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LA VIA DI FRANCESCO Una sintesi della spiritualità francescana a partire dagli Scritti di san Francesco - P. Cesare Vaiani - I testi sono tratti da: Fonti Francescane. Scritti e biografie di san Francesco d’Assisi. Cronache e altre testimonianze del primo secolo francescano. Scritti e biografie di santa Chiara d’Assisi , Padova, Ed. Messaggero, 1990 (Editio Maior) (Sigla FF). Fonti Francescane. Scritti e biografie di san Francesco d’Assisi. Cronache e altre testimonianze del primo secolo francescano. Scritti e biografie di santa Chiara d’Assisi , Assisi-Padova, Editrici francescane, 1993 (Editio Minor) (Sigla FF).

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LA VIA DI FRANCESCO

Una sintesi della spiritualità francescana a partire dagli Scritti di san Francesco

- P. Cesare Vaiani -

I testi sono tratti da:

Fonti Francescane. Scritti e biografie di san Francesco d’Assisi. Cronache e altre testimonianze del primo secolo francescano. Scritti e biografie di santa Chiara d’Assisi, Padova, Ed. Messaggero, 1990 (Editio Maior) (Sigla FF).

Fonti Francescane. Scritti e biografie di san Francesco d’Assisi. Cronache e altre testimonianze del primo secolo francescano. Scritti e biografie di santa Chiara d’Assisi, Assisi-Padova, Editrici francescane, 1993 (Editio Minor) (Sigla FF).

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PREFAZIONE

Lo scopo che ha mosso questa ricerca è la volontà di presentare sinteticamente la spiritualità

francescana.

L‟occasione immediata per questa proposta di sintesi è nata nell‟ambito della Scuola di spiritualità

francescana del Convento di S. Angelo a Milano, ma più ampiamente risponde all‟esigenza di individuare

i nuclei fondamentali che definiscono l‟esperienza francescana.

La volontà di raggiungere una sintesi spiega perché molti riferimenti siano solo accennati e non vengano

sviluppati adeguatamente: si è voluto proporre un quadro essenziale, necessariamente scarno, nel quale

individuare solo alcune linee portanti.

Si tenga benevolmente presente anche questa premessa, tutte le volte che la trattazione sembrerà

eccessivamente ridotta o sbrigativa.

D‟altra parte, una sintesi fornisce sì pochi punti, ma questi possono diventare dei punti di riferimento

anche per altre tematiche; così, anche quanto non è stato esplicitamente affrontato in queste pagine potrà

trovare in questa proposta delle coordinate cui riferirsi, così da inserirsi armonicamente in quell‟insieme

organico che è una spiritualità.

Voglio ringraziare coloro che sento vicini, in diversi modi, a questo lavoro: anzitutto i miei confratelli,

che sono il quotidiano richiamo a Francesco, poi in modo tutto speciale gli amici, sostegno di vita nel

cammino, ed infine le sorelle clarisse, custodi preziose dell‟integrità del carisma francescano; ma un

ricordo esplicito voglio riservare alla memoria di Padre Feliciano Olgiati, che mi è stato maestro. In

questa collana “Presenza di san Francesco”, da lui iniziata tanti anni fa, sono fiero di porre il mio piccolo

contributo, e voglio sperare che dal cielo egli ne sia contento.

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SAN FRANCESCO O LA TRADIZIONE FRANCESCANA?

Quando si parla di spiritualità francescana si fa riferimento ad un concetto piuttosto ampio, che potrebbe

legittimamente estendersi ad una ricchissima tradizione che copre più di sette secoli e comprende

innumerevoli personaggi e dottrine spirituali.

Va subito precisato che noi non ci occuperemo affatto di questa immensa mole di materiale, ma soltanto

di spiritualità «sanfrancescana», nel senso che la nostra proposta farà riferimento quasi esclusivamente

agli Scritti di san Francesco, talvolta alle sue biografie e mai a quella ricchissima tradizione plurisecolare

che abbiamo ora ricordato.

È sembrato infatti necessario limitare il campo di indagine all‟esperienza spirituale di Francesco

d‟Assisi, e circoscrivere ulteriormente il campo di ricerca agli Scritti del Poverello più che alle sue

biografie, nella convinzione, oggi largamente condivisa, che l‟approccio a Francesco debba privilegiare i

testi che egli ha, in varie maniere, composto o dettato.

Abbiamo voluto subito chiarire che il nostro titolo, che parla di «spiritualità francescana», va inteso in

riferimento quasi esclusivo agli Scritti di Francesco.

In questa scelta pensiamo di essere in sintonia con la «riscoperta» di una certa immagine di Francesco,

riscoperta che sembra avvenire in questi ultimi decenni nell‟ambito degli studi francescani: all‟immagine

tradizionale di un Francesco che ha dato inizio al suo movimento spirituale quasi esclusivamente

attraverso la propria vita e il proprio esempio, ma senza proporre dottrine spirituali, perché «ignorante ed

illetterato», si va sostituendo una immagine più attenta e fedele a quanto Francesco ci ha consegnato nei

suoi Scritti, là dove egli ci appare un vero «maestro» non solo per il suo esempio, ma anche per un

insegnamento preciso e coerente.

Soprattutto la coerenza di tale insegnamento stupisce chi si accosta ai testi di Francesco: la nostra

proposta vorrebbe cogliere ed illustrare l‟essenziale di tale coerente magistero.

I. PARLIAMO DI SPIRITUALITÀ

Mentre rimandiamo all‟Appendice per un rapido approfondimento di che cosa intendiamo per

«spiritualità», assumiamo come punto di partenza l‟affermazione di Giovanni Moioli1: le diverse

spiritualità sono

«particolari maniere di sintetizzare vitalmente i valori cristiani, secondo diversità di punti

prospettici o di catalizzazione».

La differenza tra le varie spiritualità si spiega dunque a seconda delle diverse prospettive, a partire dalle

quali sono «sintetizzati vitalmente» i valori cristiani. Tali valori sono comuni a tutte le diverse spiritualità,

mentre varia il «punto prospettico» intorno al quale fare sintesi.

Evitando ogni ulteriore approfondimento ed applicando tali discorsi alla spiritualità francescana,

dobbiamo subito essere consapevoli che non troveremo dei contenuti specifici «esclusivamente»

francescani nella nostra ricerca. Troveremo infatti i valori comuni a tutte le spiritualità cristiane, come per

esempio il Vangelo, Gesù Cristo, la Trinità, ecc., e che non sono una «esclusiva» francescana: lo specifico

non starà nel che cosa, ma nel come tali elementi si compongono in una sintesi organica e «francescana».

1 G. MOIOLI, Teologia spirituale, in Dizionario teologico interdisciplinare, I, Torino 1977, 56.

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II. UNA PROPOSTA DI SINTESI

Lo schema della nostra sintesi si articola in «tre punti e un intermezzo» e viene formulato con

espressioni care a Francesco:

1. AVERE LO SPIRITO DEL SIGNORE

Intermezzo: LA VITA DI PENITENZA

2. SENZA NULLA DI PROPRIO

3. RENDERE E RESTITUIRE

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AVERE

LO SPIRITO DEL SIGNORE

Così scriveva il P. Esser in uno dei suoi ultimi studi:

«Non si tratta in san Francesco soltanto di una sequela esterna della vita di Cristo, ma prima di

tutto che nel seguace di Cristo diventi vivo e attivo anche lo Spirito di Cristo. Questa dottrina

sullo Spirito del Signore (Spiritus Domini) ... si può chiamare lo stesso centro del pensiero e

della condotta cristiana di san Francesco. Di lui parla sempre nelle sue Regole e Lettere, nelle

sue Ammonizioni per i frati»2.

A questo «centro del pensiero e della condotta cristiana di san Francesco» sono stati dedicati

ultimamente diversi studi, che qui non possiamo esporre o riassumere compiutamente3, ma che

evidenziano concordemente l‟importanza di questo tema per Francesco.

La caratteristica comune di tali studi è che tutti si sviluppano fondamentalmente sugli Scritti, dove la

parola Spiritus assume una notevole rilevanza, e mostrano le relazioni tra i diversi usi che Francesco fa di

tale parola; a modo di esempio, può essere interessante uno sguardo alla organizzazione del tema proposta

dal Dizionario francescano, risultante dall‟analisi testuale degli Scritti di Francesco:

a - Dio è Spirito b - Spirito santo (Sp.S.)

c - Sp. S. e inabitazione trinitaria d - Spirito del Signore

e - Carità e obbedienza di spirito f - Spirito e lettera

g - Spirito e vita h - Spirito e carne

i - Spirito e verità l - Spirituale, spiritualmente

m - Spirito santo e Maria

Come è evidente, si tratta di diverse aree di significati, accomunati dall‟uso della medesima parola

spiritus, e generalmente relativi alla persona o all‟azione dello Spirito santo, anche se va messo in

evidenza che «data l‟unità di vita e di opere nella concezione trinitaria sanfrancescana, non è difficile

comprendere come Francesco non sempre distingua bene, parlando di Spirito (e di Signore), di quale

persona in concreto si tratti: se di Dio in genere, o di Dio Padre, o del Figlio Gesù Cristo, o dello Spirito

santo»4.

Se va dunque tenuta presente questa ambiguità dell‟espressione «Spirito del Signore», che non è sempre

univocamente riferibile allo Spirito santo, resta comunque vero che molti testi di Francesco sopportano

bene, o addirittura richiedono, una interpretazione «forte» del termine Spiritus in riferimento allo Spirito

santo. D‟altra parte, si riflette qui una caratteristica più generale, tipica della teologia spirituale cristiana,

2 K. ESSER, Studium und Wissenschaft im Geiste des hl. Franziskus von Assisi, «Wissenschaft und Weisheit 39 (1976) 28, citato in O. VAN

ASSELDONK, Lo spirito del Signore e la sua santa operazione negli Scritti di Francesco , in E. COVI, L’esperienza di Dio in Francesco d’Assisi, Roma 1982, 133-195.

3 Per una esposizione breve ed esauriente, cfr. la voce Spirito santo nel Dizionario francescano, Padova 1983, coll. 1707-1738, a cura di O. VAN

ASSELDONK, dove si trovano anche alcune indicazioni bibliografiche fondamentali; per il periodo seguente cfr. O. VAN ASSELDONK, La lettera e lo spirito, II, Roma 1985, che però raccoglie soprattutto articoli scritti antecedentemente. Un punto di riferimento rimane anche la tesi di R. BARTOLINI, Lo Spirito del Signore. Francesco di Assisi guida all’esperienza dello Spirito Santo, Assisi 1982.

4 Dizionario Francescano, col. 1728.

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che non intende la «spiritualità» come un semplice riferimento all‟interiorità dell‟uomo, quasi che

«spirituale» sia semplicemente l‟opposto di «materiale» o sinonimo di «interiore» e «profondo», ma che vi

riconosce un ineliminabile riferimento allo Spirito santo e alla sua azione di grazia.

A questo proposito può essere opportunamente ricordata anche una nota di critica testuale: i codici

medievali sono del tutto irregolari nell‟uso delle maiuscole nel corpo del testo, ed è quindi una scelta

dell‟editore a determinare se il testo parla di spirito o di Spirito con la maiuscola.

I. CRISTOCENTRISMO TRINITARIO

Per indagare il significato dell‟espressione «Spirito del Signore» è opportuno partire da una

considerazione che si fa sempre più evidente nel progredire degli studi sugli Scritti di Francesco: la loro

impostazione risulta fortemente trinitaria, ed è all‟interno di tale impostazione che va ricollocato sia il

tradizionale «cristocentrismo» francescano, sia la tematica dello «Spirito del Signore».

Un chiaro esempio di tale prospettiva trinitaria è nella preghiera conclusiva della Lettera a tutto

l’Ordine, dove è evidente un «percorso» che parte dall‟opera santificatrice dello Spirito, rende conformi al

Figlio («seguirne le orme» vuol dire essere come lui, porre i propri passi sui suoi), per giungere a quel

cuore del mistero di Dio, che è la fonte stessa della divinità:

«Onnipotente, eterno, giusto e misericordioso Iddio, concedi a noi miseri di fare, per la forza

del tuo amore, ciò che sappiamo che tu vuoi, e di volere sempre ciò che a te piace, affinché,

interiormente purificati, interiormente illuminati e accesi dal fuoco dello Spirito santo,

possiamo seguire le orme del tuo Figlio diletto, il Signore nostro Gesù Cristo, e con l‟aiuto

della tua sola grazia giungere a te, o Altissimo, che nella Trinità perfetta e nella unità semplice

vivi e regni glorioso, Dio onnipotente per tutti i secoli dei secoli. Amen»5.

Questa breve e densa preghiera di san Francesco prospetta in chiave trinitaria tutto l‟itinerario spirituale

del cristiano, che parte dall‟azione dello Spirito, trova il suo centro nella sequela di Cristo e giunge così

ad aprirsi filialmente sull‟orizzonte del Padre.

La nostra scelta dell‟espressione avere lo Spirito del Signore come primo nucleo fondante della

spiritualità francescana si giustifica proprio in questa prospettiva trinitaria, ma insieme realmente

cristocentrica.

L‟espressione «Spirito del Signore», infatti, più di altre si presta a evidenziare il ruolo centrale di Cristo

(il Signore) di cui bisogna avere lo Spirito (che è lo Spirito di Cristo, e dunque è lo Spirito santo, il dono

pasquale di Cristo, il «suo» Spirito), giungendo così a fondere la dimensione cristocentrica con la

prospettiva trinitaria6.

Francesco non concepisce mai lo Spirito santo come «alternativo» a Gesù Cristo, ma sempre come

«relativo» a lui, secondo l‟insegnamento apostolico che egli stesso cita esplicitamente nell‟Ammonizione

8:

«Dice l‟Apostolo: «Nessuno può dire: Signore Gesù, se non nello Spirito santo»; e ancora...»7.

5 LOrd 50-52: FF 233.

6 Come abbiamo già notato, l’espressione «Spirito del Signore» può risultare in qualche caso di dubbia interpretazione, senza essere applicabile direttamente a Cristo, ma più genericamente a Dio. Resta vero che tale ambiguità, in certo senso, riguarda lo stesso Spirito santo, che procede sia dal Padre che dal Figlio ed è Spirito di Dio ma anche di Cristo.

7 Am 8,1: FF 157.

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Per questo riteniamo che in Francesco la dimensione trinitaria e quella cristocentrica trovino una

equilibrata sintesi: il suo cristocentrismo pone Gesù al centro, ma proprio questa centralità rimanda ad

altri elementi che non sono secondari: il ruolo dello Spirito e l‟orientamento al Padre. Per usare

l‟espressione di uno dei più acuti indagatori della cristologia di Francesco:

«Si dice spesso che la spiritualità di Francesco è cristocentrica. È vero. Ma non è pan-cristica.

...Quanto a Francesco, egli non perde mai di vista la persona di Cristo, ma egli lo vede sempre

come Mediatore, cioè sempre in relazione da una parte con il Padre e dall‟altra con tutti gli

uomini. È insufficiente dire che la spiritualità di Francesco è cristocentrica: si deve aggiungere

che prende il suo punto di partenza dallo Spirito santo e si orienta verso il Padre»8.

1. Il ruolo dello Spirito

Coerentemente con questa prospettiva, Francesco attribuisce allo Spirito del Signore il compito di

riconoscere chi sia davvero Gesù; l‟Ammonizione 1, che è dedicata a come «conoscere» il Signore, affida

allo Spirito il compito di farci passare dal semplice «vedere» il Signore Gesù al «vedere e credere» in lui.

«Perciò tutti coloro che videro il Signore Gesù secondo l‟umanità, ma non videro né

credettero, secondo lo Spirito e la divinità, che egli è il vero Figlio di Dio, sono condannati»9.

Il culmine di tale riconoscimento del Signore avviene nell‟eucaristia, dove è ancora lo Spirito del

Signore che ci fa riconoscere e ricevere come tale il corpo eucaristico di Cristo:

«Per cui lo Spirito del Signore, che abita nei suoi fedeli, è lui che riceve il santissimo corpo e

il sangue del Signore. Tutti gli altri, che non partecipano dello stesso Spirito e presumono

ricevere il santissimo corpo e sangue del Signore, mangiano e bevono la loro condanna»10.

Si tratta di una affermazione alquanto singolare, ma che è perfettamente coerente con quanto Francesco

ha affermato sul ruolo dello Spirito nel passaggio dal «vedere» al «vedere e credere» e che evidenzia bene

il riferimento ultimo alla centralità di Cristo: il riconoscimento del Cristo eucaristico e addirittura la sua

recezione sono attribuiti all‟opera dello Spirito, che risulta così essere il vero autore di una vita

«spirituale» e «cristiana».

2. Lo Spirito ci rende dimora di Dio

È al medesimo Spirito che Francesco riconosce la capacità di fare di noi la «abitazione e dimora» di Dio,

rendendoci «figli del Padre celeste» (come Gesù!), e «sposi, fratelli e madri del Signore nostro Gesù

Cristo», instaurando con lui una relazione davvero intima e straordinaria (e va notato che si tratta ancora

una volta di una azione «relativa» a Cristo):

«Oh, come sono beati e benedetti quelli e quelle, quando fanno tali cose e perseverano in esse:

perché riposerà su di essi lo Spirito del Signore e farà presso di loro la sua abitazione e

dimora; e sono figli del Padre celeste, del quale compiono le opere, e sono sposi, fratelli e

madri del Signore nostro Gesù Cristo.

8 N. NGUYEN-VAN-KHANH, Gesù Cristo nel pensiero di San Francesco secondo i suoi Scritti, Milano 1984, 326.

9 Am 1,8: FF 142.

10 Am 1,12: FF 143: è sempre relativo a Cristo!

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Siamo sposi, quando l‟anima fedele si unisce al Signore nostro Gesù Cristo per virtù di Spirito

santo.

Siamo suoi fratelli, quando facciamo la volontà del Padre che è nei cieli.

Siamo madri, quando lo portiamo nel cuore e nel corpo nostro per mezzo del divino amore e

della pura e sincera coscienza, lo generiamo attraverso le opere sante, che devono risplendere

agli altri in esempio»11.

Ritroviamo in questi testi di Francesco la descrizione di una vera e propria «inabitazione trinitaria», che

da sola meriterebbe un ampio esame e una approfondita riflessione, perché costituisce uno dei punti di

sintesi dell‟esperienza spirituale di Francesco; pur non svolgendo qui un tale approfondimento, vogliamo

almeno sottolineare, ancora una volta, il ruolo dello Spirito nel far di noi la «abitazione e dimora» del Dio

trinitario.

3. Spirito del Signore

e spirito della carne

Altrove Francesco contrappone, con suggestiva efficacia, l‟azione dello Spirito del Signore a quella

dello «spirito della carne», che è l‟io egoista, che cerca di possedere ogni cosa e non riconosce la paterna

signoria di Dio:

«Quindi tutti noi frati guardiamoci da ogni superbia e vana gloria; e difendiamoci dalla

sapienza di questo mondo e dalla prudenza della carne.

Lo spirito della carne, infatti, vuole e si preoccupa molto di possedere parole, ma poco di

attuarle, e cerca non la religiosità e la santità interiore dello spirito, ma vuole e desidera avere

una religiosità e una santità che appaia al di fuori agli uomini. È di questi che il Signore dice:

«In verità vi dico, hanno ricevuto la loro ricompensa».

