inutile opuscolo letterario numero 24

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inut ile 24 luglio 2009

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Un numero speciale di ben ventun paginette con i racconti di Marco Montanaro, Daniele Cesario, Stefano Sgambati e Viviana Capurso. Il disegno in copertina è di Alice Socal.

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inutile24

luglio 2009

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INUTILE opuscolo letterarioluglio 2009, numero 24supplemento al #1150 di PressItalia.net, registrazione presso il Tribunale di Perugia #33 del 5 maggio 2006pubblicazione mensile a cura di INUTILE » ASSOCIAZIONE CULTURALE

la redazioneviviana capurso {ufficio stampa}arturo fabraferdinando guadalupigabriele naiavirginia paparozzidaniele pirozzialessandro romeo {responsabile editoriale}matteo scandolin {grafica e impaginazione}

in questo numero racconti di viviana capurso, daniele cesario, marco montanaro, stefano sgambati

lʼimmagine di copertina è di alice socal

questo numero è a cura di matteo scandolin, ma non esisterebbe senza Maria Giulia Nuti e Mauro Piergentili: la redazione li ringrazia di cuore

stampato presso Le Colibrì - Agenzia di stampa, Gubbio {[email protected]}

wild wild webwww.rivistainutile.it, www.myspace.com/rivistainutile; www.associazioneinutile.org

Il presente opuscolo è diffuso sotto la disciplina della licenza CREATIVE COMMONS Attribuzione - Non commerciale - Non opere derivate 2.5 Italia. La licenza integrale è disponibile a questo url:http://tinyurl.com/8g7sw5.

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senza nauseadi marco montanaro

Tutto sommato ho avuto una vita divertente, particolare, coi miei sogni, i miei amori.C’era l’ansia di vivere, intrighi sentimentali, persino qualche furore politico. Sì, tutto piuttosto divertente.Poi a ventisette anni mio zio ha fatto in modo che io entrassi in fabbrica. Conosceva un senatore di un paese vicino, ho aspettato tre mesi e poi mi hanno chiamato. All’inizio mi sembrava pericoloso: a cento metri senza protez ione su i for n i , un ca ldo insopportabile, ma mille euro e qualcosa fanno gola, alla mia età. Ogni tanto spunta qualche predicatore, così li chiamano quei tizi che fanno politica in fabbrica. Più o meno conosco già i loro argomenti, quindi è difficile che ne possa essere affascinato. Qualcuno li detesta, qualcuno li ascolta, altri ancora sembrano crederci, ma in fondo l’argomento che va per la maggiore è pur

sempre il mercato interno. Prosciutti, fumo, scarpe e dvd, c’è di tutto, ed è la cosa più divertente. Meno divertente è quel dannato pullman che mi porta a Taranto ogni giorno. Mezz’ora scarsa e sono lì, a salire scalini e ad annusare il caldo di una giornata qualunque. Vorrei stare nel settore di Emilio, che riesce a non fare praticamente nulla, si è anche portato un materasso, lo mette in cabina e un giorno sì e uno no dorme. Ogni tanto penso a tutte quelle parole sulle fabbriche, sulle condizioni del lavoro all’**** e tutto il resto.Ma non è questo il punto. Il punto è che il giorno dopo non ho la nausea.La mia vita scorre piuttosto lineare; le più grandi avventure che mi capitano sono quelle nel magico mondo delle rate. Ho la mia Audi, il mio televisore al plasma, finirò di pagarli tra qualche mese, se tutto va bene. Vivo coi miei, niente mutuo, muto sto io tutto il giorno per quel che riesco a rimanere in casa. Poi fuori, ragazze e vodka. Qualche canna. Non che mi diverta, è che il

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giorno dopo non ho la nausea: questo mi stupisce davvero.D’estate è tutto più amplificato. Il mio paese si gonfia di gente per le strade e le piazze. Da adolescente pensavo di fare un certo tipo di vita, magari simile a questa, ma non era così, c’era meno gente, meno possibilità di divertirsi. Ora che potrei farne anche a meno, invece, è pieno di studentesse universitarie che tornano per mostrare in che modo perverso sono cresciute. Cambiate, ci tengono a dire che sono cambiate, da quando stanno in città.Noi maschietti a inizio serata stiamo tutti da una parte, come alle elementari, poi si fa il gioco delle api col miele. Suona squallido, ma questa l’ho sentita proprio da Michela, una che da qualche anno però non scende nemmeno per Natale.Tutti molto simpatici, alla mano, si offre da bere, qualcuno fa un giro nel centro storico per una canna, qualcun altro parla di polvere. I sorrisi fluttuano irregolari e si stampano sulle facciate dei palazzi barocchi. Qualche labbro rimane lassù anche fino alle cinque del mattino. Io

