Una contea della notte -...

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Massimo Monsagrati Riccardo Paolo Uguccioni UNA CONTEA DELLA NOTTE Edizioni del Resto

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Massimo MonsagratiRiccardo Paolo Uguccioni

UNA CONTEA DELLA NOTTE

Edizioni del Resto

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MASSIMO MONSAGRATIRICCARDO PAOLO UGUCCIONI

Nati nel 1948, pesaresi entrambi, l’uno di adozione, l’altro di nasci-ta, hanno frequentato il Liceo Classico cittadino e in Urbino si sono laureati. Dopo un breve periodo di lavoro in Alta Italia, sono tornati a Pesaro ove lavorano e risiedono.

Una contea della notte di Massimo Monsagrati e Riccardo Paolo Uguccioni, Pesaro �007, è un’opera distribuita su Il Resto della Pesaresità:http://restodellapesaresita.splinder.comFonte: Una contea della notte, edizione di Pucelle - editori in Pesaro, stampata nell’ottobre del 198� dalla Tipografia Nobili a Pesaro.

Copertina:foto di Daniele Continigrafica di Camilo Rocca - Studio Aliante

Quest’opera è stata rilasciata sotto la licenza Creative Commons Attribuzione-Non commer-ciale-Non opere derivate 2.5 Italia. Per leggere una copia della licenza visita il sito web http://creativecommons.org/licenses/by-nc-nd/2.5/it/ o spedisci una lettera a Creative Commons, 171 Second Street, Suite 300, San Francisco, California, 94105, USA.

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CAPITOLO I

L’ultima sera d’estate del 1977, nell’imminenza del poker not-turno, il professor Stefano Tis ancora una volta percorse il viale che conduceva al porto. Come non accorgersi che quasi suo malgrado stava prolungando l’uscita serale consueta per prendere congedo dalla fuggente stagione? Alle otto non c’era più nessuno in giro, il mare risuonava come nell’Iliade e il vento aveva per tutto il gior-no portato sabbia fin sull’asfalto, oltre i marciapiedi. Camminando, la sabbia cedeva piacevolmente, ancora inconsistente. Ma le lunghe strisce gialle sulla strada, disposte dal vento in forma di minuscole dune, parevano l’avanguardia di un avanzante deserto in una città finalmente abbandonata.

In fondo al viale, i moli senza gente davano sensazione di umi-dità e solitudine. In fretta era scomparso il Luna Park con le sue rimediate attrazioni, le carrozze con cavi grandi e piccoli e le lampa-dine sospese sugli ingressi.

C’erano già state altre sere percosse dai primi acquazzoni per fare il grande poker che precedeva da almeno dieci anni l’inizio della scuola: ma questa sera di settembre, sul limitare incombente della cortina dell’anno scolastico, era davvero l’eletta, che avrebbe dato al perdere o al vincere quella specie di malinconia che riempie ogni cerimonia e ne costituisce la più segreta verità.

Per uno che di mestiere stia a scuola, l’anno non comincia mai il 1° gennaio, sarebbe ridicolo. Non è tra il clamore e i balli e i botti e lo spumante che uno sente finire qualcosa e, bene o male, è costret-to a guardare davanti. L’anno comincia invece quando una mattina si entra fra altri clamori e turbinii di ragazzini. Il 1° d’ottobre, una volta. Adesso a settembre, con quel poco di sole in più a confondere inutilmente le idee. Sulle pareti ci sono ancora i pessimi disegni dei licenziati dell’anno prima, le colleghe si raccontano inezie con esa-gerata allegria, molti sono cambiati, assai presente la sensazione del tempo che fugge senza curarsi di noi.

Così, la sera della vigilia, c’è il poker notturno in cui si pren-

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bilitata Costa Azzurra. Con la scuola, dall’indomani, il sole si sareb-be fatto sempre meno invadente e avrebbe illuminato le colleghe in mezza stagione, il primo consiglio dei docenti tra urla, risse, barzel-lette, il preside depresso e immerso nei suoi conteggi di aspettative e riscatti per fuggirsene prima.

Tis perse da mezzanotte alle due. Solo chi cade, dicono i film, può risorgere. Ma è assai meglio ignorare cosa ci sia in fondo alla caduta che provare il dubbio privilegio di risalire. E a poker ogni resurrezione è sempre incrinata dalla precarietà. Sebbene, l’idea di aver accumulato con debiti e carte disgraziate credito verso la fortu-na, provochi quella febbre che spinge il vero giocatore, cioè ancora il perdente, verso la rovina e il buio. Non abbiamo detto che il poker è un’imitazione della vita?

Tis continuò a perdere.Gli servivano un 7 o un 10. Le mani tentarono il mazzetto e,

piano piano, ancora uscì il segno della Dama di Picche. Ancora? Che vuole dirgli? Il gioco è perso. Tis passa. “Fate due mani senza di me” dice, e esce dalla stanza. La casa è immersa nel buio. Di là l’avvocato Cassiani parla delle studentesse di Urbino. Fra i piedi di Tis si stru-scia l’onnipotente gatto nero. Con opportunità, nessuno gli ha chiesto notizie della moglie, neanche Londei che sa tutto, anche i particolari, ed è uomo di sensibilità e gusto malgrado la fisima di vestire come un ragazzino. Entra nella camera del bambino. Tutto sembra uguale, ma la copertina a fiori copre il nudo materasso e quella stanza è buia da mesi. Sul lettino, l’orso di pezza senza un occhio guarda Tis con disapprovazione. “Hai ragione” dice Tis all’orso “che uomo sono?” Torna di là.

Nel corso di perdute sere, uomini e padroni di regni felici per-sero fra le palme fortune del petrolio, ville, eredità, i gioielli della mamma, parchi secolari, ferriere. Nei saloni pieni di specchi si ri-fletterono nobili, donne perdute, ufficiali che rubarono la cassa del reggimento, orientali pieni di languori e vizio. Il perdere e ancora perdere avvicina il semplice all’uomo famoso, si ha la sensazione di vivere sotto lune fatali e i viali del parco di notte, nella disperazione, chi li dimenticherà? Chi perde conosce il peccato, l’unica vera forma

dono in giro e si confortano, con qualche asprezza, i superstiti di vasta compagnia d’amici. Il professor Mauro Londei, amico e in-timo di Tis anche nella certezza di un mestiere sbagliato; l’avvoca-to Giancarlo Cassiani, che parla di donne inguaribilmente; il dottor Giampaoli, direttore dell’Archivio di Stato; il bancario Aiello, che in genere vince. Donne nessuna: non sanno mai chi ha aperto e non capiscono il meccanismo di quelle scale reali che peraltro nessuno ha mai visto. Negli anni passati giravano per casa la moglie di Tis, spedita poi alle nove con la cugina in un qualsiasi cinema, d’autorità, e il figlio, messo a letto con abbastanza malagrazia. Ma costei non c’è, quest’anno, perché mesi fa se ne andò a Urbino dalla madre con le pendenze legali che sarebbero state regolate poi.

Anche per questo Stefano Tis cammina da solo sul lungomare e ogni tanto calcia nella sabbia.

Il poker è un’imitazione della vita: persino il colore delle sue carte, il rosso e il nero, è esemplificazione del vivere, della legge dei contrasti, della luce e dell’ombra. Nessun giocatore appassionato dice che il poker è solo un gioco di carte. Gioco sì, anche. Ma proprio come la vita, la quale obbedisce a sue regole e invisibili tracciati pro-prio quando a noi pare di dominarla. Nelle carte c’è tutto: la potenza del denaro, l’inganno punito e quello premiato, il debole che cede, i giri della sorte. E poi c’è la Dama di Picche.

Il vero giocatore, cioè colui che perde, la conosce bene: è la carta che annuncia il prevalere del destino sulla fortuna e sulla ma-tematica del gioco. Tis, cercando rivincita su un piatto ricco con in mano assi e dieci, si vide salire dal mazzo la nera regina. Così, al-l’improvviso, senza ragione e senza che gli altri se ne accorgessero, egli si rabbuiò e riconobbe nella carta vaghi presagi.

Verso la mezzanotte fu evidente che l’estate era finita: dalla finestra l’aria soffiava decisa e fresca, e una sfumatura di preoccu-pazione per l’ora passò nella mente di Tis: alzarsi domattina, per la scuola: se si finiva molto tardi meglio non andare a letto per niente: meglio guardare l’alba facendo il caffè, sentirsi in un quadro di smo-

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La mano seguente e la successiva nessuno aprì, il piatto crebbe e la fine si allontanò ancora un po’.

“Allora chi è che vuole la tesi?”“Non so molto” disse Tis, “uno che può, mi telefona, dice che

devo dargli una traccia, un’ idea...”“Figurati, una traccia” disse Giampaoli, “sarà già molto se non

vuole anche il titolo.”“Si apre ai re.”“No.”“Passo.”“Tremila” disse Aiello.Perché non ho niente? pensò Tis. Guardò due miserabili coppie

svestite che aveva in mano, otto e dieci. Perso per perso.“Ci sto” disse con sicurezza solo apparente.“Anch’io” si aggiunse Londei.Giampaoli passò, Cassiani anche, che andò alla finestra e con

le spalle al buio della notte guardò il gioco.“È un bel piatto” sentenziò.“Una” chiese Aiello.“Una” chiese Tis. Ha una doppia - pensò - e sono fregato anche

se non fa full. Forse va a scala e ha scartato la coppia. Oppure ha un tris e lo maschera. Mise la carta tra le altre, senza guardarla. Londei ne chiese due, le aprì svelto, richiuse le mani e si guardò in giro. Era chiaro che non aveva niente.

“Che piatto” ripeté Cassiani.“Cip” disse Aiello.“Tempo” chiese “tempo al rilancio.”Guardò le carte lentamente e vide tre otto in fila: aveva full.

Forse Dio c’è e ascolta anche i professori. Prima che ci potesse riflet-tere udì la propria voce.

“Sì, cip.”“Tremila” disse Londei provandoci, con le carte strette nel

pugno.“Fino a cinquemila” ribatté Aiello.“Cinque più cinque” fece Tis.

di piacere concessa agli uomini: questo sa Tis, che a una settimana dal prossimo stipendio non ha più un soldo. Ha sempre ricordato con orgoglio le sue sere sfortunate, alcune sono entrate nella leggenda. Ma questa non gli piace. Un possibile avvilente progetto gli torna a mente. Un lavoretto, un lavoro che non ha voglia di fare. Certo, biso-gnerà parlarne mentre girano le carte.

“Quanto pagano una tesi?” chiese Tis.“Due carte” disse Londei.“Quattromila.”“Passo.”“Che tesi?” chiese Giampaoli raccogliendo il mazzo.“Una tesi sull’agricoltura nel Pesarese. Alle soglie dell’Unità.”“Tre, quattrocentomila” provò Londei.“Dipende” disse Giampaoli che all’Archivio era tormentato da

studenti che facevano tesi locali.“Mi avete rapinato più di cinquantamila lire” spiegò Tis.“Invito di cinquecento. Qualcuno fa il buio?” Il bancario Aiello

disse di no. Le carte fischiarono sopra il tappeto e Tis vide una pattu-glia di facce e numeri in una confusione senza speranza.

“Verrai all’archivio?” chiese Giampaoli.“Per forza.”“Apri?”“Guai se aprissi!” disse Tis. Altri giocarono e vinsero.“C’è ancora l’uso di esigere una tesi dagli studenti?” intervenne

Aiello.“Sì” disse Tis “è rimasto questo strano uso.”“Credevo che la laurea venisse attribuita d’ufficio al ventidue-

simo anno” disse Aiello. “Mille per giocare.”“Ci sto.”“Va bene. Forse ci arriveremo fra poco” disse Tis.“Sei un provocatore” intervenne l’avvocato Cassiani che si te-

neva per progressista. “Chi ha aperto?”“Chiamo tre giri” disse Tis.“Uno” si oppose Cassiani “tanto non ti rifai.”“Tre.”

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radio e Glenn Miller gli fece sognare l’America con le sue pianure. Il gatto gli salì sulle gambe.

Quando riaprì gli occhi andò in cucina e finalmente si accorse del quadro sul lavandino. Lo portò di là e maledisse Cassiani perché il chiodo che lo reggeva era sparito, mise l’elenco sotto il telefono, tornò in cucina.

Con forte sensazione di giovinezza e di vizio bevve il caffè guardando l’alba che cominciava a sbiancare il mondo.

Il cuore gli batté a lungo destando echi, come il vento che sof-fia sugli abissi della terra. Cassiani si avvicinò. Se Tis avesse per-duto anche con il full, la malinconia sarebbe divenuta angoscia. Ma registrò il fresco della notte, il “passo, diomadonna” di Londei e il rilancio di Aiello che non veniva.

“Una carta, vero?” chiese Aiello che lo sapeva benissimo.“Una” rispose per Tis, Giampaoli.“Vedo le dieci” disse Aiello.Tis abbassò le carte e vide Aiello posare le sue e spingere i

lucidi gettoni verso il centro.“Conta” si arrese Aiello “buono il full.”Alle quattro il gioco finì e malgrado quel piatto Tis doveva an-

cora quarantamila agli altri e non le avrebbe trovate che da Londei.“Fra quattro ore a scuola” gli disse chiedendogli i soldi e ga-

rantendo per il ventisette. Londei andò ad aprire il frigo.“Mi andrebbero due spaghetti.” Poi vide che non c’era niente.“Un po’ d’aglio e un po’ di pepe, l’olio...” provò Aiello.“Sì, una cosa semplice” ripeté Londei “due spaghetti.”Ma Cassiani scrutava nella notte e disse di no. Londei insisteva.“Sembri Craxi” gli disse Cassiani. Londei smise di insistere.

Anche Aiello ammise che era tardi.“Mi sa che ci vedremo all’archivio” disse Tis.“Quando?” chiese Giampaoli.“Prima è, meglio è: prima comincia e prima finisce. Non ho

una lira.”“Prima i soldi” gli raccomandò Giampaoli, “prima i soldi, poi

la tesi.”Londei gli strinse la spalla, e, nel frattempo Cassiani era uscito

con l’elenco del telefono, un quadretto con casa cipressi e lago, for-chette, un coltello. Li lasciò per le scale e se ne andò rumorosamente, invano ripreso dagli altri, più civili.

“Deficiente!” gli urlò dietro Tis. Raccolse e portò in cucina le forchette, ma anche il quadro e l’elenco del telefono che mise sul lavandino senza capire dove fosse la stonatura. Dalla poltrona del salotto buono, che la moglie aveva tenuto sempre chiuso, accese la

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CAPITOLO II

Il bello della scuola, quando comincia, è che in genere finisce presto. Ulula nel corridoio il professore incaricato di sostituzioni, minacciando il primo certificato. Mestamente si duole il preside, e prende Tis per il braccio chiedendo novità sul pensionamento.

“La mia disgrazia è di non aver fatto la guerra” spiega a Tis “non ho avuto i sette anni di ex-combattente. Che vuol farci? Avevo una gamba più corta dell’altra...”

Nel corridoio fuggono i ragazzini, il bidello indica nervoso a Tis la classe II C.

Ha gli occhi fuori della testa per la notte in bianco. Manca il professor Boni che vuole i murales, perché è in permesso sindacale: di questo si allieta il preside che molto lo teme e volentieri farà le sue ore sperando che non torni più. Ma Boni tornerà.

Arriva Londei che è in ritardo, elegantissimo con foulard di seta. Le colleghe escono dalle classi per applaudirlo.

“Mi devi quarantamila lire” ricorda benevolo a Tis passando con aria allegra “sono in ritardo, vero? Mica vorrai arrivare presto il primo giorno, tanto è tutto un casino...”

“Anima felice” gli dice Tis che invidia il suo aspetto losco. Fra un anno suo figlio andrà a scuola e Tis ricorda le sue gambette spor-che con furibondo amore.

Nel clamore e negli stridii dei banchi spostati passano due ore. Ogni anno i bidelli mettono i banchi in fila e in un quarto d’ora co-mincia il gran galoppo: tutti in cerchio, due mezzelune, un anfiteatro, a mucchi sparsi, a cellula, a banco di tribunale. Stridono i legni sul pavimento, navigano le cattedre come atomi nel caos e sul volto della vecchia bidella è ferma la maschera di chi ha visto tanta vita passare e tanto rumore perdersi nel nulla della Storia: coi fiori nei capelli lei applaudì gli Americani che arrivavano sui carri armati, passerà anche questa.

Alle dieci e mezza la scuola si vuota: sbattono le porte, la pol-vere di gesso, come cento anni fa, danza nei raggi di sole delle classi

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“Pare di sì.”Boni e Gladioni spiegavano con grandi gesti il mondo ai loro

assisi giovinetti.“Li vedo, ma che fanno?”“Seguono il movimento...”Alle loro spalle una gran scritta rossa diceva ALICE VOLA.Già, ma verso dove? Qual era la meta? Il privato, l’oriente,

qualche nuova aggregazione di gente che scoprirà di odiarsi? Gli in-genui volti, i giovani corpi di quei ragazzetti non esprimevano né quiete né innocenza. Dove Alice avrebbe fermato le ali?

L’idea dell’aperitivo era venuta a mezza città e la confusione nel bar era simile a quella della scuola or ora riaperta. Si portarono i bicchieri quasi sulla porta e Londei beneaugurò con cattiveria alla tesi che l’amico era costretto a scrivere. Gli studenti passavano a sezioni intere.

“Londei” chiese con cupezza Tis, “che ne è della nostra giovi-nezza?”

deserte. Mentre Tis è un monumento funebre sulla cattedra, entra Londei.

“Che fai qui? Indovina cosa mi ha detto un ragazzino.”“Che ti ha detto?” chiede stancamente Tis.“Professore, con quel che la pagano dove trova tanta voglia di

lavorare?”“Un vero italiano” dice Tis.“Ti offro l’aperitivo.”“No. Devo passare in archivio per la tesi...”“Ma no, andiamo in piazza. E poi non so come spendere i tuoi

soldi.”Come due angeli, Tis e Londei escono incontro al sole di set-

tembre.

Nella piazza batteva, come è ovvio, lo stesso sole che aveva turbato le polveri della scuola. Tis e Londei vi pervennero nel bru-lichio di studenti a spasso e massaie con la borsa, tutti partecipi di quell’incertezza del destino che coglie la gente a un’ora assurda come le undici. Il destino delle undici è il più possibilista di tutti; si è fuori casa, si farebbe a tempo a fare chissà che, si è incerti fra un bis del caffè o l’aperitivo, come minimo si può ancora decidere di andare a pranzo in campagna. Forse è per questo che tanta gente si ripara dal-la sorte coprendosi le spalle con una colonna, seduta sui gradini del palazzo del Comune. Fra questi seduti spiccano le figure, una grande e una piccola, dei colleghi Gladioni e Boni. Li circondano ragazzi, ragazzotti, giovanetti. Sinite parvulos, è giusto. Alcuni sono sdraiati, altri disegnano le colonne, altri fumano, si siedono reciprocamente sulle ginocchia. Oh, com’è bella la vita.

Londei guardò pensieroso e non vide la sua morosa. Si ralle-grò. “Che fanno Boni e Gladioni?” chiese dell’umore che inclinava allo scherzo.

“Rifiutano di invecchiare” rispose Tis con esagerata compren-sione del genere umano. “Fanno la corte ai ragazzini.”

“Ancora?”

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CAPITOLO III

Maledicendo il gioco e sconfortato dall’idea del lungo lavoro di consultazione, Tis guardava le parole fuggire: “Non sommansi che �80 rubbia di grano, ristretta la riserva a favore del Collegio Unga-rico...”

Non aveva interesse per le vicende di tale collegio e una lettera che pareva estranea ai commerci del grano, apparsa al girar della pagina, lo distolse del tutto dalla Relazione della Sacra Congrega-zione ad referendum sui diritti promiscui (Roma, 1847). Allontanò i fogli per andarsene al bar. Per strada passò davanti ai leoni di pietra che sormontavano i cancelli della Benelli. Un gatto prendeva il sole ai piedi di una delle belve. Tutte e tre parevano guardare l’edificio moderno che ospitava l’Archivio di Stato ed altri uffici. Al bar bevve il caffè con scarsa soddisfazione, non potendo leggere la pagina spor-tiva contesa da altri lettori. Bisognava tornare.

In sala-studio c’era solo lui. La sala dava su un cortile del pa-lazzo, dove un albero tendeva i rami fino a sfiorare il cemento. Di fronte, larghi vetri mostravano altrettanto interni di uffici. Nell’archi-vio c’era una luce quieta: in questa Tis volentieri si era rinchiuso per ore ed ore della sua vita. “Vai pure all’archivio, carino” era stato uno dei commiati, non il più tristo, di sua moglie al momento di andarse-ne. Riprese la Relazione tentando di appassionarsi alle vicende delle servitù di semina. Invece aprì la lettera che aveva notato anche prima e l’elegante grafia ornata gli parlò di un antico rimprovero.

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A un lettore occasionale, il documento sarebbe parsa una mi-nuta che con frequenti correzioni mostrava le limature subite dal te-sto. Ma la consuetudine di Tis con documenti coevi, colse qualcosa di sorprendente nella procedura del fatto. Cento e più anni prima, monsignor Pasquale Badia, delegato apostolico di Urbino e Pesa-ro, s’era degnato di scrivere al parroco di Trebbiantico, esprimendo scontentezza per un sermone che aveva – imprudenza gravissima! – turbato i fedeli. Il rimprovero era espresso direttamente e non tramite la cancelleria vescovile: ciò significava che il “fatto di Sangue” e il sermone che ne era seguito erano cose al di fuori dell’ambito canoni-co, richiedevano procedimenti inconsueti e un’altrettanto inconsueta urgenza. “Dicerie assurde”, “Onoratezza di un Gentiluomo”... Co-s’era successo da far perdere la testa a un prete di campagna, al punto che la massima autorità della provincia gli scrivesse un biasimo di quella portata? A Trebbiantico poi, dove sei anni prima s’era svolto il pranzo di matrimonio, inizio della lunga guerra con sua moglie? Tis si incamminò verso l’ufficio del direttore. La Relazione sui diritti promiscui rimase abbandonata sul tavolo.

Giampaoli era al telefono. Fece cenno a Tis di accomodarsi e congedò l’interlocutore lontano.

“Ciao.”“Ciao. Volevo farti leggere questa.”“Cos’è?” chiese il direttore aprendo la lettera. Lesse ed ebbe

qualche cenno di meraviglia. Chiese all’amico dove l’avesse trovata.“Fra le pagine di una relazione.”“Il vizio del poker finisce per servire la causa della cultura”,

rise Giampaoli.“Come ci sarà finita?”“Non so davvero.”“Te l’ho portata perché mi è sembrata strana. Non so a cosa si

riferisca, ma mi ha sorpreso il tono del rimprovero.”“Non c’è dubbio” convenne Giampaoli. “Per gente che pesava

quello che scriveva, anche se togli il bello stile, qui il rimprovero è gravissimo. Chissà che diavolo sarà successo: una predica che eccita gli animi, il delegato che interviene...”

Governo PontificioDelegazione Apostolica di

Urbino e Pesaro

Molto Illustre e Rev.do Sig.Sig. Don Antonio BacchianiParroco di Trebbio Antico

Di assai scontentezza è stato il rapporto del Rettore Sig. Nico-la Nardi, che informava richiedutone questa Delegazione del fatto di Sangue prontamente soggetto agli adempimenti prescritti, da parte della Gendarmeria, avvenuto nei fini della Vs. Parrocchia il 21 dello spirato mese.

Non ché l’uccisione, della quale esatta invenzione, secondo le abbassate disposizioni, fecero e faranno l’Autorità e la Forza, il Vs. sermone, proclamato dall’altare, null’altro à adempiuto, se non eccitare gli animi.

Il prefato Rettore, che per rispetto al S. Sacrifizio, à pur pre-sente taciuto, commette di esortarVi a non turbare lo svolgimento dell’Inchiesta, che, con zelanti ricerche, svolge la preposita Gendar-meria, segnatamente a non dar alimento a voci stolte, che sempre, nel Popolo, ànno luogo in siffatti casi.

Abbiate dunque cura che si plachino le dicerie assurde, me-schinamente levate sull’Onoratezza di un Gentiluomo; istigate le Anime alla Preghiera, secondo le Intenzioni della Santità di Nostro Signore felicemente regnante.

In tale intelligenza, mi riconfermoPesaro, lì 2 Dicembre 1857P. Badia

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CAPITOLO IV

Il professor Tis assegnò gli esercizi per casa un attimo prima che suonasse il campanello. Poi, tra l’agitazione della classe che ri-poneva i libri e si scomponeva verso la porta, si avviò al corridoio sfiorando un gruppetto di colleghi che sbarrava la via.

“Guarda qua, Tis. Anche con l’orario ridotto ci tocca sosti-tuire.”

“Che vuoi farci?” rispose evasivamente Tis.“Ma è il principio che conta” ribadì il collega noto per il suo

analfabetismo, “l’inefficienza sistematica è negazione del principio di scolarità.”

“Ma quale principio di scolarità” intervenne un altro infilando la porta. Si affiancò loro il solito paio di colleghe.

“Il �8 c’è la conferenza sulla professionalità. Ci venite?”“Mai” disse Tis.“Il relatore chi è?” chiese un’altra.“Quel Crimelli che ha tenuto a Covignano l’incontro-dibattito

sull’individualizzazione degli itinerari di apprendimento.”“Gli itinerari della mona” disse Tis che aveva insegnato in Ve-

neto.“Di che?” chiesero le colleghe.Ma già Tis abbandonava le loro chiacchiere e si dirigeva al

parcheggio. Due minuti dopo lasciava l’auto in sosta vietata e si pre-cipitava dentro il negozio del Corso.

“È arrivato. L’ho visto in vetrina.”“Che cosa?” chiese la commessa riccia e dalle lunghe gambe.“L’ultimo Focke Wulf” esclamò Tis salendo le scalette che por-

tavano al retrobottega, “ne prendo tre.”Si impossessò delle scatole. Sul coperchio la lunga sagoma del

caccia picchiava su uno sfondo di incendi. Un quadrimotore ameri-cano si avvitava in un bagliore di fiamme.

“Quanti mesi sono che l’aspettava?” chiese amichevolmente la commessa che aveva sfilato il piede nudo da uno zoccolo e lo posava

Tis riconobbe i segni dell’avventura che capita a volte ai fre-quentatori degli archivi: il manoscritto d’altri tempi, il documento imprevisto, il bandolo di perdute cose.

“E il seguito dove lo trovo?”“Quale seguito?”“Il resto dell’incartamento.”“Se c’è, è nel fondo del tribunale. Per un morto ammazzato

dovrebbe esserci l’istruttoria.”Aprì un armadio e ne cavò un inventario. Lesse, girò le pagine.

Tis restò in poltrona.“Ecco qua” disse alla fine il direttore, “per il 1857 puoi vedere

dieci cartelle, a partire dal numero 179.”Giunse in quel momento il suono della sirena della fabbrica al

di là della strada, e parve di udire il brusio del mondo del lavoro che si consolava uscendo per strada o per la mensa.

“È mezzogiorno” disse Tis. “Posso avere le prime buste? Poi torno domani.”

“Senz’altro” rispose Giampaoli, “te le faccio prendere.”Un’ora dopo Tis scendeva in strada. La luce era tersa, il colle

sotto il faro manteneva il verde estivo. Il sole di settembre scendeva dai muri e dalle gronde. Altissimo passava un aeroplano: appena, tracciata, la scia bianca già si sfilacciava nel cielo luminoso.

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a considerare le città di allora: i gendarmi, i bastioni, le fontanelle, Rocca Costanza e gli Svizzeri con le bandoliere bianche.

Ululò la solita sirena della fabbrica di là della strada, e gli riac-cese la fretta. Riprese il lavoro su altre cartelle del fondo del Tribu-nale. Cercava solo i procedimenti di morte contro ignoti, e faceva alla svelta. Dopo mezz’ora ne chiese altre quattro. Alla sesta ebbe fortuna. Un esile fascicolo recava l’intestazione “morte riputata ex scelere, poi rinvenuta casuale, di Giuseppe Andreoni, bracciante”. Ne trasse un primo foglio che decretava l’archiviazione del caso, e un secondo nel quale lesse:

Trebbio Antico, 30 Novembre 1857Relazione a S.E. Rev.ma sull’ammazzamento di Giuseppe An-

dreoni avvenuto in Trebbio Antico il 21 Novembre 1857, e de’ Rumo-ri che ne corsero.

Eccellenza Reverendissima,In ordine a quel tanto che V.E. Rev.ma mi à richiesto con Ve-

neratissima Sua del 27 corrente, sono prontamente a significarLe quanto voluto.

Vivesi la Villa di Trebbio Antico compendiata in 73 fuochi e contenta di quel piccolo guadagno, che dà vita agreste e silvana; turbar mai sempre la Villa i passati torbidi del Governo de’ Demago-ghi, or sono ott’anni; resta tuttora lieta sotto il Reggimento de’ pas-sati, come del presente Preside, non fosse che per l’Ammazzamento avvenuto il perduto 21 Novembre.

Erasi di Sabato, e taluni trascorrevano in letizia le ore del-l’imbrunire nella Locanda del Gallo Bianco: qui passano le ore del riposo, come si suole, alcune genti dopo parco desinare, in brigate più numerose la sera del Sabato, rallegrate dall’appressarsi di quel Riposo Santo, che Iddio volle per Sé e per gli uomini. La sera del

con grazia sull’altro. Neanche diciott’anni. Beato chi ti piglia - pensò Tis immaginando la commessa inseguita da un giovane biondo su un bordo di piscina fra canti e Coca Cola, come nelle pubblicità che tanto dolgono a chi le donne non le ha più.

“L’ho aspettato per una vita. Quasi come l’amore” rispose Tis alla ragazza. Quella ridacchiò rimettendo il piedino al suo posto. “Me li segni sul conto. Mi dà anche la colla liquida.” Mise la colla in tasca. Non aveva imparato nulla da quando la rottura di una bottiglia gli aveva fuso l’intera tasca di un impermeabile nuovo. Gli urli della moglie, in quell’occasione, avevano toccato vertici di perfezione.

“Oggi è più carina del solito” provò timidamente Tis.“Segno tre scatole sul conto” rispose l’altra con serietà. Tis

uscì a sottrarre la macchina alle attenzioni di un vigile. Partì per il Corso e virò verso l’archivio. Si inoltrò nei modernissimi anfratti.

Quando cominciò a leggere la luce si abbassò dai finestroni: le prime nuvole coprivano il sole. Non poté fare a meno, furtivo, di togliere l’aereo dalla scatola. I carrelli erano perfetti, gli steli delle gambe di forza avevano gli ammortizzatori in rilievo e le ruote mo-stravano la bullonatura. Ne assemblò i pezzi essenziali – carlinga ali timoni – a incastro. Sebbene traballante, la linea del caccia fu evi-dente nel suo gelido slancio. Tis lo sollevò verso la luce: la plastica grigia traspariva nelle parti più fini. La piccola cabina aveva i mon-tanti ben in rilievo. Forse non ci sarebbe stato bisogno di lucidarla, vecchio trucco ignoto alle masse, con il dentifricio.

Con le dita strette alla fusoliera, Tis accennò una virata. Incon-trò il viso della segretaria sbalordita sulla porta. L’aereo umiliato si abbassò e ricadde nella scatola.

“Per mio figlio, sa...” accennò imbarazzato e arrossito Tis.“Procede bene la ricerca?” chiese educatamente la segretaria.“Oh, bene... benissimo...”Tis ricacciò la scatola del Focke Wulf e riprese i documenti.

Scorsero sotto i suoi occhi nomi, fatti, preghiere e rescritti: Ebrei che imploravano di potersi recare alla fiera di Senigallia, municipi che chiedevano l’anticipazione della vendemmia, possidenti che recla-mavano contro “deplorati abusi”. Leggendo cose del 18�7, si perse

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cui die’ fiato l’Ill. Sig. Don Bacchiani. Il predetto parroco, d’abitu-dine Uomo Prudentissimo, dall’accaduto parve alquanto sconnesso; tenne alla S. Messa infocatissimo Sermone nel quale tuonò contro il Demonio, riprese qualche pregiudizio che il Volgo in sua nescienza pretende; segnatamente un antico corpo di superstizioni, che in Villa si à contro la Casata Baldassarri.

Conobbe di certo V.E., le voci di che il Volgo illetterato vien colpendo, or son più anni, la Casa di detto Conte, uomo invero schi-vo e appartato, di certo Galantuomo specchiato e ligio, al tempo dell’intrusa sedicente Repubblica, alla Santità di Nostro Signore fe-licemente regnante. Arrossirei, non fosse pel dovere richiedutomi, nel dire che del prefato Conte si pretende qualche malefizio, qualche sospingimento agli Arcani vietati da Santa Romana Chiesa. Di certo si à (ne era presente pur io) che il Parroco die’ corpo alla voci del suo Gregge, donde i disordini di cui la Gendarmeria avrà fatto conta l’E.V. per più dettagli.

Così sta il caso, né l’Ill.mo Don Bacchiani, da altri e me pre-gato, à più inteso proferir verbo e tiensi sdegnoso e ritirato in Cano-nica. Veda l’E. V. se sia da pregarlo di achetar le acque che già son torbide per noi e pe’ Gendarmi.

Mentre, in attesa di Venerato cenno, mi riprotesto del-l’E.V. Rev.ma

obbl.mo dev.mo umil.mo servitoreNicola Nardi

Che fare, ora? Perché adesso sorgeva la nuova angustia del poco tempo. A meno che non cacciasse tutto in borsa assieme agli aerei e esaminasse ogni cosa a casa sua, illecitamente.

Intanto le mani si erano mosse da sole, il fascicolo dei docu-menti era sparito (in perfetto sincronismo con le 1�,��) nella borsa di Tis. Il quale, andandosene, entrò dalla segretaria pregandola che gli fosse lasciato ancora per qualche giorno il materiale in sala, che sarebbe senz’altro tornato. E intanto, salutasse Giampaoli.

Uscì imperturbabile dall’archivio e si diresse all’auto.

predetto giorno, si sciolse una di tali brigate verso il sonar dell’undi-cesimo tocco, ed era tra coloro certo Giuseppe Andreoni, casanolan-te di anni 42, implorante la clemenza dell’E.V. or son cinqu’anni per aver contravvenuto alla ribadita Notificazione del 13 Maggio 1839, contro gli abusi de’ casanolanti.

Salutata la schiera, l’Andreoni si incamminò verso la umile capanna, che tenea sul colle tra Trebbio Antico e il mare, detto Mon-te d’Inferno, presto uscendo di vista. Anche di vita uscì, di lì a poco, l’infelice: non è conto dir l’ora, come e per chi: di certo si à, e questo è ben noto all’E.V, che fu trovato da certi Garzoni l’indomani prima del tocco nono, riverso in piccola selvetta. Disse, chi partì pe’ soc-corsi ormai tardivi, esser spettacolo grave ed inusitato pel pallore del volto, contratto in smorfia e languido assai.

Il misero giacea circa dugento passi oltre il bivio della Fonte, subito fuor di paese per chi s’incammini a Pesaro, su pel Monte D’Inferno: e dunque, ove abbisognasse, a portata di voce; ma nes-suno udì nulla. Giacea, poi, non sul tratturo, ma dieci passi discosto da esso, quasi strascinato, sui fini della Possessione del Conte Bal-dassarri.

Come fu poi colto dalla Forza, e condotto in luogo pietoso, si vide più manifesto lo stato della Salma, desueto (ne convenni pur io) in un pallore assai più che non tocchi ai morti di poco tempo. Gli fur trovati que’ segni orribili, che V.E. conosce da altri più compiuti rap-porti, ovunque graffiato e sanguinoso, con quel segno profondissimo sul collo. Ché il pallore della Salma era tutto in questo, nell’essersi dissanguato per tale ferita profonda.

Di suicidio fu escluso il caso, che l’Andreoni era, come si dice, un semplicetto, noto in Villa pel buon umore e benignità, pur vivendo la vita grama de’ suoi simili Casanolanti; per non esser rinvenuto alcun corpus delicti eziandio ne’ paraggi; né tampoco si comprende-rebbe il novero delle ferite.

Due voci prontamente corsero la Villa di Trebbio Antico.La prima, che l’Andreoni, perito di morte naturale per le gaiez-

ze della sera avante, fosse dipoi sconciato da faine ed altre selvati-che bestie, tenne campo ben poco, d’un subito soverchiata dall’altra,

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a mente degli esami di storia dell’arte. Voleva vedere la chiesa? Sì certamente. Questa, vecchia di fuori, mostrava di dentro un intonaco perfetto e comunissimo, dalle tristi cornici grigie e in rilievo, nulla di bello. Ma qual era la ragione della visita? Un parente, raccontò Tis, un lontano parente della madre: aveva trovato dei libri che erano stati della bisnonna e dentro c’era scritto “Don A. Bacchiani, parroco di Trebbio Antico - 1857 A.R.”. Si poteva sapere che fine avesse fatto, quando? Magari, non so, portargli dei fiori?

Il prete condusse Tis in sacrestia. Un massiccio mobile ne oc-cupava un’intera parete.

Chiunque l’avesse secoli prima intagliato a mano, ci aveva messo una stagione. Nell’angolo più oscuro, coperto in parte da un panno, Tis vide un lungo tavolo, una grande barella o, come si ac-corse invece, un catafalco. Anche quello antichissimo, mostrava un teschio giallo scolpito, sormontato dalle solite tibie, con la scritta: Beati qui in Domino Moriuntur, sotto le ossa. Una cinghia pendeva verso il suolo.

Anche l’Andreoni, centovent’anni prima, vi aveva certamente giaciuto prima di essere accompagnato in mezzo ai boschi, verso il cimitero.

Il prete leggeva in un registrone. “Ecco qua” disse. “Don Anto-nio Bacchiani, parroco dal 1840 al 18�7. Volto a S. Leo nel 18�8. Ivi morto nell’inverno del 18�1. A S. Leo?”

“Come mai a S. Leo?” fece eco Tis.“Forse aveva dei parenti, non so. Ma non credo, perché qui

dice che nacque nel 181� a Serrongherina... Pensi: sa quanti preti ci sono stati fra me e il suo parente? Io sono il quinto.”

“Appena?”“Appena. E sa dal primo, il canonico Candido che fu qui nel

Duecento, quanti sono stati i miei predecessori? Ventidue. Sembre-rebbe che in sette secoli dobbiamo essere stati tanti a camminare qua dentro, vero? E invece meno di una classe a scuola, da oggi ai tempi delle crociate.”

“Sembra incredibile” ammise Tis, “forse qui a Trebbiantico c’è aria buona.”

A casa non ebbe voglia di tornare. Sbatté invece lo sportello davanti al moletto e scese con la borsa sottobraccio.

Lasciò perdere le panchine e si avviò sulla spiaggia. Il mare, come sempre, cambiava le sue gradazioni cupe secondo i nembi che gli passavano sopra. Si sedette sulla ghiaia asciutta. Non era né caldo né freddo. Lontano verso il porto udì, prima di vederlo, un ragazzo con la sua moto che faceva evoluzioni sulla sabbia. Vide il vento portar via quella che le ruote alzavano. I soliti gridi di gabbiano ve-nivano dall’orizzonte.

Prese i documenti dalla borsa e subito il vento glieli contese. “... le voci di che il Volgo illetterato vien colpendo... uomo invero schivo e appartato...” Schivo e appartato perché? Perché essere ap-partati in una epoca meno rumorosa della nostra?

Rimise i documenti in borsa e tirò fuori una birra.Fra i piedi stavano le conchiglie, le canne rotte e quanto il mare

fa apparire in una settimana, appena se ne vanno i bagnini coi loro rastrelli. Il tizio con la moto andò avvicinandosi. Sbandò sulla sabbia asciutta e dovette trascinare l’arnese fino a una striscia di cemento. Lì accelerò ancora e sparì nel viale. Non è che l’aumentato silenzio portasse chiarezza. I gabbiani salivano e scendevano sulle onde: la-sciò allora la bottiglia mezza vuota dove il mare se la sarebbe portata con la marea, e tornò verso il molo.

Allora decise di andare a Trebbiantico.

La chiesa era sulla strada, messa curiosamente di traverso come se non c’entrasse bene, schiacciata dalla via che di là si arrampicava con rapida svolta verso un sanatorio con parco di pini e cipressi. Di fianco alla chiesa precipitava già una strada sassosa con tutti gli al-beri e le siepi bianchi di polvere. La porta della chiesa non si apriva. Bussò alla canonica.

Il prete in persona lo fece entrare. Davanti a una tazza di caffè si lamentò della pericolosità della strada che tagliava in due il paese. Si interessò a quanto Tis disse sulle chiese della provincia, sentendolo citare alla rinfusa navate transetti trabeazioni e quant’altro Tis ebbe

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CAPITOLO V

Passata una settimana di scuola, già Tis non ne poteva più: così, seduto nella sala dei professori, considerò a lungo le erbe che ingiallivano nei prati, la mentuccia che era appassita e gli alberi che mostravano un’aria stranita, poco lucida ed entravano così ufficial-mente nell’autunno. Nel cortile della scuola i bidelli avevano rac-colto i grugni, Londei viaggiava con la giovane amante per trovare questo e quello, nella scuola erano comparsi nuovi insegnanti, Boni era tornato dal primo permesso sindacale. Già programmava entu-siasticamente con i nuovi per svolgere tutti i programmi attraverso i murales, l’animazione, il teatro: inalterabile modello plastico del professore aperto. Aperto a tutto: uscendo non s’era avveduto della porta socchiusa e vi aveva sbattuto suscitando nel vecchio edificio rumori ed echi. E ogni cosa aveva rimbombato cupamente, parlan-do di teatro gestuale, di linguaggio del corpo, di decentramento, di realtà di quartiere. Tis, simile a Cassandra, aveva udito quegli echi e preannunci di future disgrazie, come ombre, gli erano passati sul viso.

Mentre queste cose pensava seduto in sala, sentinella di fronte al buio mare dell’esistenza futura, la vita nei bulbi e nelle radici si preparava a quella sosta del vivere senza la quale non vi sarebbero poi nuovi risvegli: gli animali presentivano il letargo, i conti dei ba-gnini crescevano sotto i nuovi depositi, gli alberghi già si coprivano di nere tavole numerate. Anche la sabbia, a ben guardare, aveva gua-dagnato sulla spiaggia larghe zone di pace senza orma di passi, senza buche, senza colline. A Urbino anche il figlio di Tis aveva preso la prima bronchite della stagione, accuse reciproche avevano riempito la telefonata di Tis alla moglie.

Mentre Tis rifletteva, vide entrare il preside che si sedette. En-trambi rispettarono il silenzio che regnò a lungo fra le circolari e le altre cartacce sul tavolo.

“È tornato Boni” disse infine mestamente il preside.“Non abbia paura” disse Tis “è scemo ma non è cattivo.”

“C’era” disse il prete.Tis si avviò all’uscita ringraziando. Quando fu sulla porta chie-

se come se gli venisse in mente allora.“Senta, i Baldassarri, i conti... che gente sono? Che gente era-

no?”“I Baldassarri? Non saprei dirle, per il passato, ma immagino

ottime persone come l’attuale conte: un uomo degno..., che si vede poco. È vedovo e ha una figlia.”

Le prime gocce d’acqua avevano alzato polvere dalla strada ma adesso le nuvole giravano a scacchiera senza trovare modo di sfogarsi.

“Promette un autunno di pioggia” disse il prete “ma l’estate è stata calda. Ho raccolto due quintali di pomodori nell’orto.”

“Beato lei.”Si avviò con la macchina e pensò di andare da uno zio che

aveva da quelle parti.

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“Lei ha firmato” ripeté il preside bonariamente.“Io ogni tre o quattro giorni firmo tutto quello che trovo.”“La deve leggere: quest’anno si va alla programmazione ope-

rativa e a quella curricolare” disse il preside.“Lei legge gli autori latini di nascosto” insinuò Tis di buon

umore. “Lo dirò a Boni, oggi in consiglio.”“La prego di non farlo” implorò il preside. Poi proseguì con

affetto: “Lei allieta i miei ultimi giorni di scuola.”Suonò la campanella.“Mi attende il lavoro di gruppo e intergruppo, di scambio in-

terdisciplinare, di sviluppo della creatività, il livello!” proferì Tis uscendo. “Il condizionamento socio-ambientale!” rientrò col dito al-zato: “Sa la storia di Pierino che non voleva andare a scuola perché era il preside?”

“Vada, professore. Vada...”“Ah, ah” rise da solo uscendo di nuovo.“Mentre è nella brughiera” gli disse dietro il preside “legga la

circolare sulla programmazione.”La risata di Tis suonò ancora e svanì su per le scale.Fra sbuffi di fumo e voci che si inseguivano, Tis riconobbe,

nell’aula del consiglio di classe, l’immagine del proprio destino: tante sere tra facce tirate dalla noia, bizantino discutere, molte fir-me, l’invidia perenne per quelli di ginnastica che, siccome hanno più scuole, ai consigli non li vedi mai. Finché, come attraverso un cristallo di cattiva qualità, i suoi occhi invecchiati avrebbero riparato alla noia con la confusione del percepire, con la cronica sonnolenza del vecchio, col non capire più le tante ragioni di stolto contende-re, l’affannarsi delle colleghe per risibili questioni, il piccolo gioco ammazzatempo dell’anno scolastico. E adesso i suoi occhi ancora freddi e precisi vedevano il ferro di cavallo dei banchi, le colleghe col foulard e tre collane, un professore di musica, vinto e corroso dal fumo, un giovanotto arrivato allora che avrebbe in un anno cambiato le basi della società.

Il suo vestire, un fazzoletto annodato al collo, il pullover indos-sato senza camicia, i calzoni sfrangiati, già parlavano di teatro ge-

“Professore...” sospirò il preside.“Nessuno ci sente” continuò Tis “si ricorda? La scuola senza

teatro...” Sospirò anch’egli come ricordando una perduta passione.“Ma il teatro, in fondo... il progresso... anche la personalità

dell’alunno...”“Si ricorda” chiese Tis con malignità “di quando tutti la rispet-

tavano?”“Professore...”“Io le sono amico” disse Tis “perché siamo due peccatori. Non

lo neghi: lei pagherebbe per chiedere a un ragazzo le eccezioni della III declinazione. Lo ammetta!”

“Lei scherza sempre...”“Lo ammetta!”“Lo ammetto” confessò il preside rivedendosi per un istante

giovane, altero e forte.“E l’Iliade, se ne ricorda? Non trattava del territorio. Lei non si

occupa a sufficienza del territorio.”“No, questo no. Il territorio...”“Sì invece, lo so” insistette Tis.“Presto andrò in pensione” disse il preside.“Mi piacerebbe bocciare qualcuno” Tis parlò nel nulla “sì, vor-

rei, una volta ancora.”“Non dica questo, la prego” disse il preside accoratamente.Il silenzio tornò nella stanza, mentre il canto di un bidello fluiva

lontano tra corridoi con scaffali, polverose conchiglie e gabinetti di scienze col gufo impagliato e l’uomo di gesso con le budella rosse.

“Lei è un folle, professore.”“Solo i matti nella brughiera dicono la verità” rispose Tis.“Ha letto la circolare sulla programmazione?” chiese il preside.“Domani, domani, poi domani: così, da un giorno all’altro”

citò Tis “a piccoli passi ogni domani striscia via per arrivare all’ulti-ma sillaba del tempo che si ricorda ancora...”

“Lei l’ha firmata: stasera in consiglio...”“... e tutti i nostri ieri hanno rischiarata a dei pazzi la via che

conduce alla polvere della morte...”

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“Un giorno me li verrà a prendere la polizia a casa.”Il preside battendo sulla cattedra riuscì a far sì che il collegio

dei docenti si trovasse infine a posto. “Colleghi,” cominciò “nel pri-mo consiglio dell’anno mi è grato salutare...”