Lo Spirito del Signore invece vuole che la carne sia mortificata e disprezzata, vile e abbietta, e

ricerca l‟umiltà e la pazienza e la pura e semplice e vera pace dello spirito; e sempre desidera

soprattutto il divino timore e la divina sapienza e il divino amore del Padre e del Figlio e dello

Spirito santo»12.

Con questa efficace contrapposizione, Francesco descrive gli effetti dell‟avere lo Spirito del Signore; il

secondo punto della nostra sintesi sarà dedicato a mostrare come l‟effetto più tipico sia precisamente

l‟attitudine a vivere «senza nulla di proprio».

Per ora ci basta sottolineare che avere lo Spirito del Signore porta ad affermare la centralità di Cristo in

un contesto trinitario: al fondamento non può esserci altro che Gesù Cristo, riconosciuto nello Spirito

come il Figlio del Padre.

II. SPIRITO DEL SIGNORE

E PATERNITÀ DI DIO

11 1Lf 6-7: FF 178/2 e parallelo in 2Lf 48-49: FF 200.

12 Rnb 17,14-16: FF 48.

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L‟avere lo Spirito del Signore conduce Francesco a riscoprire Dio come Padre, proprio perché lo Spirito

del Signore che lo anima è lo Spirito del Figlio Gesù; si tratta di quella realtà fondamentale della vita

cristiana, che già faceva dire a san Paolo:

«Avete ricevuto uno Spirito da figli adottivi per mezzo del quale gridiamo «Abbà, Padre!». Lo

Spirito stesso attesta al nostro spirito che siamo figli di Dio»13.

Questa consapevolezza di essere figlio di Dio, in quanto animato dallo Spirito del Figlio, conduce

Francesco a far spesso risuonare le parole della «preghiera sacerdotale» di Gesù14 e a rivolgersi al Padre

col Figlio e nel Figlio: è anche questo il senso dell‟inserimento di gran parte del testo della «preghiera

sacerdotale» nella Regola non bollata15.

Il medesimo capitolo 17 del vangelo di Giovanni viene citato, in forma più concisa, nelle due redazioni

della Lettera a tutti i fedeli16, dove tale citazione esplicita e sviluppa proprio il tema dell‟avere lo spirito

del Signore che viene affermato poco prima17.

Non è certo casuale l‟importanza che questo testo giovanneo assume per Francesco: tra i testi evangelici

esso è una delle massime espressioni del rapporto unico che lega il Figlio al Padre, ed è proprio tale

rapporto Padre-Figlio che interessa e colpisce Francesco, che trova in questa preghiera di Gesù il modello

della propria relazione col Padre. È stato giustamente osservato che tra le parole della preghiera di Gesù

che hanno colpito in maniera speciale Francesco occupa un posto speciale l‟invocazione «Padre mio» o

«Padre santo»18: è una ulteriore conferma della percezione acuta della paternità di Dio da parte di

Francesco, percezione che ci rimanda all‟azione dello Spirito in lui.

Nell‟Ufficio della Passione raggiunge il suo culmine l‟identificazione di Francesco con il Cristo che

prega il Padre, tanto da poter affermare che «questi salmi sono essenzialmente preghiera di Gesù che si

rivolge a suo Padre, non preghiera o discorso di Francesco»19; il ritornare continuo dell‟invocazione

«Padre santo», «Padre mio santissimo», indica la direzione della preghiera e manifesta il sentimento di

figliolanza che nasce dall‟essere animati dallo stesso Spirito di Gesù.

1. La preghiera cristiana

Ci troviamo così al cuore del mistero della preghiera cristiana, che è precisamente preghiera fatta «per

Cristo, con Cristo e in Cristo» e che sa di trarre la propria efficacia proprio da tale identificazione con

Gesù, mediatore perfetto e unico sommo sacerdote. Francesco, che pure non fa grandi discorsi sulla

preghiera, mostra all‟opera tale precisa coscienza cristiana: egli prega «in Cristo», egli è, in un certo

senso, il Cristo stesso che prega.

Lo stesso discorso si potrebbe fare per le Lodi di Dio altissimo, scritte alla Verna dopo l‟impressione

delle stimmate: in quel testo, che pure è l‟eco di una esperienza certamente cristocentrica (le stimmate!),

13 Rm 8, 15-16.

14 Per «preghiera sacerdotale> si intende usualmente il testo di Gv 17; sull’importanza di questo testo per Francesco, cfr. O. VAN ASSELDONK, La lettera e lo spirito, II, Roma 1985, 362-366.412-427; W. VIVIANI, L’ermeneutica di Francesco d’Assisi. Indagine alla luce di Gv 13-17 nei suoi Scritti, Roma 1983.

15 Rnb 22,41-55: FF 62.

16 1Lf 1,14-19: FF 178/3.

17 Ibid., 1,6: FF 178/2.

18 O. VAN ASSELDONK, La lettera e lo spirito, 423-427.

19 T. MATURA, Francesco parla di Dio, Milano 1993, 22.

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l‟unico vocativo è «Padre santo», quasi ad indicare come anche quella sia la preghiera di Gesù, al quale

Francesco è stato immedesimato con i segni della sua passione.

E la medesima osservazione va fatta a proposito del Cantico di frate sole, certamente la più nota delle

preghiere di Francesco, davanti alla quale ci si potrebbe porre la domanda, apparentemente irriverente, se

si tratti di una preghiera cristiana: nel Cantico, infatti, non c‟è alcuna menzione esplicita di Gesù Cristo, e

questo può essere spiegato solo se comprendiamo che esso è, in un certo senso, la preghiera di Cristo

stesso, al quale Francesco è immedesimato, perché animato dallo Spirito del Signore.

2. Padre nostro

I racconti biografici ci confermano che l‟esperienza della paternità di Dio risulta essere un tema

importante nel cammino spirituale di Francesco, fin dalla spogliazione e rinuncia ai beni paterni, davanti

al vescovo di Assisi, quando Francesco può affermare: «D‟ora in poi potrà» dire liberamente Padre nostro

che sei nei cieli e non Padre, Pietro di Bernardone»20; d‟altra parte, il particolare legame di Francesco con

la preghiera del Padre nostro è documentato non solo dalle biografie21, ma anche e soprattutto dalla sua

Parafrasi del Padre nostro22, che è un esempio di meditazione a partire dal testo evangelico, come pure

dalle due Regole, dove la preghiera del Pater costituisce l‟equivalente della Liturgia delle Ore per i frati

laici.

A noi preme qui sottolineare che tutta questa tematica della paternità di Dio e del rapporto filiale con lui,

che dovrebbe essere ben più analizzata e indagata, nasce e si sviluppa proprio dall‟avere lo Spirito del

Signore.

III. LE SANTE PAROLE

SONO SPIRITO E VITA

La nostra indagine sullo Spirito del Signore ci induce a mettere a fuoco il riferimento di Francesco al

Vangelo: egli afferma che le «sante parole» ci danno «Spirito e vita»23, che egli vuole annunciare a tutti

quelle stesse «fragranti» parole, e che esse sono:

«le parole del Signore nostro Gesù Cristo, che è il Verbo del Padre, e le parole dello Spirito

Santo, che sono spirito e vita»24.

Queste stesse sono «le parole» che Francesco riconosce annunciate dai:

«teologi e coloro che ci annunziano la parola divina, così come coloro che ci danno lo spirito

e la vita»25.

Ritorna costantemente in questi testi l‟eco di una espressione (ancora una volta giovannea!) che ha

fortemente colpito Francesco: «È lo Spirito che dà la vita, la carne non giova a nulla; le parole che vi ho

20 2Cel 12: FF 597.

21 Cfr. 1Cel 45: FF 399.

22 FF 266-275.

23 Rnb 22,39: FF 61.

24 2Lf 2-3: FF 180.

25 2Test 15: FF 115.

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dette sono spirito e vita»26. Evidentemente, quando Francesco pensa alla parola divina, nasce in lui un

immediato collegamento con lo Spirito che dona la vita.

È certamente superfluo insistere per mostrare quanto sia corretto questo collegamento tra sacra Scrittura

e Spirito santo, tra quella parola che il credente accoglie come «ispirata» e colui che dell‟ispirazione è la

fonte prima, cioè lo Spirito santo.

1. Lo Spirito della divina lettera

Le «sante parole» si collegano con lo Spirito del Signore anche perché esse possono essere intese solo

nello Spirito, come Francesco afferma chiaramente nell‟Ammonizione 7, dove spiega che si può essere

uccisi dalla lettera, ma anche essere «vivificati dallo Spirito della divina lettera»:

«Dice l‟Apostolo: «La lettera uccide, lo spirito invece dà vita».

Sono morti a causa della lettera coloro che unicamente bramano sapere le sole parole, per

essere ritenuti i più sapienti in mezzo agli altri e poter acquistare grandi ricchezze e darle ai

parenti e agli amici.

Così pure sono morti a causa della lettera quei religiosi che non vogliono seguire lo spirito

della divina lettera27, ma piuttosto bramano sapere le sole parole e spiegarle agli altri.

E sono vivificati dallo spirito della divina lettera coloro che ogni scienza che sanno e

desiderano sapere, non l’attribuiscono al proprio io, ma la restituiscono, con la parola e con

l‟esempio, all‟altissimo Signore Dio, al quale appartiene ogni bene»28.

Un testo come questo, che potrebbe facilmente far pensare alle polemiche anti intellettuali tipiche di

molta letteratura ascetica, ad un esame più attento si rivela più complesso e raffinato.

Francesco non contrappone, come potrebbe parere superficialmente, la lettera e lo spirito: contrappone

piuttosto la «lettera» allo «spirito della divina lettera». Va notato che in entrambi i casi la lettera rimane,

come punto di riferimento essenziale e impreteribile: la differenza non sta nel riferirsi alla lettera (della

quale non si può fare a meno, se si è cristiani e ci si riferisce dunque al Vangelo del Signore), ma nella

capacità di riferirsi allo spirito della divina lettera, quello spirito che pensiamo essere lo stesso Spirito

santo.

Ci sovviene, a questo proposito, una affermazione del Concilio Vaticano II: «La sacra Scrittura deve

essere letta e interpretata con l‟aiuto dello stesso Spirito mediante il quale è stata scritta»29. Se non si

assume un tale criterio interpretativo, ci ricorda Francesco, essa rimane «lettera» morta e mortificante, che

non dona «spirito e vita».

26 Gv 6,63.

27 Cioè «della sacra Scrittura>; la traduzione italiana tuttavia perde, dicendo «spirito della divina Scrittura, là dove Francesco usa la stessa parola littera per sottolineare che la medesima «lettera può» uccidere o dar vita: bisogna vedere se è accompagnata dallo «Spirito [a mio avviso, maiuscolo!] della divina lettera.

28 Am 7: FF 156.

29 Dei Verbum n. 12.

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2. Osservare il santo Vangelo

In questo primo nucleo della nostra sintesi si può dunque collocare anche tutto il riferimento al Vangelo

e all‟osservanza del santo Vangelo, nella quale alcuni vedono il tratto caratteristico della spiritualità

francescana, come peraltro suggerisce anche l‟inizio solenne delle Regole scritte da Francesco: «La vita e

regola dei frati minori è questa: osservare il santo Vangelo del Signore nostro Gesù Cristo, vivendo in

obbedienza, senza nulla di proprio e in castità»30.

Uscendo per un momento dal limite che ci siamo imposti, si possono qui ricordare anche alcuni testi

biografici che illustrano questa importante presenza del Vangelo nella vita di Francesco: ad esempio,

limitandosi solo alla prima biografia del Santo, si parte dall‟ascolto del Vangelo alla Porziuncola31, si

passa attraverso la riflessione introduttiva all‟episodio di Greccio32, dove l‟invenzione del presepio viene

ricondotta al «desiderio dominante» di Francesco, che era quello di osservare e imitare perfettamente il

santo Vangelo, si giunge a quel vertice che è la consultazione del Vangelo alla Verna33, dove la parola di

Cristo annuncia a Francesco il dono delle stimmate, e suscita un nuovo fervore di predicazione evangelica

alla discesa da quel santo monte34, per giungere infine alla lettura del Vangelo di Giovanni, voluta da

Francesco poco prima di morire, quasi a conformare anche i suoi estremi momenti a quelle parole che

danno Spirito e vita35.

IV. LO SPIRITO DEL SIGNORE

E LA SUA SANTA OPERAZIONE

Tra i testi in cui ricorre l‟espressione Spirito del Signore36 va ricordato quello della Regola bollata, che

alcuni considerano il cuore della stessa:

«E coloro che non sanno di lettere, non si curino di apprenderle, ma facciano attenzione che

ciò che devono desiderare sopra ogni cosa è di avere lo Spirito del Signore e la sua santa

operazione, di pregarlo sempre con cuore puro e di avere umiltà, pazienza nella persecuzione

e nella infermità, e di amare quelli che ci perseguitano e ci riprendono e ci calunniano, poiché

dice il Signore: «Amate i vostri nemici e pregate per quelli che vi perseguitano e vi

calunniano; beati quelli che sopportano persecuzione a causa della giustizia, perché di essi è il

regno dei cieli. E chi persevererà fino alla fine, questi sarà salvo»»37.

30 Rb 1,1: FF 75.

31 1Cel 22: FF 356-357.

32 1Cel 84: FF 466-467.

33 1Cel 92: FF 480.482.

34 1Cel 97: FF 488.

35 1Cel 110: FF 511.

36 Tali testi sono i seguenti: Am 1,13-14: FF 143; Am 12,1-2: FF 161; 1Lf 6: FF 178/2, parallelo in 2Lf 48: FF 200; Rnb 17,14-16: FF 48; Rb 10,10-11: FF 104.

37 Rb 10,8-12: FF 104.

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Alla presenza dello Spirito del Signore si collega dunque la sua «santa operazione», che indica il santo

operare sotto l‟azione dello Spirito del Signore, secondo quel principio molto chiaro a Francesco per cui è

solo Dio ad operare il bene in noi, «poiché suo è ogni bene ed egli solo è buono»38.

Francesco è molto attento all‟importanza del «santo operare», che costituisce un criterio per distinguere

il vero servo del Signore da colui che è vano:

«Guai a quel religioso che non custodisce nel suo cuore i beni che il Signore gli mostra e non

li manifesta agli altri nelle opere, ma piuttosto, con la speranza di una mercede, brama

manifestarli agli uomini a parole. Questi riceve già la sua mercede, e chi ascolta ne riporta

poco frutto»39.

Ritroviamo qui la contrapposizione tra coloro che parlano soltanto e coloro che operano, e che

costituisce una costante preoccupazione di Francesco, consapevole di tale rischio per sé e per i suoi frati:

«Lo spirito della carne, infatti, vuole e si preoccupa molto di possedere parole, ma poco di

attuarle...»40.

La «santa operazione» è dunque un criterio importante per discernere un vero cammino spirituale: siamo

sulla stessa linea del Vangelo, che proclama: «Dai loro frutti li riconoscerete»41.

Con la «santa operazione» siamo dunque condotti ad evidenziare l‟effetto che lo Spirito produce

nell‟uomo, e che è sostanzialmente la manifestazione esteriore di una relazione profonda con Cristo: gli

esempi che Francesco propone nel testo della Regola (pregare sempre, avere umiltà, pazienza, amare i

persecutori) sono i frutti di tale assimilazione a Cristo; si tratta, in qualche modo, del comportamento

stesso di Cristo, presente in chi «ha» il suo Spirito42.

38 Rnb 17,18: FF 49.

39 Am 21,2: FF 171.

40 Rnb 17,11: FF 48.

41 Mt 7,16.

42 Cfr. O. VAN ASSELDONK, Lo Spirito del Signore e la sua santa operazione negli Scritti di Francesco , in ID., La lettera e lo Spirito, II, Roma 1985, 31-92.

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INTERMEZZO:

LA VITA DI PENITENZA

L‟avere lo spirito del Signore, che abbiamo visto essere realtà fondante l‟intera vita spirituale, si

manifesta in quel «santo operare» che Francesco chiama il «fare penitenza».

Con questa espressione Francesco indica quell‟atteggiamento di conversione continua che deve

contraddistinguere la vita del cristiano, quel «capovolgimento che porta l‟uomo da una vita istintiva

incentrata sul proprio io a una vita interamente soggetta e abbandonata alla volontà, alla signoria di

Dio»43.

Francesco, alla fine della sua vita, ritiene di poter condensare tutto il suo cammino cristiano proprio

nell‟espressione «far penitenza», quando inizia il suo Testamento dicendo:

«Il Signore dette a me, frate Francesco, di incominciare a far penitenza così: quando ero nei

peccati...»44.

Anche la vita dei suoi frati è talvolta da lui indicata con l‟espressione «far penitenza», come quando

prescrive ai suoi di non chiedere lettere di privilegio presso la Curia romana, per nessun motivo, neppure

per una più efficace predicazione, e aggiunge che «dovunque non saranno accolti, fuggano in altra terra a

far penitenza con la benedizione di Dio»45, dove l‟espressione «far penitenza» è usata come la formula

riassuntiva di tutta la vita dei frati; ed è bene ricordare che essi, prima di avere un nome preciso, erano

comunque conosciuti come i «penitenti di Assisi»46.

Francesco esorta a «far frutti degni di penitenza»47, a «perseverare nella vera fede e nella penitenza,

perché nessuno può salvarsi in altro modo»48 e pone proprio in questo atteggiamento un chiaro criterio di

riferimento per tutti i cristiani, dividendo la lettera che indirizza a tutti i fedeli in due parti, intitolate

proprio «Di coloro che fanno penitenza» e «Di coloro che non fanno penitenza»49.

Questa «penitenza» costituisce anche l‟oggetto tipico della predicazione di Francesco, insieme

all‟annuncio di pace; già il primo biografo del Santo, descrivendo gli inizi della sua predicazione, ne

enuncia il contenuto riassumendolo in un invito alla penitenza sempre preceduto da un annunzio di

pace50.

Vogliamo notare, anche se solo fugacemente, che in questi due semplici contenuti può esser

riconosciuto il nucleo della predicazione cristiana: la pace è l‟elemento oggettivo, l‟annuncio del Regno,

43 K. ESSER, Origini e inizi del movimento e dell’Ordine francescano, Milano 1975, 197.

44 2Test 1: FF 110.

45 2Test 26: FF 123.

46 Cfr. 3 Comp 37: FF 1441.

47 Rnb 21,3: FF 55; 2Lf 25: FF 190.

48 Rnb 23,7: FF 68.

49 1Lf: FF 178.

50 Cfr. 1Cel 23: FF 358-359, i cui contenuti vengono ripresi costantemente da tutti i primi biografi.

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la buona novella di Gesù, mentre la penitenza è l‟elemento soggettivo, la conversione personale, la fede

che opera nella carità proprio per accogliere la pace, dono del Signore.

Ritroviamo così nella predicazione di penitenza e pace i due elementi fondamentali di ogni predicazione

cristiana: l‟elemento di grazia, che proviene dall‟alto, e l‟elemento delle risposta fedele, che proviene

dalla vita del credente.

Abbiamo solo evocato qualche testo in cui Francesco parla di penitenza e non è qui possibile, dato il

carattere sintetico di queste righe, sviluppare adeguatamente questo tema51, ma crediamo sia necessario

porlo come necessario «intermezzo» tra l‟avere lo spirito del Signore e i successivi punti della nostra

sintesi, che possono essere visti proprio come l‟articolarsi esplicito del «fare penitenza».

Il fare penitenza si esprimerà dunque in maniera organica nel vivere senza nulla di proprio e nella

restituzione, ed a sua volta va inteso come la manifestazione di quello Spirito del Signore che solo può

stare a fondamento del cammino spirituale.

