatio boni (mancanza di bene) risulta difficile da difendere sul paino dell'esperienza quotidiana in cui il male appare una costante presenza, la strategia argomentativa perseguita dalla maggioranza dei filosofi tenderà non tanto a negare l'evidenza della malvagità o del dolore, quanto nel negare che le azioni malvagie comportino, da parte di chi le compie, la scelta consapevole del male (dato che questo non esiste), esse sono invece il risultato di un errore di valutazione, di una errata conoscenza di cosa sia il bene. La scelta consapevole del male infatti implicherebbe l'esistenza del male, pertanto una volontà malvagia non esiste, l'azione cattiva è quindi frutto di un errore nel giudicare cosa sia bene.

Il problema del male nel cristianesimo

Centrale nella tradizione teologica e filosofica cristiana il tema del male si configura come problema del rapporto tra bontà e onnipotenza divina da una parte e presenza del male dall'altra. La formulazione più efficace di questo problema è quella attribuita ad Epicuro:

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« La divinità o vuol togliere i mali e non può o può e non vuole o non vuole né può o vuole e può. Se vuole e non può, è impotente; e la divinità non può esserlo. Se può e non vuole è invidiosa, e la divinità non può esserlo. Se non vuole e non può, è invidiosa e impotente, quindi non è la divinità. Se vuole e può (che è la sola cosa che le è conforme), donde viene l'esistenza dei mali e perché non li toglie? » Epicuro, frammento 374

La soluzione epicurea è quella di negare la provvidenza divina e affermare la divina indifferenza: gli dei nella loro perfetta beatitudine sono del tutto indifferenti alle vicende degli uomini e dell'universo, essi non sono creatori né si interessano agli uomini della cui esistenza non sono neanche consapevoli.

Una simile soluzione non poteva però essere accettata dal cristianesimo che ha nella provvidenza e nella creazione divina le sue fondamentali premesse, quindi il problema diventa cruciale e viene riassunto in modo esemplare da Severino Boezio in quello che sarà uno dei testi più importanti per tutta la successiva tradizione medioevale, La Consolazione della filosofia, composta nel VI secolo: Si quidem deus est, unde malum? (se c'è dio, da dove vengono i mali?)

Le soluzioni che a questo problema verranno date in ambito teologico, in parte già viste, sono le seguenti: male come ignoranza, male come privazione di bene, male come peccato, male come strumento di crescita spirituale, male come conoscenza limitata, male come colpa originaria

Male come ignoranzaI malvagi non sono realmente tali, essi compiono il male involontariamente per un errore di

valutazione, essi quando scelgono il male, in realtà ritengono buona la cosa cattiva che scelgono di fare. Quindi pensano di scegliere il bene e ciò dimostra che anche i malvagi preferiscono il bene, quindi la loro non è una reale preferenza del male, ma un semplice errore nel giudicare cosa sia bene e cosa sia male

Male come privazione di beneParadigmatica a questo riguardo la trattazione di Agostino nelle Confessioni (V secolo d.c.).

Egli sostiene che il male non sia una sostanza, una realtà esistente, ma una privatio boni. Tutto ciò che esiste è creato da dio ed è quindi un bene, se il male esistesse sarebbe anch'esso creazione divina e quindi sarebbe bene. Per il fatto stesso di essere create le cose non possono possedere la stessa perfezione del creatore, quindi il loro essere non è un essere perfetto, in questo senso il male è la mancanza di essere e perfezione che caratterizza necessariamente le creature in quanto diverse dal loro creatore e quindi non perfette. Il male è allora frutto di una scelta che è liberamente compiuta dalla creatura quando agisce e, abusando della sua libertà, sceglie "male". Il male non è quindi imputabile a dio ma all'uomo: male è il peccatum.

Imperscrutabilità della provvidenza divinaUn argomento dice che, a causa della scarsa conoscenza dell'umanità, gli esseri umani non

possono pretendere di comprendere Dio o il suo piano ultimo. Quando un genitore porta un bambino dal dottore per una vaccinazione regolare per prevenire una malattia infantile, è perché il genitore ama e si prende cura di quel bambino. Il bambino però quasi sempre vede le cose in modo molto diverso. Si sostiene che, proprio come un bambino non può capire le motivazioni del suo genitore mentre è ancora solo un bambino, le persone non possono comprendere la volontà di Dio nel loro stato fisico attuale e terreno.

Teodicea irenea - male come strumento per realizzare un bene superioreIl male e la sofferenza sono visti come strumenti necessari per la realizzazione di un bene

superiore, ad esempio per la crescita spirituale. Questo approccio è spesso combinato con l'argomento del libero arbitrio, sostenendo che tale crescita spirituale richiede decisioni di libero arbitrio. Questa teodicea è stata sviluppata dal teologo cristiano del II secolo, Ireneo di Lione. Tale tesi non spiega però il male gratuito, molti mali naturali infatti, come la sofferenza dei bambini, senza che questo provochi in loro una crescita morale. In generale la stessa esistenza dell'uomo

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sarebbe un cammino, governato dalla divina provvidenza, colmo di sofferenze attraverso le quali l'uomo riscatta se stesso e conquista la beatitudine eterna, quindi la sofferenza viene riscattata dalla realizzazione di un fine superiore nell'aldilà.

Male come PeccatumCon Peccatum nella tradizione teologica si intende un atto che viola la legge divina, per

comprendere la concezione cristiana del peccato occorre tenere presente la concezione del peccato originale e l'incarnazione. Con il sacrificio di Gesù si apre per l'uomo la possibilità della redenzione vincolata al fatto che il singolo segua il magistero della Chiesa. Entro tale contesto la trattazione classica del peccato è quella di Agostino secondo cui esso sarebbe un atto di libera scelta per cui si indirizza il proprio agire verso beni inferiori rispetto a quello che è l'autentico e sommo bene (Dio e la salvezza). In altri termini l'uomo, con una conversio ad inferiora, sceglie beni (denaro, piacere, potere, ecc.) che non sono in se stessi "male", in quanto tutto ciò che esiste è bene, ma che nell'ordine delle cose esistenti hanno meno valore rispetto a dio. Il male quindi non sta, per esempio, nel provare piacere o nell'apprezzare il cibo, ma nel fare di queste realtà in se buone il fine ultimo della nostra vita, il valore assoluto che la nostra volontà persegue. Si tratta di una perversione dell'ordine naturale delle cose frutto di un cattivo uso del libero arbitrio, che opta per ciò che ha meno valore, sovvertendo l'ordo rerum, quindi il male è agire contro natura.

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Il Problema del Male nella Filosofia Moderna

Introduzione

Nel Sei e Settecento il mondo viene per lo più pen-sato come un complesso ordinato, un meccanismo armonico e razionale, garantito nella sua legalità da Dio. Ma un conto è leggerlo come ordine retto da leggi immutabili; un altro rendere ragione del male, scandalosamente presente in un mondo così fatto. È sempre un azzardo tentare una classificazione o una tipologia generale che inquadri, senza eccessive forzature, i modi in cui il problema è stato affrontato dal Cinquecento ai primi dell'Ottocento. Un dato è certo: con l'eccezione di Spinoza, la localizzazione del «male» nel disordine morale - indotto dalle passioni, malattie che intossicano e deformano l'animo, espropriandolo al dominio legittimo della ragione - attraversa anche l'età moderna. Al di là di questo luogo comune, si potrebbe provare a distinguere, per esempio, fra riflessioni che hanno insistito sul radicamento del male nella natura umana, trascurando o lasciando sullo sfondo il rapporto con Dio (Machiavelli, Hobbes, Montai-gne, Kant); riflessioni che, viceversa, si sono con-centrate proprio sul rapporto Dio-male, nel tenta-tivo di giustificare a vario titolo Dio dall'accusa di esserne la causa - le teodicee - oppure di negare la possibilità di una tale giustificazione razionale (Bayle e Kant); infine riflessioni, come quelle di Rousseau e di Hegel, che hanno visto il male essenzialmente nella sua dimensione storica. Male e natura umana, male e Dio, male e storia.

Il male e il potere: Machiavelli e HobbesNel Cinquecento, il problema del male viene sempre affrontato in chiave teologica, ma a questa lettura si aggiunge quella politica incentrata sulla questione del potere, infatti è il secolo in cui si formano le monarchie nazionali, gli stati regionali moderni e infuriano le guerre di religione. La politica, intesa come lo sforzo organizzato per tenere a freno la malvagità degli uomini, si legittima nell'uso di «mali» legalizzati (la violenza, la coercizione o l'autorità estrema), «mali» minori nei confronti di quel mate maggiore, che si ritiene radicato nella stessa natura umana.