a volte faccio tutto un tiro, non vado a letto, giusto una capatina a casa per cambiarmi e poi subito alla fermata del pullman. Per evitare quel risveglio senza nausea.Altre volte si va a ballare, si azzerano parole e strategie e bevuti si cerca l’appiglio alla minigonna della ragazza giusta, la sconosciuta che viene da Milano e viene a sciancarsi qui, sulla spiaggia, e se non va si aspetta l’amico tornato dall’Olanda con qualche novità particolare. Un tempo sì, mi svegliavo ed era tutto molto più difficile, dallo stomaco risaliva una domanda e la risposta non si trovava certo in bocca, nemmeno dietro i molari che se ne stanno sempre là senza sapere mai nulla. Che cazzo stai facendo?Io ora non me lo chiedo più.Me lo ha chiesto una, e io le ho detto che va bene così. Poi ha pianto e mi sono allontanato, siamo abbastanza grandi da… Poco importa, mi hanno portato al mare e fino all’alba ho trovato con chi stare.In effetti è meglio se non guido io. Anche se ci

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sono ottimi modi per eludere l’alcol test, ho sentito, ne parlava l’altro giorno quel ragazzo veneto, ha dei parenti qui ma dell’accento nostro neanche l’alito di vino.Lo chiamiamo per cognome, Zan, lui vive così, senza troppi pensieri tatuati sulle spalle. Credo che faccia il cassiere in qualche ipermercato dalle parti sue e dice che la nebbia e l’alba del nord lo fanno vomitare. Quando sta qui, non esiste niente. Vuol sentirsi sfrenato, così dice, nient’altro.È lui che propone le cose più estreme, e l’estremità di questo divertimento è inversamente proporzionale alla nausea che nemmeno provo il giorno dopo.Prima di andare in piazza a cercare donne e cocktail facciamo giri in auto a consumare casse di birra economica. Lanciamo le bottiglie vuote dai finestrini. Specchietti e aiuole sono i nostri obiettivi, e ogni sera la mira si affina.Poi in piazza a molestare verbalmente la gente. A sfoggiare camicie e frasi senza memoria.Il giorno dopo, niente nausea.

Un giorno Zan ha chiamato me e altri due ragazzi. Diceva che bisognava svoltare, che sapeva di una cosa molto più estrema delle altre, insomma, non potevamo tirarci indietro. Entriamo nella Focus di Zan e facciamo mezz’ora di superstrada verso Ovest, poi strade brecciate e poche domande. Ha il gusto della sorpresa, Zan, anche se, dice, ci costerà cinquanta euro.Penso a donne e orge, mai fatto ma vale la pena provare, penso a qualche droga piuttosto esotica e persino a un combattimento tra cani e allora no, gli animali no, teniamoli fuori dalle nostre miserie. O forse ci spero: domani potrei avere questa benedetta nausea.Il cortile della masseria è pieno di auto, ultimi modelli e molti fuoristrada. Stasera c’è il sangue, dice Zan, e allora temo ancora per le bestie. Pitbull e cani così mi stanno sul cazzo, ma non ci punto nemmeno un centesimo, mi fa schifo. Gli animali, no, davvero.È pieno di gente accesa da lunghe lampade al neon. Adulti, tutti uomini, allora forse di donna ce n’è una sola ma che sa bene cosa fare. Nemmeno

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questo. Penso anche ai galli.C’è la birra, costa poco e questo in parte giustifica i c inquanta euro d ’ ent ra ta . A l bancone improvvisato ci sono dei ragazzini, bevono anche loro, uno dei due chiude una canna. Mulatti. Parlano male l ’ italiano, accento francese, maghrebini, suppongo, ma non ci ho mai capito molto di questa gente. Mi giro a chiedere a Zan, ma non c’è più, poi sono di nuovo io faccia e gomiti sul bancone mentre la birra comincia a pesare e i ragazzini non ci sono più, neanche loro. Si svuotano i saloni della masseria, la gente va fuori.Andiamo, comincia!, Zan è su di giri.Un recinto basso di legno, un ring di terra battuta ancora vuoto, intorno questi ragazzoni dall’aria un po’ annoiata. O forse molto annoiata. Il problema con la noia è questo: non si può quantificare con le espress ion i come a l t r i s ta t i d ’ an imo. Comunque, tutti questi tizi hanno delle camicie hawaiane e dei pantaloni larghi, e per la maggior parte sono rasati. C’è solo un tipo coi capelli lunghi vestito di nero, è alto e mi impedisce di

vedere chi si sfida su quel ring. Mi sposto, mollo Zan e gli altri due e cerco di capire da me.Niente animali.Sono due ragazzini irregolari, irregolari fino all’ultimo, perché non è tanto regolare sfidarsi su un ring del genere.Il resto sono urla e risate quando uno dei due cade senza versare mezza lacrima, incitamenti a usare più calci e meno pugni, e poi c’è questa cosa delle armi: per alcuni meglio a mani nude, fatto sta che se qualcuno del pubblico passa una bottiglia a uno dei combattenti non s’infrange nessuna regola.Rashid prende la bottigliata sullo zigomo senza fare una piega, la bottiglia non si rompe ancora. Si rompe qualche minuto dopo quando Karim la perde e Rashid non si ferma davanti a un viso che gronda sangue per un leg gero ta g l io su l sopracciglio. Qualche scheggia atterra davanti ai miei piedi. La fisso mentre le urla incitano affinché Rashid finisca lo sconfitto. Potrei pensare a quel film con Russell Crowe, ma osservo solo le schegge. Un altro mondo.