51 A questo proposito, sembra ancora valido e accessibile l’agile contributo di K. ESSER-E. GRAU, Risposta all’amore, Milano 1970, che pur risalendo al 1958 nell’edizione tedesca, conserva il suo valore.

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SENZA NULLA DI PROPRIO

Dopo il necessario «intermezzo» della penitenza, il passaggio a questo secondo elemento della nostra

sintesi può fondarsi sull‟Ammonizione 12, intitolata proprio «Come riconoscere lo Spirito del Signore».

«A questo segno si può riconoscere il servo di Dio, se ha lo Spirito del Signore: se, quando il

Signore compie, per mezzo di lui, qualcosa di buono, la sua «carne» non se ne inorgoglisce

poiché la carne è sempre contraria ad ogni bene, ma piuttosto si ritiene ancora più vile ai

propri occhi e si stima più piccolo di tutti gli altri uomini»52.

Troviamo in questa ammonizione un termine abbastanza tipico del vocabolario di Francesco: la parola

carne. Essa esprime la dimensione dell‟io egoista; non si tratta di una contrapposizione tra materia e

spirito, tra corpo e anima come due realtà buone e cattive, tanto che abbiamo già osservato che talvolta

Francesco parla di «spirito della carne», con una espressione che rivela dunque che la carne di cui si parla

è un modo di fare dell‟uomo, uno «spirito», e non la realtà materiale del corpo53.

I. IL PECCATO È ORGOGLIO

Nell‟Ammonizione 12, che abbiamo appena riportata, il peccato della carne è quello di «inorgoglirsi...

quando il Signore compie, per mezzo dell‟uomo, qualcosa di buono». È un tema ricorrente anche in altre

Ammonizioni:

«Beato quel servo che non si inorgoglisce per il bene che il Signore dice e opera per mezzo di

lui, più che per il bene che dice e opera per mezzo di un altro. Pecca l‟uomo che vuole

ricevere dal suo prossimo più di quanto non vuole dare di sé al Signore suo Dio»54.

Questo «inorgoglirsi» dei beni che il Signore dice ed opera in noi viene addirittura identificato con il

tratto più caratteristico del peccato originale, nell‟Ammonizione 2:

«Disse il Signore ad Adamo: «Mangia pure i frutti di qualunque albero, ma dell‟albero della

scienza del bene e del male non ne mangiare». Adamo poteva dunque mangiare i frutti di

qualunque albero del paradiso; egli, finché non contravvenne all‟obbedienza, non peccò».

Mangia, infatti, dell‟albero della scienza del bene colui che si appropria la sua volontà e si

esalta per i beni che il Signore dice e opera in lui; e così, per suggestione del diavolo e per la

trasgressione del comando, è diventato per lui il frutto della scienza del male. Bisogna perciò

che ne sopporti la pena»55.

52 Am 12: FF 161.

53 Cfr. C. GNIECKI, Visione dell’uomo negli scritti di Francesco d’Assisi, Roma 1987, 103-119, 145-174.

54 Am 17: FF 166; cfr. anche Am 19: FF 169, di tenore simile.

55 Am 2: FF 146-147.

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L‟inorgoglirsi o esaltarsi «per i beni che il Signore dice e fa in noi» viene accostato, in quest‟ultimo

testo, all‟«appropriarsi la sua volontà», e in tale atteggiamento viene fatto consistere il peccato-tipo, cioè

il peccato originale.

II. ORGOGLIO È APPROPRIAZIONE

Si capisce, dunque, che il motivo per cui è male «inorgoglirsi di quanto il Signore opera in noi» è

proprio il fatto che ci si «appropria» di qualcosa che è di Dio. Questa «appropriazione indebita» di quanto

non è mio costituisce, per Francesco, la radice di ogni peccato.

A fondamento di tale convinzione sta la certezza che ogni bene appartiene radicalmente a Dio, e dunque

non lo si può considerare «proprio»; numerosi sono i testi che ripetono che solo Dio è buono e che ogni

bene appartiene a lui:

«E restituiamo al Signore Dio altissimo e sommo tutti i beni e riconosciamo che tutti i beni

sono suoi e di tutti rendiamogli grazie, perché procedono tutti da lui. ...perché suo è ogni bene

ed Egli solo è buono»56.

III. VIVERE «SINE PROPRIO»

Se il peccato fondamentale consiste nell‟appropriarsi di ciò che è di Dio, risulta comprensibile che

l‟atteggiamento positivo, al contrario, venga espresso con il vivere «sine proprio», cioè «senza nulla di

proprio»57.

Tale espressione è usata da Francesco all‟inizio delle due Regole, dove dice che la vita dei Frati minori è

osservare il Vangelo, vivendo in obbedienza, «sine proprio» e in castità. Da notare questa espressione, che

si differenzia (non a caso!) dalla più comune formulazione «in castità, povertà e obbedienza»: non si parla

di povertà, ma di «sine proprio», che rimanda all‟atteggiamento di chi non si appropria di nulla, e nel

quale probabilmente si può vedere un orizzonte più ampio della comune accezione di povertà.

Questa scelta di vivere senza nulla di proprio appare chiaramente nel breve capitolo della Regola non

bollata dedicato a «Come i frati devono andare per il mondo»; per riassumere sinteticamente il «progetto

di evangelizzazione» tipico dei frati, Francesco dice così:

«Quando i frati vanno per il mondo, non portino niente per il viaggio, né sacco, né bisaccia, né

pane, né pecunia, né bastone. E in qualunque casa entreranno dicano prima: Pace a questa

casa. E dimorando in quella casa mangino e bevano quello che ci sarà presso di loro. Non

resistano al malvagio; ma se uno li percuote su una guancia, gli offrano l‟altra. E se uno toglie

loro il mantello, non gli impediscano di prendere anche la tunica. Diano a chiunque chiede; e

a chi toglie il loro, non lo richiedano»58.

In questo testo, che con i capitoli immediatamente seguenti è stato efficacemente definito la «magna

charta» dell‟apostolato, il vivere «sine proprio» dei frati è la qualifica fondamentale del loro modo di

vivere, quasi che per definire la vita dei frati non sia necessario altro; e tale vita «senza nulla di proprio» si

56 Rnb 17,5-7.17-18: FF 47.49; vedi anche Am 7,4: FF 156; 2Lf 61-62: FF 202; LOrd 8-9: FF 216; LodAl: FF 261; LodOr: FF 265; Pater 2: FF 267.

57 Useremo l’espressione sine proprio perché è quella usata da Francesco, mentre altre formulazioni sono più equivoche e possono richiamare termini tecnici di altre scuole spirituali.

58 Rnb 14,1-6: FF 40; per le osservazioni su questo testo cfr. D. DOZZI, Il Vangelo nella Regola non bollata di Francesco d’Assisi, Roma 1989, 205-232.

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definisce non solo in relazione alla proprietà di cose (il sacco, la bisaccia, il pane, la pecunia o il bastone),

ma anche e soprattutto come l‟atteggiamento di chi ha rinunciato anche ai propri legittimi diritti (non

resistano al malvagio... a chi toglie il loro non lo richiedano) e perciò vive davvero senza nulla di proprio.

Vedremo come questo atteggiamento deve davvero permeare di sé ogni rapporto e relazione, non solo con

le cose, ma anche e soprattutto con Dio e con i fratelli.

IV. L‟INGANNO DEL POSSEDERE

Al tema del «sine proprio» si contrappone, evidentemente, quello del «possedere»; così scrive Francesco

nella Lettera ai fedeli, quando parla di «quanti non fanno penitenza»:

«Vedete, o ciechi, ingannati dai vostri nemici, cioè dalla carne, dal mondo e dal diavolo, che

al corpo è cosa dolce fare il peccato e cosa amara sottoporsi a servire Dio...

E non avete niente in questo mondo e neppure nell’altro. E credete di possedere a lungo le

vanità di questo secolo, ma vi ingannate...

E tutti i talenti e il potere e la scienza e sapienza che credevano di possedere sarà loro tolta. E

lasciano tutto ai parenti e agli amici»59.

La radice del peccato, anche in questo caso, sta nel «credere di possedere», senza riconoscere che in

realtà «non abbiamo niente in questo mondo e neppure nell‟altro».

L‟avere lo spirito del Signore, dunque, si manifesta nel vivere «sine proprio»; e tale atteggiamento si

esprime sia nel rapporto con Dio che nel rapporto con i fratelli.

V. IL «SINE PROPRIO»

NEL RAPPORTO CON DIO

Più volte Francesco richiama questo atteggiamento di «sine proprio» nei confronti di Dio; così nella

Regola non bollata, rivolgendosi dapprima ai suoi frati predicatori, estende immediatamente il discorso a

tutti i frati:

«Per cui scongiuro, nella carità che è Dio, tutti i miei frati occupati nella predicazione,

nell‟orazione, nel lavoro, sia chierici che laici, che cerchino di umiliarsi in tutte le cose, di non

gloriarsi né godere tra sé, né esaltarsi dentro di sé delle buone parole e delle opere, anzi di

nessun bene che Dio dice, o fa o opera talora in loro e per mezzo di loro, secondo quello che

dice il Signore: «Non rallegratevi però in questo, perché vi stanno soggetti gli spiriti».

E siamo fermamente convinti che non appartengono a noi se non i vizi e i peccati. E

dobbiamo anzi godere quando siamo esposti a diverse prove e quando sosteniamo qualsiasi

angustia o afflizione di anima o di corpo in questo mondo in vista della vita eterna»60.

La stessa intuizione ritorna nell‟Ammonizione 5, che ruota intorno alla domanda: «di che cosa puoi

dunque gloriarti?». Così risponde Francesco:

«... se tu fossi tanto sottile e sapiente da possedere tutta la scienza e da saper interpretare tutte

le lingue e acutamente perscrutare le cose celesti, in tutto questo non potresti gloriarti; poiché

59 1Lf 11-17: FF 178/5-178/6.

60 Rnb 17,5-16: FF 47-48.

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un solo demonio seppe delle realtà celesti e ora sa di quelle terrene più di tutti gli uomini

insieme ...

Ugualmente, se anche tu fossi il più bello e il più ricco di tutti, e se tu operassi cose mirabili,

come scacciare i demoni, tutte queste cose ti sono di ostacolo e non sono di tua pertinenza, ed

in esse non ti puoi gloriare per niente; ma in questo possiamo gloriarci, nelle nostre infermità

e nel portar sulle spalle ogni giorno la santa croce del Signore nostro Gesù Cristo»61.

1. Appropriarsi il peccato

e gloriarsi della croce

Il «gloriarsi», in questo caso, è la forma di appropriazione che Francesco rifiuta, precisamente perché

significa attribuirsi qualcosa che non è proprio.

Ritorna invece l‟insistenza sull‟attribuirsi le infermità e la croce, come nel testo precedente le prove e

«qualsiasi angustia o afflizione di anima e di corpo in questo mondo», e addirittura i vizi e peccati: solo di

queste realtà «negative» possiamo appropriarci con verità e con sicurezza.

Possiamo legittimamente chiederci da cosa deriva tale atteggiamento, che si appropria del «negativo»,

ma al contrario riconosce nel positivo l‟azione di Dio. Non sarebbe più giusto avere il medesimo

atteggiamento, di appropriazione o di attribuzione a Dio, sia verso le realtà positive che verso quelle

negative?

La risposta appare complessa, in quanto riguarda da una parte l‟appropriarsi «le infermità» e dall‟altra «i

vizi e i peccati». Per quanto riguarda questi ultimi, probabilmente bisogna ricordare che noi non siamo

nelle medesima posizione di fronte al male e al bene; la nostra libertà non si esercita su due oggetti

ugualmente disponibili, che sarebbero il male e il bene. La libertà si realizza solo orientandosi al bene,

che le sta di fronte portando con sé un ineliminabile riferimento a Dio; al contrario, nel caso delle scelte

malvagie, la mia libertà non sceglie qualcosa, ma «non sceglie», ripiegandosi su se stessa e orientandosi

verso quello che noi chiamiamo male. In questo senso ha ragione Francesco nell‟affermare che le scelte

positive portano con sé un chiaro riferimento a Dio, al quale egli sa di doverle attribuire, mentre quelle

negative non rimandano a null‟altro che a me stesso, cioè a quell‟io nel quale mi rinchiudo egoisticamente

con le scelte di peccato.

Per quanto riguarda invece l‟attribuirsi le infermità e la croce, e addirittura il potersene gloriare,

Francesco ha presente l‟esempio di Paolo che afferma:

«Mi vanterò ben volentieri delle mie debolezze, perché dimori in me la potenza di Cristo.

Perciò mi compiaccio nelle mie infermità, negli oltraggi, nelle necessità, nelle persecuzioni,

nelle angosce sofferte per Cristo: quando sono debole, è allora che sono forte»62.

In questo caso l‟infermità, con tutto quanto è negativo, può essere considerato mio perché rivela la mia

fragilità e debolezza, ma è anche motivo di gloria perché è il luogo di rivelazione della potenza di Cristo,

che proprio nella debolezza della croce ci salva. Solo che in questo caso non è possibile fare equivoci:

anche se mi approprio la croce, non è possibile attribuire a me la salvezza che vi è nascosta, perché è

troppo chiaramente opera dell‟unico Salvatore. Il trarre la salvezza dalla croce è opera impossibile

all‟uomo: posso dunque appropriarmi tranquillamente la croce, senza il rischio di «rubare» qualcosa a

Dio.

61 Am 5: FF 153-154.

62 2Cor 12, 9-10.

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2. Il rischio della scienza

Francesco sa che possono esserci diversi casi di «appropriazione indebita» da parte dell‟uomo, e ne

individua il rischio anche nella scienza, cui dedica l‟Ammonizione 7:

«Dice l‟Apostolo: «La lettera uccide, lo spirito invece dà vita». Sono morti a causa della

lettera coloro che unicamente bramano sapere le sole parole, per essere ritenuti i più sapienti

in mezzo agli altri e poter acquistare grandi ricchezze e darle ai parenti e agli amici.

Così pure sono morti a causa della lettera quei religiosi che non vogliono seguire lo spirito

della divina Lettera, ma piuttosto bramano sapere le sole parole e spiegarle agli altri.

E sono vivificati dallo spirito della divina Lettera coloro che ogni scienza che sanno e

desiderano sapere, non l’attribuiscono al proprio io, ma la restituiscono, con la parola e con

l‟esempio, all‟altissimo Signore Dio, al quale appartiene ogni bene»63.

Abbiamo già fatto qualche osservazione su questo testo; vogliamo ora osservare che il rischio

evidenziato da Francesco è proprio quello dell‟appropriarsi (= attribuire al proprio io) invece di restituire:

vedremo infatti che il passo successivo all‟essere «sine proprio» è quello della restituzione.

Abbiamo già notato che in questa breve ammonizione Francesco non fa una banale polemica contro lo

studio, come se fosse cattivo in se stesso; non se la prende infatti con la «Lettera» (in latino «littera») in

quanto tale, perché quella medesima lettera può uccidere («sono morti a causa della lettera...») ma può

anche dare la vita («sono vivificati dallo spirito della divina Lettera...»). Il rischio non sta dunque nella

lettera e nel suo studio, ma sta nell‟appropriazione che ne può derivare; e Francesco sa bene che la scienza

e il sapere possono benissimo essere un forte strumento di potere, anche tra i suoi frati. Proprio ai

predicatori, uomini di scienza e di lettere, esposti più degli altri a tale rischio, egli ricorda:

«... E nessun ministro o predicatore consideri sua proprietà il ministero dei frati o l‟ufficio

della predicazione, ma in qualunque ora gli fosse ordinato, lasci, senza alcuna contestazione,

il suo incarico»64.

3. La malattia

Un altro caso di appropriazione che Francesco considera è quello della salute fisica, e a questo proposito

la prospettiva di Francesco raggiunge una profondità davvero impegnativa.

Rivolgendosi ai frati infermi, infatti, egli scrive:

«E prego il frate infermo di rendere grazie di tutto al Creatore, e che quale lo vuole il Signore,

tale desideri di essere, sano o malato, poiché tutti coloro che Dio ha preordinato alla vita

eterna, li educa con i richiami stimolanti dei flagelli e delle infermità e con lo spirito di

compunzione, così come dice il Signore: «Io quelli che amo, li correggo e li castigo».

Se invece si turberà e si adirerà contro Dio e contro i frati, ovvero chiederà con insistenza

medicine, desiderando troppo liberare la carne che presto dovrà morire, e che è nemica

dell‟anima, questo gli viene dal maligno ed egli è uomo carnale, e non sembra essere un frate,

perché ama più il corpo che l‟anima»65.

63 Am 7: FF 156.

64 Rnb 17,4: FF 46.

65 Rnb 10,3-4: FF 35.

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In questo caso sembra essere la salute il bene di cui non appropriarsi, ma da dover «rendere» a Dio, nella

piena accettazione della propria situazione fisica. Nemmeno la salute, infatti, è un bene che mi appartiene,

ma è un dono che da Dio ricevo e a lui va restituito, in quel «rendimento di grazie» che è la prima

richiesta di Francesco al frate malato: «E prego il frate infermo di rendere grazie di tutto al Creatore».

4. Nulla e tutto

Un tale esigente atteggiamento di «sine proprio» nasce comunque, come abbiamo già detto, ma come è

bene ricordare, dall‟avere lo spirito del Signore e dall‟accoglienza del dono che viene da Dio. Esiste uno

stretto collegamento tra il non appropriarsi di nulla e l‟accogliere il dono di colui che non «considerò» un

tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio, ma spogliò se stesso»66.

«Guardate, fratelli, l‟umiltà di Dio, ed aprite davanti a lui i vostri cuori; umiliatevi anche voi,

perché siate da lui esaltati. Nulla, dunque, di voi trattenete per voi, affinché totalmente vi

accolga colui che totalmente a voi si offre»67.

L‟atteggiamento del «sine proprio» viene qui espresso con l‟esortazione «nulla di voi trattenete per voi»;

ma questo diventa possibile, e addirittura necessario, solo quando lo «Spirito del Signore» fa comprendere

l‟umiltà di Dio: «Guardate, fratelli, l‟umiltà di Dio». Soltanto di fronte al dono di colui che «totalmente a

voi si offre» nasce la risposta piena di chi non trattiene nulla per sé.

È una dinamica totale e totalizzante, caratterizzata dal contrapporsi del «tutto» e del «nulla»: il ricevere

tutto genera il tutto donare, senza nulla tenere per sé, perché in tale prospettiva non c‟è più posto per

qualcosa di «proprio»: tutto è di Dio.

VI. IL «SINE PROPRIO»

NEL RAPPORTO CON I FRATELLI

L‟atteggiamento di chi evita ogni appropriazione si realizza anche nei rapporti con gli altri uomini, nei

confronti dei quali sono possibili molti tentativi di «appropriazione indebita».

1. L‟invidia

L‟invidia del fratello è una di queste tentazioni:

«...Perciò, chiunque invidia il suo fratello riguardo al bene che il Signore dice e fa in lui,

commette peccato di bestemmia, perché invidia lo stesso Altissimo, il quale dice e fa ogni

bene»68.

La consapevolezza che la sorgente di ogni bene è solo il Signore non vale, dunque, solo per se stessi, ma

anche nei rapporti con gli altri uomini: come non posso appropriarmi del bene che Dio opera in me, così

non posso farlo neppure di quanto egli opera negli altri. Da notare che il fondamento di questo

atteggiamento «sine proprio» nasce sempre e comunque, sia in sé che negli altri, da un onesto rapporto

verso Dio e dal riconoscere che egli solo opera ogni bene: il fondamento è sempre quella relazione con

Dio, che Francesco chiama «avere lo spirito del Signore».