Il tema del male è centrale in Niccolo Machia-velli. In primo luogo, male e «tristizia» sono costi-tutivi degli uomini e della loro «invìda natura», co-me si legge nel Proemio dei Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio,- un dato strutturale, che obbliga tutti coloro che ragionano di politica a «presuppor-re tutti gli uomini rèi, e che li abbiano sempre a usa-re la malignità dello animo loro qualunque volta ne abbiano libera occasione» (Discorsi I, III). La natura malvagia degli uomini si evidenzia con ferocia, per fare solo l'esempio più noto, ogni qual volta l'avidità li porta ad anteporre il patrimonio agli affetti filiali. Il male viene inteso nel suo

significato comune di violenza, delitto, malafede, che il principe all'occasione deve saper praticare, in cui deve «sapere entrare, necessitato» (Il principe, cap. XVIII), quando cioè lo impongano le circostanze o quando la sua «virtù» voglia indirizzare in senso favorevole la «fortuna»; ma nell'esercizio di queste finalità politiche, il male perde ogni caratterizzazione morale e si trasforma in strumento per un fine opposto: controllare e dirigere a buon fine la naturale «tristizia» degli uomini. Su queste premesse, la politica diventa l'arte di riorientare e di riconvertire il male insito nell'uomo verso una stabile vita associata, immunizzandone la forza disgregante. In conclusione Machiavelli, fondando la politica come scienza autonoma dalla morale e dalla teologia, si basa su un esame oggettivo della "realtà effettuale" e su una concezione della natura umana tipica del pessimismo antropologico rinascimentale. In quanto autonoma la scienza della politica è infatti laica, non subordinata a una considerazione religiosa e morale come nel medioevo, ma sulle leggi della natura e della natura umana. La natura dell'uomo non è riconducibile a una essenza trascendente, l'analisi storica e razionale conduce Machiavelli a concludere che sulla natura dell'uomo agiscono le passioni e che tutto il suo agire è finalizzato alla propria conservazione. Quindi fine e legge assoluta della natura umana è l'utile privato che gli uomini perseguono a qualsiasi costo. Da qui il razionalismo pessimistico di Machiavelli che lo porta a concludere: «Gli uomini non operano mai nulla bene se non per necessità». Thomas Hobbes trasferisce nello «stato di na-tura» quella condizione di «tristizia», che Machia- velli collocava nella stessa costituzione umana. In natura regna un assoluto disordine relazionale, fat-to di totale incomunicabilità fra gli esseri umani, di assenza completa di leggi, di trionfo del più imme-diato egoismo. Nello stato di natura il comportamento umano e determinato da alcuni principi che Hobbes assume come Postulati: la cupiditas naturalis (bramosia naturale), per cui ciascun individuo avanza il proprio diritto su tutto (Ius omnium in omnia) e la Ratio naturalis, in base alla quale il fuggire la morte, ancora una volta la propria conservazione, costituisce la finalità assoluta per l'uomo. Da questa situazione consegue che lo stato di natura sia una guerra di tutti contro tutti - bellum omnium contra omnes - in cui ciascun uomo si rapporto distruttivamente a tutti gli altri (homo hominis lupo) e che porterebbe alla autodistruzione del genere umano se non intervenisse la Ratio Naturalis. Il male quindi discende dalla assoluta libertà e uguaglianza dello «stato di natura» e dalla precarietà che ne deriva, nella costante esposizione al rischio della morte violenta. Male è la paura dell'altro, nella quale si consuma «male» l'esistenza di tutti e che sollecita necessariamente la spinta razionale a uscirne. Bene è allora la totale limitazione di questa «cattiva» libertà, della quale gli uomini si devono privare con un patto conferendo al sovrano un

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potere assoluto su di loro. Se il problema del rapporto tra male e politica prende le mosse, in Machiavelli e in Hobbes, da un'originaria negatività, da una «cattiva» condizione di partenza - la natura umana stessa in Machiavelli, la paura nello «stato di natura» in Hobbes -, in Rousseau assumerà una polarità capovolta e caratteri di segno invertito: la fonte del male non è la natura, ma la società, che corrompe necessariamente la natura buona dell'uomo.

Male e odiosità dell'io in PascalII tema del male è talmente intessuto alla medita-zione antropologica e religiosa di Blaise Pascal, che risulta impossibile enuclearlo in questa o quella ver-sione esemplare. L'uomo è un essere fragile, sospe-so e sgomento tra i due abissi dell'infinito e del nul-la» (Pensieri, p. 99); la sua miseria, retaggio del peccato originale, si rispecchia nella consapevolez-za che l'«io» umano ha di essere odioso a se stesso, cogliendosi pieno di difetti: «Vuoi essere grande, e si vede meschino; vuoi essere felice, e si vede mise-rabile; vuoi essere perfetto, e si vede pieno di im-perfezioni» (Pensieri, pp. 118-119). Questa coscien-za è «male», perché induce un odio mortale contro la verità che così ci offende; ma è un male ancora maggiore non volerla riconoscere, cioè «l'ignoran-za di quei difetti», la dissimulazione, la menzogna e l'ipocrisia verso di sé e verso gli altri, radicate nel suo cuore, attraverso le quali distrae se stesso dal-la verità. Male è la dissimulazione, sempre «dis-onesta», di «questo laido fondo dell'uomo, questo fìgmentum mali ["fondo del male"]» (Pensieri, p. 121). Il male è proprio della natura mediana dell'uomo che è sospeso tra essere e nulla e si viene a caratterizzare come desiderio frustrato: infinita la sua aspirazione al bene, alla libertà e alla felicità, ma finiti i mezzi di cui la sua natura dispone per raggiungere quei fini, è quindi condannato alla sofferenza da cui solo la fede può riscattarlo, ma la fede è un rischio perché non garantita razionalmente, non dimostrabile e, in ultima istanza, fuori dal suo controllo e dalla sua volontà.

Il male e la teodiceaFra Sei e Settecento ritorna il tema, già agostiniano, della giustizia di Dio, cioè del rapporto problematico fra Dio e il male: espressa nei suoi termini essenziali della domanda: si Deus, unde malum?. Nel 1710, con i suoi Saggi di teodicea, Leibniz conia il termine «teodicea», cioè «sistema della giustizia di Dio», che da allora diventa di uso comune. Il neologismo dichiara apertamente la finalità dell'opera: assumere la difesa di Dio e rendergli giustizia, assolvendolo dall'accusa di essere causa del male nel mondo. An-che se «teodicea» è un termine relativamente recen-te, antichissime sono sia l'accusa rivolta a Dio di es-sere autore o responsabile dei mali del mondo, sia la «giustificazione» di Dio. La prima «teodicea» è, in fondo, quella contenuta nel libro di Giobbe, uno dei libri «sapienziali» della Bibbia: i dolori e le sven-ture che improvvisamente gli si accaniscono con-tro, sono per Giobbe ingiusti, perché colpiscono

l'uomo pio, onesto e giusto, e Giobbe ne chiede con-to a Dio, con toni che sfiorano l'invettiva. Agli ami-ci che intervengono in difesa di Dio, ribadendo l'as-soluta giustizia di Dio e cercando di convincere Giobbe che la causa del male è una sua colpa, Giob-be rinfaccia l'ipocrisia di ogni teodicea: «Volete for-se dire delle falsità in favore di Dio / e per lui par-lare con inganno? / Volete prendere il partito di Dio e farvi suoi avvocati?» (Giobbe, 13, 7-8, in Bibbia. Nuovissima versione dai testi originali, p. 118).

Il problema del male in rapporto a Dio, alla sua giustizia, ma anche alla sua bontà, alla sua potenza, alla sua saggezza, è affrontato estesamente da Spinoza, Malebranche e Leibniz, con esiti identici - da Dio non sarebbe potuto derivare un mondo diverso dal nostro -, ma con significative distanze circa la natura del male.

Il male nel migliore dei mondi possibili: LeibnizI Saggi di teodicea sulla bontà di Dio, la libertà dell'uo-mo e l'origine del male, pubblicati da Leibniz ad Am-sterdam nel 1710, inaugurano l'uso del termine «teo-dicea», in un momento storico in cui, però, la legittimità di una «giustificazione» razionale di Dio stava perdendo di forza: prima Bayle, poi l'Illumi-nismo e Kant, come si leggerà sanciscono il fallimento di ogni teodicea. L'opera di Leibniz si presenta dichiaratamente come una rispostaalla critica scettica, ma con esisti fideistici, di Pierre Bayle, che nei Pensieri diversi sulla cometa (1682) e nel Dizionario storico-crìtico (1697) aveva sostenuto l'incapacità del pensiero cristiano di respingere le obiezioni sul problema del male. In buona sostanza, la tesi di Bayle è che 1) il male è reale e 2) tutte le teodicee falliscono nel loro scopo perché conferiscono a Dio attributi che diventano inconciliabili se portati all'infinito: se si ammette l'infinita bontà, per esempio, è inspiegabile anche il più piccolo dei mali. L'infinita potenza, poi, pretende che Dio non sia giudicabile in base ai nostri stessi valori e che ciò che per noi è «male» sia «bene» per Dio; abban-dona così l'attributo della bontà divina, che è il sen-so stesso della relazione fra Dio e uomo. Se vuoi te-ner ferme insieme l'infinità della potenza e l'infinità della bontà, ogni «giustificazione» di Dio risulta ra-zionalmente insostenibile e non resta che abban-donare la ragione e attenersi alla sola fede.

