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una città n. 234 mensile di interviste ottobre 2016 - euro 8

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n. 234mensile di intervisteottobre 2016 - euro 8

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La mia biografia mi impedisce di essere pessimistaSulla Polonia, l’Europa e l’uso della memoriaIntervista ad Adam Michnik (p. 3)La nostra HillaryDi Stephen Eric Bronner (p. 8)Le ragioni di merito per un noGovernabilità vs rappresentativitàIntervento di Marco Boato (p. 9)Non ha senso, o, purtroppo, lo haSul pericoloso combinato riforma e legge elettoraleIntervista a Lorenza Carlassare (p. 11)I trenta gloriosi che non tornerannoSull’esile speranza legata al sì al referendumIntervista a Michele Salvati (p. 14)La classe capovoltaUna buona pratica franceseIntervista a Marie Camille Coudert (p. 18)Il presente della vecchiaiaUn forum sulle inquietudini dell’invecchiamentoIntervista a Marina Piazza, Antonella Nappi, Francesca Rossi e Simona Sieve (p. 20)Il genocidio degli YazidiNelle centraliPiù poveri dei genitoriDi Francesco Ciafaloni (p. 26)Aspettando BruxellesDi Paolo Bergamaschi (p. 27)Una causa per andare a morireSull’Islam e la sinistraIntervista a Jean Birnbaum (p. 30)Nell’estate del ‘44...Sulle Repubbliche partigianeIntervista a Nunzia Augeri (p. 34)Novecento poetico italiano/14La poesia di Montale, seconda parteDi Alfonso Berardinelli (p. 38) Lettera dalla Cina. Il porto di ColomboDi Ilaria Maria Sala (p. 40)Lettera dall’Inghilterra. La battaglia di OrgreaveDi Belona Greenwood (p. 40)Lettera dal Marocco. Dopo le elezioniDi Emanuele Maspoli (p. 41)Appunti di un mese (p. 42)Discussione sul Titolo VDi Oliviero Zuccarini, 1947 (p. 44)L’elezione del sindaco di SrebrenicaDi Hasan Nuhanovic (p. 45)La visita è alla tomba di Silvio Trentin (p. 46)

«Di solito il clima della vita politica non è propizio a chi voglia dare ascolto più ai suggerimenti della propria coscienza che alle direttive del partito. Ma anche la storia si misura con questo metro? Le esigenze morali, fatte valere

da cassandre inascoltate che non costituiscono un partito o sono, nei partiti, guardate con diffidenza, non contano proprionulla nella storia? Le politiche passano, ma vi sono pure dei valori morali che sono buoni per tutti i tempi. Come doveva

sembrar “livido” Gobetti agli abili manovratori di quegli anni! E Cattaneo ai patteggiatoridel Governo provvisoriolombardo! Ma quanti oggi non sarebbero disposti a riconoscere: “ne avesse avuti l’Italia di uomini lividi come Gobetti,

come Cattaneo! Le cose sarebbero andate diversamente e assai meglio”. Anche la fedeltà ai propri principi è una politica,se pure una politica a più lunga scadenza» Norberto Bobbio, da “Il Ponte”, a. VII, n. 8, agosto 1951

