UNA INUTILE SCOMMESSA

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DEBORAH HALE

UNA INUTILE SCOMMESSA

Titolo originale dell'edizione in lingua inglese: The Wedding Wager Harlequin Historical

© 2001 Deborah M. Hale Traduzione di Anna Polo

Tutti i diritti sono riservati incluso il diritto

di riproduzione integrale o parziale in qualsiasi forma. Questa edizione è pubblicata per accordo con

Harlequin Enterprises II B.V. / S.à.r.l Luxembourg. Questa è un'opera di fantasia. Qualsiasi riferimento a fatti o

persone della vita reale è puramente casuale.

© 2002 Harlequin Mondadori S.p.A., Milano Prima edizione I Grandi Romanzi Storici

agosto 2002 Seconda edizione I Romanzi Storici Harlequin Mondadori

ottobre 2011

Questo volume è stato stampato nel settembre 2011 da Grafica Veneta S.p.A. - Trebaseleghe (Pd)

I ROMANZI STORICI HARLEQUIN MONDADORI

ISSN 1828 - 2660 Periodico mensile n. 90 del 26/10/2011

Direttore responsabile: Alessandra Bazardi Registrazione Tribunale di Milano n. 212 del 28/03/2006

Spedizione in abbonamento postale a tariffa editoriale Aut. n. 21470/2LL del 30/10/1981 DIRPOSTEL VERONA

Distributore per l'Italia e per l'Estero: Press-Di Distribuzione Stampa & Multimedia S.r.l. - 20090 Segrate (MI)

Gli arretrati possono essere richiesti contattando il Servizio Arretrati al numero: 199 162171

Harlequin Mondadori S.p.A.

Via Marco D'Aviano 2 - 20131 Milano

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Ospedale militare di Bramleigh per la truppa, 1812 Era proprio un posto da uomini. Leonora Freemantle sentiva che arricciava il naso e tendeva i muscoli come una lepre o un cervo che an-nusano i predatori sulle loro tracce. Senza guardarsi intorno seguì la capo infermiera lungo la corsia. Men-tre oltrepassava i letti dei soldati convalescenti, sentì gli sguardi furtivi e i commenti a bassa voce. Non ab-bastanza bassa, però, perché non riuscisse a distin-guerli. «Ehi, ragazzi, la capo infermiera ha una nuova aiu-tante.» «Non vi sembra che abbia ingoiato un limone?» «Mi ricorda il mio vecchio sergente istruttore.» Leonora spinse in avanti il mento e raddrizzò le spalle lottando contro la tentazione di sistemarsi gli occhiali e raddrizzare il cappellino. Avrebbero potuto prenderli come segni di debolezza e lei non intendeva certo dare a quei soldati la soddisfazione di pensare che teneva alla loro opinione. Eppure non poteva evitare il rossore di vergogna che le inondava il viso. Pur non avendo una donna da chissà quanto tempo, quegli uomini la trovavano co-

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munque poco attraente. Be', almeno erano sinceri, co-sa che non si poteva certo dire della maggioranza de-gli appartenenti al loro sesso. Leonora l'aveva appreso per amara esperienza. La capo infermiera entrò in una piccola sala comu-ne e si diresse verso un gruppetto radunato in un ango-lo. Leonora sentì il rumore dei dadi che rotolavano sul pavimento di legno, seguito da un grido e da una serie di imprecazioni soffocate. «Ce l'hai fatta di nuovo, Archer!» borbottò uno de-gli spettatori in tono di riluttante ammirazione. «Sei proprio il giocatore più fortunato che abbia mai vi-sto.» Sentendo quel nome, Leonora drizzò le orecchie. Se quello era il sergente Archer che era venuta a incon-trare, era incoraggiante sapere che gli piaceva giocare. L'uomo raccolse i dadi con una mossa che rivelava anni di pratica. «La fortuna non c'entra niente, ragazzi. Questa è a-bilità» replicò. La sua dichiarazione fu accolta da un coro di risate e da grida di approvazione. La capo infermiera piombò sui giocatori come un falco su un pollaio. «Sergente Archer, quante volte devo dirvelo? Non si gioca a dadi nel mio ospedale!» Il sergente si alzò in piedi rivelando il corpo lungo, snello e muscoloso di un fuciliere. Leonora lo vide trasalire, come se il movimento gli procurasse una fit-ta dolorosa, poi il suo viso si distese in un sorriso irre-sistibile, diretto in tutta la sua potenza all'arcigna capo infermiera. Il cuore sensibile di Leonora prese a battere come un tamburo. Nulla, nelle lettere inviate dal cugino Wesley dalla penisola iberica, l'aveva preparata alla vista del suo sergente.

