Una Missione a partire dalla città · disagio da stigmatizzare, in cui la povertà sia un reato...

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CITTÀ a partire dalla Maggio 2017 LAICI MISSIONARI COMBONIANI - PALERMO Missione Una

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Maggio 2017

Laici Missionari coMboniani - PaLerMo

Miss ioneU n a

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3 EditorialE

Tony Scardamaglia - Dorotea Passantino

4 Mappa digitalE

di Domenico Guarino

5 rari E corti, coME sogni partigiani

di Giorgia Listi’

9 ViVErE da risorti

di Domenico Guarino

12 incontro

con Rosaria Alleri

15Volti Migranti diniEghi da iMpazzirE

di Ester Russo

18InterazionitErra

di Pasqua de Candia

21 opinioni

22Racconti di unola BoMBa

Redazione Alberto Biondo - Giulia Di Martino - Domenico Guarino

www.laicicombonianipalermo.org [email protected]

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“La speranza abita gli sforzi, è spinta, si libera negli attriti di forze contrarie; sospinge atteggia-menti e idee, sogni ad occhi aperti e chiusi, pas-sioni e ricerche”. ( Antonietta Potente)

Storie di orrori, guerre, barconi affondati, disa-stri ambientali scorrono dal rullo mediatico con ritmi frenetici, che sortiscono l’effetto immedia-to di una commozione effimera, depotenziata che ci lascia spesso comodamente seduti, im-mobili, pronti a guardare le immagini succes-sive ridondanti che descrivono un mondo go-vernato da leggi di mercato che selettivamente creano i pochi privilegiati da una parte e dall’al-tra il resto dell’umanità sempre più oppressa e schiacciata.

Cammini solitari, fatti di speranza che si ritrova spesso nelle fibre dell’esistenza di chi resiste, di chi lotta, di chi continua a manifestare ed espri-mere il dissenso ed urlare il nostro no a visioni ristrette e asfittiche di chi detiene le economie e la finanza mondiale dividendo il mondo tra ricchi e impoveriti, il nostro no a leggi e decre-ti che puzzano di neo fascismo e denegano la vita, la recludono dentro confini sempre meno attraversabili, dentro recinti dove è sconfitta e alienata.

Ancora oggi, bisogna passare dalla compren-sione della storia con i suoi meccanismi, alla sua trasformazione attraverso la condivisione di quello che si ha e della propria vita. Siamo chiamati e chiamate a lavorare per creare spazi

umani, luoghi di verità, dove costruire legami di fiducia.Camminare dentro la storia con sguardo rigene-rato e aperto alla speranza, sognare trasforma-zioni e trasfigurazioni, lente o veloci, metamor-fosi possibili, condividere e spezzare il pane, avviare processi di liberazione creare spazi di verità, posizionarsi e scegliere da che parte stare Cerchiamo dunque la possibilità di imparare di nuovo a leggere la vita e la storia.

Forse i sogni, quelli rari e corti, sono strani. Al-cuni si realizzano, anche se non ci speri, altri sono irrealizzabili ma non smettono per questo di essere stupefacenti.Perché solo quello che smettiamo di desiderare è perso per sempre, tutto il resto è in gioco. Un gioco stupendo se puoi condividerlo, se non hai la paura dell’altro/a. Altrimenti cercheremo sempre di allontanare, di respingere, di separa-re creando la sensazione di far sentire gli altri come “una pecora circondata da muri in pie-tra”.Ma, ”Se alzi un muro, pensa a ciò che resta fuo-ri!” (I. Calvino, Il Barone rampante) Proviamo a pensare non solo a chi rimane dell’altra parte, escluso, ma anche a chi da questa parte non si scoprirà prima o poi in prigione perché come ci ricorda Ndjock Ngana “Conoscere una sola lin-gua, un solo lavoro, un solo costume, una sola civiltà conoscere una sola logica è (rinchiudersi in una) prigione”.

Ed i t o r i a l Edi Tony Scardamaglia e Dorotea Passantino

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Il primo vaccino per la malaria in Africa. Leggi ...

Elezioni in Francia: ballottaggio Macron/Le Pen. Vescovi, “la dignità della nostra società si rico-nosce dal rispetto dei più deboli”. Leggi...

Perché le ONG che salvano vite nel Mediterraneo sono sotto attacco. Leggi ...

Venezuela: mons. Padrón, “pasti condivisi e azioni pacifiche contro dittatura e golpe di Sta-to”. Leggi ...

Nel mondo si muore di fame, ma nel 2016 sono aumentate le spese per le armi...Leggi ...

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Hate speech. Facebook: su 100 commenti se-gnalati rimosso meno di un terzo. Leggi ...

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“Tutti a Giardini contro il G7 per urlare i nostri NO ai potenti della Terra!”