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Sono pulite. Non c’è traccia di sangue. Uno mi spinge e perdo di vista le schegge, questo tipo grosso e pelato è incazzato come una bestia perché l’ultima volta Karim sembrava imbattibile e ci ha puntato duecento euro. Un altro lo prende in giro, dice che è il primo combattimento e non si può puntare tutto così , subito. Al lora comprendo che non è la prima volta che accade tutto questo, e che ci saranno altri incontri. Non avverto nausea.Durante l’interruzione, si torna a bere. Esagero senza un motivo particolare, la vista si fa più confusa. Alì mena forte col sinistro.Karim perde sempre ma è l’unico che disputa più di un incontro. Discreta resistenza.Il piccoletto si fa chiamare Doudou anche se il suo vero nome è impronunciabile, è un vero figlio di puttana e ci mancava poco che tagliasse la gola a uno il doppio di lui.Mohammed cade al tappeto dopo due minuti, qualcuno dice che ha bisogno di un medico ma si riprende, non credo ci sia la possibilità che questi

possano visitare un pronto soccorso in zona.Zan è il più costante in quanto a entusiasmo, c’è chi ha perso già una fortuna e chi ha fatto abbastanza soldi per prendere della polvere e sistemarsi nel cortile con qualche ragazza spuntata in terza serata. Zan scompare anche lui, a un certo punto. Ho puntato dieci euro sul piccoletto, ho vinto e ho continuato con la birra. Niente nausea, solo la testa che vaga, così mi sono seduto su un gradino in attesa che la mia compagnia si ricompattasse per lasciare il posto. Gli incontri finiscono alle tre e qualcosa.Le ragazze spuntano dal nulla e sono a pagamento, meglio il mio gradino. Guardo passare i piccoli combattenti, scherzano e ripercorrono gli incontri mimando quel gancio o quel calcio dritto nelle palle, chi ha perso se la prende e si scaldano gli animi e, Dio mio, penso… penso che dicevo: gli animali no.Qualcuno, dev’essere una sorta di magnaccia, divide i ragazzini e gli dà da fumare. Un uomo piuttosto in là con gli anni con un bizzarro codino

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si accompagna ad una bionda coi capelli corti, ha un Mercedes ed è completamente andato. Alzo lo sguardo. Le stelle come le schegge. Non mi sono divertito, ma ho passato la serata. Non ho la maledetta nausea.Non rimango molto col naso all’insù, avrei studiato volentieri i sentieri lunari, la guancia, gli occhi e il naso, ma Zan e gli altri dicono che è ora e non protesto. Ho fatto fruttare abbastanza quei dieci euro, ci sta ancora un cappuccino e un cornetto, niente di più.Non guida Zan, ha gli occhi rossi e dopo dieci minuti scarsi dorme. Credo si sia sfrenato abbastanza. Si sveglia solo per dire che al Manhattan i cornetti sono buoni. Ci fermiamo, la colazione va giù in silenzio col sonno in agguato, una sigaretta e qualche chiacchiera, “il piccolo menava bene... ci ho fatto venti euro, ma que" ’altro era ma#iorenne... forse non poteva gare#iare... domani andiamo in spia#ia che arrivano quei ragazzi toscani”. Salgo le scale col letto in testa e gli occhi senza più confidenza, sento un rumore: mia madre non

dorme per lo scirocco, allora evito la cucina anche se vorrei solo acqua. Tra due giorni finisco le ferie e magari dormirò di più. Per poi svegliarmi e pensare per mezz’ora che la cosa peggiore è la nausea. Se c’è.

Marco Montanaro vive in provincia di Brindisi, dove è nato nel 1982. Scrive di musica e libri per diversi giornali, riviste e siti web. Ha appena aperto un blog di interviste passionali, a questo indirizzo: malesangue.wordpress.com. Alcuni suoi racconti sono sparsi per la rete. Altri diventeranno a breve un libro da meno di cento pagine.

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saluti a pagamentodi daniele cesario

Alle dieci del mattino di un giorno qualsiasi, dodici persone che vivono a mille chilometri di distanza, alzano un ricevitore e dopo qualche istante lasciano ciò che stavano facendo. Per qualcuno di loro è il primo dispiacere della lunga lista che li aspetta. In meno di ventiquattro ore, quelle orecchie offese si precipitano nella stessa casa. La prima vecchia della famiglia se n’ è andata.Il più giovane di loro, Antonio, si siede e presiede il viavai dell’ultimo saluto. Il dolore è pubblico: la porta è aperta. Gli astanti si riconoscono e non si riconoscono, stringono palpebre e spremono meningi invano: il tempo cancella le facce e ne disegna altre. Gli uomini hanno baffi anacronistici, le donne capelli color rosso menopausa; alcuni di loro ritrovano volti che avevano dimenticato e stringono mani a degli sconosciuti.