66 Fil 2,6-1.

67 LOrd 28-29: FF 221.

68 Am 8,3: FF 157.

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2. La vera povertà

Nel «sine proprio» consiste la vera povertà francescana; ma è interessante osservare che proprio

l‟atteggiamento verso i fratelli costituisce, per Francesco, il banco di prova di un vero spirito di povertà.

Quando egli commenta la beatitudine della povertà, infatti, non si riferisce ad altra espropriazione che a

quella verso il fratello:

««Beati i poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli».

Ci sono molti che, applicandosi insistentemente a preghiere e occupazioni, fanno molte

astinenze e mortificazioni corporali, ma per una sola parola che sembri ingiuria verso la loro

persona, o per qualche cosa che venga loro tolta, scandalizzati, tosto si irritano. Questi non

sono poveri in spirito, poiché chi è veramente povero in spirito odia se stesso e ama quelli che

lo percuotono sulla guancia»69.

Mentre nel commento alla beatitudine della povertà ci si potrebbe aspettare un riferimento alla povertà

materiale, pure così fermamente praticata da Francesco, è estremamente significativo scoprire che è nel

rapporto con il prossimo che viene posta la prova di una vera povertà di spirito. Il «sine proprio» con i

fratelli diventa, così, il termine di paragone più significativo ed insieme più esigente, e si estende ad ogni

rapporto con gli altri, e ad ogni reazione che gli altri suscitano in noi:

«Al servo di Dio nessuna cosa deve dispiacere eccetto il peccato. E in qualunque modo una

persona peccasse e, a motivo di tale peccato, il servo di Dio, non più guidato dalla carità, ne

prendesse turbamento e ira, accumula per sé come un tesoro quella colpa. Quel servo di Dio

che non si adira e non si turba per alcunché, davvero vive senza nulla di proprio. Ed egli è

beato perché, rendendo a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio, non gli rimane

nulla per sé»70.

In questa ammonizione, l‟ira e il turbamento per il peccato altrui sono dunque un «tesoro» di cui ci si

appropria colpevolmente (il latino ha un conciso ed espressivo «thesaurizat sibi culpam»), mentre chi non

si adira vive «senza nulla di proprio». Senza dubbio, è molto significativo ritrovare in questo contesto il

vocabolario del «sine proprio» e del «tesoro»: vuol dire che quell‟atteggiamento non riguarda solo il

possesso delle cose, ma contrassegna soprattutto le relazioni con le persone.

È da notare anche la singolare esegesi della parola di Gesù «date a Cesare quel che è di Cesare e a Dio

quel che è di Dio», che viene interpretata proprio in relazione al «sine proprio», tanto che chi la mette in

pratica viene dichiarato beato perché «non gli rimane nulla per sé».

3. L‟ira e il turbamento

Ma perché anche l‟adirarsi e il turbarsi per la colpa di un altro sono considerati da Francesco una forma

di appropriazione? Si può tentare di rispondere che, in questo caso, il Santo colpisce nel profondo del

comportamento umano in quanto riconosce l‟atteggiamento di chi vuol rendersi giudice, e in qualche

modo «padrone», del proprio fratello: me ne approprio perché ritengo che il suo comportamento sia di mia

competenza, una cosa mia, su cui io posso esprimere il mio giudizio ed addirittura sentirmi «offeso»,

adirato e turbato perché l‟altro non si comporta come io vorrei o come credo giusto.

69 Am 14: FF 163.

70 Am 11: FF 160; l’esortazione ad evitare l’ira e il turbamento per il peccato di un altro ritorna anche in Rnb 5,7-8: FF 18.

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È questa convinzione che rende sensata l‟affermazione, altrimenti davvero incomprensibile, della

Lettera a un ministro, dove Francesco, dopo aver esortato il frate ministro a ritenere come una grazia le

difficoltà che gli provengono dal suo compito e dai frati, aggiunge:

«E così tu devi volere e non diversamente. ...

E ama coloro che agiscono con te in questo modo, e non esigere da loro altro se non ciò che il

Signore darà a te. E in questo amali e non pretendere che diventino cristiani migliori»71.

È a partire dal discorso del «sine proprio» che si può intendere quell‟esortazione sconcertante: «non

pretendere che diventino cristiani migliori». Ciò che Francesco condanna come appropriazione è il

pretendere, l‟esigere dall‟altro, come se io ne fossi il padrone; certo non si può intendere la sua

esortazione come un invito a disinteressarsi dell‟altro, ma piuttosto a interessarsene nel modo giusto.

È ancora Francesco che invita ad un giusto interessamento verso gli altri:

«...veramente ama il suo nemico colui che non si duole per l‟ingiuria che quegli gli fa, ma

brucia nel suo intimo, per l‟amore di Dio, a motivo del peccato dell‟anima di lui. E gli

dimostri con le opere il suo amore»72.

In queste parole c‟è una precisa distinzione tra il turbamento per l‟ingiuria ricevuta e la fiamma

dell‟amore di Dio che brucia nell‟intimo per il peccato del fratello. La corretta maniera di interessarmi del

progresso spirituale del fratello nasce da questo fuoco, che deriva tutto dal Signore, e non comporta

nessuno spirito di appropriazione verso l‟altro.

4. La minorità

Questo atteggiamento «sine proprio» deve segnare i rapporti dei frati tra loro e con ogni uomo:

«E si guardino tutti i frati, sia i ministri e servi che gli altri, dal turbarsi e dall‟adirarsi per il

peccato e il male di un altro....

Similmente, tutti i frati non abbiano in questo alcun potere o dominio, soprattutto fra di loro.

Come dice infatti il Signore nel Vangelo: «I principi delle nazioni le signoreggiano, e i grandi

esercitano il potere su di esse; non così sarà tra i frati; e chi tra loro vorrà essere maggiore, sia

il loro ministro e servo; e chi tra di essi è maggiore, si faccia come il minore»»73.

La parola evangelica che invita ad essere minori, e che già il primo biografo mette in relazione con la

scelta del nome dell‟Ordine dei frati minori74, indica proprio quanto noi abbiamo chiamato «sine

proprio» nel rapporto con i fratelli, e che oggi viene spesso indicato con la parola «minorità». Francesco lo

esplicita ulteriormente nella sua Regola non bollata, poco dopo il testo già citato:

«E nessuno sia chiamato priore, ma tutti siano chiamati semplicemente frati minori. E l‟uno

lavi i piedi all‟altro»75.

L‟immagine del lavare i piedi, che ha colpito la fantasia di Francesco, esprime bene l‟atteggiamento del

«sine proprio» verso i fratelli. Tale immagine ritorna, a proposito del servizio dei ministri:

71 Lmin 3.5-6: FF 234.

72 Am 9,2-4: FF 158.

73 Rnb 5,7.9-12: FF 18-19.

74 1Cel 38: FF 386.

75 Rnb 6,3-4: FF 23.

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«Dice il Signore: «Non sono venuto per essere servito, ma per servire». Coloro che sono

costituiti in autorità sopra gli altri, tanto devono gloriarsi di quell‟ufficio prelatizio, quanto se

fossero deputati all‟ufficio di lavare i piedi ai fratelli. E quanto più si turbano se viene loro

tolta la carica che se fosse loro tolto il servizio di lavare i piedi, tanto più mettono insieme per

sé un tesoro fraudolento a pericolo della loro anima»76.

Ancora una volta Francesco mette in guardia dall‟accumularsi «un tesoro fraudolento», che in questo

caso sarebbe l‟ufficio prelatizio, e non a caso si tratta ancora di una immagine di possesso: il rischio è

quello di appropriarsene, per dominare il fratello.

Francesco riconosce dunque in ogni incarico della fraternità un riferimento al compito di lavare i piedi ai

fratelli, e tale riferimento ci sembra duplice: da un lato si tratta di un richiamo alla sostanza degli incarichi

fraterni, che sono solo un servizio reciproco e non un dominio, ma dall‟altro è anche un preciso

riferimento cristologico, perché è Gesù colui che per primo e in maniera definitiva ha lavato i piedi ai

fratelli e ha donato loro la propria vita, fondando in se stesso il senso del servire.

Francesco si mostra ben consapevole che il rischio di appropriazione non riguarda solo il ruolo del

ministro, ma anche gli altri incarichi della fraternità, e abbiamo già fatto notare che un ammonimento in

tal senso accomuna ministri e predicatori, cioè gli incarichi più «prestigiosi» della fraternità77.

5. Gesù povero

Il modello cui Francesco si ispira per questo atteggiamento «sine proprio» è dunque il Signore stesso che

lava i piedi ai discepoli, come pure altrove l‟immagine di Gesù che egli evoca è quella di colui che «fu

povero e ospite, e visse di elemosine, lui e la beata Vergine Maria e i suoi discepoli»78 e del «buon

pastore che per salvare le sue pecore sostenne la passione della croce»79.

L‟immagine del Signore povero, che lava i piedi, che offre la sua vita, è il modello dell‟agire di

Francesco, ma è anche l‟immagine che viene riconosciuta da Francesco nei poveri che egli incontra. Il suo

essere senza nulla di proprio si esprime pienamente nel rapporto con i poveri, verso i quali non smette di

essere minore e fratello, come ha cura di sottolineare il suo primo biografo, che giunge a parlare di una

«invidia» di Francesco davanti alla povertà degli altri e che ne riporta alcune parole: «Quando vedi un

povero, fratello, ti è messo innanzi lo specchio del Signore e della sua madre povera»80.

76 Am 4: FF 152.

77 Rnb 17,3: FF 46.

78 Rnb 9,5: FF 31.

79 Am 6,1: FF 155.

80 Cfr. 2Cel 83-85: FF 670-672.

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6. «Sine proprio» e pace

C‟è uno stretto legame tra l‟atteggiarsi «sine proprio» con i fratelli, la rinuncia al possesso e il rifiuto

della violenza e della sopraffazione. Al vescovo di Assisi che gli diceva: ««La vostra vita mi sembra dura

e aspra, poiché non possedete nulla a questo mondo», Francesco risponde: «Messere, se avessimo dei

beni, dovremmo disporre anche di armi per difenderci. È dalla ricchezza che provengono questioni e liti, e

così viene impedito in molte maniere tanto l‟amore di Dio quanto l‟amore del prossimo»»81.

Non si potrebbe esprimere più chiaramente il legame tra scelta di povertà e scelta di pace, all‟interno di

una logica che collega strettamente il «sine proprio» verso Dio e verso i fratelli.

7. Un rapporto equilibrato

Colui che vive senza nulla di proprio verso i suoi fratelli è anche capace di accettare le correzioni del

prossimo:

«Beato il servo che è disposto a sopportare così pazientemente da un altro la correzione,

l‟accusa e il rimprovero, come se li facesse da sé. Beato il servo che, rimproverato, di buon

animo accetta, si sottomette con modestia, umilmente confessa e volentieri ripara»82.

Ma soprattutto, l‟uomo che vive «sine proprio» riesce ad instaurare un rapporto equilibrato con gli altri,

perché non ha bisogno di ricercare fuori di sé un continuo consenso e una continua approvazione (quella

che Francesco chiama «la mercede»):

«Beato il servo che, quando parla, non manifesta tutte le sue cose, con la speranza di una

mercede, e non è veloce a parlare, ma sapientemente pondera di che parlare e come

rispondere. Guai a quel religioso che non custodisce nel suo cuore i beni che il Signore gli

mostra e non li manifesta agli altri nelle opere, ma piuttosto, con la speranza di una mercede,

brama manifestarli agli uomini a parole. Questi riceve già la sua mercede, e chi ascolta ne

riporta poco frutto»83.

Ancora una volta, l‟immagine che Francesco usa è quella della mercede, che fa riferimento alla

proprietà: il servo del Signore non cerca di «appropriarsi» di nulla nel rapporto con gli altri, ma regola i

suoi rapporti con gli altri su un equilibrio («sapientemente pondera») che guarda più ai fatti che alla

ricerca di gratificazioni verbali (la «mercede»), che alla fine si dimostrano illusorie.

8. L‟obbedienza

Un atteggiamento nel quale si dimostra chiaramente la capacità di un rapporto «sine proprio» con gli

altri è quello dell‟obbedienza. Essa infatti, secondo Francesco, «confonde ogni volontà propria»84 e

viene intesa da Francesco come la perfetta rinuncia a quanto si possiede, con una interessante esegesi del

brano evangelico che di solito noi riferiamo alla rinuncia ai beni materiali:

81 3Comp 35: FF 1438.

82 Am 22,1-2: FF 172.

83 Am 21: FF 171.

84 SalVirt 14: FF 258.

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«Dice il Signore nel Vangelo: «Chi non avrà rinunciato a tutto ciò che possiede non può

essere mio discepolo» e «Chi vorrà salvare la sua anima, la perderà».

Abbandona tutto quello che possiede e perde il suo corpo colui che sottomette totalmente se

stesso all‟obbedienza nelle mani del suo superiore. E qualunque cosa fa o dice che egli sa non

essere contro la volontà di lui, purché sia bene quello che fa, è vera obbedienza»85.

In questo senso può essere letta anche l‟affermazione della Lettera a un ministro, dove Francesco dà una

singolare definizione della «vera obbedienza»:

«Io ti dico, come posso, per quel che riguarda la tua anima, che quelle cose che ti sono di

impedimento nell‟amare il Signore Iddio, ed ogni persona che ti sarà di ostacolo, siano frati o

altri, anche se ti coprissero di battiture, tutto questo devi ritenere come una grazia.

E così tu devi volere e non diversamente. E questo tieni in conto di vera obbedienza da parte

del Signore Iddio e mia per te, perché io fermamente riconosco che questa è vera obbedienza.

E ama coloro che agiscono con te in questo modo, e non esigere da loro altro se non ciò che il

Signore darà a te. E in questo amali e non pretendere che diventino cristiani migliori»86.

La vera obbedienza, secondo questo testo, consiste dunque nell‟accoglienza totale e disarmata dei propri

fratelli, «anche se ti coprissero di battiture»; e non a caso l‟esortazione continua invitando a non esigere

nulla da tali fratelli, addirittura senza «pretendere che diventino cristiani migliori».

È evidente che solo da un rapporto che vive radicalmente «sine proprio» verso ogni fratello è possibile

richiedere una tale disponibilità, che significativamente è qualificata da Francesco come «vera

obbedienza», perché nell‟obbedienza si realizza una totale espropriazione verso ogni fratello. Va pure

notato che, nel caso prospettato al frate ministro, si tratta di un ribaltamento di prospettive rispetto alla

maniera abituale in cui si parla dell‟obbedienza: essa viene infatti richiesta al superiore nei confronti

dell‟inferiore, invertendo l‟abituale modo di prospettare questo rapporto, ma estendendo così il significato

dell‟obbedienza ad un atteggiamento ben più profondo e ampio, che ogni frate deve avere, superiore o

suddito che sia.

Nell‟obbedienza, dunque, si realizza quella totale espropriazione di sé che Francesco propone; ma

probabilmente anche altre virtù possono essere lette in questa chiave.

9. La castità

Anche la castità può forse essere letta come «sine proprio», pur nella consapevolezza che a questo

proposito Francesco ci dice ben poco nei suoi Scritti87, mostrandosi peraltro molto «duro» nei confronti

di un eventuale peccato di fornicazione da parte dei suoi frati.

Ricorrendo alle biografie del Santo, e con la consapevolezza che questo è un tema in cui, più che in altri,

possono entrare pesantemente in gioco le preoccupazioni morali dei biografi, troviamo una specie di

parabola, che il Celano introduce con un «solebat» (era solito), che farebbe pensare ad un racconto

ripetuto più volte da Francesco.

La parabola narra di due ambasciatori inviati da un re alla regina sua sposa; al ritorno dalla loro

missione, essi vengono ascoltati dal sovrano, ma mentre il primo si limita a riferire la risposta, l‟altro si

diffonde a tessere gli elogi della bellezza della regina, e proprio per questo viene punito dal re.

85 Am 3,1-4: FF 148.

86 Lmin 3-7: FF 234.

87 Rnb 12-13: FF 38-39; Rb 11,1-2: FF 105; cfr. anche l’accenno di 2Lf 14: FF 184.

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Per la nostra indagine sono interessanti le parole con cui il re della parabola rimprovera il servo che ha

fissato il suo sguardo impudico sulla regina: «È chiaro che tu avresti voluto far tuo un oggetto che hai

esaminato così attentamente»: si tratta chiaramente dell‟accusa di volersene «appropriare»88.

A questo proposito, il Celano riporta pure un altro episodio in cui Francesco non alza neppure lo

sguardo su una giovane che, pregata dal suo compagno, offre ai frati in viaggio l‟elemosina del pane e del

vino; di fronte alle domande del compagno per giustificare una comportamento che poteva apparire

addirittura scortese, la motivazione portata da Francesco è proprio quella di un estremo rispetto per colei

che è «sposa di Cristo», rispetto che giunge fino al timore di posare lo sguardo su di essa89.

Anche la castità può essere dunque letta come l‟atteggiamento di chi non si appropria, neppure con lo

sguardo o con il desiderio, di un‟altra persona, proprio perché riconosce che essa non gli appartiene.

Vogliamo notare, anche se solo di sfuggita, che nella nostra prospettiva, l‟essere «sine proprio» diventa

il fondamento dei tre voti di povertà, castità e obbedienza, che in modi diversi esprimono e manifestano

tale attitudine.

Anche la tradizione francescana, soprattutto nel „200, si trovò in diversi modi a difendere questa

«gerarchia» dei tre voti, in cui l‟altissima povertà gode di un ruolo speciale, come immediata

realizzazione del vivere «sine proprio»; si pensi alle Quaestiones dispuòtatae de perfectione evangelica di

Bonaventura o alla sua Apologia pauperum, tese a difendere il ruolo singolare della povertà, che è

presentata come il «consiglio principale, principio fondamentale e fondamento sublime della perfezione

evangelica»90. Si tratta, come per tutta la tradizione francescana, della difesa «teologica» di

quell‟intuizione che, nella fede e senza troppa teologia, era stata compresa e vissuta da Francesco.

10. La perfetta letizia

Questo atteggiamento «sine proprio» verso i fratelli è illustrato in maniera sintetica ed eloquente nel

dialogo della perfetta letizia91. La situazione finale che esso descrive, infatti, quando Francesco viene

respinto alla porta dal frate portinaio, illustra un rapporto nel quale Francesco non può più appropriarsi di

nulla: gli viene rinfacciato che egli è semplice e idiota e che i frati non hanno più bisogno di lui, ed è a

quel punto che egli può dire: «Ebbene, se io avrò avuto pazienza e non mi sarò conturbato, io ti dico che

qui è la vera letizia e qui è la vera virtù e la salvezza dell‟anima». Nasce la perfetta letizia di chi non ha

tenuto nulla per sé, e sa che solo «in questo possiamo gloriarci, nelle nostre infermità e nel portare sulle

spalle ogni giorno la santa croce del Signore nostro Gesù Cristo»92.

88 2Cel 113: FF 700.

89 2Cel 114: FF 701.

90 De perfectione evangelica, Quaest. II, art. I, concl., in S. BONAVENTURAE, Opera omnia, Tomus V, Ad Claras Aquas 1891, 129.