Questa, sicuramente, è una frase già scritta, in-discutibilmente non originale, come non lo è, di certo, l’organizzazione di un contro vertice. Sembrerebbe, piuttosto, la solita politica delle scadenze inventate, degli slogan ridondanti, dei “no” posticci, detti più per posizionarsi nel contraddittorio mondo dell’antagonismo che non per concretizzare un reale progetto di op-posizione sociale. Quella è cosa ben diversa, è

la politica delle vertenze e delle lotte quotidia-ne, logorante, quasi sempre in ombra, faticosa e poco celebrata anche se forse l’unica capace di garantire diritti.

Eppure il prossimo 27 Maggio andrò a Giardi-ni e di certo non da sola. Non penso che otter-remo le dimissioni di Trump, non spingeremo Marine Le Pen a ritirarsi a vita privata e non saremo capaci di orientare strutturalmente le politiche comunitarie, aprendo le frontiere e trasformando il Mediterraneo in uno spazio di

RaRi e coRti, come sogni paRtigiani

Giorgia ListìComitato antirazzista Cobas - PalErmo

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libera circolazione. Niente di tutto ciò. Eppure andremo.

“I sogni dei partigiani sono rari e corti” scriveva Calvino tempo fa e per anni mi sono interro-gata sul senso di queste parole. Nel mese della Liberazione, il pensiero ritorna a quelle letture, a quelle parole incise su carta quando il furo-re della battaglia non era poi così lontano. Mi sono chiesta tante volte come si potesse vivere in un paese governato dai fascisti e occupato

dai nazisti; tante volte mi sono chiesta come fosse possibile vivere una vita normale mentre le carceri e i cimiteri scoppiavano o quale for-za servisse per lasciare i propri affetti e rischia-re la vita salendo su una montagna, da cui non si sarebbe più ritornati se non come vittime o come assassini.

Fortunatamente sono domande retoriche e quel passato di dittatura e morte è un incubo lontano, adesso siamo in pace, le guerre le guardiamo in TV o le ascoltiamo distratti da donne e uomini che attraversano quella fron-tiera folle che squarcia il nostro mare. Eppure

di Liberazione c’è ancora bisogno, anche se troppe volte sembriamo averlo scordato. An-cora la nostra terra è invasa dalle basi militari (statunitensi e Nato) e parte delle nostre risorse economiche sono sottratte al welfare e destina-te a spese militari inutili. E anche se tutti questi preziosi fondi annualmente vengono dissipati, perlopiù senza alcun controllo diretto da parte dell’opinione pubblica, il signor Trump, con il lenzuolo bucato del Ku Klux Klan ancora sotto la scrivania, si permette di battere cassa, rim-

proverando il neo capo di governo Gentiloni per l’esiguità dell’impegno italiano.

Ma le risorse sono poche perché le politiche europee ci costringono ad una continua aus-terity, ingenti capitali sono sottratti ai bisogni reali, bisogna ammortare le spese per salvare banche e finanza a spese dello stato sociale, con i soldi di quei cittadini che le speculazio-ni possono leggerle solo sul giornale. Ogni giorno dilaga la critica dura a questa Europa e ogni giorno una qualche voce democratica si erge per difendere l’Unione come unico presi-dio di democrazia capace di garantire la pace.

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La pace europea lunga (quasi) un secolo!

Ma questa pace è davvero piena di ombre, il Mediterraneo è diventato una grande tomba e i trafficanti di uomini si arricchiscono a spese dei popoli. E sarebbe bello poter chiedere ai grandi leader europei che si riuniranno a Ta-ormina quale idea di Europa hanno in mente. Perché è innegabile che parte del nostro be-nessere è eredità del colonialismo, che parte del nostro lusso viene garantito dalla sottrazio-ne ad altri di risorse strategiche senza che sia possibile neanche quantificare un adeguato risarcimento in termini materiali e umani delle scellerate politiche degli ultimi secoli. Quale idea di Europa c’è dietro la nostra storia, se a a pagare questo benessere sono sempre stati al-tri popoli e altri paesi? Ora siamo chia-mati se non a restituire almeno a rimediare ai nostri errori, ep-pure, invece di agire, giria-mo la testa altrove con lo sguardo sconcertato per la puzza di varia umanità che arriva sulle spiagge. Quelli, i pochi, che rie-scono ad arrivare, perché partire è d’obbligo, se a casa c’è solo morte e miseria, ma la morte è in agguato duran-te il viaggio e quando finalmente si arriva alla costa, tirando il fiato si sale su un barcone ma si sa bene quante siano le pos-sibilità che Dio o Allah vengano a prenderti durante la traversata. Eppure per noi è tutto normale, la lista dei morti si allunga e cresce anche la campagna di fango sulle ONG che provano a salvare vite. Iniziano inchieste su chi sia a finanziarle, su quanto sia lecito rice-

vere telefonate dai barconi o di quanti metri si possa sconfinare. Eppure basterebbe aprire le frontiere per evitare tutto ciò. Ma di libera circolazione, ormai, non si può neanche par-lare, perché l’elettorato fascista dei paesi euro-pei deve essere sempre rabbonito e coccolato nelle sue folli fobie, così anche un semplice corridoio umanitario che avrebbe salvato al-meno 30.000 vite negli ultimi anni diventa un’impresa impossibile.