I pensieri si infittiscono.Que"o è…Que"o si chiama… … Eppure lo conosco!I parenti stretti, con tono sospensivo si scambiano dei non mi ricordo, gli sguardi s’incrociano e tutti sembrano volersi dire: “ mi ricordo di te, ma non ricordo il tuo nome.” Irriconoscibili: i vecchi amici, sono irriconoscibili. Il flusso è continuo, inarrestabile: i parenti sembrano pensare: “la vecchia non pareva conoscesse tante persone…”Eppure la casa è piena, piena di vita.La casa è piena di morte. Dopo i l cordog l io e le condog l ianze , l a processione lentamente parte. Dopo qualche metro, il vecchio vedovo trova la bontà di dispiacersi per un passero esanime sull’asfalto, proprio sotto i suoi mocassini: vorrebbe raccoglierlo, ma poi… rialza gli occhi davanti a sé e pensa che forse la morte dentro al carro vale di più… anche se per un attimo non ne è del tutto sicuro; riallunga il passo.

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La chiesa si riempie in dieci minuti.Il prete celebra la funzione funebre con un trasporto apparente, quasi come se conoscesse davvero il senso di quello che sta dicendo. Alla fine decine di mani, sudate, ruvide, esili, arricciate le mani dei parenti più stretti stringono quelle degli amici più stretti, come in una filastrocca: condoglianze, la fila si allunga, … anzecondoglian-zeanzecondglzecond.Strette stringono si stringono strette di mano stringenti cuori di stretta misura stretta, stringi mano ma con larghi gesti. Dopo un’ora un buco inghiotte la cassa, le bocche inghiottono muco e sale e allora l’appetito si fa avanti. Inizia il banchetto funebre.Si mangia, si beve e tutti sono come anestetizzati dal vino, ma nessuno dorme. A tavola parlano, uno sull’altro,contemporaneamente, in un delirio di voci sguaiate, per raccontarsi ognuno le proprie piccole vite… dopo essersi ignorati per dieci anni. Tutti urlano e nessuno ascolta gli altri: le origini sono

umili, il dialetto è stretto, arcaico… la Grecia è vicina, anche nei geni di famiglia. Il quadro è la copia sbiadita del passato che è passato.Tutto si conclude con mal testa, medicine e gastriti.Mentre i l nonno, immerso in un si lenzio dignitoso, non versa lacrime e non versa vino: imperturbabile e composto, tace il suo dolore.La vedovanza maschile non strilla, non si dimena, non si veste di morte per anni. È più discreta: un bottone nero sull’asola della giacca è più che sufficiente.Mentre Antonio pensa all’anacronismo di quel funerale meridionale stringe un volante fra le mani e un dubbio s’insinua nei suoi pensieri. “Potevo almeno suonare una marcia… Ma l’organista funebre e massone è stato più lesto di me, più svelto del mio dolore: era già pronto, appo"aiato, come un corvo, dietro l’organo, per salutare a pagamento la gratuità de"a morte”.

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Daniele Cesario nasce nel ’78 in Puglia. Vive in Romagna da 25 anni, ma la sua Brindisi non l’ha mai dimenticata. Scrive da due lustri, per sfogo. Sociologo, lavora in un centro di prima accoglienza e in una comunità psichiatrica. Pianista di un quintetto deandreiano . Ha stampato una raccolta di poesie, una di racconti brevi e una sceneggiatura in forma di monologo teatrale. Nome d’arte Antonio, oggi scrive racconti solo per passione e per urgenza, e forse, è uno scrittore ma non lo sa.

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il non più giovane Holdendi stefano sgambati

Il non più giovane Holden sta ritto sotto la pensilina della fermata dell’autobus: ha i capelli lunghi e lisci e baffi da spagnolo. Le ragazze si girano a guardarlo perché sembra Johnny Depp. Il non più giovane Holden tira su col naso e si strofina le narici con l’indice e il pollice: assomiglia a Johnny Depp ma perfino lui ha capito che i baffi da spagnolo, che i capelli lisci e compagnia bella non gli salveranno la vita; perfino lui, che non sa niente del mondo perché non gli vuole fare questo favore, ha capito che Johnny Depp senza Tim Burton oggi farebbe il commesso della Feltrinelli a Largo Argentina. Lui no, lui assomiglia a Johnny Depp, lui non è Johnny Depp: lui non ha bisogno di Tim Burton per essere qualcuno. Lui non ha bisogno di essere qualcuno. Lui non è nessuno. Non gli serve una benda da pirata sull’occhio: lui lavora da Vobis a Piazza Mancini, assembla i computer e consiglia schede

grafiche ai ciccioni brufolosi che vogliono giocare a Warcraft come dio comanda. E sniffa cocaina.