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Basta!, si disse. Doveva smetterla subito con quella follia. Ma il corpo pareva deciso a tradirla e il cuore conti-nuò a battere se possibile ancora più forte. Perché la vista di un uomo doveva turbarla tanto?, si chiese Leonora, osservandolo mentre portava la se-vera capo infermiera a uno stato di esasperata tolleran-za. Forse, se avesse dedicato al problema un attento e-same intellettuale, sarebbe riuscita a riportare sotto controllo le proprie emozioni in tumulto. Perché proprio lui? Aveva già visto uomini più bel-li, con tratti più proporzionati e gradevoli di quelli del-l'uomo che le stava davanti. Il sergente Archer non era nulla di tutto questo: i suoi lineamenti erano marcati, quasi scolpiti nel grani-to. La bocca pareva capace di una grande varietà di e-spressioni e gli occhi di uno sguardo provocatorio e penetrante. In quel viso intenso le sopracciglia nere fornivano un ulteriore elemento di irresistibile fascino. «Che cosa abbiamo qui?» chiese l'uomo voltandosi verso Leonora. Quando si avvicinò, lei si rese conto che i suoi oc-chi erano allo stesso tempo verdi, marroni e dorati, una strana mescolanza che cambiava di continuo. Per la prima volta in molti anni desiderò essere bella; l'a-spetto di lui la rendeva più consapevole che mai dei propri difetti. Si ripeteva che era un'assurdità, eppure era più forte di lei: desiderava piacergli. Fu la capo infermiera a rispondere alla sua doman-da. «Una visita per voi, sergente Archer. Ricordatevi le buone maniere.» Il sergente lanciò una rapida occhiata ai compagni di gioco e questi si dispersero. La capo infermiera si fermò sulla soglia; Leonora non riuscì a capire se lo faceva per garantire una certa riservatezza alla loro conversazione o per agire da chaperon.

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«Che cosa può volere una così bella signora da uno come me?» chiese il sergente Archer una volta che la saletta si fu svuotata. La sua voce profonda era dolce come un brandy be-ne invecchiato; ancora una volta lui sfoderò il suo sor-riso più affascinante. Leonora si sentì attraversare da un brivido gelido. Che bugiardo! Come poteva chiamarla bella signora? Si aspettava forse che lei si ammorbidisse davanti a quella sfacciata adulazione? Si tolse i guanti, presa dal desiderio di sbatterglieli in faccia, poi ricordò che ave-va un disperato bisogno della sua collaborazione e con un immenso sforzo gli tese la mano. «Sergente Archer, sono Leonora Freemantle. Credo che conosciate mio zio, Sir Hugo Peverill. Sono venu-ta a farvi una proposta.» Si accorse subito che le sue parole lo avevano tur-bato, benché si affrettasse a nasconderlo. Aggrottò la fronte e il viso gli si incupì come un cielo d'estate pri-ma di un violento temporale. Quando parlò, la voce profonda parve risuonare come il brontolio minaccio-so di un tuono lontano. «Andatevene, signorina Freemantle. Non sono inte-ressato alle vostre proposte.» Cercò di girare sui tacchi, ma la gamba ferita glielo impedì facendolo barcollare, mentre l'espressione dura si contraeva in una smorfia di dolore. Senza riflettere, Leonora allungò una mano per so-stenerlo. Le maniche della camicia di lana grezza era-no arrotolate fino ai gomiti, così che le sue dita tocca-rono un avambraccio abbronzato. Turbata, Leonora sentì i muscoli possenti, il calore della pelle nuda e la carezza provocante della peluria scura. Un'ondata di energia la percorse dalla punta delle dita su per il braccio, fino alla gola, al petto, a tutto il corpo.