Cosa vorrei? Un sogno raro, evidentemente.

Un mondo dove le persone abbiano la stessa libertà di circolare dei capitali e delle lattine di cola. Forse sarebbe anche un sogno corto, du-rerebbe poco più d’un secondo. Vorrei un’iso-

la di pace e di diritti, in cui la terra, le case e le strade siano sottratte alla crimi-

nalità e possano essere condi-vise, dove nessuno si senta

straniero. E non voglio di certo vedere casa mia, la mia Sicilia, trasformarsi in un moderno lager, in un presidio militare installato a controllare il Mediterra-

neo, non voglio vedere la mia città trasformarsi in hot-

spot in cui ogni diversità sia un disagio da stigmatizzare, in cui la

povertà sia un reato delle persone e non dello Stato e il dissenso sia un crimine.

Non otterrò nulla di tutto ciò, andando a Giar-dini Naxos il prossimo 27 Maggio. Ma andrò ugualmente. Che nessuno di quei potenti ve-nuti a sfilare pensi che questo crudele sistema di sfruttamento mi stia bene o che mi sia abi-

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tuata alle frontiere insanguinate. Che nessuno di loro pensi che le leggi razziste abbiano il mio plauso, che quelle securitarie mi abbiano spaventato o che abbia smesso di avere incu-bi credendo alle rassicuranti bugie dei media ammaestrati. E che nessuno di loro pensi che questa terra, la mia Sicilia, sia in vendita. Perché non ha prezzo.

Forse i sogni, quelli rari e corti, sono strani. Alcuni si realizzano, anche se non ci speri, altri sono irrealizzabili ma non smettono per questo di essere stupefacenti. Così preferisco aderire alla politica dei posticci contro vertici,

preferisco trovarmi con striscione e volantini a presidiare una zona rossa ultra militarizzata da migliaia di uomini armati in divisa, preferisco urlare al vento slogan per nulla originali, pre-ferisco questo, che rimanere a casa pensando che i miei sogni siano impossibili.

Rari e corti, sicuramente, ma dannatamente realizzabili fino all’ultimo istante di questa vita. Perché solo quello che smettiamo di desidera-re è perso per sempre, tutto il resto è in gioco. Ci vediamo al corteo.

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ViVErE da risortiLuca 24, 13-35

Domenico GuarinoMissionario Comboniano - Palermo

Viviamo un tempo di cambiamento, im-merso in quello che chiamiamo pro-cesso di globalizzazione. Emergono

sempre più problemi che vanno oltre gli stati nazionali. I cambiamenti climatici, le migrazio-ni come conseguenza di una cattiva e interes-sata distribuzione della ricchezza mondiale, il terrorismo globale e i problemi legati al merca-to, richiedono oggi soluzioni con una “logica trasversale”. Il problema più grande continua ad essere la disuguaglianza. La globalizzazione

che stiamo vivendo è profondamente selettiva: mentre alcuni sono privilegiati, più della metà dell’umanità sono vittime delle inesorabili leggi del mercato. Le differenze tra gli stati, e all’inter-no degli stessi, sono visibili in ciò che concerne l’accesso alla salute, all’educazione e alle reali opportunità di partecipazione alla vita sociale, politica ed economica. Interi popolazioni, per garantire le condizioni minime di vita, sono for-zate a lasciare il proprio luogo di origine. Un solo dato per carpire la profondità di tutto que-

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sto: per il 2050 l’ONU prevede che 250 milio-ni di persone lasceranno la propria casa. Nel 2016 il numero è stato nettamente inferiore, 65 milioni.

I grandi poteri economici finanziari continua-no a distruggere vite umane, a rafforzare un sistema di precariato nel lavoro, a devastare la vita dello stesso pianeta. Ci troviamo immersi in una società che sta percorrendo le strade della violenza, della guerra, dell’esclusione e della miseria di moltissimi a scapito della ric-chezza di pochi. L’Europa della finanza, inca-pace di essere accogliente, si dissolve giorno dopo giorno sotto il peso della sua opulenza messa in crisi dalla paura per gli sbarchi dei migranti.