Leibniz imposta in modo tradizionale il proble-ma della teodicea, in un quadro che rimanda ad Agostino, come la distinzione fra «male metafìsi-co» (l'imperfezione creaturale), «male fisico» (la sof-ferenza) e «male morale» (il malum culpae, il pec-cato).

Il primo rappresenta la convinzione fondamen-tale di ogni teodicea, che individua l'origine di og-ni forma di male nella limitazione e nella finitudi-ne, costitutive della natura umana. Il male morale - e prima ancora, la stessa imputabilità morale - è, inoltre, in rapporto con la libertà, che in un essere imperfetto come l'uomo può essere usata male. Ebbene, su queste basi tradizionali, Leibniz innesta la sua metafisica del migliore dei

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mondi possibili, in cui il male rivela la sua irrealtà. Dio non poteva creare un mondo diverso da quello attuale: questa impossibilità dipende dal fatto che, pur essendo libero, è vincolato in modo necessitante dalla sua perfezione a scegliere il mi-gliore dei mondi possibili. In un certo senso, quin-di, per Dio era impossibile scegliere di creare un altro mondo fra gli infiniti possibili, non in base a una necessità logica, ma per una necessità mora-le: era obbligato a scegliere il meglio. Poiché è buo-no, ed è impossibile agire sine ratione, il mondo at-tuale deve necessariamente essere così com'è, compreso il male, che è soltanto apparente. Che sia, poi, il migliore dei mondi possibili, è dimostra-to dal fatto che esiste: se non esistesse il migliore dei mondi possibili, che è uno e solo uno, Dio non avrebbe potuto determinarsi a crearlo. Il migliore dei mondi possibili non è privo di male, di soffe-renza o di disordine; ma nell'insieme rappresenta la maggiore perfezione possibile. Nessuno dei ma-li che contiene è inutile o può essere tolto, perché, in virtù del principio di ragion sufficiente, è con-nesso all'intero; e per lo stesso motivo, non vi si può aggiungere alcun bene ulteriore. Per Leibniz, un mondo in cui il male sia assente è possibile lo-gicamente, ma non moralmente, perché sarebbe nel complesso peggiore di quello attuale; né, infi-ne, sarebbe immaginabile che Dio avesse deciso di non creare alcun mondo: Leibniz non mette in dis-cussione che esistere sia meglio che non esistere, che essere sia «bene» e non essere sia «male».

Kant e il fallimento di ogni teodicea razionaleLa più importante teodicea moderna, quella di Leibniz, ritiene di aver portato a termine con successo il suo compito: dimostrare la piena compatibilita fra Dio e il male, senza che risulti lesa l'immagine della divinità. Per Leibniz il «male» è apparente, ma necessario. Un mondo senza male sarebbe stato peggiore. In contrapposizione diametrale rispetto alla teodicea si sviluppa nel Settecento una tradizione, per così dire, di «antiteodicea», che persegue un consapevole immoralismo e caratterizza l'illuminismo. Massimo pensatore del Settecento, Kant non si esenta dall'affrontare il tema, al quale dedica un breve scritto del 1791: Sull'insuccesso di ogni tentativo fìlosofìco di teodicea La cornice dell'argomentazione kantiana è il riconoscimento critico dei limiti insuperabili di ogni discorso razionale su Dio e, conseguentemente, dell'insuccesso» inevitabile al quale si condanna chi voglia perorare in forma dimostrativa la causa di Dio. Chi si cimenta in una teodicea presume di essere «l'avvocato di Dio», che si assume il compito di sostenerne la causa nel pro-cesso intentato «di fronte al tribunale della ragio-ne»; si tratta della «difesa della saggezza suprema del Creatore contro le accuse che le muove la ra-gione a partire dalla considerazione di quanto nel mondo vi è di contrario al fine di questa saggez-za». Una tale difesa razionale non può peraltro «de-durre» la saggezza morale dalla «saggezza artisti-

ca» del Creatore, cioè dalla bellezza e armonia del creato, perché non può essere fondata sull'espe-rienza di ciò che accade nel mondo, ma deve es-sere condotta a priori», ma noi non abbiamo alcun concetto a priori per cui operare una simile deduzione. In conclusione, quanto vi è di contrario alla saggezza suprema di Dio è l'esperienza del male, nelle tre specie del peccato (il male morale), del dolore (il male fisico) e dell'ingiustizia (come sproporzione fra la sofferenza e la colpa); che non si accorda come ogni teodicea tenta di dimostrare, con la santità, la bontà e la giustizia divine in cui consiste, afferma Kant, il «concetto morale» di Dio, che sta a fondamento della religione.

Il verdetto di questo processo è che «nessuna teodicea ha finora mantenuto la sua promessa», perché «la nostra ragione è assolutamente inca-pace di intendere il rapporto tra un mondo così co-me sempre ci è dato conoscerlo tramite l'esperien-za e la saggezza suprema». Kant definisce «dottrinale» ogni teodicea che pretenda di conoscere e dimostrare «l'intenzione finale di Dio» a partire dal mondo sensibile, che rimane così per noi «un libro chiuso». Il fallimento di ogni teodicea dottrinale non equivale a negare la possibilità di un altro tipo di teodicea, che Kant chiama «autentica», fondata sulla limitazione delle nostre pretese riguardo ciò che resta al di sopra delle nostre possibilità. In altre parole, è a pieno titolo teodicea il rifiuto di tutte le accuse rivolte a Dio, quando queste risultano in contrasto con il concetto di Dio come essere morale e saggio, che noi possediamo in virtù della nostra ragione e della legge morale. Infatti noi modelliamo il nostro concetto di Dio sulla legge morale. Tale teodicea non è in grado di dimostrare sul piano teoretico la compatibilità tra la giustizia divina e il mondo come lo conosciamo, tuttavia non dubita, sul piano pratico, della saggezza e bontà divina che ricava dalla legge morale.

Il caso di Giobbe, è esemplare, sostiene Kant. Giobbe vive in salute, benessere, felicità, insieme con una famiglia amorosa e amici fidati; improvvisamente, Dio inizia a colpirlo, togliendogli una a una le persone e le cose più care. Al lamento di Giobbe per l'ingiusto rovesciamento della fortuna, gli amici propongo-no quella che, ante litteram, è una «teodicea dot-trinale», sostenendo che i mali subiti sono la pena per le colpe commesse; anche se risulta difficile trovare una colpa in Giobbe, è certo che in qual-cosa è colpevole, perché in caso contrario sareb-be impossibile per la giustizia divina che fosse in-felice. Giobbe non accetta questa spiegazione, la rigetta sdegnosamente in nome della sincerità del-la sua coscienza, ma ugualmente si sottomette all'incondizionatezza dell'operato divino, conservando in modo fermo la sua fiducia in Dio in virtù non di una teodicea, ma di quella certezza morale che a nessun costo vuole tradire. Così mostrava di «non fondare la sua moralità sulla fede, ma la fede sulla moralità»: la fede in Dio, nonostante la presenza del male nel mondo, è tutta fondata sulla legge morale.

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I filosofi e la catastrofeIl 1° novembre 1755 si verifica a Lisbona un terrificante terremoto, che distrugge la città, facendo decine di migliaia di vittime. La sequenza apocalitticadella tragedia (terremoto-maremoto-incendio). sembrava la smentita più violenta a qualsiasi teodiceae il certificato di morte dell'ottimismo leibnizia-no. Voltaire stende di getto, sull'onda dell'emozione ma anche nella consapevole intenzione di provocare e scandalizzare, un poema in versi, il Poema sul disastro di Lisbona, con il sottotitolo: Ovvero riflessioni sull'assioma: «Tutto è bene»; in seguito dedicherà alla confutazione dell'ottimismo» il celebre Candido. Ecco alcuni versi dal Poema (4-16; 42-44; 122-128; 133-139; 169-176; trad. di S. Manzoni) che esprimono bene il punto di vista di Voltaire sull'ottimismo di Laibniz:

«Filosofi fallaci che gridate: «Tutto è bene»Accorrete, contemplate queste tremende rovine,Queste macerie, questi brani di carne e queste misereceneri,Queste donne, questi fanciulli l'un sull'altroammassati,queste membra disperse sotto i marmi in frantumi;Centomila feriti che la terra divora,Che, insanguinati, fatti a pezzi, ma ancora vivi,Sepolti sotto i loro tetti, terminano senza aiutoI loro giorni di pena tra atroci tormenti!Alle urla indistinte dei loro lamenti,Allo spaventoso spettacolo delle ceneri fumanti,Direste, forse: «Questo è l'effetto delle leggi eterneChe rendono necessaria la scelta di un Dio liberoe buono?[...]«Tutto è bene», voi dite, e «tutto è necessario».Come! Forse che l'universo intero, senza questavoragine infernale,Senza inghiottire Lisbona, sarebbe stato piùmalvagio?[...]Voi gridate: «Tutto è bene», con voce incrinata dilacrime,L'universo vi smentisce e il vostro stesso cuoreCento volte del vostro spirito ha confutato l'errore.Elementi, animali, esseri umani, tutto è in guerra.Bisogna ammetterlo, il male è sulla terra:II suo principio segreto ci è sconosciuto.Il male è derivato dall'autore stesso del bene?[...]Ma come concepire un Dio, essenza di bontà, Che fa dono dei propri beni ai suoi amati figli E che riversa su di loro i mali a piene mani? Quale occhio può sondare i suoi più riposti disegni? Dall'Essere perfetto il male non poteva nascere; Né da altri esso poteva venire, poiché Dio solo è signore: II male esiste, tuttavia. O tristi verità!Leibniz non mi insegna attraverso quali invisibilinodi,Nel più ordinato dei possibili universi,Un disordine eterno, un caos di infelicità,Mescola i nostri vani piaceri ai reali dolori,

Né perché l'innocente, alla stregua del colpevole, Subisce in egual modo questo male inevitabile. : Non concepisco neppure come tutto sarebbe bene: Sono come un medico, ahimè, non ne so niente».