91 FF 278.

92 Am 5,8: FF 154.

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RENDERE E RESTITUIRE

L‟essere «sine proprio» verso Dio e verso i fratelli non è fine a se stesso e non può rimanere una sterile

rinuncia, ma fiorisce e si mostra fecondo nella restituzione. Si tratta di un atteggiamento tipico di

Francesco, che proprio per non volersi appropriare dei beni ricevuti dal Signore sa di doverli restituire; e

la parola «rendere» è una delle parole tipiche del vocabolario di Francesco, in un contesto di lode e di

ringraziamento.

«Beato il servo che restituisce tutti i suoi beni al Signore Iddio, perché chi riterrà qualche cosa

per sé, nasconde dentro di sé il denaro del Signore suo Dio, e gli sarà tolto ciò che credeva di

possedere»93.

È evidente il collegamento tra questa restituzione e l‟essere «sine proprio»: chi non restituisce si

appropria del «denaro del Signore suo Dio», con una immagine che, rimandando alla parabola evangelica

dei talenti94, risulta ancora una volta di carattere «pecuniario».

I. UN TESTO RIASSUNTIVO

Un testo nel quale i tre temi fondamentali dello Spirito del Signore, del sine proprio e della restituzione

sono intrecciati e implicati reciprocamente è il cap. 17 della Regola non bollata, cui abbiamo già fatto

riferimento, ma su cui possiamo nuovamente riflettere.

Dopo aver esortato tutti i frati a vivere «sine proprio», cioè a non gloriarsi né esaltarsi di nessun bene

che Dio opera in loro (vv. 5-6), a considerare propri solo i vizi e i peccati e a godere nelle prove (vv. 7-8),

Francesco esorta a guardarsi «da ogni superbia e vana gloria», «dalla sapienza di questo mondo e dalla

prudenza della carne» (vv. 9-10).

Viene così introdotta una contrapposizione tra lo «spirito della carne» e lo «Spirito del Signore»,

descrivendo gli effetti di ciascuno dei due: mentre il primo vuol «possedere parole» e brama «apparire al

di fuori agli uomini»,

«lo Spirito del Signore invece vuole che la carne95 sia mortificata e disprezzata, vile ed

abbietta, e ricerca l‟umiltà e la pazienza e la pura e semplice e vera pace dello spirito; e

sempre desidera soprattutto il divino timore e la divina sapienza e il divino amore del Padre e

del Figlio e dello Spirito santo»96.

E dopo questo intreccio sintetico dei due temi dello Spirito del Signore e del sine proprio, che noi

abbiamo finora individuato come principali, Francesco conclude questo testo con l‟invito più ampio e

cordiale alla restituzione:

93 Am 18,2: FF 168.

94 Cfr. Mt 25,18.

95 Abbiamo già chiarito che quanto Francesco dice della carne va inteso all’interno della contrapposizione che egli sta illustrando tra spirito della carne e Spirito del Signore; carne, dunque, qui non significa corpo.

96 Rnb 17,14-16: FF 48; ancora una volta l’azione dello Spirito del Signore ha un esito trinitario.

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«E restituiamo al Signore Dio Altissimo e sommo tutti i beni e riconosciamo che tutti i beni

sono suoi e di tutti rendiamogli grazie, perché procedono tutti da lui. E lo stesso Altissimo e

sommo, solo vero Dio, abbia e gli siano resi, ed egli stesso riceva tutti gli onori e la reverenza,

tutte le lodi e le benedizioni, ogni rendimento di grazie e ogni gloria, perché suo è ogni bene

ed egli solo è buono.

E quando vediamo o sentiamo maledire o fare del male o bestemmiare Dio, noi benediciamo e

facciamo del bene e lodiamo il Signore che è benedetto nei secoli. Amen»97.

La restituzione cui Francesco invita si dirige a Dio Altissimo e si fonda sul riconoscimento che da lui

tutto proviene. Il restituire infatti è preceduto dal riconoscere, la restituzione nasce dalla riconoscenza: e

non a caso il verbo «riconoscere» rimanda al «conoscere». Si tratta di una catena che prende l‟avvio dal

«conoscere», passa attraverso la «riconoscenza» e giunge così alla restituzione.

Tale atteggiamento può essere descritto come una «reazione», più che una azione, come un movimento

in seconda battuta, che segue alla percezione della prima e ben più importante iniziativa di Dio. Soltanto

chi ha «conosciuto» e si è accorto di tutto ci» che gli proviene da Dio sente nascere in sé l‟esigenza

«riconoscente» di rispondere a quel dono; tale risposta non sarà null‟altro che l‟offerta di quelle medesime

realtà, che ha scoperto essere dono di Dio.

D‟altro canto, si tratta di una dinamica vera in senso ben più ampio per ogni cristiano: se, come dice il

quarto Vangelo, «in principio era il Verbo», ogni altra parola od azione, ogni altra realtà risulta essere

risposta a quella Parola che sta in principio.

Anche Francesco può restituire tutto a Dio perché prima «conosce» i benefici di Dio nella storia della

propria vita: si pensi al Testamento, che è quasi ritmato dalla ripetuta affermazione «Il Signore mi

diede...», esprimendo così quel riconoscimento dell‟azione di Dio e quella riconoscenza che sta alla base

di ogni restituzione.

Una tale restituzione avviene, secondo Francesco, con la parola e con le opere:

«...E sono vivificati dallo Spirito della divina lettera coloro che ogni scienza... non

l‟attribuiscono al proprio io, ma la restituiscono, con la parola e con l’esempio, all‟Altissimo

Signore Dio, al quale appartiene ogni bene»98.

Seguendo la suddivisione operata dallo stesso Francesco, anche noi tratteremo in primo luogo della

restituzione a parole, e infine affronteremo la restituzione con le opere e l’esempio.

II. LA RESTITUZIONE A PAROLE

Francesco vive l‟atteggiamento di chi apre la sua bocca per «rendere grazie» e restituire, attraverso la

parola, i beni che riconosce provenirgli da Dio. Una tale disposizione, nei testi sanfrancescani, si realizza

in due forme fondamentali: attraverso la lode e per mezzo della predicazione. Di esse ci occuperemo

distintamente.

1. La lode - rendimento di grazie

Si può anzitutto constatare che la lode costituisce l‟atteggiamento tipico della preghiera di Francesco,

anche solo da un punto di vista statistico. Tra i 12 testi che gli Scritti raccolgono sotto il titolo Laudi e

preghiere, ben 5 son tipicamente laudativi: il Cantico, le Lodi di Dio Altissimo, le Lodi per ogni ora,

97 Rnb 17,17-19: FF 49.

98 Am 7,4: FF 156.

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l‟Esortazione alla lode e l‟Ufficio della Passione, con l‟aggiunta di due testi che, se pure non tipicamente

laudativi, hanno certamente un carattere contemplativo orientato alla lode: il Saluto alle virtù e il Saluto

alla Vergine. Accanto a questi 7 testi, ne restano 5, di cui 2 sono preghiere di petizione (la Preghiera da-

vanti al Crocifisso e l‟orazione Absorbeat) e gli altri 3 di carattere meditativo o esortativo: la Parafrasi

del Pater, l‟Audite poverelle e il Dialogo della vera letizia (per il quale ci si può peraltro chiedere se si

tratti di una preghiera o non piuttosto di una ammonizione).

Da questa breve e sommaria recensione dei testi si può» dunque affermare che le preghiere di Francesco

che ci sono state conservate ci permettono di individuare nella lode e nel rendimento di grazie la forma

tipica della sua preghiera.

Pur senza addentrarci in una analisi dei testi di preghiera che abbiamo ricordato, notiamo che la lode

viene intesa da Francesco proprio come restituzione. Egli dapprima opera un riconoscimento, che sta alla

base di tutto, quando riconosce che i beni gli vengono da Dio, con uno sguardo che sa leggere tale

presenza divina in tutto il creato: si pensi al Cantico, dove del sole, che è la prima tra le creature ricordate,

si dice: «de Te, Altissimo, porta significazione», dando prova così dell‟attitudine ad una lettura

«simbolica» del reale, nel quale vedere la presenza di Dio attraverso le singole creature.

Tale riconoscimento fiorisce nella restituzione della lode, compiuta «per» le creature. Basti qui ricordare

il duplice significato del «per» del Cantico, dove la lode a Dio «per» le creature ha anche un senso causale

(a causa delle creature), ma soprattutto un senso strumentale (per mezzo delle creature)99.

Francesco sente il bisogno di restituire a Dio, per mezzo della lode, ciò che egli riceve da lui, e questa

restituzione avviene attraverso le creature stesse, che diventano così i ministri della restituzione e della

lode.

a. Un grande rendimento di grazie

Tra i grandi testi di preghiera di Francesco non può essere dimenticato il cap. 23 della Regola non

bollata, che è una lunga lode ritmata dalle parole «rendere grazie», che fanno da verbo reggente e da

concetto fondamentale per tutto il capitolo, anche se, di volta in volta, può variare il soggetto del verbo.

Nelle prime tre frasi, il soggetto siamo noi che «rendiamo grazie» a Dio per i suoi benefici, dalla crea-

zione (vv. 1-2), alla incarnazione-redenzione (v. 3), alla parusia (v. 4); nel cuore della preghiera il

soggetto diventa il Figlio Gesù Cristo, invocato perché «renda grazie» per ogni cosa al Padre, insieme con

lo Spirito santo (v. 5); e quando lo sguardo si allarga, in primo luogo sono tutti i componenti della chiesa

celeste a diventare il soggetto della frase, supplicati perché «rendano grazie» alla Trinità (v. 6); ed infine,

rivolgendosi ai membri della Chiesa militante il discorso di Francesco si articola attraverso l‟esortazione

alla fede e alla penitenza (v. 7), all‟amore di Dio (v. 8), al primato di Dio solo (v. 9), per concludersi con

una esortazione (v. 11) che, dopo una «raffica» crescente di ben dieci verbi, si conclude ancora con il

nostro «render grazie», che, in qualche modo, tutti li riassume:

«E ovunque, noi tutti, in ogni luogo, in ogni ora e in ogni tempo, ogni giorno e ininterrot-

tamente crediamo veramente e umilmente e teniamo nel cuore e amiamo, onoriamo, ado-

riamo, serviamo, lodiamo e benediciamo, glorifichiamo ed esaltiamo, magnifichiamo e

rendiamo grazie all‟altissimo e sommo eterno Dio, Trinità e Unità, Padre e Figlio e Spirito

Santo...»100.

Va sottolineato il posto assolutamente centrale che occupa in questo rendimento di grazie il «Signore

nostro Gesù Cristo Figlio tuo diletto, nel quale ti sei compiaciuto»: egli sta al centro di tutto proprio

99 Cfr. C. PAOLAZZI, Lettura degli Scritti di Francesco d’Assisi, Milano 1987, 96-97.

100 Rnb 23,11: FF 71.

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perché è l‟unico a poter rendere degnamente grazie al Padre, «così come a te e a lui piace», «insieme con

lo Spirito santo Paraclito».

Vediamo qui riemergere quel «cristocentrismo» che è uno dei tratti tradizionalmente sottolineati della

spiritualità francescana: il Cristo sta al centro perché è il mediatore perfetto, l‟eterno sommo sacerdote

che sta tra Dio e il mondo, al centro di un rendimento di grazie universale che è la via del ritorno a Dio di

tutto ciò che da lui solo proviene101.

b. Restituire anche la preghiera

L‟atteggiamento di restituzione a Dio dei suoi beni attraverso la preghiera può avere come oggetto anche

la preghiera stessa: essa pure è un beneficio ricevuto da Dio. In un racconto del Celano dedicato al

contegno di Francesco dopo la preghiera, viene riportato questo detto di Francesco:

«Quando il servo di Dio nella preghiera è visitato dal Signore con qualche nuova conso-

lazione, deve, prima di terminare, alzare gli occhi al cielo e dire al Signore, a mani giunte:

«Tu, o Signore, hai mandato dal cielo questa dolce consolazione a me, indegno peccatore: io

te la restituisco, affinché tu me la metta in serbo, perché io sono un ladro del tuo tesoro»»102.

È significativo ritrovare il linguaggio caratteristico di Francesco, a proposito del «restituire» e del non

voler essere un «ladro».

Tutta la vita francescana, dunque, è segnata da questa «risposta all‟amore» che nasce dal riconoscere i

doni del Signore, vive senza appropriarsene e vuole restituire tutto a Dio nel rendimento di grazie103.

101 Cfr. la già citata opera di N. NGUYEN VAN KHANH, Gesù Cristo nel pensiero di san Francesco secondo i suoi Scritti, Milano 1984.

102 2Cel 99: FF 686.

103 È evidente anche la caratteristica eucaristica di questa attitudine spirituale, se è vero che l’eucaristia è il rendimento di grazie per eccellenza. Certo, nella vita di Francesco il riferimento all’eucaristia, che pure è caratteristico, non si esplicita coscientemente per questo riferimento al render grazie: la percezione che Francesco ha dell’eucaristia ne coglie soprattutto l’aspetto di presenza e di memoria della passione redentrice. Resta tuttavia vero che la sua attenzione a restituire ogni bene a Dio, in rendimento di grazie, è obiettivamente in sintonia con la dimensione eucaristica della vita cristiana.

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2. L‟esortazione

Accanto alla lode, la restituzione a parole si realizza attraverso l‟esortazione e la predicazione.

Tale accostamento, apparentemente strano, è legittimo sulla base del capitolo 21 della Regola non

bollata, intitolato «Della esortazione e della lode che possono fare tutti i frati»:

«E questa o simile esortazione e lode tutti i miei frati, quando loro piacerà, possono an-

nunciare ad ogni categoria di uomini, con la benedizione di Dio:

Temete e onorate, lodate e benedite, ringraziate e adorate il Signore Dio onnipotente nella

Trinità e nell‟unità...»104.

In questo brano della Regola non bollata Francesco propone un testo che i frati potevano imparare a

memoria e che probabilmente costituiva lo schema di quella predicazione penitenziale che era stata loro

concessa con l‟approvazione della «forma vitae»; senza fermarci ad un esame di questo testo, ciò che a

noi preme sottolineare è come Francesco chiama queste parole: «esortazione e lode».

Se per noi si tratta di due generi piuttosto distinti, per Francesco sembra esservi una fusione dei due

concetti, e forse è corretto affermare che tale fusione avviene proprio nella direzione della «restituzione».

a. Il Cantico

Se esaminiamo il Cantico di frate sole e cerchiamo di stabilire se si tratti di una lode o di una

esortazione ci accorgeremo subito che anche in quel testo la lode (Laudato si’ mi’ Signore...) va insieme

all‟esortazione (Laudate e benedicete mi’ Signore...) e alla riflessione morale (Guai a quelli... beati

quelli...).

Si tratta infatti di una esortazione alla lode e di una lode che coinvolge ogni ascoltatore: la lode si allarga

fino a comprendere il cosmo intero, coinvolgendo quindi anche ogni uomo che ascolta, e questo

coinvolgimento sarà la forma dell‟esortazione francescana.

Se Francesco esorta ad amare e servire il Signore, sembra quasi che si perda, appena lo nomina, nella

sua grandezza e bellezza: ed ecco che l‟esortazione diventa lode dell‟Altissimo, ma in maniera da

coinvolgere in questo stesso atteggiamento coloro che lo ascoltano, restando dunque una efficace

esortazione.

b. Anche la penitenza diventa lode

Un bell‟esempio di questo modo di procedere si ritrova nella Lettera ai fedeli (prima recensione) dove è

ben difficile stabilire se tutta la prima metà della lettera , dedicata a un tema squisitamente esortativo

come il «far penitenza», possa definirsi un‟esortazione o non sia piuttosto una schietta lode di Dio e della

sua azione nei suoi fedeli. Infatti, dalla descrizione del comportamento di chi fa penitenza si passa alla

descrizione ammirata dell‟opera dello Spirito del Signore per giungere infine ad un fiorire di

esclamazioni, che sono pura lode: «Oh, come è glorioso, santo... caro... amabile...», ecc.

«Di coloro che fanno penitenza.

Tutti coloro che amano il Signore con tutto il cuore, con tutta l‟anima e la mente, con tutta la

forza, e amano i loro prossimi come se stessi, e hanno in odio i loro corpi con i vizi e i

peccati, e ricevono il corpo e il sangue del Signore nostro Gesù Cristo, e fanno frutti degni di

penitenza:

104 Rnb 21,1-2: FF 55.

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Oh, come sono beati e benedetti quelli e quelle, quando fanno tali cose e perseverano in esse;

perché riposerà su di essi lo Spirito del Signore e farà presso di loro la sua abitazione e

dimora; e sono figli del Padre celeste, del quale compiono le opere, e sono sposi, fratelli e

madri del Signore nostro Gesù Cristo.

Siamo sposi, quando...

Siamo suoi fratelli, quando... siamo madri, quando...

Oh, come è glorioso, santo e grande avere in cielo un Padre!

Oh, come è santo, fonte di consolazione, bello e ammirabile avere un tale Sposo!

Oh, come è santo e come è caro, piacevole, umile, pacifico, dolce, amabile e desiderabile

sopra ogni cosa avere un tale fratello e un tale figlio, il Signore nostro Gesù Cristo...»105.

c. La predica agli uccelli

Anche il poetico testo del capitolo XVI dei Fioretti, intitolato «Come santo Francesco, ricevuto il

consiglio di santa Chiara e del santo frate Silvestro, che dovesse predicando convertire molta gente, e‟

fece il terzo Ordine e predicò agli uccelli e fece stare quete le rondini»106, pur essendo tardivo e poco

attendibile storicamente, tuttavia illustra bene la convergenza tra la predicazione e la lode.

Il racconto parte dal dissidio che tormenta Francesco, indeciso se dedicarsi solo alla contemplazione o

anche alla predicazione: noi potremmo chiamarlo il dissidio tra lode ed esortazione. Per risolvere tale

problema egli fa chiedere il consiglio di Chiara e di Silvestro: la composizione del dissidio, dopo qualche

episodio intermedio, avviene solo quando Francesco predica agli uccelli, con una esortazione che è

proprio un invito alla lode del Creatore. In quella predica, ancora una volta, diventa difficile distinguere

tra esortazione e lode, perché l‟esortazione è un invito alla lode; e gli uccelli, destinatari di

quell‟esortazione, diventeranno infine gli annunciatori universali di tale lode, mandati ai quattro angoli

del mondo, come i frati stessi:

«li quali frati, a modo che gli uccelli, non possedendo nessuna cosa propria in questo mondo,

alla sola provvidenza di Dio commettono la lor vita»107.

Abbiamo già portato la nostra attenzione sul capitolo 17 della Regola non bollata, intitolato «Dei

predicatori», dove viene sviluppata una riflessione che, partendo dai predicatori ed allargandosi a tutti i

frati («predicatores, oratores, laboratores, tam clericos quam laicos»), e passando attraverso le

considerazioni sul non gloriarsi né appropriarsi di quanto il Signore opera e sullo spirito della carne

contrapposto allo Spirito del Signore, approda infine all‟invito a restituire ogni bene al Signore Dio

altissimo e sommo. Qui vogliamo solo notare come tale riflessione parta rivolgendosi ai predicatori,

categoria legata «professionalmente» all‟esortazione, per arrivare infine all‟invito a restituire tutto a Dio,

nel rendimento di grazie: ancora una volta, dall‟esortazione alla lode.

105 1Lf 1-19: FF 178/1-178/3.

106 Fior 16: FF 1845-1846; per l’interpretazione di questo capitolo dei Fioretti, mi rifaccio a una conferenza di fr. R. MAILLEUX.