La cocaina la prende a Via dei Volsci il mercoledì sera, il giorno in cui i cinema sono pieni: lui spende così i suoi soldi, lui non ne vuole sapere. Lui i soldi che non butta in benzina li investe in cocaina a Via dei Volsci. Il non più giovane Holden sniffa, assomiglia a Johnny Depp, tutte le ragazze si voltano a guardarlo: una volta gli è andata male ed è stato ricoverato per quattro settimane. Da allora non ha mai più cambiato angolo. Il non più giovane Holden ce l’ha con le autorità perché proibiscono tutto alla povera gente: il non più giovane Holden, che assomiglia a Johnny Depp e sniffa cocaina, sostiene che la liberalizzazione totale delle droghe, leggere e pesanti, converrebbe soprattutto allo Stato che otterrebbe in questo modo una schiera di elettori rincoglioniti e contenti che non avrebbero più tempo e cervello per considerare l’operato dei politici. Perciò si droga. Il non più giovane Holden. Per non pensare. Per non considerare. La

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cocaina un po’ se la fuma un po’ se la sniffa. Sul lavoro, da Vobis, a Piazza Mancini, i ciccioni che vogliono giocare a Warcraft non si accorgono di niente e tornano soddisfatti a smanettare sulla loro droga al silicio: lo stipendio gli arriva puntuale ogni mese. Dentro una busta gialla. In contanti. In nero.

Alle otto di sera il non più giovane Holden torna a casa. Dai genitori. Perché una casa in affitto costa troppo. Torna a casa dai genitori a via della Balduina e cena in silenzio senza appetito. In bagno gli scende il sangue dal naso e lui rovescia la testa all’indietro come per una risata esplosiva, solo che non c’è niente da ridere: quando torna a guardare il proprio riflesso nello specchio gli sembra che quello non l’abbia seguito nel movimento ma sia rimasto a giudicarlo con severità. “Che vuoi?”, gli dice il non più giovane Holden. Al riflesso. “Che vuoi? Ci tieni o no ad assomigliare a Johnny Depp?”.

Il non più giovane Holden è bello, ha i baffi da spagnolo, assomiglia a un attore famoso di Hollywood. Sul 2 tutti lo guardano, anche gli uomini: gli uomini, soprattutto, sono affascinati da ciò che piace alle donne. Sono affascinati e disgustati e per tutta la corsa del tram cercano un solo motivo per non desiderare di essere come lui. La maggior parte di loro si convince che uno che assomiglia a Johnny Depp non può essere anche intelligente e che l’intelligenza, al giorno d’oggi, è qualcosa che non puoi barattare con la bellezza. Così si regalano la loro concessione quotidiana: chi non si droga deve trovare un altro modo per arrivare alla sera senza impazzire.

Il non più giovane Holden prende il 2, prende gli autobus, tira su col naso tutto l’anno. Il non più giovane Holden non può guidare perché la patente gliel’hanno ritirata: ha investito un passeggino che era stato spinto nonostante il rosso pedonale. Il passeggino è sfuggito dalle mani della mamma e ha fatto un volo esagerato finendo nel Tevere. Il non più giovane Holden è uscito dalla macchina e

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si è piegato sulle ginocchia sulle strisce pedonali: il non più giovane Holden, allora, portava i capelli legati con un elastico rosso. Il cofano della sua Audi era accartocciato e il tratto di asfalto di Lungotevere, tra lo Stadio Olimpico e il Ponte Duca d’Aosta, bagnato e scivoloso e sembrava assorbire i suoni del mondo, tutti i suoni tranne uno, il pianto del bambino in braccio al padre. Il padre del bambino. Aveva gli occhi talmente spalancati, l’uomo, che un altro po’ e i bulbi gli sarebbero colati sulle guance. Allora gli avevano tolto la patente, gli avevano fatto le analisi del sangue ed era risultato pulito, pulitissimo, solo che la presenza in macchina di tre bottiglie di Moretti vuote risalenti forse all’estate precedente avevano fatto eccitare i titolisti della cronaca locale: le diciture “alcolizzato” e “ubriaco” avevano fatto piangere sua mamma. Il tg regionale, inquadrando il piccolo adesivo “S.S. Lazio” sul parafango della sua auto, aveva intervistato un esperto sociologo in merito al fenomeno degli “Ultras“: la vicinanza allo stadio, secondo il luminare, era stato l ’e lemento che aveva

“suggerito all’Ultras il delirio di onnipotenza”. Il processo è ancora in corso e il bambino adesso ha quattro anni e va pazzo per i gianduiotti e Bart Simpson.

Il non più giovane Holden lavora da Vobis senza contratto, guadagna in nero e aiuta i ciccioni ad aggiornare il computer al massimo livello possibile. Non ha mai messo piede in uno stadio di calcio. Coi genitori non parla più da quando quella carrozzina vuota è volata nel Tevere davanti allo stadio Olimpico: non è mai riuscito a convincerli che non era ubriaco. Se i giornali lo hanno scritto, se la Tv l’ha detto, sono convinti loro, allora deve essere vero.