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Leonora rifiutò quella sensazione intensa e inaspet-tata con tutta se stessa. Come osava quell'uomo esasperante trattarla così, congedandola senza neanche ascoltare ciò che era ve-nuta a dirgli? Molto tempo prima aveva giurato a se stessa di non sottomettersi mai alla prepotenza di un uomo e non aveva certo intenzione di cominciare a farlo proprio quando il suo futuro era in gioco. Lui cercò di divincolarsi, ma lei aumentò la stretta. «Vi lascerò andare se prima mi starete a sentire, sergente Archer.» Il suo viso mobile e intenso mostrò una chiara bat-taglia tra l'irritazione e il divertimento. Alla fine vinse il secondo. Una fila di denti candidi e squadrati brillò in un sor-riso diabolico, in contrasto con il viso abbronzato. «Se decido di ascoltare, questa potrebbe diventare una giornata molto interessante.» Leonora si sentì avvampare: immaginava già le sue successive parole. «Per non parlare di una notte ancora più interessan-te» aggiunse l'uomo con una risatina insolente. Leonora lo lasciò andare di colpo, mentre lacrime di rabbia impotente le inumidivano gli occhi. Le trat-tenne con uno sforzo. Perché lo zio Hugo aveva scelto proprio quell'uomo esasperante per la loro scommessa? Mentre lui si dirigeva zoppicando verso la porta, Leonora tentò un ultimo, disperato approccio. «Strano, non pensavo che foste uno sciocco, ser-gente.» Colpito! L'uomo esitò e contrasse le scapole come se avesse appena ricevuto una pallottola. Incoraggiata, lei approfittò di quel vantaggio mo-mentaneo. «Per mia esperienza, solo uno sciocco si rifiuta di

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ascoltare una proposta che potrebbe procurargli un be-neficio» insistette. Morse Archer rispose continuando a darle le spalle. «Quando una donna come voi fa una proposta a un uomo come me, signorina Freemantle, il beneficio non è certo dalla sua parte. Non sul lungo periodo, al-meno.» Leonora soffocò a fatica un impeto di irritazione. Pensava che Morse Archer avrebbe accettato di slan-cio la sua offerta e invece si trovava costretta a suppli-carlo: un ruolo che odiava. La cosa la rese ancora più decisa a vincere la scom-messa con zio Hugo e a liberarsi per sempre della ne-cessità di rivolgersi a un uomo in quel tono di preghie-ra. «Che cosa intendete con una donna come me, ser-gente Archer?» Lui si decise a voltarsi. «Non fingete di non capire. Intendo una signora della vostra classe» sbottò con evidente disprezzo. «Vi sorprenderebbe apprendere che la nozione di classe non ha per me alcuna importanza?» lo sfidò lei. «Sì, molto.» Leonora fece un respiro profondo e si costrinse a guardarlo negli occhi. «Sono convinta che solo l'educazione separi le co-siddette classi alte da quelle più umili» dichiarò. «Ah, sì?» Il sergente incrociò le braccia sul petto con aria sar-castica, come a chiedere che cosa c'entrasse lui con quella sorprendente affermazione. Almeno, però, non tentava più di andarsene. Leono-ra si affrettò a proseguire, prima che lui decidesse di nuovo di averne abbastanza. «Mio zio mi ha sfidata con una scommessa per ve-rificare la validità della mia teoria» spiegò.