107 Fior 16: FF 1846.

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d. Esortazione e preghiera

Il collegamento che stiamo mostrando tra esortazione e lode, o addirittura la loro equivalenza, nel

comune denominatore della restituzione, evoca un altro profondo collegamento tra predicazione e

preghiera, di cui Francesco era ben consapevole e che egli esprime con la cavalleresca immagine dei

«cavalieri della tavola rotonda»108; così egli chiama i suoi frati che, nel nascondimento, pregano con

fervore, e che sono i veri efficaci strumenti della conversione dei peccatori, a differenza dei predicatori

vanagloriosi, che pensano di aver convertito con le loro parole e che, il giorno del giudizio, scopriranno

come stanno davvero le cose.

Anche in questo caso si tratta di un rapporto stretto tra predicazione e preghiera, ed anche se non è in

questione la preghiera di lode (si dovrà pensare piuttosto alla preghiera di pentimento dei peccati e di

domanda), dobbiamo sottolineare come l‟esortazione si accompagni comunque, per Francesco, ad una

profonda dimensione di preghiera.

e. Le parole non bastano

L‟atteggiamento di restituzione, che abbiamo visto realizzarsi a parole con l‟esortazione e con la lode,

rimanda necessariamente alle opere, senza le quali le sole parole sarebbero vuote e false.

Si tratta di una caratteristica della vita di Francesco, di cui i suoi primi biografi furono attenti testimoni,

tanto da affermare che egli «edificava gli uditori non meno con l‟esempio che con la parola, si potrebbe

dire divenuto tutto lingua»109 e da riportare una sua lapidaria sentenza: «Tanto un uomo sa, quanto fa; e

tanto un religioso è buon predicatore, quanto lui stesso agisce»110.

A questo proposito, giova ricordare un‟altra affermazione di Francesco, riportata dalla Leggenda

perugina, che ben riflette la precisa scelta del Santo, di fronte al suggerimento di alcuni che volevano

chiedere alla Curia romana dei privilegi proprio per dedicarsi con maggiore libertà alla predicazione; nella

scelta di Francesco, anche la predicazione a parole deve cedere il passo alle opere:

«Io voglio per me questo privilegio dal Signore: non avere nessun privilegio dagli uomini,

fuorché quello di essere rispettoso con tutti e di convertire la gente più con l’esempio che con

le parole, conforme all‟ideale della Regola»111.

Alla parola deve dunque accompagnarsi l‟opera e l‟esempio, e Francesco afferma chiaramente che, se

non tutti i frati sono chiamati all‟ufficio della predicazione, ma solo quelli che sono stati esaminati e

approvati dal ministro112, tuttavia è necessario che

«tutti i frati predichino con le opere»113.

108 Cfr. LegPer 71: FF 1624.

109 1Cel 97: FF 488.

110 LegPer 74: FF 1628.

111 LegPer 115: FF 1674.

112 Rb 9,2: FF 98; Rnb 17,1-2: FF 46.

113 Rnb 17,3: FF 46.

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III. LA RESTITUZIONE IN OPERE

Francesco fu estremamente consapevole del rischio delle parole vuote, cui non corrisponde un vero

contenuto di vita e di opere.

1. I pericoli del solo parlare

Forse si può anche affermare che la sostanza profonda di una certa sua personale diffidenza nei confronti

della figura dell‟intellettuale stia proprio nel rischio di parlare senza fare, unito all‟altro rischio, che già

abbiamo evidenziato, di «appropriarsi» della scienza per dominare gli altri.

«Perciò è grande vergogna per noi servi di Dio, che i santi abbiano compiuto queste opere e

noi vogliamo ricevere gloria e onore con il semplice raccontarle!»114.

Egli riconosce in un tale modo di agire l‟effetto deleterio di quello spirito della carne che sempre si

contrappone allo Spirito del Signore:

«Lo spirito della carne, infatti, vuole e si preoccupa molto di possedere parole, ma poco di

attuarle, e cerca non la religiosità e santità interiore dello spirito, ma vuole e desidera avere

una religiosità e una santità che appaia al di fuori agli uomini»115.

Il «possedere parole» (ritorna ancora una volta una immagine di possesso!) è contrapposto all‟attuarle,

ed è riconosciuto come un voler apparire per ricevere gloria dagli uomini.

«Guai a quel religioso che non custodisce nel suo cuore i beni che il Signore gli mostra e non

li manifesta agli altri nelle opere, ma piuttosto, con la speranza di una mercede, brama

manifestarli agli uomini a parole. Questi riceve già la sua mercede e chi ascolta ne riporta

poco frutto»116.

La restituzione a Dio dei suoi beni mediante le opere risulta dunque indispensabile, e addirittura sembra

essere richiesta come criterio di verità di ogni eventuale restituzione a parole: infatti, quando mancano le

opere, «chi ascolta ne riporta poco frutto» e colui che parla «riceve già la sua mercede».

2. Parole e opere

Francesco vede un rapporto strettissimo tra parola ed opera, e teme che tale stretto legame possa essere

turbato in vari modi; per questo nel Testamento scrive:

«E a tutti i miei frati, chierici e laici, comando fermamente, per obbedienza, che non

inseriscano spiegazioni nella Regola e in queste parole dicendo: «Così si devono intendere»;

ma, come il Signore mi ha dato di dire e di scrivere con semplicità e purezza la Regola e

queste parole, così cercate di comprenderle con semplicità e senza commento e di osservarle

con sante opere sino alla fine»117.

Il rischio dei commenti e delle spiegazioni sta nella possibilità di farsene un alibi per sfuggire

all‟impegno di mettere in pratica quanto si è inteso: non è la comprensione (e dunque l‟interpretazione)

che viene rifiutata, ma il commento senza semplicità, che vuole sfuggire al faticoso impegno

dell‟osservare con sante opere.

114 Am 6,3: FF 155.

115 Rnb 17,11-12: FF 48.

116 Am 21,2: FF 171.

117 2Test 38-39: FF 130.

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La parola e i fatti non possono essere separati e disgiunti, come insegna tutta la rivelazione cristiana, che

culmina nel Verbo fatto carne, parola divenuta umana concretezza: Francesco aveva profondamente

assorbito tale dinamica biblica e, pur non teorizzandola in termini esplicitamente teologici, la esprime

nell‟esigenza di un rapporto inscindibile tra parola e azione.

3. La fecondità di opere sante

Il riferimento alle opere ritorna in un testo significativo della Lettera a tutti i fedeli, che già abbiamo

segnalato, dove Francesco illustra la beatitudine di «coloro che fanno penitenza»:

«Oh come sono beati e benedetti quelli e quelle, quando fanno tali cose e perseverano in esse;

perché riposerà su di essi lo Spirito del Signore e farà presso di loro la sua abitazione e

dimora; e sono figli del Padre celeste, del quale compiono le opere, e sono sposi, fratelli e

madri del Signore nostro Gesù Cristo.

Siamo sposi, quando l‟anima fedele si unisce al Signore nostro Gesù Cristo per virtù di Spirito

Santo.

Siamo suoi fratelli, quando facciamo la volontà del Padre che è nei cieli.

Siamo madri, quando lo portiamo nel cuore e nel corpo nostro per mezzo del divino amore e

della pura e sincera coscienza, lo generiamo attraverso le opere sante, che devono risplendere

agli altri in esempio»118.

Il riferimento alle opere è presente sia nell‟immagine di figlio del Padre celeste che in quella di madre

del Signore Gesù Cristo; quest‟ultima immagine è particolarmente interessante, perché si articola nel

momento della gestazione («lo portiamo nel cuore e nel corpo nostro») e nel momento del parto («lo

generiamo attraverso le opere sante, che devono risplendere agli altri in esempio»), suggerendo peraltro il

riferimento ad una avvenuta fecondazione o accoglienza, visto che non a caso è stata evocata un momento

prima l‟immagine dell‟unione sponsale: «siamo sposi, quando l‟anima fedele si unisce al Signore nostro

Gesù Cristo per virtù di Spirito Santo».

La sequenza di fecondazione-gestazione-parto ha una certa analogia con l‟itinerario della nostra

proposta di sintesi: accogliere lo Spirito del Signore, portarlo in sé senza appropriarsi di nulla ed infine

restituire quanto si è ricevuto, con le parole e con le opere «che devono risplendere agli altri in esempio».

Il punto di partenza è infatti ancora e sempre lo Spirito del Signore, che ponendo la sua dimora nei suoi

fedeli, li trasforma nel modo che Francesco esprime con una serie di legami primari: figlio, sposo,

fratello, madre. Dall‟avere lo Spirito del Signore si giunge così alla restituzione in sante opere, per

quell‟orientamento alla vita concreta che Francesco richiede nella Regola, dichiarando ai suoi frati che

«ciò che devono desiderare sopra ogni cosa è di avere lo Spirito del Signore e la sua santa operazione»: la

«santa operazione» sarà proprio la restituzione in opere di quello che lo Spirito ha donato e operato.

118 1Lf 5-10: FF 178/2.

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4. Il rapporto col prossimo

Anche il rapporto di Francesco con il suo prossimo è profondamente segnato da questo atteggiamento di

restituzione fattiva e operosa: così un episodio narrato dai biografi mostra Francesco che, incontrando un

poverello, vuole «restituire» il proprio mantello, convinto di averlo «avuto in prestito» fino a quando non

incontrasse qualcuno più povero di lui119 e che afferma, con un «logion» che ha tutto il sapore

dell‟autenticità: «Io non voglio essere ladro e ci sarebbe imputato a furto, se non lo dessimo ad uno più

bisognoso».

Ancora il Celano narra un simile episodio, in cui compare una donna di Machilone, destinataria della

volontà di restituzione di Francesco; il racconto è articolato e ben costruito, con un primo dialogo tra il

frate guardiano e Francesco, che dice deciso: «Frate guardiano, dobbiamo restituire ciò che è di altri», un

secondo dialogo tra Francesco e colui che gli farà da messaggero, ugualmente centrato sull‟idea di

«restituire» alla povera donna ciò che è suo, e con la scenetta finale della precipitosa partenza notturna

della donna inaspettatamente beneficata120.

Francesco non vuol essere «ladro» dei beni del Signore, e come ha cura di non appropriarsene con la

vanagloria o la superbia, così ha cura di restituirli concretamente al loro padrone, che è Dio solo,

attraverso i suoi messaggeri e rappresentanti, che sono i poveri121.

5. Francesco e i poveri

Nella restituzione sta la chiave per capire i gesti di «attività assistenziale» di Francesco, che non

manifesta tanto una scelta di carità «per» i poveri, ma piuttosto la precisa scelta di essere povero con i

poveri, e che si sente «provocato» dalla condizione di chi è più povero di lui, sentendo di dover

«restituire» per non essere ladro.

Tutte le testimonianze biografiche documentano che Francesco non sentì il bisogno di organizzare una

assistenza ai poveri, ma piuttosto di condividere la loro vita; addirittura vi sono più episodi nei quali egli

impedisce ai suoi frati l‟uso del denaro per i poveri o per chi ne ha bisogno, per non contravvenire alla sua

scelta di radicale povertà, formulata dalla Regola con il precetto di non toccare denaro122.

Certamente Francesco aiutò i poveri, soprattutto i lebbrosi, e non va dimenticato che l‟inizio della sua

conversione è proprio segnato dall‟incontro col lebbroso, cui «fece misericordia», donando un denaro ed

un bacio (non il solo denaro, e non il bacio soltanto!).

Ma resta vero che la sua vita manifesta non tanto la carità di chi sceglie di far assistenza ai bisognosi,

quanto la restituzione di chi condivide la condizione dei poveri e non vuol avere di più del fratello.

6. Il lavoro

Anche il lavoro, che fa parte della scelta di povertà di Francesco, ha pertinenza con questa attitudine di

«restituzione», attraverso le opere, dei benefici ricevuti da Dio. Così egli si esprime nella Regola a

proposito del lavoro:

119 2Cel 87: FF 674; SP 30: FF 1716; LM 8,5: FF 1143.

120 2Cel 92: FF 679; LegPer 52: FF 1602; SP 33: FF 1719.

121 Questa presenza di Cristo nei poveri era stata da lui stesso sperimentata nell’incontro col lebbroso, così determinante per la sua esperienza. Nella 2Cel Francesco si esprime in maniera particolarmente forte: «Quando vedi un povero, fratello, ti è messo innanzi lo specchio del Signore e della sua Madre povera» (2Cel 85: FF 672).

122 2Cel 66-68: FF 652-654.

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«Quei frati ai quali il Signore ha concesso la grazia di lavorare, lavorino con fedeltà e con

devozione, così che, allontanato l‟ozio, nemico dell‟anima, non spengano lo spirito della santa

orazione e devozione, al quale devono servire tutte le altre cose temporali»123.

Francesco considera dunque il lavoro una «grazia», e come ogni grazia andrà restituito al Datore di ogni

bene; non si spiegherebbe infatti il richiamo alla fedeltà e alla devozione, se non si trattasse di una realtà

che rimanda a Dio, e che a Dio deve essere dedicata totalmente: tale dedicazione totale è, anche

etimologicamente, la vera «devozione».

Inoltre Francesco afferma che bisogna lavorare

«non per la cupidigia di ricevere la ricompensa del lavoro, ma per dare l‟esempio e tenere

lontano l‟ozio»124.

In tale motivazione ritroviamo il «sine proprio» nel disinteresse per una ricompensa, che rimanda alla

norma, ripetuta nelle Regole, che proibisce di ricevere denaro come ricompensa del lavoro; la stessa

ricompensa, anche quando non è in denaro, non può essere esigita con cupidigia, ma solo accettata come

«grazia», estendendo anche alla ricompensa la considerazione del lavoro come grazia, che caratterizza il

pensiero di Francesco125. Si instaura così la figura, assolutamente singolare, di un lavoro che prescinde

dal rendimento economico immediato: ricevuto come grazia da Dio, esso è offerto come grazia «gratuita»

agli uomini.

L‟atteggiamento della restituzione riemerge soprattutto nel «dare l‟esempio», che è l‟altra dimensione

ricordata da Francesco, accanto a quella più ascetica del vincere l‟ozio.

Questo collegamento tra il tema dell‟esempio e quello del lavoro ci sembra sottolineare la dimensione

«sociale» del lavoro: esso instaura relazioni con gli altri uomini, e tali relazioni sono segnate dall‟impegno

di «restituire» ad essi il buon esempio.

7. L‟esempio

L‟urgenza di dare il buon esempio, e la corrispondente preoccupazione per il cattivo esempio da evitare,

emerge anche altrove dagli Scritti di Francesco: abbiamo già ricordato la «generazione» di Cristo

attraverso le opere sante «che devono risplendere agli altri in esempio»126, come pure l‟Ammonizione 7,

che proclama

«vivificati dallo Spirito della divina Lettera coloro che ogni scienza che sanno e desiderano

sapere, non l‟attribuiscono al proprio io, ma la restituiscono, con la parola e con l’esempio,

all‟altissimo Signore Dio, al quale appartiene ogni bene»127.

L‟esempio si pone dunque nel contesto della restituzione, come una specie di «debito» dei frati verso

ogni uomo; ed è proprio così che viene inteso in un «detto» di Francesco, riportato dal Celano,

significativo di questo atteggiamento, anche se forse di non sicura autenticità:

«Vi è un patto tra il mondo ed i frati: i frati si obbligano a dare al mondo il buon esempio, ed

il mondo a provvedere alle loro necessità. Se, rompendo i patti, i frati ritireranno da parte loro

il buon esempio, il mondo per giusto castigo ritrarrà la mano»128.

123 Rb 5,1-2: FF 88.

124 2Test 21: FF 119.

125 Cfr. l’articolo Lavoro, a cura di P. BERTINATO, in Dizionario francescano, coll. 821-836.

126 1Lf 1,10: FF 178/2.

127 Am 7,4: FF 156.

128 2Cel 70: FF 656.

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D‟altra parte, questo dovere del «buon esempio», richiesto da Francesco ai suoi frati, è vissuto in prima

persona da lui stesso, anche nei confronti dei frati stessi.

Tale esemplarità di Francesco è rilevata particolarmente dai suoi primi compagni, che così si esprimono:

«Noi che siamo vissuti con lui non potremmo dire a quanto numerose e urgenti necessità del

suo corpo egli negò» soddisfazione nel vitto e nel vestito, per dare il buon esempio ai fratelli

e aiutarli a sopportare più pazientemente le loro privazioni.

La sua preoccupazione dominante fu, in ogni tempo, soprattutto quando i frati presero a

moltiplicarsi ed egli lasciò il governo della fraternità, quella di ammaestrare più con i fatti che

a parole i frati su ciò che dovevano fare e su ciò che dovevano evitare»129.

È interessante notare come questa esemplarità di Francesco sia riferita in maniera speciale agli ultimi

anni della sua vita, «quando i frati presero a moltiplicarsi ed egli lasciò il governo della fraternità», e

quando crescevano i contrasti.

Francesco sembra rinunciare ad altro compito che non sia proprio quello dell‟esempio: egli stesso è

chiamato ad essere il vivente esempio del frate minore.

8. Per questo vi mando per il mondo

La dimensione della restituzione costituisce, in certo modo, il punto d‟arrivo della nostra sintesi, e

proprio per questo può essere vista come il culmine, o l‟espressione più matura, della spiritualità

francescana.

È quanto viene ben riassunto da Francesco stesso nelle parole che scrive nella Lettera a tutto l’Ordine, e

che potrebbero essere intese come la risposta alla domanda: Qual è il punto cui tende la spiritualità

francescana? Perché esiste nella Chiesa?

Così risponde Francesco:

«Lodatelo perché è buono ed esaltatelo nelle opere vostre, perché per questo vi mando» per il

mondo intero, affinché rendiate testimonianza alla voce di lui con la parola e con le opere e

facciate conoscere a tutti che non c‟è nessuno onnipotente eccetto lui»130.

L‟affermazione di Francesco, che spiega perché il Signore ha suscitato nella sua Chiesa i frati minori,

parte dal presupposto che ogni frate abbia ricevuto una «voce» del Signore, alla quale bisogna dare

testimonianza: è ancora una volta la dinamica della «restituzione» di qualcosa che si è ricevuto,

restituzione che avviene attraverso l‟esempio e la testimonianza, e che viene specificata «con la parola e

con le opere».

Dal ricevere la «voce» del Signore, che ci rimanda all‟avere lo Spirito del Signore, fino alla restituzione

nella parola e nelle opere: è ancora una volta il tracciato della spiritualità francescana.

129 LegPer 85: FF 1641.

130 LOrd 8-9: FF 216.

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ALCUNE OSSERVAZIONI

All‟inizio abbiamo affermato di voler proporre una sintesi, e al termine ribadiamo che di una sintesi si

tratta: molto altro potrebbe essere detto su una tematica vasta come la nostra, e ognuno dei singoli punti

della nostra proposta potrebbe essere illustrato con ben altra ampiezza e profondità.

Tali sviluppi non sono stati effettuati, per non uscire dai limiti di una presentazione che vuole essere

sintetica e riassuntiva; resta comunque la convinzione dell‟utilità di una proposta come questa, che

permetta di condensare intorno a pochi punti i contenuti essenziali di quella straordinaria esperienza

cristiana che Francesco d‟Assisi ha vissuto.

Ad una attenta lettura degli Scritti del Santo risalta con molta evidenza una profonda coerenza che lega

«dall‟interno» la maggior parte di questi testi così diversi per circostanze di composizione, per

destinazione, per genere letterario. Per coerenza intendiamo sia una corrispondenza organica a livello

tematico, dove emergono alcuni argomenti fondamentali, affrontati in contesti diversi ma con una

notevole costanza di impostazione, sia una coerenza semantica, che si esprime nella scelta dei vocaboli,

mai lasciati al caso e legati da una profonda unità di significato.