In quella entrò Londei e Tis gli fece cenno di avvicinarsi.“Lei è venuto a piedi?” chiese il preside a Londei.“No, in macchina” rispose Londei che scavalcò agilmente un

banco e volteggiò verso Tis.“Buffone” disse Tis.“È invidia” rispose sottovoce Londei.“Silenzio, silenzio... onorevoli colleghi” continuò il preside,

“salutiamo i nuovi e i vecchi, chi arriva puntuale, chi sin dal princi-pio dimostra il suo disinteresse per i regolamenti della scuola.”

Londei sorrise con beatitudine. Il professore gestuale si alzò dicendo: “Non posso condividere l’impostazione autoritaria di que-sto discorso.”

“Scusi” disse il preside “non volevo. È un’abitudine di tempi ormai passati. Colgo l’occasione, anzi, per darle il benvenuto nella nostra scuola. Il professor Londei, a noi peraltro caro, ha la passione del ritardo e già in passato...”

“È vero,” interruppe allegramente Tis “Londei ci marcia. Se ne fa un vezzo.”

“È vero,” ammise gioiosamente Londei “ci marcio. Il giovane collega non mi conosce, lo faccio apposta...”

Il gestuale si sentì confondere e guardò attorno in cerca di so-lidarietà. Colse sguardi di simpatia dalla Rondolini, accanita lettrice di riviste didattiche e agitatrice di problematiche psico-pedagogiche. “Non è con il paternalismo...” disse il gestuale, ma poi rinunciò. La Rondolini gli sorrise. Tis dette col gomito a quello di musica.

“Di’, ce l’ha l’orecchino questo qui?” chiese.“A me questo mi ha già rotto i coglioni.”Il preside aveva perso il filo e lo andò cercando in una cartella

di fogli bianchi. Dal settore donne crebbe il brusio. Le voci. Ad una ad una Tis le riconobbe tutte: una dolce, una acuta, una velata. La Se-verini, che non aveva mai letto un libro dopo la laurea, la Giudici che

stuale, di visite mistiche alle fabbriche, di recupero del legno, di telai artigianali. Tis lo salutò con garbo e gli occhi del gestuale, col quale aveva già discusso, gli fecero capire: ti riconosco, tu sei il nemico. Quelli di Tis risposero: anch’io ti riconosco. Ho invidia e pietà per il tuo sangue giovane, ma invecchierai e sarai solo anche tu. Quale libro potrà mai consolarti? I tuoi parlano solo di mete e di rincorse. Che leggerai, quando sarai stanco e non ce la farai più? Lo sguardo del giovane concluse: paternalista!, e sbarrò la via ad ogni possibilità di umana comprensione.

Tis simbolicamente andò a sedersi a fianco del vinto profes-sore di musica, il quale gli comunicò: “Pensa, mi sono già rotto i coglioni.”

“Anch’io” rispose Tis. “Come va?”“Se anche quest’anno nessuno degli alunni mi picchierà, andrà

bene” rispose il vinto.“Eh, ormai non succede più, non esageriamo.”“Quello lì lo farà succedere” disse quello di musica indicando il

gestuale. “Vedrai,” continuò “mi faranno suonare il folklore cubano.”“Tu lo conosci?”“Io sono monarchico” disse quello di musica. Tis capì lo stes-

so. Venne una collega con una circolare, un’altra la seguì parlando delle festività soppresse.

Tis guardò il lampadario e, sotto di esso, il preside che diceva: “Signori colleghi, vogliate... colleghi... chi manca?”

“Mi fai venire la malinconia” disse Tis a quello di musica. “E già mi basta la mia. Che ti succede?”

“I figli. Sono i figli.”“A chi lo dici” sinceramente convenne Tis che era umiliato

dall’essere stato un padre nervoso, incostante e adesso separato.“Me li ha rovinati la scuola: per questo la odio tanto.” Buttò

fuori fumo.“Ma via, la scuola... che è successo?” chiese Tis.“Furti nelle macchine: radio, registratori, ho trovato tutto io,

nascosto in cantina. Lo sai perché?” Tis non lo sapeva ma immaginò, e stette zitto.

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lo di musica.“Vi prego... discuteremo alla fine... che male c’è a eleggere un

vice preside anzi un collaboratore? Sarà a disposizione... della base” concluse con felice intuizione il preside.

La parola “base” scese come olio in un mare in burrasca.Boni e il gestuale tacquero incerti, il brusio andò scemando.“Credo anch’io” disse il preside saltando timidamente a caval-

lo del silenzio, “credo anch’io che tutte queste cariche non abbiano più nessuna importanza. Ma adesso, forse, dovremo dare il via a que-ste operazioni, stendere un verbale...”

“Perché mi guardate?” disse la Rondolini “quest’anno non mi sento...”

“Sia la signorina Rondolini la segretaria del consiglio!” disse Londei accennando a un applauso.

“Cattivi! Sempre questi verbali” disse la Rondolini già sorri-dendo felice. Molti applaudirono con sollievo, e chi era vicino alla prescelta ebbe comunque modo di udirla sospirare: “Pure, bisogna fare anche questo.”

“La nostra Rondolini” esclamò il preside, “do il benvenuto an-che a lei.”

“La scuola è la mia vita” informò la Rondolini.“Gente così mi ha rovinato i figli” disse con odio quello di

musica.Boni aveva ripreso ispirazione e fiato, e il suo più amato pro-

getto gli urgeva dentro. “Propongo” disse “di dipingere i muri della scuola con i murales.”

“Professor Boni” ricordò mestamente il preside “lei sa che il provveditorato già l’anno scorso ci negò il permesso...”

“I muri della scuola andrebbero autogestiti,” gridò Boni “certo che se lei non si assume le sue responsabilità...”

“Ma io...”“Mi piace l’idea dei murales” disse la Rondolini, “si prestano

ad una realizzazione interdisciplinare.”“Vedi?” disse quello di musica “arriva il folklore cubano.”“Signori,” Tis si alzò in piedi “cittadini!” si atteggiò a oratore.

faceva errori di sintassi nei verbali, la Bianchini di educazione fisica, che girava in tuta ed era l’unica cosa piacevole della sala professori, la Rondolini che andava a trovare gli alunni a casa per appurare il condizionamento socio-ambientale e quelli le sgonfiavano le ruote della macchina. Distinse le facezie che la voce meridionale del pro-fessor Ardigò rivolgeva alla Bianchini.

Il preside non ritrovò il filo del suo discorso. “Be’ colleghi...” tentò “bisognerà passare ad eleggere il vice preside.”

Si alzò il professore gestuale e disse: “Sul ruolo di questa figu-ra vorrei aprire un dibattito.”

“Bravo!” urlò Boni, quello dei murales “bravo!”“Ma, professor Boni, in fondo è l’uso...”“Discutiamo se risponde alle istanze” continuò Boni sebbene il

preside cercasse di schermirsi.“Ma via, per carità, è un semplice uso...”Ardigò disse: “Non sfruculiamo.” Quello di musica sembra-

va un infelice, sterile, butterato suolo vulcanico col suo triste fumo. Londei sbuffava, Tis pensò a casa, alla libertà, al suo tempo rubato, al gatto, alla giovinezza perduta.

“Colleghi,” provò a dire “non facciamo mezzanotte, tanto il vice preside non conta un cazzo.”

“Professore, si moderi...” pregò il preside. Ma Boni e il gestua-le gli si erano già rivoltati contro.

“Ti conosciamo! Ti conosciamo!” urlò Boni.“Tanto vale spiegarci subito” urlò anche il gestuale, e prese a

spiegare in fretta ma lucidamente, e con un che di eroico nella voce, quale fosse il posto di Tis nel mondo. Tis apprese così di essere parte di un vasto progetto reazionario per la restaurazione reazionaria della cultura e delle multinazionali.

“Bravo!” si accodò la Rondolini, “ho letto che le multinazio-nali...”

“Signori colleghi, vi prego... vi prego energicamente... profes-sor Boni, inizia il nuovo anno: non facciamo come l’anno scorso...”

“Un anno di tormenti” uscì una voce.“L’anno scorso è stato una vera rottura di coglioni” disse quel-

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gresso le misere piante fremevano nella brezza serale e la strada era nera, vuota, desolata e sei mesi di freddo e tenebre attendevano la terra.

“Perché fai così?” chiese Londei.“Non ne posso più.”“Cosa cambia?”“Non riesco a pensare a un anno là dentro.”“È la nostra vita,” disse Londei “che ci vuoi fare?”“Sono stanco,” rispose Tis “sono stanco di vivere.”“Passerà”“Passerà,” disse Tis “tutto passa. Io non rientro.”“E che dico?”“Che mi hanno telefonato.”“In mezzo alla strada?” chiese Londei. Passò un tram pieno di

luci, che andò a perdersi nel buio. “Vedrai che passerà, tu sei forte.”“Non riesco più a divertirmi, non riesco più a fare il pagliaccio,

il demagogo, il ricerchista, il socio-ambientale...”“Ma dai...”“Abbasso i poveri,” esclamò all’improvviso Tis “abbasso i po-

veri. Viva le poesie a memoria. Eterna vita ad Alessandro Manzoni.”“Tu sei stanco,” disse Londei “hai bisogno di riposo. E poi an-

che il resto andrà bene. Quando potrai raccontare queste buffonate a tua moglie,” aggiunse con pudore “allora ti ci verrà da ridere un’altra volta.”

“Tu sei un buon amico.”“Ma dai...”“Sei buono. Grazie. Il tuo condizionamento socio-ambientale

ti ha reso buono.”“Va’ a casa” disse Londei “e sta’ tranquillo.”Un lampo passò svelto nel cielo. “Questa,” disse Tis “questa è

la stagione della nostra vita.”“Ma va’. Va’ a casa,” insisté Londei “l’autunno è bello e l’esta-

te è solo per gli imbecilli.”

“Non fare il matto, non cominciare” lo pregò Londei.“Signori, propongo che i muri esterni e interni della scuola sia-

no dipinti seguendo le tematiche di Brueghel il Vecchio.”Il nome, ignoto ai più, fece tornare il silenzio.“Difatti, o amici, o colleghi, chi ci sovrasta nel nostro lavoro?”

(Tis pensò al polveroso delitto dell’Archivio.) “La morte. Quella morte che ci coglierà senza...”

“Basta con le matterie!” “Basta!”, vennero un po’ di strilli.“Vi dico altresì,” continuò Tis “altresì. Altresì vi dico che noi

saremo colti dalla morte senza che fossimo mai vivi e mai della vita avessimo potuto godere a causa della miseria dei nostri stipendi e a causa dell’interdisciplinare miseria morale che ci caratterizza...”

“Dai, piantala” sussurrò Londei.“Non vedete dunque chi siamo?” proseguì imperterrito Tis

come Antonio sul corpo di Cesare. “Un miserabile consesso. Una riunione di spettri. Qui la cultura è morta e la scuola ne dà testimo-nianza. Vi dico altresì che mai, mai potrà risorgere. Facciamo quindi i murales con la morte che galoppa e i professori che vanamente si nascondono sotto il tavolo della sala insegnanti e nel gabinetto...”

“Basta, basta,” urlò il gestuale “ci prende in giro.”“È vero” ammise volentieri Tis.Crebbero le urla di tutti, ora che tutti si sentivano insultati.“Io non raccolgo le tue provocazioni!” dissero a una voce Boni

e il gestuale.“Nemmeno io le raccolgo” disse la Rondolini.“Stagionata e illetterata pollastra” sibilò Tis con freddo sorriso.

La Rondolini scoppiò in lacrime.“Pausa. Pausa per il caffè” impose quello di musica mentre il

preside si lasciava cadere seduto e Londei si metteva fra Tis e il ge-stuale e Boni che avevano gli occhi fuori della testa.

“Vieni. Vieni fuori. Andiamo a spasso” disse a Tis.“Professore,” gli sussurrò il preside “perché si diverte così?”Tis e Londei si lasciarono alle spalle l’aula del clamore e cam-

minarono nel buio corridoio lungo il quale correvano folate di strilli. Un bidello disse: “È cominciato l’anno scolastico.” Fuori dell’in-

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CAPITOLO VI

Londei leggeva le meraviglie delle vitamine in un foglietto esplicativo, quando il telefono finalmente suonò. Eccola – pensò – è lei che arriva. E invece era Tis.

“Vieni giù. Ho da parlarti.”“Di che?” La voce di Londei espresse delusione.“Fesserie d’archivio.”“Ah!”Pensò di non andare. Poi si compiacque della telefonata di

Laura che avrebbe squillato nella casa vuota, come se lui fosse chis-sà dove, nei balli, nei locali dove le allucinanti ragazzine come lei parlano un minuto delle sigarette, due magari della morte, poi sono pronte in gran tranquillità e nessuna gioia.

“Va bene. Arrivo.”Quando salì le scale di Tis erano le nove e mezza. L’amico era

con le mani dietro la solita minutaglia di plastica grigia, e non si mos-se. Sopra un giornale vecchio si asciugavano le ruote e l’elica di un aereo. Sulla televisione accesa furoreggiavano ballerine. Tis guardò la giacca a vento turchese col taschino trasparente.

“E gli sci?” chiese.“È freddo fuori, c’è umidità... è umido” Londei si piazzò a se-

dere, “ma che ti frega di come mi vesto?” chiese seccato. Pentito di essere uscito, pensò che il telefono avesse cominciato a suonare proprio mentre lui scendeva in ascensore.

“Nervoso?”“Sì, nervoso. Cos’è quell’aereo?” chiese Londei.“È un Hurricane.”“Che?”“Davvero non sai cos’è un Hurricane?” chiese Tis.“Non lo so. Non faccio più giochetti da un pezzo.”Tis unì due semiali e le tenne premute perché la colla attac-

casse.“Giochi anche tu. Hai voglia se giochi. Tutti hanno i loro

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senza mostrar verso colui con rari & strepitosi gridi, saltando in qua & in là disvincolando & contorcendo che pur doleasi di sua morte.

Et poscia che fu disfatta venner dappresso Monsignor Mateo & alquanti de’ suoi per iscorgere di che natura fosse essa, che già Monsignor straziato da que’ gridi disperavasi ch’havea colto un mi-sero ò un povero. Erasi come scimia ch’ havesse di lupo il capo, alta com’uomo, ugne a falcetto, di pel lungo coverta, denti e sanne for-midabili. Tal visione cangiò l’essenza al sanguine. Monsignor Mateo pregò Iddio & pur tremando ne persuase ch’esso abbominio fosse sepelito, ordinollo dipoi che per paura vide i servi non volere.

La medesima notte per più milia udironsi urlar lupi esciti da lor tane. Et si scorsero a mane sovra il tumolo d’essa bestia uccisa il dì inante più unghiate come d’escavar furioso.

La sera che seguitò tali casi mastro Aldergo, che a M. Abbate è riscotitore di Gabelle, andonne al fiume per sua dilettevole con-suetudine di pescagione con taluno amico & ivi ristettero con diletto a bastanza fin ché il sole venne all’occaso. Erano per partirsi che udironsi dall’altra ripa gridori & lamenti come chi fosse in sorpre-so grado di miseria perfettamente somma & una cosa seguitar da presso. Mastro Aldergo il quale scorgeva il caso & obstando il fiume giudicò gridar soccorso & aiuto. Ma l’abbominio come sconciando volse verso lui & con horror gittosi da la ripa in acqua contra essi. Mastro Aldergo & i compagni com’ebbero giudicio che contra lor veniva senza armi, non senza ragione & causa...

“Che strana cosa” disse Londei “ma non c’è seguito?”“No. Sono frammenti.”“Di che?”“Non si sa. È la trascrizione di quel che restava di una carta

rovinata. Leggi il secondo. All’archivio hanno dei pezzi inclassifica-bili.” Londei prese il secondo foglio. Si trattava di un vecchio giorna-le. Leggendo sorrise: “Il Monitore Metaurense: ma senti che nome. Queste erano le fesserie d’archivio?”

“Magari alla lontana hanno qualche riferimento con la roba che

giochetti.”Londei si alzò e andò in cucina verso il frigo. Vi trovò un ca-

volfiore, la carne per il gatto, una scatola di dadi. Scoperse infine una busta di pancetta. “Pezzente” disse a Tis. Scansò un po’ di barattolini di vernici e si sedette a mangiare. Sullo schermo televisivo scompar-vero le ballerine e venne su una cantante coperta di stagnola. Londei allora spense e cercò nella credenza il vino. Non trovò bicchieri pu-liti e ne versò in una tazza. Tis era passato all’altra semiala, tutto assorto nei suoi incollaggi.

“Mi fai venire il nervoso con quelle porcherie,” gli disse Londei “non mi sembri normale.”

Tis alzò gli occhi dall’Hurricane. “Ti sei ingrassato, ultima-mente.”

Londei posò il panino, poi lo riprese. “È vero,” ammise con tristezza evidente “è sempre più difficile. Si vede?”

“Ma no!” disse pentito Tis.Londei pensò a quelli della sua età che comprano il dolce la

domenica e trovano la pasta fatta in casa. Le loro mogli non vanno all’Umbria Jazz e diffidano delle persone magre. Comunque pareva che a Tis portare il dolce a casa la domenica non fosse servito.

“Se alzi quel giornale, trovi due fogli” disse Tis. “Leggi un po’. Non è roba importante, ma ti piacerà.” Londei si allontanò dal peno-so ricordo dell’Umbria Jazz e lesse la prima fotocopia.

RISTRETTO DE’ CASI DI TAGNANO QUAI NE FURONO MOSTRATI VERITIERI

La sera del dì VII di maggio, in che la Chiesa catholica ce-lebra di Stanislao Vescovo & Martire la gloria, Monsignor Mateo Fringuellucci ammazzò di buon colpo d’archibuso un animale mo-struoso & assai mirabile che havea colto intruso in sua terra presso il fiume Folia, IV o VI milia fuor da Pezaro escita Porta del Ponte. Tal bestia ne tenne sbigottiti per la notomia difforme & incognita & essa morì a dipresso poi che Monsignor l’havea archibusata non

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Tis prese una busta della spesa sotto il lavandino della cucina e vi cacciò pezzi di plastica e fogli di giornale, la annodò e la consegnò a Londei.

“Domani vengono gli spazzini.”Quello tenne il sacchetto con due dita, lontano da sé. Quando

Tis si fu infilato l’impermeabile, glielo restituì. Uscirono. Nel buio si strusciò alle loro gambe il gatto che voleva entrare. Tis gli riaperse la porta.

“Se non si appendono i sacchetti” spiegò, “cani e gatti di notte fanno un macello.”

Convennero che c’era molta umidità. Sotto la luce del fanale videro un grosso ratto uscire da un cumulo e attraversare veloce la strada.

“Sarà il trionfatore di questo mondo” disse Tis con fasulla so-lennità. “Perché non ci beviamo una grappa? Si ragiona meglio.”

Londei si tirò su il bavero della giacca.Presero per il bar. Ora che la città aveva di colpo ritrovato par-

cheggi al mare e gli alberghi s’erano coperti di tavole di legno nume-rate, l’autunno s’era rivelato cupo e piovoso e aveva respinto la gente dentro le case. Tanti anni prima, invece, sembrava che le stagioni si prolungassero oltre il limite spegnendosi poi più lentamente. Allora, quando gli scioperi degli spazzini erano ancora una cosa seria e nel-la città, un decennio prima, i cumuli delle spazzature avevano rag-giunto livelli di guardia, bande di giovinastri tra i quali Tis e Londei avevano girato nella notte appiccando incendi come Ulisse a Troia: nei roghi erano bruciati bidoni e volate minacce dalle finestre che si spalancavano. Queste cose rivide Tis passargli davanti agli occhi mentre entrava nel bar dietro a Londei. Lì, dietro il frigorifero dei gelati, cominciava la fila dei soldati per la cabina del telefono. Per opposte ragioni e con diversi desideri lui e Londei ebbero voglia di telefonare e di sentire qualcuno rispondere.

“Non me l’aspettavo così” disse Londei guardando la grappa.“Perché? È ottima” Tis bevve con la sua solita fretta. “Dicevo

della vita” vennero incredibili le parole di Londei.Per strada ripresero la via del mare.

mi interessa. Poi te ne parlo.” Londei lesse ad alta voce, con evidente piacere.

Pesaro, 30.La nuova che, disciolto il regime teocratico, a Roma rinno-

vasi la Repubblica, memore delle virtù che infiammarono li petti a Collatino e Bruto, accavalca li monti e viene a rallegrare i buoni e sgomentare i tristi. Ma pur esterefatti coloro sonvi ancora pronti a risicate intraprese.

Or son due giorni la villa di uno specchiato pattriota, di cui taccionsi nome e fortuna, fu assaltata in pieno dì e una masnada di villici imbestiati guidati da sobillatori del Papa penetrò tutto aspor-tando, ogni cosa insozzando e riducendo in istato deplorevole. Ac-corse il massaro co’ famigli pregando per Iddio che s’acquetasse il tumulto; ma se n’ebbe a dolere, che la rancorosa canaglia l’urtò quasi a morirlo e offese alcuna donna ch’era con lui.

Li briganti furono poscia fugati da un pugno di pattrioti uscito a schioppettare, e sei d’essi vennero addotti ai ferri. Entrarono in fine li soccorsi in villa e iscorsero gran danno. Ma lo smarrimento venne al sommo quando nella cripta apparve che il sepolcro del pa-dre, era bruttato e scempiato miseramente secondo stolte credenze.

Oh sole della Ragione, inonda li aprichi colli pesaresi e di-sperdivi le brume del fanatismo. Li civici soldati della Cisalpina Re-pubblica già s’adoprano a pacificare i contorni.

“Interessante” concluse Londei.Tis attaccò le semiali alla fusoliera e guardò compiaciuto.“Sì, è interessante. Ma pensa cosa ci può essere dietro.” Posò

l’aereo e si alzò. “Usciamo a fare due passi? Qui ho finito.”“Che ci dovrebbe essere dietro?” chiese Londei, “magari sono

fantasie...”“No, fantasie non sono. Farà ridere ma sono comunque cro-

nache.”

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“Però nessuno ti ci lega.”“Come no, invece. Che ne sai tu? Tu sei quello che capisce

sempre tutto. Queste cose, invece, non le puoi capire.”“Perché non le potrei capire?” chiese Tis seccato. “Donne ne

ho avute anch’io, e in più ho una moglie.”“Non è lo stesso. Questa è una ragazzina. Di vent’anni. Non so

se capisci...”“Non posso, l’hai detto tu.”“Io ne ho trentasei. Non ci troviamo a ragionare, siamo diversi,

certe volte non la sopporto. Non è nemmeno che abbiamo litigato, ma ti ricordi ad agosto?”

“No” disse Tis pensando ad una di vent’anni che lo aspettasse nel suo desolato talamo, adesso che il freddo e le brume invernali parevano essere arrivate.

“Siamo stati in vacanza. Torniamo dalla Bretagna: baci, amo-re, passione, milleduecento chilometri in un giorno e una notte. Due mattine dopo prende e vuole andare al parco d’Abruzzo a trovare un’amica.”

“Un’amica?”“Una scema che stava al campeggio con la gonna lunga e gli

scialli.”“L’alta uniforme femminista.”“Sì. Torniamo anche da lì e viene fuori l’Umbria Jazz... Hai ca-

pito? Non sta mai ferma. Tiene accesa la radio anche quando dorme, porta sempre qualcuno e vuole sempre andare a trovare qualcuno, Iris, Maria, Peppe, Dolores, Adelaide e Luigi a Berlino, Fano, Ca-gliari Elmas. E poi è scema. Adesso ha il mito del sole, del sud. E io ci devo andare. Se dico di no sembra che voglia essere autoritario, se non ci vado ho paura.”

“Di che?”“Di non vederla tornare. Ho preso il vizio. Sarà scema ma...“Immagino benissimo.”“È bella, ti senti... ti senti in un modo. Sopporti anche il mito

del sole, quello del corpo, del nudo integrale... si mettono al sole giornate intere con le tette di fuori. Ore e ore. Non mangiano mai. A

“Quali sarebbero gli altri documenti, allora?”Tis strinse le spalle: “È difficile...”Le finestre degli alberghi erano buie e le vecchie ville in prima

fila anche. Maestose sopra le siepi e l’ombra dei giardini, lasciavano filtrare solo qualche lama di luce dalle persiane.

Spie di riflessioni, studi o stravizi, nessuno poteva dire. Le tempeste di fine stagione s’erano mangiato il solito pezzo di spiaggia e il mare suonava direttamente sotto la strada. Londei cominciò a guardare con aria indifferente le auto parcheggiate intorno a un pa-lazzo dalle cui cantine uscivano luci e musica.

“Cerchi Laura?” gli chiese Tis.“Sì” ammise.“Vuoi che entriamo?”“Ma no” Londei alzò le spalle. “Andiamo.” La faccia gli si era

tirata e l’interesse per i documenti era scomparso. Si lasciarono alle spalle anche il Piano Bar, dove può darsi fosse – o non fosse – la giovane Laura.

“Allora?” chiese Londei.“Allora che?”“I documenti, le cose che hai trovato.”“All’archivio...” cominciò Tis. Ma vide che anche nello spiaz-

zo del vecchio Kursaal Londei frugava con lo sguardo. La grande sfera bianca che sorgeva al centro dei giardinetti era però abbando-nata e nessun giovane vi era sdraiato attorno come d’estate. Liscia, e poi aperta come a mostrare una sorta di meccanismo illogico, la scultura era tutta coperta di scritte: indirizzi, cronache amorose, date, inviti, desideri, promesse di prestazioni, richieste d’aiuto. Così non sembrava più l’ambiziosa affermazione della politica culturale del comune, ma il simbolo addomesticato delle malinconie che si trova-no scritte nelle stazioni di tutto il mondo.

“Hai un’aria stasera! fra sguardi, giri, e sospiri...” disse Tis. “Come va con Laura?” Londei stette zitto e tutti e due girarono per il viale inseguiti dagli sbuffi di nebbia.

“Male” rispose Londei all’improvviso. “Male perché non sto tranquillo. Non mi diverto più.”

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e invece niente. Il quarto giorno hai capito tutto: sono mostri, non capiscono, non hanno simpatie, affetti. Sono tutti uguali, vanno con lo zaino a trovare questo e quello, si piazzano lì a scoprirsi il corpo. Gente che hanno visto anni prima...”

“Ma si divertiranno...”“Non si divertono mai,” affermò Londei deciso “non li ho mai

visti divertirsi.”Loro si divertirono con una seconda grappa e, fatti più saggi,

riemersero in strada incontrando davanti al duomo due tizi che Tis salutò. Un’ombra spari tossendo per la via del museo, nel quartiere fantasma dove non abitava più nessuno. Svoltarono anche loro. Di fronte al museo torreggiava una sorta di cannone antiaereo messo in un bilanciere di orologio: scultura inserita nel quartiere per essere fruita dal cittadino. Ma lì le finestre delle case erano chiuse, qualche persiana pendeva sbilenca, gli intonaci cadevano scoprendo il matto-ne. Tis sapeva che l’ortica cresceva nei cortili sbarrati, nella viuzza della chiesa e ovunque lui aveva creduto di cominciare a conoscere il bene e il male della vita. “Lo sai” disse a Londei “che più passa il tempo meno le sopporto?” Indicò le sculture “Le statue, i monumenti del comune...”

Londei strinse le spalle pensando ad altro, non ai monumenti che in città erano venuti assieme ai quartieri che si erano mangiati le colline. Appoggiò le mani al freddo ferro rugginoso.

“Per tuo figlio saranno la norma, affari così: come per noi Ga-ribaldi che guarda verso Roma.”

Attraverso un vicolo di portoni sbarrati e muri cadenti usci-rono sul Corso. Lì, la città illuminata e abitata ignorava il confine dell’abbandono e il Corso mostrava serrande verniciate e orgogliosi negozi. Una coppia entrò nell’accogliente buio da cui loro erano ap-pena usciti.

“Non si può far sempre l’amore come a venti anni” enunciò Tis consolatorio.

“Già” disse Londei.“Pacati i moti del cuore, ogni passione spenta...” recitò Tis.“Non sono del cuore i moti, cretino.”

me sembra di impazzire. Dopo due ore odiavo lei, le amiche e quei mostri dei loro amici.”

“Giovani e magri?” ghignò Tis.“Non mangiano mai neanche quelli” disse Londei con odio,

“me li porta a casa, dormono tutto il giorno, mi chiamano compagno, io devo dargli anche i miei liquori.”

“Be’, almeno te li porta a casa ma sta con te. Lasciale fare quel che vuole, usa un po’ d’intelligenza.”

La mente di Tis risalì a pochi mesi prima, rivide le porte sbattu-te, la moglie che partiva, le bugie al bambino. Lacrime e libertà come nei film. Pensò anche a Laura, come la vedeva lui: liscia e bellina, con le esagerate cordialità, i baci sulla bocca con cui ti salutava sem-pre, come se non vederti da due giorni le avesse fatto male.

“Ultimamente poi,” continuò Londei guardando alla città come a una nemica “ultimamente mi sono anche stancato in quel campo lì. Stupidaggini.”

“Sì, certo” disse Tis.“Ho provato a prendere queste” concluse Londei tirando fuori

il foglietto di una medicina. Tis si mise a ridere.“Sai quanto c’è da ridere” disse Londei seccato e già pentito.

Tis si fermò a leggere sotto la luce di un fanale con evidente mali-gnità.

“Epatopatie acute e croniche, astenie, convalescenze... sei sta-to male ultimamente?”

“Ma dai.”“Anoressie,” continuò Tis “ma se mangi come una bestia? De-

perimento organico...”“Fallo sapere a tutti, mi raccomando” disse Londei che era bel-

lo, pettinato e triste, appena un po’ pingue nella giacca a vento e gli stivali col tacco. Erano ormai alle soglie del centro e brillava nella foschia la luce di un bar seminterrato dove gli attori vanno dopo le recite e i militari si mangiano la pizza.

“Ti va un’altra grappa?” chiese Tis “tocca a me.” Londei ripre-se a parlare quasi per i fatti suoi: “Due giorni, tre giorni, sulla spiag-gia con le tette fuori. Non fanno mai niente. Speri vadano a fuoco

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dissanguato e per un morso sul collo.”“Ma va” disse Londei con un accenno di sorriso, “lo sai cosa

stai dicendo?”“Sì,” rispose serio Tis “voglio dire che il conte Baldassarri era

un vampiro.”“Fantasie” rise Londei, “scemenze.”“No. La gente di allora ne era convinta. Un prete del posto lo

mandarono via perché parlò: io ho giusto trovato la lettera del Dele-gato con cui lo rimproverava. Poi ho trovato anche il rapporto della gendarmeria. Le voci si riferivano anche al passato...”

“Capirai! Le voci del popolo... Che anno era?”“Il 1857. La cosa finì nel nulla anche per la confusione che ci

dovette essere con l’Unità. La prima lettera l’ho trovata per caso. Se avessi magari trovato prima il rapporto della gendarmeria non ci avrei fatto caso più di tanto. Invece io ho trovato quella lettera di rimproveri al prete che aveva dato importanza alle voci e dopo, col rapporto, ho visto che quelle voci, in fondo, avevano consistenza. Al-lora mi sono impressionato,... cioè, a parte il fatto giudiziario, c’era la possibilità di un filone di vampirismo nelle campagne pesaresi... Lo so, sembra ridicolo dirlo e anche antropologicamente sarebbe una tradizione atipica...”

“Questa è bella” ammise Londei “per davvero! Ma in Transil-vania il vampiro c’è sul serio? o ce l’ha messo il cinema?” Vinto dal-l’umidità, si tirò su il cappuccio. I bei capelli pettinati scomparvero e sembrò un frate perduto nella nebbia.

“Non lo so. Il cinema, comunque, può immaginare solo fino a un certo punto. In ogni caso” riprese Tis “ho cercato ancora e non ho trovato niente. Tranne quelle cose che hai letto anche tu e che non significano nulla.”

“Già, quegli strani pezzi... Be’, l’articolo del Monitore sotto questa luce forse significa anche qualcosa...”

“Allora sono andato a Trebbiantico – è lì che era successo il fatto – e ho visto che il prete era stato mandato a S. Leo, e nient’altro. Così sono andato a cercare quel mio zio vecchissimo, ti ricordi? Ci sei venuto anche tu, a quel pranzo di nozze di mia cugina... due anni fa.”

“Me n’ero accorto.”La vetrina di un libraio era ancora accesa e un trespolo faceva

girare i volumi esposti, come accadeva una volta nelle vetrine delle calzolerie. Dalla Piazza venivano richiami e chiasso, e la nebbia dava alla città un aspetto settentrionale.

“Senti,” chiese Tis “mi accompagni a Urbino dopodomani?”“Perché?”“Devo andare dal bambino che con l’inverno prende una bron-

chite dopo l’altra.”“E la tua macchina?”“Con l’inverno mi si scarica la batteria, se ti scoccia venirci

basta che mi presti l’auto.”“In primavera cosa capiterà? Perché quest’estate era il motore

che scaldava...”“Se a poker avessi vinto forse avrei cambiato la batteria, inve-

ce di andare all’archivio. Sebbene...”“Sebbene che?”Londei vide Tis esitare davanti a quello che stava per dire,

come se aver parlato di donne e motori per tutta la strada gli rendesse adesso le cose più difficili.

“Anche in archivio puoi trovare certe cose, cose che magari dovevano restarci chiuse per sempre, che non si dovevano sapere... insomma un mistero... Conosci i conti Baldassarri?”

“Chi non li conosce? Di fama: c’è quel palazzone loro, qui in centro” accennò vagamente a una direzione.

“Io, in questa città, ho trovato qualcosa che non si doveva sa-pere” ripeté Tis, “qualcosa che tutti sono sempre riusciti a far dimen-ticare.”

“Perché?”“Perché? ... Non so bene. È una cosa incredibile: come se tu

vedessi, non so, tua madre che esce di casa con la pistola... Più di cent’anni fa è stato ammazzato un contadino, vicino, anzi sulle terre del conte di allora.”

“E l’ha ammazzato il conte?”“Averlo ammazzato sarebbe il meno. Quello pare sia morto

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“Non ti annoia?”“No davvero. Laura non è nemmeno una croce: sono io che me

la creo da me. Dicevi?”“Dunque, quella domestica fu ritrovata morta per strada e mio

zio sostiene che la madre, quando la vide, disse cose da pazzi... Di questa storia non ho letto nulla ma qualcosa da qualche parte ci sarà. Perché non te ne occupi tu?”

“Come è stata uccisa, questa donna?”“Da un animale, ha detto mio zio. Anzi: come da un animale.”I lanci della gomma erano all’apogeo: ad ogni volo applausi da

intenditore salivano a rimbalzare sulla piazza coperta di nebbia, ed ecco che far volare una gomma di bicicletta diveniva un gioco con le sue regole, un’arte, un rito. Il chiasso doveva giungere come una pro-clamazione di guerra nelle vecchie case del centro addormentato.

Mentre i due stavano per lasciare il bar che già aveva la segatu-ra per terra, il copertone piombò ai loro piedi lanciato da una torsione più forte e accompagnato da un grido più acuto: dietro a quello arrivò a raccogliere uno. Al di sopra del bavero e della sciarpa, in mezzo a capelli lunghi, gli occhi del ragazzo e quelli di Tis si incontrarono: Tis vede un volto affilato che lo guarda, una giacca troppo grande, uno sguardo che subito se ne va verso i suoi giochi.

Adesso non lo sa, ma Tis quella faccia la rivedrà ancora.

“Mi ricordo, sì. Che ti ha detto?”“Mi ha dato chili di pomodori, patate, vino... I Baldassarri, ha

detto, gran nome, grandi palazzi, grande rispetto. Gente seria, nean-che esosa coi mezzadri, ci si poteva fare affari. Però c’era qualcosa. Ai bambini si diceva – Sta’ buono che viene il Conte e ti porta via – ...”

“È poco.”“È molto, altroché. Perché durante la guerra, la Grande Guerra

voglio dire, ci fu un altro morto. Una domestica che fu trovata uccisa.’Nella piazza c’erano tre o quattro giovani accucciati fra i pi-

lastri del comune. Né l’ora né il freddo li avevano cacciati. Altri tre lanciavano, con grida ed esortazioni dei seduti, un copertone di bi-cicletta che fischiava nell’aria e veniva preso al volo o piombava a terra. Un gruppetto di ragazze uscì dal bar vicino al portico e divenne visibile nella nebbia quando si accostò a uno dei grandi fanali della Piazza. Indossavano giacche del nonno e una portava dei lustrini tra i capelli. Presero a battere le mani ritmicamente. Uno dei giocatori prendeva la rincorsa con la gomma in mano e la lanciava contorcen-dosi. Un altro la seguiva con lo sguardo attento e cercava di prender-la al volo, con l’espressione tesa, come se bloccare il volo di quel co-pertone fosse un esercizio, una recita da celebrare contro qualcuno, ferocemente, in un teatro dove solo gli attori capiscono e guardano male il pubblico che odiano.

“L’ala creativa si diverte” disse Tis.Londei s’era girato più volte. S’era levato il cappuccio e l’umi-

dità gli appiccicava i capelli sulla fronte. Guardava nervoso e non disse niente.

“Dai, che non è neanche qui” disse Tis “e poi, se c’è, che ti frega?”

“Niente, mi frega.”“Entriamo nel bar” propose Tis “vediamo se c’è qualcosa che

ci va. È freddo.”La gomma intanto fischiava e passava sopra la fontana, scivo-

lava sull’asfalto, e il rumore cresceva.“Cosa dicevi, di quella domestica?” chiese Londei.

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CAPITOLO VII

La testa ricciuta della moglie apparve alla finestra, imbronciata come l’ultima volta che s’erano visti.

“Non è mai troppo tardi” li accolse, “tuo figlio ha il morbillo.”Prima che la finestra si richiudesse, Tis e Londei fecero in tem-

po a sentire un “Dio li fa poi li accoppia” che non mancò di gelarli. Tis allargò le braccia. La porta in cima alle scale era aperta e nessuno stava sulla soglia, cosa che sembrò di più acuta e fine maleducazione di una porta meramente chiusa. Tis si tirò dietro Londei cui aveva affidato il pacco con l’elicottero, e che indossava, quel giorno, un giovanilissimo montgomery blu notte.

Anche l’ingresso era deserto. Adesso me ne vado – pensò Tis. Invece sentì la voce del figlio dal fondo del corridoio, che diceva “C’è il babbo, c’è il babbo”, e si precipitò verso la camera. Il bambi-no emergeva da un mare di fumetti, costruzioni, fogli d’album, e tese le braccia e un faccino eritematoso che gonfiò parecchi dei sensi di colpa di Tis. Londei dalla porta assisté all’incontro di Tis sopra il fi-glio, questi che cercava di salirgli sulla schiena e poi, visto l’elicotte-ro, tentava di sottrarsi all’abbraccio del padre. Londei, sotto l’occhio critico della moglie che sedeva in una poltroncina vicino al letto, la-sciò lì l’elicottero e tornò nell’ingresso. Adesso sentiva le espressioni puerili del bambino e quelle ancor più puerili di Tis, che spiegava l’elicottero fra reciproche esclamazioni di entusiasmo e meraviglia.

Questi, dunque, i riti della paternità da cui Londei era ancora provvidenzialmente escluso. Paternità separata, quella di Tis, ma pur sempre frutto di quella mitica voce del sangue che arriva più di tut-to a sommuovere la vita delle persone e fa fare cose, per anni, che Londei non farebbe per due giorni, neanche a pagamento. Oddio, magari Londei si lancerebbe dentro una casa in fiamme per salvare un bambino, anche nelle gelide acque di un fiume, forse. Ma soppor-tarlo, poi, nella vita quotidiana? Tenere le orecchie pronte anche nel sonno? Non andare, non uscire, non dormire, aver paura per ognuno dei mille pianti senza perché di un bambino? E d’altra parte, se Laura

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“Strillavo con lui” si giustificò Tis indicando Londei “ma tu non ti devi alzare dal letto.”

“Babbo, s’è rotta la gru dell’elicottero. Vieni a vedere” ordinò il bambino. Il trio scomparve verso la camera, Tis e la moglie lan-ciandosi occhiate feroci al di sopra della testa del figlio.

“Fanno sempre così” disse la suocera a Londei. “Lei è sposato?”“No... io no.”“Me l’immaginavo” disse la donna guardandolo di traverso.

“Pensi che ieri è andata dal parrucchiere perché oggi veniva il mari-to. E adesso, vede, sembrano scintille.”

“Tis è un brav’uomo” si lasciò scappare Londei.“Io spero sempre, sa? Almeno per quella creatura. Però guardi

che quello, a mia figlia, gliene ha fatte vedere di tutti i colori... Anche lei ha il suo carattere, non dico di no. Ma lui, lui...”

Preceduto da un enorme elicottero giallo tornò Tis.“Signora, ha un cacciavite? Ho paura di doverlo aprire.”La suocera uscì e Tis si mise a considerare l’elicottero.Sotto, da una fessura, un uncino doveva salire e scendere co-

mandato da una manovella, ma adesso il congegno era rotto. Tis lo tentò e lo scrollò tutto. Arrivò il cacciavite portato dalla suocera.

“Ai miei tempi i figlioli giocavano senza giocattoli e erano più contenti di adesso. Ai figli bisogna volergli bene.”

Svitando la prima vite, Tis non raccolse. Tanto la suocera ave-va ragione e lui che avrebbe avuto da rispondere?

“I figli non si devono abbandonare, questo è importante” con-tinuò la suocera incoraggiata dal silenzio. Tis alzò gli occhi al cielo e pestò più forte sulle viti. “Una volta a queste cose ci si pensava prima di buttare tutto per aria” insistette la suocera. “Il matrimonio...”

“Insomma, signora! Basta!” ruggì Tis fuor della grazia di Dio. La suocera sparì nel corridoio, certa in cuor suo delle disgrazie della figlia.

Mentre l’elicottero si apriva mostrando un’anima complessa, la moglie tornò. Pur potendo dire più cose – sul tempo, sul morbo, sulle mille giravolte della vita – scelse proprio quella che più d’ogni altra avrebbe mandato in bestia Tis:

fosse rimasta incinta che avrebbe fatto? Probabilmente tutto, tutto sarebbe finito, amore figlio e tutto quanto.

Si mise a bere il caffè che la suocera di Tis gli aveva portato senza parlargli, come se del marito della figlia lui fosse una sorta di complice. Però c’era anche l’altra versione di Laura incinta, quella di Laura che avesse letto in un giornale del modo alternativo di essere madre. Facile che, a quel punto, accettasse coi soliti entusiasmi pan-cia e figlio. Londei così vide nel pensiero suo figlio portato a zaino sotto i cieli estivi della Sicilia, della Tunisia, dell’Iran, fra poppatoi e campeggi. Immaginò che avrebbe vissuto in un mondo tutto femmi-nile, fra esperimenti libertari e musiche orientali. E lui dov’era? Non seppe vedere un posto per sé.

Tis arrivò con l’Enciclopedia Medica, cercandovi la voce mor-billo con faccia tempestosa.

“Difatti!” esclamò “in un caso su mille dà un’encefalopatia, assai più spesso complicazioni broncopolmonari. E qui il medico l’hanno chiamato solo stamattina.”

“Ma lo sai che il morbillo lo prendono tutti” suggerì Londei.“Cosa succede?” chiese la moglie arrivando dal corridoio.Tis la guardò cupamente: “Leggi. Già da ieri dovevi chiamare

il dottore.”“Il morbillo non è la peste, il dottore arriverà. Tu dov’eri, quan-

do si è ammalato? Io sono una donna sola, io non ce la faccio più, carino.”

“Con chi potresti vivere tu? Chi ti potrebbe sopportare?”“E tu, il letterato che gioca con i modellini? Tu chi sei?” Tis

taceva.“Sei la rovina mia e di mio figlio” concluse la donna finalmen-

te. Londei si nascondeva dietro un vivo interesse per l’enciclopedia medica. In quell’istante comparve sulla porta proprio il bambino a piedi nudi, e a tutti sembrò pallido e spaventatissimo, sicché anche Londei balzò in piedi.

“Babbo, perché strilli?”“Madonna, non deve prendere freddo, incosciente” gridò la

moglie tirandolo su.

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incazzati, sul vasto mondo senza pace.Nel silenzio passarono alcuni minuti, poi riapparve la moglie.“Lo vedi il male che gli facciamo per colpa tua.”“Basta!”“Ma il giudice deve sapere...”“Che giudice?”“Il giudice deve sapere come vivi mentre tuo figlio sta male”

gridò la moglie.“Come vivo! Vivo come un cane per mandarti i soldi che tu

sprechi dal parrucchiere!”“Io... io...” la moglie scoppiò a piangere, “tu che butti i soldi

dalla finestra. Quanto sono disgraziata.”“Vivo come mi pare nel lusso e nel vizio, tratto le bianche,

vado con le ballerine...”“A parole. A parole sei il gran maschio” sottolineò sarcastica,

pur tra le lacrime, la moglie. Tis brandì l’elenco telefonico.“Ti piacerebbe, eh?, che te lo dessi in testa? Ti piacerebbe dirlo

al giudice.”“Sei un pazzo, un violento. Sei...”Londei si alzò invocando la calma e desiderando con tutte le

sue forze di essere altrove, magari in un campeggio tunisino o in una comune, persino in un corso di musica indiana autogestito. Il bambi-no, fatalmente, era ancora sulla porta.

“Basta. Basta di fare i capricci” scattò Tis, “subito a letto!”Il figlio esplose in lacrime e scappò a piedi nudi inseguito dal

padre. Tis lo prese al volo e, metà pieno di tenerezza metà pieno di rabbia, lo rimise sotto le coperte.

“Lo sai che stai male, eh delinquente” gli diceva “il babbo ti mangia.” Gli tirò giù i pantaloni del pigiama e lo morse sul sederino. “Ecco il timbro, ecco il sigillo.” Il figlio si mise a ridere. “Adesso ti racconto io una bella storia, la storia del principe e del suo babbo.”

“Non mi piace, ne voglio un’altra.”Ma Tis si mise a raccontare che una volta, in un paese lontano,

c’era un giovane principe che doveva badare a tutto il regno perché il suo babbo, il re, era andato lontano a fare la guerra. La guerra era

“Perché hai rotto il giocattolo del bambino?” Tis parve sorpre-so da tanta cattiveria. “Avrai speso una fortuna e non gli è neanche piaciuto.”

“Gli è piaciuto moltissimo.”“Ha fatto finta per farti piacere ma non gliene importa nulla. E

poi, gliel’hai rotto subito.”“Glielo sto accomodando, dammi pace. Non ho voglia di liti-

gare...”“Pace ne hai anche troppa, ti fa comodo: vieni qui una volta a

settimana e gli porti i regali che piacciono a te e li rompi anche.”Con secchi movimenti Tis fece rientrare nel buco l’asse della

manovella che era uscito, pressò assieme le due metà dell’elicottero, controllò con sollievo che tutto funzionasse.

“Vedi?” disse alla moglie “funziona.”“Allora che l’hai smontato a fare? A casa non sapevi cambiare

neanche una lampadina.”Con un rapido scalpiccio, vanamente inseguito dalla nonna,

riapparve il bambino dicendo: “Voglio sapere perché strillate.”“Chi strilla?” chiese il babbo “nessuno strilla.”“Voi gridate sempre.”“Lo vedi?” sibilò a bassa voce la moglie. “Lo vedi il male che

fai a tuo figlio?”Il bambino in braccio alla mamma venne riportato in camera

con in mano l’elicottero accomodato. Tis lo seguì.“Adesso la mamma ti fa dormire con una bella favola” disse

al bambino. Lo misero sotto le coperte, tolsero le carte dal letto, po-sero l’elicottero in vista sul comodino e Tis contemplò le eruzioni del figlio in lotta contro la malattia e i genitori, che a lui dovevano sembrare dispettosi e pieni di capricci. Notò le onde nei capelli della moglie accucciata vicino al letto, lucide e nuove: capì che le aveva fatte per lui. La mano del figlio stava sul braccio della madre e lui la carezzò, sfiorando anche lei e i suoi bronci. “Dormi bene, gioia del babbo” disse al bambino andando di là. Nell’ingresso Londei guardava l’orologio. Dalle finestre si vedeva la pioggia piombare su Urbino, sulle strade piene di fumi, sui tetti malinconici, sugli studenti

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CAPITOLO VIII

Quando ritornò a casa, alle undici, il gatto era in conversazio-ne con un altro paio di ceffi felini sotto la luce del bar, e ostentò di non riconoscerlo.