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Alla parola scommessa avvertì un lieve interesse nel sergente Archer. «Ho tre mesi per educare un soldato semplice e tra-sformarlo in un gentiluomo che affascini la buona so-cietà di Bath. Se vincerò la scommessa, lo zio Hugo finanzierà una scuola per ragazze povere di cui io sarò la direttrice.» «E io sarei il soldato ignorante su cui volete operare la vostra magia?» chiese Archer con un'aria innocente smentita dalla piega sdegnosa delle labbra. «Se vi immaginate qualcosa di gradevole, vi sba-gliate di grosso. Saranno tre mesi di duro lavoro per entrambi, ma credo che alla fine troverete che ne sarà valsa la pena. Allora, accettate?» Lui sorrise, ma solo con le labbra. «No, signorina Freemantle» rispose con finta corte-sia. «Ora vi prego di lasciarmi. Avete già approfittato abbastanza del mio tempo, per oggi.» Possibile che non riconoscesse l'opportunità che gli veniva offerta, che non apprezzasse la nobile causa che avrebbe potuto servire? «Siete privo di ambizione? Non vi interessa mini-mamente migliorarvi?» lo sfidò lei, indignata. Il sorriso falso scomparve, le narici fremettero e lui si fece avanti minaccioso come un toro pronto alla ca-rica. Senza volerlo Leonora indietreggiò, intimorita. Archer si fermò così vicino che poteva sentire il suo respiro sul viso. Parlò in un sussurro più intimidatorio della furia di tanti altri uomini. «Sono pieno di ambizioni, signorina Freemantle, ma alle mie condizioni. Mi piaccio come sono e non ho bisogno dei vostri miglioramenti. Non mi interessa trasformarmi in un gentiluomo lezioso e arrogante.» Leonora tenne duro. In fondo provava un fremito di ammirazione per l'orgoglio e l'indipendenza di Morse Archer, ma c'era troppo in palio per non insistere an-

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cora. «Vi prego, sergente. Se non per voi, fatelo per la mia scuola.» «Dove potrete trasformare semplici ragazze di cam-pagna in oziose debuttanti? Davvero una nobile cau-sa» ironizzò lui. «Non mi aspetto che comprendiate i miei motivi» replicò Leonora con tutta la dignità che riuscì a mette-re insieme. «Nessuno li comprende.» «Oh, io vi capisco fin troppo bene, signorina Free-mantle. So bene come ci si sente a ricevere la carità dei superiori e a dover pure ringraziare, anche quando ci pare di soffocare» sbottò lui con feroce sarcasmo. La sua scuola non sarebbe stata come lui la descri-veva... o sì? «Non sto parlando di carità, sergente» replicò Leo-nora. «Ah no?» L'esplosione di rabbia sembrava esaurita. Il sergen-te si voltò lentamente e si avviò zoppicando verso la porta. Leonora lo seguì con lo sguardo; si sentiva esausta come se avesse appena affrontato una violenta tempe-sta. Raccolse tutto il suo coraggio per affrontare anco-ra una volta i sussurri e i commenti derisori dei soldati e si chiese come avrebbe reagito lo zio all'esito della sua missione: era parso così deciso a ingaggiare pro-prio quell'uomo! Be', aveva fatto del suo meglio per ottenere la colla-borazione di Morse Archer. A quel punto lo zio Hugo avrebbe dovuto accontentarsi di un altro candidato. Era un peccato, in fondo. Il sergente sembrava piut-tosto intelligente e la sua parlata non era rozza come quella di tanti soldati. Unendo quelle qualità al suo notevole aspetto, non sarebbe stato poi tanto difficile farlo passare per un gentiluomo. Alla fine, però, Leonora si trovò a sospirare di sol-