Tutto questo non è solo il frutto di un progetto economico sbagliato o transitorio verso un fu-turo migliore, ma di una proposta centrata sul profitto e gli interessi di pochi, e che colpisce tutte le sfere della vita, in primis, le relazioni tra le persone. La dinamica del processo è co-nosciuta: si globalizza la miseria e si concen-tra la ricchezza.

Davanti alla morte prima del tempo di milio-ni di persone, nasce l’urgenza e il bisogno di saper guardare oltre ciò che sta succedendo. È necessario approfondire il nostro sguardo sulla storia affinché la stessa comprensione di Dio sia più profonda e sincera, capace di im-pegnarci in prima persona (comunitariamen-te) per una società dove tutti e tutte possano sentirsi a casa.

È l’esperienza vissuta dai discepoli di Emmaus dopo la crocifissione di Gesù. I due si sentiva-no tristi, abbandonati, forse persino arrabbiati. Tutto era finito. Nel giro di pochi giorni era-no sfumati sogni, progetti, speranze e illusioni tessuti pazientemente in tanti anni di sequela fedele e attenta. Tutte le cose che avevano co-struito, per le quali avevano lavorato, lottato e pianto, erano definitivamente sigillate e oscu-rate dietro quella grande pietra rotolata con-tro l’entrata di quel sepolcro. Una delusione totale!

Ed è proprio in questo momento, quando la comprensione della storia era diventata dif-ficile e complessa, Gesù si fa compagno di cammino. L’iniziativa dell’incontro è presa da Lui che li accompagna per quella strada. Mentre parlano, Gesù li ascolta e li fa parlare dando rilievo alla loro libertà, che dapprima scoraggiata e rinunciataria, via via, si va ri-generando, aprendosi alla speranza. Gesù fa questo senza dire cose nuove, sono parole che avevano bisogno di sentirsi ridire e che assu-mevano, in quel determinato momento e in quella specifica situazione, un significato nuo-vo. Gesù li accompagna nella lettura di quel-la realtà così difficile da accettare, ma luogo privilegiato per “leggere e interpretare” la sua

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Parola... “ascoltare” la sua voce.

Le parole di vita pronunciate lungo il cammi-no, si ritrovano poi attorno a una tavola. Lo spezzare il pane diventa “l’esperienza culmi-nante” di quel camminare. Sono il segno del-la capacità di condividere e il simbolo della propria vita spezzata per gli altri e per le altre. È lì che la piccola comunità (i due discepoli), riunita nella quotidianità della casa, riconosce non solo la proposta alternativa di Gesù, ma anche la sua validità storica che fa rinascere la speranza nei loro cuori.La condivisione del pane così come la propria vita condivisa, permettono spezzare non solo la sensazione di delusione che la comunità stava vivendo, ma anche le leggi ingiuste che genera-vano l’accumulo delle ricchezze nel-le mani di pochi. Nel rimettersi in cammino, i disce-poli rimettono in gioco la propria vita per un progetto storico di vita. Diventano testimoni del risuscitato. L’incontro vissuto fa scaturire in loro il forte bisogno di farsi “prossimo”, di avvicinarsi ai bisogni umani e condi-videre ciò che hanno. I due discepoli, dopo aver riconosciu-to il Signore, ritornano a Gerusalemme per vi-vere la loro fede “in” e “come” comunità, con il desiderio di leggere la storia con gli occhi di Dio, degli impoveriti e impoverite, per evita-re facili illusioni e inutili pessimismi che non permettono vedere la presenza del Regno che, nella semplicità e con pazienza, avanza.

Non c’era tempo da perdere, era impellen-te dare continuità e sostenibilità al progetto di Gesù di Nazaret. Bisognava passare dalla

comprensione della storia con i suoi meccani-smi, alla sua trasformazione attraverso la con-divisione di quello che si ha e della propria vita. Anche oggi, come allora, siamo chiamati e chiamate a lavorare per creare spazi umani, luoghi di verità, dove costruire legami di fi-ducia. La rilettura degli eventi (analisi) deve provocare non solo un momento di riflessione su quello che comunitariamente stiamo rea-lizzando, ma anche sul “come” stare insieme. “Occorre dire la verità al potere ma anche vi-vere la verità sotto il naso del potere” (Wright Tom).Oggi come allora, “il risorto si rende presen-te ed agisce nella storia proprio in quegli uo-

mini e in quelle donne che hanno un cuore inquieto, che sono impazienti e impaziente. Anche se non lo sanno dire con queste parole o con altre simili. Perché in questo caso non è questione di saperi o di parole. È questione di una fede che renda inquieti/e, che renda im-pazienti/e e che sogna verso il futuro dell’uma-nità, con il fermo convincimento che l’utopia di una società veramente fraterna e solidale, è possibile”.