Il legno storto: Kant e il «male radicale»Al problema del male, nella forma di un «male ra-dicale», Kant ha dedicato una sofferta riflessione, che si può leggere ne La religione nei limiti della semplice ragione. L'interpretazione kantiana muo-ve dalla rielaborazione pietistica dell'agostinismo e del luteranesimo, ma anche dalla constatazione che «da un legno storto com'è quello di cui è fatto l'uomo non si può fare nulla di completamente dritto». È possibile sostenere, afferma Kant, che «nell'uomo c'è una tendenza naturale al male; e questa tendenza è in se stessa moralmente cattiva perché, in definitiva, va ricercata nel libero arbitrio, quindi può essere imputata. Si tratta di un male radicale, perché corrompe il fondamento di tutte le massime e, nello stesso tempo, in quanto tendenza naturale, non può essere sradicato dalle forze umane [...]; tuttavia questa tendenza deve poter essere vinta, perché opera nell'uomo in quanto essere che agisce liberamente».

Il male e la potenza del negativo in HegelPer Hegel, il «male» è riducibile a «momento» ne-gativo della dialettica che, in quanto tale, è desti-nato a essere necessariamente «tolto» e «supera-to». La stessa articolazione dialettica del sistema, nel suo schema teologico-cristiano piuttosto tra-sparente, pone la verità dapprima in sé e presso di sé (il Dio-Padre), che poi si fa mondo (il Dio-Uo-mo), e che, infine, ritorna in sé e per sé nell'asso-lutezza dello Spirito, opera la «redenzione» del «ma-le». In realtà tutta la produzione hegeliana riflette l'esperienza devastante del negativo operante nel-la natura e soprattutto nel «mattatoio della storia» (Lezioni sulla filosofia della storia, voi. I, p. 68). La storia dunque è nel suo insieme una «teodicea, una giustificazione di Dio»; essa riporta «la totale massa del male concreto» alla sua destinazione positiva finale. Per Hegel la guerra, luogo per eccellenza del male, fa parte della vita dello spirito: è il negativo e il male, che svolge la sua funzione provvidenziale nella storia e che non va esorcizzato ma riconosciuto nella sua tragica razionalità come un «momento etico»: «se guar-diamo al male, in ogni sua forma, al tramonto dei regni più fiorenti che lo spirito umano abbia pro-dotto, se consideriamo con la più profonda com-passione per la loro angoscia senza nome gl'individui, non possiamo concludere se non nel compianto per questa universale transitorietà, ed anzi [...] nel cordoglio morale, nello sdegno dello spirito buono, se ve n'è tale per noi, per simile spettacolo. [...] Ma, pure quando consideriamo la storia come un simile mattatoio

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[...], il pensiero giunge di necessità anche a chiedersi a vantaggio di chi, e di qual finalità ultima siano stati compiuti così enormi sacrifici» (Lezioni sulla filosofia della storia, p. 68). Il male, ovvero il negativo, è tolto e conservato, ovvero ricompreso a un livello più alto. In altre parole, Hegel riprende chiaramente l'antica intuizione, secondo la quale, come amputare un arto è necessario per salvare il corpo, così il male è necessario alla realizzazione del bene. Oltre ciò, pe-rò, lascia intendere che il male sia costitutivamen-te essenziale al bene, collocando così la tragicità dialettica fra bene e male nell'Assoluto stesso e nella dialettica stessa dello Spirito. In breve, per Hegel il negativo e il male sono un momento della natura stessa di Dio.

Parte Terza: Il Problema del Male nella filosofia Contemporanea

Il percorso di riflessione attraverso il problema del male, porta dalle figure mitiche del male fino al culmine della modernità, rappresentato dall'idea kantiana del «male radicale» e dalla potente siste-mazione hegeliana. In estrema sintesi la filosofia fino a Hegel ha sempre perseguito e conseguito la comprensibilità del male, ha sempre presunto di poterlo e doverlo razionalizzare, in modo tale da renderlo giustificabile. Questo processo complessivo di depotenziamento, se non di annullamento, della terribile presenza del male nella vita e nelle vicende umane ha assunto per lo più, come s'è visto da Agostino a Leibniz, la forma della «teodicea», ed è consistito nel negare realtà sostanziale al male e nell'iscriverne le manifesta-zioni pur dolorose in un superiore disegno provvidenziale. In questo modo, il problema del male è diventato il problema di Dio, di come Dio sia compatibile con il male. Ogni teodicea ha una finalità assolutoria nei confronti di Dio: non è Dio, ma sono gli uomini i responsabili delle azioni malvagie, e queste rientrano comunque nel complessivo «sistema della giustizia di Dio».Ebbene, aprendo queste riflessioni sul problema del male fra Otto e Novecento, è agevole constatare che, dopo Hegel, entra in crisi proprio la fiducia razionalistica di poter comprendere il male e con essa ogni tentativo di teodicea, di cui, in particolare dopo Auschwitz, risulta evidente e inaccettabile il «vizio conciliatorio». Ben più dei terremoti di Lisbona e dei disastri delle guerre, che avevano scosso l'ottimismo razionalista del Settecento, è la pratica concentrazionaria e i campi di sterminio che rendono impossibile pensare il male come una semplice privazione di bene o giustificarlo in un disegno di giustizia provvidenziale o, soprattutto, perdonarlo. Dalla dolente e radicale «protesta» leopardiana, attraverso la desolazione nichilistica di un mondo dal quale dio se ne è andato, l'esito

inquietante di tanta riflessione novecentesca sarà di porre il male nella stessa ragione e in dio.

Leopardi: il «male ordinario»Che Giacomo Leopardi sia, a pieno titolo, il filosofo (per quanto non sistematico né, tanto meno, professionale) è convinzione diffusa e documen-tata. È noto come, fra il 1825 e il 1827, Leopardi giunga a un radicale pessimismo su basi materialistiche, a partire dal quale costruisce l'immagine di una natura insensibile, generatrice di infelicità. Al di fuori di qualsiasi ipotesi d'ordine e di comprensibilità, che permetta di intuire il disegno amoroso e provvidenziale di un Creatore, al di fuori di qualsiasi teodicea, le cose appaiono ordinariamente infette dal male, passivamente obbedienti a una sola legge: «Un alternarsi ciclico e inarrestabile di creazione e di distruzione, di vita e di morte». È possibile seguire, nelle annotazioni dello Zibaldone le scansioni di una vera e propria teoria del «male ordinario», secondo la quale, più che essere inscritto nell'ordine delle cose, il male è l'ordine stesso delle cose, poiché essente e infelice sono sinonimi. Zibaldone, 4133, 9 aprile 1825: «La natura tutta, e l'ordine eterno delle cose non è in alcun modo diretto alla felicità degli esseri sensibili e degli animali. Esso vi è anzi contrario. [...] Gli enti sensibili sono p. natura enti souffrants, una parte essenzialmente souffrante dello universo. [...] convien dire che essi siano un anello necessario alla gran catena degli esseri, e all'ordine e alla esistenza di questo tale universo, al quale sia utile il loro danno, poiché la loro esistenza è un danno per loro, essendo essenzialmente una souffrance» (p. 2687). Il documento-simbolo di «una metodica maledizione del reale» sono le pagine 4174-4177 dello Zibaldone, scritte a Bologna e datate 22 aprile 1826: «Tutto è male. Cioè tutto quello che è, è male; che ciascuna cosa esista è un male; ciascuna cosa esiste per fin di male; l'esistenza è un male e ordinata al male; il fine dell'universo è il male; l'ordine e lo stato, le leggi, l'andamento naturale dell'universo non sono altro che male, né diretti ad altro ché al male. Non v'è altro bene che il non essere; non v'ha altro di buono che quel che non è [...]: tutte le cose sono cattive. Il tutto esistente; il complesso dei tanti mondi che esistono; l'universo; non è che un neo, un bruscolo in metafisica. L'esistenza, per sua natura ed essenza propria e generale, è un'imperfezione, un'irregolarità, una mostruosità. [...] Entrate in un giardino di piante, d'erbe, di fiori. Sia pur quanto volete ridente. Sia nella più mite stagione dell'anno. Voi non potete volgere lo sguardo in nessuna parte che non vi troviate del patimento. Tutta quella famiglia di vegetali è in ista-to di souffrance, qual individuo più, qual meno. Là quella rosa è offesa dal sole, che gli ha dato la vita; si corruga, langue, appassisce.