“Guarda che più tardi non ti apro” lo ammonì Tis.Stanchissimo salì le scale. Che giornata. Dopo Urbino con la

moglie, il vagabondare pomeridiano e deludente, poi la cena con Londei e Cassiani a Fiorenzuola. Tre sole persone nella sala dove venti giorni prima si ammassava ancora mezza Europa avida di pia-dine. Andò alla credenza e cercò il bicarbonato. Si sedette a pentirsi del bagordo che aveva chiuso la giornata, contemplando il bicchiere lattiginoso e amaro sul tavolo. Lì vide il giornale che in tutto il gior-no non aveva ancora avuto tempo di leggere. A occhi chiusi mandò giù il bicarbonato e gli sembrò subito di placare un incendio. Il gior-nale parlava di crisi di governo imminente. Passò oltre. Parlava di crisi degli ospedali. Passò oltre. Gli Arabi avevano comperato mez-za Londra e le acciaierie tedesche. Passò oltre. È in crisi la figura del centravanti nel calcio totale? Lesse con avidità.

Un giornale alle undici di sera è già una cosa spenta senza rimedio. Arrivò alle pagine locali. Da di sotto venne perentorio il miagolio del gatto. Crepa, pensò. Il miagolio crebbe di tono. Tis andò ad aprire: il gatto saettò su per le scale e, arrivato in cima, si voltò verso il padrone col capo di traverso e il ronzio delle fusa già in atto. Talché Tis si sentì subito racconsolato e pronto all’indul-genza.

“Sei meglio te di tanta gente” disse al gatto. Gli venne a mente l’andare e venire di Londei al telefono e la faccia che aveva al ritor-no, fra i lazzi di quell’altro animale di Cassiani. Che si era messo a fare con una ragazzina? Correrle dietro coi codici e gli schemi di un’altra età, negati ma non meno vivi dentro il suo animo alla moda? In due ore aveva tentato di trovarla almeno dieci volte. Alla fine anche il cameriere sorrideva, Cassiani sghignazzava e solo Londei mangiava cupamente. A ogni uomo la sua pena.

lunga e il babbo non tornava mai, ma il principe era bravo, premiava i buoni, arrestava i ladri, non faceva i capricci e non andava mai scal-zo, perché nel suo paese faceva freddo e gli poteva venire la tosse, e allora come avrebbe potuto fare il principe? La regina non era capace di far niente.

Con sorpresa di Tis il figlio si addormentò subito mentre il pa-dre lo guardava senza capire dove avesse sbagliato e perché tutte capitassero a lui e perché non avesse mai avuto niente fortuna. Passò un po’, prima che potesse tornare di là. “Torno giovedì” disse alla moglie che alzò le spalle senza rispondere. “Allora arrivederci” ri-peté, “telefono per sapere qualcosa quando viene il dottore.”

“Telefona, sì, sì. Adesso vai. Va’.”Lei gli aperse la porta, Londei uscì con un “arrivederla” che

era un falso storico, Tis disse che le stavano bene i ricci e le strinse una spalla mentre la moglie guardava con interesse la tromba delle scale.

L’insulto di Tis si perse nello schianto della porta.

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A mattina bevve il caffè versandolo sul fornello e anche sulla camicia. Si sedette ancora con l’articolo davanti: la radio che aveva automaticamente acceso lo seccò con i suoi annunci e i primi lagni confidenziali delle radio libere. Spense.

Certo, l’articolo gli sembrava l’inizio di una cosa pazzesca. Nel palazzo Baldassarri era morto questo Roberto Avoli: ma come era morto? Gli venne in mente di riaccendere la radio e sentire qual-che notiziario locale, caso mai dicessero qualche cosa: udì invece dediche di Patrizia a Ciu En Lai di Fano e di Bobo a Gula, nonché réclames di ristoranti e discoteche. Baldassarri... Si chiese ancora se fosse possibile. Certo, stava scritto lì. Ebbe voglia di sapere e paura insieme. Che doveva fare? Che fa uno se si accorge che il feroce assassino è il pensionato del piano di fronte che ci prestò zucchero e prezzemolo innumeri volte? Parlarne a qualcuno? Immaginò le risa-te di Cassiani e l’incredulità sconcertata del direttore dell’Archivio. No, nessuno di loro era adatto. Londei, invece, poteva andare bene: bravo, e forse disposto a ingannare le attese dell’autunno e la sua noia con quel giochetto di horror detective. Poteva aver paura? Di notte certo. Ma in quella comune mattina decise di no. Alle dieci e trenta doveva essere a scuola. Scese le scale e volò a comperare il giornale.

C’era mezza colonna in pagina nazionale che riassumeva, pra-ticamente, l’articolo del giorno prima. Nella pagina locale, invece, trovò una foto recente del morto e del palazzo. Il volto con i capelli lunghi gli rammentò un fischiare di gomme, in Piazza. Così lo rico-nobbe. Con le sue giacche grandi era stato uno dei frequentatori dei portici, e Tis lo rivide venire a raccogliere il copertone quasi ai suoi piedi. Il giovane Avoli!

Nell’articolo lesse queste cose memorabili:

Riflettendo e sospirando Tis riprese la lettura. Allora gli occhi volarono, poi Tis sbalordì.

ULTIM’ORAPesaro, 3 ottobre. – Profonda impressione ha suscitato nella citta-dinanza la morte del ventunenne modenese Roberto Avoli, che dallo scorso inverno viveva nella nostra città senza fissa dimora, ospite di occasionali amici.Il corpo dello sventurato giovane è stato rinvenuto ieri sera, poco dopo le 23, riverso nell’atrio del Palazzo Baldassarri, in pieno cen-tro, da persona rimasta sconosciuta che ha provveduto ad avvisare il 113. Gli agenti della Squadra Mobile hanno svolto i rilevamenti di legge. La morte sembrerebbe risalire a poco prima del rinvenimen-to, tra le otto e le dieci della sera stessa. Vicino al corpo gli agenti hanno rinvenuto un laccio emostatico, un cucchiaio e una siringa da insulina. Ciò farebbe pensare che l’Avoli sia stato vittima della droga, forse di un’overdose, come la nostra cronaca sempre più fre-quentemente riferisce.Ha suscitato raccapriccio il fatto che la salma presentasse tracce di sangue alla gola, si teme a causa dei topi che sempre più numerosi infestano i fondi e le cantine della città. Si è subito formata una piccola folla attorno al pietoso spettacolo. La salma del giovane, dopo i primi accertamenti, è stata portata all’ospedale S. Salvatore a disposizione degli inquirenti.

Baldassarri? Lui? La sua casa? Rilesse tutto. Un cenno alle tracce... Che tracce? Il lato ridicolo della sua vita si dissolse e lui in-tuì la tragedia. Ci si sentì immerso fino al collo. Negli ultimi giorni il destino gli aveva posto in mano il capo di una catena. In mezzo alle sue preoccupazioni, senza accorgersene e senza badarci più di trop-po, Tis aveva seguito quel capo e adesso era arrivato al varco. Quali sono i limiti dell’impossibile che accade? Era successo. In tutta la città solo Tis capiva cosa quel morto significasse.

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eccitati dal vino o da altre sostanze, la festa sia degenerata quando alcuni invitati, tra cui l’Avoli, avrebbero provocato danni agli arre-di. Alla comprensibile reazione della padrona di casa – un’eccentri-ca signora –, si sarebbe scatenata una rissa conclusasi, tra insulti e minacce, con l’espulsione dell’Avoli e dei suoi amici. Tornati a Pesaro, qui l’Avoli avrebbe lasciato la comitiva verso le 19,30. Da allora non sarebbe più stato visto vivo.

Gli inquirenti reputano che la morte sia stata causata da un’overdose, ma per esserne certi si dovranno attendere i risultati definitivi dell’autopsia. La Polizia indaga e interroga tutte le perso-ne in qualche modo coinvolte nella vicenda. “Si considerano molte ipotesi, tutte collegate al mondo degli stupefacenti”, ci hanno detto per telefono dalla Procura. Ma alla richiesta di maggiori dettagli è stato opposto un ovvio riserbo. Intanto si parla di morte per overdose ma anche di suicidio o persino di omicidio tramite dose opportuna-mente alterata. Mentre gli inquirenti vagliano ogni pista, i cittadini allarmati si chiedono se fatti del genere potranno ancora accadere.

UN MACABRO PARTICOLAREOrrore singolare ha suscitato il fatto che la salma dell’Avoli giacen-do presso la bocca della cantina del palazzo Baldassarri, era stata morsa dai ratti e presentava ferite al collo. Crediamo di interpretare l’opinione della cittadinanza facendoci carico presso le competenti autorità dell’esigenza di una sistematica derattizzazione del centro storico, dove non è più raro scorgere enormi ratti passeggiare in-disturbati, anche in pieno giorno, vicino alle fogne e alle aperture delle cantine.

Per lunghi minuti Tis rimase sconcertato, passando più volte dall’articolo alle foto: il volto del giovane Avoli, incorniciato dai lun-ghi capelli neri, era reso più affilato dagli zigomi sporgenti, nei suoi occhi non c’era espressione.

L’atrio del noto palazzo dove il corpo era stato rinvenuto mo-

SGOMENTO E PREOCCUPAZIONE IN CITTA’PER LA MORTE DEL GIOVANE AVOLI

Tutta la cittadinanza scossa e preoccupata – Il primo di una lunga serie? – Gli inquirenti seguono diverse piste – Riserbo.Pesaro, 4 ottobre. – Continua la sensazione di orrore e commozione per la morte del giovane Roberto Avoli, rinvenuto cadavere la sera del 2 ottobre nell’atrio di un palazzo del centro di Pesaro. Il giovane, probabilmente deceduto per un “buco” di eroina, sarebbe nella no-stra città la prima vittima di questo tremendo flagello contro il quale si sono rivelati fin qui impotenti leggi troppo permissive e inadeguati interventi delle autorità.

Il giovane, la cui salma resta a disposizione per gli adempi-menti di legge, era giunto nella nostra città verso la fine dello scorso anno e vi si tratteneva senza esercitare alcuna attività fissa. Pare abbia vissuto di espedienti e che frequentasse certi ambienti gio-vanili noti alla Questura. Lo stesso Avoli era stato per pochi giorni associato al locale carcere di Rocca Costanza, a metà dello scorso luglio, essendo stato fermato sotto i portici della Prefettura in pos-sesso di un quantitativo di stupefacenti, ed era tuttora in attesa di processo. Secondo voci raccolte dalla nostra redazione, in città si dice che i guai dell Avoli siano cominciati proprio a causa di quella scarcerazione, giudicata forse troppo rapida da qualche persona del giro.

Qualunque sia l’origine della tragedia, si è di fronte a una recrudescenza del fenomeno che coinvolge ormai masse sempre più imponenti di giovani e che le autorità locali e nazionali sembrano incapaci di arginare.

La Questura non ha ancora potuto ricostruire completamente le mosse dello sventurato giovane nel suo ultimo giorno di vita. Pare che l’Avoli, in compagnia di amici, si sia recato verso le 16 in un paese dell’entroterra per partecipare a una festa. Il nostro cronista ha avuto difficoltà a intervistare gli amici del defunto, comprensibil-mente riluttanti (o forse preoccupati) a rilasciare dichiarazioni. Pare comunque che a tale festino, che aveva luogo in un antico palazzo, partecipasse un certo numero di balordi e drogati. Sembra che, forse

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Tis salì calpestando la moquette azzurra e trovò l’amico nella lettura del giornale.

“Hai visto” gli chiese “quel ragazzo, la droga...”Cassiani annuì. “Qui è il primo” disse.Tis si accomodò e cominciò a rubare da un piattino elastici e

grappette. Cassiani spostò il piattino.“Com’è morto?” chiese Tis. “Pensa, è successo nel palazzo

Baldassarri... Pare che i topi l’abbiano anche morso...”“I topi?”“Pare di sì. Tu lo conosci, questo Baldassarri?”“Il padre aveva tutto” disse Cassiani, “Terre, palazzi, le cose

migliori. Questo invece è andato indietro.”“Questo chi?”“Il Conte. Umberto Baldassarri.”“Tu lo conosci?” chiese Tis.“No, io no. Ma ho sentito parlare di lui.”“Che dicono?”“Dicono che è ricco” disse Cassiani. “Lo sai che ho avuto i

bruciori di stomaco?”“Quattro piadine: ci credo! Questo studio è freddo” continuò

Tis “non ci tieni una rivista, un oggettino. Per fare i soldi non vuoi distrazioni? Compra una statuetta, metti due fiori.”

“Eh, i soldi. Baldassarri li ha i soldi, nonostante tutto. E non fa niente.”

“Qualcosa farà...” indagò Tis.“Si occupa di cose antiche, credo. Deve aver decifrato delle

lapidi, cose così... Dicono che studi.”“Ha figli?” chiese Tis riprendendosi un grappolo di elastici.“Sta’ fermo,” sbottò Cassiani “mi servono. Ha una figlia dico-

no sia una gran...”“È una contessa.”“Be’... è bella, dicono.”“E la moglie?”“Baldassarri è vedovo, la moglie è morta di parto. Il marito era

già anziano... Dopo non uscì quasi più di casa. Anzi, dalle case: ha

strava, in una fuga di volte e cornici, un piccolo giardino dove si in-tuiva del verde e la frescura dei pomeriggi estivi. Un refolo di vento autunnale, giunto dal mare scavalcando i tetti della città, sfiorò Tis.

Doveva vedere. Quel che il primo articolo riportava sulle trac-ce di sangue alla gola già chiariva ciò che i primi scopritori dove-vano aver visto, il segno di un morso che avevano attribuito ai topi con razionalità e buon senso e con quel che a loro era già sembrata bastante sfumatura di orrore. Avessero saputo. Se Tis avesse potuto vedere... Ma era possibile? Come sapere ancora? Si avviò per strada allo studio dell’avvocato Cassiani. Lui poteva dirgli qualcosa, lui che conosceva mezza città e dell’altra metà sparlava tutto il giorno. Chie-dere così, senza dare a vedere.

La strada dove l’avvocato stava edificando meritate fortune era stata una delle più caratteristiche della città. Aveva ospitato ge-nerazioni di elettricisti, restauratori di mobili, negozianti di smalti e vernici, idraulici in quantità, pittori, un paio di ubriaconi storici, mercanti di libri usati, grossisti di detersivi e soda caustica, artigiani vari, suonatori di clarinetto e poeti. Strada che aveva una storia e una tradizione: posta a confine del vecchio ghetto, era stata abbandona-ta progressivamente da tante famiglie stanche dell’aria di crollo ed estrema vecchiaia delle costruzioni, della mancanza d’acqua d’estate e dell’umidità trasudata nelle altre stagioni. Diminuiti quindi i ra-gazzini che vociavano e correvano per strada e intimiditi gli altri da motociclettari che avevano preso ad esibirsi con indisturbata sod-disfazione sulla sola ruota posteriore, la strada aveva cominciato a mostrare i segni della malattia comune a buona parte delle vie del centro vecchio. Un paio di funerali avevano accentuato il fenomeno e l’autunno inclemente, nel quale si muoveva Tis, andava chiaramen-te mostrando che, come un’infezione, la solitudine, gli scrostamenti e gli echi delle case vuote si espandevano anche qui, in un presagio di irrimediabile abbandono. Nell’unico palazzo risanato che dava ad angolo sul Corso e che, come le facciate di cartone dei finti villaggi di un finto Far West, nascondeva alla vista del passeggio la degra-dazione retrostante, qui, covo di avvocati agenzie e belle segretarie, stava anche Cassiani.

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CAPITOLO IX

“Balsamini Amelio. Amelio... Adesso glielo faccio chiamare.” Il portiere si mise a telefonare. “È parente di Amelio?”

“Sono un amico” disse Tis con leggero imbarazzo “gli porto i saluti di un parente.”

Il portiere parlò con qualcuno di sopra. “Lo so, lo so che fra poco si cena, lo so... Balsamini, sì, Amelio, quello con la carrozzi-na... Sì, aspetta qui...” Riattaccò il telefono e guardò l’ora. “Non c’è molto tempo, i vecchi cenano presto, qui. Come i bambini.” Si ricac-ciò nella lettura: “... e non credo che Amelio riesca a capire molto.”

“Perché?”“Ha più di ottant’anni, forse novanta: è un po’ via di testa.”“Coi vecchi ci vuole pazienza” convenne Tis guardando fuori

della finestra.Nel cortile, vialetti di pietre bianche sotto i lampioni spunta-

vano nell’erba, e le due ali del residence per anziani si stagliavano illuminate contro i cieli della sera. Nel tardo pomeriggio, quando il giorno è già finito ma cena e sonno sono ancora lontani e il cielo è purissimo, quando le impiegate smettono i camici e si pettinano in fretta prima di andarsene, cosa pensano i vecchi guardando dalle mo-derne, luminose vetrate del loro albergo? Dopo la pioggia adesso era venuta la prima sera di freddo, limpida e ventosa. Tis sentiva colpi di tosse e odor di minestra scivolare fra i pavimenti di gomma e gli splendidi infissi di alluminio. La scatola di marrons glacés stava fra le mani, il vegliardo Amelio non si decideva a scendere. Dietro di lui, chiuse la porta della biblioteca di quartiere, inserita nel residence, la bibliotecaria. Bionda e ancor giovane uscì con aria assorta a prender-si la bicicletta appoggiata al muro. Anche lei, dove sarebbe andata? Dal residence dei vecchi, posto all’estrema periferia, quanto avrebbe pedalato prima di arrivare a casa? Tis pensò alle proprie stanze, alla caldaia a gas che ormai sarebbe stato inevitabile controllare, si stupì di non aver voglia di verniciare aerei: anche lui, cosa avrebbe inven-tato per far tardi sotto le fredde stelle di quella sera?

una villa in campagna, con un parco. Sta lì e nel palazzo di Pesaro, che però va a pezzi.”

“E che tipo è” chiese ancora Tis.“Uno che si fa gli affari suoi.”“Che affari?”“Gli affari suoi, non se ne sa niente. La figlia sta in Svizzera:

studia là.”“E il padre, che tipo era?”“Un signore, penso. Con questo figlio solo e pochi parenti. Il

padre è morto in guerra, nella prima.”“Ah, è morto, allora?” chiese Tis.“Certo che è morto. Perché, non doveva morire?”“Sì, sì...” fece Tis “ma senti, che nobili sono questi? Non hanno

nessuna stranezza, qualche vizietto... eh, capisci?”“Io non ne so niente.”“Se non lo sai tu, allora non ne hanno” concluse Tis.“Io conoscevo, anzi, mio padre conosceva l’amministratore,

una specie di fattore del vecchio conte, quello morto... Balsamini.”“E dov’è?”“Se è ancora vivo, all’ospizio di Muraglia. Me ne ha parlato

mio padre. Ma a te che t’importa?”“Niente. Chiedevo. Quell’ospizio strano, vetro e cemento, tut-

to moderno?”“Quello, credo. Ma non so se sia vivo... Com’è che non sei a

scuola?” chiese l’avvocato.“Vado adesso. Be’, ti saluto. Ci sentiamo per un poker?”“Ridammi gli elastici” chiese invano Cassiani.

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glacés e la spinse sul tavolo verso il vecchio, allora venne fuori una voce – “I cioccolatini sono per me?” – più forte e giovane di quanto facesse pensare l’aspetto dell’uomo.

“Se li gradisce...” disse Tis aprendo il cellofan perché il vec-chio faceva gesti di aprire la scatola. L’aperse e comparvero le fila ordinate e opache di zucchero dei marrons glacés. Tis sentì che do-vevano essere una tentazione terribile per un goloso, li spinse avanti al vecchio e distolse lo sguardo. Quando si girò, già mezza fila era distrutta.

“Non vorrei che le facessero male.”“No, no no no...” disse il vecchio a bocca piena “dà forza, il

dolce, dà la forza...”“Lei era il custode della villa Baldassarri?” chiese con legge-

rezza al vecchio che non rispose. Si voltò di fuori: la notte era proprio arrivata e sì e no una traccia più chiara fra le antenne sui tetti restava del crepuscolo. Brillavano due o tre stelle e Tis desiderò la sua bici-cletta, la pedalata nel buio e nel freddo, verso casa, l’abbandono del muto e ghiotto Balsamini. La prima fila adesso era vuota, e la mano avanzava con due dita protese verso la seconda. Secco, tirò via la scatola. “Le faranno male, sa, così di fretta. E fin quando è rimasto, come custode della villa?”

Il vecchio desolato guardò con furbizia dolorosa la faccia di quel tale che gli aveva sottratto il tesoro.

“Uno subito” chiese Balsamini.“No, dopo.”“Fino al 1970. Di giugno, il 19” disse alla fine il vecchio a Tis

che restò di stucco. Gli passò il marron glacé, e quello l’inghiottì.“Io scrivo un libro sulla storia della famiglia Baldassarri, sono

un professore. Sono di Urbino, dell’università” mentì.“Il 19 giugno 1970 Balsamini Amelio ha concluso il suo fedele

servizio. Me ne dà un altro?”“Io vorrei sapere qualcosa sul conte Baldassarri, l’eroe della

guerra” disse Tis porgendo la scatola e ritirandola fuori portata.“Il Conte... il Conte era il padrone, stava sempre assieme a me.

Anche la guerra abbiamo fatto assieme, io sono cavaliere di Vitto-

Dal finestrone si voltò perché udì la voce del portiere.“Oh, il nostro Amelio.”Così vide il vecchio in carrozzina fissarlo senza interesse con

le mani in croce sopra la coperta che gli copriva le gambe magre, un fazzoletto nella destra, tutt’un’idea di tremito addosso.

“Sono il... sono il professor Stefano Tis” si presentò. “Io... avrei bisogno della sua cortesia per breve tempo, se lei vorrà usarmi la gentilezza...”

Il vecchio non parlò e l’infermiera lo fece girare ad angolo retto sulle ruote verso la sala parlatorio. Tis non poté fare a meno di notare che la carrozzina virava secco come il carrello di un supermarket e seguì più la carrozzina con le ruotine snodate che Amelio Balsamini col suo penoso fazzoletto.

“È ora di cena,” comunicò secca l’infermiera “e facciamo una eccezione perché per lui non viene mai nessuno, purché si sbrighi. Su con la vita, Amelio. Non vedete che c’è un amico?”

Mise dentro la mano di Balsamini tutto il fazzoletto che pende-va, e Tis la vide sparire cantando a bassa voce per le scale.

“Buonasera...” disse Tis al vecchio che lo guardava.Nel silenzio che presto calò sulla stanza dai pavimenti di gom-

ma nera, dagli splendidi infissi di alluminio, l’uno nella carrozzina, l’altro appoggiato alla sedia con gli occhi ai muri, al fazzoletto, i due si persero a guardare il vuoto. Tis chiese della salute, del tempo, disse che era arrivato l’inverno, lodò la bellezza dell’istituto. Tutto da solo, perché non ebbe risposta. Balsamini sedeva col plaid sulle gambe, le mani in tremito. Era un vecchio alto, sebbene tutto piegato, e certa-mente in piedi con sigaro e giornale non avrebbe dimostrato gli anni che aveva, novanta o ottanta quanti erano.

Ma il tremito, lo sguardo vacuo, il capriccio di non risponde-re, la sua mancanza di curiosità indicavano che la devastazione e il tormento dell’età non si erano fermati sul colore chiaro degli occhi, sui capelli bianchi e leggeri, sulla figura ancora asciutta. Ma dentro, nell’intrico delle arterie e delle vene, nelle vie del cervello e della memoria, l’età aveva colpito e distrutto.

Quando infine a Tis venne in mente la scatola dei marrons

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lo sa lei?”“Prenda ancora,” disse Tis aprendo la scatola “le porterò anche

lo zucchero.”“Mi ha regalato un fucile, una doppietta coi cani interni, allora

era una rarità. Lei va a caccia?”“Veramente no. Da giovane...”“Ma come sono gli uomini, oggi?” chiese Balsamini. “Qui

dentro sono tutti comunisti, anche il dottore.”“Balsamini, qui tutti vi vogliono bene.”“Anche la Contessa mi rispettava... Diventò mezza matta per

il Conte, lo sa lei? Una medaglia d’argento sul Montello, come Ba-racca...”

Tis prese la spalla del vecchio, cautamente.“Balsamini... Balsamini, mi dica. Quella poveretta che morì

durante la guerra...”“Il Conte,” disse il vecchio lacrimando “il Conte è morto al

Montello nella guerra vera, quella che abbiamo vinto. Eh, è morto così giovane. Lui, Balsamini non l’avrebbe lasciato qui, lo sa lei? Qui mi hanno dimenticato. Sono cavaliere di Vittorio Veneto.”

L’infermiera apri la porta. “Amelio, abbiamo mangiato? Poi state male, eh, Balsamini? Ha finito di parlare? È ora di cena” disse rivolta a Tis. Tis fece cenno di sì.

“Arrivederci, Balsamini. State in gamba.”L’infermiera sistemò la coperta e mise con una occhiata critica

la scatola dei dolci in grembo al vecchio, che vi si aggrappò.“Forza Balsamini, che quella sporca comunista della Maria vi

porta a cena.”Tis prese il portafogli e bisbigliò “posso? Per lui, un dolce, dei

biscotti...” L’infermiera fece cenno di no con la mano dietro le spalle di Balsamini, e, con una virata secca, la carrozzina scomparve nel corridoio.

La casa di Tis si rianimò brevemente, quando arrivò. Il tele-fono non suonò e nessuno venne a chiamarlo. Il sonno, come ogni

rio Veneto. Ho combattuto a Asiago, col Conte. Il Conte mi voleva bene e io gli portavo rispetto... mica come oggi. Il Conte mi chia-mava Balsamini, ma se eravamo soli mi diceva “Amelio, andiamo, Amelio, andiamo a caccia”... sono vecchio, sono quasi morto, ma mi ricordo... Una volta nevicava sempre, non è come adesso l’inverno.” Il vecchio alzò lo sguardo improvvisamente saggio e presente ver-so Tis. “Una volta gli inverni erano freddi, a Trebbiantico nevicava sempre... Il Conte mi diceva, quando nevicava, “Amelio, il mondo si pulisce”, eh...” Lo sguardo di Balsamini si andò di nuovo annebbian-do. Fece cenno a Tis di avvicinarsi. “Lo sa perché non nevica più, lo sa? Sono state le bombe...”

“Sì, è vero, forse... però mi dica del Conte. Gli voleva bene la gente, vero?”

“Sono state le bombe. Io ho fatto la guerra, lo sa lei? Quella vera, sull’altopiano d’Asiago, quattro anni, quella vinta...”

“Gli voleva bene la gente, vero?” chiese ancora Tis. “Però qual-cuno era cattivo, vero? Durante la guerra, è vero che morì una donna e che questa gente fece paura al Conte, è vero che diventò triste? Lei si ricorda Balsamini?”

“Le voglio dire un’altra cosa,” disse l’altro facendogli ancora cenno di accostarsi “qui dentro è pieno di comunisti” sussurrò.

“Non lo sapevo, veramente...”“Anche a Pesaro ci sono i comunisti, è pieno di comunisti...”“Senta,” ricominciò Tis “lei conosceva anche il figlio, vero?”“Era buono come il padre, bello e buono...”“Voi, Balsamini, avete voluto bene al padre e al figlio, voi siete

stato molto con quella famiglia, io lo so perché me l’hanno detto a Trebbiantico. Lì tutti vi ricordano, come voi vi ricordate di loro” mentì Tis.

“Chi c’è rimasto a ricordarmi? Eh, chi c’è rimasto?” chiese Balsamini lucido, guardando negli occhi il professore. “Il Conte è morto, il figlio è cambiato e anche tutti gli altri sono morti. E a me mi hanno dimenticato qua dentro, in mezzo ai comunisti.” La testa gli andava ancora via e stette un po’ a muovere il fazzoletto. “Le infermiere non mi danno lo zucchero, me ne mettono poco nel latte,

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CAPITOLO X

Ahimè: ci sono delle rose che non si colsero. Per stupidità, per delicatezza, per troppa fretta mentre inseguivamo qualche altra illu-sione, perché ce ne accorgemmo troppo tardi.

Se le rivediamo, un giorno, le guardiamo mentre distratte e svelte passano per qualche loro ambascia o traffico che non ci ri-guarda più. Così si possono anche avere dei rimpianti e considerare il gran fiume del tempo che è passato, intanto.

Di rimpianti così basta averne un paio e si è già vecchi, carichi di esperienze che non servono a niente e persuasi una volta di più che la vita è una gran giostra dove nessuno sa chi ha vinto il premio perché tutti lo perdiamo. Chi ci vive accanto non sa niente di noi e noi di lei, e tutto è un grande imbroglio che ci trascina, finché, come dice il famoso film, la morte ci fa ballare sull’orizzonte delle colline e ci asciuga le lacrime dalla faccia.

Tali cose alcolicamente meditando, Tis cerca il numero sul-l’elenco. Abiterà sempre lì, nella strettissima via che dà sul Corso?

In questi anni molte cose si sono abbattute sulle spalle non atletiche di chi guarda nome e numero. Cosa sarebbe cambiato se lui e la Luisa avessero vissuto assieme? Alle spalle di Tis si aprono le porte delle vuote camere: come non sentire il malessere che spira da quelle stanze? Incerto è il futuro. Ma certissimo è il suo fallimento presente, mentre telefona.

Dopo un po’ di segnali, quando già sembrava che non ci fosse nessuno, dall’altra parte il telefono si alzò.

“Pronto?” disse Tis.“Chi è?” chiese una voce che non era quella della Luisa.“C’è Luisa?” chiese ancora Tis riconoscendo la madre.“No, non c’è.”“Posso sapere quando torna?”“Lei chi è?” chiese la madre.Qualcosa bisognava dire e in fretta. Tis non seppe tirar fuori

niente di intelligente.

sera, tardò a venire. Tis lucidò le scarpe, preparò il caffè per la mat-tina, riordinò qualcosa. Poi si sedette a tavolino e pensò ai vampiri e a quanto cova dietro le facciate del mondo. Si sentiva calmo, ma a onde la calma se ne andava e poi tornava. Infine prese la coperta da stiro, il ferro e i panni che s’erano ammucchiati nell’armadio, e li dispose sul tavolo come uno sconvolto terrapieno di stoffa. Un po’ per volta, combattendo le pieghe e sempre incerto sul calore del ferro che tentò più volte col dito umido, Tis si venne riabituando alla vita e all’idea del domani.

Tutta la storia dei Baldassarri con le ville, con i boschi, con le nevi di un tempo e le guerre i morti e i sopravvissuti, tenne com-pagnia a Tis. Finché la notte fu alta e finalmente la casa tornò nel buio.

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“Medicina donne, come sempre... Giovanni mi saluti la mamma.”

Tis simulò uno scatto secco e riappese.L’infermiere di Fano. Qualcuno c’era. Ma si può essere gelosi

di una donna cui stringemmo la mano, sì e no la mano, allusivamen-te, dieci anni fa?

Poteva per dieci anni essere stata a fare opere di bene, curan-do infermi e orfani per delusione di un Tis qualsiasi che era sparito senza concludere? Sparito, poi, non in guerra ma in città, sposato e padre, dimentico di lei finché tutto era andato bene e adesso pronto a cercarla a causa di un morto.

Ci sono donne che uno ha amato fino alla febbre e al delirio che poi escono per anni a fare la spesa e comprano filetto e patate, hanno figli, prendono l’influenza a novembre, dormono tutte le notti con un marito appassionato o scialbo, aitante o imbecille, ma comunque un marito. E noi rivedendole pensiamo di cancellare anni di vita e tornare a parlare a quella che l’ultima volta vedemmo salire su un treno, o allontanarsi sulla spiaggia col bagnino, o sposare un dentista. Questa Luisa Tis vide l’ultima volta avviarsi verso la macchina con un vestito rosso che il vento, con quanta grazia, le attaccava al corpo. Nel mese d’agosto, o ai primi di settembre? In una furibonda estate? L’aveva poi rivista quattro volte, in sei o sette anni. Però sposata non si era. Fece il numero e la voce disse:

“Ospedale civile.”“Vorrei la signorina Tinti, del turno di notte. Medicina donne.”“Attenda,” sospirò la voce.Dal microfono cominciò a uscire una sequela di fischi, echi,

uno scatto, una voce che disse:“Pronto.”“Vorrei...” disse Tis.“Attenda” disse la voce. Ricominciò un lungo eco fischiante

che culminò in uno scatto. Per un pezzo dal telefono non uscì nulla. Poi si sentì una foce femminile.

“Pronto?”“Vorrei la signorina Tinti” disse Tis.

“Sono un amico” rispose. Un nemico di certo non poteva es-sere.

La madre stette zitta comprendendo che il tizio non voleva dir-le chi fosse, incerta se chiedere ancora il nome o accontentarsi.

“Ah!” si accontentò. “Mia figlia fa la notte stasera,” disse dopo un po’ “torna domattina, ma dormirà.”

“Non fa niente allora.”“Devo riferirle qualcosa?”“No, arrivederla.”Riattaccò sollevato ma certo che se ci fosse stata lei tutto sa-

rebbe stato più semplice e la cosa si sarebbe risolta.Adesso che aveva cominciato a scivolare, tanto valeva arrivare

al fondo. Cercò il numero dell’Ospedale e lo fece.Dopo un’interminabile attesa una voce rispose: “Ospedale ci-

vile.”Tis chiese dell’infermiera Luisa Tinti del turno di notte.“In che reparto?” La voce venne da lontano, già seccata.“Che reparto? ... non lo so...”“Vuole che lo sappia io?” chiese la voce. La linea si interruppe.Dunque aveva telefonato per niente? Richiamò la madre deci-

dendo di fingersi un Pascucci. (Il vino fu più forte della timidezza, la voglia, infine, di parlare con Luisa dopo tanti anni).

“Pronto, sono Giovanni” disse al telefono.“Giovanni chi?” rispose la madre.“Giovanni Pascucci. Qual è il reparto della Luisa?”“Lei è il collega di chirurgia dell’ospedale di Fano?” chiese la

madre.“Sì.”“Come sta la mamma?”“Be’...” annaspò Tis “la stagione, sa, l’età...”“Ma io dicevo dell’operazione” chiese ancora la signora gen-

tilmente.“Ah... meglio... si riprende bene.”“Mi doveva dire prima che era lei: Luisa mi parla spesso...”“I gettoni!” mentì Tis “la devo lasciare... il reparto?”

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“Hai bisogno... perché?” interrogò Luisa.“Ti posso vedere domattina?” insistette Tis.“Senti ho fretta” disse Luisa “però guarda che mi sembri mat-

to. Comunque io domattina esco alle sette.”“Vedrai che non è niente” disse Tis “ti ringrazio, ti ringrazio

molto.”“Ciao allora” disse la donna, lasciando Tis in piedi e con il te-

lefono in mano, convinto di aver pasticciato ancora un po’.Tornò in cucina con la testa e lo stomaco in ebollizione.Il gatto saltò sul tavolino fiutando briciole e bicchiere. Guardò

Tis (a lui parve negli occhi) con muto rimprovero, quasi sapesse che quella sera non c’era niente da mangiare.

“Mi sono dimenticato” spiegò Tis.Il gatto saltò per terra senza più occuparsi di lui e si diresse

alla porta, da dove, di nuovo silenziosamente, guardò lo snaturato padrone.

“Vai a cena fuori?” chiese Tis “non fare tardi.” Il gatto sparì per le scale. Per mezzanotte, sicuramente, l’insistente miagolio avreb-be annunciato il suo ritorno e disturbato il sonno. Tis si sentì solo. Londei era a casa? Gli poteva telefonare. In realtà non ne aveva vo-glia. Sarebbe forse venuto a vedere il cadavere dell’Avoli, ma la Lui-sa, Tis si rese conto, voleva incontrarla da solo. Cercò di costruire un discorso da fare, una ragione qualsiasi che giustificasse l’eccentrico desiderio di vedere un morto per droga del quale non gli poteva im-portare nulla. Dire che era un parente? Sarebbe stato più logico, al-lora, mischiarsi ai parenti veri durante la cerimonia, alle esequie. Ma anche così sarebbe stato difficile scoprire se il povero morto avesse due buchi sul collo. No. Da solo doveva vedere, farsi aiutare dalla Luisa. E poi la voleva incontrare, rivederla.

Una persona normale adesso dormirebbe, ma Tis avverte già che il sonno gli si nega, come alla moglie di Macbeth. La televisione manda su entrambi i canali tavole rotonde e sindacalisti di ogni spe-cie spiegano i mali del mondo. Anche i moderatori sorridono mesta-mente, assentendo. Tis pensa che il bello della morte è che almeno nessun sindacalista ancora se ne è impadronito e discetta. Spegne la

“E chi è?”“Parlo con la medicina donne?” chiese Tis.“Attenda.”Fischiò ancora il telefono, si placò, scattò di nuovo.“Eccoci qua” disse una voce maschile.“Vorrei la signorina Tinti.”“Anch’io” fece imperturbabile la voce maschile.Tis non seppe che dire e aspettò col telefono in mano.“Pronto.”“Vorrei la signorina Tinti.”“Sono io...”“Ah...” disse Tis.“Lei chi è, scusi?”“Io sono Stefano” disse Tis “Stefano Tis.”Luisa non disse niente e Stefano capì che l’aveva comunque

riconosciuto.“Scusa se ti disturbo” disse “non vorrei mentre lavori...”“Ma come hai fatto, che è successo?” chiese Luisa.“Senti, io avevo bisogno di un favore, di una sciocchezza...”“Un favore da me?”“Come stai?” chiese Tis.“Io? ... io sto bene, lavoro, solo che è strano, a quest’ora, avrei

anche da fare... tuo figlio come sta, tua moglie?” chiese con genti-lezza.

“Loro bene, senti... io non posso parlare per telefono...”“Ma qual è il problema?”“Un consiglio di medicina” mentì Tis “però è urgente.”“Stai male?” chiese Luisa.“No, no, non è per me, ma è una stupidaggine.”“Vuoi telefonarmi domani pomeriggio, dopo le tre?”“No, scusa, senti” disse Tis “senti: posso venirti a prendere

quando esci dal turno, domattina?”“Ma che ti è successo?”Tis sentì rumori di ruote gommate e tintinnii di vetri vicino al

telefono.

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naso con grazia verso i vapori che uscivano dal bicchiere. Tis allora prese col cucchiaino un po’ di caffè e lo diede sul piattino all’anima-le. Questo fiutò e rifiutò, poi con la lingua rosea pulì il piattino ad occhi chiusi. Tis gliene versò ancora.

Perché temere i vampiri e sbalordirsene, se il suo gatto beve il caffè? “Ti porterò sempre con me, festeggeremo insieme.”

Ma il gatto andò a miagolare davanti alla porta. Nella strada, mentre Tis rabbrividiva nel pigiama, la notte stava impercettibilmen-te sfumando, e le pozze d’acqua a terra, che il vento increspava, ri-flettevano cieli plumbei e nuvole fuggenti. Il gatto scomparve in una cantina del suo territorio.

Quello che adesso Tis sta con cura passando con un pennel-lo intinto nel solvente appena sporco di grigio azzurro, è il famo-so Focke Wulf 190 D. Comparso nell’autunno del 1944, col muso lungo sopra il potente motore, con la sagoma elegante ed inutile, era stato il miglior caccia ad elica della seconda guerra mondiale. Nelle mattine nebbiose dell’autunno e dell’inverno della precipitante catastrofe, aveva volato basso, sotto il peso della superiorità aerea alleata, spesso consumandosi in rapidi roghi luminosi ai bordi delle strade che aveva attaccato. Certo, nel lucido giocattolo di plastica che Tis va colorando, nelle ali sottili chiazzate di grigio e verde, non c’è niente del freddo di quelle mattine, né l’angoscia del pilota, né il violento disintegrarsi dell’aereo nemico, né il fumo e il fracassarsi del proprio. Il viso di plastica della figurina, dietro gli occhiali ver-niciati d’argento, non riflette che il nulla. Nel colore artificiale non c’è paura, né morte, né ricordi di cose che vorrebbe rivedere. Puro gioco nelle mani di un bambino invecchiato, il pilota non sa nulla del destino, né alcuna guerra gli sta rubando la giovinezza. Tis immerge il pennellino nella tinta più scura e lievemente picchietta la fusoliera umida, che si copre di sfumate macchie mimetiche.

L’aereo diventa un rettile del crepuscolo, scuro e aggressivo, adatto a correre su nebbiose pianure, consapevole della prossima fine, vanamente feroce. Dalla finestra il giorno comincia a entrare

televisione. Nella confusione della sua vita può darsi anche che un caffè serva a fargli venire sonno. Poco dopo la caffettiera fischia.

Lo scombinato metabolismo di Tis reagì al caffè propiziandogli un sonno tormentato che lo rivoltò nel letto. Vide fasci di documenti sparsi fra le tombe. Una mano scheletrica gli porgeva nuovi fogli ai quali non riusciva a sottrarsi. Un foglio aveva il timbro di ceralacca, e adesso il bollo si ingrandiva, diventando il mantello rosso di un vampiro che copriva tutto il cimitero. La sirena di mezzogiorno pe-netrò nel cimitero divenuto l’Archivio di Stato, facendo scomparire tutto nel pavimento di gomma che ribollì, nera palude. Tis si svegliò. Il gatto miagolava con furore, erano le due. Corse ad aprirgli. Il gatto salì in casa e si pose a fianco di Tis, sul letto. Tutti e due ricaddero nel sonno.

Alle cinque del mattino la bestia decise di avere veramente fame. Si alzò, andò in cucina, miagolò di disappunto davanti al piat-to vuoto. Tornò sul letto, dove si lamentò spingendo col nero naso la mascella di Tis. L’uomo si svegliò da un sonno questa volta non turbato da sogni e memorie.

“Sei un tormento” disse al gatto.Si alzò anche lui. Dalla finestra del bagno vide che non pioveva

più ma nella strada l’umidità e il fumo di nebbia avevano riempi-to l’aria buia della mattina. La testa doleva e il desidèrio del caffè aleggiava nella stanza. Il gatto miagolò ancora appena Tis entrò in cucina.

“Vuoi il caffè?” chiese al gatto.Prese da sopra il frigo l’ultimo modello d’aeroplano, finito

giorni prima, e lo posò sul tavolo col corredo di vernici e pennelli.Mentre versava il caffè il gatto annusava con disgusto i ba-

rattolini delle vernici. Tis si accorse di essere più nervoso all’idea di rivedere l’infermiera Luisa dai capelli lunghi e bruni, che per il timore, l’ansia, l’eccitazione di aver scoperto nella sua città il regno di Dracula.

I miagolii aumentarono e il gatto scivolò tra lui, il caffè e i ba-rattoli, in cerca di disastri.

“Vuoi il caffè?” chiese ancora Tis. Il gatto lo guardò e mosse il

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“Hai preso il caffè?” chiese Tis.“Lascia stare il caffè” disse Luisa prendendolo per un braccio,

“se ti devo fare questa cosa dimmi perché... è una cosa politica?”“Ma no, sono anni che non me ne frega più niente, anzi... senti,

è freddo, andiamo in un bar, così ti spiego meglio. L’ho finita da un pezzo io, con la politica.”

Nella piazza le saracinesche dei bar erano ancora tutte chiuse.“Andiamo alla stazione?” propose Tis.“No, fa tristezza lì. E poi ricomincia a piovere.”“Allora giriamo, dove è aperto ci fermiamo.”Tis aperse la macchina che sembrava (se ne accorse allora) un

residuato bellico: giornali dell’estate prima, terriccio, canne rotte, pezzi d’aereo.

“Scusa, non ho mai tempo di pulire...”La Luisa entrò, Tis vide le ginocchia, la bella linea delle gambe,

ebbe invidia per chi ne aveva beneficiato.“Ti trovo bene” le disse “sei sempre, sei... come prima.”“Abbiamo quasi gli stessi anni. Tua moglie come sta? Il bam-

bino?”“Non sto più con mia moglie” disse Tis “e neanche con mio fi-

glio, quindi. Anzi” riprese dopo un attimo di silenzio, girando attorno a una rotatoria “è mia moglie che se ne è andata.”

“C’entra lei in questa storia?” chiese Luisa.“No.”“Bene” disse la ragazza, “non è una storia d’amore e di

morte.”La macchina scivolava lungo una strada sconvolta da una trin-

cea laterale, con tubi dentro e fuori lo scavo, la luce della mattina non metteva voglia d’andare in nessun posto.

“Perché mi chiedi se c’entra mia moglie?”“Pensavo che tu, in questi anni, non ti offendere, non so come

dire...”“Non mi offendo.”“Quando ti conoscevo io, non sembravi una persona da poterci

contare... eri simpatico, eri bravo, ma eri sempre così esagerato.”

con lo stesso colore dell’aereo.In ospedale forse la Luisa guarda l’orologio, vede l’alba in-

vernale scivolare per i corridoi, ode il vento muovere i pini fradici d’acqua. Chissà se è vero che in autunno si muore più facilmente. Vede dalle finestre la piazza dove l’assurdo Tis, emerso dal passato, l’attenderà?

Chiedendosi dove l’ha lasciata, Tis riflette sulla sua giovinez-za. Non dentro un caccia, non in guerra, non nell’avventura di una vita. In una decina di registri firmati ogni giorno, sbarrati alla fine dell’anno con anacronistica cura e consegnati agli archivi, è rimasta presa la miglior parte di lui.

Pagina dopo pagina, foglio dopo foglio, quattro fogli in un mese, tutto è dentro quei registri foderati di plastica. Lì ci sono le menzogne, gli amori, le pene e i tumulti dei giorni, tutto nascosto dietro la Storia, la Geografia, gli Hittiti, i predicati. Altri cinque o sei registri e Tis avrà più reumatismi e meno capelli, ogni pagina più pesante da sollevare, il suo tempo rapidamente dispersosi.

Ma adesso, mentre guarda dalla finestra il giorno che cresce, forse per chi sta andando a vedere un morto e, insieme, una rimpianta infermiera, comincia qualcosa che solo lui può fare. Fra un registro e l’altro, pare giunta la sua personale chiamata del destino. Lascia sul tavolo il Focke Wulf grigio azzurro ed esce. In casa non c’è più un bambino che possa andarlo a prendere.

“Non è che non si possa” disse Luisa. Si fermava i capelli con una mano e lo guardava ancora vagamente sorpresa. “È che è così strano...”

“Non c’è niente di male, devo solo guardare, un secondo.”Nei pochi metri di strada percorsi assieme, dall’ospedale alla

costruzione antica e sempre in riparazione del teatro, Tis aveva già detto quel che voleva vedere, con precipitazione. E adesso, nel vento umido e nel grigiore del mattino la stanca Luisa lo guardava come si guarda un matto.

“Stefano, che te ne fai di vedere un morto?”

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diventare profonda e buia e lì, appena le creste dell’onda si alzavano, sparivano come se la forza immensa che le muoveva le risucchiasse. Sul molo la schiuma si abbatteva in pieno e il vento frustava assieme i cavi e la faccia di Tis. Anche la Luisa scese e camminò fin dove c’era riparo dagli spruzzi.