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Chi è Rosaria Alleri

Porto un nome che è un retaggio familiare, omaggio di nonni possibilmente paterni. Il co-gnome invece, è di una piccola borgata ma-donita. Sono la famiglia che ho avuto, gli amici che ho frequentato, le scuole che ho scelto... i colle-ghi di lavoro che ho avuto.Gran parte della mia adolescenza l’ho trascor-sa in un piccolo paese delle Madonie, Alime-na. Un paese tipico con i suoi tetti di tegole rosse, le strade acciottolate, le chiavi lasciate nelle toppe della serratura e le sue donne al sole impegnate nel lavoro della lana.

Trasferendomi a Palermo la mia dimensione di

vita è cambiata. Mi lasciavo alle spalle “vissu-ti paesani” fatti di relazioni intense e di spazi pubblici ben disegnati e delineati.

Agli inizi mi sono sentita un po’ persa, senza punti di riferimento, con i pregiudizi e le dif-fidenze di chi “abita” per la prima volta una città. Il Centro Diaconale La Noce è stato l’e-picentro del mio lavoro professionale. Finiti gli studi universitari, avevo la tipica men-talità da “posto fisso”. Amavo le certezze e odiavo gli imprevisti. Dopo questi anni ho ri-scontrato che, nella mia vita, di “fisso” non c’è stato nulla, soprattutto nel mio lavoro. Ho lavorato in quasi tutti i settori del Centro Diaconale. Dapprima a casa di Baja, una co-munità per bambini 0-5; poi al SED (Servizio

Presso il Centro Diaconale La Noce, abbiamo incontrato Rosaria Alleri dove lavora come psi-copedagoga da 15 anni. Più che un’intervista è stato un dialogo, bello e piacevole. Il suo amore profondo per la città di Palermo e il suo impegno professionale unito a una grande umanità, fanno di lei una persona speciale.

Rosariacon

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Educativo Domiciliare) sia come educatrice che, per un breve periodo, coordinatrice. Suc-cessivamente sono approdata allo Spazio 0-5, un servizio domiciliare per bambini affetti da autismo o da altri disturbi che vengono trattati in maniera precoce; a Casa dei Mirti con mi-nori stranieri non accompagnati e poi nuova-mente a Casa di Baja, uno spazio per mamme e bambini in stato di disagio. Infine, dove lavo-ro adesso, a scuola, come referente dei minori in regime di semi convitto e come operatrice a Casa Vale La Pena, comunità che accoglie uomini che gravitano nel circuito penale.Oggi sento di poter dire che sono tutti i lavori che ho fatto.

Al di là degli studi universitari, sono un’opera-trice di strada, una che crede molto nel lavoro sociale, soprattutto nella prevenzione. Il lavoro mi ha permesso di entrare nelle case e superare i pregiudizi che avevo verso questa

città.

Che relazione hai oggi con la città di Paler-mo?

Amo tantissimo Palermo. Sperimento un for-te senso di appartenenza... come se fossi nata qui. Riscopro la sua grande bellezza e vivo lo stupore che questa provoca nella mia vita. Mi viene spontaneo paragonarla a un quadro, uno dei miei preferiti, di Salvador Dalì: “il to-rero allucinogeno”. Dopo un primo sguardo ti sembra caotico, poi lo fissi e vedi due venere di Milo, l’immagine di un bambino a destra, di un’altra donna in alto. Se ti soffermi e lo guardi attentamente però, le due immagini di donne

si fondono sino a formare il volto di un tore-ro... Non trovo altra descrizione per una città così enigmatica e bella. Palermo bisogna saperla vedere da un’altra prospettiva, nel suo surrealismo, nella sua tri-dimensionalità. Non puoi amare Palermo se

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non vai oltre le apparenze, al di là di “quello che sembra”.

Partendo dal tuo lavoro, come vedi la città?

In questo momento storico sono molto di-spiaciuta per la scarsissima attenzione verso l’infanzia. Si lavora pochissimo sulla preven-zione, mantenendo sempre un approccio emergenziale. In questo modo, si crea uno stato di bisogno che non va certo incontro ai bisogni reali della gente. Bisogna riscoprire l’importanza di lavorare dal basso, saper cre-are partecipazione e solidarietà effettive “con” e “tra” le persone. Credo poco nei progetti a tempo determinato perché non creano “con-tinuità” e non permettono la formazione e la crescita degli agenti di cambiamento. Attraver-so l’occhiello del lavoro con i bambini semi convittori, vedo soltanto famiglie sole e isolate.

Una cosa bella e meno bella di Palermo.