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Là quel giglio è succhiato crudelmente da un'ape, nelle sue parti più sensibili, più vitali [...]. Quell'albero è infestato da un formicaio, quell'altro da bruchi, da mosche, da lumache, da zanzare [...] ogni giardino è quasi un vasto ospitale (luogo ben più deplorabile che un cemeterio), e se questi esseri [piante e animali] sentono, o vogliamo dire, sentissero, certo è che il non essere sarebbe per loro assai meglio che l'essere». Il male non si presenta, agostinianamente, come una realtà disordinata; al contrario è ordine, «male ordinario». Si veda, come ultimo riferimento, Zibaldone, 4511,17 maggio 1829: «Noi concepiamo più facilm. de' mali accidentali, che regolari e ordinarii. Se nel mondo vi fossero disordini, i mali sarebbero straordinarii, accidentali; noi diremmo: l'opera della natura è imperfetta, come son quelle dell'uomo; non diremmo: è cattiva. L'autrice del mondo ci apparirebbe una ragione e una potenza limitata: niente meraviglia [...]. Ma che epiteto dare a quella ragione e potenza che include il male nell'ordine, che fonda l'ordine nel male? Il disordine varrebbe assai meglio: esso è vario, mutabile; se oggi v'è del male, domani vi potrà essere del bene, esser tutto bene. Ma che sperare quando il male è ordinario? Dico, in un ordine ove il male è essenziale?».

Schopenhauer: il male come «vo-lontà di vivere»Focalizzare il problema del male in Arthur Scho-penhauer coinciderebbe con l'esposizione stessa della sua filosofia, che nasce da e si nutre di un rifiuto radicale di ogni «ottimismo», sempre percepito come una visione assurda, di fronte all'evidenza del male in quel «teatro di dolore» che è il mondo. Per Schopenhauer, la filosofia stessa è il commento interminabile intorno alla presenza del male e del dolore nel mondo (o, in fondo, all'essere stesso inteso come male). L'origine del male è nell'infinita «volontà di vivere», cieca e insaziabile, che persegue soltanto la propria affermazione, servendosi della natura e degli esseri viventi come mezzi della propria conservazione. L'evidenza del male e del dolore, nonché la necessità di una terapia «sperimentale» di redenzione dal male e dal dolore, sono all'origine dello stesso bisogno di fare filosofia. Mentre in Leopardi la fuoriuscita dal «male ordinario» faceva appello a un eroico slancio solidaristico fra gli esseri umani (testimoniato nella Ginestra), per Schopenhauer la via di liberazione dal male, ovvero dalla volontà di vivere, approda via via alla compassione, all'ascesi e al deserto della non-volontà, della noluntas.

Dostoevskij: la domanda sul male come punto d'incontro fra fede e ateismoNon è un filosofo, e nemmeno un filosofo-poeta come Leopardi, colui che nel corso dell'Ottocento ha esplorato nel modo più profondo l'abissalità del male, sondando soprattutto la sua ambivalenza, la sua fascinazione, la sua natura oscillante e mute-vole fra fede e aberrazione morale, fra ascetismo e ribellione omicida: è un romanziere russo, il più grande dell'Ottocento, Fèdor Dostoevskij (1821-1881). In Delitto e castigo, I demoni, I fratelli Kara-mazov, per citare soltanto i suoi romanzi maggiori, Dostoevskij ci presenta una teoria di eroi negativi, animati da violentissime pulsioni distruttive e auto-distruttive, sempre sul limite dell'esperienza psico-patologica, sempre al centro di una tensione tragica dove il più intenso ascetismo è diviso per un nulla dalla più oscena bestemmia, il sublime dall'aberra-zione più vergognosa. Esemplari, in questo senso, le vicende di Stavrogin nei Demoni, di Raskolnikov in Delitto e castigo, di Ivan e Dimitrij Karamazov ne I fratelli Karamazov. È significativo che i perso-naggi di Dostoevskij, portatori di una tormentata visione del mondo, che rifugge da ogni pacificata convenzione e da ogni rassicurante conciliazione, si collochino tutti sul fragile confine fra ateismo e fede cristiana. Come ha osservato Stefano Brogi «gli atei e i credenti che interessano a Dostoevskij non sono lontani gli uni dagli altri, [...] sono compagni di strada, [...] perché sanno guardare in faccia il male e chiederne conto a Dio.» (S. Brogi, I filosofi e il male, p. 216). Nei Karamazov, Ivan si ribella, di fronte al devoto fratello Alesa e di fronte a Dio, al «controsenso», secondo cui il biglietto d'ingresso per la felicità futura sia la sofferenza attuale mia e degli altri, in particolare dei bambini: «Ascolta: posto che tutti si debba soffrire, per com-perare a prezzo di sofferenza la futura armonia, che c'entrano però i bambini, me lo dici tu, per favore? È assolutamente incomprensibile perché debbano soffrire anch'essi, e perché essi, debbano comperare quell'armonia con le sofferenze» (I fratelli Kara-mazov, p. 327). Vale la «futura armonia» lo strazio del bambino, colpevole di aver casualmente azzop-pato un cane, che un generale fa sbranare dai suoi cani davanti alla propria madre? Ivan non ha dubbi: «A quella suprema armonia, oppongo un netto rifiuto. Non vale, essa, le povere lacrime foss'anche di quel bambino solo, che straziato si batteva col minuscolo pugno sul petto, e nel fetido suo canile pregava con le sue lacrime irriscattabili il "buon Gesù"!». Se il Cristo dovesse tornare sulla terra, prosegue Ivan in quel grande affresco visionario del nichilismo religioso che è «II Grande Inquisitore» (occupa il Libro V della seconda parte dei Kara-mazov), il Grande Inquisitore lo condannerebbe e lo farebbe bruciare sul rogo.

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Il male come sofferenza inutileII tema dostoevskijano della «sofferenza inutile» viene potentemente ripreso, nel Novecento, da Emmanuel Lévinas: «La Souffrance inutile», in «Giornale di Metafisica». Se il dolore poteva tradizionalmente venire compreso come giusta pena per un peccato, come mezzo, doloroso ma provvidenziale, per instaurare la giustizia di Dio o per conservare la specie umana, la «sofferenza inu-tile» sembra sfuggire a questo schema. Non solo la sofferenza dei bambini, bensì, in un'accezione più ampia, «tutte quelle forme di malattia fisica o mentale, nelle quali viene impedita o addirittura annullata ogni capacità di apporto culturale e socia-le; nelle quali a un uomo, precluso l'agere, altra pro-spettiva non resta che il pati; nelle quali un uomo vive e sopravvive in cospetto al suo prossimo non più come soggetto di un colloquio e di una colla-borazione liberi, carichi di senso e instauratori di senso, bensì come oggetto di più o meno attiva compassione [...] Il Cottolengo è, oggi, nei confron-ti della domanda radicale (perché l'esistere di ciò che esiste piuttosto che il niente?) una realtà più centrale del cimitero: l'immagine estrema della negatività ontologica, quella che più facilmente soccorre a farsene simbolo, non è oggi quella del cadavere o dello scheletro, ma quella dell'idiota. Per Lévinas la sofferenza, ogni sofferenza, è in sé «sofferenza inutile», dal momento che il male è sempre «eccesso», è sempre compiuto per niente e refrattario a ogni giustificazione, a ogni sintesi. Sullo stesso tema Pareyson potrà affermare che «la sofferenza degli innocenti è segno che la creazione è così fallimentare che per porvi rimedio è necessario anche il dolore di Dio [...], cioé la realtà di un Dio sofferente».