“Non hai l’età di offenderti come un cretino”, disse a Tis.“No, infatti. Sembra che il mare si voglia portare via tutto, que-

st’inverno.”“Che cosa?”“Il molo. E questo porto maledetto.”“Maledetto perché?”“Perché ci ho passato troppo tempo della mia vita,” rispose

Tis. “È come non essere mai cresciuto. Ci venivo da ragazzo e non ho più smesso di venirci... Forse è stato un rifiuto di crescere, come non occuparsi del divano, non sapere accomodare uno sportello. Tu dici che correvo dietro al vento: è vero. È come una malattia, quella del vento. Vieni qui e la testa va per conto suo. Litigavo e venivo qui. Andavamo a pranzo fuori io, la moglie e il figlio, tutto bello, ma poi li portavo a casa e venivo qui da solo, magari ore intere, mezze giornate...”

“E che voleva dire?” chiese Luisa con l’impermeabile tirato dal vento, il fazzoletto di seta in testa, i capelli all’indietro come una polena della prua, bella sì, che sul viso mostrava adesso qualche pallore, qualche stanchezza che lasciava segni. “Noi siamo stati tutti così, una generazione di gente abituata così, andavamo a spasso da soli, non abbiamo rotto le scatole a nessuno, non abbiamo fatto i grandi gruppi. Siamo gente triste, mica solo tu. Non contavamo nien-te, era tutto difficile.”

“Non abbiamo preso il caffè. Ti scoccia stare qui?”“No.”“Comunque con mia moglie non è andata” disse Tis, “è stato

bello finché è durato.”“Tu sarai anche un bravo ragazzo” disse Luisa “ma non sempre

basta. Allora, perché lo vuoi vedere quel morto?”“Perché lo devo vedere” parlò a voce alta, fra le raffiche. “È

“Vero. Grazie.”“Stefano ti offendi...”“No. Tu dopo tanti anni mi vedi ancora come sono davvero:

esagerato, eccentrico da sempre, uno che adesso va a caccia di cada-veri.”

“No” disse tranquilla Luisa, “però sei sempre stato uno che corre dietro al vento.”

Stette nel mezzo un po’ di silenzio.“Il bello del mondo è che è vario”, scappò detto a Tis, più secco

di quanto avrebbe voluto.Passarono sotto il cavalcavia, imboccarono il viale desolato che

corre lungo il fiume, con in fondo il porto e le flagellate scogliere.“Stefano, ti sei offeso?” chiese ancora Luisa. “Alle volte, vo-

levo dire, a noi donne piace una persona tranquilla. Magari per una donna è più bello andare a comperare un divano che fare una gita a Venezia, vedere, cercare...”

Stefano pensò al suo interesse forzato per i divani. Certo, Luisa aveva ragione. Anche lui, nell’ultimo anno, aveva cercato divani e librerie, cambiato valvole e rotto la lucidatrice che cercava di acco-modare. Ma si era accorto di casa e delle sue robe con l’accanimento tardivo di chi già sente cascare tutto. E poi non c’era nemmeno riu-scito.

“Mi sembrava di recitare una parte” disse alla presenza del porto, “e mia moglie lo sapeva.”

“Che vuol dire?”“Vuol dire che ho sbagliato tutto.”Guardò le barche da pesca che ondeggiavano agli ormeggi, se-

gno di bufera più avanti.“Chi non sbaglia?”Luisa sembrò chiederlo a lui, a se stessa, alla lontana e scono-

sciuta moglie di Tis.“Io più di tutti,” se ne uscì Tis.Come un eroe romantico, scese dall’auto e camminò sul molo

battuto dal vento e fremente per l’urto del mare autunnale. Verso l’orizzonte l’acqua mutava il colore fangoso e l’aspetto selvaggio per

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Tis si mise a ridere.“Pensa, è proprio vero. Correvo dietro al vento e preparavo

l’insurrezione mondiale. La rivolta dei cretini benestanti. In mezzo a questo correre, ho incontrato mia moglie.”

Si mise a ridere anche lei. Nell’auto che vibrava per il ven-to venne un bel ridere, perché ecco che un altro trucco del destino era venuto fuori: due persone pronte alla grande illusione dell’amore erano andate per i fatti loro, senza ragione. E adesso, dopo anni, si vedevano, tranquille e lontane dalle ridicole tempeste dei sentimenti che rendono ogni notte d’estate un penoso labirinto. Lontani: almeno sembra.

“Va bene” disse Luisa, cedendo con simpatia (apparvero intor-no agli occhi rughe che Tis non aveva mai visto) “vuoi vedere il tuo morto? Te lo faccio vedere. Va bene? Stasera alle cinque, e non vo-glio sapere il perché. Ti accompagno io, però adesso voglio proprio un caffè.”

“Sei un tesoro”, disse Tis.Girò la chiave e tirò il motorino a lungo.“Non sai che favore mi fai” continuò. “Cristo della batteria.”“Tu fammi il favore di non lasciarmi qui. Sono stanca e a piedi

non ci vado. Non hai fatto i soldi, eh?”, disse a Tis attaccato al mo-torino.

Tis lasciò la chiave e le passò una mano sui capelli, d’impul-so.

“Dai, dai, partiamo” disse Luisa, “siamo vecchi per queste robe in macchina, al porto. Mai di mattina.”

“Senti” fece Stefano “ti posso vedere?” Si sentì arrossire fino ai capelli.

“Mi vedi, sono qui.”“No, dopo. Voglio dire dopo, ancora.”“No” Luisa si negò senza durezza.“Perché?”“Bada a partire, Stefano” disse lei sorridendo con garbo, e con

ottocentesco sapore aggiunse: “non sono libera.”“Ah.”

una scemata, però lo devo vedere. Non c’è ragione.”“Se non c’è ragione allora perché? Se non è politica, allora

perché? Vai dietro ai drogati? Sei drogato anche tu?”“Senti Luisa” disse Tis “io tra sette giorni ti telefono e te lo

dico...”“Non mi importa. Non è neanche difficile, ma perché non lo

vuoi dire?”“Non è un giochetto che se insisti te lo dico. Io non ti vedo da

anni e anni. Sei bella e io ero innamorato di te, ho sempre pensato che è stata una pazzia aver lasciato perdere tutto quanto. Ci credi?” disse senza guardarla. “Adesso ti devo telefonare per chiederti un favore assurdo, strano, vedi tu come ti pare... Comunque con imba-razzo...”

“L’imbarazzo non sarebbe niente.”“No, ma c’è, e grande.”“Torniamo in macchina” chiese Luisa “fa troppo freddo.”In auto il rumore del vento e il freddo non penetravano. Fuori

si preparava una delle migliori tempeste invernali che Tis ricordasse. Le onde cominciavano a passare sopra il molo e gorgogliava cupa-mente l’acqua spumosa attorno alle scalette e ai pali delle baracche coi retoni. Quando un’onda si rompeva, attorno al faro bianco e ros-so, prima di precipitarsi di nuovo nell’acqua del canale, il vento ne prendeva i merletti di spuma e li portava via allungandoli assurda-mente, spingendoli a raffica su tutto il molo.

“Mi verrà la polmonite” disse Luisa.Vedevano l’acqua torbida correre incuneata tra i due moli del

canale, priva ormai di forza per diventare onda, ma gonfia e piena di avvallamenti, di abissi opachi lungo le calate.

“Certo che anch’io” disse Luisa “anni fa... anche a me pia-cevi... ma tu sei scomparso e mi sono sentita presa in giro. Adesso guarda chi ti telefona mentre lavori con la siringa in mano, e senti che vuole...”

“Io non ho preso in giro nessuno.”“Allora sei corso dietro al vento... O stavi preparando la rivo-

luzione mondiale?”

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gli sciroppi: il figlio avrebbe tossito tutta la stagione.Che farà un ballerino quando fa l’amore con una donna? Forse

sono pochi, si consolò Tis, a farlo con le donne. Questo però, sem-brava di sì. Un ballerino è bello, questo è certo. Asciutto, muscoloso, e magari con quel tanto che stuzzica, un po’ fuori asse, così se con le donne ci va a queste gli pare anche che conceda chissà cosa. Di sicuro non ha la pancia. Tis si immaginò in calzamaglia, e pensò che né umanità, né poesie né comprensione potevano pareggiare il conto a un ballerino che in calzamaglia dev’essere tutt’un’altra cosa.

Alle cinque, prima di vedere il morto, avrebbe chiesto alla Lui-sa di dirgli ancora. Pioveva. Ad andare al ristorante e a leggere il giornale pensò che il tempo potesse andarsene prima. Si mise a gi-rare per le vastità dei viali vuoti, con le foglie a guazzo in terra e le tamerici più che mai simili ad alberi di un sanatorio. Sebbene in tanti dicano che i professori non hanno una vita sessuale, questo in realtà non è vero. La cupezza dei riti scolastici e l’eterna fuga di colleghe per i corridoi rendono improbabile e poco frequente il richiamo della carne. Ma altri dicono che, per quanto il mestiere ottunda la voglia di campare e quindi anche quella del sesso (ma c’è poi connessione davvero?), non sempre riesca a soffocare l’amore e il desiderio di esso.

Mentre per il viale Trieste piegava il vento la fila delle tameri-ci, Tis pensava a una collega amata, quando lui era ancora agli inizi, che aveva peccato senza trasporto parlando di marito e di figli, e poi pentendosi.

Ricordò il lungo giro in periferia per riportare la peccatrice all’auto, davanti alla scuola. Gli anni. Quanti ne sono passati.

Dal ristorante uscì alle tre, fra le inclemenze del clima e con la sensazione di essere stato rapinato. Girò per il centro, il mare, la ferrovia, incerto sulle sue mestizie e, come in un romanzo, paura, de-sideri e rimpianti gli travagliarono lo spirito. Comunque, alle quattro e mezza, era davanti all’ospedale. Alle cinque si affacciò sulla porta la Luisa in divisa.

Tis la seguiva per il vasto tunnel sotterraneo, col soffitto coper-

“Vado a un corso di psicomotricità.”“Che è?” chiese Tis con sospetto.“Non lo sai? Più o meno, è un corso che armonizza e sviluppa

la mente attraverso il corpo, e viceversa.”“E che fate?”“C’è un ballerino, che ci insegna a muoverci con certe regole,

e questo educa la mente e assieme si prende coscienza del corpo, di certi simboli...”

“Pare la scuola media”, si amareggiò Tis ricominciando col motorino.

“Siamo in molti, ci vediamo due sere per settimana e facciamo questi esercizi, e poi dal comportamento che teniamo riusciamo a capire cosa pensiamo, i nostri istinti... e io...”

“Tu che?”“Io faccio l’amore col ballerino. Da vari mesi.”“Ah,” disse Tis. “E l’infermiere di Fano?”Le spiegò della telefonata alla madre.“Non esiste,” disse ancora Luisa “è per mia madre. Ho detto che

è un collega perché con un ballerino non so come l’avrebbe presa.”Il motore finalmente partì. La macchina girò sotto il vento in

cerca del caffè.

Come Dio volle, il tempo della mattina passò: a Stefano Tis importava rivedere la Luisa, e, dalla sera prima, adesso sarebbe già stata la terza volta che si parlavano e si vedevano. E sembrava già d’aver gettato un ponte, ricreato qualcosa di personale, se non di intimo. E anche telefonarle, in futuro, non sarebbe stato più difficile. Però, c’era il ballerino. E comunque, adesso, l’importante era vedere se nuovi mostri, oltre ai consueti, scorrazzavano per la terra. O Si-gnore, il vampiro!

Telefonò a casa della moglie, dove la suocera non seppe dir-gli granché sulla tosse. Di notte no. All’alba e alla sera. Respirare, respira. Ci credo, avevo detto Tis. Perché d’inverno ci deve essere questa tosse dei bambini a tormentare loro e noi? La moglie odiava

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perarono ammassi di vecchi lettini, barelle, seggiole a ruote arruggi-nite e sventrate. Le gambe della Luisa erano piene di slancio. Siamo uniti in un qualcosa, adesso, pensò Tis, servirà? Desiderò una donna d’andare a prendere in macchina, essere baciato sulla porta, andare a pranzo di domenica a casa di lei, carezzarle un fianco nel corridoio mentre arriva il dolce in tavola. Anche il cinema: uscire nelle fredde sere d’inverno, camminare nella nebbia, bere il brandy nel bar della piazza pensando: ho fatto l’amore in macchina come un ragazzino.

“Quanto manca?” chiese.“Poco.”“Luisa sei tanto bella, sei meravigliosa” disse cercando di

prenderla alla vita.“Lo sai dove stiamo andando? Sta’ fermo.”“Luisa, lo ami davvero quel ballerino?” accelerò perché lei

aveva aumentato il passo.“Lo sai dove siamo” ripeté lei “stai andando da un morto e fai

il cretino.”“Un sotterraneo non è confine all’amore” provò Tis.“Pensa a casa tua se ti vedessero” la slanciata Luisa non si

voltò a guardarlo “ti rivedo dopo anni e tu ci provi in... un tunnel ci provi... io proprio non lo so.”

Più che seccata, era lontana.Tis accusò, il desiderio dell’amore provinciale se ne fuggì sotto

le volte umide. Andava a vedere un morto. Da immagini di effusioni nella nebbia, adesso la testa gli proponeva l’orrore che aveva cercato di dimenticare anche mentre gli andava incontro. Il sotterraneo ridi-ventava ora, con evidenza, ciò che sempre era sembrato: un’umida catacomba.

Da una porta con i vetri ovali venne luce all’improvviso. La donna spinse e apparvero semplici scale.

“È qui?” sussurrò Tis.“No. Adesso usciamo.”“Luisa, scusa per prima.”“Non fa niente.”“Sto in un gran casino” disse Tis.

to di tubi che correvano paralleli e si intricavano piegandosi a gomito e raccordandosi con altri di colore diverso. Sembravano dozzine, ed era facile immaginare usi misteriosi e diversi da quelli soliti. Il suo-no dei passi echeggiava sotto la foresta di tubi e in mezzo a bidoni di plastica vuoti che sorgevano da anditi oscuri. Sembrava a Tis di essere sceso nel sotterraneo di un forte, o nella parte più segreta di un moderno castello, in compagnia di una maga imprevedibile. La luce era fioca e Tis immaginò nel buio topi e scarafaggi. Camminavano già da molto, e a tratti scricchiolavano gli ascensori nelle cabine.

“Stiamo girando sotto tutto l’ospedale” disse la ragazza.“Sotto terra?”“Sì. Quando facciamo il turno di notte, alcune chiudono le

porte degli ascensori che vengono su da questo corridoio” spiegò la ragazza.

“Perché?”“Abbiamo paura. Potrebbe salire qualcuno.”“Qualcuno chi?” si allarmò Tis, fingendo di scherzare. “Un

vampiro?”“Ma va’.”“Qui ci si potrebbe nascondere” disse Tis “e nel buio...”“Nessuno ci viene da solo, di notte” disse Luisa “di solito non

c’è nemmeno bisogno.”Entrarono da una porta a vetri in un posto imbiancato di fre-

sco, il pavimento lucido, panche di ferro grigie su cui sedevano una signora e due bambini. Le tubazioni scomparivano sotto una serie di pannelli bianchi tutti forati, sopra i quali macchie di ruggine e umidi-tà parevano voler riaffermare il primato del buio e del disfacimento. Da due pannelli scostati i tubi, azzurri e arancioni, mostravano i loro intrichi. Tis pensò ancora una volta ai topi sospesi stavolta a mez-z’aria sul soffitto correre lungo i condotti e occhieggiare dai fori i passanti. I ragazzini saltavano su e giù dalle panche.

“Avete topi qui?” chiese Tis.“Sono la mutua più forte” disse Luisa “a volte rodono i fili

degli apparecchi radiologici e fanno un bel danno.”Uscirono da quel tratto di corridoio e ripresero la galleria, su-

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CAPITOLO XI

Ripensandoci dopo, a Tis sembrava che l’odore di formalina uscisse addirittura dal locale propagandosi fuori. Ma questo eviden-temente non era possibile. Quando la Luisa aperse la prima porta mormorando che solo Dio sapeva perché lei lo faceva, Tis scorse una stanza stretta in cui mancava tutto, tranne un portaombrelli metallico che gli venne fra i piedi. Da questo vano vide un’altra porta di ferro, come quelle delle cabine della luce e dei depositi d’acqua. La ragaz-za armeggiò anche su quella e l’aperse con consumata perizia. Sparì dentro e allo scatto di un interruttore rispose, dopo un paio di palpiti lampeggianti, l’accendersi del neon. Un attimo e fu indietro, con la luce alle spalle, pensò Tis, come una attrice sul proscenio. Prese Tis con forza per l’impermeabile e lo guardò in faccia da vicino, “Io esco e aspetto fuori. Io non so niente. Hai capito?”

“Sì” rispose Tis specchiandosi nel pallore di lei “tu non sai niente. Io non ti conosco.”

“Le porte le devi chiudere. Te le devi chiudere dietro quando esci. Io ti aspetto lontano. La luce... ti ricorderai di spegnerla?” Prese la mano di Tis e la guidò, gli poggiò le dita sull’interruttore che stava in mezzo a tanti altri.

“È questo, non un altro. Non li premere tutti assieme. Sei un...”Non finì e corse fuori. Per un tempo lunghissimo lui non seppe

darsi il via per muoversi. L’odore di formalina saliva direttamente dal pavimento lucidissimo. Davanti, sulla parete opposta vedeva una specie di grande schedario metallico grigio, con i cassettoni e le ma-niglie su ognuno, e un numero dipinto in rosso. In mezzo alla sala c’erano due letti, come chiamarli, di marmo e mattonelle, canali e cromate rubinetterie da un lato. A passo lento, come percorrendo una grande distanza, Tis superò le due cose e arrivò alla parete d’acciaio. Afferrò la prima maniglia e tirò: il cassettone venne fuori per metà, vuoto, con una parte che rimase al buio e da cui venne un gran fred-do. Respinse quella sorta di frigo e il rumore secco lo fece sussultare. Venne preso da una gran fretta. Ne aperse un altro e di nuovo percepì

“Mi pareva.”“Sono infelice e adesso ho anche paura.”“Perché?”“Non te lo posso dire.”“Allora non lo dire.”“Tu che provi quando guardi un morto?”“Niente. Poco. Con tanta gente hai anche parlato.”Uscirono nella sera e Tis non capì per niente dove stavano. Un

paio di gatti si riparavano sotto un enorme pino: pioveva appena.“È il lavoro” continuò Luisa, “pensa a chi lavora in pediatria.

Ci sono bambini che girano per il reparto, giocano con tutti, pensa a quando...”

“Vuoi dire quando muoiono.”“Se muoiono stai male un giorno o due, poi ti passa, sennò che

fai? Con queste cose ci lavori.”Tis pensò ai fatti suoi facendo propositi e scacciando le brutte

immagini che gli salivano dalla sua anima disgraziata.“È grave la tosse cattiva?”“Macché. È noiosa, ci puoi fare poco. Ce l’ha tuo figlio?”“Mia moglie gliela farà venire” disse Tis con rancore.“È qui” disse Luisa “siamo arrivati. Perché non gliela curi tu

la tosse? Vai a vedere i morti, fai lo stupido con me nei sotterranei... metà sembri stupido e metà fai pena.”

Tis sentì la grande verità e allargò le braccia sotto la pioggia.

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La morte per sangue, quella striscia di male giunta fin lì, nella prevedibile città della sua vita, rese Tis, appena l’immediato orro-re passò, amaro, solitario e assetato almeno quanto Philip Marlowe. Amaro in quanto solo e dubitoso d’aiuto, solitario perché sarebbero cresciuti l’isolamento e il silenzio del suo vivere, assetato in quanto non è che, senza liquore, si possano sopportare le due cose preceden-ti, né tantomeno quest’ultima rivelazione.

Dopo che ebbe percorso a passi furiosi i giardinetti e quando già era ben dentro al tumulto serale del passeggio del Corso, Tis ri-cordò di essere uscito in auto e d’averla ormai lasciata, a probabile disco scaduto, nel parcheggio davanti all’ospedale. Si arrestò come fulminato e con lo sguardo vuoto. Qualcuno lo urtò, ma nessuno par-ve accorgersi della sua faccia. Tornare indietro? Sembrò senza ragio-ne intollerabile. Si infilò nel bar davanti alla farmacia, strisciò lungo una fila di chiassosi militari in libera uscita.

“Un whisky doppio” chiese al barista.Questi parve esitare.“Che c’è?” fece Tis.“Non me lo aveva mai chiesto nessuno, in tanti anni” disse il

barista. “Millequattro. Credevo che usasse solo al cinema.”“La vita è un cinema” spiegò Tis con ampio gesto.Prese il bicchiere e guardò i militari, la gente, il cameriere,

come l’inascoltato profeta che contempli Gerusalemme ignara del-l’incombente rovina. Il liquore bruciò nell’ora insolita trovando su-bito e assieme ginocchia e volontà di Tis. Si sentì meno solo. Cioè, solo uguale ma più forte. Pure sarebbe finita l’ebbrezza e quello spa-ruto coraggio.

“Voglio una bottiglia” chiese al cameriere.Quello sparò una cifra assurda. Pagò ugualmente e già malfer-

mo uscì nella fiumana, spettacolo pietoso come l’inizio di un raccon-to di depravazione e fine, come Poe nella pioggia di Boston. Gesù – pensò imboccando la via di casa – la letteratura è finita, che comincia adesso? Chiamò il gatto, aperse la porta, richiuse, riaperse, mise la bottiglia nel buio delle scale, riuscì mentre il gatto miagolava, andò a comperargli la carne in scatola. Uscì senza pagare, fu richiamato, si

il freddo che usciva: vuoto. Il terzo scivolò più pesante: assieme al freddo apparve una forma lunga, distesa come un sacco di biancheria. Ormai, a quel punto... Si guardò una mano andare verso il lenzuolo. Tirò: apparvero due piedi con unghie laccate di rosso. I piedi non avevano nessun colore, forse erano bianchi. Tis ricacciò indietro il carrello mentre cominciava a sentirsi male. Intorno gli sembrò che la stanza, i letti di marmo e l’armadio a vetri con le lame luccicanti, tut-to cominciasse a girare. Allora afferrò la maniglia dell’altro cassetto, perché comprese che se fosse svenuto magari avrebbe perso anche il posto a scuola, e lì sul pavimento non poteva farsi trovare. Anche quello era pieno. Sapeva cosa avrebbe visto. Questa volta scoper-se due magri piedi e il cartellino appeso all’alluce (come nei film americani, pensò). Parve che il cassetto gelido ci mettesse un’ora a slungarsi fuori della parete. Scoperse la faccia senza guardarla. Non vide nulla, a destra, sul collo. Girò attorno al cassettone sentendo che la stanza non aveva finito di ondeggiare sopra la nausea che saliva. A sinistra vide quel che bastava. Due buchi, cui nessuno poteva dar credito tranne lui. Levò lo sguardo un istante verso la faccia lunga, i capelli neri e opachi. Spinse dentro il carrello.

A ogni passo gli parve che il pavimento nero gli venisse in-contro in un’onda di formalina. Trovò l’interruttore giusto, chiuse la porta. Era fuori. Chiuse la seconda porta, fissò un lampione nel cui cono di luce risaltava magnificamente la pioggia. Si appoggiò allo stipite ringraziando il fresco, l’aria umida.

La Luisa non era andata lontano, era lì e lo tirò via.“Mai più una cosa simile, per te... io non lo so...” corse via e

Tis la seguì. La terra aveva smesso di muoversi e girare.“Vieni alla macchinetta del caffè” disse la ragazza che salutò

un infermiere con una bombola in mano.“Sì” disse Tis “non sono una foglia al vento, resisto.”Ma poi, in quella sorta di labirinto di viali, pini, palazzi da cui

si entrava e usciva, vide un ingresso e una sbarra rossa. Vi si preci-pitò e passò sotto, ignorando l’ampio passaggio laterale. L’usciere lo guardò come si guarda un fantasma. Non ricordò di salutare la Luisa.

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fezione lo porterà a mordere alunni e colleghi per i corridoi della scuola? Hai voglia a ridere, povero Tis – pensa. Si alza con grandi giramenti di testa che Philip Marlowe non avrebbe certamente avu-to. Spegne il televisore e ancora il gatto gli gira attorno. La casa è vuota. Di che deve avere paura? Non c’è nulla nell’aria e nel vuoto delle stanze. Ma che vuol dire la morte? Muoiono gli alberi che da duecento anni guardano il mare battere il monte della Panoramica portandolo via? Ad ogni passo Tis sente la marea della sbornia muo-verglisi dentro.

Si siede in cucina dove ancora campeggia il Focke Wulf grigio azzurro con le sue croci nere e i numeri sotto le ali. Il gatto salta sul tavolino. Forse rimpiange gli assenti di Tis? Alla moglie era legato, le dormiva in grembo anche nelle più accese discussioni, al bambi-no andava spesso a dormirgli nel lettino. Sono mesi che non li vede più, non ha dato soddisfazione di mostrarsene dispiaciuto. Tis non guarda fuori della finestra: chissà cosa ci vedrebbe. Il gatto non è inquieto. Può lui permettere che un mostro uccida la gente? Ufficiale e soldato, esercito intero arruolato dal senso del dovere che filtra da una rigida infanzia, Tis parte per la sua campagna. Vorrebbe restare, pur nella casa vuota e abbandonata, ma non ha nessuno che accolga le sue deleghe. A Londei però lo può dire. Gli va a telefonare. Il gat-to sente inciampi e la voce roca che insulta, incita, prega qualcuno. Almeno quel vanesio Londei a dargli una mano. Essere soli di fronte a quel che sta per accadere non si può. La telefonata dura a lungo. Il gatto ode promesse solenni, sente anche “vigliacco imbecille”.

Tis rientra in cucina meditando ricatti. Gli deve Londei dei soldi? No, è vero il contrario. Ma forse questa notte Londei avrà vergogna della sua viltà e del rifiuto. In quel buio loro sono gli eletti. Ballino gli altri nelle discoteche, consumino piadine e birra sotto i pergolati delle colline. Ci penserà a questo, Londei?

La morte: d’inverno i contrafforti del duomo sotto la pioggia battente, il fiume dove lo scrittore morì.

Il gatto guarda l’uomo seduto davanti all’aereo di plastica. Con decisione comincia a suonare il telefono.

“Sono Luisa.”

scusò, l’androne di casa lo accolse, il gatto cercò di farlo cadere.“Io ti nutro e tu mi ammazzi” disse alla bestia.Nel negozio parlarono a lungo di lui, dissero che l’amante non

l’aveva, la moglie chissà. Una vicina commiserò il bambino.

Così la morte era arrivata in città. Sul letto Tis pensava e be-veva a piccoli sorsi, la televisione accesa per abitudine e paura del silenzio. Il gatto si ingozzava in cucina e, dopo breve, apparve sazio e consolatorio, fremente di gratitudine, pronto al riposo.

Non la morte di tutti i giorni che porta via vecchi, motociclisti, creature, che spezza legami, promesse, accumulazioni, che risolve i ritardi dello stato.

Questa era diversa. Marciava ghignando su sentieri che sali-vano dal nulla, portava un manto rosso. Non la potevi ambientare in niente di moderno: una sala operatoria o una corsia, o il platano che si berrà l’ultimo sangue nostro. Questa era come un monatto, un mostro del buio che solo i cani sentono.

Ecco, veniva fuori da una cripta; percorreva viali neri. A stare ai pittori, cavalca cavalli scheletrici e comanda schiere di vuoti spet-tri. Forse increspava le acque del golfo del Messico ricche di squali, quando Tex Willer le percorse. Questa era sospesa al baldacchino del malvagio signore che da troppo agonizza. Questa alcuni videro dai treni che andavano al fronte: pareva una qualunque figura appoggiata a un muro di una casa, ma ci fu chi la riconobbe. Tis versa ancora, ma siamo alla fine perché ha tutto un fuoco nelle orecchie, e a bere an-cora va a rischio di star male e non gli manca che questo. E la scuola domani? Comunque deve chiedere un permesso, fare un certificato. Non può andare a strofinarsi al sudario della Signora fra un consiglio di classe e una circolare del ministero.

A questo punto Tis sa cosa deve fare. È una follia. Dovrà anda-re a vedere nuovamente quell’Avoli e mettergli un paletto nel cuore. Questo di notte, se è diventato un vampiro, il che non crede. Ma controllare, quindi vedere, deve comunque. Che penserà sua moglie quando lo arresteranno al cimitero? Verrà morsicato anche lui? L’in-

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“Philip chi?”“Ciao Luisa” dice Tis.Riattacca. Atmosfera da lungo addio. Sospira. Imbecille due

volte. Si pente. Magari lei era pronta a venire lì a fargli compagnia. Tis adesso ha anche paura del buio. Certo. Ma potrebbe competere con il ballerino? Sente freddo. Luisa: la rivedrà più? È ubriaco.

In cucina lo accoglie il gatto con indifferenza. Muove la testa, un occhio socchiuso. La morte. “Sai dirmi tu che sia questo supremo scolorar del sembiante?” chiede al gatto. La bestia apre tutti e due gli occhi e lo guarda con comprensione.

“Luisa bella, Luisa dolce.”“Stefano hai bevuto.”“Mica sei mia moglie” dice Tis “il che è un peccato, perché se

tu fossi mia moglie io...”“Stefano!” lo interrompe lei.“Sono qui.”“Mi hai fatto impressione a scappare in quel modo...”“Non sono scappato. Ho guardato e sono andato a casa con

calma.”Tis rivide quel poco di morte che aveva visto nel cassone, l’at-

mosfera da fredda barbieria, i due buchi sul collo.“Non è vero, hai lasciato la macchina davanti all’ospedale e sta

ancora lì.”“Avevo voglia di fare due passi.”“Stefano non scherzare. Ho letto sul giornale di questo ragaz-

zo, non si capisce...”Stefano, che solo sa, ride con sapienza.“I suoi compagni” continua Luisa “hanno detto che ci sono dei

lati oscuri. Dunque è ancora una cosa di politica...”“La politica, la politica...” ride Tis.“Quali sono i lati oscuri?”Certo che ci sono – pensa Tis – i lati oscuri. Sono due buchetti

che nessuno ha voluto spiegare. I topi? Diciamo pure i topi. È molto diversa l’oscurità che lui ha intravisto da quella del complotto che al-tri hanno immaginato. La sua è l’oscurità vera, quella dove sbuffano lembi di fantasmi e non penetra la luce dei fari.

“Ma non è vero niente” dice Tis alla Luisa “veramente. È tutta una balla.”

“L’hanno ammazzato con la droga tagliata? L’hanno fatto ap-posta?”

“Ma no, guarda, te lo dico sul serio. Sono sobrio, anche. Non è vero niente, l’eroina non c’entra.”

“Perché hai bevuto?”“Philip Marlowe beve per sopportare il male e il tradimento”

proclama Tis.

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CAPITOLO XII

A scuola arrivò in ritardo e con tale faccia che nessuno fece malignità quando annunciò che prendeva quindici giorni. Entrato in presidenza, subito uscì dopo l’annuncio e tutto quello che aveva bevuto si vedeva nella pelle livida e mosse a compassione chi lo guardò percorrere il corridoio con andatura da sopravvissuto. Du-rante l’intervallo, commenti sulla sua vita ribollirono nella palude professorale.

Mentre di Tis si parlava, egli sedeva davanti alla Rocca della prigione, nel giardinetto con panchine rotte. Non era esclusa la possi-bilità di varcare quell’ingresso, di lì a poco. E se l’avessero portato al manicomio? Queste due ipotesi occuparono Tis un paio d’ore finché non se ne andò per pensare alle stesse cose sul divano del salotto. Alle due la porta di casa si aprì e Tis ne uscì, con la collera che gli ridava colore.

Dopo la telefonata della sera prima e il secco no di Londei, Tis aveva richiamato all’una e mezza. Gli aveva risposto Laura, la bella di Mauro, dicendo che l’amico non c’era. Al che Tis aveva pensato, pieno d’ira, che Londei gli si negasse. Così gli andava a casa e, ma-gari a botte, lo costringeva. Lo costringeva a che? Il cuore al pensiero gli si strinse e l’angoscia gli traboccò nella testa. Quanto era solo. Quanto doveva sembrare pazzo. Il paletto nel cuore di un morto, il paletto nel cuore di un vampiro mentre il campionato di calcio rico-minciava e quello di formula uno finiva. Sarebbe uscito, in qualche modo, da questa storia? Trovare qualcuno, poterlo dire alla moglie, baciare il figlio innocente ora che il padre suo, come Ettore, se ne va verso una pianura cruenta e fatale.

Torno a casa e telefono – pensò. Invece girò nella piazza verso la SIP.

“Dieci gettoni” disse.La signorina considerò la sua faccia frettolosa e il modo con

cui sbatté la porta della cabina.“Pronto.”

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“Come stai?” chiese ancora Laura. “Non hai un bell’aspetto, sei nervoso.”

“Sarà l’età...”La guardò. Portava una gonna lunga, e Tis risentì la grazia di

quel saluto al quale non si poteva abituare. Sopra la gonna portava un maglione viola a collo alto e Tis fu pieno di tristezza perché il maglio-ne era pieno di movimenti. Riconsiderando tutto, capiva l’amico.

“Ti vedo bene” le disse pieno di tumultuosa malizia.“Tu hai l’aria stanca” gli rispose Laura. “Ti faccio il tè.”Tis si lasciò cadere su un sacco di polistirolo che era una pol-

trona e sentì la ragazza canticchiare in cucina.“Mauro torna subito” gli arrivò da lì.“Dov’è andato?”“Non so, cercava un libro da un amico.”“Ti ha detto niente?”“No. Di chi? Di che cosa?” chiese Laura sembrando così la

risposta del complemento di specificazione.“Di me.”“No, perché?”“Niente. Allora, come va?”“Bene. Sto per partire.”“Dove vai?” chiese Tis perso in un sogno di giovanili amplessi

in ostelli e sacchi a pelo.“A Spoleto. C’è un festival pop. Vuoi venire?”“Con te?” chiese Tis sussultando.“Sì, con gli amici. Partiamo domani con un pulmino” trillò la

ragazza.Nel cuore di Tis tornò la depressione.“Un’altra volta.”Nella stanza c’era odore di incenso. Tis si guardò attorno. Il

profumo parve crescere, poi arrivò Laura con il tè. Era quello che profumava: Tis se ne accorse con disappunto.

“Ecco qua” disse la ragazza.“Ah.”“Ti ci metto lo zucchero di canna.”

“Pronto, chi è? Chi è?” Riconobbe la voce del bambino e gli sembrò raffreddata.

“Amore, sono papà.”“Papà, papà,” strillò l’innocente “mi hai comprato le figurine?”“Che figurine?”“La mamma dice che le compri tu” disse contrariato il bambino.“Pronto?” disse la moglie al telefono.“Sono io.”“Lo sapevo.”“Cos’è la storia delle figurine?”“Adesso vuole l’album coi calciatori e ha fatto i capricci. Così

gli ho detto che tanto tutte le stupidaggini le prendi tu...”“Grazie” rispose Tis lottando con l’emergente voglia del litigio.“Se non ci fossi tu, a buttare i soldi per tutti...” sospirò la moglie.“Senti,” le disse Tis “malgrado tu non sia una donna onesta...”“Hai pranzato?” chiese la moglie.Tis le fu grato della sfumatura d’interesse nella voce, forse di

compatimento. Ben immaginava, lei, le miserie dei pranzi col gior-nale, senza tovaglia.

“Io ti voglio bene” disse Tis improvvisamente, quasi aspettan-dosi miracoli.

“Non fare l’opera lirica” disse la moglie.“Puttana, allora!” urlò Tis nel telefono.“Magari lo fossi...” fece a tempo a sentire, mentre riattaccava

quasi sfasciando l’incolpevole apparecchio. Premette il pulsante di recupero dei gettoni che il telefono sbattuto per dispetto s’inghiottì.

“Questa è la SIP” disse alla signorina.Uscì e pedalò in piedi fino a casa di Londei. Salì i gradini a pas-

so di carica. Bussò alla porta ignorando il campanello. Aprì Laura.“Dov’è” chiese Tis.“Non c’è. Come stai? Entra.” Lo baciò come sempre sulla bocca.Tis era in tinello e si guardava sospettosamente in giro.“Gli devo parlare.”“Siedi,” disse Laura “ti faccio il tè.”Dio, il tè no – pensò Tis. “Grazie” disse.

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“Non posso, sta’ zitto.”“Non vuoi.”“Vorrei ma non posso. Ma come si può sentire certa roba...”“Lo sai che è vero tutto” sibilò Tis.“Sì, è vero. Ma per me è finto.”“Che amico sei?”“Mica t’ho sposato. E non urlare: non vedi che siamo dove tutti

possono sentire?”Uscirono sulla strada. Lì, la breve calma del dopopranzo sotto

le nuvole stava già cambiandosi nel preambolo della sera e faceva freddo. Il vento portava via le foglie e un giornale roteava in mezzo alla strada.

“Ho fatto un piano” spiegò convulso Tis “che funzionerà. Ma devi accompagnarmi.”

“Sentiamo” acconsentì Londei.Tis glielo espose e Londei disse: “Tu sei matto.”“Senti, domani ci sono i funerali e domani notte potrebbe es-

sere troppo tardi.”“Non me ne frega niente.”Ma già Tis lo andava trascinando via, gli spiegava il visto e

l’immaginabile, diceva, garantiva, giurava, la metteva sul facile. Avevano fatto a spinte duecento metri quando Londei si divincolò e fuggì. Tis lo raggiunse e lo minacciò, Londei fuggì di nuovo e Tis ancora lo riprese.

“Diamoci un contegno” disse Londei con aria sconfitta.Quando infine smisero di parlare, faceva notte. Tis andò in cer-

ca di un cinema che lo distraesse. Avrebbe aspettato l’infelice Londei a casa, per il dopopranzo dell’indomani. Avrebbero visto i funerali e poi, su suggerimento appropriato di Londei, si sarebbero vestiti da studenti, con giacconi e il resto, portando con loro una bomboletta spray: così che l’effrazione sembrasse dovuta non alla ricerca del male ma a indagini di nascoste verità politiche.

Del film non capì nulla.

“No, grazie” sospirò lui.“Sei triste?” Laura gli accarezzò una guancia e Tis pensò di

alzarle il maglione.“No, no” disse più a se stesso che a Laura. “È buono il tè.”In realtà mezzo litro d’acqua calda dopopranzo gli sembrava

un castigo. Questo, poi, era un tè grigioverde che sapeva di fieno e di erba medica. Oltre che di incenso. Cominciò a bere.

“È nepalese” spiegò la ragazza.“Ah ecco,” disse Tis “mi pareva.”“Sì, vorrei tanto andare in Nepal, a Katmandù.”“Sono due passi” disse Tis.“A te piacerebbe?”“Ormai sono vecchio. Buono il tè”, mentì di nuovo.“Sono erbe di montagna, aromatiche. Nel Nepal ci sono le

montagne, c’è una natura meravigliosa.”Carina era, non si poteva negare. E gentile. Forse si era accorta

di come la guardava. Tis rimise il naso nel tè. “Bella la natura del Nepal” convenne. Guardò l’ora, erano le due e mezza. Sentì di sotto il motore di un’auto. Lasciò lì il tè.

“Ecco Mauro,” esclamò “gli vado incontro.” Mica poteva par-largli lì, davanti a lei. L’agitazione, per dieci minuti messa in sordina, lo riprese.

“Ma aspetta...” disse Laura mentre Tis galoppava per le scale. Nell’atrio Londei non ebbe il tempo di spaventarsi che già Tis lo aveva inchiodato alla parete.

“Ho visto con questi occhi, due buchi sul collo. Da solo ci sono andato,” urlò “non puoi tirarti indietro. Ti porto all’ospedale e vedi anche tu.”

Londei fece cenni disperati di star zitto, di non gridare.“Ma non capisci?” urlava Tis “può essere un’epidemia se non

la fermiamo, e nessuno capirà niente!”“Senti, calmati, sta’ zitto, siamo nelle scale, mi hai detto che

non è vero niente...”“Andiamo a casa mia” disse Tis. “Ho solo detto che per me i

morti non si infettano.”

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CAPITOLO XIII

Un tiepido sole che non c’entrava niente s’ingegnò di rende-re ancora più assurde le svelte esequie del giovane Avoli: brillò sul praticello davanti al cimitero, fece qualche altro ingenuo effetto di luce sull’edera che ricopriva le tombe più vecchie. Londei e Tis oc-chieggiarono in giro, scrutarono il canale, annusarono i tristi fiori in vendita davanti al cancello. Infine entrarono come se andassero a spasso. Londei, convintosi a seguire il folle amico solo dopo aver finito una bottiglia che Tis già aveva dimezzato due sere prima, ebbro dunque nel varcare la paurosa soglia, prese fiato come per parlare, ma le parole non vennero.

“È tardi”, disse Tis. Prese Londei amichevolmente per il brac-cio, stringendolo per quanto poteva.

“Vediamo dove mettono la cassa. Poi si farà. D’accordo?”“Tutto scientifico, capo” rispose Londei che quando beveva era

come un bambino. Come un agnello seguì l’amico collezionatore di aerei e altre infantilaggini, come se si trattasse di un maresciallo di Francia.

In chiesa c’era la cassa nel mezzo, due o tre tipi di studenti per ogni fila, una vecchia, pochi adulti indistinti, chi saranno? I parenti? – si chiese, e in piedi riconobbe l’alta figura del collega Gladioni che non poteva mancare ovunque gli paresse di intuire un complotto del-le multinazionali o una nequizia dei servizi segreti. Per il lanciatore di gomme Avoli, giunto alla fine di sua dimora in terra, non c’erano fiori né corone e quella cassaccia nuda fece subito venire a Tis una convulsione di paura, pietà e vertigine che gli salirono come un sin-ghiozzo alla gola. Magari, dopo tanto bere, c’entrava anche lo stoma-co. Londei lo guardava e Tis gli rispose con un sorriso spaventevole. L’altro ricadde a sedere. Il prescelto dal destino, invece, restò in piedi come il forte di S. Leo sotto il vento, sull’orlo dell’abisso.

Pure, nella chiesa, la poca luce crepuscolare era calda e dimes-sa, con un sapore di pace malgrado tutto, e parlavano di pace anche le parole che frettolosamente salutarono il fratello Roberto nella sua

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“La fanno sempre,” disse Londei “è obbligatoria in questi casi...”

“Un compagno ospedaliero mi ha detto che i medici non hanno trovato molto sangue...”

Quello di Tis e Londei gelò nel profondo, ombre nere calarono sul cimitero scacciandone i passeri, il sole definitivamente disparve.

“Se tu credi che ammazzino uno solo perché ha parlato per una radio libera e ha fatto due nomi...” uscì raucamente a Tis mentre guardava pieno di freddo la salma dell’Avoli entrare nella camera ardente a fianco dell’entrata.

“I giovani del Movimento rappresentano il vero nemico dello stato e dei trafficanti di droga,” spiegò Gladioni col dito alzato “e il compagno Avoli...”

“Il compagno Avoli ballava in piazza, contava i piccioni ed era pieno di musica e eroina, cosa credi?” disse Londei con aria ag-gressiva, pallido e incerto di dove fosse, di dove lo conduceva la sua vita.

“Ce l’hai con me?” chiese Gladioni “io non scendo sul perso-nale.”

“Tu non sei una persona,” disse Londei “tu sei un manifesto.”“Sentite, almeno al cimitero” intervenne Tis “non facciamo

l’eterno comizio di questo paese.” Prese Londei per il braccio: “È tardi,” gli disse “non lo sai?”

Ciao Gladioni, ciao, ciao. Si salutarono. “La crescita politica, il movimento...”, lo udirono ancora mormorare.

“Hai guardato?” chiese Londei.“Sì.”“Dove l’hanno messo?”“Là dentro, come tutti gli altri.”“Lo vuoi sempre fare?”“E tu?”“No.”“Al mondo deve esserci qualcuno diverso da Gladioni” disse Tis.“Questo è vero.”“Ti accompagno a casa e t’aspetto mentre ti cambi.”

cassa “... dobbiamo essere grati al nostro fratello Roberto che ci ri-corda come il nostro sia un passaggio... noi usciamo senza paura dalla valle del pianto perché è verso la luce... e un’altra vita nelle braccia del Signore...”

Nella valle del pianto: fin qui ha ragione il prete, si disse Tis, ma più avanti? La luce, la vita, il riposo: ahimé, quanto ci illudiamo mentre cadiamo verso questo buio dalle ganasce allentate e senza memoria, diceva una voce dentro di lui. Gli parve che Londei muo-vesse appena le labbra.

“Che fai, preghi?”“No, io no” rispose l’amico dal suo pallore. Il prete girò attor-

no alla cassa benedicendo, forse spruzzò anche il collega Gladioni, poi scomparve in sacrestia con la sua schiena viola. Senza che Tis se l’aspettasse, due uomini col cappotto si avvicinarono alla bara. Que-sta, che era appoggiata a un carrello, troppo facilmente scivolò verso l’uscita con un progressivo rombo e rotolio che risuonò nella chiesa come le trombe del giudizio.

“È finita?” chiese Londei.“È finita.”Uscirono, e sulla ghiaia li raggiunse il collega Gladioni.“Anche voi qui?”“Anche noi, per caso” rispose Londei.“Sì, siamo qui di passaggio” spiegò impassibile Tis che pensa-

va alla valle del pianto.“Qui c’è qualcosa di poco chiaro” annunciò Gladioni.“Viene notte, difatti” replicò Londei al quale il collega stava

proprio lì.“Un’ennesima manovra...” cominciò Gladioni.“Ma dai” disse Tis “sul serio?”“Avoli aveva fatto parte del collettivo politico di radio Terra e

Libertà ed era stato figura di primo piano nella lotta di contrinforma-zione sulla droga e siccome quando lo arrestarono fece nomi...”

“Ma dai” disse ancora Tis, “non penserai...”“Perché lo seppelliscono solo ora? La polizia copre qualcuno.

Perché gli hanno fatto l’autopsia?”

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CAPITOLO XIV

Nei crepuscoli del mondo le grandi cause trovano sempre due uomini generosi e impauriti. La causa in questione ne trovò due per strada vestiti da studenti e li sospinse al cimitero. La nebbia veniva calando nell’umidità e nel freddo della sera, propizia forse a quanto si apprestavano a fare o più facilmente foriera di orrore, guai e igno-minia, magari di licenziamento dalla Pubblica Istruzione.

Benché fra i cipressi il traffico fosse subito diminuito e poi cessato del tutto, Tis non si sentiva tranquillo né gli pareva di poter trovare un luogo dove nascondersi con Londei. Lo sguardo si imbat-teva ovunque in fughe di tombe, in lapidi, in viali di lumini allineati, in ombre insormontabili dove le siepi si alzavano. Chiudersi in una cappella, fra le pareti di vecchi morti e un altarino, era da escludere. Il suono ripetuto della campana era già echeggiato e aveva chiamato a sé le ultime ombre dei visitatori. Anche il tonfo del cancello che si chiudeva era giunto fino a loro. Tis e Londei avevano le giacche ver-di, i calzoni di tela, Tis si guardava incerto le scarpe da tennis nuove di Londei. Londei aveva al collo una collana di Laura che Tis aveva rifiutato. Ma Tis portava comunque un foulard annodato e in qualche modo s’era scompigliato i capelli e li aveva tirati sulla fronte.

“Be’? Che si prova a essere vestito da ala creativa?” soffiò Londei quando riprese fiato.