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lievo. L'ultima cosa di cui aveva bisogno era trascor-rere tre mesi in compagnia di un uomo ostinato, intrat-tabile e affascinante come Morse Archer. Morse seguì con lo sguardo Leonora Freemantle che percorreva la corsia, ignorando le occhiate am-miccanti e le gomitate con cui gli uomini commenta-vano la sua uscita. Si avvicinò alla finestra e la osser-vò scendere i gradini dell'ospedale, salire sul calesse e allontanarsi. Voleva essere certo che se ne andasse, o almeno così si ripeté. «Facciamo un'altra partita a dadi, sergente?» propo-se speranzoso un giovane caporale del suo reggimen-to. Il suo braccio destro era stato amputato sotto il go-mito, ma il ragazzo aveva imparato a gettare i dadi con la mano sinistra. Morse scosse la testa con l'espressione del fratello maggiore che non ha tempo di far divertire i più pic-coli della famiglia. «Hai sentito la capo infermiera, Boyer. Non si gio-ca nei confini dell'ospedale. Sono già abbastanza nei guai con l'esercito, senza bisogno di aggiungerne al-tri.» Boyer fece una risatina impacciata e si allontanò. Era la prima volta che Morse accennava alla commis-sione d'inchiesta, sebbene la cosa dovesse essere risa-puta tra i soldati convalescenti di Bramleigh. Era possibile che venisse cacciato con disonore dal-l'esercito. Il pensiero della commissione d'inchiesta lo riportò alla terribile ritirata inglese da Bussaco e la gamba prese a fargli male sopra il ginocchio, dove era stata trapassata da una baionetta francese. Raggiunse zoppicando il suo giaciglio e si distese su di esso; i piedi sporgevano dal materasso sottile, troppo corto per la sua figura imponente. Per distrarsi

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dal dolore alla gamba e dai ricordi di guerra altrettanto dolorosi, Morse si mise a pensare a Leonora Freeman-tle. Che faccia tosta arrivare con l'aria della benefattrice pronta a trasformarlo in un gentiluomo! Appena prima che aprisse la bocca aveva trovato qualcosa di attraen-te in lei, ma ora non riusciva proprio a ricordare che cosa. Aveva ben poco in comune con il tipo di donna che in genere gli piaceva. In primo luogo la sua figura era troppo snella e angolosa; Morse non prestava una grande attenzione ai vestiti femminili, ma quelli della signorina Freemantle erano troppo brutti perché si po-tessero ignorare. In quanto ai capelli, lei teneva i suoi raccolti sotto il cappellino in modo tale che non si riu-sciva a distinguerne neanche il colore. Forse aveva no-tato qualcosa nei suoi occhi, ma i severi occhialini li nascondevano. Insomma, una zitella noiosa, pudibonda e studiosa. Non erano state queste caratteristiche, però, a susci-tare la sua ostilità, ma la voce. Da quando si era arruolato nell'esercito servendo in India e in Spagna, Morse aveva avuto di rado l'occa-sione di sentir parlare una signora inglese. L'unica donna all'ospedale di Bramleigh, la capo infermiera, parlava con un accento della Cornovaglia così marca-to, che a volte Morse faticava a capirla. Nulla nella sua voce, comunque, evocava ricordi dolorosi, cosa che invece non si poteva dire di quella di Leonora Freemantle. A peggiorare le cose, le sue prime parole riguarda-vano una proposta. Certo, non era il tipo di proposta che Lady Pamela Granville gli aveva fatto il giorno prima che si arruolasse, ma il tono e l'argomento l'ave-vano indotto a respingere l'offerta della signorina Fre-emantle ancora prima di sentirla. Ora, mentre la gam-