Nietzsche: il male e il nichilismoII problema del male, evocato nel titolo di Al di là del bene e del male, è presente in Nietzsche, ma acquista centralità solo come problema di «critica della cultura» e di «genealogia della morale»; ovve-ro come indagine storico-psicologica sul carattere del concetto di «male» e di «bene». L'orizzonte dell'indagine è, però, metafisica: è la decadenza del dionisiaco e l'affermazione progressiva di un sistema morale-culturale che ha negato la vita, la sua libera, gioiosa e giocosa, innocente affermatività.Nella Nascita della tragedia, Nietzsche sostiene che la percezione originaria del male presso i greci, il «dionisiaco», l'orrore dell'esistenza riflesso nel destino orrendo di Edipo o nella maledizione che incombe sugli Atridi, fu da essi superata attraverso l'invenzione dell'«apollineo». Al servizio dell'auto-conservazione, Apollo compensa e immunizza l'invito dionisiaco a guardare in faccia la tragicità

della vita, accettandola nella sua terribile affermatività, nel gioco innocente di creazione e distruzione che comporta. Le tradizioni che hanno fatto decadere e spento questo «dire si» dionisiaco alla vita, prima cioè il socratismo e poi il platonismo e il cristianesimo, hanno preteso di separare normativamente il «mondo vero» dal «mondo apparente», il «bene» dal «male», identificando quest'ultimo con il mondo della vita e della corporeità. La consumazione di questa tradizione è culminata nella «morte di Dio» e nel nichilismo, che ha svelato come una menzogna la fissazione cristallizzata dei valori di «buono» e di «malvagio». Ma il senso dell'operazione «prospet-tica» di Nietzsche non consiste certo in un'inversio-ne di valori o nello smascheramento relativistico del corrente valore «buono» o «cattivo». I valori, in senso forte, si «svalorizzano», nel senso che perde valore la nozione stessa di «valore».In realtà, «male» e «bene» non esistono, o meglio non esistono come verità, come riferimenti oggettivi e assoluti; da un punto di vista «genealogico» occorre domandarsi da dove abbiano origine queste «finzioni» utili a una certa forma di autoconservazione, che chiamiamo di volta in volta «bene» e «male». Ebbene, per Nietzsche essi non sono che la forma in cui si esprime un'originaria valutazione affermativa e concreta della «volontà di potenza»: la valutazione di chi considera se stesso buono perché forte, potente, dominatore, e conseguentemente cattivo chi cosi non è. Forma originaria di quello che Nietzsche chiama «pathos della distanza», l'egoismo, inteso come spontanea affermazione, era un valore originario, quindi «buono», mentre è diventato un male. All'opposto, il non egoistico (il compassionevole, il solidale, l'altruista, l'egualitario), ovvero tutto ciò che esprime lo spirito gregario, è ora divenuto «buono». Per una metamorfosi della «volontà di potenza», gli artefici del rovesciamento dei valori affermativi e vitali sono stati i dominati, i deboli: contro la «morale dei signori» essi hanno fatto prevalere la «morale degli schiavi», di uomini deboli (cristiani, borghesi, democratici, socialisti) che non sanno agire, ma odiano i loro dominatori e covano verso di essi risentimento e «spirito di vendetta».

Freud: malattia e normalitàLa psicoanalisi, come terapia contro le nevrosi, prende campo in un contesto neuropsichiatrico in cui il «male» ha i tratti della perversione sessuale. Condannabile condotta contro natura, la nevrosi, così sovente mescolata a manifestazioni aberranti, ricade nel dominio della morale, sinonimo di odiosa trasgressione e di peccato. Con la fine dell'Ottocen-to l'ampio spettro delle perversioni nevrotiche viene sottratto alla sfera della morale e ricondotto all'ambito «neutro» della classificazione scientifica.

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E' con Freud, però, che gli aspetti perversi del comportamento (come il sadismo o l'esibi-zionismo) vengono ricondotti al «normale» sviluppo psicosessuale, come risultato si della sua deviazione, ma soltanto nel senso di uno sviluppo unilaterale di una componente libidica, presente però nella «normale» organizzazione psichica di ogni individuo.La riduzione del male alla vita inconscia e la defi-nizione di un confine incerto fra normalità e malat-tia viene sintetizzata da Freud in un imperativo, quello di insediare l'Io là dove era l'Es, che si può ritenere la stazione ultima dell'intellettualismo etico socratico. In realtà, la sistemazione «razionalistica» della psicoanalisi trova notevoli difficoltà di assestamento, soprattutto tenuto conto della per-sistente volontà del nevrotico di «innamorarsi» del proprio male (resistendo alla cura) e della presenza, accanto a Eros, di una misteriosa pulsione distruttiva «al di là del principio del piacere»: Thanatos.

Il Novecento come secolo del male?Fra tutte le definizioni complessive tentate per il Novecento (il «secolo della tecnica»? Il «secolo della democrazia»? Il «secolo dell'emancipazione delle donne»?) quella che ha tuttora un peso maggiore parla di «secolo del male». Basta scorrere le pagine di Tutta la violenza di un secolo di Marcelle Flores per farsene rapidamente un'idea eloquente: dalle trincee della Grande guerra al Vietnam, da Auschwitz ai killing fields cambogiani, dai Gulag a Hiroshima, dal genocidio degli armeni nel 1915 ai bombardamenti terroristici sulle città tedesche e giapponesi fra il 1943 e il 1945, dalla liquidazione di massa dei comunisti indonesiani nel 1965 a quella a colpi di machete dei Tutsi in Ruanda nel 1995, ebbene «si calcola, in sintesi, che nel corso del Novecento le persone uccise in atti di violenza di massa siano state fra i cento e i centocinquanta milioni (qualcuno propone addirittura la cifra di duecento milioni). [...] Secolo barbaro, secolo delle tenebre, secolo innominabile, solo per ricordare alcuni dei termini usati con maggiore frequenza».Non è tanto la Grande guerra, complessivamente ancora letta secondo parametri tradizionali, patriottico-nazionalistici, a far esplodere la questione, quanto la realtà dei totalitarismi, la Seconda guerra mondiale e, soprattutto, a cose fatte, la persecuzione e lo sterminio degli ebrei europei (e di altre minoranze). Per usare un simbolo difficilmente logorabile, è solo con Auschwitz che il problema del male si ripropone in tutta la sua forza, anzi, in una dimensione talmente più dilatata rispetto al passato, da rendere inservibile tutto l'armamentario etico con cui si era sempre cercato di comprendere il senso del male. Con Auschwitz,

con la morte di massa di un popolo, elaborata razionalmente, organizzata amministrativamente, consumata industrialmente e nella collaborazione, muta o zelante, di migliaia di «uomini comuni», il male cambiava faccia; ovvero, ritornava in modo sconcertante «male assoluto», male indicibile. Sotto il profilo che qui cerchiamo di mettere a fuoco, relegata ogni teodicea fra i ferri vecchi, era la razionalità stessa a entrare, di fatto e secondo molti anche di diritto, nel dominio del male; era l'idea stessa di poter comprendere il male ad apparire ridicola e oltraggiosa; era, soprattutto, l'ombra del male che entrava nell'essenza di Dio, il male in Dio, e che ne decretava, soprattutto agli occhi degli ebrei, l'impotenza.In queste pagine cercheremo solo di delineare un percorso in queste forme del male: il totalitarismo, come «male politico»; la Shoah e la praticagenocidaria, come «male assoluto»; la razionalità occidentale, come «ragione malata», in un itinerario che cercherà di declinare come si possa parlare di Dio dopo Auschwitz.

Il «male politico» del XX secolo: il totalitarismoSistematico terrore poliziesco, dittatura ideologica di un unico partito e distruzione degli oppositori, nazionalismo esasperato, mobilitazione propa-gandistica delle masse, culto della personalità di una «guida» carismatica, controllo e manipolazione della cultura e delle coscienze caratterizzano il totalitarismo, tanto quello nazista, quanto quello stalinista. Rispetto al secondo, in un confronto che è sempre molto difficile e da fare con cautela, il pri-mo si caratterizza per un antisemitismo sistematico che, certamente comune alle culture nazionaliste europee di fine Ottocento, trova in Germania una sua «via speciale», che lo porta al nazismo. Ai fini del nostro discorso, il totalitarismo e il suo esito necessario - il campo di sterminio - sono stati fatti oggetto di due letture divergenti, che si rifanno entrambe ad Hannah Arendt: la prima è quella, come più volte ricordato, del «male assoluto», la seconda (che in Arendt più che opposta appare complementare) è quella del «male banale».

Il «male assoluto»: rendere super-fluo l'umanoNon è difficile comprendere, anche solo in prima approssimazione, in che cosa consista l'assolutez-za del male che si è rivelata ad Auschwitz o a Tre-blinka: nell'orrore inimmaginabile. Inimmagi-nabile e indescrivibile non solo perché estremo, ma soprattutto perché l'unico suo credibile testimone sarebbe soltanto chi lo ha visto in faccia, quello che Primo Levi definirà «il sommerso», mentre il superstite, «il salvato», o non verrà ascoltato o sarà strozzato dal senso di colpa o non