Il non più giovane Holden abbassa tutti e due i finestrini. Guidare gli mancava e anche la Salaria. Il palazzone di Sky gli sfila via sulla sinistra, mette la freccia, scala di marcia: non s’è dimenticato come si fa. D’agosto è più facile farla franca: meno controlli, meno gente. Usa sempre lo stesso metodo: appena ne trova una

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che gli piace, si ferma e domanda il prezzo. Poi si fa un altro giro per rifletterci su e se quando torna sul posto lei è ancora lì allora la fa salire. Si chiama Merlin, che nome del cazzo, è rumena e ha 24 anni: con 30 euro te la scopi in macchina. Sa perfettamente dove andare e infatti ci va: durante il breve tragitto lei cambia le frequenze alla radio e dice banalità sul caldo. Canticchia una canzone di Jovanotti: il non più giovane Holden la guarda mentre non se ne accorge. A macchina ferma non perde tempo: per lei è solo lavoro. Sul pianale dietro al volante sistema una confezione di kleenex umidificati, un pacchetto di fazzolettini normali, da naso. Poi tira indietro il proprio sedile senza domandare come deve fare, si infila in bocca una gomma americana, si sfila le mutandine e scarta il preservativo. Il non più giovane Holden le dice che anche lui ha qualcosa da scartare e lei sorride, perché il cliente ha sempre ragione, solo che non ha capito e quando lui tira fuori una bustina di carta stagnola con dentro polvere bianca, invece che il cazzo, Merlin si tira indietro sul sedile come se

avesse visto spuntare un fucile, e dice no no no, quella roba no io, no. Il non più giovane Holden insiste, col sorriso sulle labbra da Johnny Depp, tira fuori dal vano portaoggetti la confezione di un cd e la usa come pianale di lavoro. Merlin insiste: lei non lavora così, non le piace. Ma come, dice il non più giovane Holden, canticchi Jovanotti e poi ti indigni per un po’ di coca? E intanto continua a preparare, come se la troia non esistesse nemmeno, come se il suo dissenso fosse sperma già colato dentro un preservativo. Ma la troia esiste eccome e forse fa la cosa sbagliata, perché rimette dentro la borsetta i ferri del mestiere e allora il non più giovane Holden la prende per un polso e si gira tutto verso di lei, però stando accorto a non disperdere la polverina in giro. L’ha già fatto, sa come si fa. Le dice di guardarlo in faccia, le dice, guardami in faccia, guardami in faccia. Però intanto stringe più forte e le ossa sottili del polso scricchiolano come fieno bagnato. A me non mi piacciono quelle come te, però mio padre dice che mi devono piacere per forza perché lui ha faticato

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una vita intera, così mi dice, si è fatto il culo per cinquant’anni e allora a suo figlio, cascasse il mondo, gli devono piacere le donne, hai capito come mi dice mio padre? Non ne vuole sapere mica di quello che voglio io. Così digrigna il non più giovane Holden, prima di zittirsi del tutto. Quando le lascia il polso, due cose rimangono dentro l’abitacolo: i segni bianchi sulla sua pelle che si asciugano mano mano che il sangue ritorna a scorrere e gli occhi spalancati dal panico. Sono gli occhi circondati di rimmel di una puttana di merda che è abituata ad essere picchiata e lasciata livida in un angolo e sa riconoscere gli istanti che precedono le botte. Il non più giovane Holden deglutisce e dice qualche altra cosa a voce troppo bassa. Merlin non ha reazioni: guarda e aspetta il momento di saltare fuori. È abituata a farlo: rotolare ai lati della Salaria. Il non più giovane Holden si tira indietro i capelli dalla fronte e si china sulla confezione del cd per aspirare la polvere bianca. Mentre aspetta con gli occhi chiusi sente un rumore secco e poi tanti piccoli rumori che spariscono in lontananza:

adesso è solo in macchina. Al centro del sedile del passeggero c’è un preservativo ancora arrotolato e una borsetta da donna. Cerca di ricordare. Prende la borsetta che non contiene niente a parte altri preservativi, un pacchetto di sigarette, due accendini e un calendario, la annusa, tirando su col naso a fondo per la seconda volta in pochi secondi, e poi si masturba spargendo il suo seme dentro la borsetta di pelle finta. Quando torna sul posto dove ha caricato Merlin, lei non c’è più: al suo posto ci sono altre tre o quattro ragazze che lo guardano in cagnesco e quando fa per rallentare gli lanciano addosso dei piccoli sassi. Non vogliono ferire, non vogliono offendere, non vogliono mettersi nei guai: vogliono solo lasciare intendere che sanno. E che non permetteranno.