Una delle cose più belle è il teatro Massimo. Ci passo più volte al giorno e non smetto di soffermarmi e guardarlo con gli occhi pieni di stupore di una turista. È di una bellezza am-maliante. Una cosa meno bella è la scarsa attenzione al disagio minorile di cui parlavo prima. Senza cadere nella banalità, anche la spazzatura e la mancanza di educazione civica provocano un disagio notevole. Naturalmente la responsabi-lità non può ricadere solo sulle istituzioni, ma anche su di noi. Palermo è la città di tutti e di tutte... anche mia.

Quale speranza per il futuro di questa città?

Sono ottimista e visionaria di natura, vedo

luci ovunque. L’isola pedonale, una maggio-re fruibilità del centro, così come un numero in aumento di turisti danno maggiore visibilità alla città. Palermo può diventare realmente un punto di riferimento culturale per l’Italia e non solo. È una città bellissima, con una ricchez-za architettonica straordinaria fatta non solo di grandi monumenti, ma anche di piccoli vico-li... L’arte a Palermo la trovi ovunque.

Da alcuni anni Palermo è anche una città dove approdano moltissimi migranti, cosa pensi?

Credo nell’accoglienza e nell’inclusione. Ac-cogliere è innanzitutto un dovere morale e religioso. Purtroppo accanto a gesti e spazi di accoglienza, ho notato anche un aumen-to di episodi xenofobi, forse perché i grandi numeri fanno diminuire in noi la percezione di sicurezza. Avendo lavorato in una struttu-ra per minori stranieri non accompagnati, ho vissuto in prima persona l’accompagnamento di ragazzi provenienti dalla Libia, dopo viaggi massacranti attraverso il mare Mediterraneo. Spesso sono stata in varie strutture ospedalie-re, sperimentando la loro sofferenza fisica e psicologica. Quando sperimenti l’umanità delle persone, quando tocchi con mano e vedi con i tuoi occhi la sofferenza, la tua prospettiva e il tuo modo di pensare cambiano. L’esperienza vis-suta a Casa dei Mirti è stata fondamentale per non lasciarmi suggestionare e manipolare dai racconti dei mass media.

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La storia che sto per raccontare non è sola-mente la storia di K., ma potrebbe essere la storia di tanti altri, un accenno ad una

storia che necessariamente interroga. Si, quan-do si parla di soggettività e persone non do-vremmo mai generalizzare, ogni storia, ogni vissuto è singolare, ma questa è una narrazio-ne frequente, è una sofferenza che incontria-mo sempre più di frequente e turba, inquieta e ci coinvolge a partire dal ragionamento sulle responsabilità.

Quando la prima volta ho incontrato K. nel suo CAS, mi era stato segnalato dalla collega

come un’ospite che lasciava intravedere delle difficoltà, era appena sbarcato, da pochi giorni era stato inserito nel centro, ma già lasciava tra-sparire che alle spalle ci fossero dei vissuti do-lorosi, delle esperienze terrificanti. In quell’oc-casione, ormai tanti mesi fa, avevo provato ad avvicinarmi a lui, proponendogli un colloquio clinico, cosa che raramente provo a fare, pre-ferisco che le persone possano scegliere il loro tempo e lo spazio entro cui condividere parole e sentimenti e che possano scegliere anche di non farlo. Provo comunque ad incontrarlo, e, in quella primissima occasione, mi colpiscono i segni e le cicatrici che porta nel viso, la sua

Ester RUSSOPsicoLoga – PsicoteraPeuta. Missione itaLia - Medici senza Frontiere

diniEghi

da imPazzirE

Volti migranti

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diffidenza e la sua chiusura, la sua magrezza. K., sceglie di non aprirsi e io rispetto chiara-mente la sua modalità di entrare in relazione con me, ovvero di starne a distanza. So quan-to possa essere difficile comprendere il senso del mio lavoro, la neutralità e l’indipendenza, soprattutto dopo che molti ti hanno tradito, usato violenza o chissà che cosa. In quella oc-

casione conveniamo sulla possibilità di poter-ci riparlare nuovamente, se vorrà e quando lo riterrà utile. Questa volta sarà lui a sceglierlo.

Sono trascorsi dei mesi, ho continuato in que-sto lunghissimo periodo a frequentare quel centro per lavoro, mi capita spesso di dare uno sguardo sui gruppi, di osservare le persone che stanno lì all’entrata a soffermarsi a chiacchie-rare o intorno ai PC per aspettare il proprio turno per potersi distrarre, K. era sorridente, sembrava più sereno dopo il primo periodo di assestamento nel sistema d’accoglienza. Non

è facile, ma avevo pensato che come capita per alcuni, la capacità di resilienza e le risorse che queste persone hanno gli avevano per-messo di sopravvivere e di costruire intorno a sé una bolla di serenità o di apparente e resi-stente serenità. Lui non mi aveva più chiesto, non ne aveva sentito il bisogno o comunque non era accaduto di riparlarci.