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crederà più egli stesso alle esperienze vissute. Lo sterminio pianificato di milioni di donne, uomini e bambini, deumanizzati alla stregua di parassiti pericolosi, da eliminare in modo definitivo e razionale per consentire a una razza di dominatori la creazione di un «nuovo ordine» di felicità nella purezza razziale, relativizza e minimizza tutte le consuete categorie della comprensione etica e storica. È vero che ogni progetto totalitario, indirizzato a istituire con la violenza una società perfetta, finisce per dirigere il male, in modo ideologicamente selettivo, contro una parte stessa della società, gruppo etnico-nazionale o politico che sia, vista come un tumore da estirpare, come un'eresia che non ammette conversione; è vero che la lotta politica, portata all'estremo, radi-calizza a tal punto il «nemico», fino a contemplare fra le possibilità lecite la sua esclusione radicale o il suo annientamento fisico. Ma ciò che caratteriz-za in modo specifico, come un unicum, la macchi-na distruttiva che culmina ad Auschwitz sembra essere la negazione stessa della natura umana, il tentativo di rendere superfluo l'umano. È stata Han-nah Arendt a individuare questo aspetto del male, che potenzia in modo illimitato il vecchio, settecen-tesco, kantiano «male radicale»; conviene riportare dunque, in forma estesa, un passo fondamentale da Le origini dei totalitarismo, pubblicato nel 1951: «[II regime totalitario] non mira a un governo dispotico sugli uomini, bensì a un sistema che li renda superflui. Il potere totale può essere ottenuto e salvaguardato soltanto in un mondo di riflessi condizionati, di marionette senza la minima traccia di spontaneità [...] l'individualità è intollerabile. Finché tutti gli uomini sono resi egualmente superflui - il che finora è avvenuto soltanto nei campi di concentramento - l'ideale del dominio totale non è raggiunto. Gli stati totalitari si sforzano di continuo, benché mai con completo successo, di instaurare la superfluità dell'umano, con la scelta arbitraria di gruppi da internare nei Lager, con periodiche epurazioni dell'apparato direttivo, con liquidazioni di massa. Il buon senso obietta disperatamente che, essendo le masse remissive, il gigantesco apparato di terrore è superfluo. Se fossero disposti a dire la verità, i dittatori totalitari risponderebbero: l'apparato vi sembra superfluo soltanto perché serve a rendere superflui gli uomini.

Il tentativo totalitario di rendere superflui gli uomini riflette l'esperienza delle masse moderne, costrette a constatare la loro superfluità in una terra sovrappopolata. La società dei morenti [il Lager], in cui la punizione viene inflitta senza alcuna relazione con un reato, lo sfruttamento praticato senza un profitto e il lavoro compiuto senza un prodotto, è un luogo dove quotidianamente si crea l'insensatezza. Eppure, nel contesto dell'ideologia totalitaria, nulla potrebbe essere più sensato e logico: se gli internati sono dei parassiti, è logico che vengano uccisi con il gas; se sono dei degenerati, non si deve permettere che contaminino la popolazione; se hanno una «anima da schiavi» (Himm-ler), non è il caso di sprecare tempo per rieducar-li. Visti attraverso le lenti dell'ideologia, i campi hanno quasi il difetto di avere troppo senso, di attuare la dottrina con troppa coerenza. [...]

L'ideologia totalitaria non mira alla trasformazione delle condizioni esterne dell'esistenza umana né al riassetto rivoluzionario dell'ordinamento sociale, bensì alla trasformazione della natura umana che, così com'è, si oppone al processo totalitario. I Lager sono i laboratori dove si sperimenta questa trasformazione [...]. Quando l'impossibile è stato reso possibile, è diventato il male assoluto, impunibile e imperdonabile, che non poteva più essere compreso, spiegato con i malvagi motivi

dell'interesse egoistico, dell'avidità, dell'invidia, del risentimento, della smania di potere, della vigliaccheria, e che quindi la collera non poteva vendicare, la carità sopportare, l'amicizia perdonare, la legge punire. Come le vittime delle fabbriche della morte non sono più umane agli occhi dei loro carnefici, così questa nuova specie di criminali sono al di là persino della solidarietà derivante dalla consapevolezza della peccabilità umana. [...] Un'unica cosa possiamo dire con certezza: il male radicale è comparso nel contesto di un sistema in cui tutti gli uomini sono diventati egualmente superflui», (pp. 625-629). Il sistema dei campi di concentramento è il «male assoluto», perché equivale alla distruzione dell'uomo, «una distruzione altrettanto ineso-rabile di quella che l'impiego della bomba all'idrogeno riserverebbe alla razza umana» (p. 607).

Il «male banale»L'immagine arendtiana del «male assoluto» si mostrava fragile, però, tanto dal punto di vista sto-rico, quanto da quello etico. Per un verso, un pro-cesso così imponente e così complesso, come lo sterminio di un popolo, ben difficilmente si sareb-be potuto realizzare senza un reticolo diffuso di col-laborazione e di anonima responsabilità, senza cioè il concorso, passivo o zelante, ma comunque deter-minante, di uomini comuni, tutt'altro che demonia-ci nella loro vita ordinaria, solo docili esecutori di quanto discendeva dall'autorità. Assolutizzare il male, d'altra parte, demonizzarlo, equivaleva a destoricizzarlo, a relegarlo come eccezione al di là della normale vicenda politica e umana; equivale-va, in breve, a sollevare da responsabilità proprio quei milioni di «uomini comuni», che hanno fatto funzionare, come meri impiegati dell'orrore, quel-la macchina di distruzione progettata e diretta da un pugno di dèmoni, i soli che, quindi, risultereb-bero colpevoli. In breve, assolutizzare il male rischia-va di esorcizzarlo.

Ebbene, dieci anni dopo la pubblicazione di Le origini del totalitarismo, dove il Lager era la figura del «male assoluto», assistendo come inviata di «The New Yorker» al processo a Adolf Eichmann, tenu-tosi a Gerusalemme nel 1961, Hannah Arendt sco-pre il volto tragicamente «banale» del male. In una lettera del 24 luglio 1963 a Gershom Scholem (1897-1982), teologo ebraico grande studioso della tradi-zione mistica e cabalistica dell'ebraismo, Arendt scrive che ora crede che il male estremo «non pos-segga né profondità né una dimensione demonia-ca. Esso può invadere e devastare il mondo intero, perché si espande sulla sua superficie come un fun-go. Esso sfida il pensiero, perché il pensiero cerca di raggiungerlo in profondità, di andare alle radici, e nel momento in cui cerca il male, è frustrato per-ché non trova nulla. Questa è la sua banalità». (Ebrai-smo e modernità, p. 227). Il «male banale», per quanto la definizione possa sdegnare, e abbia fatto sdegnare, chi ne percepì qualcosa come una diminutio di responsabilità verso i carnefici che operarono a Auschwitz o a Bergen Belsen, è un male non eccezionale, messo in atto con uno zelo

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privo di odio, quasi fosse un normale impegno amministrativo, un compito da eseguire bene per non deludere le aspettative di chi aveva dato ordini, una mansione burocratica, un segmento su cui non si aveva responsabilità, se non la sua riuscita tecnica, nel complesso tayloristico dell'industrializzazione della morte e del dolore degli altri. Adolf Eichmann, responsabile dei «trasferimenti» degli ebrei ai campi di sterminio, è un tenente colonnello, non è un gerarca del III Reich, è solo il segretario verbalizzante nella con-ferenza che a Wannsee, vicino a Berlino, pianificò nel 1942 la Endlósung, la «soluzione finale» della «questione ebraica»; ma è grazie al suo zelo e alla sua efficienza che quella venne resa possibile. Catturato dagli israeliani nel 1960, viene processato l'anno dopo a Gerusalemme. Al processo, si dichiara «non colpevole» di quello che gli viene imputato, sostenendo, in apparente buona fede, di non avere mai avuto avversione verso gli ebrei, ma di aver soltanto obbedito a ordini superiori. Le sue rispettose controdeduzioni sembrano logicamente impeccabili, ma Hannah Arendt mostra come Eichmann rifiuti semplicemente di ammettere tutto quanto potesse contraddire il suo sistema di riferimento, che presuppone la non responsabilità rispetto agli ordini ricevuti, il mutismo della propria coscienza rispetto al valore morale di quanto gli veniva co-mandato, l'insensatezza di qualunque messa in di-scussione dell'autorità dalla quale dipendeva. La mente di Eichmann, sostiene Arendt, è uguale a quella di milioni di altri tedeschi, rispettabili uomi-ni e donne nella vita di tutti i giorni, che avevano accettato la Gleichschaltung, l '«allineamento» ai vole-ri dell'autorità, lì solo avevano trovato certezze e gratificazioni, e obbedivano coscienziosamente e zelantemente, certi di fare il bene. La mente di Eich-mann era «un contenitore vuoto», una banale menta-lità gregaria, che sapeva soltanto articolare la gram-matica dell'autorità. Il processo a Eichmann è ripreso in un bellissimo documentario di Eyal Silvan, Uno specialista. Ritratto di un criminale moderno.

Christopher R. Browning, uno dei massimi studiosi della Shoah, ci fornisce una sorta di agghiacciante dimostrazione storico-documen-taria in Uomini comuni. Non sono affatto uomini eccezionalmente malvagi i riservisti cinquantenni che nel 1942, nei dintorni di Lublino, pur dispensabili dal «servizio», sterminano i millecin-quecento membri della locale comunità ebraica, per poi tornare in Germania alle loro normali occu-pazioni.

Uno dei sociologi più influenti del nostro pre-sente, Zygmunt Bauman, in un'opera di straordi-naria penetrazione critico-analitica (Modernità e Olocausto), documenta con gli strumenti della socio-logia, della psicologia e della storia la tesi del «male banale», condividendo la tesi secondò cui la Shoah

sarebbe il vero e proprio «test della modernità», esi-to non casuale e «normale» del conformismo morale, dello zelo disciplinato e anonimo di burocrati e di uomini comuni.