Proprio tale coerenza ci ha invitato a leggere i testi di san Francesco evidenziando gli essenziali

riferimenti tematici e le parole ed espressioni più importanti, così da formulare una ipotesi di lettura che

possa fornirci una «chiave» utile per la lettura dell‟esperienza di Francesco, quale risulta dai suoi Scritti; e

siamo così giunti alla nostra proposta di sintesi intorno a tre nuclei fondamentali.

I. TRE PUNTI DI AGGREGAZIONE

Vogliamo ancora ricordare che intorno a ciascuno dei tre nuclei da noi individuati si possono aggregare

anche altri temi, che si articolano così in una costruzione armonica ed equilibrata, come ogni vera

spiritualità deve essere.

Così intorno all‟avere lo spirito del Signore si deve porre il riferimento al Vangelo, al cristocentrismo e

alla Trinità, come abbiamo brevemente illustrato; ma questo stesso tema farà da riferimento per quanto

riguarda l‟eucaristia, spesso ricordata da Francesco nei suoi Scritti, come pure per la sua devozione

mariana e in generale per tutto quanto si riferisce alla sua esperienza ed immagine di Dio.

Intorno al «sine proprio» si raccolgono le tradizionali tematiche di povertà, di umiltà, di minorità, ma

anche di letizia francescana, di semplicità, di sobrietà nell‟uso delle cose e nel rapporto col creato, come

pure alcuni fondamenti di una visione francescana dei rapporti economici e sociali.

Infine la «restituzione» comporterà i riferimenti alla lode e alla preghiera, alla predicazione, ma anche al

lavoro, all‟esempio, alle opere di carità e al servizio del prossimo; il tema dell‟azione, acutamente

proposto da A. Gemelli come una delle caratteristiche più qualificanti della spiritualità francescana131,

trova qui la sua giusta collocazione.

II. L‟ASSENZA DI ALCUNI TEMI

131 A. GEMELLI, Il Francescanesimo, VIII ed., Milano 1979, 509-523.

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Si sarà notata l‟assenza dalla nostra sintesi di alcune tematiche, che sono invece presenti negli Scritti di

Francesco: così abbiamo parlato solo incidentalmente di fraternità o del riferimento alla «Santa Chiesa

Romana», che pure sono elementi sui quali il Santo ritorna spesso.

Crediamo che tali tematiche debbano essere evidenziate come presenti, in maniera «trasversale», ad

ognuno dei tre livelli: non ne abbiamo parlato espressamente, perché si tratta di una specie di

«denominatori comuni», che ritornano sia quando si parla dell‟avere lo Spirito del Signore, sia quando si

illustra l‟atteggiamento «sine proprio» o quello della restituzione.

Per non trascurare totalmente tali aspetti della spiritualità francescana, abbiamo preferito dedicarvi

qualche riflessione in una Appendice, dove sono raccolte alcune considerazioni che avrebbero ampliato

eccessivamente il corso del nostro discorso.

III. UNA SPIRITUALITÀ PER DIVERSE FORME DI VITA

La spiritualità francescana abbraccia forme di vita molto diverse tra loro: comprende sia la vita religiosa

apostolica dei frati o delle religiose di vita attiva che quella di clausura delle clarisse, la vita laicale

dell‟Ordine francescano secolare come quella consacrata negli Istituti secolari.

Tale molteplicità di forme di vita, così diverse ma unificate dall‟unico riferimento all‟aggettivo

«francescano», pone il problema dello «specifico» di tale spiritualità. Esso non potrà essere posto in una

attività (fosse anche quella apostolica) e nemmeno in una povertà materiale che, all‟interno dei diversi

stati di vita (religioso o secolare, consacrato o laicale) assume forme profondamente diverse.

La nostra proposta di sintesi vorrebbe fornire un suggerimento valido per individuare tale specifico:

quella triade Spirito del Signore - sine proprio - restituzione, che abbiamo sinteticamente illustrato, è

l‟itinerario che accomuna le diverse forme di vita francescane e che permette di ripercorrere, nelle più

diverse situazioni, l‟esperienza di grazia di Francesco d‟Assisi.

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APPENDICE

Vengono proposte alcune brevi riflessioni su tematiche che sono state solo accennate o non sono state

affatto trattate nel testo per non appesantirlo ulteriormente, ma che non possono essere omesse in una

presentazione pur sintetica della spiritualità francescana.

I. CHE COS‟È UNA SPIRITUALITÀ

Abbiamo assunto come punto di partenza la definizione di G. Moioli, alla quale ora ritorniamo più

diffusamente:

[Le diverse spiritualità sono] «particolari maniere di sintetizzare vitalmente i valori cristiani,

secondo diversità di punti prospettici o di catalizzazione: e ciò a livello di singole personalità

o più facilmente a livello di movimenti e correnti spirituali (che possono partire da questa

personalità; ma possono anche precederle ed esprimerle come «interpreti», o «discernitrici», o

«promotrici» di sintesi). Si tratta, abbiamo detto, di sintesi vissute: non dunque, imme-

diatamente e per sé, di carattere dottrinale; anche se date spiritualità possono promuovere, a

loro modo, non solo dei tentativi di elaborazione teorica delle spiritualità come tali (= dottrine

spirituali), ma addirittura dei tipi di teologia coerenti con queste stesse spiritualità»132.

Queste poche righe presuppongono l‟intuizione fondamentale di G. Moioli a proposito della teologia

spirituale, da lui prospettata come una lettura teologica del vissuto cristiano; dove il tratto specifico sta

proprio nel riferimento all‟esperienza, al vissuto, ad una sintesi vitale che, pur non essendo ancora

elaborata dottrinalmente, tuttavia costituisce il riferimento essenziale e quasi il «luogo teologico» che

«chiede» di essere indagato con lo sguardo e il metodo della teologia.

Secondo una tale prospettiva, il fatto che esistano numerose spiritualità all‟interno dell‟unica fede

cristiana si giustifica innanzitutto perché ci sono molteplici e diversi «punti prospettici o di

catalizzazione», a partire dai quali si possono «sintetizzare vitalmente i valori cristiani»; è solo nel

riferimento alla nozione di «vissuto» che si può comprendere una tale pluralità.

Possiamo aggiungere che lo stesso Nuovo Testamento non ci presenta una sola maniera di annunciare e

seguire Cristo, ma diverse forme di sequela e quindi diverse «spiritualità». Il fatto stesso dell‟esistenza di

quattro Vangeli è la prova più evidente che ci possono (forse ci devono) essere diverse prospettive dalle

quali guardare e vivere la fede nell‟unico Signore Gesù.

Ogni Vangelo, infatti, annuncia per intero quel «tutto» che è il contenuto essenziale della fede cristiana,

e che ultimamente non è altro che il Signore crocifisso e risorto, ma lo fa a partire da prospettive diverse,

secondo diverse sensibilità e diverse accentuazioni, e tenendo presenti contesti e uditori diversi: insomma,

«secondo diversità di punti prospettici o di catalizzazione».

Questo tema della differenza tra le varie spiritualità è stato approfondito, negli anni „50, dal padre De

Guibert, che così riassumeva i tratti fondamentali di tali differenze:

a) scelta dei mezzi di perfezione impiegati

b) moventi che spingono e sostengono l‟impiego di tali mezzi

132 G. MOIOLI, Teologia spirituale, in Dizionario teologico interdisciplinare, I, Torino 1977 , 56.

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c) componendosi in un tutto organico133.

Prima di indagare le differenze, il De Guibert sottolinea fortemente l‟identità del fine e delle

caratteristiche fondamentali di ogni vita cristiana: tutti i cristiani tendono a Dio, in Cristo, per la forza

dello Spirito e nella Chiesa. L‟essenziale, dunque, è identico per tutti. Le differenze riguardano invece i

mezzi, i moventi e il risultato finale.

Circa i mezzi di perfezione egli fa notare che si tratta di diverse sottolineature e proporzioni tra i mezzi

che in certa parte sono comuni a tutti i cristiani (quali la preghiera, i sacramenti, la penitenza ecc.) ma che

vengono impiegati in diverse proporzioni nelle varie spiritualità: il tempo di preghiera di una monaca di

clausura sarà diverso da quello di un padre di famiglia, e così via. Nessuna spiritualità, quindi, potrà

essere definita per riferimento «esclusivo» a certi mezzi, ma troveremo piuttosto una diversa proporzione

dei mezzi comuni ad ogni fedele cristiano.

Quando si parla di «moventi che spingono e sostengono l‟uso di tali mezzi», si tratterà non dei fini

ultimi (che alla fin fine si identificano e sono comuni a tutti i cristiani), ma di quegli scopi «penultimi»

che orientano il cammino cristiano verso i fini ultimi e che presentano dei moventi più immediati, ma

anche più differenziati: per una spiritualità si tratterà della «gloria di Dio», per un‟altra del sentimento

acuto dei bisogni delle anime per le quali Dio ha mandato suo Figlio, per un‟altra sarà la volontà di

«servire Dio», attraverso il servizio liturgico (l‟opus Dei) oppure attraverso l‟apostolato, per un‟altra

ancora sarà invece la spinta alla «riparazione» delle offese fatte a Dio... e così di seguito, con le

sottolineature proprie alle diverse spiritualità. Un tale movente orienta la scelta dei mezzi, cui abbiamo

già accennato, e costituisce, in certo qual modo, lo «specifico» di una spiritualità.

Si tratta cioè di qualche elemento che, in senso generale, può essere vero per ogni cristiano, ma che in

una specifica e determinata spiritualità diventa il «punto prospettico o di catalizzazione».

Infine, va ricordato che gli elementi ricordati devono comporsi in «un tutto organico». Una spiritualità

non può assolutizzare alcune prospettive al punto da «dimenticare» qualcuno degli elementi costitutivi

della vita cristiana: ci saranno diverse maniere di sintetizzarli, ma devono esserci tutti, e comporsi in

maniera tale che il risultato sia armonico, senza sproporzioni patologiche.

Quest‟ultima caratteristica rimanda al fatto che una spiritualità è un organismo vivente: essa non nasce a

tavolino e non è frutto di elaborazione teorica, ma è l‟espressione di una esperienza vitale e vissuta, che

come tale deve avere una sua organicità e una sua armonia, che le permetta di vivere e crescere.

Anche il nostro approccio alla spiritualità francescana ha cercato di tener presenti queste osservazioni,

valide per ogni spiritualità, identificando nei tre nuclei fondamentali della nostra sintesi i «punti

prospettici» intorno ai quali si organizza l‟esperienza di Francesco.

II. LA FRATERNITÀ

Quando si parla di fraternità in relazione agli Scritti di san Francesco si fa uso di una parola abbastanza

equivoca: essa infatti, nei testi del Santo, indica sempre il gruppo dei frati134, mentre quando noi

parliamo di fraternità vogliamo piuttosto indicare un certo rapporto che esiste tra alcune persone, una

attitudine «fraterna» nei confronti degli altri.

Per ritrovare questo secondo tipo di significato, negli Scritti di san Francesco, non bisognerà ricercare la

parola astratta «fraternitas» ma piuttosto far attenzione al vocabolo «frater» (che è uno dei sostantivi che,

133 Cfr. J. DE GUIBERT, Leçons de théologie spirituelle, Toulouse 1955, 108-122.

134 Si parla, ad esempio, del Ministro generale di questa fraternità.

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in assoluto, ricorrono con maggiore frequenza) e alle parole che indicano le relazioni fraterne (dilectio,

diligere), come pure alle situazioni che implicano un tale rapporto.

Ci si accorge così che tutta la vita di Francesco è accompagnata dalla costante presenza di un rapporto

con gli altri, di cui gli Scritti e le biografie sono l‟eco fedele: dall‟incontro col lebbroso all‟arrivo dei

primi compagni fino ai problemi e alle «crisi» con i suoi frati negli ultimi anni di vita. Ma accanto a

questa constatazione, bisogna anche aggiungere che nell‟esperienza di Francesco questo rapporto fraterno

non è mai il «primum», non è mai al primo posto, semplicemente perché il primo posto è ine-

quivocabilmente di Dio.

La maniera migliore per descrivere il ruolo di questa presenza fraterna, costante ma non primaria nella

vita di Francesco, sono le sue stesse parole nel Testamento:

«E dopo che il Signore mi donò dei fratelli, nessuno mi mostrava che cosa dovessi fare, ma lo

stesso Altissimo mi rivelò che dovevo vivere secondo la forma del santo Vangelo»135.

I fratelli sono descritti come un «dono» del Signore, che li dà a Francesco senza che egli li avesse

cercati; ed in questo dono gratuito che è il rapporto fraterno cresce, per Francesco, anche la scoperta della

volontà del Signore: «lo stesso Altissimo mi rivelò». I fratelli dunque, pur non essendo lo scopo della vita

di Francesco, vi sono costantemente presenti come un dono, nel quale si manifesta il Signore stesso, che

resta l‟unico scopo della vita di Francesco.

Ripercorrendo i tre momenti essenziali proposti dalla nostra sintesi, vi possiamo ritrovare questa

costante presenza del dono dei fratelli.

L‟avere lo Spirito del Signore, che abbiamo individuato come nucleo fondamentale, rimanda al rapporto

fraterno perché lo fonda nella relazione filiale con Dio. Se, come abbiamo visto, lo Spirito del Signore fa

scoprire a Francesco la paternità di Dio, con questa stessa scoperta gli rivela in ogni uomo un fratello,

figlio dello stesso Padre. Ancora una volta, il rapporto fraterno non è il «primum», ma è la prima e diretta

conseguenza del rapporto filiale con Dio.

D‟altra parte, non sarà mai sufficientemente sottolineata l‟importanza del fratello in quel momento

fontale e originario che è la «conversione» di Francesco, momento a cui egli stesso fa risalire la scoperta

del Signore:

«Il Signore dette a me, frate Francesco, di cominciare così a fare penitenza: quando ero nei

peccati, mi sembrava cosa troppo amara vedere i lebbrosi; e il Signore stesso mi condusse tra

loro e usai con essi misericordia. E allontanandomi da essi, ciò che mi sembrava amaro mi fu

cambiato in dolcezza d‟animo e di corpo. E di poi, stetti un poco e uscii dal mondo»136.

In quell‟incontro di misericordia col lebbroso, indicato da Francesco stesso, alla fine della sua vita, come

l‟esperienza originaria del proprio cammino cristiano, sta già nascosta tutta l‟importanza del rapporto

fraterno per Francesco e per i suoi. È il fratello lebbroso a manifestare la presenza di Dio e ad esserne, in

un certo senso, il sacramento: segno che rende presente il Signore.

Certamente, anche qui bisogna riconoscere che il fratello non è il «primum», perché è comunque il

Signore a guidare la vicenda, a condurre Francesco tra i lebbrosi; ma resta vero che, da quel momento in

poi, l‟incontro con il Signore resterà sempre mescolato, per Francesco, al sapore amaro e dolcissimo del

bacio ad un fratello lebbroso.

Anche il secondo punto della nostra proposta, contrassegnato dal vivere «sine proprio», rimanda

continuamente al rapporto con i fratelli. Abbiamo già evidenziato, infatti, che il banco di prova di una

135 2Test 14: FF 116.

136 2Test 1-3: FF 110.

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vera povertà sta nel rapporto con gli altri, tanto che Francesco commenta la beatitudine sulla povertà

proprio in questo senso137, insiste su un rapporto da «minori» con tutti, sul pericolo costituito

dall‟orgoglio e dall‟invidia, sull‟accoglienza dei fratelli così come sono, fino ad ammonirci di «non

pretendere che diventino cristiani migliori».

L‟atteggiamento della restituzione, con cui si chiudeva la nostra breve sintesi, rimanda ugualmente in

diversi modi al rapporto fraterno.

La restituzione a parole coinvolge il prossimo sia nella lode, come compagno di quell‟universale

rendimento di grazie che arriva a dar l‟appellativo di «fratello» e «sorella» anche alle creature inanimate,

sia nell‟esortazione come destinatario del messaggio di penitenza e di pace. La restituzione avviene anche

attraverso le opere, dove il fratello povero è, in certo modo, il rappresentante stesso di Dio, cui restituire i

beni, ed ogni uomo diventa il destinatario del buon esempio, che deve risplendere nelle opere dei frati.

Tutta l‟esperienza spirituale di Francesco risulta quindi discretamente accompagnata da questa presenza

del fratello, percepito come dono di Dio e come suo rappresentante, e che diventa la misura della verità

del rapporto con Dio stesso: «da questo riconosceranno che siete miei discepoli: se avrete amore gli uni

per gli altri»138.

Ma questo stesso rapporto fraterno può diventare esigente e doloroso: è l‟esperienza di Francesco nei

suoi ultimi anni di vita, contrassegnati da contrasti con una certa parte della fraternità; di tali problemi si

trova traccia nelle biografie «non ufficiali»139, ma ne possiamo cogliere l‟eco più appassionata nel

famoso Dialogo della perfetta letizia.

«Viene un messo e dice che tutti i maestri di Parigi sono entrati nell‟Ordine; scrivi: non è vera

letizia.

Così pure che sono entrati nell‟Ordine tutti i prelati d‟oltr‟alpe, arcivescovi e vescovi, non

solo, ma perfino il Re di Francia e il Re d‟Inghilterra; scrivi: non è vera letizia.

E se ti giunge ancora notizia che i miei frati sono andati tra gli infedeli e li hanno convertiti

tutti alla fede, oppure che io ho ricevuto da Dio tanta grazia da sanar gli infermi e da fare

molti miracoli; ebbene io ti dico: in tutte queste cose non è la vera letizia.

Ma quale è la vera letizia?

Ecco, io torno da Perugia e, a notte profonda, giungo qui, ed è un inverno fangoso e così

rigido che, all‟estremità della tonaca, si formano dei ghiacciuoli d‟acqua congelata, che mi

percuotono continuamente le gambe fino a far uscire il sangue da siffatte ferite. E io tutto nel

fango, nel freddo e nel ghiaccio, giungo alla porta e, dopo aver a lungo picchiato e chiamato,

viene un frate e chiede: «Chi è?». Io rispondo: «Frate Francesco». E quegli dice: «Vattene, non

è ora decente, questa, di andare in giro, non entrerai». E poiché io insisto ancora, l‟altro

risponde: «Vattene, tu sei un semplice ed un idiota, qui non ci puoi venire ormai; noi siamo

tanti e tali che non abbiamo bisogno di te». E io sempre resto davanti alla porta e dico: «Per

amor di Dio, accoglietemi per questa notte». E quegli risponde: «Non lo farò. Vattene al luogo

dei Crociferi e chiedi là».

Ebbene, se io avrò avuto pazienza e non mi sarò conturbato, io ti dico che qui è la vera letizia

e qui è la vera virtù e la salvezza dell‟anima»140.

137 Cfr. quanto detto a proposito dell’Ammonizione 14.

138 Gv 13,35.

139 Cfr. LegPer 105: FF 1661; 114: FF 1673; 75-77: FF 1629-1632.

140 Della vera e perfetta letizia: FF 278.

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Questo testo assume una carica di intensità profonda se, per un momento, non lo consideriamo solo una

parabola o un geniale «fioretto» di Francesco, ma lo leggiamo come il resoconto dell‟esperienza di

Francesco, soprattutto negli ultimi anni della sua vita.