“Sta’ zitto, sta’ zitto!” disse Tis.Si guardarono attorno restando immobili. Londei osservò la

borsa di pelle che l’altro aveva sottobraccio.“Di’, sembro uno studente?”“Certo. Di notte gli anni non si vedono.”Erano all’estrema periferia del cimitero, dove nessuna luce si

muoveva fra le lapidi e dove i campi cominciavano appena al di là del muro di cinta. Tis si strinse il fazzoletto al collo e gradì il tepo-re della giacca a vento sulle mani. Gli sembrò comodo credere che tremassero ancora per il freddo. Anche dalle scarpe saliva il freddo della ghiaia. Ma certo era stato meglio vestirsi così, prendere lo spray

“Hai paura che mi chiuda dentro, vero?”“Già.”“Come hai fatto a capire?” chiese Londei.“Perché io vorrei che un’auto m’investisse per stare in ospeda-

le due settimane e uscire quando è troppo tardi.”“Mica ci pagano,” tentò Londei “possiamo andare al cinema,

a cena...”“Siamo uomini” rispose Tis.“Non fare la retorica.”

Nella grande malinconia della sera comincia a levarsi una leg-gera nebbia che avanza costante e sembra abbia intenzione di cre-scere. Il torrente di fianco al cimitero scorre tranquillo. Le sue acque vengono dalle colline che circondano la città, si raccolgono in solchi arati e nelle pieghe della terra, passano sotto i ponticelli campestri, seguono il serpeggiare di stradine bianche, vedono rustici abbando-nati, costeggiano file di pioppi, qualche quercia, arcaici equiseti, sci-volano fra i nuovi quartieri della città finché, malamente incanalate, vanno alla foce. Fra poco, come ogni sera, il loro gorgoglio sarà solo a tenere compagnia ai morti.

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“Qui di buono non c’è niente” rispose Londei. La voce gli si ruppe dalla paura e il battito dei denti pareva udibile ovunque. Tis frugò nella borsa e ne tirò fuori una bottiglietta. Passò un braccio at-torno alle spalle di Londei e gli fece: “Sta’ buono, sta’ buono,” come a un bambino “adesso bevi un sorso.”

Tutti e due sentirono il rotolio di un treno crescere, essere su di loro, allontanarsi.

“Senti dove passa il treno. Qui a un passo,” disse Tis “qui a un passo.”

Londei bevve un sorso e subito un altro.“È Caffè Sport, è buono” spiegò Tis.“Tira su. È vero che tira su?” chiese affannosamente Londei.

Ne bevve un terzo. Bevve anche Tis e subito gli venne da tossire. La tosse suonò nel cimitero così sfrenata da temere che né buio né nebbia potessero nasconderla. Si alzò in piedi, e anche Londei che gli batté sulla schiena come se, invece di aiutarlo, volesse ucciderlo su-bito, a botte, lì sul posto. La tosse cessò e i due riscivolarono a sede-re. Il calore del Caffè Sport arrivò alla testa e al cuore di entrambi.

“Dammene ancora” disse Londei. Ci si attaccò e bevve. An-che Tis mandò giù, sperando nella forza del caffè e nel coraggio dell’alcol.

“Un tale di nome Della Santa” disse Londei, la cui voce arrivò forte e chiara, “cadde anni fa davanti al camposanto. Era ubriaco e aveva i piedi legati nei pedali, una bicicletta da corsa. ‘Aiuto aiuto’, nessuno lo andava a levare perchè pensavano a un fantasma. Alla fine chiamarono un prete.” Tis lo scosse e vide che gli occhi gli bril-lavano.

“Ancora un sorso?”“Mais oui” rispose Londei. “Senti, se ci prendono lo sai che

diciamo? La verità. Siamo venuti qui a vedere un drogato morto, ucciso da un conte vampiro. Se il drogato si sveglia, andrà in giro mordendo anche lui... Questo diciamo. Così ci mettono in manico-mio e non ci tira fuori più neanche Basaglia.”

“Vagli a dire a Basaglia, di un vampiro...” sospirò Tis.Bevve il Caffè Sport senza tossire e con un piacere che gli

rosso. Se li avessero scoperti, una rapida fuga di giacche verdi nel-la nebbia e uno spray abbandonato, avrebbero comunque costituito qualcosa di già visto e – pur nell’orrido – di consueto. Due compagni che rivendicano, e scoprono e scrivono nella notte, sul muro, la pro-va che il compagno Avoli non è morto per droga. Ci si poteva ancora credere. Meglio così. Certo che il rumore dei passi sulla ghiaia fa-ceva una musichetta che sembrava dire andiamo via, non facciamo questa cosa, scappiamo scappiamo!

Questo sentiva Londei quando prese Tis per un braccio. Tis sussultò.

“Andiamo via, chi ci paga? Io scappo.”“Sta’ zitto.”“Io scappo.”“Quel che è fatto è fatto,” disse Tis “adesso è tardi anche se

volessi rinunciare.”“Io voglio rinunciare...”“Mi lasci qui, da solo?”“Sì” rispose Londei.“Senti, adesso è presto. Dopo vediamo, eh.”“Vedrai tu. Io me ne vado.”Tis lo prese per le spalle e lo sbatté contro il muro di una cap-

pella con l’ingresso a colonne. Lo fece scivolare a terra e gli si mise accanto. Londei provò a rialzarsi. “Finiremo in galera.” Sulla gale-ra Tis aveva meditato ieri standole seduto davanti, sulla panchina. Adesso l’immagine che ebbe della Rocca fu quella confortante del-l’inverno prima, con tutta la neve e il fossato bianco, senz’orme. Lì dietro dovevano esserci segreti meno orrendi di questi che è venuto a cercare tra lumi e nebbia, con Londei che vuole scappare e batte i denti.

“Hai paura?” chiese. Neanche gli arrivò la risposta. Tis si chiu-se nella propria e guardò il lungo viale che finiva contro la cinta, al di là di una cappella di famiglia con gli angeli che reggevano il tetto.

Il cielo era già buio almeno quanto i cipressi e le siepi, e anche dalla strada non arrivava più niente.

“Fra poco è ora di cena. È il momento buono.”

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sti, il custode non ti vedrebbe, lo faresti e via. Avresti paura?”“No.”“È la stessa cosa. Solo che è notte. Hai paura?”“Sì.”“Non hai paura” concluse Tis. Dalla borsa estrasse una pila, un

cero rosso, un cacciavite automatico, una pinza. Rimise a posto e al succubo Londei sembrò un tristo artigiano dell’ombra. Guardò anco-ra l’orologio: era ora di cominciare a muoversi. “Andiamo” disse.

Si alzò e Londei non si mosse. Allora si incamminò sulla ghiaia rapidamente e senza curarsene, e sentì che l’altro lo seguiva. Tenne la pila e gli passò la borsa. Londei la strinse al petto come uno scudo e camminò sbilanciato in avanti, con gli occhi vuoti. Avevano rag-giunto un viale più vasto, in mezzo alle cappelle di famiglia e ai mo-numenti: donne con ragazzi tra le braccia, veli di granito, angeli della morte, aquile cadute. I segni della nostra disperata solitudine davanti al buio, le cose del mondo dietro il muro che Tis, già a metà della sua vita, è venuto a percorrere. Nell’oscurità i monumenti uscivano dalla nebbia e la strada sembrava non portare da nessuna parte. La chiesa dove dovevano fermarsi, dov’era? Tis cercò un riferimento e alzando gli occhi lo trovò. Il monumento era dedicato secondo evidenza a un bambino. Anche Londei s’era fermato. C’era un bambino di pietra seduto sopra un pacco legato, in alto sopra il basamento.

Malgrado l’ora tutt’e due guardano. È certo la tomba di una creatura morta troppo presto. Tiene in mano un capo della corda e sorride nella notte, come chi ha già imparato che nulla vale la pena e sembra tanto più saggio di Tis e Londei che ancora corrono e si arrabattano.

“La chiesa è qui vicino, pochi metri.”“Madonna” dice Londei. Vorrebbe più di ogni altra cosa essere

altrove. Ma siccome non può, è lui stavolta che passa avanti, sotto il bambino sorridente, sfiora il basamento, si infila tra due monumenti: un angelo lo guarda passare.

La chiesa emerge dalla nebbia e i due sono quasi allo scoperto. Con la fronte gelida e i movimenti convulsi Tis fa scattare il chiavi-stello e entra. Londei è dietro.

allentava le ginocchia. La nebbia sembrava un vapore caldo. In fon-do, era un’impresa difficile ma possibile. L’alcol, lo zucchero e il caffè avevano allontanato il brutto della cosa: un giorno, magari, ci sarebbe stato da ricordare quel giorno come quello di uno sbarco in Normandia. Anche essere lì, al freddo, con le giacche da giovinastro, seduti tra le tombe di coloro che avevano percorso la via Rossini prima di loro, era come essere sull’orlo di una vertigine, proclamare che loro sono forti, pronti a tutto, a scavalcare il muro, menare il custode, uccidere il male, e poi da domani non saranno più giovani un’altra volta.

“La testa mi va per conto suo” disse Tis, “non capisco più niente.”

“Non mi baciare, allora” sghignazzò lo spudorato Londei che era ubriaco e in viaggio verso la pleurite con la giacca spalancata e gli occhi accesi di un matto che sente caldo, di notte, a ottobre, in un cimitero.

Un po’ alla volta il Caffè Sport si disperse per tutto il corpo e il freddo attenuò le euforie di poco prima. Nessuno poté più negare a se stesso lo spessore della notte, il panorama circostante. La bottiglia semivuota tornò nella borsa, urtandone il contenuto. Londei allungò il collo e un nuovo brivido glielo percorse: aveva visto una specie di gamba di seggiola, a punta.

“Cos’è quello?” chiese.“È il paletto di frassino.” L’altro si appoggiò alla tomba, con

gli occhi chiusi.“Non servirà,” prosegui Tis “non servirà: lo sai quanto me.”“Io non so niente.”“Quella cosa è diversa. I vampiri non si riproducono. Non si

riproducono più.”“Forse non ce la fanno” celiò Londei chiamando a raccolta tut-

to l’alcol.“Vedi che non c’è nessun pericolo. Si tratta solo di entrare in

una stanza e di aprire una cassa.”“Capirai, una cassa... pazzo delinquente!”“Se fosse giorno” continuò Tis “e tu fossi autorizzato, entrere-

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vedremo che Avoli è morto davvero e tutto sarà finito lì. Se fosse vivo...” smise perché Londei lo aveva abbracciato e respirava come singhiozzando. Tis lo scostò. “A che ti serve, adesso, aver paura? La-sciala per dopo” gli disse duramente. “Se Avoli è morto, richiudiamo e via. Se non facciamo in tempo, lasciamo lì lo spray e scappiamo lo stesso. Chi ci può fermare? Se richiudiamo la bara con le sue viti, nessuno l’aprirà più.”

Londei s’era messo le mani sulle orecchie e scuoteva la testa.“Mauro,” lo implorò Tis costringendolo ad alzare la faccia “io

lo so che sei bravo. Aiutami.” Londei si tirò su con gli occhi pieni di lacrime, facendo di sì con la testa. Tis prese ancora la bottiglia e glie-la ripassò. Londei ci si attaccò e finì tutto succhiando e sospirando. Si mise buono.

“Ancora poco” disse Tis. Accese la pila e illuminò la parete con le lapidi. Il circolo di luce andò rivelando:

Contessa Beatrice PalmaNata

Marchesa BufaliniVissuta Pia Affabile Benefica...

La luce scese ancora e Tis lesse:

Nel Giardino CelesteOve

La Primavera È EternaO Avventurata Giovanetta

Prega Pe’ Tuoi Cari...

“Sei pazzo? Fai le luminarie?” Londei gli strappò la pila dal-le mani. Ricaddero nel silenzio. Tis guardò l’orologio. Dieci minuti

Il raggio della pila illuminò le panche e il vuoto corridoio fino all’altare. Lì, appena poche ore fa, c’era la cassa di Avoli.

“Aspettiamo qui” disse Tis “dove stavamo oggi.”“No,” disse Londei “andiamo a casa. È la voce del destino: non

ci dobbiamo provare.”“Che voce, scemo!”Tis si mise a sedere e Londei gli si precipitò a fianco.“Come fai a non avere paura?”“Ce n’ho un sacco, ma devo provare.”“Tu non sei normale.”“Se te ne vuoi andare, vattene” disse Tis. “Però quando esco

anch’io, ti vengo a cercare, non scherzo. E poi dove vai, adesso?”L’idea di uscire dalla chiesa del cimitero da solo, di passare

sulla ghiaia, di tentare il muro, fece passare la voglia a Londei: stet-te, nel suo travestimento, con le mani sugli occhi e la testa china, studente in alta uniforme che piange i suoi peccati. La collana di Laura gli pendeva dal collo come il segno di una sconfitta. Si perse a pensare, adesso che il peggio stava arrivando, a come la faccenda fosse cominciata e come lui, nel pomeriggio, avesse potuto varcare per la seconda volta l’ingresso del cimitero travestito da diciottenne. A trenta metri, a cento metri da lui, nel deposito con le piastrelle sul muro il giovane Avoli dormiva per sempre (o no?) il suo sonno eter-no sui cavalletti.

Il freddo e il buio lo intorpidirono e Londei si rese conto che ormai non sarebbe più riuscito a far nulla, né a fuggire né a prose-guire l’impresa, senza l’aiuto di Tis. Lo guardò e vide il suo profilo intristito, con le nuvolette del respiro che gli uscivano dalla bocca e le mani abbandonate fra le ginocchia. Tis cominciò a parlare senza guardarlo.

“Tra poco usciremo. Quando saremo dentro io toglierò le viti e faremo in fretta perché il tappezziere mi ha dato quest’affare automa-tico... Mi ascolti? Solleveremo il coperchio e lo metteremo giù piano piano, non faremo rumore...”

“Stefano, ci roviniamo” lo interruppe Londei.“Non faremo rumore,” riprese Tis “apriremo la zincatura e

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che nella chiesa, e la pila fu spenta. “Siamo entrati” disse Tis a voce troppo alta. Tacquero e rimasero appoggiati alla porta, spalla contro spalla. Alla destra di Tis battevano i denti di Londei. “Se il Padre Eterno mi tira fuori di qui... se mi tira fuori...” Tacque perché aveva incontrato la corda appesa e un brivido più lungo gli era corso giù per la schiena. A poco a poco gli occhi si andarono abituando al buio e la stanza si rivelò nelle sue dimensioni.

Il locale è nero come si conviene, ma da quel poco che filtra da una finestrella si intravedono le ombre di due corone appoggiate al muro, sotto i vetri. E un altro tenue chiarore è al centro della stan-za, dove dovrebbe esserci una sorta di lucernario. Gli occhi fissano il buio a mezza altezza e non hanno voglia di abbassarsi al giusto livello dove ormai, pur fra i battiti accelerati del cuore che non vor-rebbe e il sudore gelido fra i capelli, sono evidenti due forme scure, allungate, che sembrano sospese sul pavimento. Vicino alla seconda bara c’è una porta aperta che dà su un secondo locale: ma è buio, lì, come l’inferno e ne viene un silenzio inviolabile. Chi passeggerà impunemente su quel pavimento?

Alla luce del sole non è che una stanza con odore di chiuso (i fiori appassiti?): ma adesso è il nero androne del supremo confine, dove la solitudine è assoluta e al cuore di chi è vivo non sembra di poter sopportare d’entrarci. Per fortuna non c’è bisogno: la luce della pila brilla ancora un istante e la prima bara è quella giusta, lo dice un cartoncino – Avoli Roberto –, non ci sono fiori.

“Eccola.”“Sì.”“Sei pronto?” Londei non risponde.“Comportati da uomo” disse ancora con spezzata solennità Tis.La borsa venne poggiata ai piedi del cavalletto, ne viene tratto

il cero che fu acceso e posto a terra. La pila finì dentro.La luce del cero è poca cosa ma fa vedere tutto, anche troppo,

manda ombre verso il soffitto e fa della faccia contratta di Tis uno scempio. La fiammella non può arrivare oltre il vano aperto vicino all’altra bara: lì resta l’impenetrabile cortina. Tis le offre le spalle, ma Londei non ci riesce e si pone all’altro lato della bara. Questa

ancora. Pochi istanti dopo si alzò, invece, di scatto come se non resi-stesse più dicendo “adesso, adesso”. Londei gli si attaccò al braccio sussurrando non si sapeva a chi “aiutatemi, aiutatemi...”

Uscirono dalla chiesa e girarono a sinistra tra le prime tombe, chini, attenti più di un ladro a non far rumore con i piedi. Girarono ancora a destra, si scostarono da una tomba con troppi lumi e fiori. Si addossarono alla siepe di pitosforo guardando nella nebbia verso la casa del custode. Ne usciva la luce azzurrina della televisione. Al-lora ripartirono e raggiunsero, oltre le prime antichissime sepolture, il fiume chiaro della ghiaia. Lì si fermarono. Erano allo scoperto e in piedi, davanti a loro c’era la cortina nera e immobile dei cipressi, l’ingresso in forma di tempio greco, l’alone del fanale sopra la barac-ca del fioraio. Proprio di fronte a loro la porta del deposito. La parete di mattoni è nera e la porta anche di più. Adesso che sono lì davanti, forse neanche Londei andrebbe via senza provare, senza cercare di sapere. Quella porta, aprirla almeno e guardare dentro.

È possibile che nell’aria non ci sia nessun rumore? Nel buio entrambi si voltano di scatto, ma non è vero nulla, non c’è neanche il vento. E se sembra che un gelo improvviso li pervada, è solo la loro paura. La ghiaia fruscia, ma poi è alle loro spalle. Adesso sono arrivati: la porta è lì.

Tis la tentò mentre Londei guardava disperatamente intorno. Infilò il cacciavite in una fessura facendo forza. Smise quando sentì che stava per cedere.

“È vecchia,” disse a Londei “è fatta.”Quando nella strada un’auto fu alla loro altezza, Tis spinse con

forza. La serratura cedette con uno schianto e la porta si spalancò. I due si precipitarono dentro e Tis riaccostò i battenti forzati. Teneva Londei per la giacca e nell’oscurità non seppe ordinare alle proprie mani di prendere la pila. Il respiro di Londei era come quello di un animale ammalato. Tis pensò allora che il proprio apparente corag-gio non era altro che il bisogno di riparare alla paura dell’altro, e gliene fu grato. Trovò infine la pila.

Ad uno dei battenti della porta erano appesi una scopa, una pala, una lunga corda. Il bagliore sembrò ancora più inaccettabile

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Sebbene riflessi opachi vengano dallo zinco, la tenebra si è fatta più fonda, una stanchezza enorme pesa sui movimenti. E poi, nell’aria spenta, c’è qualcosa di nuovo: non è l’odore di fiori vecchi, non è la resina, non sono le morte foglie d’alloro: è un’altra cosa che i due sentono nel buio. O sembra di sentire? Forse è la paura che trasuda gelida dalle fronti di Tis e Londei? O è forse una promessa di trion-fante morte che filtra infine dalle saldature? I loro occhi si incontrano e adesso sono uguali, perché manca ormai solo quel velo di zinco al culmine degli orrori, e già tanti ne sono passati. Le mani di Tis, che premono sul metallo, preparano l’ultimo. La lama del cacciavite si poggia al centro della saldatura, “dammi la pinza” dice con un ge-mito Tis. Londei obbedisce, e per quella sera non sentirà più la voce dell’amico. Una goccia di sudore cade sullo zinco. Poi il cacciavite preme con forza disperata, sfonda, ci resta, allarga il varco. Un pezzo della saldatura cede di colpo. Anche la pinza entra tagliando perché Tis lavora furiosamente, non fa caso a ciò che esce dalla fessura, non sa più nulla di Londei dietro di sé ma taglia e con le pinze tira e strap-pa lo zinco, che s’apre come un foglio. Anche l’altro lembo cede. E non si può che vedere.

Non ci sarebbe neanche bisogno di guardare perché altro aveva già dato la certezza di quella morte: comunque il giovane Avoli è lì davanti.

Gli hanno trovato una giacca scura e le mani non sono riusciti a metterle in croce e nemmeno dritte lungo il corpo che appare rigido e storto, come quello di un soldato sbilenco che non sappia mettersi sull’attenti, cacciato dentro in qualche modo. Le bende dell’autopsia, sulla fronte, non sono più bianche, è meglio non fermarcisi. Anche il viso è affilato con gli occhi semiaperti e gessosi, come impolverati, che guardano il soffitto. Sulla faccia le ombre sono macchie bluastre, poi si vede che non sono ombre. La mano sale verso il petto del ra-gazzo perchè si deve, a quel punto. Ci si ferma. Non sente nulla: si vede che la giacca è malamente infilata nel corpo, è stata tagliata sul-la schiena. La mano di Tis va verso il colletto disegnandosi tremante sulla camicia. Sa quel che vedrà, ha già visto all’ospedale. Sale e sposta la stoffa per scoprire i due fori cui nessuno ha potuto ragio-

è povera, gli intagli sono stampati a macchina e cercano di imitare le foglie d’acanto. Le viti entrate lungo i fianchi hanno rivelato il bianco del legno da quattro soldi. Londei, che in tempi lontani re-staurò una vetrinetta, nota la spessa vernice scura che tinge ed è mal colata negli angoli incisi. Il suo sguardo percorre su e giù il legno, si distrae volentieri. Ma l’altro ha già fatto scorrere il manicotto lungo il cacciavite e gli dice: “raccogli”. La prima vite è caduta e anche la seconda. La terza tintinna nell’ambiente e conferma che la discesa nella profanazione è cominciata. I minuti passano e forse in dieci Tis ha fatto il giro della bara e le viti sono un mucchietto vicino al cero.

“Prendiamo il coperchio” disse Tis. Era pallido e la pettinatura in avanti gli stava appiccicata alla fronte. Può darsi che tutta la paura se ne stesse in angoli che lui stesso non conosceva, può darsi che più di tutto temesse svenimenti o fughe di Londei.

“Prendi il coperchio” ordinò ancora. Londei mosse la testa per dire no.

“Vuoi che ti lasci qui?”“No.”Tis alzò la mano col cacciavite e lo puntò alla gola di Londei.“Prendi il coperchio in cima.”Quello mise una vite in tasca e prese il coperchio. “Sono pron-

to, abbi pazienza.”“Senti,” disse Tis con una voce che voleva essere meno fredda

“non si vede niente, ancora: c’è lo zinco.”“C’è lo zinco” fece eco Londei.“Qui sotto non c’è un vampiro. C’è solo un morto.”Londei allargò le braccia a dire che bastava anche così, ma Tis

lo guardò con gli occhi di un pazzo, così rimise le mani sul coperchio che si mosse e venne via facilmente scoprendo una superficie di zin-co gonfia e opaca, con le larghe tracce della saldatura che percorreva la bara da un capo all’altro. Sotto i patetici intagli stampati del co-perchio, con le sue resine brillanti, ecco che le grossolane saldature anticipavano la realtà dell’uomo fatto a immagine di Dio, quando questi se lo riprende.

I due pongono il coperchio a terra, dove l’ombra se l’inghiotte.

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città con la sua gente e i suoi affanni. Anche al giovane Avoli, nella bara scoperta, almeno finché il custode sbigottito non scoperse il fat-to al mattino, quell’aria imprevedibile soffiò sul morto viso, come un inaspettato ed estremo saluto della vita.

nevolmente credere. Ma ci crede più neanche lui? La stoffa cede e così Tis vede ancora. Sbagliare, lui sa che non ha sbagliato. Londei non vede sul collo perchè la mano dell’altro copre. Ma gli basta il resto: sente che pagherà per quella pace che non si doveva turbare. Così muove le labbra e Tis lo sente provare a balbettare “...requiem aeternam dona ei, Domine... et lux perpetua luceat ei...”.

Il lavoro è finito. Che c’era da sapere? Anche Tis pagherà per quella pace. Da dietro, misto al vago odore di Caffè Sport, gli arriva-no le parole in latino e lui capisce quanto sia grande la loro solitudi-ne, quella dell’impaurito Londei che dopo trent’anni prega in latino come il bambino che fu, e la sua. Allora si volta, stanchissimo, per abbracciare l’amico.

Ma Londei guarda ancora il morto con i suoi occhi di gesso e non può sopportare che nulla lì dentro si muova più. Così, senza preavviso spalanca la porta e Tis sente che corre, sente le sue gambe rampare sulla ghiaia. Fuggire, fuggire. Col cacciavite ancora in mano lo segue ciecamente. La nebbia della notte è come un sogno. Vede Londei già alto sulla cinta, che salta di là. Una tomba gli dà slancio e le mani artigliano il muro. In ogni caso ce la farebbe: le sue dita, a quel punto, potrebbero qualsiasi cosa. Anche lui volteggia goffa-mente e atterra duro sull’asfalto. Londei zoppica come una furia, più avanti. Nessuno stava passando.

Mentre il cacciavite vola nel canale lungo la strada, entrambi corrono e Tis ha già quasi raggiunto Londei, quando si fermano di colpo, tutt’e due, sbalorditi: da una casa è venuto, chiarissimo, il suo-no del telegiornale che finisce. Le nove. È possibile? Era sembrata una vita.

Un’auto che passa illumina due studenti immobili, al lato della strada.

Più tardi, quando già la notte stava per finire, nella stanza del cimitero rimasta aperta un soffio breve di vento spense il lume che già vacillava. Infatti dal mare arrivava inconsueta una brezza che portava via la nebbia e prometteva una mattina chiara d’autunno alla

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CAPITOLO XV

Il medico non gli trovò nulla. La febbre era alta, evidente l’agi-tazione, i bronchi suonavano bene. Consigliò un antibiotico e riposo. Nella camera la serranda era tirata su completamente e le tende sco-state. Il medico si avvicinò per socchiuderle ma Tis urlò che voleva luce. Allora dalla valigetta venne fuori una boccettina. “Dieci gocce adesso, venti stasera” disse il medico. “Lei mi pare francamente ner-voso.”

Gli misurò la pressione, lo guardò senza capire. Era pallido e rosso assieme, la febbre c’era, le mani tremavano. Gli palpò il fegato per scrupolo. Se ne uscì, infine, scortato dal gatto.

Appena il medico se ne fu andato, Tis si alzò a piedi nudi e guardò dalla finestra la pacifica luce del giorno. Chissà se la polizia era stata chiamata al cimitero. O se il custode, temendo guai, aveva richiuso la cassa così come si trovava. Telefonò a Londei che rispose con voce alterata: “Ho perso dieci anni di vita. Se vieni qui ti spa-ro.”

La febbre gli fece venire le vertigini e tornò a letto. Figurarsi, gli antibiotici per una cosa così. Sebbene di giorno la testa rifiutasse di ricordare, le ombre del pomeriggio e della sera avrebbero certa-mente riproposto l’intero ricordo. Guardò il flacone con il calmante e lo prese. Dieci gocce, quindi, venti. Poi dette al flacone un paio di scosse e il liquido rosa zampillò nel bicchiere. Bevve senza problemi il sonno dal sapore d’arancio. Lesse, in un giornale di modellistica, i segreti di una nuova colla. Ma non arrivò alla fine e gli occhi gli si chiusero piacevolmente, senza che ricordasse il cimitero.

Anche Londei cercava la quiete di un sonno senza sogni. Non sapeva che Tis aveva ceduto a un sonnifero, e lo temeva. Lo impau-riva l’idea di vederlo riapparire a proporre nuove stranezze, a rifare spaventose proposte. Sentì che neanche in casa propria sarebbe stato al sicuro, lo prese un desiderio di conforto e d’abbandono. Non da

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Ma come può, un uomo solo con troppo tempo? Vide le sue abitudini e le sue passioni come dovevano apparire agli altri: vuote e infantili. Chi è andato a strusciarsi alla morte non può più costruire aeroplani-ni: da questo Tis si sente segnato.

Allora decise. Nella cabina telefonica vicino alla Piazza, al centro di un mondo normale che scorreva al di là dei vetri, cercò il numero e alzò l’apparecchio.

“Pronto?” risposero dall’altra parte.“Buongiorno” disse Tis. “Potrei... Vorrei parlare col conte Bal-

dassarri.”“Sono io,” rispose la voce “chi parla?”“Il Conte...” vacillò Tis.“Sono io, Umberto Baldassarri.”“È per una ricerca...” inventò.“Come, scusi?”Ma già Tis aveva le orecchie di fuoco e l’ardimento infranto.Riattacco, pensò, non sa chi sono.“Chi parla, insomma?” lo incalzò perentoria la voce. Allora si

sentì librato in volo.“Ecco io... io sono il professor Tis, Stefano Tis. Mi sono per-

messo di disturbarla... perchè sto studiando per una ricerca...”“Una ricerca?”“Sì, uno studio sulla nobiltà pesarese.” Dall’altra parte non vi

fu risposta e Tis si augurò di essere credibile.“Vede, io sono un insegnante... Sto progettando un lavoro sulla

nobiltà pesarese del XVIII secolo e, al momento attuale, il mio inte-resse riguarda il reperimento delle fonti. Così ho pensato che se lei, cortesemente...”

“Ma lei,” fu interrotto “lei è per caso l’autore di quel libro sugli Ebrei nella Restaurazione?”

Ecco dove era finita una delle cinquantadue copie che di quella cosa si erano vendute. Benché ancora confuso, Tis provò anche una inequivocabile soddisfazione.

“Sì,” balbettò “sì... È quel lavoretto che ho scritto cinque o sei anni fa. Lo conosce?”

Laura, che quiete non ne portava. Chiamò un taxi e si fece portare a casa di sua madre. Gli passarono davanti le vie, i semafori, le ragazze in bicicletta. Nulla era cambiato dall’irreparabile pomeriggio di ieri. Suonò il campanello e attese, non rispose nessuno. Cercò le chiavi nel vaso dei gerani e aprì. Di nuovo chiamò a voce alta, ma l’appar-tamento era vuoto.

Nel salotto vide il pianoforte, croce della sua infanzia, il giradi-schi che accompagnò la giovinezza della madre, il lume a olio della nonna. Si sdraiò sul divano a contemplare i fiori della carta da parati. Qui la stanchezza lo addormentò di colpo.

Lo ritrovò più tardi la madre trasalendo per la sorpresa. Londei dormiva profondamente. La donna lo guardò a lungo prima di chiu-dere delicatamente la porta, e pensò con trionfo che Mauro adesso era lì, e non dalla sciagurata dalle camicette trasparenti. Immaginò il figlio ritrovato, serate di conversazione, tè e biscotti: desideri già svaniti da tempo. Riuscì in fretta in cerca di uova freschissime, pre-parò la sfoglia per le tagliatelle e con un uovo più grosso batté acca-nita uno zabaione per l’inaspettato reduce.

Tis invece dormì venti ore e si alzò a fatica. Dalla finestra en-trava la luce chiara e la sveglia sul pavimento segnava quasi le dieci. Uscì trascinando i piedi e prese al bar due caffè di seguito.

In piazza si svegliò del tutto e lesse del giornale solo la cronaca cittadina: ma né la morte dell’Avoli né la profanazione della tomba vi apparivano. Forse la faccenda del cimitero non avrebbe avuto se-guito. Che della morte del giovane non importasse più nulla a nessu-no? L’esame necroscopico va per le lunghe, la memoria della gente è breve e il cronista l’asseconda. In questo caso, pensò solcando uno stuolo di piccioni, quale migliore complice del silenzio?

Era arrivato alla fine di una pista. L’Avoli era morto davvero e questo pareva escludere le suggestioni sulla morte alata. Ma i segni sul collo non se li era sognati. Certamente dell’intera vicenda, poco a poco, non avrebbe più sentito parlare. L’inchiesta si sarebbe persa nelle secche degli insoluti: non restava che scegliere di dimenticare.

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CAPITOLO XVI

“Lei sa che con la fine dell’impero si frantumò l’unità scrittoria dell’occidente latino: dal quinto secolo in poi, ogni regno barbarico sviluppò proprie forme di scrittura derivanti dalla Minuscola corsiva. Ma questa, a dire il vero, appare già caratterizzata nelle prefetture dioclezianee e nelle molte diocesi provinciali...”

Il conte Umberto Baldassarri parlava.Di storia antica, di tachigrafie, di estinti regni. Eccolo, il sup-

posto nemico. Eccolo, dunque, in quella biblioteca di bella quercia, dove Tis avrebbe voluto passare le sere tra carte, camino acceso e un’amante accucciata ai suoi piedi. Immaginò che in quella stanza silenziosa dovesse essere facile raggiungere il fondo inquieto di sé, quando sui tetti s’agita l’inverno.

Guardando il Conte, dubbi e domande degli ultimi incredibili giorni parevano dissolti, il solo chiedersi sembrava indegno e l’effra-zione al cimitero si allontanava nel limbo delle impossibili cose viste al cinema. Ma invece, gli sussurrava un allarmato pensiero...

“La grafia beneventana era elegantissima,” stava dicendo il gentiluomo “e si sparse da Cassino a tutto il Mezzogiorno, fino in Dalmazia e in Epiro. Poi si estinse col declinare dell’Abbazia e della Longobardia minore di Capua, Benevento e Salerno. Lei avrà pre-sente quel segno che nei messali sostituiva la congiunzione ET?”

“Sì, credo. Non è quello che adesso si usa solo in commer-cio: Smith & Wesson, per esempio?” disse Tis tracciando il segno in aria.

“Proprio. È una sopravvivenza di quella antica grafia: una E beneventana, appunto... Ma mi dica” continuò il Conte, “lei se ne interessa?”

“Ascolto con piacere l’esperto.”“Troppo buono.”“No, no. Sul serio. Non conosco molto di paleografia ma è un

argomento affascinante, ed è raro trovare chi ne sappia qualcosa. Lo sa? Mi è successo un’altra volta soltanto, con un prete che catalogava

“Sì. L’ho letto con interesse e ne ho una copia in biblioteca. Ha fatto altre cose, poi?” La voce del Conte adesso era cordiale.

“No. Poi mi sono sposato.”“Una ricerca, ha detto?” chiese il Conte.“Sì, sui nobili del settecento. Per questo le ho telefonato, mi

sarebbe utile parlarle. Pensavo se la sua famiglia avesse un archi-vio...”

“Lei lavora per l’università?”“No. Sono studi che faccio per conto mio.”“La invidio. Piacerebbe anche a me.”“Allora posso sperare in un suo aiuto?”Dall’altro capo la voce tacque e Tis pensò ai giochi in Piazza

del morto Avoli, al breve tempo di chi al cielo è caro.“Be’, guardi...” riprese il Conte “non so se le sarò di grande

aiuto, ma potremmo discuterne. Quando vorrebbe parlarne?”“Quando lei può, Conte. Di pomeriggio andrebbe benissimo...”“Allora... anche domani verso le quattro?” Da cordiale la voce

era diventata simpatica.Uscendo dalla cabina Tis capiva benissimo che le sue peripe-

zie non erano fiabe. Ma era contento, percepiva l’aspro profumo di ottobre, sentiva il desiderio che gli accadesse qualcosa di bello. Per questo si guardò attorno.

Un camion bloccava la via Rossini armeggiando con un lun-go braccio meccanico in una finestra al terzo piano del palazzo co-munale. Il motore girava con sommesso brusìo, come un calabrone nero che sondi gli anfratti, i fiori, i solchi umidi dei muri. Il braccio meccanico scese cautamente col suo peso: un ripiano, una scrivania. Una pianola, parve a Tis. Osservò mescolato alla folla. Tornò quindi verso casa improvvisando discorsi convincenti da fare al Conte. Dal fornaio sotto casa acquistò del pane che pagò �000 lire al chilo per-ché dimenticò il resto.

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“Sì...” replicò Tis. Mi legge dentro? si chiese. Con affaticata disinvoltura proseguì: “L’impero di Trebisonda. Quando... all’uni-versità chiesi di fare un monografico su Trebisonda: mi affascinava quel relitto bizantino che sopravviveva a Costantinopoli...”

“E ha fatto l’esame?”“No. L’assistente quasi mi rise in faccia: allora non si potevano

cambiare i programmi ufficiali.”“Certo, certo. Immagino...” fece il Conte. “Confesso di essere

stupito: Trebisonda? I Turchi si sono attardati qualche anno ad asse-diarla: erano nel pieno della loro espansione e certamente per loro è stata una guerra secondaria. Ma non si può mai sapere... Vede,” disse alzandosi dalla poltrona dietro la scrivania “gli storici seri storcono la bocca a sentir chiedere cosa sarebbe successo se.... È il “se” che li disturba. Io però ho sempre pensato che la concatenazione di eventi che noi chiamiamo Storia sia tale, come dire?, solo se percorsa dal passato verso di noi...”

“Si può percorrerla alla rovescia?” chiese Tis. L’ansia non c’era più.

“No, non si può,” escluse il Conte “Ma il problema è nella li-bertà di scegliere. È come... come una trappola dove i topi scelgono di entrare. È come nella mattanza, il tonno entra nella prima rete e crede di essere ancora libero. In realtà, capisce, è già obbligato. E in realtà è già morto.”

Tis seguì con lo sguardo il Conte che si dirigeva verso una fi-nestra. Lo vedeva in piedi, la statura slanciata, l’abito sobrio, la fede nella mano dietro la schiena. Il sole volgeva lentamente al tramonto e appariva ogni tanto tra squarci di nubi, sempre più basso verso il col-le del faro. I vampiri dei film di giorno dormono, pensava Tis, perché la luce del sole li riduce in polvere, la stessa luce che ora giocava tra le nuvole. Ma pesanti tendaggi coprivano altre finestre e una diffusa penombra ne risultava nello studio.

“Stiamo per avere un tramonto magnifico” disse il Conte gi-randosi. “Sa, dal terrazzo di sopra una volta si vedeva tutta la valle, fino a Colbordolo dove avevamo dei poderi. C’erano solo i molini Albani a coprire un po’ la vista. Ma la città è cresciuta...” Tornò a se-

un archivio immenso. Peccato che di questa scienza si perda...”“Il sapere?”“Il sapere e la diffusione” insistette Tis. “Interessa lei, me e po-

chi altri: non interessa più nessuno. Gli anni in cui viviamo sembrano presenti solo a se stessi e rigettano ogni legame col passato. E a me non piace questo ripudio culturale.”

“Sì, ha ragione, è un ripudio. Ma lei, cosa cerca nel passato?”Suonò un remoto allarme nella testa di Tis. Più tardi, a ripen-

sarci, avrebbe ricordato quella domanda, nell’ora che volgeva al tra-monto, come il brivido che prelude alla febbre, la premonizione.

“Be’, non saprei esattamente... Forse che il passato è cristalli-no, inerte. La storia non è maestra di vita, oppure noi siamo pessimi scolari. Ma è molto bello conservare un fatto, rivivere le cause, i dati, le conseguenze... A volte mi pare” continuò “che nel presente non ci si trovi. E allora è meglio l’osservazione di vicende che partecipano del gran flusso della storia, ma ormai hanno il privilegio della fissità nel tempo.”

Il conte Baldassarri sembrava riflettere. I capelli bianchi erano ancora folti. È vecchio, pensò Tis, settant’anni portati bene o sessan-ta portati male. È colto, è un gentiluomo invecchiato, mentre per i vampiri delle favole e dei libri il tempo si ferma. Potrebbe essere mio zio, mi è simpatico, eppure...

“Eppure, professore, lei è in contraddizione” disse il Conte al-zando lo sguardo. Tis sbigottì. “Mi perdoni, la contraddizione sta nell’interessarsi di un fatto pensando di ricostruirlo, e insieme crede-re che questo fatto” fece un gesto con la mano “ormai sia inerte nel tempo. Nulla di ciò che è stato è completamente finito. E neanche innocuo, a volte.”

Tis provò nuovo disagio. Che diavolo dice, si chiese, cosa vuol farmi capire? Pensò a quel che aveva fatto, a quella visita da cui non poteva venir nulla. Si sforzò, di star calmò ripetendosi che il suo delirio era assurdo.

“Immagino le sembri assurdo” proseguì il Conte. “Quel che voglio dire è che il passato ha un peso. Non c’è qualche fatto insolito che suscita la sua curiosità? Nella storia, voglio dire.”

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fiaba mitologica, una forma classica, forse Venere e Amore: insom-ma, una ideale classicità già spenta da secoli, che però nella cultura si continuò a fingere viva per un tempo così lungo che per l’uomo era l’eternità... E oggi quella persistenza di valori, finti o vani che fos-sero, mi pare possedesse qualcosa di rassicurante.” Il Conte sembrò consentire.

“Caro professore, lei è molto giovane e insieme molto vec-chio. Finzione rassicurante del mito...” continuò con garbata ironia “a scuola parlate di queste cose?”

“Non solo il mito,” riprese Tis. “Voglio dire, la persistenza del-la finzione riguarda anche altre cose. Pensi all’idea di Roma, che nel Medio Evo divenne il sogno di una cristianità unita. Pensi quanto fu lunga a morire anche dopo la fine dell’impero. Dante, gli Ottoni, Cola di Rienzo... Può darsi che gli uomini trovassero rassicurante fingere qualcosa anche se non esisteva più.”

“I moderni studiosi della mente umana gioirebbero a sentirla, professore,” lo prese in giro il Conte con sguardo divertito “e dareb-bero a questo suo atteggiamento, che condivido, un nome elegan-te... ecco, complesso di Odoacre per esempio, che come sa conquistò l’Italia ma finse di governarla da romano.” Sorrise anche Tis. “Una sigaretta?” chiese Baldassarri.

Il Conte tirò fuori dalla tasca un portasigarette d’osso e lo aprì. Dispose sul tavolo le sigarette, le tagliò a metà. Le mise a triangolo, poi a quadrato. Ne accese una.

“Pare che così si fumi meno” disse. “Si fa notte, professore. Lei è venuto a trovarmi per un modesto favore e io l’ho trattenuta divagando e ho abusato della sua pazienza. Sarò lieto di aiutarla, per quel poco che mi sarà possibile. Venga quando vuole. Nella mia famiglia non troverà fatti eccezionali. Si dice, è vero, che sia molto antica e abbia tratto origine dalla Francia, ma vive qui, nelle Marche, da almeno tre secoli...”

Si faceva notte. Sempre più grandi salivano le ombre dal mare. Si faceva notte davvero. Mentre lo studio scivolava nella penombra, il Conte aveva acceso una lampada sulla scrivania. Ora quell’unica luce riempiva via via di recessi la stanza, approfondiva i giochi del

dersi. “E così, egregio professore, lei vorrebbe fare uno studio sulla mia famiglia e la nobiltà provinciale di questa piccola città?”

“Vede, il fatto è che da anni penso a un lavoro sulla nobiltà locale. Magari con l’ambizione di saper mettere a fuoco il solito qua-dro d’epoca. La sua famiglia è molto nota...”

“E ha avuto della pubblicità, recentemente: quel giovane che è venuto a morire qui di sotto. Ha letto i giornali, immagino.”

“Sì, certo: un fatto davvero increscioso,” disse Tis sentendosi avvampare. “Ecco, allora ho pensato... voglio dire che da tempo pen-savo di interessarmi alla Casa dei Baldassarri... Se lei fosse così gen-tile da permettermi qualche indagine e fornirmi delle informazioni... Vedo che ha una biblioteca immensa.”

Il Conte distolse lo sguardo e lo condusse sui libri che copriva-no le pareti, e sui quadri. Ne indicò uno.

“Ecco, quello è Cesare Baldassarri, un mio antenato del XVII secolo” disse. Il ritratto raffigurava di tre quarti un gentiluomo dal volto triangolare, con occhi ardenti che parevano esprimere un’in-costanza o un rovello, baffi e barba a punta e vestito come Don Ro-drigo, una mano sull’elsa e l’altra che indicava lo stemma di fami-glia, scudo partito in verde e argento sormontato da corona comitale. “Combatté alla Raab col Montecuccoli, ed era già vecchio. Invece visse ancora a lungo e morì nel 1�9�, quasi centenario” disse ancora il Conte.

Dai libri i suoi occhi salirono oltre il ballatoio che correva at-torno alla sala, poco sotto gli stucchi del soffitto. Tis ne seguì lo sguardo. Gli stucchi bianchi ornavano la biblioteca con discrezione: quattro conchiglie rastremate, agli angoli della sala, reggevano un tondo centrale dove una dea in trono riceveva una coppa dalle mani di Amore alato.

“Finzione e persistenza” uscì detto a Tis. Il Conte si girò e at-tese incuriosito.

“Eccola, un’altra cosa che mi chiama dal passato” riprese Tis più tranquillo che incerto, sebbene la notte crescesse dall’angolo orientale del mondo. “Guardi gli stucchi centrali: immagino siano settecenteschi, o più tardi ancora. E invece, cosa rappresentano? Una

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“Dunque, la saluto, professore” disse il Conte, “mi ha fatto pia-cere chiacchierare con lei.”

“Anche a me” rispose Tis.“Allora... venga quando vuole. Però i documenti che la interes-

sano li conservo in una villa a Trebbiantico...”“Avete ancora quella villa” chiese Tis nel cui cervello si chiu-

deva un altro circuito e appariva evidente la gaffe.“Oh,” proseguì imperturbato l’anziano gentiluomo “è di fami-

glia da quasi duecent’anni. Una volta era il centro di un grosso po-dere, ma sa, i tempi cambiano... Ci vado domani per una decina di giorni. Veda lei, per me va bene sempre. Professore,” continuò “le pongo, una sola condizione. La stessa, del resto, che le farebbero all’Archivio di Stato se lei vi svolgesse una ricerca. Vorrei una copia del suo lavoro, se farà un’altra pubblicazione.”

Il professor Tis volò via dall’atrio respirando a pieni polmoni l’aria chiara della sera. Aveva accettato, “certo, lei mi onora.” Ma intanto giurava che mai sarebbe andato in villa né in archivio, né più altrove, in questa storia.

Il profumo della pizzeria gli ricordò il frigo sguarnito e Tis en-trò ad acquistare qualcosa. Uscendone già a bocca piena, incontrò de-gli alunni di terza al cui saluto rispose con un grugnito. E quell’altra storia di cui gli parlò lo zio, il morto della prima guerra mondiale?

Tis vi pensa, tra un boccone e l’altro, solcando la folla del pas-seggio serale. Una cosa per volta, si dice, facciamo con ordine. Così mentre passa davanti alle luci della Standa ripensa alle carte di Bal-dassarri a Trebbiantico, e gli pare che l’ordine cominci proprio da lì. Nel brusìo del passeggio il giuramento è già dissolto né Tis, come il tonno, si sente in alcun modo obbligato.

soffitto e degli stucchi, sottolineava le rientranze della biblioteca, im-primeva ai pallidi lineamenti dell’avo Cesare maggiore rigidità.

La notte rotolava alta sulla città, sui colli e le campagne. Solo a ponente un residuo di luce macchiava ancora le nubi di colori smorti. Tis pensò che una trappola non era diversa da questa.

“Devo andare” disse bruscamente, alzandosi e interrompendo il Conte che parlava di un palazzo a Senigallia. Il Conte assentì con comprensione.

“Certo, deve andare: è tardi.”“Mi scusi, è vero. Solo ora ho guardato l’orologio...”“Naturalmente,” fece eco il Conte “solo ora... È lei che deve

scusare me. Venga per di qua.”Il Conte si voltò, manovrò una maniglia che Tis non vide e spo-

stò un intero riquadro della libreria. Aprì una porticina dietro la quale scendeva una scala. Si rivolse agli occhi inquieti di Tis.

“Lei ha fretta” disse indicando la nera entrata, “venga di qua: facciamo prima.” Accese la luce e l’entrata schiarì.

Tis gli andò dietro meccanicamente. Erano in una scala ripida, stretta e male illuminata. Tis si sentiva come chi non vuole ma non sa negare. Il Conte non pareva imbarazzato dagli alti gradini, e al primo gomito si girò. Tis si appiattì d’istinto contro il muro.

“Tutto bene, professore?”“Sì... sì, tutto bene.”“Siamo quasi arrivati.”Ecco, pensò Tis cercando sui muri un crocifisso, un appiglio,

armi che non vide, ecco che scende simile alla notte. Se fuggo indie-tro, che farei in stanze sconosciute? Il Conte arrivò a un’altra portici-na e armeggiò sulla serratura. A quel punto Tis si sentiva male.