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ba gli pulsava per il dolore, Morse si chiese se non fosse stato un idiota a comportarsi così. Le alternative che si trovava davanti erano assai li-mitate: non poteva restare ancora a lungo all'ospedale di Bramleigh, visto che non correva più il rischio di un'amputazione e poteva usare la gamba, per quanto gli facesse ancora male. Anche se la commissione d'inchiesta non l'avesse cacciato dall'esercito, non a-vrebbe potuto tornare a fare il soldato in quelle condi-zioni. I dottori, ottimisti, sostenevano che prima o poi a-vrebbe ripreso a muoversi come un tempo, ma fino a quando avesse zoppicato a quel modo, i lavori per cui era adatto data la sua scarsa educazione, gli erano pre-clusi. La campana della cena suonò. Morse si alzò con un sospiro stanco e si unì alla coda diretta al refettorio. Là inghiottì la minestra acquosa senza interesse né gu-sto. Boyer e altri ragazzi del suo reggimento presero posto accanto a lui al loro solito tavolo. Erano tutti scampati alla disastrosa ritirata da Bussaco. In fondo loro erano stati fortunati. «La visita che avete ricevuto non è durata molto, sergente» osservò Boyer con una domanda implicita in quel commento innocente. «Non era proprio il vo-stro genere di donna, vero?» Gli uomini ridacchiarono e si diedero di gomito. Il successo del sergente con le donne era un motivo d'or-goglio per loro. Sapevano che preferiva le cameriere graziose e bene in carne e che non aveva problemi ad attirarle. Senza sollevare lo sguardo, Morse fece cessare il brusio con un'unica, brusca frase. «La signora era cugina del tenente Peverill.» Seguì un coro di esclamazioni vergognose e dispia-ciute. Il defunto tenente Wesley Peverill era stato a-

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mato e rispettato dagli uomini della sua compagnia, così come il sergente Morse Archer. Solo in quel momento Morse si rese conto di ciò che l'aveva attirato verso Leonora Freemantle prima che parlasse: la somiglianza con il cugino. Il tenente Peverill era un uomo snello, con un'aria falsamente delicata, smentita dall'astuzia e dal coraggio dimostra-ti in combattimento. Morse Archer avrebbe pensato sempre con dolore all'assurda morte del giovane te-nente. In quella donna aveva intravisto qualcosa del corag-gio e dell'intelligenza del tenente Peverill. Aveva te-nuto duro bersagliandolo con tutte le munizioni a sua disposizione e quando lui le si era rivoltato contro, fu-rente, non aveva quasi battuto ciglio. Morse non aveva dato molto peso al suo proclama-to scarso interesse per le differenze che le classi socia-li comportavano, ma ora, ricordando il tenente, co-minciava a crederci. «È venuta a ringraziarvi, sergente?» chiese Boyer. «Qualcosa del genere» rispose Morse. Gli uomini sapevano che Sir Hugo Peverill era ve-nuto a trovarlo poco dopo il loro arrivo a Bramleigh; voleva ringraziarlo per aver rischiato la vita per salva-re il figlio da morte sicura. Purtroppo, però, le ferite del giovane erano troppo gravi perché potesse soprav-vivere. Il padre aveva almeno avuto la consolazione di seppellirlo nel cimitero di famiglia in Inghilterra, in-vece di lasciarlo in una tomba senza nome in Porto-gallo. Sir Hugo aveva offerto a Morse denaro, un lavoro, qualsiasi cosa volesse, ma lui aveva rifiutato di mala-grazia. Non era orgoglioso delle proprie azioni durante la ritirata; la carica disperata contro una foresta di baio-nette francesi era arrivata troppo tardi. Accettare un

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compenso per questo serviva solo ad aumentare il suo senso di colpa. Pareva però che il vecchio Sir Hugo non fosse di-sposto ad accettare il suo rifiuto; aveva così escogitato lo stratagemma di una scommessa con la nipote. Pro-babilmente Leonora Freemantle non sospettava che quello fosse un trucco dello zio; dalla sua appassiona-ta difesa, era chiaro che riteneva la scommessa del tut-to genuina. Morse sbocconcellò una fetta di pane duro, ben di-verso dal cibo squisito che avrebbe potuto gustare a Laurelwood, la tenuta di Sir Hugo. In Portogallo, quando le razioni cominciavano a scarseggiare, il te-nente Peverill aveva decantato spesso il contenuto del-la dispensa paterna e il talento della cuoca. Morse ri-cordò altre storie del genere mentre, finita la cena, si avviava irrequieto verso il suo giaciglio. Quella notte sognò un letto di piume con fresche lenzuola di lino, un fuoco scoppiettante nel camino e un'oca grassa che arrostiva allo spiedo, con la pelle scura e croccante. Si svegliò con l'acquolina in bocca. Non c'era dubbio, Laurelwood gli avrebbe offerto una meravigliosa sistemazione nei tre mesi successivi, mentre la sua gamba finiva di guarire. Un vero tetto sulla testa, pasti quali non gustava da anni. In cambio doveva solo sopportare le lezioni della saccente nipote di Sir Hugo. In fondo non era una cattiva idea. Peccato che ormai fosse troppo tardi. Senza dubbio a quell'ora la signorina Freemantle a-veva trovato un candidato più disponibile, un tipo sve-glio che non si lasciava accecare dall'orgoglio e dai brutti ricordi al punto da farsi scappare un'occasione d'oro. Morse ricordava fin troppo bene l'ammonizione del padre: quando un uomo non ha niente, non può per-mettersi di essere orgoglioso.