La copertina è dedicata alle donne polacche che sono scese in piazza acentinaia di migliaia per protestare contro una legge, portata avanti dalpartito al governo, che vuol equiparare l’aborto all’omicidio.Al festival del 900 di Forlì Adam Michnik, presentato dal suo amico Wlo-dek Goldkorn come uno degli uomini che ha avuto una parte, e non pic-cola, nella caduta del Muro e nella liberazione della Polonia, ci ha parlatodella memoria dell’Europa, a partire dalla particolarità della Polonia, cheha conosciuto due totalitarismi, quello nazista e quello staliniano; dellacomplessità delle storia, ricca di personaggi non univoci come il polaccoPilsudski, autore di un colpo di stato per salvaguardare la Polonia mul-tietnica; ci ha parlato dell’uso politico della memoria storica, che è comeun bastone che può aiutare a camminare o che può essere dato in testaagli avversari politici; un uso che, in Polonia, si spinge fino al tentativodell’attuale governo polacco di infangare Solidarnosc e Walesa; della ver-gogna che prova per la posizione del suo governo sui profughi e di un’Eu-ropa, beneamata, che rischia di perdere la strada e che però vale tutto ilnostro impegno per fargliela ritrovare. Torniamo a parlare del referendum, con l’intervento di Marco Boato, peril no, ma un no circostanziato nel merito che nulla deve avere a che farecon il destino del governo; ma per lo stesso motivo è inaccettabile la de-magogia di chi è arrivato a dire: “In questo referendum si tratta di ridurrele poltrone. Punto!”. Per Lorenza Carlassare, costituzionalista, il combi-nato riforma costituzionale-legge elettorale è sicuramente teso ad accen-trare il potere sull’esecutivo e a rendere manipolabili gli organi di garan-zia, ma il tutto è anche molto pasticciato: un senato non eletto, che nonsi sa cosa rappresenterà, perché privo di vincolo di mandato rispetto alterritorio di appartenenza, nominato per ripartizione partitica, ma che, pa-radossalmente, avrà voce in capitolo su leggi molto importanti come quel-le costituzionali e i trattati europei; infine la legge elettorale: che vuol fardiventare maggioranza chi non lo è e che permetterà l’elezione diretta delcapo del governo, una legge al cui confronto quella cosiddetta “truffa” del’53 è niente. All’opposto, Michele Salvati, schierato per il sì, mette in evi-denza la modestia della riforma, che non prevede le due cose che raffor-zerebbero veramente l’esecutivo: la sfiducia costruttiva e la possibilità delpremier di sciogliere le camere, presenti nelle costituzioni tedesca e spa-gnola; partendo da un’analisi estremamente pessimistica sullo stato del-l’economia mondiale e sulle conseguenze devastanti di una globalizza-zione inarrestabile, che impoverendo il ceto medio favorisce la crescitadi movimenti populisti, Salvati riserva un’esile speranza, legata all’esitopositivo del referendum, in un governo che, finalmente dotato di un inve-stitura forte, possa prendere i provvedimenti necessari e, a volte, tutt’altroche popolari. Nelle centrali, ricordiamo gli Yazidi, vittime di genocidio. Gli islamisti del-l’Isis, denuncia l’Onu, hanno cercato di distruggere il popolo yazida attra-verso l’assassinio, lo sfruttamento sessuale, la riduzione in schiavitù, latortura e trattamenti inumani e degradanti, trasferimenti forzati...Jean Birnbaum polemizza con una sinistra che per spiegare perché tantigiovani vanno a morire per l’Islam, per paura di risultare islamofobica,cerca spiegazioni esclusivamente “sociali”, facendo l’errore di non darcredito alla forza della religione e non accorgendosi così di essere com-pletamente dentro a un immaginario coloniale, che vede solo l’onnipre-senza dell’Occidente e delle sue colpe; in realtà, secondo Birnbaum, que-sti giovani sono spinti da una speranza radicale che oggi solo l’islam saoffrire loro. Alla fine sarà decisiva la lotta fra l’Islam che interpreta il Co-rano e quello che lo legge e basta.

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LA MIA BIOGRAFIA MI IMPEDISCE DI ESSEREPESSIMISTAQuello delle donne polacche, il più importante movimento dai tempi di Solidarnosc; la particolaritàdella Polonia, che ha conosciuto due totalitarismi, quello nazista e quello staliniano; la complessitàdelle storia, ricca di personaggi non univoci, dal polacco Pilsudski all’ucraino Bandera; l’usopolitico della memoria storica, col tentativo dell’attuale governo polacco di infangare Solidarnosc;un’Europa beneamata da ritrovare. A parlare è Adam Michnik intervistato da Wlodek Goldkorn.

d’Europa

Sabato 8 ottobre, a Forlì, al festival di storiadel 900, si è svolto l’incontro con Adam Mi-chnik, storico, uno degli artefici della cadu-ta del comunismo e dell’avvento della demo-crazia in Polonia; Michnik era presentatoda Wlodek Goldkorn. L’incontro, che è statointrodotto dal saluto del sindacalista dellaCisl Romagna Vanis Treossi, si è incentratosui temi della memoria nella storia dell’Eu-ropa. Nel pomeriggio si era svolto un incon-tro, sul tema della “colpa nella storia”, conNiklas Frank, figlio del criminale nazistagovernatore della Polonia, Katrin Himmler,nipote del gerarca nazista, e Lorenzo Pavo-lini, nipote del gerarca fascista.

Wlodek Goldkorn. Buona sera, più che undialogo saranno una serie di domande cheporrò a Michnik. Vorrei dire, in primo luo-go, per chi non lo sapesse ma anche per chilo sa, che sentire Michnik è un’occasione ec-cezionale, per diversi motivi, uno etico, per-ché è una delle persone più oneste e piùcombattive nella storia d’Europa degli ulti-mi 40-50 anni, è stato un oppositore del re-gime comunista fin dalla metà degli anniSessanta e non ha mai smesso di essere op-positore di tutti i regimi e i governi ingiusti;l’altro è più tecnico perché è anche un’occa-sione di sentire una persona che di mestieree di formazione è storico (anche se ora fa ildirettore di “Gazeta Wyborcza”), e che, allostesso tempo, è anche un protagonista dellastoria. Perché se la Polonia è libera, se ilmuro è caduto è anche in qualche parte, enon piccolissima, merito di Michnik. Fattaquesta premessa vorrei cominciare dicendoche la Polonia è un caso molto interessantedal punto di vista di elaborazione della sto-ria e del rapporto tra storia, memoria e pre-sente. La Polonia non solo è stata sempre,dalla metà dell’800, al centro di ogni conflit-to europeo, e uno dei primi ad averlo capito,insieme a tanti altri, è stato Marx, per ilquale la libertà della Polonia significa an-che libertà dell’Europa, non esiste un’Euro-pa libera senza Polonia libera. Ma intornoalla Polonia ci sono tantissime leggende: èuna storia interpretata in maniera moltoimmaginifica con sovrapposizioni sorpren-