“Questi vecchi palazzi hanno sempre qualche risorsa contro i creditori. Eccoci arrivati” sorrise il gentiluomo mostrando l’atrio del palazzo.

Benché l’immagine del riverso Avoli si riaffacciasse alla mente di Tis, i rumori della strada dissiparono l’angoscia. Le luci dei nego-zi, il chiasso, furgoni, biciclette, vigili: tutto seguitava normalmente, e a venti metri da lui.

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CAPITOLO XVII

La pioggia che si abbatteva sulla concava vetrata della biblio-teca, nella villa di Trebbiantico, seguiva un’armonia solo ad essa nota. Ad intervalli forse proporzionali, cresceva e diminuiva come imitando le onde del mare, che in serie di grandi e poi di piccole ven-gono a infrangersi sulle scogliere della città dove sorgono bar chiusi e stanno nelle macchine gli invernali amanti. Il terrazzo di mattoni ad arco che circondava la vetrata con le sue colonnine di marmo e i due angioletti settecenteschi, era cosparso di foglie cadute. L’acqua le aveva spinte verso gli scoli delle gronde, chiudendoli, e adesso le pozze si ingegnavano a diventare lago e le foglie navigavano spinte dalle raffiche. Nel terrazzo si specchiavano così gli angeli guardasca-la macchiati di muschio, e si specchiavano anche il cielo con i lampi e le cime mosse dei cipressi.

Seduto di fronte ai vetri, Tis guardava le pergamene che aveva distrattamente sfogliato: grafie sempre più vecchie e facce di nobili imparruccati chiusi nell’ovale di libri la cui fodera di cuoio mostrava chiazze d’umido e accenni di muffe. Inutile cercare in quei visi una traccia, una costante: non c’era niente. Tutta gente scomparsa quando alberi adesso giganteschi erano appena nati. Quel che di loro restava nelle carte, era scontato e fisso come le lodi di una pietra tombale. E anche il Conte, guardargli la faccia, i capelli, gli occhi bonari e intelligenti, a cosa era servito? Un uomo che conosce le monete e le iscrizioni dei Romani antichi e meno antichi, una figura di professore universitario di tempi non sospetti, un lettore di buoni libri. Se una sensazione dava, era quella di essere appena un po’ troppo nobile, un po’ stanco, uno che tirato fuori dalle sue traduzioni non sapesse come muoversi, né riparare una valvola saltata né compilare una cartella delle tasse. Giusto come Tis. E poi di giorno stava in piedi, la luce non lo feriva, tagliava a metà le sigarette per fumare di meno, come se un mostro potesse curarsi della salute e correggersi un vizio.

Non credere alle parole scritte nei documenti per Tis era im-pensabile. Non sapeva fare quasi altro che frugarci in mezzo. Ma

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sopra una bicicletta con le rotelle. Sicuramente la figlia. Ma si pote-va immaginare questo settantenne battere le ali e suscitare l’ululato dei lupi a Trebbiantico? E questa strada asfaltata, percorsa avanti e indietro da gente in cerca di piadine e ristoranti rustici, fra pergola-ti e prati dove mandrie di domenicali mangiano e cantano, proprio questa strada dovrebbe essere nel mezzo dell’inferno? Forse non è vero niente: ma questi morti? Questo sangue che ha lasciato tracce solo nei documenti di un archivio e che, alla fine, è andato a segnare il lastricato di un palazzo del centro: con il drogato così ovvio che muore a due passi da una pizzeria e dalla questura? Valeva la pena di domandarsi tante cose?

Tis alzò il brandy verso gli angeli invisibili del terrazzo. Se tutto era rimandato, poteva anche essere che finisse da sé, che qualcosa lo costringesse a non occuparsene più. In realtà, tutto continuava come prima a correre verso il nulla, Londei verso un prossimo viaggio, lui stesso verso la vecchiaia, suo figlio verso il primo ottobre di scuola. Dove Tis prestò il suo primo servizio, fra le montagne, la neve avrà già chiuso i sentieri più alti e fra poco arriverà sulla pianura. Come è regola da sempre. Nel buio presente, battuto dalla pioggia, scivolano via tante cose: il Conte e i suoi misteri, la macchina di Tis da rive-dere, il gatto che aspetta la cena, il tempo, il sogno e il male di tutti. Forse anche questa storia è prossima alla conclusione. Si girò per andarsene e vide sulla porta il Conte.

Gli rinacque la misteriosa paura.“Buona sera, professore” disse il Conte. Anche Tis rispose con

il quaderno stretto al petto. Una penna gli cadde per terra nel silenzio. Il Conte aveva ancora l’impermeabile: quando Tis riuscì a mettere a fuoco la cartella che quello stringeva sottobraccio, l’ombrello e altri fogli bagnati, il timore si attenuò. “Sono andato a parlare dall’avvo-cato” spiegò Baldassarri. “L’inverno porta umidità e fastidi.”

“Quanta acqua...” provò a dire Tis. Raccolse la penna e gli cad-de il quaderno.

“Alla mia età questi giorni sono nocivi. Queste case antiche non si riescono mai a scaldare veramente.”

“Neanche la mia” disse Tis. Ripensò al termostato che si rom-

quella sera i metodi della storia, le testimonianze, le parole gli appa-rivano vane e senza senso. E il Conte, non lo aveva neanche visto. Era andato in città e di lui aveva trovato un biglietto che gli augurava buon lavoro. Sulla scrivania vari libri, uno rarissimo con i ritratti a penna degli antenati, una bottiglia di cristallo col brandy. Se questo gentiluomo avesse avuto una faccia verde e l’espressione maligna, tutto si sarebbe semplificato. Invece pareva un monumento, e aveva anche comperato il primo e ultimo libro di Tis. Così era anche sim-patico, per forza, e meritevole di stima.

Comunque veniva notte. Tis non lo aveva veduto né gli aveva parlato, e se anche lo avesse potuto fare gli sarebbe mancato il co-raggio per chiedere la verità. La quale, come è noto, neanche Pilato sapeva cosa fosse. Raccolse le sue armi, rappresentate da due penne e un quaderno, e rimise a posto i libri.

La luce del giorno è ormai finita e piove senza sosta sui vetri.Gli angeli guardascala sono quasi scomparsi nel buio, si intra-

vedono appena sopra le colonne che prendono l’ennesima pioggia dei loro duecent’anni. I misteri di Trebbiantico: fuori diluvia, ma la biblioteca è calda, il legno di noce accoglie i libri con i pannelli in-cisi, anche qui il ballatoio e la scala a chiocciola che da sola costerà milioni, la grande e sognata biblioteca.

La pace, la pace. Non andare a scuola a sentire la gente acca-nirsi sulle pagliacciate della didattica, non vedere più cartelloni con appese stupidaggini. Avere i soldi da mandare alla moglie. Comprare file di libri rilegati in cuoio e svernare davanti al caminetto... I libri: non che siano sempre innocenti. Basta pensare alle rovine, che qual-che libro provocò in tempi non lontani. Però averli, e leggerli, col gatto sulle gambe.

Non gli riuscì di ricordare se il gatto suo fosse in casa o vagasse adesso sotto il diluvio. Bisognava portargli da mangiare. Nutrire una bestia può essere l’ultimo bastione che resiste in una vita aggredita dalla sorte. Così si alzò per andarsene.

Sullo scrittoio, nella cornice argentea, una bambina sorrideva

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giorno, come se la pioggia gli potesse rispondere. Il Conte sembrava uno che ha trovato da parlare ed è disposto a fare notte. Ma io non voglio restare qui, pensava Tis, io ho paura.

Guardare una belva fuori della gabbia non fa capire se la bestia ha ucciso o no, se è pericolosa o no. Nella gabbia lui c’era entrato e non capiva.

“E lei?” chiese il Conte. “Lei cosa fa della sua vita?”“Non mi piace, tutto qui. Faccio anche un mestiere sbagliato. A

me piacciono cose che è proibito insegnare. Mi disinteresso del quar-tiere e delle inchieste nei mercati o in comune... sono cose che invec-chiano dopo una settimana che le si è fatte, noiose e irrilevanti.”

Il Conte levò dalla tasca la forbice tronca e tagliò in due una si-garetta. “Fuma?” Tis fece cenno di no. “Di sera non resisto. In questa casa mi nascondono le sigarette.” Sbuffò con soddisfazione il fumo che salì verso il bel soffitto. “Cos’è fondamentale, per noi, allora?” chiese a Tis.

Tis strinse le spalle. “Non lo so. Fondamentale forse è non cor-rere dietro a tutto, riconoscere il pessimo gusto dell’attuale... non lo so. Due libri, il cinema americano...”

“La storia?”“Anche, certo.”“Perché si interessa della storia di questa nobiltà provinciale,”

chiese Baldassarri “cosa pensa di trovarci? Necessità, ragione, qual-che mascherata? O stupidità? Un mistero o due?”

“Un mistero”, suo malgrado esclamò Tis. Di che parlava il Conte? Sapeva benissimo. Si nascondeva dietro la sigaretta, ma Tis immaginava che faccia dovesse avere. Invece lo guardò e non vide minacce.

“Non lo so che ci trovo... non lo so. Non so fare altro che leg-gere libri.”

Abbassò gli occhi sulle piastrelle di marmo. Le sue scarpe coprivano una mezza venatura che poteva sembrare un albero, un fungo, una costellazione perduta nello spazio. Spostò il piede e fece simmetria. Il Conte si era alzato e veniva più vicino. Tis sentì l’odore del fumo e gli sembrò che passasse un secolo.

peva nei giorni pari, ai filtri che si intasavano nei giorni dispari.“Stava andando via?”“Sì, veramente. Ho abusato anche troppo...”“Dieci anni fa ho fatto mettere il riscaldamento nuovo. Tutto

l’impianto. Nafta, gasolio o metano, è sempre la stessa musica. Ogni inverno si rompe qualcosa. La caldaia da pulire ogni autunno... Se telefono in agosto mi ridono in faccia, a settembre hanno già da fare e non vengono mai. I tempi sono questi.”

Il Conte si mise in poltrona e Tis si sedette anche lui. Ancora una volta paura, senso del ridicolo e dell’assurdo gli rivoltarono co-scienza e stomaco. Eppure per correre dietro a questa nera chimera ha violato persino una tomba.

Il Conte guardò la pioggia sulla vetrata con preoccupazione.“Stare al caldo, a questa età, non serve neanche più. Sto in-

vecchiando male,” disse guardando Tis dritto in faccia “e prima ho vissuto anche peggio. Non per colpa mia, intendiamoci.”

Tis non ebbe parole.“Non vivo granché bene” continuò il Conte. “Non sono più

neanche veramente ricco. Lo ero, ma oggi la terra, sa come va... Ho questa villa, un palazzo a Pesaro, qualche altra cosa qua e là, e molti guai” indicò la cartella. “Il linguaggio degli avvocati non lo capi-sco... Forse avrei dovuto costruire alberghi anch’io.”

“Molti l’hanno fatto.”“Io ho cercato di mantenere uno stile” disse il Conte. “Ma è

poi stato uno stile? Forse non era che disinteresse, incapacità di oc-cuparsi di denaro... Il non saper far soldi è una tradizione nobiliare. È anche logico: si disperde quel che si ha, lentamente o alla svelta, ma è difficile aggiungere qualcosa. C’è differenza, non crede, fra un feudo e un albergo?”

“Sì” disse Tis.“Un’autocarrozzeria, un mobilificio... Forse dovevo provare.

Ho una villa al mare. La costruì mio padre quasi sulla sabbia. Oggi mi offrono qualsiasi cifra e io non ci vado mai e non la vendo. E que-sto, vede, forse più per pigrizia che per stile.”

Tis non parlò. Guardava fuori come aveva fatto per tutto il

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“Io non vorrei insistere, se lei non si sente. La mia è la voglia di conversare di un egoista. Ha bisogno, non so, di...”

“Solo di andare a casa.”“Se non sta bene” disse il Conte “mi permetta di accompagnar-

la. Un’altra volta sarò lusingato di averla con me.”Tis indietreggiò lentamente verso la porta e il Conte lo guardò

con un mezzo sorriso divertito.“La precedo, non posso trattenerla.”Nell’atrio che portava al piano superiore comparve con un om-

brello anche l’uomo che già aveva aperto nel pomeriggio.“Giacomo, che il professore non si bagni. Arrivederla, a presto.”La porta che si apriva lasciava vedere il diluvio che furoreg-

giava, la bufera che piegava i cipressi come nelle poesie di Pascoli, e l’acqua che correva sulla ghiaia e sull’aria.

“Notte da lupi” disse Giacomo. Tis sussultò e lo guardò di tra-verso. La macchina luceva finalmente nella pioggia e sotto il piatto di smalto con la lampada l’acqua precipitava giù.

“Omaggi al Conte. La ringrazio,” disse Tis a Giacomo. Gia-como si inchinò brevemente protendendo il volto dietro l’ombrello lucido, e si allontanò.

Tis si mise a sedere dentro la macchina, girò la chiave e sul cruscotto apparvero obbedienti le solite spie, la dinamo, l’olio, la benzina in riserva. Tirò la leva dell’avviamento e il motore girò rego-lare pochi secondi, prima di spegnersi. Tis tirò l’aria e di nuovo andò al motorino: ci furono due o tre rugli sforzati e il motore non partì. La benzina, pensò. Almeno un po’ ce ne doveva essere. Non devo perde-re la calma. Si attaccò al motorino e schiacciò a fondo l’acceleratore: il motore non si accese. Rifece tutto da capo, e questa volta notò con angoscia che le luci del cruscotto si affievolivano. Lasciò cadere la leva. Oddio, la batteria. La maledetta batteria. Passarono due minuti e riprovò con furia. Questa volta il motore nemmeno prese a girare e le spie si spensero del tutto. È fatta, pensò, è fatta: la mia vita è tutta una barzelletta.

Quando adesso tirava la leva, sentiva un soffocato ronzio. Uscì e guardò verso la villa con le luci accese. In un istante sentì la pioggia

“La storia è per metà piena di cose stupide, per l’altra metà di cose atroci” disse il Conte. “Ha vecchie maledizioni e gravami che non interessano nessuno. Proprio come i libri. Certi libri diventeran-no patrimonio di una setta, di un’accolita di pazzi. Chi leggerà, sarà una sentinella davanti al deserto. Come noi due.”

Tis alzò gli occhi e vide che il Conte si era allontanato di nuovo verso la vetrata e il fumo saliva da sopra una spalla. “Se mi consente un’immagine retorica,” continuò Baldassarri “abbiamo la divisa di un esercito che non fa più paura a nessuno, parliamo di cose che nes-suno capisce più. Facciamo la guardia a una fortezza abbandonata... Ha letto quel libro, no?”

“Sì,” disse Tis “molte volte.”Il Conte guardava fuori e per un pezzo parve dimenticarsi di

lui, come se esitasse davanti a qualcosa che era costretto a fare. Cer-to che era gentile: gentile, solitario, un po’ fuori posto nel mondo, studioso del Basso Impero e paleografo. Ma il suo personale fardello non lo avrebbe spinto a dar morte anche a lui? Tis fissò la porta aper-ta, conto fino a dieci poi scappo: è una trappola. Strinse i pugni nelle tasche ma il coraggio lo abbandonò.

“Si è fatta notte, quasi” il Conte si era girato. “Ho dimenticato che ero venuto per invitarla a cena. Io spero che lei voglia.”

“Io?”Tis sentì che non solo il momento di fuggire era passato. Per

poco tempo la verità era stata vicina, e anche scappare verso la porta sarebbe bastato a rivelarla. Adesso il Conte teneva in mano il moz-zicone acceso e cercava infastidito. “Mi nascondono anche i porta-cenere” disse. Andò alla vetrata, l’aprì e buttò fuori la sigaretta. Una folata di vento umido arrivò alla faccia di Tis.

“Allora, professore? Spero che lei voglia...” riprese il Conte.“Mi sento male,” disse Tis che balbettò come un bambino,

“guardi, mi sento male, ho il bruciore di stomaco... sarei onorato, altrimenti.”

“Vuole un Alka Seltzer? Per me è la cosa più indicata. Forse poi si sentirà meglio.”

“No, la prego, non s’incomodi... non posso accettare.”

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può disporre della mia casa a suo piacimento.”“Posso fare una telefonata?” chiese Tis pensando a Londei che

poteva venirlo a prendere.“Si accomodi,” disse il Conte “usi della mia casa senza ceri-

monie, glielo ripeto. Giacomo!” chiamò ancora senza che Giacomo apparisse. “Venga, qui c’è il telefono.”

Lo guidò a un mobile, certamente autentico, dove accanto al-l’apparecchio, nelle tenui tinte della ceramica di Capodimonte, Daf-ne pareva illudere Apollo in un fiorire di foglie d’alloro. Tis fece il numero. Il segnale suonò dentro a lungo, come la campana della sciagura nel tunnel dove egli era finito. Lo rifece daccapo.

“Maledetto,” disse piano fra i denti “non sta a casa, lui, a guar-dare la televisione come tutti i cristiani...”

“Non c’è nessuno” disse al Conte con desolazione e quasi aspettandosi qualcosa da lui.

“Ci dovremo far compagnia ancora un po’.”Come rifiutare, adesso? Pioveva come nel diluvio, non c’era

modo di andare giù. Colpa della batteria. Londei non c’era. Come fare a dire di no? Una notte in casa del vampiro? Era gentile, era vecchio ma aveva ucciso, e custodire il suo segreto poteva pur valere la vita di un professore.

“Chi si preoccuperà di me?” balbettò a se stesso. “Era uno scherzo: abbiamo parlato di tante cose. Come potrà...?

“Si sente male?” La voce gli arrivò preoccupata. O sarcastica?“Ecco, sì... sì.”“Le chiamo un medico?”“No, no... per carità.”“L’accompagno alla camera, allora...” il Conte suggerì. “Non

la voglio trattenere se non sta bene... Lei avrà bisogno di riposo. È sicuro di non voler mangiare qualcosa?”

“Sì, ma... Può darsi che adesso la macchina, cioè la batteria... si sia ripresa.”

“La batteria? Cosa dice, professore? Giacomo!” Questa volta Giacomo si annunciò con uno strusciare di passi, lontano nel corri-doio. “Ha timore di qualcosa?”

bagnarlo fin nel profondo. Si rimise dentro e chiuse con la sicura. Torrenti d’acqua correvano sul tergicristallo fermo. Com’era ovvio, riapparve dopo qualche minuto Giacomo con l’ombrello. Prenden-dosi l’acqua sulla testa, Tis gli uscì incontro. Eccolo lì, il complice del destino, il malaugurio che a lungo cercato infine si trova.

“Il signor Conte la attende” disse Giacomo. Mi aspetta sì, pen-sava Tis incurante dell’acqua e restio a cercar spazio sotto l’ombrel-lo. Il signor Conte era sulla soglia.

“Donne e motori, gioie e dolori,” disse. “Che possiamo fare per lei, caro professore?”

“Che possiamo fare?” rispose Tis ebetemente.“Non c’è l’autista, Giacomo non ci vede, io non so più guidare.

L’autista tornerà tardi.” L’accompagnarono in casa e Giacomo sparì dentro i suoi antri, lasciandosi dietro una scia d’acqua. Tis guardò i pavimenti incerati rovinati dall’acqua e pensò alla moglie.

“lo ho un autista” il nobiluomo aiutò personalmente l’inebetito Tis a togliersi il cappotto macchiato d’acqua. “Giacomo?” Si guardò attorno. “È vecchio anche lui. La meraviglia che io abbia un auti-sta? Non ha la divisa, naturalmente, comunque ce l’ho. Da giovane guidavo io e l’autista era un vero somaro: gli lasciavo l’automobile mal volentieri, ma era una tradizione di famiglia, come tante altre. Questo è bravo, invece. Venga, si accomodi.”

“Che devo fare?” chiese Tis.“Ma si dovrà almeno asciugare un po’. Giacomo! Giacomo!”

chiamò il Conte.“Non fa niente, giusto i capelli. Un po’ d’acqua...”“Lei è giovane: si tuteli finché può. Questo tempo è assurdo...

Le va un brandy? Venga in salotto. Giacomo!” chiamò di nuovo in-vano.

“Bagno per terra” si scusò Tis con lo sguardo vuoto sul pavi-mento.

“Faccia, faccia. Qui nessuno ci bada e questo tempo infame mi regala ancora un po’ della sua compagnia. Sono le otto e mezza.”

“È tardi, vero?” chiese Tis come un bambino.“Non c’è più tram dopo le otto e venti” rispose il Conte “ma lei

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Un nipote, un amico della figlia, un ospite?Tis è grato a quella maglia che parla di folla, urla, stadi, e sem-

bra dirgli di non pensare al male. Certo, è vero. Che cosa dovrebbe succedere? In quella stanza ha dormito un giovane calciatore, che l’avrà pur fatto senza angosce. Al resto si penserà domani. Dormi-re, dormire, forse anche sognare: l’impedimento è qui. Il sogno può essere un tristo figuro vestito di nero, comparso in piedi davanti alla porta. Al suo passaggio l’ululato dei cani s’è chetato, perché gli ani-mali hanno fiutato la morte. Certo, pensa Tis, che cattiva letteratura.

Ma allora, gli altri morti? Infrequenti, ma pur sempre morti: gli archivi hanno registrato il loro breve passaggio sulla terra. E i segni sul collo del giovane Avoli? La sua faccia, il suo corpo contorto? Tis li ha visti: non deve essere tranquillo. E non deve dormire. Questo mai, a nessun costo. Non è difficile star sveglio una notte. Dormire no. Mille volte è stato sveglio, in questi mesi. Non è difficile. Basterà logorarsi un po’ nei soliti pensieri.

A questo punto, dietro al lampo che irrompe dalla finestra, la luce va via e la stanza piomba nel buio. Non è servito fare un piano: l’imprevisto accade fulmineo. Spalancare la porta? Questo no: nel corridoio non si avventurerebbe mai. Sente alla nuca il familiare for-micolio. La casa è silenziosa, troppo per l’ora. Non si sente più nulla. Scricchiolerà la scala che Tis, il Conte e Giacomo hanno salito? Si sentiranno i passi su per i gradini?

Altrettanto violentemente di come era scomparsa, la luce riap-parve. La Victory sul muro sembra esplodere con le sue vele. Il cuore smette di accelerare ma Tis sa che la paura non riuscirà più a con-trollarla. Non ci si abitua alla gabbia delle tigri. Eppure, sul comodi-no c’è il tubetto dell’Alka Seltzer. Mentre Tis già chiudeva la porta, Giacomo aveva bussato e messo sul tavolino una bottiglia d’acqua, il bicchiere. “Questo glielo manda il Conte,” aveva detto posando sul piattino l’Alka Seltzer “a lui fa bene. Buonanotte, professore.” Una certa deferenza? Pareva proprio di sì.

Tis pensa che doveva dormire nella casa di un vampiro, per sentirsi salutare con rispetto dopo dieci anni di ben altri richiami. E che creatura del male può essere chi manda premurosamente un

Aveva parlato con un’inflessione che non poteva sapere che di sorpresa. Cercò di capire cosa fosse cambiato sul viso del suo ospite: ombre, malignità, volontà di compiere il male, non c’era nulla. Ma perché doveva apparire quel che lui temeva? Tanti inferni ci sono, nell’anima dell’uomo, che nessuno dovrebbe riuscire a tenerli nasco-sti. E invece, di solito, niente si vede e niente si capisce.

Sul proprio viso invece Tis sente il freddo e il caldo del timore passare e ripassare. Anche imbarazzo: comunque si sente a disagio e fuori posto nell’accettare l’ospitalità del nobiluomo. D’altra par-te, mica può partire a piedi. Né chiedere al Conte garanzie di non essere morso, perché sarebbe ridicolo, né può restare ancora come un cretino con il telefono in mano. Così: ricomparso Giacomo con aria di brontolio e disapprovazione, sentendosi Tis sulla soglia di una camera operatoria, invano rimpiangendo il lontanissimo gatto, a causa della propria bugia egli stesso affamato senza speranza, non gli resterà che subire il destino e seguire il Conte e Giacomo verso la camera. Che almeno non ci siano, pensa puerilmente Tis, passaggi segreti e trabocchetti.

Al riparo in una quieta stanza nella piena notte, Tis rifletteva sulla pioggia e sul clima furibondo che avevano dato l’ultimo colpo alla batteria e costretto lui, lì, in una bella situazione. Fortuna che almeno la camera non era antica e tenebrosa, ma moderna e sen-za spaventosi tendaggi. Di fronte al letto matrimoniale, sulla parete, un’antica stampa dell’H.M.S. Victory dispiegava vele al vento por-tando il monco ammiraglio al suo destino. Sotto c’era uno scrittoio, con tutti i libri di Roth che Tis già conosceva e due testi sui giardini che non avrebbe letto. Dalla seggiola di paglia di Vienna pendeva la giacca e sul pavimento di parquet camminava in bretelle, nervoso, l’involontario ospite.

L’armadio senza specchio, piccolo, con due cornici di legno più scuro conteneva stampelle e, in un cassetto, una maglia stirata da calciatore col numero dieci, misura ragazzo, con le strisce rossonere del Milan. Nient’altro. Per chi Giacomo aveva stirato quella maglia?

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tura non può passare. Quanto può resistere un uscio chiuso a chiave? Sposta a fatica lo scrittoio verso la porta. Poi cerca passaggi e fessure nella stanza: anche sotto il letto e dietro la Victory.

Forse chiudere le persiane non è stata una buona idea. Con i vetri scoperti poteva guardare fuori, nei viali del parco. Si avvicina alla porta. È di legno pieno. Dà ancora un giro alla chiave e spinge ancora lo scrittoio. Quasi per miracolo trova nel cassetto una mezza candela e una scatola di fiammiferi. Questa è una vera fortuna: la luce che può interrompersi non è adesso un’eventualità tanto tremen-da. Tis cerca senza trovarla una croce sopra il letto. Lui non ne porta: in verità ha una catenina al collo, ma vuota, segno e qualificazione di laico pensare. Però occorre altro: trovare una croce a difesa del nulla. Prende il portachiavi, toglie dal mazzetto la chiave del garage, ci met-te sopra quella di casa sul pavimento di lucido parquet davanti alla porta. La croce brilla. Come potrà prevalere il male su quel segno? Poi prende i fiammiferi e li dispone sul pavimento, tutti in piccole croci intorno alla finestra. Si vergogna: è lui a fare questo? Questa storia è nata dalla follia. Nessuno lo aiuterà in questa notte. I legnetti in croce forse, terranno lontano il buio più della sua ragione.

Adesso Tis si accuccia sul letto aspettando. Non deve dormire. Se non dorme tutto andrà per il meglio. Non dormire è il primo do-vere. Deve restare attento. È cosciente. Fuori la pioggia continua a impazzare. Adesso che ci pensa s’accorge d’avere molto sonno.

In quella camera che spinge all’abbandono, sotto la coltre pro-fumata, Tis potrebbe addormentarsi cullato dalla pioggia, libero di sognare le campane del suo paese. Ma anche solo il desiderio del sonno è pericoloso: è già la prima fessura nel muro della veglia e della ragione. Dalla fessura passeranno la confusione dei ricordi, passato e presente mischiati assieme, e il consueto incubo: è come se lo vedesse di nuovo con la faccia scura di principe delle tenebre, gli occhi scuri di perfidia, che si leva immobile vicino a chi ha scelto, il maledetto vampiro. Ma certo non passerà, basta la croce, basterà non dormire. Vegliare, attento a non confondere la realtà con i film del-l’orrore. Possibile che piova ancora? Il mondo sembra un imbuto.

È passata appena la mezzanotte, le tenebre cominciano a riem-

tubetto di Alka Seltzer? Sul letto c’è un pigiama fresco di stiratura, a righe, di bella stoffa: un pigiama paterno, come erano i pigiama prima che si travestissero da abiti da sera e alludessero assai.

Quanto il giorno è stato lungo. Dormire in quella stanza, men-tre fuori batte la pioggia. Credere che tutto non sia vero... Però c’è stato il cimitero, e con la febbre, a casa, Tis sentiva dal letto le grandi ali nere pendere sopra di lui. L’angelo della morte, l’ultima stazione dove andrà a precipitarsi tutto: quel buio attorno alla bara di Avoli, anche quello era vero. Due volte ha osato toccare quel morto, all’obi-torio e là. Risente il freddo sotto le dita e non è possibile non ricor-dare i due fori sul collo. Uno scherzo, un romanzaccio: lui ha visto, e nessun altro sa. Ciò lo rende l’uomo più solo che ci sia sulla faccia della terra. È davvero una sentinella, come diceva il Conte.

Ma adesso che la stanza è il personale bastione da difendere, il nemico arriverà? Chi avanza nella desolata pianura? Non ci deve cre-dere. Auto sfrecciano nella notte, i treni corrono in ritardo e gli aerei sono fermi per il solito sciopero, fra pochi mesi il carnevale impaz-zerà per le strade, satelliti ripetono in diretta olimpiadi e corse. E lui è il solo che sa del misterioso ratto, della bestia nera che ha piantato due zanne in un collo, come mille anni fa: e questo è reale più del legno del pavimento e del letto invitante. Può un mostro della notte andare a giustificarsi in questura? Se anche non volesse uccidere più, quest’ultima morte, la morte di chi lo può svergognare e esporre, gli potrebbe comunque scappare dalle mani. Questa storia dei Baldas-sarri è fin troppo aperta: il segreto è nella parola “vampiro”, la chiave per capire tutto. Ma nessuno può usarla perché farebbe ridere. Solo Tis, che ama le vecchie carte, è arrivato alla verità: e una stirpe di vampiri deve avere il sospetto come virtù familiare.

Giacomo non ha chiuso le persiane e il violento ticchettio che pervade tutto è quello dell’acqua sui vetri. Tis apre la finestra e tira a sé le imposte prendendosi in faccia la tempesta. Mentre accosta i vetri si rende conto del pericolo e chiude con frenesia. Se dietro ai vetri ci fosse... Non deve aprire nulla per tutta la notte. Né la porta né la finestra. Un vampiro non è un’ombra: non solo, almeno. Pesa, è un uomo pesante, lui e la sua maledizione, da un buco della serra-

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c’è una collina, un’autostrada, una circonvallazione, traffico, polizia stradale. E se dormisse? In fondo, si sveglierebbe al minimo rumore. In questa situazione anche il sonno potrebbe essere meno ingannevo-le della veglia, chi può dire?

Un altro lampo fulmina l’interno della stanza abbagliando tutto. Il buio e il crosciare del tuono vengono assieme. Tis balza dal letto. Tremante, con le spalle che sente nude ed esposte, accende la candela dopo aver spezzato fiammiferi su fiammiferi. Un chiarore stentato, da cripta, arde nella stanza. Questa volta la luce sembra non voler più tornare. Tis si angoscia da almeno un’ora, ma sente che fra sonno e l’altra cosa una delle due dovrà comunque scegliere. La fiamma lentamente oscilla nell’aria. Non ne può più, ma adesso meno che mai si avventurerebbe nel corridoio. Va a toccare il termosifone, è caldo. Farla lì sopra uniformemente? Il calore asciugherebbe tutto... E il parquet? Come può rovinarlo e passare per una bestia incivile e impazzita? Ma la sola idea di potersi liberare equivale a una rottu-ra degli argini. Tutto sta per crollare, esplodere. Frenetico afferra la bottiglia dell’acqua minerale sul tavolino, la versa a piccoli spruzzi, sempre più soffrendo, sul termosifone, lentamente e con spasimo. Poi va alla finestra e versa un po’ d’acqua a terra e sul muro, come se la pioggia fosse filtrata, mezza bottiglia. Riempie il bicchiere sul comodino e il resto rapido lo beve di colpo. Non ha più nessuna pau-ra: nessuna: si sbottona e con qualche difficoltà, sospirando, piscia nella bottiglia. Demonio maledetto, pensa, crepa crepa crepa. La luce torna e lo fa sobbalzare.

Tis come un bambino quasi lascia cadere la bottiglia e si bagna mani e calzoni. L’umiliazione gli sale alla gola. Ma adesso il ridicolo e la paura sono uniti assieme e la sua tragedia è roba da ridere. Come la bottiglia, l’Alka Seltzer, il suo digiuno, la batteria vecchia, il Conte misterioso e i suoi delitti. Si rimette a letto. Capisce che è più difficile restare sveglio. Il sonno attacca su tutta la linea, una strada di città muta poco per volta i suoi muri in alberi, siepi, canneti, diventa una caverna muschiosa poi un pozzo umido che ha in fondo il cielo inve-ce dell’acqua. Si riscuote e batte la testa sul legno della testiera.

Che farà la moglie in quel momento? Sono le tre. Certamente

pirsi dei fumi del male: incubi vani in cerca del sapore che persero nell’ombra perenne, morti rancorosi e fluttuanti che si levano dai camposanti, fruscii nella stanza dove morì la Contessa. Quasi si po-trebbe ridere, se si fosse di giorno. Ma Tis cammina nei corridoi bui della sua infanzia, dove l’attaccapanni è il malevolo brigante che è venuto a giudicare le tremende colpe dei bambini: esistere, aver rotto un bicchiere, aver perduto un quaderno.

Poi adesso si accorge di un’altra inquietudine. Una sensazione assai pericolosa, non ora ma certo fra un po’. Ha fatto male a non andare a cercare il bagno in fondo al corridoio, quando Giacomo gliel’ha detto. Tutta l’acqua che corre giù per tetti e gronde gli ricor-da che fra due ore potrebbe torcersi in un terrestre spasimo insoddi-sfatto. Uscire nel corridoio, neanche pensarci. Dalla finestra? Quanto ci potrà volere a pisciare dalla finestra? Due minuti, venti secondi?

La finestra non l’aprirà. Gli altri sono morti sul serio, uno l’ha visto e non dimenticherà: morto fra maneggi di siringhe e lacci di gomma. Adesso Tis è seduto sul letto. Il tempo continua a passare, i liquidi del corpo vanno inevitabilmente verso il basso. Sa benis-simo che una soluzione non c’è. Inutile guardare ancora. Scende e passeggia. Si accosta alla porta e dietro non sente nulla. La maniglia è immobile. Se quel giorno non avesse guardato in mezzo ai docu-menti, se avesse continuato a consumare la propria vita tra modellini, vernici, grigi caccia dell’autunno ’44... Partito in quarta per questa guerra, è adesso vicino a morire e nessuno lo sa, nessuno ne ricorde-rà la gloria. “Ecco, arrivano gli Orchetti” dice la nonna, “piccolini e cattivetti. Se cattivo tu sarai, fra i lor denti finirai...” Anche l’intrepi-do Soldatino di Stagno, mentre correva nella barca di giornale verso la fogna, udì il ratto gridare: “Soldato dove vai? La morte incontre-rai!”

Mentre torna nel letto, avverte il primo spasimo e si rattrap-pisce su se stesso. Come farà fino alle sei, fino a che il gallo canti e faccia tornare la verità sulla terra? Il sonno e lo stimolo combattono in lui e si attenuano a vicenda, ma ad uno dei due, guai se cedesse. È tardi, si è nel pieno della notte. L’alba è lontana. A Tis sembra che una bava di luce potrebbe cambiare tutto: vedere che dietro il viale

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buio diventa sonno. Se cede, tutto diverrà pace come un fiume che scorra nella nebbia e Tis si addormenterà. Signore, prega, non farmi dormire queste due ore. Ma fuori, assieme alla pioggia che cade sul mondo, sulla città, sulle circonvallazioni, sulle strade del porto, Tis sente scendere l’immenso ed eterno silenzio di Dio. Non ci crede ma come tutti ha provato a chiamarlo e risposte non ne ha avute: né per il matrimonio né per il figlio, non avrà risposta neanche adesso. Il suo rancore scivola in una freccia argentea, anche il figlio col morbillo, anche il passato diventa un’orbita serena nello spazio. Tutto appare logico e chiaro e il male è anch’esso una cosa che gira diventando bene, tranquillità. Non dà più pena. Il fiume scorre sereno e Tis final-mente s’addormenta.

dorme col figlio accanto. Lei sì che è saggia, lei si che accetta di invecchiare, lei mai dormirebbe in casa di un vampiro... Ecco che sua moglie scivola piano nel sonno: Tis vede a occhi chiusi una luce arancione, un piano attorno al quale girano frecce argentee con per-fetto moto ellittico. Questa, questa è la chiave del mondo e di tutti i suoi perché, i suoi destini e le sue robe: un perenne girare intorno a un centro che irradia luce. Il volto di sua moglie, che lo abbando-nò sotto una deserta coltrice in compagnia di un gatto bizzarro ed egoista, si appiattisce allontanandosi e diventa argento che prende a girare. Anche il bambino col pigiama e col morbillo diventa luce che gira. Con la madre appare e scompare, è tutto semplice per Tis. Se anche lui, accettando l’abbandono, girerà come una freccia d’ar-gento, li rivedrà entrambi o troverà una pace più fonda e pietosa di un breve sonno.

Un lampo e un tuono lo fanno rialzare di scatto. Dormivo, ho dormito, pensa con rimprovero, non era dormiveglia: era sonno. Tuo-na e lampeggia più di prima. Forse che il margine del diluvio comin-cia a lasciare la terra? Il sonno ridiventa più forte di tutto e come un gorgo vuole i suoi pensieri per appiattirli. Si sono sentiti dei passi nel corridoio, forse che la maniglia della porta si muove? Non importa più niente, neanche quello. E del resto il corridoio è completamente silenzioso, anche il vampiro è meno forte di questo sonno, di queste palpebre che sono piombo, come la testa e i pensieri che vogliono scappare giù, acqua in una vasca.

La notte è fonda ma è alla fine. Se si fosse d’estate, qualcosa sul mare comincerebbe a schiarirsi e la luna impallidirebbe come nelle canzoni. Fra due ore, se sarà forte, Tis avrà vinto. Se si addormenterà sarà una vittima dell’ultima ora prima dell’armistizio. Signore, pensa Tis, aiutami, mio figlio non può sapere che il suo babbo è morto, chi glielo dirà? Quanto ci metterà a scordarmi, chi si occuperà del suo elicottero rotto? Tis lo vede con il morbillo sul volto, che dorme con l’elicottero nuovo che lui ha rimesso a posto.

Non tuona più. Il sonno sembra filtrare dal pavimento, dalle finestre, da dentro la povera coscienza atterrita di Tis. Anche il suo solitario e misconosciuto ardire di solo uomo che si confronti col

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CAPITOLO XVIII

Il tempo della mattina, col sole e la relativa limpidezza, illumi-nò le stanghe delle persiane dando idea di verde solare, di infanzie felici, di estati passate in vecchie case di campagna.

Tis si svegliò con la luce delle finestre che pareva più o meno quella di tanti anni prima in casa della nonna. E non appena si ricordò che s’era d’ottobre, e in casa di chi, lo sbalordimento se lo portò via. Eppure raramente s’era sentito così bene. Spalancò la finestra e vide che il viale con i cipressi luceva e scintillava di foglie bagnate e di sole, e luccicante vide l’auto dei suoi destini davanti al cancello. Una fame precisa e sana lo teneva sicuro del suo essere nel mondo dei vivi e rendeva superflue le ispezioni che Tis si praticò sul collo. Fece sparire nel gabinetto il contenuto della bottiglia e considerò ridicola la paura della notte. La vita continuava e il sole mandava via la sua autunnale depressione.

Scese per le scale, trovò l’ingresso nella casa ancora silenziosa, si godette il fresco del parco, la luce, il cielo azzurro. Tutto quel-l’omerico crosciare della notte piovosa, i lampi e i tuoni, era lontano e non sembrava accaduto. Se non fosse stato per le pozzanghere dove si specchiavano i già agitati cipressi, Tis non avrebbe pensato che a una notte in cui il cielo, appena, avesse lasciato cadere sulla terra po-che gocce senza importanza. Camminando nel viale, quasi si attese un gridio di rondini e non riuscì a liberarsi della falsa idea pasquale che si accompagnava all’inizio di quella giornata.

Davanti alla sua auto, che la pioggia aveva reso meno simile a un fangoso relitto, un giovane dall’aria efficiente andava mestando fra cavi muniti di pinza e batteria, nel suo cofano. Tis mise a fuoco il mestiere dell’autista.

“Buongiorno” disse.“Buongiorno a lei” rispose il giovane.“Non vorrei averle recato disturbo.”“Nessun disturbo. Ho caricato la batteria per quel poco che ba-

sterà per partire,” spiegò l’autista “certo che bisognerà cambiarla.”

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CAPITOLO XIX

L’idea del tribunale tornò a Londei. Il suo stato d’animo, an-cora oscillante tra curiosità e esasperazione, finì per metterlo in una situazione contraddittoria. Incredulo per fede (e in fondo al cimitero non aveva visto nulla), si accorse di essere però ancora in risonanza con l’apprensione di Tis.

Guai al materialista che troppo a lungo, in una notte di luna piena, indulga a discutere di spiriti e lupi mannari stando in cam-pagna o sulle rive di un fiume, se dappresso non lo conforti almeno un rombo di una autostrada. Potrebbe accadere che il canto dei grilli sembri d’un tratto sovrastare ogni altro suono: e allora chi ci dirà se l’ombra sotto gli alberi è appena uno scherzo del vento e della luna?

Londei, fra un inseguimento di Laura e l’acquisto di un cache-mire, sapeva che troppe cose dormono quiete in noi finché qualcosa non le chiama facendole affiorare. Fra queste la paura, come anche la gelosia: si possono controllare, non impedir loro d’esserci.

Fu con questi pensieri che Londei rientrò in casa verso le undici di sera, sotto un nuovo acquazzone, bagnato e collerico. Scrollò l’ac-qua dall’impermeabile, fermo nell’atrio del palazzo. Dall’ora di cena aveva ascoltato per l’ennesima volta Tis sugli ultimi fatti. Il Conte, gli spaventi vani dell’altra notte, l’automobile riparata... Infine, cosa era successo? Niente. Il gentiluomo aveva dispiegato una cortesia da manuale, raffinata e accattivante. Le ansie erano in Tis, non nelle cose. Si poteva davvero credere che i Conti vivessero nei secoli uc-cidendo ogni tanto qualcuno per succhiargli il sangue? – perché, si sa, i vampiri vivono di sangue, ma anche dormono di giorno, odiano l’aglio e la luce, hanno i denti lunghi e i mantelli neri foderati di ros-so... Cosa gli era capitato, povero Tis, da mettergli in testa una così straordinaria imbecillità?

“Ma io?” si passò la mano sui capelli bagnati. Vide ancora la bara, le lunghe saldature, Avoli.

Il ricordo acutizzò il malessere appena attenuato dalla certez-za, ormai, che conseguenze penali non ve ne sarebbero state. Invano

“Cambiarla?”“Eh, non è che sia una cosa da farci l’inverno” disse colui stac-

cando le pinze anodizzate dall’ammasso nerastro della batteria di Tis. “Ce ne vuole una nuova.”

“Povero me” fece Tis allegramente.“Anzi,” riprese l’autista “ci vorrebbe una macchina nuova.”“Povero me,” ripeté Tis “credevo che le Cinquecento fossero

come il vino: più sono vecchie e meglio sono.”“Questa,” disse l’autista con prontezza “è un vino che ha preso

d’aceto.”“Ah...” disse Tis con qualche imbarazzo. “Le devo qualcosa?”“Per carità. Proviamo a mettere in moto.”Al primo colpo, come un sussulto di giovinezza di un vecchio

atleta, l’auto andò in moto, l’autista sorrise e Tis partì col cofano aperto, rincorso dall’efficiente giovane. Partì di nuovo e l’auto scese allegramente verso la città, condotta con insolita disinvoltura dal ri-posato padrone. Si fermò davanti a un bar.

“Un caffè” chiese. Poi vide altro, dietro il vetro di fianco al bancone. “Aspetti” disse. “Due panini col prosciutto.”

Mangiando pensò al Conte che di nuovo prendeva i caratteri di vecchio assassino. Si può immaginare un vampiro dopo avergli dor-mito in casa e aver avuto non morsi ma Alka Seltzer e la riparazione di una batteria? La vita è un sogno, pensava Tis.

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indizi così labili? E quale assassino, diciamolo, quale vampiro sareb-be così stupido da lasciarsi il corpo della vittima sotto casa? O così astuto... Via, c’è pure una questura che si occupa di queste cose...

Guardò l’orologio: le undici e mezza. Prima che potesse im-precare ancora, la luce delle scale si spense per l’ennesima volta. Londei si avvicinò al pulsante segnalato da una debole spia rossa. In quel momento risuonò alle sue spalle una voce maschile.

“Professore? Ho un biglietto per lei.”Amone, portiere ficcanaso e mastriccione, carabiniere in con-

gedo, aveva parlato. A Londei l’adrenalina fluiva in tutto il corpo e per lo spavento si appoggiò al muro. In quella fiacca positura appar-ve al portiere, quando questi riaccese la luce.

“Professore,” chiese costui “qualcosa non va?”“No... no, va tutto bene” stentò Londei. “Mi ha un po’ spaven-

tato. Non l’ho sentita arrivare.”“Ho un biglietto per lei” disse il portiere con limato accento

meridionale.“Un biglietto?”“Sì. L’ha portato una... la signorina, verso le otto e mezza”,

disse Amone con tono e sorriso complici, “per lei. Mi ha detto che l’avrei trovata qui, dopo le undici...”

Non viene, ringhiarono i pensieri di Londei, e mi fa fare la fi-gura del cretino con il portiere. Questi stava tornando dalla guardiola col biglietto in mano. Londei lo ringraziò un po’ seccamente.

“Non doveva disturbarsi, so che lei va a letto presto.”“Per carità, professore. Dovere...”Attese che se ne andasse, poi aprì il biglietto. Il foglio era natu-

ralmente senza busta, color rosa confetto, stampatello vergato a lam-postil. “Caro Cipciop,” (Londei risentì il soprannome amato-odiato dell’intimità, ignorato anche da Tis e tanto più odiato, adesso, perché ora noto certamente anche al portiere) “scusami non mi aspettare vado a Venezia con Gegia e Beba a trovare Cri torno tra una settima-na bacissimi Laura”.

Londei cacciò stizzosamente il foglio in tasca. Ma benché sen-tisse che avrebbe dovuto arrabbiarsi moltissimo e in cuor suo già pre-

Londei s’era affrettato a scorrere la pagina locale dei quotidiani, il giorno dopo e i successivi, temendo con differita angoscia di leggere del cimitero e delle indagini. Invece, nulla. Che il custode avesse pensato a una burla macabra, che avesse richiuso la bara maledicen-do i tempi? Forse per quieto vivere aveva fatto finta di nulla e ora il giovane Avoli consumava, in un loculo marmoreo, il suo destino di disfacimento e uscita dalla memoria.

Lui, Londei, stentava a tornare l’uomo di prima. I giorni tra-scorrevano senza gli ambigui doni del tempo che va: assuefazione e oblio. Adesso dormiva con la luce accesa e di sera passava di stanza in stanza, nel suo pur piccolo appartamento, chiudendo la porta alle spalle. Si era giurato di non volerne sapere più nulla. Ma proprio sta-sera aveva rinviato alle undici l’appuntamento con Laura per sentire da Tis cosa era successo l’altra notte: come se qualcosa fosse davve-ro potuto accadere.

Vide i fari di un’automobile che accostava al marciapiede da-vanti all’atrio in cui era fermo ad aspettare. Stava per schiacciare il pulsante dell’apriporta, quando l’auto ripartì sotto la pioggia scari-cando una persona che sparì di corsa. Londei guardò l’orologio: le undici e venti.