Lo capisce.Anche lui fa così col padre. Gli lascia intendere che sa, conosce la sua rabbia. Gli fa capire che non lo perdonerà. Il non più giovane Holden assomiglia a Johnny Depp, gli piace tirare di

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cocaina, prova a farsi piacere le donne a forza di scoparsi puttane. Il non più giovane Holden lavora da Vobis a Piazza Mancini e il sabato pomeriggio, quando ritorna a casa un po’ prima del solito, non trova nessuno ad aspettarlo perché entrambi i genitori sono a Messa. La Santa Messa. Vanno a messa il sabato sera e poi la domenica mattina: il padre si prende la Comunione tutte le volte e quando torna al posto masticando piano domanda le sue preghiere al Padreterno. Il non più giovane Holden sta sulla Salaria, sta cercando Merlin, le vuole parlare, le vuole far capire. Merlin è sparita, Merlin adesso ha paura. Il non più giovane Holden vorrebbe tirarsi su la camicia e farle vedere la cicatrice longitudinale che si porta sul fianco destro: il ricordino di papà. Papà è frustrato, papà prega il Padreterno, gli dice: Dio onnipotente fai che mio figlio porti una donna a casa, soltanto una volta, ma il Padreterno non lo ascolta, allora papà aspetta che il figliolo vada a farsi la doccia e mentre è nudo e indifeso lo immobilizza sotto il getto d’acqua calda e lo minaccia con il coltello per tagliare il pane. Il non

più giovane Holden si porta il ricordino di papà tutti i giorni dietro e anche papà se lo porta dietro tutti i giorni, a messa, sull’inginocchiatoio, nel confessionale. Il non più giovane Holden è bello, le ragazze lo guardano. Lavora da Vobis a Piazza Mancini e gli hanno ritirato la patente perché hanno deciso che è un Ultras: cena sempre coi genitori a casa, perché al padre dà fastidio e a lui piace che suo padre provi fastidio. Suo padre se lo merita di mangiare insieme a lui.

La Salaria gli mancava. Gli mancava il vento in faccia. Il non più giovane Holden passa di nuovo vicino al palazzone di Sky, scala di marcia, mette le freccia. Merlin non c’è più: sarà andata a casa, sarà andata a farsi una doccia. Sarà andata a farsi colare di dosso tutti gli altri uomini che le hanno ansimato sopra. Prima di girare per la tangenziale Est guarda un’ultima volta nello specchietto e le vede ancora lì, in fila, tutte ad aspettare il prossimo clistere di carne che le nutrirà trenta euro alla volta: chissà, il non più giovane Holden si

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chiede, dov’è che vanno le puttane quando la Salaria è ghiacciata.

Stefano Sgambati è nato nel 1980, è un giornalista, vive a Roma, anche se è nato a Napoli. Lavora con diverse testate giornalistiche, la più importante delle quali è RaiDue, RaiEducational per l'esattezza, per la quale scrive, realizza e dirige documentari per la trasmissione "Un Mondo a Colori". Fa un sacco di altre cose, quasi tutte inerenti alla scrittura: anche perché non sa fare molto altro. A parte bere alcolici e parcheggiare in seconda fila con nonchalance.Odia l'ignoranza, la Juventus e l'eiaculazione precoce. Non per forza in quest'ordine.Per il resto è aperto a tutto, senza grossa distinzione tra Bene e Male.

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su con la vita!di viviana capurso

“Su con la vita! Vai a Milano, mica a Caltanissetta, che non c’è niente!”Mia madre cinguettava a sproposito, senza o vv iamente sapere neppure do ve fos se Caltanissetta.Per lei il mondo extra Carabi-Cuba-Sharm, comprende poche città italiane in cui “fa chic” andare. In genere devono avere un golf club o un circolo del bridge per convincerla a posare il suo sedere costantemente nella berlina chilometrica di papà e raggiungerle.“Ti rendi conto? E poi è una grande opportunità per Roberto, non devi pensare solo a te stessa! In fondo puoi tradurre anche lì. Vedrai, pioveranno clienti!”Così aveva sentenziato.“E poi ti verrò a trovare! Mi porterai a fare shopping e ci divertiremo come due ragazzine! Faremo l’happy hour! Così finalmente potrò

divertirmi anche io, tuo padre è una vera noia… ma guardalo…”Mio padre era davanti alla televisione, postazione che prediligeva quando, appunto, non doveva trascinare la sua auto tra golf club e circoli del bridge.Vedevo i capelli bianchi da dietro, mentre con le dita tozze cambiava pigramente canale alla ricerca dei commenti della partita.I l trasfer imento di Roberto era arr ivato improvvisamente, ma per gli specializzandi era una cosa normale. Un posto al Istituto di ricerca Mario Negri non era un’offerta rifiutabile, aveva ragione mia madre.“Su con la vita!” mi aveva detto Roberto, “vedrai che la casa ti piacerà, è una tipica casa milanese di ringhiera, molto trendy!”.La casa “trendy” si era rivelata una specie di casa popolare in realtà.“Tesoro, ma è il massimo dello chic la casa di ringhiera! Anche la Gregoraci ne vuole una! E poi la Bovisa è il nuovo centro di Milano, l’ho letto dal parrucchiere!”