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Ricordava anche l'amara riflessione fatta sulla mi-sera tomba dei suoi familiari. Quando un uomo non ha niente, gli rimane l'orgoglio. Prima o poi, rifletté Morse Archer, avvilito, l'orgo-glio lo avrebbe cacciato in guai ancora più grossi di quelli in cui si trovava già.

Chaterine Archer Sposa d'autunno

Deborah Hale Una inutile scommessa

Inghilterra, 1472 - Quando soccorre un forestiero rimasto vit-tima di un'imboscata, Annaliese non immagina che da quel momento la sua vita cambierà. Al villaggio spadroneggia Kra-mon, un crudele barone i cui crimini dovrebbero essere sma-scherati da un uomo rude e coraggioso, e lo sconosciuto che lei ha salvato sembra troppo raffinato e aristocratico per po-tersene occupare! In effetti, come Annaliese scopre più tardi, si tratta del fratello minore di Lord Brackenmoore, e lei ha ogni ragione per temere la nobiltà. Come farà il giovane a convince-re quella fanciulla meravigliosa che il suo è vero amore?

Inghilterra, 1812 - Profondamente convinta che sia l'educa-zione e non la nascita a produrre un vero gentiluomo, Leonora Freemantle si impegna in un'originale scommessa con lo zio: in tre mesi di lezioni trasformerà il rude soldato Morse Archer in un perfetto gentiluomo in grado di incantare la buona socie-tà di Bath. Se vincerà la scommessa, otterrà i fondi per aprire una scuola per giovinette, altrimenti si rassegnerà a sposare l'uomo che lo zio sceglierà per lei. Le sue lezioni, però, avran-no un esito imprevedibile e assolutamente romantico...

Jacqueline Navin Cuore vichingo

Elizabeth Rolls Partita a quattro

Inghilterra, 1185 - 1191 - Perseguitata dal ricordo della tragica morte della madre e oppressa dalla rigida educazione che il crudele patrigno le ha impartito, Rosamund Clavier ha terrore del matrimonio e degli uomini ed è determinata a sottrarsi al dovere di sposare il potente e attempato barone che il patrigno ha scelto per lei. Ma il destino le fa incontrare Agravar, un prode e generoso guerriero di origine vichinga, che la salverà dai suoi persecutori, dalle sue paure e da se stessa. E che le fa-rà conoscere la gioia di amare e di essere amata.

Inghilterra, 1816 - Fare da chaperon alla cugina Milly affinché la ragazza abbia modo di conoscere meglio il futuro sposo, è per Tilda un'impresa più ardua del previsto. Quando infatti ar-riva alla lussuosa residenza del Duca di St Ormond, scopre che lui è Crispin Malvern, l'uomo di cui si era follemente innamo-rata sette anni prima e che l'aveva fatta soffrire. Rimasta vedo-va di recente, Tilda apprezza l'indipendenza che il nuovo sta-tus le concede e così, quando tra lei e Cris torna a vibrare una certa attrazione, cerca in ogni modo di favorire la relazione tra il gentiluomo e la cugina, che però nel frattempo...

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