“Fosse mai puntuale” imprecò.“La puntualità è una virtù borghese” gli rispose Laura nei suoi

pensieri.Quanto restava di vero analizzando l’intera storia? Un morto di

morte violenta più di cent’anni fa, sul quale corsero dicerie bizzarre. Un secondo morto qualche giorno prima, per droga, forse, o per col-lasso cardiocircolatorio o per il morso sul collo o per la forte perdita di sangue o per tutte queste cose messe insieme e altre ancora, lo sa Dio e ce lo dirà la relazione necroscopica, anzi io me ne frego e non voglio neanche saperlo... Il documento del secolo scorso parlava di pallore intenso. Ma tutti i morti sono pallidi: quand’è che un pallore diventa eccezionale? E il nesso che lega i due morti, pensava Londei, è un tenue filo che conduce ai Conti, cioè le voci di cent’anni fa e il rinvenimento della salma dell’Avoli nell’androne del palazzo Bal-dassarri, qui al centro... Ma quale giudice rinvierebbe a giudizio con

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“Come si fa a sapere se in un dato anno c’è stato un omicidio, o comunque una morte sospetta?”

Dall’altra parte del telefono ci fu silenzio. Poi, come Londei temeva, la voce di Cassiani riprese con sarcasmo.

“Su andiamo. Confessa tutto al tuo avvocato. Cos’hai fatto?”“Ma niente, figurati. Mi servono solo delle informazioni su

come fare per cercare un probabile morto del Venti o del Ventidue” mentì. “Non so il nome né la circostanza. A dire il vero, non sono neanche sicuro se c’è... Insomma, queste cose le devo scoprire io. Da dove si comincia?”

“Dal tempo pieno per gli insegnanti, che almeno avreste altro da fare” sogghignò l’avvocato.

“Dai, sul serio. È un caso che... forse si ricollega con l’antifa-scismo” inventò Londei seccato, sapendo che mai Cassiani avrebbe osato scherzare sulle cose sacre.

“Ah, ho capito” riprese l’avvocato subito serio. “Be’ puoi pro-vare in tribunale. Devi chiedere le rubriche del Registro generale che riporta tutti i dati di rilevanza penale della giurisdizione. Però devi essere parte interessata o avere il permesso di...”

“Aspetta. Prendo nota. Un momento.”Londei venne ammaestrato sulle segrete cose della Giustizia.

Il problema più grave, a parte Cassiani che insisteva a minacciare salate parcelle, era che qualcuno lo introducesse a titolo di amicizia, visto che Londei mostrava troppa fretta per un regolare permesso né poteva vantare relazioni di parentela col morto, sempre che un morto ci fosse. A questo pose rimedio la promessa dell’amico di telefonare l’indomani a un conoscente in tribunale.

Così, la mattina dopo, poco prima delle undici, il professor Londei saliva le ampie scale del Palazzo del Tribunale, con il pensie-ro già a Venezia.

Tis beveva il caffè. Lo zucchero era finito e lui aveva dimen-ticato di comprarlo. L’amarezza della bevanda gli fece sentire do-lorosamente il peso della trascuratezza e del suo sbando. Alla porta

gustasse la parte di amante deluso e scorato che avrebbe recitato con maestria, s’accorse, salendo le scale, che questa impreveduta pausa sessuale quasi lo rincuorava. Stava invecchiando, come il maligno Tis volentieri suggeriva.

A Venezia, in una notte da lupi come questa con Gegia e Beba a trovare Cri; – Cri? Chi diavolo era Cri? Al diavolo davvero, pensò, dovrò guarire da questa donna.

In salotto accese la radio e sprofondò in poltrona col libro della battaglia di Verdun e un bicchiere di Porto, nell’attesa del sonno e nel disappunto, se non nel dispiacere, dell’appuntamento mancato. Tornò con rabbia allo spavento causato dal portiere, giù di sotto. Al-l’apprensione, mai prima conosciuta, di essere solo in casa, attento al buio delle altre stanze. A quella assurda storia di morti che voleva farsi ascoltare anche da lui.

“Che gran sciocchezza,” si trovò a dire a voce alta “un morto è un caso, due può essere ancora una coincidenza...”

E quell’altro crimine? Chiuse il libro. Ne avevano pur parlato quindici, venti giorni fa. Durante la Grande Guerra era morto qual-cuno, Tis lo aveva saputo dallo zio. Una domestica dei Conti? Fra tutti e due erano riusciti a non andare a vedere. Ma troppe cose erano successe e ne bastava una per essere stravolti.

Questa e poi basta. Pensò a Venezia, alle stanze dove i compa-gni di Laura dormono tutti ammucchiati. E lei? Dormiva sola? Me-glio non pensarci. C’era modo di tenerla legata? Andare a Venezia domani, chiudere con questa pazzia di cadaveri e ali nere. Questa e poi basta. Mancava poco a mezzanotte, quando andò al telefono e compose un numero. Immediatamente qualcuno rispose.

“Si?”“Ciao, avvocato. Fai sempre gli straordinari?”“Oh, Mauro. Come mai a quest’ora? Sono nel casino, ho anco-

ra da fare ma adesso esco perché sono stufo. Vieni a farti una pizza?” chiese l’avvocato Cassiani.

“No, scusami. Domattina ho la prima ora e sto andando a letto. Senti, ti ho chiamato per una informazione...”

“A quest’ora? Non ti basterà metà stipendio.”

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stesso, registrò quelle accuse per dovere d’ufficio, aspettandosi forse un’azione penale contro la donna: infatti scrive con minuzia quello che la poveretta disse, benché aggiunga che il Conte non era neanche indiziabile. Non ci vuole molto a immaginare la scena, le chiacchie-re, quello che avrà pensato la gente: una povera contadina impazzita dal dolore, che sparge accuse più ridicole che infamanti. Se avesse detto che il Conte le aveva sedotto la figlia, magari l’avrebbe creduta. Ma una cosa del genere... E qualcuno avrà pensato che una seduzio-ne c’era stata davvero” continuò Londei “e che la poveretta cercava, chissà...” Londei raccolse il gatto, si sedette sulla poltrona e comin-ciò a grattargli il mento con visibile compiacimento dell’animale. “Di’, ma lo zucchero non c’è, in questa casa?” ripeté accennando alla tazzina.

“E allora,” chiese Tis “cosa accadde allora?”“Niente, naturalmente” rispose Londei. “Il Conte non presen-

tò querela. Forse comportandosi da gentiluomo, o forse perché sarà tornato al fronte. Perché cinque giorni dopo, il �4 ottobre, ci fu Capo-retto... nel cui clamore si deve essere perso il chiasso di questa morte provinciale. Come sai, poi il Conte morì al Montello. Gli hanno dato la medaglia d’argento, alla memoria.”

Si alzò, posando delicatamente a terra il gatto e andando verso il tavolo. Il gatto balzò di nuovo sulla poltrona e vi si acciambellò.

“Ti ho fotocopiato la relazione per non farti perdere nulla, nes-sun particolare. E anche il referto medico” lo estrasse dagli altri fogli “che parla di... ecco, – ferite letali da punta alla regione latero-cervi-cale all’altezza della carotide... Finì che il delitto fu attribuito a ignoti e archiviato nei termini prescritti. Questo è tutto.”

Si alzò, raccolse un panino dalla tavola sommariamente appa-recchiata e con esso si diresse in cucina. Tis rimase a contemplare la porta d’entrata. “Cosa ne deduci?”

“Assolutamente nulla” rispose Londei. “Ma ho cercato queste notizie perchè, dai e dai, m’ha colto il desiderio di sapere. E contem-poraneamente ho avuto paura... Io abbandono, me ne vado a Venezia o dove diavolo è, tanto è lo stesso. Quando mi rivedi non una parola. Non voglio sapere come finisce. Questa storia, per quel che mi ri-

bussarono, lasciò la tazzina sul tavolo. Era Londei.Entrò in casa con dei fogli in mano. Aveva corso. “Non ho

neanche pranzato” disse “sono stato in tribunale.”“Fino ad ora?”“Sì. Per quella tale.”“Quale tale?” chiese Tis.“Non ti ricordi neanche tu? Stasera parto per Venezia: vado via

per pochi giorni ma per la faccenda è come se partissi per sempre. Non voglio più sentire questa storia. A me piace vivere su altri bi-nari...” trasse di tasca fogli che gettò sul tavolo piegati “... tanto più che certe ombre si può credere che abbiano un nome. Mettiti seduto” ordinò poi. “Queste sono le fotocopie degli allegati.”

Tis si sedette mentre Londei proseguiva come un torrente in piena.

“Mi è tornato in mente ieri sera, dopo che ci siamo visti. Ne avevamo parlato una volta, prima che morisse Avoli. Ricordi, quella domestica del Baldassarri di cui si ricordava tuo zio? ... bene, era una certa Quinta Pagnoni di Tomba (che poi sarebbe Tavullia). Trovi tutto qui.” Batté sulle fotocopie sul tavolo. “Era stata da poco assunta dal conte Baldassarri, quello di allora, Carlo Alberto, quello morto sul Montello. I suoi erano contadini dalle parti di Tavullia. Una volta che andò a trovarli non tornò più. La ritrovarono uccisa verso il Bon-cio, la mattina del 19 ottobre 1917. La relazione dei Carabinieri che condussero l’inchiesta dice che era una brava ragazza (a proposito, era del 1894: neanche ventiquattr’anni), che non aveva nemici, ecce-tera eccetera, insomma tutto il campionario di questi casi. Le male-lingue pensarono al fidanzato, che invece era al fronte. Il maresciallo scrive che la madre accusò il Conte che, guarda il caso, era a Pesaro in licenza e che, secondo lei,... era capace di trasformarsi in animale ed era un uomo malvagio. La presero per pazza: sai, il dolore...”

Fece una pausa. Prese la tazzina di caffè che Tis s’era dimen-ticato e la tracannò.

“È amaro... E così, come vedi, ci imbattiamo per la terza vol-ta in un fatto analogo. Adesso diventa un po’ troppo per essere un semplice caso... Non hai lo zucchero? Il maresciallo, come vedrai tu

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prenderà il treno. Stanotte dormirà sulla laguna.Si guarda attorno, contempla la riva deserta, vede in lontanan-

za i colli verso Fano e fuma tranquillo nella consapevolezza che la città è restituita dall’autunno ai suoi abitanti, e che il suo ruolo in questa storia si conclude. Ciò sottolinea la sabbia che il vento ha spinto sull’asfalto del viale. Il vento l’accumula e passa oltre. Anche Londei se ne va.

guarda, non esiste e quindi non può avere una fine.”Bevve un po’ d’acqua osservando sul televisore tre modellini

identici, ma dipinti con mimetiche differenti. Di nuovo si rivolse a Tis e gli lesse sul volto un’ansia di cui provò pena. Ma finalmente si sentì liberato e personalmente fuori.

“Belli, li dipingi davvero bene. Ma a che ti serve... Lascio a te ogni... Continua tu, se hai voglia. Ma ricorda, Stefano,” aggiunse “le ombre si avvicinano solo se glielo permettiamo. Forse basta non prestarvi attenzione, non più che a questi giochetti...”

Aprì la porta, benché Tis rimanesse seduto i gomiti sul tavolo e gli occhi fissi sulle fotocopie piegate.

“Ciao. Se è possibile non pensarci più, e se grazie a Dio diser-to, non volermene.”

In fondo all’ultimo viale, dalla parte del porto, la sabbia è se-parata dalla strada solo da un marciapiede. Sulla spiaggia, intorno a un vecchio stabilimento, crescono tamerici e cespugli, e l’erba si mischia alla sabbia.

In quella parte di arenile che Londei ora percorre, fu memo-rabile anni fa un’invasione di coccinelle che si pestavano a mucchi, un’altra ve ne fu di maggiolini, che ronzarono una settimana sullo sfondo del porto e delle sue acque, segno certo di imminente fine del mondo. Londei cammina sulla spiaggia più aperta della città e le acque del mare, nel tramonto d’ottobre, sono così luminose. Anche il porto pare più bello del solito. Forse a causa della pioggia notturna l’aria è come cristallo, e le poche nubi appese al cielo fanno quadro manierista.

Anche in lui c’è pace. La luce dell’ultimo sole lo conforta e la decisione lo rassicura. Stasera Londei parte. Frappone vacanze e fer-rovie fra sé e il delirio di Tis. Andrà a Venezia. Ma Laura o non Lau-ra, non era questo il problema. Il problema era altrove, nell’inquie-tudine che si alzava come polvere dalla ragione frastornata. Londei si sentiva vacillare, e non ha voluto. Così adesso passeggia perché ha bisogno di fumare in pace, ma tra poco andrà a casa e alle 19,1�

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CAPITOLO XX

Quando uscì dal consorzio con le scatole di conserva, il ton-no e i detersivi biodegradabili, Tis si bloccò con le borse in mano a guardare il suo preside che lo fissava dalla nebbia della strada. Si salutarono con reciproco imbarazzo. Si sarebbero rivisti a scuola, quando il permesso per malattia del sanissimo Tis sarebbe scaduto. Mica mancava tanto. Che, come ogni gioco confuso, anche questo andasse schiarendosi, era ovvio: ma la chiarezza che ne risultava era forse peggiore della confusione. Scese la scalinata e viaggiò senza fretta verso l’elettrauto.

Nella nebbia apparivano i primi stivali della stagione, molte ragazze avevano un’aria accesa e mostravano i nuovi abiti invernali. Una incontrò lo sguardo miope di Tis e lo ricambiò distrattamente per un istante, con occhi che fuggirono dimenticando. Per il Corso volarono giù per la discesa due in bicicletta: con le maglie rosse e la tuta seppero di ostinazione e di freddo. Tis li invidiò freddoloso. Al cinema era tutto un apparire di prime visioni, ma lui si sentiva distan-te da ogni desiderio.

Quando arrivò, l’uomo dell’elettrauto stringeva i morsetti della batteria proprio alla sua macchina. Nella tuta blu, con la sciarpetta al collo e gli occhiali che contemplavano senza soddisfazione il lavoro, aveva un’aria altrettanto malinconica di quella di Tis. “L’ho ricarica-ta, non durerà” lo informò. Tis pagò nella bottega dove brillava una preistorica stufetta elettrica. Si chiese se l’omino avrebbe passato l’inverno con quella. Uscì presto dalla confusione del centro dirigen-dosi verso le colline. Passò per Trebbiantico senza guardare ai lati, fisso sull’asfalto lucido. Passò veloce, con un’idea di incoscienza persino, e sbandò davanti al ristorante del suo pranzo di nozze. Anni sei, allegria... mezza parte della vera vita se n’è andata da allora, e ci si è aggiunto questo casino.

Con un’altra scivolata che smuove la macchina, Tis gira per le melme delle strade non asfaltate dell’entroterra. Bisogna farla finita.

Vuole andare a vedere la tomba di famiglia del conte Baldas-

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costellazione di lapidi vecchie e vecchissime che per tutto l’anno non avevano omaggi né ceri e che forse solo a novembre avrebbero avuto la loro tre giorni del ricordo. Ammesso che nelle campagne attorno restasse, per ricordarsene, qualcuno delle vecchie famiglie contadine i cui capostipiti orgogliosi giacevano là sotto.

Nel mezzo del camposanto Tis guardava in giro, con l’acqua che trovava infine modo di farlo rabbrividire entrandogli nel collo. Il nome Baldassarri non figurava nello stipite delle due uniche cappelle che vedeva. Poi notò, al centro di uno dei lati, una sorta di timpano di tempio, due bassi gradini, una catena attorno. Fatti pochi passi lesse BALDASSARRI sotto il vertice del timpano.

Una grande lastra di pietra grigia, pesante, cupa e già corrosa dal tempo, schiacciava i due gradini fra l’erba. Al centro, nella sua gabbietta arrugginita col vetro rosso lavato dalla pioggia, si torceva senza mai spegnersi un lumino. Un lato della tomba era coperto di edera. Tis scavalcò la catena bassa, in una minima – adesso – profa-nazione, e lesse spostando le foglie dell’edera:

LEONIDA BALDASSARRI1895

Più sotto, invece, c’era un altro nome:

CARLO ALBERTO conte BALDASSARRITrebbiantico, 10-VII-1880

Crocetta del Montello, 8-V-1918CADUTO PER LA PATRIA

aspettaminon mancherò di incontrarti

in quella valle silenziosa

sarri. Che ne trarrà? Niente, vedrà dei nomi sul marmo. E allora? È chiaro che corre a cercarsi emozioni: è un po’ come se non potesse più fare a meno di spaventarsi e di frugare fra quelle cose orribili che per ora l’hanno risparmiato. Che la gran corte degli inferi neanche si curi di lui? Poteva ragionevolmente dedicare più tempo all’infer-miera, alla Luisa, convincerla a dormire con lui cercando di superare il confronto col ballerino della psicomotricità. Perchè non le ha più telefonato?

La tomba dei Baldassarri non stava nel cimitero di Trebbianti-co ma in quello, ancora più piccolo e lontano, di Sant’Andrea, messo in cima a una collina e nascosto da un muro di cipressi che apparvero dopo un paio di curve. Quella che in città era stata umida nebbia, qui era pioggia che andava crescendo di intensità e rovinava sferzan-te contro l’inadeguato tergicristallo. La strada era tagliata dentro il fianco della collina. La parte inferiore, il fondovalle e la costa della collina di fronte erano sbancati e cosparsi di enormi cumuli di terra. Tre o quattro ville in costruzione mostravano i loro stili disparati, portici a colonnette, merlature, fortini messicani, un’idea di gotico in una quarta. La grande difformità delle costruzioni in mezzo agli sbancamenti rendeva ridicola tutta la collina, l’acqua che percuoteva gli orrendi progetti li faceva sembrare frutti di una desolata fungaia.

Nei pressi della cima una superstite galleria di alberi accolse la macchina. I cespugli di rovi stillavano acqua e una lepre schizzò veloce sparendo nel folto. Un vialetto portava al cancello del cimi-tero, in mezzo a uno spiazzo d’erba dove Tis lasciò l’automobile. I cipressi sorgevano al di là del lato opposto all’entrata. Lì vicino, un grosso pino inclinato faceva entrare vezzosamente la chioma sopra il muro di cinta. L’acqua gocciolava a terra dagli aghi del pino che voleva somigliare a un salice piangente.

Entrò senza poter impedire che la famosa notte gli tornasse alla mente: quasi gli parve di risentire l’odore del Caffè Sport, la fatica di trattenere l’onesto Londei, la fuga finale oltre il muro di cinta. Ma questo era un cimitero di campagna, forse non più grande di due campi da tennis assieme, che portava tombe solo ai lati. Nel portico centrale, al riparo dalla pioggia, c’erano i fiori e i lumini e la

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uscito. Baldassarri ebbe un mezzo sorriso.“Lei ha paura” asserì.“No.”“Ha paura.”“Sì, ho paura” ammise Tis.“Che c’è da aver paura davanti a un po’ di morte? Mi dica...

Noi abbiamo bisogno di parlarci, è vero?”“Sì... Non credo di poterlo evitare” si decise Tis.“Non sono qui per caso” disse il Conte.La pioggia gli correva sulla visiera del berretto e gli andava

giù, davanti al naso aristocratico, come da un’alta gronda.“Quelle parole” disse il Conte con un cenno “le fece scrivere

mia madre per mio padre, eroe di guerra... Le danno qualche idea?”“Nessuna, no...” mentì Tis.“A me ne dettero, invece... C’è la solita speranza di chi resta di

rivedere qualcuno che ci fu caro... Metà della letteratura cimiteriale è scritta su questa illusione... Normale illusione direi.”

“Senta...”“Parleremo, parleremo presto. Presto davvero... Ma non qui.

Fa freddo e prima di parlare lei dovrà leggere ancora qualcosa. Vada a casa. Troverà delle carte che l’aspettano. Avrà di che saziare la sua smania... Arrivederla a presto.”

Tis, come a un ordine, si allontanò verso il cancello del ci-mitero. Dopo pochi passi si girò e vide il Conte sotto la pioggia, che lo seguiva con lo sguardo. Aveva la mano tesa per salutarlo. Tis accennò a fermarsi, cavò la destra dalla tasca, rimase anche lui con la mano stesa alla pioggia, ridicolamente, ma non ebbe la forza di tornare indietro.

Al solito bar sotto casa bevve il tè bollente. Il barista gli consi-gliò di asciugarsi i capelli. Il gatto lo accolse con salti da fame e Tis lo prese in braccio mettendo il viso nella pelliccia calda della fida bestia. Come faceva, lui, a restare così asciutto anche nel diluvio, il signore delle cantine?

Ebbe paura. Uscì fuori dalla catena e da lì, dall’altro lato della pietra distinse:

TIZIANA BALDASSARRInata AURELI

orbò di sé lo sposoe la tenera vita della figlia

20 gennaio 1960

Eccoli tutti qui – pensò – il nonno, il padre, la moglie, sotto questa enormità di pietra...

“Qui riposano tutti” disse una voce alle sue spalle.Tis si voltò di scatto e dietro di lui, a qualche metro, vide il

Conte. L’autista, con una giacca a vento militare, gli reggeva l’om-brello sulla testa. Non trovò le parole.

“Mi sono permesso...” balbettò più volte. Il Conte fece cenno all’autista. “Ci aspetti in macchina.”

L’autista si girò lasciando, con evidente assurdità, senza om-brello sotto la pioggia il Conte che parve non accorgersene. Nell’im-permeabile e con il berretto di plastica sulla testa, costui sembrava un infelice colonnello estromesso dal suo ufficio del reggimento. Si avvicinò a Tis e gli voltò le spalle, guardando verso la tomba. Tis ne udì la voce insolitamente aspra:

“Questo non c’entra più molto con la storia della nobiltà pesa-rese, vero?”

Non ebbe risposta.“Può darsi che lei metta a dura prova la mia pazienza.”Ancora Tis non rispose. Il Conte si girò con un sospiro. La

faccia era stanca, ma non più scura.“Qui dormono tutti” ripeté, “sono morti. Veri morti. Come a

tutti deve toccare, ragazzo. Cosa credeva di vedere.”“Niente...” uscì appena a Tis.Nel camposanto sotto l’acqua non c’era nessuno, l’autista era

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CAPITOLO XXI

*** Non so se sarà utile lasciare queste righe di cui non posso immaginare il destino. Ma in questo momento, ora che mi accingo a raggiungere il Reggimento Piemonte Reale in qualità di Sottotenen-te e il rombo della guerra s’avvicina, sento la necessità di lasciare qualche traccia di me, qualche indizio delle scoperte allucinanti degli ultimi mesi non più sereni. Anche se ritengo che nessuno s’avvedrà di quanto personalmente rinvenni (così sottili sono le trame dell’at-tenzione umana e breve la nostra vita per fatti che si dispongono radi nel tempo), non mi celo che forse mi giudicherà pazzo chi dovesse leggere queste note. Ma lascio il futuro al futuro, per mio conto già troppo compreso dei fantasmi che dal nostro passato risalgono. Atte-sto comunque qui, in Pesaro, oggi 9 di giugno 18��, di essere piena-mente sano di mente e che quanto scriverò corrisponde al vero.

Il principio risale al 10 del trascorso marzo. Quel giorno mi recai a Trebbiantico per rasserenarmi delle amarezze di alcuni fatti personali che non è necessario narrare qui, e per ristorare lo spirito contemplando in solitudine la tranquillità della natura. Ma all’im-brunire – già m’accingeva al ritorno –, cominciò a cadere la pioggia ch’avea minacciato fin dalla mattina, dapprima forte poi turbinosa. Fu necessario fermarsi colà e attendere, sperando che cessasse. Ma tale scroscio persistendo, il fattore mi pregò di restare per la notte, offrendo egli di accompagnarmisi l’indomani. Ciò che, parendomi giudizioso, risolsi d’accettare.

Ma la pioggia continuò per ore. Io, che con essa dormo pro-fondo, era già assopito quando fui svegliato da grida. Il fattore adu-nava le genti della casa perchè l’acqua allagava le cantine e doveasi scendere a salvaguardare provviste e attrezzi. Scorgemmo forzato dall’acqua e malfermo il vecchio muro che chiudea una nicchia già tenuta per pericolante, e si dovette abbatterlo. Ma in essa nicchia, an-ziché vuota, trovammo ciarpame d’ogni genere: abiti, legni, stracci, carrucole, arnesi. Tutto giacea colà infradiciato dal tempo e dall’umi-do guastato, che molte cose rovinavano come le toccavi. Le pareti e il

Col gatto in braccio entrò in casa: sul tavolo c’era il pacco delle carte. Passato dai muri? O dai vetri? C’era qualche demone in soggiorno?

Tis si sentì devastato dalla stanchezza. Cedette al gatto il suo tonno di qualità. Sedette ancora zuppo, dimenticandosi di togliere l’impermeabile. Aprì la busta e si asciugò le mani per istintivo ri-spetto del documento. Il gatto si appollaiò di fronte a Tis: già a occhi chiusi faceva le fusa e si era mangiato milleduecento lire di tonno. Sulla busta, di traverso, c’era scritto: Manoscritto di Luigi Baldas-sarri, Uffiziale del Piemonte Reale, che già ferito a Custoza il 29 giu-gno, cadde per la Patria a Novaledo di Valsugana il �1 agosto 18��.

Tis cominciò a leggere.

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ritirai a decifrare alcuni di que’ fogli, procedendo man mano più spe-ditamente e scoprendo che trattavasi di un archivio di famiglia, let-tere di personaggi a me ignoti, cenni e fatti spesso sconosciuti. Mi attrasse un quinterno dal titolo “Rerum Gestarum Memoria Nobili-tatis Nostrae & Scelesti Facinoris a Comite Alphonso Peracti A.D. MDCX”, che altre mani aveano più sotto trascritto

MEMORIE DELL’ANTICA FAMILIA NOSTRAE DEL SCELLERATO DELITTO

CON CHE LA PERDETTEIL CONTE ALPHONSE B.

1610

L’anonimo manoscritto, redatto in latino, citava antiche storie e leggende secondo le quali antenati di nostra famiglia furono i Bal-di, stirpe antica de’ Goti da cui que’ barbari scelsero re Alarico. Quei Baldi si condussero in Settimania, e da loro avrebbe nome la città di Baux, presso Arles, i cui signori – quasi omaggio ad antica pro-sapia – nel Medio Evo dominavano settanta terre, franche di tributo ai Conti di Provenza. Da là, narrava l’autore, alcuni partironsi per la gloria: tra costoro Lattaro, caduto ai Campi Vogladensi per difendere il Regno visigoto; Remigio, che fu compagno di Ruy Diaz all’assedio di Zamora. Ma queste, che pur lessi con interesse, pareano leggende antiche. Più certo, invece, che Albericus Balthassarius fosse in Geru-salemme, alla fine della prima crociata, vassallo del Signor di Graye; e che suo figlio Gautier fosse vestito Cavaliere di S. Giovanni.

Mi colpì allora, per la prima volta, che dove l’autore ignoto narrava di Stephano B., Cavaliere templare, e dell’oscura impresa che portò alla distruzione di quell’Ordine, qualcuno avesse annotato a margine “Silva p CIC”. In un lampo passai al volumetto che dissi, e che era nella cassa a portata di mano. La citata pagine 199 trattava invero della fine de’ Templari ed era sottolineata:

soffitto si scorsero ricoperti da uno strato bianco di muffa, soffice in apparenza ma indurito dall’età. Trovammo una teca in cui giaceano frammenti d’osso senza nome e una cassa che, per essere di legno e ferro, meglio avea retto allo sfacelo. Da essa fui subito attratto, ben-ché la ragione dicesse di no, e apertala con qualche fatica vi rinvenni libri, incunaboli e manoscritti coperti da polvere, in istato discreto.

Il fattore, che mi vuole gran bene fin da quand’era piccino, ve-dendomi laggiù al freddo e all’umido, tra l’acqua alta un palmo, mi pregò di risalire che non pigliassi un malanno. Ma io non volli finché la cassa non fu preservata e tratta meco.

Il dì appresso scesi in città con essa, e sbrigati certi doveri co-minciai sul tardi a ispezionarne il contenuto. Erano libri e manoscritti su cui vegliai fino all’alba.

Non sono in grado, adesso, non ne ho l’ardimento, di descri-vere lo stato d’animo di quella notte, curioso dapprima, incredulo e sbalordito poi. Ciò del resto è irrilevante pei fini di questa relazione. Trascorsi le ore nel mio studio. Per tutta la notte piovve ancora e a vento sui grandi vetri, e udivasi il mare in tempesta non lungi dalle mura. Quando al mattino riflettei su quanto avea letto, attribuii anche a quella condizione tempestosa della notte la confusione in cui ver-sava: ma i fogli, i libri erano lì. E riflessi nello splendore meridiano rivelano lo stesso incredibile contenuto.

Sfogliai, quella notte, opere antiche di storia, di scienza e di magia. L’Opera Omnia del Parc; l’Historia de Gentibus Septemtrio-nalibus del Wierus; i Prolegomena ad Goticam Historiam del Grozio; un’edizione tarda (Lugduni, MDCLXIX) del Malleus Maleficarum; l’Abrégé de l’Histoire Universelle di Claude de l’Isle; una Silva de varia lecion (dedicata, codesta, alla “Sacra C.C.M. del Emperador Rey nuestro señor Carlos quinto deste nombre”); la Scuola de’ Prin-cipi e de’ Cavalieri; e altre ancora, su cui mi attardai con viva curio-sità.

Ancora più affascinanti, però, alcune venerande carte mano-scritte in Cancelleresca, forse del 1�° secolo: quinterni consunti, vac-chette ricoperte di pelle polverosa.

Così, la sera dopo, preso congedo da mia madre, ancora mi

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sperimentare s’altro ancora si potesse tentare, non esitando a ricorre-re al mostruoso espediente dell’Oracolo della testa.

Si cercò, e fu presto trovato, un fanciullo nemmeno dodicenne, d’animo e forme soavi e innocenti. Egli fu prontamente istruito per la S. Eucarestia da un Elemosiniere di palazzo, e al giorno stabilito in fretta, un prete apostata, dedito a magia, iniziò sul far della mezza-notte una messa davanti all’immagine del Dimonio, nella camera in cui giacea Sua Maestà, presenti la Regina-Madre e pochi fidi. Dopo che furono consacrate due ostie, una bianca e una nera, fu introdotto candidamente vestito e ignaro il fanciullo, che fu comunicato. Ma immediatamente, mentre inconsapevole stava raccolto, gli fu di netto troncato il capo.

Ancora sanguinava la testa del fanciullo né gli occhi erano vi-trei, che fu posta sopra l’ostia nera tra il crescere di musiche e luce di lampade che illuminarono l’empietà. Il Dimonio fu messo in istato di pronunziare profezie per il tramite di quella bocca sanguinante che ancora vibrava. Non si sa cosa gli chiese il Re, che fu lasciato solo con quel funereo orrore, né cosa l’abisso rispondesse tramite quel varco mostruoso. Ma non migliorò la sua salute fisica e peggio-rò quella mentale, se ai cortigiani che rientravano, scellerati, urlava “quella testa, quella testa, allontanate quella testa!”, né altro disse fino alla morte.

Il fanciullo, raccontava il manoscritto, era figlio di Alphonse Balthasar. Costui fu creato conte e premiato, per quel baratto contro natura, con una ricompensa enorme. A margine del foglio la solita grafia aveva tracciato “J Bodin Démon p CXLV”.

Lessi queste cose nella mia stanza, circondato da cose fami-liari. Confesso tuttavia che mi sentii trascinato in fredde latitudini: forse era la tempesta che sollevava onde amare; forse i demoni della coscienza cui la veglia prolungata indica malchiuse porte; o forse proseguiva il meccanismo tremendo che avviava le sue ruote, e me con loro.

Mi precipitai sulla cassa, che vuotai gettando i libri polverosi sul pavimento. Trovai ciò che m’aspettava: la Démonomanie, out Traité des Sorciers, che Jean Bodin stampò a Parigi nel 1�87. A pa-

“... y mas que elegian su maestre secretamente, y con supersti-ciones impias y malas. Item que en algunos articulos eran erejes, y que hazian tambien su profession ante una estatua o ymagen vestida con cuero o pellejo de hombre, y que beuian sangre humana en su profession, y assi se guardauan secreto y jurauan de ayudar los unos alos otros. Poniase les mas el pecado abominable contra natura, per lo qual se hizo processo con tra su maestre...”

Rimasi interdetto! Chi dunque avea letto e confrontato? Ram-mentandomi, tornai indietro di alquante pagine, ed ecco che, dove l’autore avea detto de’ Baldi passati al Regno di Napoli, la stessa grafia avea chiosato “Grotius Got Hist p LII”. E a pagina 52 de’ detti Prolegomena trovai sottolineato un cenno, invero di poco conto, a questo proposito.

Non solo dunque aveva innanzi un’antica storia di famiglia bizzarramente accertata in ogni asserto, anche meschino, ma altresì erano raccolti nella cassa libri e atti, allo scopo come per un diligente lavoro. Che il tutto si fosse inteso nella nicchia occultare, già premo-niva il cuore; ma ormai più forte era il tarlo della curiosità.

Allora trovai il “facinus scelestum”, il delitto orrendo cui ac-cennava il titolo medesimo. Se n’era macchiato Alphonse Balthasar, cavaliere francese che visse a metà del secolo decimosesto. Questa la vicenda:

Di Carlo IX, re di Francia al tempo della Strage di S. Barto-lomeo, narrasi da secoli che facesse una mala morte gridando che s’allontanasse da lui, ormai nel delirio dell’agonia, “quella testa”, che tutti i cortigiani immaginarono fosse quella del Coligny, assas-sinato nonostante la parola data. Ma le cose, secondo il manoscritto, andarono altrimenti. Vi si racconta, infatti, che Caterina de’ Medici, madre del Re e per lui minore Reggente, poi sempre influentissima sull’animo debole del reale figliuolo, vedendone appressarsi la fine e temendo una diminuzione del potere, cercasse di procrastinare la morte con preghiere al Cielo e, ove occorresse, all’Oscurità degli Abissi. Fu così che a Vincennes, dove il Re languiva, ella decise di

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stilla di me per la grandezza e libertà d’Italia. Ciò affermo, che non mi creda il futuro lettore, se mai ve ne sarà, uomo pusillanime e da nulla, che di leggieri crede alle fole e in esse versato. Tanto ribadisco, prima di procedere.

Degli altri documenti dirò sol quanto basta: essi son qui, aperti sul tavolo ove leggo. Trascrivo una lettera a Mons. Grimani, Vescovo di Sinigallia:

Eccellenza Rev.maTardi pur non men care mi giunsero le Sue esortazioni, per-

ciocché godendo Ella di ciò che stimammo mio bene, mi porge chia-rissime dimostrazioni che veramente m’ama.

Amarmi ancora, sarà egli possibile? Ciò che tememmo è acca-duto, ed è fame, lussuria, sete e amore insiem sommantisi. Ora com-prendo la vitalità del Nonno Cesare, e forse anche la di Lui morte. So quel che sono, non come il pargolo che sarà vegliardo, ma come il vegliardo che ricorda e pensa a sé giovinetto.

Ella, Monsignore, m’esortava a confidare nell’Ausilio del Si-gnore Iddio; ma altro signore me tiene in possesso, e ne cangia so-stanza, se non anche forma e volontà. Che son dunque io divenuto, un dimonio? E tale stato orrendo che spinge al sangue, offre pur lusinghe e più raffinate sensualità. Se è esso peccato, qual Battesimo redimerà questo fallo che si perpetua?

Ciò che feci ò dovuto. Ella, Monsignore, agisca secondo co-scienza. Ma qual ch’essa sia, conservi dell’amico il ricordo di ciò che fui, non che sono.

Sinigallia, ai 20 di Settembre 1700.Alippio Baldassarri

Ma tra le cose che quel giorno ebbi innanzi, inesplicata dappri-ma poi sin troppo esplicita, fu una vacchetta di pregiata pelle, senza frontespizio né titolo, contenente quaderni di pergamena. Mani di-verse vi avean scritto qualcosa, una formula di insolito latino che rinnovavasi ogni pagina.

gina 14�, un dettagliato resoconto del fatto atroce.Il manoscritto proseguiva ancora non molte pagine. Più oltre

narravasi la fine d’Alphonse, tornato nelle terre verso Avignone, dove visse “conscius sceleris & turbatus inopinatae poenae ferendae quasi perustus; quam primus pro domestico sanguine dedit die �7 Octobris 1�7�”.

Inorridito, non potei comprendere: che lo scellerato Alphonse fosse vissuto conscio della atrocità compiuta, non era dubbio. Qual pena era dunque parsa inopinata e inattesa? Che castigo potea ve-nirgli, al sicuro della giustizia degli uomini, se non un tormentoso e preveduto rimorso? Come avrebbe egli scontato il fio del delitto il �7 Ottobre 1�7� (“primus”: per primo rispetto a chi?), e se in realtà una tremenda fine lo avea sì colto, narrava l’ignoto autore, ma più tardi, nel 1�84, quando bruciò vivo durante uno scontro tra Ugonotti e Lega nel palazzo incendiato da cui si disse non cercasse scampo (“flammam evadere negavisse tradunt”)?

Allora la famiglia avea abbandonato il contado Venosino, fug-gendo nelle terre italiane della Chiesa.

Le ultime righe erano oscure, retoriche, pensai allora; cifrate, crederei oggi. L’inferno, esortavano, non si provochi impunemente, che chi ne patteggia i favori mai conosce le clausole rivolte a danno e rovina nostra e de’ discendenti (“ad nostram nostraeque progeniei perniciem & interitum”). Nostra, dicea l’autore, con ciò svelandosi anch’egli della famiglia. Io, concludea, pagai il prezzo del sangue il � Ottobre 1�04.

Su quelle parole mi fermai smarrito, che le tenebre sul mare si trasformavano in caligine, il vento e la pioggia cessavano, e dalla strada salivano le prime voci. Chiusi la porta alle mie spalle.

Il giorno appresso mi levai dubitando d’aver sognato. Ma la luce meridiana, che dissipa le larve della notte, rimase incerta su quelle carte, come la mia credulità. Il pomeriggio andò nel rileggere il manoscritto, e non lui solo.

Riconfermo qui, strenuamente, d’essere sano di corpo e mente. Fui cattolico d’educazione, come ogni Italiano; fui troppo giovine pei moti di rigenerazione della Patria, ma oggidì pronto a dare ogni

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guinosa, il ricorrente prezzo del sangue cui ora attribuii immediata forma. Nove anni fa, io aveva dodici anni, ricordo il clamore che s’ebbe per la morte di un poveretto assassinato sul nostro confine, a Trebbiantico. Fu nell’autunno del 18�7. Una morte insoluta per cui corsero bisbigli sul parroco, i gendarmi, la plebe sciocca. Rumori inspiegati, a me adolescente, che troncarono l’uso di villeggiare.

Dunque mio cugino avea scritto per ultimo la formula, né io poteva più celarmi cosa significasse. Ma ciò che adesso vedo con chiarezza, se lecitamente parlasi di chiarezza in tanta oscurità, in quel momento parvemi impossibile e irreale. Certo, nella mia famiglia si compì un grave delitto. Ma cosa fosse accaduto, che maledizione scaturita, come si propagasse, perché, e con che patimenti, tutto ciò non riuscii a comprendere.

A chi rivolgermi, pensai, a chi chieder consiglio. Ebbi in mente Don Mazzoli, canonico del Duomo, che un tempo ebbe in cura la sa-lute della mia anima. Ma poteva io ora, dopo anni, presentarmi a lui? Per chieder, io “giacobino”, a un prete, se stimava possibile...

Ne parlai invece con Emilio Donzelli, che dalla cacciata dei Pontifici è giudice qui a Pesaro. Emilio, che ci onora della sua ami-cizia, fu nel 1849 a difendere la Repubblica Romana avendo lodi da Garibaldi stesso.

Rammento quel pomeriggio. Erasi a metà marzo e la città si in-nevava di nuovo. Di trovare un legno neanche parlarne, così dovetti andare a piedi da porta Salara a S. Giovanni. Più volte fui tentato di tornarmene temendo l’imbarazzo di cose insensate, di coprirmi di ridicolo. Ma quando il domestico m’annunziò e Emilio parve lietis-simo di vedermi, mi rincuorai. Emilio chiese e diede notizie, volle il mio parere su Massimiliano e i Francesi in Messico, finì con l’in-vitarmi a cena. Accettai sperando in un caso opportuno di rivelargli le mie angustie. Ma credo s’avvedesse egli stesso: offrendomi il si-garo davanti a un caminetto che non riusciva a scaldarmi il cuore, fu lui a chiedere cosa m’angustiasse. Domandai, allora, se mai avesse pensato o inteso che la mia famiglia fosse luogo di qualche inusitata stranezza.

Ricordo, come l’avessi innanzi ora, che Emilio chiese grave

Nel primo foglio

HOC EST LOCUM ALPHONSI

nel secondo

NOCTIS COGNOVI LABEM & REDEMI SANGUINEM

� Octobris 1�04 JA B,cioè “ho conosciuto il fondo della notte e ho riscattato il sangue”.Nel terzo, con altra grafia

NOCTIS COGNOVI LABEM & REDEMI SANGUINEM

�� Aprilis 1��0 Cae Be così via, con mutata grafia e sigla, e con una data più prossima: AL B, �0 Augusti 1700; LO B, 9 Januarii 1741; G B, 179�; F B, 1819; e ultima, così presente da gelarmi il cuore, A B, � Octobris 18�7.

Nove anni! Meno di nove anni fa!Ripensai in un attimo all’accaduto, al muro crollato, alla nic-

chia forse non così abbandonata come si credea, alla teca col suo sinistro contenuto, alla cassa non tanto polverosa... “A B”? Dunque, “B” per Baldassarri, “A”... “A” per Alfeo, mio cugino?

Ha il lettore compreso? Ha egli intuito che da secoli un’ombra scura è levata a inseguire, per le vie degli uomini, qualcuno del no-stro casato? Un’ombra corre le vie del tempo come un lupo quelle del bosco, una larva sin qui sempre ha raggiunto la preda, come il lupo inseguendolo raggiunge il viandante, questo che s’affanna per la via maestra, quello uso ai sentieri traversi.

Per me fu come se le tessere di un mosaico, vedute qua e là sot-to un intonaco, rivelassero subitamente la loro trama. “Al B”? Certo: Alippio Baldassarri, che credea d’esser divenuto un demone: le date coincidevano. “Cae B” era dunque il Conte-Nonno Cesare. “A B” chi altri se non Alfeo, che attualmente porta il titolo di famiglia.

Ma la trama del mosaico scopriva adesso la tessera più san-

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desse guadagnar tempo.Di quella notte non ricordo nulla. Ma l’indomani non nevican-

do oltre, risolvetti di recarmi a Trebbiantico. Voleva conferire col Curato, ma potei trovare solo il sagrestano. Casualmente gli chiedetti da quanto tempo fosse il Curato in quella Parrocchia, e seppi che v’era giunto nella Pasqua del 18�8. Ma sicuramente avea conosciuto l’altro, chiesi. Don Bacchiani? Certo, mi disse, una persona assai istruita, quasi trent’anni era stato lì, avea quistioni con l’arciprete di Novilara per via d’alquante decime usurpate, ma sempre timorato, modesto. Era morto a S. Leo, dove era stato trasferito. E come capitò ciò, chiesi.

Il sagrestano abbassò la voce con gesto della mano, quasi a dire ch’eran cose da uomini, e segrete. Mi bisbigliò essersi trattato d’una punizione, scardinare un prete dalla diocesi non essendo cosa da poco, era per certe cose... Per via di quel morto?, domandai. Egli si ingarbugliò, arrossì, ammise; aggiunse trattarsi di chiacchiere, ec-cetera. Mi parve l’angustiasse quella conversazione, ma non osava ritirarsi senza congedo. Fui io, allora, a forzarlo. Alfonso, gli chiesi, voi credete ai vampiri? I contadini di qui ci credono?

Egli balbettava e l’invitai a chetarsi. Poi nuovamente chiesi cosa la gente pensasse. Mi guardò con sospetto, si guardò attorno, poi pezzo a pezzo cominciò a dire: il vampiro è un dimonio esiliato dall’inferno, costretto a vivere delle cose della terra; è un uomo che vendette l’anima prima di suicidarsi e poi risorge a bere il sangue; à ucciso i figli o la moglie chiudendone l’anima in un reliquario; se vive nel tronco di un lauro ne esce solo al rifluire della marea; se si insedia in un campo di grano, resta prigioniero nell’ultimo covone; ma se vive in forma umana, comanda ai lupi ed è il peggiore.

“Ma voi ci credete,” gli chiesi.“Io no, signoria.”“Neanche Don Bacchiani ci credea?”, insistetti. “E non si dice

che mio cugino abbia ucciso quel tale per il sangue?”Ancora guardò attorno e stette senza dir nulla a capo chino.

“Voi, signoria, perché fate queste domande?”, riprese. “Don Bac-chiani sì, lui ci credea. Dicea che il signor vostro cugino (perdonate)

se a me stesse accadendo qualcosa. A me, risposi, a me no: ad altri, forse. E pel bisogno di confidarmi gli raccontai di quegli ultimi gior-ni. Ascoltò senza interrompere la storia intiera: il muro, la pioggia, la cassa, i manoscritti. Si scosse quando esposi le mie deduzioni, qualche antenato e anche Alfeo, qualche anno fa, quel tale trovato morto...

“Rammento,” mi interruppe, “il casanolante di Trebbiantico.” Benché allora non potesse esercitare (il cessato Governo lo vietava), disse d’aver seguito il caso. Ma che aveva io creduto, aggiunse. Al-feo? Si potea anche sol pensarlo? Egli un assassino? Una maledizio-ne ereditaria? Tanto varrebbe credere alle streghe e che gli Inquisitori giustamente ardessero vivi i malcapitati convinti di magia.

Certamente arrossii. Quelle parole quante volte non m’era ri-petuto tra me? Lo ammisi: ma i fatti, i documenti, aggiunsi, esigeva-no una spiegazione ch’io non sapeva. A lungo discutemmo, Emilio disquisiva con la perizia che molti gli invidiano. Io consentiva al suo ragionare, ma sapeva ch’altra era la verità. Più tardi, poi, nell’acco-miatarmi disse sorridendo: “Ma infine, che ne direbbe Voltaire?”, e con ciò trionfò urbanamente di me.

Ma per breve momento. Emilio, il buon amico, s’era appella-to alla ragione con consumata dialettica e l’oratoria del verisimile. Eppure non avea risposto a’ miei quesiti, né altro avea potuto che dimenticarli e farli dimenticare, asserendo così l’impossibilità di ciò che è impossibile che sia. Ma avea pur trasalito, Emilio, chiedendo se fosse qualcosa successo a me. Sorridendo m’avea chiesto se cre-dessi, per caso, al vampirismo, come i contadini che accendono i fuochi della miseria, a S. Giovanni, per proteggere sé e il bestiame. Vampirismo, chiesi, era codesto il caso?

Gli scorsi allora un’ombra di disappunto, quasi che la facondia l’avesse tratto con troppa foga. Superstizioni popolari, avea pur con-tinuato, come il barante e lo sparvingolo, alimentate anche dai preti che più il volgo è sciocco meglio gli comandano. Credenze ch’alli-gnano nel popolo, disse, cui manca appena un eccentrico scrittore che inventi al vampiro forme umane e stirpe antica, in un remoto castello. M’avea congedato vinto, non convinto; e oggi credo inten-

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alla Parrocchiale di Trebbiantico e vi riposerà nei decenni a venire. Nessuno, si può presumere, avrà interesse a leggere que’ fogli sem-pre più ingialliti, e questi con loro. Nessuno, mi auguro. Ma se ciò accadesse, sarà esclusiva incombenza del lettore soppesare e valuta-re i fatti, risolversi a più attenta indagine o concludere con l’ironia de’ mediocri che disprezzano ciò che valica la loro meschinità.