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Mia madre era sempre stato il tipo da letture impegnate.In realtà la casa dentro non era male. Il trasloco si era rivelato però più faticoso del previsto, la zona era considerata periferica e i trasporti erano costosi e lenti, il cortile interno su cui si affacciavano un sacco di appartamenti tutti apparentemente identici, e la portinaia incapace di parlare una parola di italiano non giovavano certo alla situazione.Anche sistemare le cose in casa mi aveva portato via un sacco di tempo, o forse aveva riempito le mie giornate. A Milano di spazio per traduttori free lance sembrava non essercene molto.“Tesoro, lo sai che ti aiuterei volentierissimo! Ma io e papà andiamo alle terme a Salsomaggiore quando tu fai il trasloco… la schiena di papà ne ha bisogno... e anche io se non mi curo un po’ passerò l’inverno piena di dolori… ormai abbiamo un’età in cui non possiamo permetterci di trascurarci…”Mentre mi parlava si guardava allo specchio il viso rimpinzato da poco di botulino, tirando le

immaginarie rughe con le dita dalle unghie lunghe in resina.“Su con la v i ta ! ” a veva detto mio padre riemergendo dal divano dopo essere stato disturbato dal cinguettio insistente di mia madre, “Vedrai che farai la be"a vita a Milano. Lo sai ce c’ al dìsin - papà infarciva sempre le sue frasi con espressioni in friulano, anzi forse spesso accadeva il contrario, infarciva le frasi in friulano con strafalcioni in italiano - Milàn’è un gran Milàn…Lo diceva imitando Massimo Boldi, che era la sua rappresentazione mentale del milanese.Mia madre aveva rincarato la dose. “Bravo Loris, diglielo anche tu, che è fortunata ad andarsene dalla campagna!Mi fa un’invidia!”In realtà a me la mia campagna friulana piaceva abbastanza. Mi mancava la vil la dove ero cresciuta, il prato ampio, la taverna con il camino, l’orto che papà curava sempre… mi mancavano le passeggiate a cavallo vicino a Fagagna…Dalla nuova casa non vedevo che muri scrostati e i panni stesi dei vicini. Stare in una corte interna non mi piaceva granché, d ’ inverno c ’era

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pochissima luce e d’estate, quando il sole batteva, si moriva di caldo.Nel palazzo abitavano più che altro pensionati e immigrati. I miei vicini cingalesi avevano un’insana passione per l’aglio ed una strana spezia che ammorbava in genere l’intero pianerottolo.Quando non si cimentavano loro, sulle scale aleggiava un perenne odore di cavolo che qualcuno metteva su, immancabilmente, intorno alle nove del mattino.D’estate la signora del secondo piano e quella del terzo non ascoltavano tutte le telenovelas come avevano fatto d’inverno – per tutto il giorno - si mettevano in cortile con due sedioline con la scusa di prendere i l f resco, in realtà per controllare l’andirivieni.La mia dirimpettaia avrà avuto una sessantina d’anni, i capelli di un improbabile color carota e i denti giallastri. La sentivo spesso lamentarsi della crisi e mi chiedevo come mai alla sua età non fosse in pensione. Poi un pomeriggio, alle tre, l’avevo incontrata dalle parti di viale Jenner, in una viuzza

interna. Era all’angolo della strada. Una macchina si era fermata e l’aveva tirata su.Così avevo capito anche il suo lavoro. “Su con la vita!” mi aveva detto Roberto, “Vedrai che con i nuovi colleghi faremo un sacco di aperitivi nei locali fighi di Milano”.In effetti i colleghi organizzavano davvero spesso delle serate, però non invitavano mai le mogli o le fidanzate.Roberto era sinceramente dispiaciuto anche se non lo dava troppo a vedere.Aveva cominciato a “tirarsi”, aveva comprato le Nike Air per il tempo libero e un paio di pullover di Ralph Lauren. “I miei colleghi sono tutti con la puzza sotto il naso – aveva detto storcendo la bocca – non posso sembrare uno sfigato.”Tornava a casa tardi, si cambiava ed usciva di nuovo dandomi un bacio frettoloso sulle guance.“Su con la vita!” diceva mia madre, “Èimportante essere curati sul posto di lavoro! Devi pensare alla sua carriera non sempre a te stessa!”In realtà io di lavoro non ne avevo affatto, più che altro pulivo casa e cucinavo.

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Stamattina ho visto uno scarafaggio in casa e mi sono spaventata.L’ho detto alla portinaia che puliva il cortile imprecando contro i piccioni.“Su con la vita, tusa, l’inverno è vicino, d’inverno ci sono meno scarafaggi in giro!”.

Viviana Capurso è nata a Udine e sopravvive a Milano. Per lavoro scrive, nel tempo libero invece scrive. Lavora per pagarsi le borse firmate e legge molto. Principalmente i cataloghi di borse firmate. Al lavoro porta gli occhiali per sembrare intelligente. È bionda naturale per cui parlatele lentamente e scandite bene le parole quando vi rivolgete a lei.Fa parte della redazione di inutile e sì, questa ce la siamo giocata in casa.

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