Ma arriva il diniego. Dopo l’in-tervista c/o la Commissione Ter-ritoriale, arriva il solito diniego che, per noi che lavoriamo con le persone che chiedono asilo in Italia quotidianamente, è doloro-samente quasi scontato ma che produce sempre più oggi una nuova categoria che possiamo definire psicologica, la categoria dei “diniegati”, coloro i quali ( i richiedenti asilo) rimangono ap-pesi ad un filo, in attesa, spenti, le metafore che ognuno di loro si cuce addosso sono tra le più svariate: “morto che cammina”, “una pecora circondata da muri

in pietra”, “una mummia”…K. era uno di questi, ma questa volta le parti vi-tali non avevano avuto il sopravvento rispetto alla sua distruttività e alla perdita di speranza. Il dolore per questa ulteriore risposta negativa da parte della vita, lo trasforma in un uomo irriconoscibile, privo di lucidità. K. non è più se stesso, poche settimane dopo la notizia del diniego va incontro ad uno scompenso psi-cotico, un’altra categoria delle nostre (occi-dentali) per la quale, quando viene utilizzata per situazioni altre, trovo normale ricostruire significanti rispetto alle cause, ma qui con K.

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sento che siamo silenziosamente dentro un si-stema di follia che produce follia, lentamente e in maniera invisibile. K. oggi, per la diagnosi che gli è stata attribuita, non solo non ritrova più se stesso, ma non comprende più nessun ragionamento sulla realtà che lo circonda. Come poteva sopportare ancora e ancora?

Ho ricominciato a parlare con K., ormai ne-cessita di una cura farmacologica, il suo deli-rio lo schiaccia e lo mette anche in pericolo. Un giorno, mi raccontava che ormai non usci-va più dal centro, quello che era successo al suo amico (investito tempo prima da un pirata della strada) e la sensazione che tutti volessero ucciderlo, gli impedivano di andare da solo in un luogo dove incontrava Dio. Questo gli ser-viva, l’impossibilità lo faceva stare ancora più instabile. Io e la mediatrice decidiamo quindi di accompagnarlo a piedi, poteva essere utile per lui ma anche per noi per capire un po’ di più del suo dolore. Abbiamo percorso molti km a piedi, con un passo sveltissimo, come

chi non poteva più aspettare. Arriviamo li’, nel luogo tanto atteso. Era una piccola piazzetta, si vedeva il mare a pochi metri e si sentivano i bimbi giocare a palla, non era un luogo ap-partato, ma frequentato da molti, molto intimo però per K. Quando arriviamo, K. butta imme-diatamente gli oggetti che aveva per le mani (telefonino e una bottiglia d’acqua che tiene sempre in mano) su di una panchina e pie-gandosi in ginocchio comincia, rivolto verso il cielo, a pregare con intensità e con estremo bisogno.Noi e i bambini che erano presenti lì rimania-mo immobili a guardare, con gli occhi gonfi di lacrime, con degli occhi inutilmente gonfi di lacrime.

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Pasqua DE CANDIAoPeratrice ciss - PaLerMo

InterazIone

tErra

Prigione

Vivere una sola vitain una sola cittàin un solo Paesein un solo universovivere in un solo mondoè prigione.

Amare un solo amico,un solo padre,una sola madre,una sola famigliaamare una sola personaè prigione.

Conoscere una sola lingua,un solo lavoro,un solo costume,una sola civiltàconoscere una sola logicaè prigione.

Avere un solo corpo,un solo pensiero,una sola conoscenza,una sola essenzaavere un solo essereè prigione.

Ndjock Ngana (nato in Camerun nel 1952, vive a Roma, dove lavora come operatore interculturale)

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Che risponderesti se qualcuno ti chiedesse dov’è casa? Qual è la tua patria?Quella in cui sei, in cui vivi, e non è detto che sia sempre e solo quella in cui nasci. Non vale solo per una cittadina straniera o un cittadino straniero, vale anche per me - forse anche io mi dovrei definire migrante - che siciliana non sono. Ma ovviamente la mia possibilità con-creta di dirlo e viverlo semplicemente è molto diversa da quella di una cittadina o di un cittadino straniero.Una risposta molto bella che era ed è uno slogan di chi ha lottato e lotta per i diritti di cittadinanza è “La mia terra è dove poggio i miei piedi”.Oppure, c’è la risposta di F., una bellissima donna, che mi dice semplicemente “qui” e che alla seconda domanda mi risponde, la mia patria è l’Italia perché è il paese in cui vivo e la mia patria è la Nigeria perché è il paese in cui sono nata e cresciuta. Sono en-trambi, non sono mezza e mezza, perché la mia anima non è divisa, la mia anima è una sola, integrata, come piace dire a molti. Tra le mie due parti c’è una continua sinergia. Non è stato sempre facile e non lo è tutt’ora, ma io sono qui e ne sono felice.F. mi ricorda che la vita di chiunque scelga o sia costretta ad emigrare non comincia nel po-sto in cui arriva, non comincia in Italia, come molto spesso purtroppo si fa. Mi ricorda che la migrazione è un processo fatto da tanti piccoli faticosi e “costosi” pezzi, riflessioni e investi-menti (e non solo dal punto di vista economi-