Le situazioni che egli descrive, infatti, sono meno ipotetiche di quanto potrebbe sembrare: davvero le

vocazioni affluivano all‟Ordine, anche dai ceti aristocratici e dagli intellettuali (i «maestri»di Parigi);

davvero i frati andavano tra gli infedeli, e vi erano morti martiri; davvero veniva riconosciuta a Francesco

la grazia dei miracoli. Abbiamo la descrizione dello «sviluppo» fiorente dell‟Ordine.

Anche l‟episodio del dialogo tra Francesco e il frate portinaio, tuttavia, è la descrizione del rapporto

vissuto in quegli anni dal Poverello con i suoi fratelli; certo, non vogliamo dire che qualcuno lo abbia

lasciato fuori della porta, ma piuttosto che Francesco si è sentito messo alla porta. E quanto è significativa

quell‟immagine della porta cui bussare, che invece di evocare un povero «luogo», come quelli amati da

Francesco, descrive già un convento, con la sua bella porta e i suoi orari da rispettare, richiamati

puntigliosamente dal frate portinaio!

Le parole rivolte sgarbatamente a Francesco sono, paradossalmente, la sintesi del suo rapporto con molti

fratelli negli ultimi anni di vita: «Vattene, tu sei un semplice ed un idiota, qui non ci puoi venire ormai;

noi siamo tanti e tali che non abbiamo bisogno di te». Di fronte all‟evoluzione dell‟Ordine, che Francesco

vedeva chiaramente e della cui necessità era probabilmente consapevole, ma che spesso portava la sua

fraternità su strade diverse e forse lontane da quanto egli aveva intuito, Francesco si sente diviso e

lacerato, e si proclama «un semplice ed un idiota»; quello sviluppo è ormai guidato da frati che sono

«tanti e tali» da non aver bisogno di lui.

Francesco si sente così messo alla porta proprio dalla sua fraternità; ma l‟immagine che egli ci consegna

è quella della paziente perfetta letizia davanti a quella porta chiusa, dove si esprime paradossalmente il

vero vincolo della sua fraternità. Francesco rimane legato ai suoi fratelli anche quando essi non si sentono

legati a lui, e la pazienza di perseverare in questo legame diventa il vincolo di una fraternità tanto più vera

quanto più nata dallo Spirito, e non «dalla carne o dal sangue».

A questo rapporto di fraternità, terribilmente esigente, talvolta dolente, ma rischiarato dalla luce di una

misteriosa «perfetta letizia», ci richiama Francesco d‟Assisi.

III. LA CHIESA

Gli Scritti di Francesco rivelano una decisa scelta di ecclesialità, o meglio, in senso ancor più preciso,

una consapevole scelta di cattolicità. Il rapporto con la Chiesa è espresso da Francesco in termini di

riverenza, obbedienza e sudditanza141, ed è riaffermato con forza, quasi con durezza, anche alla fine della

vita, in quella estrema proclamazione della propria volontà che è il Testamento, dove la cattolicità viene

ribadita con le maniere forti, compresa la prigione142, minacciata a chi dei frati non volesse essere

cattolico.

Proprio lo stesso Testamento, in un brano più mite e positivo, ci offre la chiave per capire il motivo di un

tale rapporto di Francesco con la Chiesa; dopo aver affermato di aver «gran fede nei sacerdoti che vivono

secondo la forma della santa Chiesa romana» e di non voler predicare contro la loro volontà, Francesco

aggiunge:

«E questi e tutti gli altri voglio temere, amare e onorare come miei signori. E non voglio

considerare in loro il peccato, perché in essi io riconosco il Figlio di Dio e sono miei signori.

141 Rnb, Prol. 3: FF 3; Rb 1,2: FF 76; 12,4: FF 109.

142 2Test 30-33: FF 126.

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E faccio questo perché, dello stesso altissimo Figlio di Dio nient‟altro vedo corporalmente, in

questo mondo, se non il santissimo corpo e il santissimo sangue suo che essi ricevono ed essi

soli amministrano agli altri»143.

Non si potrebbe essere più precisi per indicare i motivi della propria scelta di cattolicità e di

sottomissione alla Chiesa gerarchica: Francesco sa che solo nella Chiesa «vede» il Signore, e dunque vuol

stare nella Chiesa, perché per lui il Signore è importante.

La motivazione è estremamente corretta: non si rimane nella Chiesa perché essa è formata di santi,

perché è accogliente, perché è profetica o perché si impegna seriamente per il Regno di Dio o per altri

motivi ancora; si rimane nella Chiesa per Gesù Cristo. Con questo non vogliamo dire che i motivi elencati

non siano veri e tanto meno che non debbano essere oggetto di impegno da parte dei membri della Chiesa;

bisogna tuttavia riconoscere che questi non possono essere i motivi fondanti l‟appartenenza alla Chiesa,

poiché l‟appartenenza ecclesiale si basa ultimamente sulla fede in Gesù Cristo, fede generata dalla parola

e nutrita dai sacramenti, fede che può essere sviluppata solo restando all‟interno della comunità cristiana.

Quando Francesco precisa i motivi della sua appartenenza ecclesiale siamo dunque rimandati da lui al

punto fondante della nostra sintesi, a quell‟avere lo Spirito del Signore da cui si sviluppa poi tutta la vita

cristiana. Non a caso, la motivazione riportata dal Testamento rimanda al «santissimo corpo e sangue» di

Cristo, che Francesco può riconoscere solo se animato dallo Spirito del Signore144.

Sempre nell‟ambito della riflessione sullo Spirito del Signore avevamo posto anche il riferimento alle

«sante parole» che ci danno «spirito e vita», e che ci vengono annunciate dai teologi e dai ministri della

Chiesa, mostrando così un altro aspetto del vincolo con la Chiesa.

La comunità cristiana risulta essere, in qualche modo, l‟ambito in cui cresce e si sviluppa il dono dello

Spirito del Signore: nella Chiesa e dalla Chiesa Francesco riceve i sacramenti e le «sante parole» che

danno spirito e vita.

La scelta di una vita «sine proprio», poi, specifica il posto di Francesco nella Chiesa: egli sceglie di

essere «minore» anche all‟interno della comunità cristiana, non per porsi al di fuori di essa, ma per vivere

in essa là dove la vocazione del Signore lo ha posto. La prospettiva di una vita senza nulla di proprio

rende Francesco attento ai rischi delle diverse appropriazioni: non solo quelle dei beni, ma anche quelle

dei ruoli ecclesiali, dei ministeri all‟interno della Chiesa, dell‟ufficio della predicazione e di ogni altra

posizione all‟interno della comunità cristiana. Liberi per la loro scelta di vita «sine proprio», i frati non

dovranno chiedere lettere di privilegio alla Curia romana (si tratta dunque di posizioni ecclesiali)

«ma dovunque non saranno accolti, fuggano in altra terra a far penitenza con la benedizione di

Dio»145.

Anche la restituzione, attitudine in cui fiorisce il percorso spirituale che abbiamo illustrato, avviene nella

Chiesa ed alla Chiesa: Francesco sa di poter rendere grazie a Dio con la Chiesa intera, sa di poter alzare la

sua voce nella Chiesa per esortare alla penitenza e per annunciare la pace, come è pure convinto di dover

rendere alla Chiesa il debito del buon esempio e delle sante opere.

Un testo che gioiosamente esprime la coscienza ecclesiale di Francesco è il capitolo 23 della Regola non

bollata, dove il rendimento di grazie si allarga e coinvolge la Chiesa celeste e quella terrestre, di cui

vengono elencate, una dopo l‟altra, le diverse categorie e i diversi ordini, fino a raggiungere dimensioni

universali e a consumarsi nell‟invito alla lode:

143 2Test 8-10: FF 113.

144 Cfr. Am 1,12-13: FF 143.

145 2Test 26: FF 123.

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«Rendiamo grazie all‟altissimo e sommo eterno Dio, Trinità e Unità, Padre e Figlio e Spirito

santo, Creatore di tutte le cose e Salvatore di tutti coloro che credono e sperano in lui, e

amano lui»146.

IV. L‟ESIGENZA DI TOTALITÀ

Una caratteristica che nella spiritualità di Francesco dovrebbe essere richiamata ad ogni momento è

l‟esigenza della totalità, cioè la pretesa di riferirsi al «tutto».

Bisogna osservare che ogni spiritualità esprime di solito l‟esigenza di organizzare in sintesi la totalità

dell‟esperienza cristiana, senza limitarsi a formulazioni parziali o settoriali, ma in Francesco una tale

esigenza sembra assumere una significativa rilevanza.

A questo proposito si possono ricordare alcuni testi significativi, tra i quali più evidenti sono gli

«elenchi», nei quali Francesco cerca di esprimere «tutto», sia nell‟elencare minuziosamente tutti i

componenti della Chiesa celeste o terrestre147, sia nel rincorrersi degli attributi di Dio148, del quale egli

afferma di voler avere una

«luminosa... conoscenza di te, affinché possiamo conoscere l‟ampiezza dei tuoi benefici,

l‟estensione delle tue promesse, la sublimità della tua maestà e la profondità dei tuoi

giudizi»149,

con un riferimento che è ancora alla totalità delle dimensioni spaziali.

Francesco sembra non riuscire a guardare ad un singolo frammento senza essere rimandato,

immediatamente, al «tutto» in cui quel frammento si inserisce; tale atteggiamento è vero per il creato,

dove ogni creatura lo rimanda immediatamente al Creatore, di cui le singole realtà portano

«significazione», ma riguarda anche il mondo morale, come esplicitamente egli afferma nelle Lodi delle

virtù:

«Chi ha una virtù e le altre non offende, tutte le possiede, e chi anche una sola ne offende, non

ne possiede nessuna e le offende tutte; e ognuna confonde i vizi e i peccati»150.

Tale esigenza di totalità trova il suo compimento in un Dio che è proprio il «tutto» e al quale tutto si

riferisce:

«Onnipotente, santissimo, altissimo e sommo Iddio, ogni bene, sommo bene, tutto il bene, che

solo sei buono, fa‟ che noi ti rendiamo ogni lode, ogni gloria, ogni grazia, ogni onore, ogni

benedizione e tutti i beni. Fiat! Fiat! Amen»151.

In questo testo risulta evidente la ripetizione dell‟aggettivo omnis, che in latino vuol dire «tutto» e

«ogni», e che nel complesso degli Scritti di Francesco, dopo la parola «dominus» (usata 410 volte) è la

146 Rnb 23,11: FF 71.

147 Rnb 23,6-7: FF 67-68.

148 Rnb 23,9-11: FF 70-71; 1Lf 1,11-14: FF 178/3; diverse preghiere, segnatamente LodAl: FF 261, ma anche Lore: FF 264 e ElD: FF 265/a.

149 Pater 3: FF 268.

150 Lodv 6-8: FF 257.

151 Lore 10: FF 265.

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parola significativa più ricorrente (399 volte)152, confermando anche statisticamente l‟importanza di ciò

che noi abbiamo chiamato esigenza di totalità.

V. MARIA

In molti dei testi di Francesco ritorna discretamente la presenza della Vergine Maria, ricordata in

riferimento alla sua divina maternità153, come colei che condivide la povertà del Figlio suo154, o anche

come membro eletto della Chiesa celeste155 e addirittura in riferimento al titolo della Chiesa della

Porziuncola156.

Ma vi sono due testi, in particolare, dedicati per intero a Maria: il Saluto alla Beata Vergine Maria e

l‟Antifona dell‟Ufficio della Passione.

Non affronteremo un‟analisi dei due testi: vogliamo solo notare che in entrambi si contempla la Vergine

Maria nella sua particolarissima relazione con le divine persone della Trinità.

L‟Antifona si articola in un primo momento contemplativo e in un secondo di supplica; la

contemplazione di Maria da parte di Francesco la pone in relazione alla Trinità, nei confronti della quale

ella è figlia e ancella, madre e sposa:

«Santa Maria Vergine, non vi è alcuna simile a te, nata nel mondo, tra le donne, figlia e

ancella dell‟altissimo sommo re, il Padre celeste, madre del santissimo Signore nostro Gesù

Cristo, sposa dello Spirito santo; prega per noi con san Michele arcangelo e con tutte le

potenze dei cieli, e con tutti i santi, presso il tuo santissimo diletto Figlio, Signore e

Maestro»157.

Allo stesso modo, la prima frase del Saluto alla Vergine si rivolge a Maria contemplandola in rapporto

all‟azione delle tre persone divine, che sono espressamente citate nelle loro relazioni con Maria:

«Ave, Signora, santa regina, santa Madre di Dio, Maria, che sei vergine fatta Chiesa ed eletta

dal santissimo Padre celeste, che ti ha consacrata insieme col santissimo suo Figlio diletto e

con lo Spirito santo Paraclito; tu in cui fu ed è ogni pienezza di grazia e ogni bene»158.

In Maria ritroviamo con pienezza quegli stretti rapporti con le persone divine che abbiamo visto essere

proposti da Francesco ad ogni cristiano nella Lettera a tutti i fedeli159, dove afferma che colui nel quale

dimora lo «Spirito del Signore» diventerà figlio, sposo, fratello e madre di Dio, aprendosi alla sua azione

trasformante.

Maria è il modello di chi davvero ha lo «Spirito del Signore» e vive fino in fondo gli effetti di quella

speciale relazione con Dio. In lei l‟essere «figlia, sposa, sorella e madre» di Dio raggiunge un livello

assolutamente unico e singolare, che peraltro Francesco sembra ritenere proponibile in maniera speciale a

152 Cfr. J.F. GODET-G. MAILLEUX, Opuscula sancti Francisci Scripta sanctae Clarae, Concordance Index Listes de fréquence Tables comparatives, Louvain 1976.

153 Cfr. Rnb 23,3: FF 64; 2Lf 4: FF 181; LOrd 21: FF 220; Uff. sal 15,3: FF 303.

154 Rnb 9,5: FF 31; 2Lf 5: FF 182; Uv 1: FF 140.

155 Rnb 23,6: FF 67; LOrd 38: FF 226; Pater 7: FF 272.

156 Rnb 18,2: FF 50.

157 Uff. Ant: FF 281.

158 SalV 1-3: FF 259.

159 1Lf 5-10: FF 178/2 e parallelo in 2Lf 48-53: FF 200.

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Chiara e alle sue sorelle: a loro egli si rivolge infatti con parole che suggeriscono uno stretto legame tra la

figura di Maria e quella di Chiara:

«Poiché, per divina ispirazione, vi siete fatte figlie e ancelle dell‟altissimo sommo Re, il Padre

celeste, e vi siete sposate allo Spirito santo, scegliendo di vivere secondo la perfezione del

santo Vangelo, voglio e prometto, da parte mia e dei miei frati, di avere sempre di voi, come

di loro, cura e sollecitudine speciale»160.

Ritorna l‟immagine di «figlia e ancella» del Padre, quella (molto singolare) di «sposa dello Spirito

santo», mentre il riferimento al Figlio è espresso dalla scelta di «vivere secondo la perfezione del santo

Vangelo», visto che per Francesco il Vangelo, in certo senso, «è» Gesù.

Andrebbe anche evidenziata la correttezza del riferimento di Maria a Cristo: nell‟Antifona Francesco si

rivolge a Maria perché preghi il suo «santissimo Figlio diletto, Signore e Maestro», come pure nel Saluto

ben cinque dei sei titoli biblici con cui Maria è acclamata fanno riferimento a lei come «contenente» del

Figlio:

«Ave, suo palazzo, ave, suo tabernacolo, ave, sua casa. Ave, suo vestimento, ave, sua ancella,

ave, sua madre»161.

Ritorna qui il «cristocentrismo» di Francesco, che in modo tutto speciale si sente ricondotto al Signore

Gesù contemplandone la Madre.

Maria risulta quindi essere il modello per ogni cristiano, ed in maniera tutta speciale per Chiara e le sue

sorelle; e tale esemplarità rimanda al primo punto della nostra sintesi, perché l‟avere lo Spirito del

Signore trova in Maria una realizzazione unica.

Ed è giusto che il riferimento a Maria si ponga al primo punto della nostra sintesi, dove abbiamo

incontrato gli elementi fondanti dell‟esperienza spirituale di Francesco d‟Assisi: il riferimento a Maria,

infatti, non è un‟aggiunta facoltativa od opzionale alla fede cristiana, ma entra in essa fin dal primo

momento, là dove si delinea l‟immagine cristiana di Dio, là dove lo Spirito del Signore crea le relazioni

fondamentali con il Padre e con il Figlio suo Gesù.

Certamente va ricordato che esiste una «gerarchia» dei riferimenti e anche dell‟importanza delle verità di

fede, e in tale prospettiva il Cristo viene certo prima di Maria (come peraltro Francesco mostra di aver

capito bene); ma questo non vuol dire che ella possa essere posta in secondo piano, in una spiritualità che

voglia essere cristiana, e tanto meno in una spiritualità che si riconduce all‟esperienza di Francesco

d‟Assisi.

160 Fv: FF 139.

161 SalV 4-5: FF 259.

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INDICE GENERALE

SIGLE E ABBREVIAZIONI

PREFAZIONE

Capitolo primo

SAN FRANCESCO O LA TRADIZIONE FRANCESCANA?

I. Parliamo di spiritualità

II. Una proposta di sintesi

Capitolo secondo

AVERE LO SPIRITO DEL SIGNORE

I. Cristocentrismo trinitario

1. Il ruolo dello Spirito

2. Lo Spirito ci rende dimora di Dio

3. Spirito del Signore e spirito della carne

II. Spirito del Signore e paternità di Dio

1. La preghiera cristiana

2. Padre nostro

III. Le sante parole sono spirito e vita

1. Lo Spirito della divina lettera

2. Osservare il santo Vangelo

IV. Lo Spirito del Signore

e la sua santa operazione

Capitolo terzo

INTERMEZZO: LA VITA DI PENITENZA

Capitolo quarto

SENZA NULLA DI PROPRIO

I. Il peccato è orgoglio

II. Orgoglio è appropriazione

III. Vivere «sine proprio»

IV. L‟inganno del possedere

V. Il «sine proprio» nel rapporto con Dio

1. Appropriarsi il peccato e gloriarsi

della croce

2. Il rischio della scienza

3. La malattia

4. Nulla e tutto

VI. Il «sine proprio» nel rapporto con i fratelli

1. L‟invidia

2. La vera povertà

3. L‟ira e il turbamento

4. La minorità

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5. Gesù povero

6. «Sine proprio» e pace

7. Un rapporto equilibrato

8. L‟obbedienza

9. La castità

10. La perfetta letizia

Capitolo quinto

RENDERE E RESTITUIRE

I. Un testo riassuntivo

II. La restituzione a parole

1. La lode - rendimento di grazie

a. Un grande rendimento di grazie

b. Restituire anche la preghiera

2. L‟esortazione

a. Il Cantico

b. Anche la penitenza diventa lode

c. La predica agli uccelli

d. Esortazione e preghiera

e. Le parole non bastano

III. La restituzione in opere

1. I pericoli del solo parlare

2. Parole e opere

3. La fecondità di opere sante

4. Il rapporto col prossimo

5. Francesco e i poveri

6. Il lavoro

7. L‟esempio

8. Per questo vi mando per il mondo

Capitolo sesto

ALCUNE OSSERVAZIONI

I. Tre punti di aggregazione

II. L‟assenza di alcuni temi

III. Una spiritualità per diverse forme di vita

APPENDICE

I. Che cos‟è una spiritualità

II. La fraternità

III. La Chiesa

IV. L‟esigenza di totalità

V. Maria