Io sarò polvere, lontano dal gioco beffardo della sorte. Lontano anche da ciò che sarebbe capitato a me, se Alfeo fosse perito la volta che a Chiaserna gli alani gli sbranarono il cavallo; o da ciò che eredi-terei ancor oggi, assieme al titolo, s’egli morisse o fosse estinto.

Per queste cose ho chiesto l’arruolamento e fra tre giorni sarò a Piacenza, al Reggimento. Se, come pare, la Patria affronterà presto nuovi cimenti che completino il rinascimento nazionale, appena in linea sembrerò sprezzantemente temerario.

Pesaro, alba del 9 giugno 18��.Luigi Baldassarri ***

era tutt’uno col diavolo e prima o poi avrebbe preso il sangue di qualcuno: per l’acqua benedetta lo giurava. Quando morì l’Andreo-ni, cosa disse in chiesa! Per quello lo trasferirono, poveretto, vecchio com’era, e lo mandarono sui monti”.

Gli chiesi allora se lui pure credesse a queste cose. “Io, signo-ria, so appena leggere e scrivere,” rispose.

Richiedutone mi mostrò l’archivio della Parrocchia, raccoman-dando discrezione massima, che era vietato e ci volea licenza del Vi-cario. Gli incartamenti di Don Bacchiani erano là, legati a spago, con parte del suo carteggio. Chiesi perché non li avesse tratti seco. “Non so, signoria,” mi rispose, “egli era assai infelice quando se ne andò; da mesi non parlava con alcuno, sortiva solo per le Funzioni, non era più lui. Sapemmo poi,” aggiunse, “ch’era morto di febbri l’inverno prima che arrivassero i Piemontesi.”

“Gli Italiani,” corressi.“Sì, signoria: gli Italiani.”Ora le carte di Don Bacchiani sono anch’esse con me. Promisi

ad Alfonso di rimandarle segretamente e domattina adempirò la pro-messa. Di esse non darò conto dettagliato: basti dire ch’egli avea per altri segni da tempo compreso.

Quella sera, dallo studio contemplava la luminescenza de’ campi che innevati scendeano dalla città al mare, cercando di porre nel mio animo quella pace che sentiva ormai perduta. Forse eran le dieci, quando al portone giunse una carrozza. Ne scese Alfeo che chiese al domestico di me, salutò mia madre e salì nello studio. Il cuore mi batté all’impazzata. Mai io l’aveva così veduto: le colonne del mondo schiacciavan le sue spalle e i geli degl’inverni solcavan la sua fronte. “Ho veduto Emilio,” cominciò; e rimase con me del tempo. Congedandomi disse: “Vedi dunque che chi cerca ciò che non deve, trova ciò che non vuole.” Su tutto ciò che dicemmo mi fece giurar silenzio.

Silenzio, sì, che scenda su di me e questa vicenda. Ma il silen-zio, che tutto placa e riconduce a quiete, mi pare stanotte insoffribi-le. Per ciò ho deliberato di stendere questo resoconto che domattina occulterò tra le carte di don Bacchiani. Assieme a loro, così, tornerà

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CAPITOLO XXII

Tis vide da lontano uno che lo aspettava davanti al portone, sotto un ombrello che gli ricordò vagamente qualcosa. Un postino? L’uomo del contatore? Si avvicinò e riconobbe Giacomo.

Giacomo gli porse una busta. Tis lo pregò di entrare. “Non s’era mai visto un tempo tanto cattivo...” divagò.

“È vero. La saluto, professore, il Conte non aspetta risposta.”“Le posso offrire qualcosa. Salga per un caffè... non so...”Il gatto si era avvicinato e passò dalle gambe dell’uomo a quelle

del padrone.“Grazie ma devo andare. Arrivederla” disse Giacomo.Prima che Tis potesse insistere era già in strada che camminava

verso il centro. Aperse subito la busta e l’inchiostro si sbavò, per due o tre gocce d’acqua, in macchie celesti.

Caro professore,sono convinto che le Sue più recenti letture sulla storia della

mia famiglia rendano per entrambi proficuo un colloquio. Spero vor-rà onorare con la Sua presenza la mia tavola, domani sera alle nove. Ho già significato al cuoco i miei gradimenti e ho personalmente cercato nelle cantine il meglio che ancora vi si nascondeva. Non mi neghi il piacere della Sua conversazione e del vino bevuto in compa-gnia, in questo piovosissimo autunno.

Con cordialità,Umberto Baldassarri

Dove trovo un abito scuro? – si chiese subito Tis. Aprì il porto-ne e a mezza scala pensò: questo mi ammazza. Il gatto lo precedette e cercò inopportunamente di farsi notare. L’indomani. Comunque, di tutta la storia questa era la fine? Sì, certo era la fine: una spiegazione o un tentativo di ucciderlo. Però Tis si fidava della cortesia del Conte.

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qua avrebbe avuto un bel colore cupo di mare indifferente alle umane vicende. I vari pezzi di cielo già buio, ma sereno, che bucavano le nuvole, facevano sentire a Tis il sollievo della fine. Come quando ancora dava gli esami e il giorno prima passeggiava per il porto e per il mare pensando: domani tutto sembrerà più bello.

Questa faccenda, iniziata col residuo sole estivo dentro un ar-chivio, finisce con tutte le foglie per terra dopo un mese di pioggia, in mezzo a progetti di vendemmia e di castagne col vino. Ecco arrivato l’esame. Forse sarà perfino una cosa piacevole, e da questo Conte, col crocifisso in tasca, Tis si recherà per l’ultima volta, almeno spera. Che pensare di questa avventura? Raccontarla non potrà. Il mondo è pieno di confusione e di torvi studenti in movimento: di queste cose di Tis nessuno sa niente. Anzi, a vederlo camminare col trench sopra i calzoni lunghi e larghi, che urta la gente ed è nervoso, magari c’è chi lo prende per matto. E va detto che Tis ha già bevuto un grappino. Da domani non toccherà liquore. Il grappino gli ha dato l’acidità e Tis si sente solo e malato. E chi gli dice che s’alzerà dal letto, che sarà vivo e cercherà un aereo-silurante nel negozio del Corso? Proprio lui che non reggeva l’alcol, adesso non ha fatto che bere. Bell’esempio per suo figlio, se ci fosse.

Entrò nel bar dove era già andato a darsi forza quando aveva capito, lui solo, come era morto il giovane Avoli.

“Buonasera,” disse “un caffè corretto.”“Un caffè, subito.”“Dieci gettoni” chiese ancora Tis, d’istinto.Il telefono era in fondo.“Pronto?” rispose la moglie.“Allora come sta? Gli hai curato la tosse?” chiese Tis.“Non sei partito?” La domanda lo lasciò sorpreso. Sentì i primi

gettoni rotolare nell’ordigno. “Ho telefonato a scuola e so che hai preso dei giorni. Ti pensavo in vacanza.”

“Tu mi controlli,” disse Tis “tu mi spii.”“Potevi venire a vedere tuo figlio” sospirò la moglie.“Ci vengo domani.”“Se sei comodo.”

Aveva dormito una notte dentro casa sua e il Conte gli aveva fatto riparare anche la macchina. Adesso non si poteva più giocare. Sicu-ramente bisognava dichiarare, aprire, chiudere, dirsi reciprocamente quel che si sa, salutarsi e chi s’è visto s’è visto. Tanto Tis che può fare? Andare in questura? Lo metterebbero in manicomio. Andare dal vescovo? Dall’esercito, andare in vacanza? Bisogna concludere: in-tanto comprerà un crocifisso da tenere in tasca perché non si sa mai.

Tis ha profanato una tomba. Ha dormito con un vampiro. Ha rivisto un vecchio amore. Ha pianto. Ha sentito il gran peso della morte: che altro gli può capitare? Forse è tempo di chiudere davvero. E di provare a vivere una vita normale, con o senza moglie. Anche il permesso a scuola sta per scadere.

Diede da mangiare al gatto. Come in un film di amori finiti, la pioggia correva sui vetri. Che avrebbe ricordato a primavera di que-sti giorni piovosi? Tenne gli occhi sulla strada finché non smise di piovere e i negozi si chiusero per il pranzo. Alle tre uscì in cerca di qualcuno che gli prestasse un abito scuro. Londei non c’era, questa storia aveva dato quindici giorni di paga a due supplenti in un colpo solo. Telefonò a uno di musica, a un altro di disegno.

“Vado a cena con una tedesca” mentì.“Di questa stagione?” aveva chiesto l’altro. “Beato te.”Andò a prendere il vestito che era largo e i calzoni sventolavano

come bandiere. Promise al collega i particolari. La moglie li consi-derò entrambi, schifita. Tis uscì con la divisa sottobraccio. Entrò in una cartoleria e comprò un crocifisso. La commessa vide stupita Tis provarne di varie misure che entrassero nella tasca della giacca senza troppo apparire. “Prendo questo” disse infine.

Il malinconico dio di plastica lo guardò dalla sua croce.

La sera del giorno dopo, già dalle cinque Tis era in giro con i calzoni blu sventolanti sulle gambe e il naso che fiutava il mutare del tempo. Castelli di nuvole qua e là, nei colori del tramonto, passavano sopra la città spinti dal vento di terra, e l’aria s’era fatta calda. Ad an-darci, sulla spiaggia, si sarebbero visti vortici di sabbia alzarsi e l’ac-

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“Grazie.”“I figli sono l’unica cosa” disse il barista.“Mille preoccupazioni” sospirò Tis “col mondo d’oggi. Lei

ne ha?”“Due grandi. Lei è pallido,” il barista lo scrutava.“Sono un” po’ esaurito” spiegò Tis.“Non esiste” disse il barista.“Che cosa?”“L’esaurimento. L’ho letto sul giornale.”“Non mi dica,” rispose Tis “ci contavo tanto. Se non è esauri-

mento, allora è peggio.” Lasciò i soldi sul banco.“Auguri” disse uscendo.“Di che” disse il barista.

Nell’amata-odiata città della sua vita erano scattate le otto e un quarto e, come a un segnale, le strade si erano vuotate, neanche più i giovinastri stazionavano con le collanine al collo, davanti ai portici. Le edicole chiudevano e il vento inseguiva i suoi segreti itinerari per le vie e attorno alla fontana. In anticipo, con ansia e spinto dal vento, Tis si diresse verso la casa del Conte.

“Non ho potuto,” spiegò Tis “se tu sapessi...”“Non voglio sapere” disse la moglie.“Non essere cattiva” disse Tis. Arrivò il suono di fine gettoni.

“Altri dieci,” urlò al barista “per favore.”“Che devo pensare di te?” chiese la moglie meno dura.“Come sta il bambino?” chiese ancora Tis.“La tosse è finita, il morbillo è passato. Chiede di te. Ho detto

che sei andato a Napoli a far scuola ai bambini.” Napoli era per il figlio il confine del mondo.

“Domani parliamo” disse Tis con pena, infilando i gettoni.“Che c’è da dire?” chiese la moglie. E poi ammise: “È vero,

sono cattiva.”“Non è vero: anch’io ho tante colpe.”“Tutte” disse la moglie. “Il bambino sta imparando a leggere,

legge – caffè Foschi – quando passa in Piazza.”Tis si intenerì: “Ha preso dal babbo.”“Spero di no. Come vivi?” chiese la moglie.“Sono stanco,” disse Tis “anche di questa pagliacciata.”“Ah, sarebbe una pagliacciata? E chi l’ha voluta?” La moglie

alzò la voce.“Non urlare,” gridò Tis “non ti fare conoscere, tu mi fai diven-

tare pazzo.”“Vai con le donne?”“No.” Tis pensò alle bellezze della Luisa che amava il balleri-

no. “C’è ancora questo vincolo, finché morte non ci separi.” Sorrise al telefono e pensò che anche la moglie, dall’altra parte, sorridesse. Dal telefono, per una volta almeno, venne un quieto silenzio.

“Allora vieni su domani,” disse la moglie “così vedi...”I gettoni finirono lì senza preavviso.“Per la SIP Urbino è l’America. Mio figlio impara a leggere”

comunicò al barista.“Quanti anni ha?”“Quattro e mezzo.”Il barista tirò su la bottiglia per correggere il caffè. “Questo

allora l’offro io.”

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CAPITOLO XXIII

Il palazzo dove il giovane Avoli aveva concluso i suoi viaggi non mancava d’atmosfera. Non c’erano muri di cinta né un gobbo custode, né a sera potevano venire dal giardino lamenti di gufi e ci-vette. Ma stava sopra una strada stretta e da nessun punto lo si poteva vedere intero, che non fosse schiacciato dalla prospettiva o da altre case. La facciata era sì orgogliosa, ma anch’essa tormentata dai seco-li: scura, cespugli verdi avevano trovato di che vivere sopra gli scoli rugginosi delle gronde, il grande portone mostrava la vernice corrosa e le sfingi dei battenti anche loro mangiate dalla ruggine. Le finestre dei primi piani avevano la consueta aria di ciò che è nobilitato dal tempo, dal fatto che era già lì quando i nonni dei bisnonni giocavano ai cerchietti e Luigi XVI pensava infastidito alla convocazione degli Stati Generali. Ma più sopra, al di là di un consunto ballatoio, girava attorno al palazzo una ringhiera, lasciando così poco spazio tra sé e una specie di attico rientrante che più facilmente l’avresti detto percorso dal fantasma della Perfida Contessa che non da uomini in carne ed ossa. E il passante, alzando lo sguardo, era colto da perples-sa curiosità.

Il portoncino laterale era aperto come l’Avoli doveva averlo visto a magnificargli il bisogno dell’oscurità e dell’isolamento per i suoi maneggi. Quando Tis lo varcò, vide subito, non distante, la porta del fondo, un paio di biciclette e, in terra, la striscia del gesso che ave-va segnato il profilo del cadavere e l’ultima sua impronta terrena.

Più avanti il cancello che dava sul cortile con le piante era chiuso da una motocicletta coperta da un telo. L’umidità sull’am-mattonato aveva favorito il crescere del muschio e chiazzato di ver-de lentamente anche i muri. Così, a Tis, la casa del nobile solitario sembrò un palazzo semiabbandonato, di quelli difficili da mantenere belli e puliti, che un po’ alla volta vedono andarsene o morire i vecchi abitatori e che vengono riabitati da altri solitari, da famiglie di immi-grati, o da gente che cerca le dubbie verità dell’Avoli con i materassi ammucchiati per terra e il portone di casa dipinto di rosa.

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“Ho fatto anche il servizio militare,” continuò il Baldassarri precedendo Tis in sala da pranzo “Bir El Gobi, la Tunisia... non ero immortale, come lei già sa, né io né gli altri.”

La tavola era lunga e stretta, apparecchiata ai due estremi con l’argenteria, i candelieri, i cristalli e dei larghi vassoi già colmi di delizie. C’era pure un secchiello d’argento da cui uscivano i verdi colli di due bottiglie di champagne. Nel camino ardeva la fiamma e il tappeto pareva anch’esso incandescente. La stanza dava più sensa-zione di antico che di ricchezza, gli scarsi soprammobili erano messi irrazionalmente in giro e sul tappeto troneggiava un brutto cesto di vimini colmo di carte e riviste. Sulla parete c’era una larga e velata stampa dei laureati dell’anno 19�4, con una miriade di teste piccole e attonite. E sotto questa, appeso incurantemente, Tis vide un quadret-to con una striscia di mare e spuma, una striscia di cielo e un po’ di spiaggia con un arbusto curvato dal vento.

“È autentico,” disse il Conte “è proprio un Fattori.”Tis si avvicinò e fissò la pelle azzurra del cielo, emozionandosi

per quella limpidezza piena di vento che aveva cent’anni.“Lo comprò papà” proseguì il Conte. Offrì un bicchiere a Tis

che non si staccava dal quadro.“Prima di cominciare?” disse Tis.“Sì.”Il fuoco gettava la lunga ombra del Conte sul pavimento e fino

al pizzo della tovaglia. Tis guardò, e il Conte disse, rivolto al camino: “Ogni cosa manda la sua ombra: demoni e vecchi conti anche. Lei vuole divertirmi?”

“Non penso di divertire nessuno. Ho paura.”“Le do la mia parola che non le accadrà nulla.”“Grazie.”“Di niente. Cosa crede che potrei farle? Vuole venire vicino a

uno specchio con me?”“No grazie” ripeté Tis con imbarazzo.“Mi ci vedrebbe riflesso, sa?”“Lei chi è allora?” chiese Tis.“Posso dirle chi non sono,” disse il Conte “non sono Mefisto-

Ascoltando il rumore dei propri passi Tis saliva le scale. Chi avrà la ventura di parlare con uno che è l’ultimo di una stirpe male-detta, condannata dal demonio a eterna solitudine, oggi che il male assume forme così grandiose, numericamente vaste, volgari?

Cercò in se stesso paura, ma non ne trovò. Adesso che sapeva il perché degli accaduti, gli mancava questa finale chiacchierata, poi basta. Ecco Tis pronto a un confronto diretto e non mediato, con una croce in tasca, una moglie lontana che non ne saprà mai nulla, sullo scadere di un permesso a scuola, sullo scadere, anche, di ciò che è stata la sua giovinezza. Dover dare un esame, l’ultimo atto. Poi non ci penserà più.

Suonò il campanello. Il Conte in persona aperse la porta. Era vestito di scuro, a Tis sembrò che sapesse del vestito preso a prestito. La prima regola del gioco era rispettata e i due si salutarono con cor-tesia. Il Conte l’aiutò a togliersi l’impermeabile.

“Spero che non abbia oggi più paura di me di quanta ne avesse giorni fa” disse. “Come ha trovato i miei documenti?”

“Da non crederci... Però ci credo.”Il Conte era vecchio come la bella casa e le sue poltrone. Tis

vide che anche il suo vestito scuro era largo e cadeva un po’ dalle spalle.

“Da non credere,” ripeté Tis “non so come guardarla.”“Mi guardi senza timore. Vorrei che lei passasse una serata pia-

cevole, e vorrei parlare un po’. Mi creda,” prosegui “ci sono... mostri abbastanza domestici. Venga di là” disse ancora il Conte. “La prece-do, così eviterà di doversi guardare le spalle.”

“Non mi permetterei mai” annunciò stupidamente Tis.“Vede,” disse il Conte “per certi versi io sono... io sono stato

per un istante proprio quel che lei direbbe...”“Un vampiro?” sospirò Tis infilando la mano in tasca.“Esatto. A parte che... come dire? non temo il giorno, di notte

dormo in un letto, soffro di vari disturbi... e tutto ciò pare ridicolo anche a me.”

“Questa storia è stata un delirio,” affermò Tis “di ridicolo c’è poco.”

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“A tavola mangio sul giornale” confessò Tis con ripetuta timi-dezza.

“Lo farei volentieri anch’io,” disse il Conte cortesemente “ma ho un tutore noioso.”

Si sedettero. Baldassarri, con le mani sotto il mento, guardava Tis fra le bottiglie. Prese da un flacone due capsule.

“Un moderno veleno per lo stomaco. Forse il fernet sarebbe meglio. Ne vuole?”

Tis scosse il capo. Giacomo riapparve. Tis si accorse che era vestito come in maschera: la faccia piena di rughe sopra l’abito nero e la camicia plissettata col fiocchetto al collo, trasudava la stessa soddisfazione di un veterano che, dopo anni, rimetta la divisa del reggimento. Anche lui appariva vecchio: apparteneva al passato e sembrava festeggiare la solennità di una cena con argenti e cristalli. Baldassarri lo lodò. Tis disse frasi esageratamente complimentose. Il Conte concluse che si sarebbero serviti da soli.

“Quando ne parliamo?” disse Tis. “Perché non ho più paura? Perché ho fame?”

“Perché meravigliarsi, piuttosto? Non è triste cenare tra amici senza appetito? Ci beva sopra e pensi che tutto è un sogno.”

Fu davvero un sogno. Gli antipasti dai mille colori che Tis mangiò, come se da quando era solo avesse dimenticato quel tipo di gioia. Il vino era troppo buono per il casuale bevitore che era lui: profumava e brillava con le sue promesse di felicità e il ricordo di antiche vendemmie. Chi aveva colto quell’uva era polvere e il vino gli era sopravvissuto. Certo che era un sogno. Il Conte mangiava anche lui, accendendo fra un piatto e l’altro le sue mezze sigarette. Ogni piatto il suo vino, le temperature diverse. Ci fu un vassoio coi tartufi bianchi d’Alba e quelli neri dell’Appennino: a questi si ac-compagnò il Barolo delle Langhe, 19�4. A Tis sembrò di rivedersi tra le montagne dove aveva fatto scuola e non riusciva mai a credere che l’inverno fosse finito. In quegli anni riceveva lettere dalla moglie, impostava le sue in cassette coperte di neve in strade strette, nei paesi dove non esiste un vino che sia cattivo.

Il Conte in persona fece cadere sul suo riso le lamine sottili del

fele, non potrei offrirle felicità a nessun prezzo. Lei vede qui una persona anziana con il vizio del fumo. Le cose che vuole sapere, lei già le conosce.”

Tis tenne in mano il bicchiere dell’aperitivo senza sapere dove metterlo.

“Vogliamo accomodarci?” Baldassarri gli prese dalle mani il bicchiere e lo posò sulla tovaglia. Giacomo entrò e lo tolse guardan-do con disapprovazione. Mise altre bottiglie di cristallo con l’acqua, e uscì.

“Siamo qui perché...” disse il Conte.“Perché?” chiese Tis.“Forse perché dopo mezzo secolo speravo che un giorno qual-

cuno mi accusasse. Magari volevo che qualcuno arrivasse da me a chiedere conto dei miei antenati. Volevo difendermi... Dovere attac-care mi avrebbe distratto, reso più forte...”

“Nessuno, prima di me...?”“Nessuno. E da lei non devo difendermi.”“Chi gliel’ha detto?”“Lei... lei non è venuto qui per accusarmi né per sapere la sto-

ria della mia maledizione. Lei è venuto per altro, credo.”“Per cosa sono venuto?”“Perché ci siamo cercati. Io per sollievo, e lei perché si è

precocemente stancato della vita e di questa vuole capire il suo contrario: con me crede di poter scoprire una delle tante leggi della morte.”

“Io sono venuto perché... ma adesso non so perché sono venuto...”

“Lei è pieno di innocenza. Ma non vogliamo cenare? Quando si comincia ad avere una certa età, molte certezze cadono e ci si in-namora dei segreti del destino.”

“Stiamo facendo della retorica” disse Tis.“Sì, certamente” consentì il Conte. “Tanta retorica. Ci acco-

modiamo?”Posò la mano sulla spalla di Tis e lo guidò verso la tavola piena

di bagliori.

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– continuò. – Ci pensava? In questo mondo i Baldassarri non sono gli unici, né i peggiori.”

“Signore,” citò con palese non senso e ubriachezza Tis “io ero libero fra tutti i tuoi fiori ma scelsi le tristi rose di questo mondo...”

“Le tristi rose...” disse il Conte. “Ma nessuno sceglie nulla, sa? Né lei le sue rose né io le mie. Se ne freghi della morte, guardi: viva tranquillo, fugga con una ballerina. Lei non è originale, neanche la sua incoscienza, le sue croci, la sua stessa innocenza...”

“Lei invece è colpevole?”“Di che?” Baldassarri ebbe uno scatto nella voce. “Di che? Io

non ho chiesto nulla. Non ho avuto vantaggi, non ho avuto lusinghe, sono invecchiato con una maledizione da portare alla fine in mezzo a gente che andava al mare in vespa e cantava canzoncine. Io sono il dinosauro sopravvissuto nella foresta impenetrabile. Pensi che vita: l’ultimo di una specie. È arrivato lei e crede di capire tutto.”

“È lei che deve farmi capire.”“Non c’è molto da capire, né da sapere.” Cambiò discorso: “Mi

permette di brindare alla sua signora?”“Le permetto. A mia moglie, donna maligna” disse Tis.“Pare che non potrà farne a meno.” Il Conte dall’altra parte del

tavolo versò il vino come se si divertisse.“Non ne so fare a meno,” disse Tis “ho anche un figlio, che

devo fare? Mi ci vede in una comune?”“Certamente no” fece il Conte.“Non ce la faccio più a mangiare,” proclamò Tis “e bere

basta.”“Diciamo tutti così. Andiamo avanti, per una sera.”“Guardi, lei che può tutto, mi faccia passare l’effetto del vino e

mi racconti, perchè io per questo sono venuto” concluse con una cer-ta solennità. Persino l’elegante Baldassarri sembrava adesso un po’ scomposto, un’idea appena: il colletto allentato, la cravatta gualcita.

“Ma è meglio davvero farlo passare, l’effetto del vino?” sugge-rì a Tis. “Facciamo un po’ di scena, un tribunale... Io sono l’ultimo di una disgraziata famiglia, l’ultimo. Mia figlia perderà questo cogno-me. Su quel che significhi chiamarsi come me, la sua anacronistica

tartufo, come la caduta di foglie chiare sulla ghiaia di un viale. Il pro-fumo stordiva più del vino. Disse al Conte che da anni non vedeva un tartufo. Il Conte rispose che un tartufo è assai più degna visione di tante altre faccende umane, e Tis convenne. Nel solito argento uscì dalla cucina il fagiano arrosto. Messo come se fosse vivo, con le penne dorate composte ad arte fra funghi e patate lucenti, rappre-sentò il culmine della serata e Tis ancora lodò, si confuse, si schermì, si servì.

Ma infine, come un treno che rallenti per la stazione e vi si fermi, si guardò attorno. Non ebbe più voglia di mangiare e un pri-mo accenno di torpore e di sonno si insinuò fra le bottiglie. Sebbene non fumasse, accettò una delle mezze sigarette del Conte. Rifiutò il dolce.

“A questo punto, ahimè” disse il Conte “ecco il momento in cui si chiacchiera volentieri. Sebbene le nostre non saranno chiacchiere allegre...”

“Siamo arrivati alla fine” disse Tis alle prese col fumo.“No. C’è ancora da bere le cose migliori. Occorrerà brindare.”“Occorrerà?”“Direi di sì” continuò Baldassarri. “Cosa ha imparato frugando

fra la polvere?”“Mi sono perduto. Ho avuto paura,” disse Tis, “ho avuto paura

di non capire più niente.”“C’erano più cose di quanto lei credesse, vero, sotto il sole?”“Parecchie.”“Ma sono proprio queste che l’hanno colpita, e in fondo tutta

l’idea del buio, i mostri che possono entrare, il nostro vivere quoti-diano che poggia mutabilmente sopra...”

“Sì.”“Bravo giovane” ghignò il Conte con un’aria appena sarcasti-

ca, meno benevola. “E se avesse trovato qualcosa di meno pacifico di me? Lei è la mosca che ha trovato il solo filo che pendeva da un’immensa volta, e non ha saputo resistere alla vertigine di cercare il ragno.” Lo fissò negli occhi. “Ci pensava che ne avrebbe potuto trovare uno giovane, assetato, e non un vecchio, più stanco di lei

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le dicevo, ebbero qualche vantaggio, qualche ebbrezza, la signoria della notte. Immagina?”

“Immagino” disse Tis.“Fu possibile prolungare la giovinezza col sangue. Ci prova-

rono, ma non era per sempre. Prima o poi venne la stanchezza e fortunatamente la libertà di morire non ci era negata. Di questa con-cessione approfittarono tutti, una volta pagato il prezzo. Con me è finita. Per sempre. Tutto il debito è stato pagato.”

“A chi?”“Non lo so” disse il Conte.“Non lo sa?”“No. Quando quel primo delitto di cui lei sa venne compiuto,

uccidere divenne inevitabile come il generare. Uccidere portava an-che vantaggi. Ma già da tanto il dovere è stato assolto col minimo, con molta sofferenza. È tutto finito.”

“È stato il destino?”“Lo chiami come vuole. Al mondo succede ben altro che que-

sta povera maledizione dei Baldassarri, le sue letture non glielo inse-gnano?” chiese il Conte.

“Io sono un pover’uomo,” disse Tis “ma lei cosa ha più di me? Lei sa fare... Lei dovrebbe sapere...”

“Lei pensa a vortici oscuri, ai morti viventi. Io ho un letto nor-male” disse il Conte “e ci dormo tutte le notti, per quel poco che dormo. Se non dormo prendo il Valium... Però qualcosa c’è. C’era. Poteri abbandonati, andati perduti. Quasi tutti erano legati a una vi-sione del mondo, come dire?, démodée, aristocratica...”

“Lei saprebbe trasformarsi in pipistrello?” lo interruppe Tis pensando ai film che non sarebbe più andato a vedere (gli sembrò di aver già fatto quella domanda). Giacomo entrò con una bottiglia ancora appannata per il freddo.

“Lei è laureato in Lettere” rispose il Conte “ma non scrive ma-drigali. Volendo, forse, lo potrebbe fare... Questo vino è un po’ di-verso. È migliore.”

“Lei mi prende in giro.”“Dio mi guardi” negò fermo il Conte. “Vogliamo fare ancora

passione per i documenti le avrà già detto abbastanza... Mi creda, quando secoli fa qualcuno abbatté degli argini, irruppero cose che lei non immagina neppure. Da allora, una volta almeno nella vita ucci-diamo e una volta nella vita generiamo. Il simbolismo è anche troppo evidente: fummo costretti a dare e togliere vita in un crescendo di stanchezza e, alla fine, come una sorta di meschino dovere, come la schiavitù inevitabile di un vizio. Noi abbiamo molto sofferto.”

“Noi?” chiese Tis. “Noi, chi?”“I Baldassarri sono una vecchia famiglia” rispose il Conte.

“Ancora le ripeto: non gli unici né i più cattivi.”“Mi dica il nome dell’altro contraente” disse forte Tis. “Chi è

stato il padrone, il creditore... Lo chiami come vuole ma lo dica.”“Ma io non lo so,” rispose il Conte pacatamente “non credo di

saperlo. E dargli un nome che senso avrebbe? Lei immagina questa storia in termini che non sono i suoi. Non c’è un padrone da chiamar-si con un nome.”

“Come, non c’è?”“Oh, io non so se ci sia. Non credo. Questa storia non è stata

per me come lei l’ha pensata. Non c’è stato romanticismo, non è una storia gotica. Non a caso anche lei ne è stato protagonista, lei che adesso cerca un padrone, un demone, una colpa. Lei mi accusa?”

“Sì...”“Veda. Un professore di lettere che costruisce aeroplani vie-

ne da un anziano possidente e lo accusa di un delitto, di una magia nefasta, non so. Lo chiama con un nome, fra poco gli chiederà se sa trasformarsi in pipistrello... Cosa le pare?”

“Una follia,” disse Tis “un po’ comica...”“I miei antenati ebbero qualche soddisfazione da questo desti-

no. Avevano poteri, certo. Tutte cose che si sono perdute un po’ alla volta, per mancanza d’esercizio o per distrazione. Appartenevano, diciamo così, a un’età superata. In principio credo che fosse diverso. Adesso non lo è più: io e lei siamo uguali.”

“Io non ho ucciso nessuno...”“Lei è un uomo giusto.” Il Conte si versò del vino e accennò

verso Tis: “Ma vede, noi non fummo mai immortali. I miei antenati,

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finestra sventolava un pesce d’aprile appeso al palo della bandiera. Certo: in quel giorno avevano rotto due fialette di gas lacrimogeno garantito. Ottimo prodotto, infatti: nella classe tutti piangevano sere-namente. Il professore con vasto fazzoletto in mano spiegava Socrate con dignità, anche lui lacrimando come se niente fosse. Le finestre erano tutte chiuse e nessuno avrebbe osato aprirle. Tis ricordò. Il pro-fessore di filosofia, allora, con tutta la classe, sbiadì e disparve.

“Cosa ha visto, adesso?” chiese il Conte.“Altre lacrime,” rispose Tis “una lezione di stile. Bevo a chi

non c’è più.”“Salute,” disse il Conte “beviamo al passato.”“Cosa ha voluto dirmi?” chiese Tis senza guardare.“Niente,” rispose Baldassarri “niente. Un po’ di vita che è tra-

scorsa. E non ho molto d’altro nel repertorio... Ma mi lasci dire an-cora una cosa banale. C’è qualcosa sopra di noi, io credo, contro cui non si può niente. Non è Dio...”

“Che cos’è?” chiese Tis.“È una cosa che non dà spiegazioni” rispose il Conte. “Forse

è una statua di pietra e contro di lei si abbattono le nostre ridicole bufere, le tempeste...”

“Anche lei ha bevuto” disse Tis. “Ancora retorica...”“Io sono vecchio. Perché crede che la mia vita sia stata av-

velenata da una maledizione? Lo chiedo a lei, io non lo so. Sono stati quattrocento anni di pene. Il male non mi ha dato nulla, è stato un dovere. Lei capisce che al nostro secolo si addiceva il delitto di massa: uccidere una sola persona è stato orribile.” Il Conte bevve dal bicchiere. “Ancora un sorso?”

“Ho paura di quel che vedrei.”“Ancora un po’ di questa varia vita. Vedo che lei non è ancora

sazio di sapere” continuò il Conte come leggendogli dentro. “Venga con me. Beva da quel bicchiere.”

Tis finì il vino. Il sapore era diverso. Aveva un che di irrepara-bile, di pericoloso: come il veleno che il suicida mandi giù di colpo dopo lunga e notturna meditazione. Davanti a lui camminava il Con-te, in piena oscurità. Dove stavano? In una cava, in una miniera? Nel

qualche brindisi?” propose. “Ha gradito la cena?”“La migliore della mia vita, se ci sarà un seguito.”“Forse dovrei ucciderla” disse il Conte facendosi appena senti-

re. “Ma lei avrà preso le sue precauzioni.”Tis estrasse con qualche impaccio il crocifisso di plastica e lo

parò all’aria, senza sapere che farne.“Vede?” disse il Conte divertito. “Mi consentirà di non indie-

treggiare facendo smorfie. Bevo alla sua salute. Provi questo vino: non starà male, stasera. Glielo prometto.”

Il vino scese giù e Tis sentì allarmato un brivido, e una vertigi-ne rispondergli.

“Cos’ha questo vino?” chiese al Conte.“Non tema. È una piccola magia.”“Non bevo” disse Tis.“Beva,” ordinò il Conte “avrei potuto farle del male già prima,

non crede? Lasci che mi esibisca un po’. Pensiamo a una primavera lontana, non vuole?”

“Non ho capito.”“Coraggio. Beva, adesso.”Tis bevve un sorso di vino gelato e chiuse gli occhi: apparve

il corridoio di una casa ora distrutta che subito riconobbe. Passò suo fratello con i calzoni corti, il volto degli undici anni, la giacca e la cravatta con l’elastico. Era pettinato con la riga, i capelli tirati e luci-di d’acqua come li pettinava la nonna la mattina della festa. Suona-vano le campane, evidentemente era domenica. Tis sentì il fratello e la nonna che lo chiamavano. Un pettine gli passò fra i capelli, rico-nobbe la mano come se fosse viva. Il fratello gli venne vicino. Sentì le voci di venticinque anni prima.

Allora aperse gli occhi e le lacrime indegnamente gli caddero sulla cravatta.

“Perché mi fa questo?” chiese al Conte, senza voce.“Mi perdoni,” disse il Conte “beva ancora.”Tis bevve ancora, senza pensare, e si trovò in un’altra primave-

ra dentro l’aula del Liceo. Il professore di filosofia, quello che morì l’anno seguente, diceva che chi sa di non sapere è saggio. Fuori della

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lei: il cognac dell’imperatore. Berremo con lei, se ce lo permetterà, perché forse anche noi meritiamo un sorso di questa bottiglia. Corag-gio, Giacomo.”

Tis si sentì confondere e guardò la bottiglia immaginando gli ussari a Fontainbleau, la disamata Maria Luisa, la sera di Waterloo, il gran fiume della vita e tutte le balle degli ubriachi. Scese quindi nei bicchieri il miracolo di ottobre.

I tre uomini bevvero e una grande felicità calò nel cuore del professore: non era sogno, chissà cos’era, ma grande divenne la fidu-cia nel domani e fu facile pensare a tenere cose: la neve, il bambino sulla bicicletta nuova, il gatto orgoglioso ammesso a dormire sul let-to del figlio la sera di Natale. Perché angosciarsi? Sembra davvero che quel che si vive non sia nuovo per nessuno e molto sarà anche bello, di quel che passerà sotto il sole.

“È magia” disse Tis.“È magia” convenne il Conte. Giacomo si ritirò.“Vorrei brindare alla sua cortesia, con questo cognac dell’im-

peratore... 181�: nessuno ci crederà mai.”“Nessuno crederà a nulla, e lei non parlerà” disse il Conte.

“Anche questa è magia: un poco alla volta dimenticherà queste cose. I documenti che le ho fatto trovare sul tavolo non ci sono già più...”

“Come!” esclamò Tis. “Pagine e pagine...”“Siamo ben passati in questi secoli grazie a qualcosa” disse il

Conte. “Non è difficile far sparire delle carte: la polvere se le ripren-de come già farebbe, solo un po’ più in fretta. È poca cosa.”

“Ma il perché, me lo dica” chiese ancora Tis, metà lucido e metà svanito. “Qui lei uccide uno tra festival e motorini...”

“Lei è proprio ostinato” disse il Conte. “Che vuol sapere, anco-ra? Se avessi dovuto esserle davvero nemico poche mura avrebbero potuto proteggerla. Le ripeto, non so nulla... Noi oggi non crediamo più né al bene né al male, e per questo forse non capiamo. Ma il pri-mo Balthasar, lui sì. Lui ci credeva, e con forza, al bene e al male. Al male si rivolse sapendo quel che sceglieva...”

“Lei dice che dimenticherò” chiese Tis, “la cena, il giovane Avoli, questi giorni?”

buio crescente un’ombra gelida saliva incontro. “No,” urlò “no. Non voglio.”

Come se si svegliasse guardò la tavola. Le candele che si erano abbassate ripresero a brillare.

“Non mi faccia fare il mago,” disse il Conte “abbia compassio-ne del tempo che è passato. Mi risparmi questo odioso repertorio: la mia stanchezza è enorme. Finisca il suo vino. Non vedrà più nulla.”

Bevve e ascoltò i vetri tintinnare per il vento. La strada, la Piazza, la città, la valle verso l’Appennino, tutto investiva il vento. Ma Tis era sopra una nuvola persa e viaggiava per lontane pianure, dove non c’è perché per quel che accade.

“Pensi quanto tempo” disse il Conte. “Anni su anni di questo buio del cuore che solo adesso se n’è andato... Sarà come togliere cenere da pochi libri. Non è rimasto molto. Vuole dare un’occhiata al futuro?”

“No.”“Non sarà brutto, vedrà. Anche se lei ha già le sue brave

ombre.”Il Conte s’era alzato e fece cenno a Tis verso le poltrone. Lui

andò alla finestra. Guardò nella strada. Tis si alzò: la testa non girava, ogni cupezza era scomparsa, le ginocchia erano salde, il vento corre-va per le vie. Guardò di fuori e vide che la luna splendeva nel cielo limpido, sopra il profilo dei tetti. Da un abbaino veniva luce come in una scenografia dell’Ottocento: in un dicembre di cent’anni fa, in una soffitta di Parigi, Mimì perdeva la chiave della stanza. Amore e poi morte. Si lasciò cadere in una poltrona.

“L’amore,” disse il Conte quasi cadendo nell’altra “l’amore nelle soffitte, la giovinezza... Ho bevuto anch’io.”

“Non è onesto leggermi nel pensiero” lo ammonì Tis alzando un dito come a scuola. La mano pesava, il fuoco ardeva nel camino. Ah, i tetti di Parigi!

Entrò Giacomo con in mano una bottiglia polverosa, bicchieri napoléon, un sorriso di benessere.

“Questo” disse il Conte “è il vero miracolo di questa sera: vie-ne dal 181�. La vera magia... E questo, se permette, è il regalo per

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noctis cognovilabem et

redemi sanguinemU B

Le lettere già colavano e si cancellavano in acqua leggera.“Addio”, disse allora stringendo la mano del Baldassarri. Si

voltò e cominciò a scendere le scale.

“Lei ha già cominciato a dimenticare. E il suo amico, che ades-so è a cena a Mestre, già si chiede da cosa è fuggito.”

Il vento suonò ancora sui vetri e il fuoco si rianimò. Dalla stra-da venne il rumore della serranda della pizzeria che stava vicino al palazzo.

“L’ultimo” propose il Conte. Versò appena nei bicchieri. “Vo-gliamo bere alle nostre solitudini?”

“Salute,” augurò Tis “alla sua.”“La sua invece non durerà” disse Baldassarri. “Al suo futuro,

lei che ne ha uno.”“Al futuro.”“Era davvero l’ultima goccia,” disse il Conte “alla mia età del

resto non potrei.”Si era alzato con forza e aveva lasciato Tis a bere. Passeggiò

davanti al camino con le mani dietro la schiena. “Il futuro, il futu-ro...” continuò a mormorare. Davanti alla finestra vicino alla porta si fermò a guardare la strada. Passò la mano sul vetro appannato e sospirò. Tis vide che disegnava qualcosa sull’altra lastra, prima di ritornare.

“Ora toccherà alzarsi” fece Tis. Si trovò in piedi anche lui, al-largò le braccia senza sapere che dire.

“L’accompagno alla porta. L’inverno sta arrivando, ma la sera è calda.”

“C’è garbino” annunciò Giacomo che era apparso con l’imper-meabile e la sciarpa di Tis.

“Non so che dire” ammise quegli.“Vogliamo dire che questa storia si perde nel silenzio?” pro-

pose Baldassarri. “Giacomo la luce delle scale. Arrivederla, addio” disse poi.

Gli occhi di Tis caddero sulla finestra dove pochi istanti prima il Conte s’era fermato. Con vista più acuta del prevedibile lesse sul vetro appannato:

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CAPITOLO XXIV

Il signore delle situazioni letterarie e degli ubriachi guidò Tis per le strade dove il vento s’ingolfava cercando le vaste aperture del mare. Questa città, col suo vivere e il suo intrico di strade, i suoi abitanti rintanati e quelli intenti nella notte al poco amore consumato dimenticando rancori e arrabbiature, questa città era l’ultimo ostaco-lo che il vento incontrava prima di perdersi sopra l’Adriatico.

In questo, pensava Tis, anche il vento come il poker imita la nostra illusa esistenza: si impiglia nel piacere e nel dolore e poi scom-pare dove nessuno lo sente più, nel gran buio del mare e della morte. Perché sebbene Tis sia allegrissimo, è ben consapevole della verità che il cognac dell’imperatore, e prima il suo padrone, e prima ancora il giovane Avoli, gli sono andati rivelando, cioè che pur nell’euforia della magia del cognac, è la morte che si trascina i nostri destini. È lei la più importante regina.

Forse, a ben guardare, la si potrebbe riconoscere in una figura sotto i lieti portici della piazza. Ciò nonostante meglio non girarsi, perché la chiamata è certa ma forse non prossima, forse addirittura lontana, e a Tis nessuno nega l’effimera felicità piena di vento di questa sera.

Così, col peso del cognac in tasca, cammina infine libero verso la fontana dove una sera fu sfiorato dai giochi del morituro Avoli. Basta passare davanti alla questura, ed ecco la Piazza: mulinelli del vento, due bar, la fontana, tre o quattro giovani e giovinastri nel por-tico, l’orologio delle Poste alle spalle. Questa è piena felicità: il cor-po è leggero, forse sul serio Tis ha già cominciato a dimenticare. Se davvero c’è una figura fra i portici che lo guarda, Tis non la vede e imbocca la via Rossini.

All’incrocio c’è il collega Gladioni, contornato da ragazzini incollanati: a larghi gesti Tis lo saluta. I palazzi nella stretta via, le case, le vetrine, i balconi, sono immersi in una luce verde e serena. Ci pensate: i lunghi silenzi dell’inverno, le lunghe notti che si passe-ranno a parlare fra queste vie di ciò che non si ha. Lontano e gelido il

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avesse occhi vedrebbe, adesso, questo professore di spalle nel mezzo della panchina con le sfingi, che beve e rimette la bottiglia in tasca come per nasconderla. E questo è quanto resta. Che altro si potrebbe vedere? Delle carte d’archivio, dei documenti scomparsi o il giovane Avoli per sempre rinchiuso che nessuno guarderà più?

Viene facile dire, pensa Tis, che è stato un sogno. E poi quel-l’altra cosa, come disse al Conte, che questa è stata la sua grande Avventura, ma che non potrà mai raccontarla a nessuno, e che, gira e rigira, pare che la giovinezza sia veramente finita con questa sera. Come la storia tutta intera. Intanto occorrerà finire il cognac dell’im-peratore e godersi il silenzio. Infatti nessun rumore è attorno. C’è soltanto il vento che soffia controsenso sul mare, verso il largo, e le onde vanamente cercano di andargli dietro.

(Gennaio-Ottobre 1979)

FINE

mare si romperà a riva e riempirà di salmastro le costruzioni allusive che la sezione culturale del comune disperse per il lungomare.

Felicità, pace, riposo.Ecco per la via comparire alcuni di quelli che le notti di vento

non mancano di chiamare per le strade della città. Ecco il funziona-rio di partito che corteggiò il movimento e ora sembra stancamente rifluire; ecco colui che negli anni Sessanta amò riamato: sempre ne parla e fantasmi di donne del nord lo seguono nella notte rimpro-verandolo silenziosamente; ecco il meccanico dai capelli rossi che esce dal motoclub; ed ecco anche finalmente una donna: ma è alta e magra, è pazza a detta di tutti. Passa sorridendo, Tis la saluta.

Davanti al duomo beve un sorso del cognac dell’imperatore. Perché sembra che tanto tempo sia passato? Da quando apparvero quei fogli insoliti nei documenti dell’Archivio di Stato, meno di due mesi sono trascorsi. Le sere allora erano lunghe e adesso il buio si prende ancora un po’ di luce. Ma Tis già pensa al solstizio d’inverno non lontano, poi alle piogge primaverili, ai profumi che riempiranno l’aria. E alla prossima notte di garbino già ci sarà chi s’illude, già si sogneranno vacanze, la morosa di Londei partirà ancora a rintraccia-re superficiali amicizie. E una mattina, miracolosamente, vedremo sulla spiaggia segni di attività, bagnini con le giacche a vento che stuccano e verniciano. Così saremo di un anno più vecchi.

Ah, il cognac dell’imperatore!Autotreni sfrecciano sulla nazionale. Tis l’attraversa diretto al

mare. Il vento lo spinge alle spalle, la serata è propizia a sagge medi-tazioni e nottambuli in coppia seguono i marciapiedi dei viali. Saluti, saluti. Ferma nel vento, ecco la Palla di Pomodoro. Tonda e rientrata, informa il volenteroso sul nome dei militari, sui loro amori. Né man-cano esortazioni a far questo e quello, ci sono rime e persino numeri di telefono. Ma qualcuno li chiamerà davvero?

Tis siede sulla panca con le sfingi, sono decenni che lo fa. Fra i piedi rotolano pezzi di carta, buste di fotografie e l’inevitabile si-ringa. Dov’è Londei? Lui non c’è e non berrà di questa delizia. Tis beve. Ma da domani basta, certamente.

Poche settimane fa cominciava questa storia. Ma se il vento

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INDICE

Capitolo ICapitolo IICapitolo IIICapitolo IVCapitolo VCapitolo VICapitolo VIICapitolo VIIICapitolo IXCapitolo XCapitolo XICapitolo XIICapitolo XIIICapitolo XIVCapitolo XVCapitolo XVICapitolo XVIICapitolo XVIIICapitolo XIXCapitolo XXCapitolo XXICapitolo XXIICapitolo XXIIICapitolo XIV

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pag. �pag. 1�pag. 17pag. �1pag. �9pag. �9pag. ��pag. �9pag. �7pag. 7�pag. 91pag. 99pag. 10�pag. 109pag. 1��pag. 1�7pag. 1��pag. 1��pag. 1��pag. 1��pag. 171pag. 18�pag. 191pag. �07