co).Sono pezzi che si accumulano e che noi fac-ciamo una fatica estrema a vedere e compren-dere. Ci sono molti tempi e molti sono i luoghi di partenza, arrivo, sosta o transito; molte sono le ragioni, le provenienze sociali e culturali, i percorsi lavorativi nel paese d’origine o d’arri-vo; le aspettative, le proprie e delle famiglie o comunità di partenza, e così via.

E tutto questo processo, tutti questi pezzi poi continuano a muoversi e a interagire con altri pezzi.

Molti mettono maschere al nuovo volto della società italiana, e mettendogliele la cosa fon-damentale che si perde è esattamente il frutto di questo processo: la ricchezza che deriva dall’incontro, quella elaborazione di un nuo-vo patrimonio, anche culturale, condiviso, che non è la semplice somma del vecchio e del nuovo, ma qualcosa di diverso e originale

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che prima non esisteva e che vale sia per chi qui c’era da prima sia per chi qui ci è arriva-to… o ci è nato dopo.

F. vive qui da parecchi anni, non sempre è serena perché economicamente non ha una continuità lavorativa, ma mi dice la vita oggi non è facile per nessuno, “anche molti paler-mitani hanno problemi economici e sono più poveri di prima, quindi non mi lamento, sono qui e troverò qualcosa. Io vedo il mio destino davanti a me, quel-lo che non hai oggi, domani lo puoi avere. Sono qui, la mia vita non è più in Afri-ca, è qui. Dovevo trova-re qui il mio destino e l’ho trovato”.F. è partita da sola, e ne è felice oggi, perché dice “se uno sceglie di cambia-re è una bella cosa” quello che le pesa enormemente e non potere tornare nel proprio paese per poter rivedere la famiglia. “Ho scelto di vivere qui e non voglio cambiare, ma vedere tua mamma in foto e parlarle al tele-fono non è la stessa cosa di toccarle le mani guardarle il viso... Nonostante tutto questo mi reputo una persona fortunata perché sto riu-scendo a dare un futuro e una prospettiva di-versa alla mia vita e ai miei bambini”. “La vita non è difficile, se tu la vuoi facile devi farla facile” – mi dice.

F. è cresciuta come in un asilo, con tanti bam-bini, i figli delle diverse mogli di suo padre. Mai nessuno aveva tempo per educarli e ac-compagnarli, quindi sono cresciuti soli e so-

prattutto le donne non sempre trattate nel mi-gliore dei modi... “Mia madre lavorava sempre e non c’era mai, ma voleva che studiassi, mio padre si interessa-va solo di dirmi che dovevo lavorare e fare pu-lizie in casa, solo dopo potevo sprecare tempo a studiare. Non volendo chiedere i soldi per i libri a mio padre ho cominciato a lavorare. Quando mi pagavano portavo i soldi a mia madre, che però li rifiutava e si arrabbiava per-

ché diceva che dovevo studiare. Era una continua lotta. Così un giorno

ho deciso di lasciare tutto e da quel momento ho combattu-to la mia vita da sola. Io ho deciso di partire, nessuno me lo ha detto, ho deciso che era il momento di an-dare”.

Qui F. ha studiato, lavorato e avuto figli, il suo orgoglio.

Solo che le sembra di non poter dar loro un’occasione: non han-

no mai visto l’altro loro paese. “I miei bambini devono conoscere il mio paese d’ori-gine e la mia famiglia. Quando gli parlo nella mia lingua loro ridono e mi dicono ‘Mamma ma come parli?’”, mi dice e ride un po’ ma-linconica.

La ricchezza che F. vorrebbe donare ai suoi figli è quella della sinergia tra le sue due cul-ture, tra i suoi due paesi, tra i suoi due qui. E mi dice, questo è il passaggio necessario per sapere chi si è e sentirsi liberi. Questa è la vera ricchezza. Dovremmo impararlo anche noi.

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La bomba

il cielosopra di me

è una bombache mi insegue

inesorabilescoppierà

e devasterài miei sogni

e le mie misere carni

chi la sgancerànemmenomi vedrà

né conosceràle mie paure

e i miei tentatividi abbracciare

il mondoil mostrovincerà

sulla miaumanità

io risorgerònelle mie parole

docilissimeed invincibili

Francesco Tanzi