Sul problema del «male banale», che ha solle-vato enormi interrogativi, ma ha orientato ormai la ricerca storico-filosofica intorno alla Shoah, ci limitiamo a due considerazioni. La prima riguarda il grave problema della comparazione fra nazismo e stalinismo, e sulla differenza «qualitativa» fra i rispettivi, immani crimini: è giudizio largamente condiviso che proprio la «banalità del male» marchi la differenza fra nazismo e stalinismo, le cui modalità distruttive, certamente maggiori sotto il profilo dei numeri, siano però ancora di tipo tradizionale, o perlomeno implichino in una quota molto minore la partecipazione di «uomini comuni». In secondo luogo, se ciò che caratterizza la civiltà giuridica moderna è proprio l'imputabilità soltanto di chi abbia avuto l'intenzione di fare il male che ha fatto (né i bambini né gli incapaci di intendere e volere sono giudicabili), è «giusta» la sentenza che ha condannato, per di più retroattivamente, un uomo che si è riconosciuto non essere in grado di distinguere il bene dal male, né tanto meno di aver mai mostrato direttamente alcun odio né aver mai fatto alcun male diretto alle sue vittime?

Il male e la «zona grigia»È Primo Levi, che della testimonianza della Shoah ha fatto la ragione della sua vita, ad articolare con la memoria del sopravvissuto l'ipotesi teorica del-la «banalità del male»; essa, a suo avviso, mantie-ne ancora ben netta una divisione che conviene invece smorzare, quella fra vittime e carnefici, fra perseguitati e ideatori della persecuzione. In real-tà, sostiene Levi in I sommersi e i salvati, «nell'im-magine dell'inferno si scorgono i colori meno foschi di quella zona grigia dai contorni mal definiti, che insieme separa e congiunge i due campi [...]. Pos-siede una struttura interna incredibilmente com-plicata, di cui la classe ibrida dei funzionari-prigio-nieri ne costituisce l'ossatura e insieme il lineamento più inquietante» (p. 29). Levi si riferisce alla rete, complessa e tragicamente ambigua, di quelle «vit-time» ebraiche che, all'interno dei campi e dei ghet-ti, collaborarono loro malgrado da «carnefici» allo sterminio dei loro simili, come capo-baracca, come impiegati nei Sonderkommandos alle camere a gas, semplicemente sopravvivendo mentre altri mori-vano al posto loro, per conservare un unico privi-legio: «il privilegio di essere vivi».

Il male nella ragione

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Ben prima di Auschwitz, comunque, una certa tendenza della filosofia aveva rintracciato nell'intera tradizione metafisica le radici del male.Cosi, per Heidegger il destino stesso della meta-fìsica occidentale, che aveva portato all'estremo la dimenticanza del senso dell'essere, era costituito dal dominio planetario della tecnica, per sua essenza distruttivo e tale da rendere praticabile l'annientamento dell'essere. Ma Heidegger, risultava troppo compromesso con il nazismo per poterne condividere le posizioni, che non facevano differenze fra la meccanizzazione industriale dell'agricoltura e l'industrializzazione della morte nei campi di sterminio. Comunque sia, a Heidegger, consensualmente o in forma radicalmente polemica, si rifanno quasi tutti coloro che ritrovano il male nell'essenza stessa della razionalità occidentale e che, in forme diverse e tutte peculiari, da Adorno a Lévinas, a Zygmunt Bauman sostengono che il totalitarismo e Auschwitz non siano stati il risultato di un imbarbarimento demoniaco, di un tragico sonno della ragione che ha generato i suoi mostri, né che il male si sia prodotto per un rigurgito di irrazionalismo arcaico; siano, bensì, l'esito fisiologico di una razionalità che, per il modo in cui si è storicamente formata, non poteva non avere Auschwitz come propria realizzazione piena.Il risultato di questa forma di razionalità è il controllo e il dominio della natura esercitato attraverso la tecnica, in tale processo si afferma il primato dell'efficienza su quello del "valore" e il sapere razionale si trasforma nella logica del potere che porta all'asservimento integrale della natura e degli uomini e che tende non alla felicità, ma allo sfruttamento del lavoro, all'omologazione ed alla distruzione del diverso. Si realizza così nella storia un dominio totalitario frutto di una razionalità cieca e assassina.

Il male come paranoia antisemitaII trionfo dell'antisemitismo si presenta come con-ferma della «trionfale sventura» dell'illuminismo e del razionalismo tecnico - scientifico e del fallimento della civiltà. Il soggetto stesso della razionalità occidentale si è prodotto, rescindendo il proprio felice legame con la natura, nell'odio per il non-identico e nel conformismo massificato. L'antisemitismo allora non è tanto il modo d'essere dell'antisemita, ma l'esito catastrofico del lato distruttivo del progresso che, in quanto cultura di massa standardizzata, è il terreno di crescita del fascismo e, appunto, dell'antise-mitismo. Il dispositivo psicologico che spiega la sindrome antisemita è la proiezione paranoica: dal «non ti posso soffrire» al «ti anniento», il passo non è lungo, ma c'è di mezzo il «ti devo

annientare», vale a dire la costruzione allucinatoria della colpa, che rende legittima la reazione distruttiva. In altre parole, lo schema paranoico dell'antisemitismo si fonda sull'inversione del rapporto fra vittima e carnefi-ce: «ti devo uccidere perché la minaccia che rappresenti è pari alla tua colpa».

Pensare dopo AuschwitzLo sterminio ebraico rappresenta un limite alla comprensibilità del male, tanto che «quasi nessu-no dei princìpi etici che il nostro tempo ha credu-to di poter riconoscere come validi ha retto alla prova decisiva, quella di una Ethica more Ausch-witz demonstrata». All'idea di un «male assoluto» si è affiancata l'idea di un male assolutamente imperdonabile, e l'una e l'altra non cessano di apparire problematiche. L'idea di un «male assoluto» sembra riproporre ormai desuete meta-fìsiche assolutistiche, ma d'altra parte la sua nega-zione sembra offrire il destro a chi vuole relativiz-zare (se non addirittura negare) l'indicibile sofferenza dei «sommersi» dall'odio totalitario. In un altro senso ancora, però, la vera sfida che il «male assoluto» propone alla filosofia (e alla teo-logia) sembra essere proprio quella di farsi pro-blema di questa eccessività, refrattaria a ogni categoria finora frequentata, farsi carico della responsabilità di pensare l'impensabile, senza relegarlo in modo consolatorio e rassegnato nella sfera dell'indicibile (o della retorica).

Il male in DioSono ebraiche quelle meditazioni che con maggiore forza si sono poste la domanda del «male assoluto» in rapporto a Dio, la domanda su come poter continuare a credere o semplicemente a dire «Dio» dopo Auschwitz. Testimonianza esemplare è l'accusa a Dio in La notte di Elie Wiesel: «Ma perché, ma perché benedirLo? Tutte le mie fibre si rivoltavano. Per aver fatto bruciare migliaia di bambini nelle fosse? Per avere fatto funzionare sei crematori giorno e notte, anche di sabato e nei giorni di festa? Per aver creato nella sua grande potenza Auschwitz, Birkenau, Buna e tante altre fabbriche di morte? [...] Sia lodato il Tuo Santo Nome, Tu che ci hai scelto per essere sgozzati sul Tuo altare?» (p. 69). Fra le voci filosofiche, Hans Jonas è giunto a negare a Dio l'attributo tradizionale dell'onnipotenza in Il concetto di Dio dopo Auschwitz.

Male e pluralismo dei valoriLa demonizzazione occidentale, prima del comu-nismo sovietico e poi del fondamentalismo islamico come «imperi del male», e la reciproca

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demonizzazione khomeinista e khaedista dell'Occi-dente, sembrano oggi le due forme globali in cui si esprime il «male assoluto». In realtà, riproporre, sotto qualsiasi mentita spoglia, un'idea assoluta di male non fa che riproporre uno scenario ormai desueto, in ultima istanza religioso e intollerante, che non può che rimettere in circolo odio, violenza e tutte le ben conosciute forme del male. D'altra parte, violenze e mutilazioni corporee, che in altre culture hanno resistito come forme tradizionali, incompatibili con i diritti umani «occidentali», non devono essere tollerate in nome di un troppo rinunciatario relativismo etico. È probabile che la via da seguire sia quella di una sempre maggiore comunicazione inter-culturale che possa determinare, a piccoli passi e in spirito di reciprocità e di rispetto per le differenze culturali, la diminuzione progressiva del tasso di offesa e di violenza.

Questo testo è una rielaborazione dei brani contenuti nel manuale di filosofia di Santino Mele, La ricerca del Sapere, casa editrice G. D'Anna. Alcune parti sono state riscritte da me, altre eliminate, altre riprese tali e quali.Ho anche usato l'articolo di Diego Fusari che si trova a questo link: http://www.filosofico.net/auschwitz/ausch4.htm

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