denti. Ne cito una poi comincio con le do-mande. La più eclatante e divertente èquella, che tutti avranno sentito, della ca-valleria polacca che nel 1939 avrebbe cari-cato i panzer tedeschi. È significativa per-ché, inventata dai nazisti, si è diffusa inItalia grazie ai giornali di allora e poi è sta-ta ripresa dai sovietici. Molto spesso l’hosentita ripetere da esponenti del Pci. Il tut-to per spiegare l’irrazionalità dei polacchi eil fatto che non meritassero di essere liberie governarsi da soli, ma dovessero averesempre la tutela di un grande fratello o diun potere più forte. Anche oggi il partito alpotere in Polonia, “Diritto e giustizia”, rein-terpreta la storia. Ma prima di parlare diKaczynski, vorrei partire da una questionepiù attuale. Lunedì c’è stato lo sciopero delledonne in Polonia, milioni di donne in piazzaper protestare contro una legge particolar-mente restrittiva sull’aborto. E il governoha ritirato il suo progetto di legge. Vorrei sentire Michnik se vuole commenta-re, cos’è successo, se è stata veramente unavittoria delle donne, una vittoria di civiltàelementare.

Adam Michnik. Buongiorno a tutti. Innan-zitutto grazie di questo invito, grazie del so-stegno del sindacalista che ha portato il sa-luto dei tre sindacati italiani; l’attività diSolidarnosc è stata un frammento moltoimportante della mia trafila. Oggi Solidar-nosc cerca la sua collocazione, il suo postonella nuova realtà, non sa trovarlo, però bi-sogna credere che ci riuscirà. Perché la de-mocrazia senza i sindacati è una democra-zia senza una gamba. Prendiamo la Cina, lìnon ci sono i sindacati! Ed è per questo cheanche quel modello comunista perderà. Iosono stato in Cina, ho avuto colloqui condissidenti cinesi, avevano degli occhi cinesima erano tali e quali ai dissidenti polacchi.Sono molto repressi, ma questo vuol direche il regime ha paura di loro. E se il regi-me ha paura, questo è un buon segnale per

i democratici. Ora, per quel che riguarda la domanda diWlodek, credo che quel che è appena suc-cesso in Polonia sia innanzitutto la vittoriadell’opposizione democratica. In secondoluogo, è una sconfitta del regime di Kaczyn-ski. E in terzo luogo, è un grande cambia-mento di civiltà. Per la prima volta, si è riu-sciti a trafiggere, a passare attraverso que-sto soffitto di vetro della Polonia patriarca-le. Nella politica polacca le donne sono usci-te in strada e quindi sono diventate prota-goniste. E non abbandoneranno più questascena. Le donne vogliono dire la metà dellaPolonia. Gli uomini da soli probabilmentenon ce la farebbero contro questo regime,ma gli uomini assieme alle donne ci riusci-ranno. Lo dico in quanto convertito al fem-minismo! Come la maggior parte della gen-te del mio paese io sono cresciuto come un“macho”. E come un vero convertito ho ca-pito che ho vissuto nell’errore e nel peccato.E questa è la mia risposta alla domanda diWlodek. Quel che è successo in Polonia è uncambiamento di civiltà. È un evento impor-tante, il più importante, culturale e intellet-tuale, dagli scioperi dei cantieri del 1980.Allora, nella grande politica hanno fatto in-gresso gli operai, e hanno abbattuto il co-munismo, la dittatura del regime comuni-sta. Adesso invece hanno fatto il loro in-gresso le donne e abbatteranno la dittaturadi Kaczynski, perché è un sistema arcaico,reazionario, che vuol portare indietro la Po-lonia. Durante i 25 anni dalla caduta delmuro di Berlino la Polonia è avanzata, haprogredito, invece adesso stiamo andandoindietro. Loro pensano che governerannoper sempre. Ma anche i comunisti la pensa-vano così, quindi io non gli faccio una pro-gnosi di grande longevità.Goldkorn. Ebbene, allora, un’altra doman-da che riguarda invece molto più la questio-ne appunto delle colpe e della storia. Ed èabbastanza semplice. In apparenza, sempli-ce. Sono passati 26 anni, 27 ormai dalla fi-ne del comunismo. E in questi 27 anni si èdiscusso molto della memoria in Polonia, èstato uno dei temi principali. La domandapiù specifica è quali sono i modi in cui la me-

nella politica polacca le donnesono uscite in strada e diventate

protagoniste. E nonabbandoneranno più la scena

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moria del comunismo è stata elaborata. Lochiedo sia allo storico che al democratico mi-litante, radicale qual è.Michnik. Oggi ho ascoltato tre testimonian-ze molto importanti e interessanti sulla re-sa dei conti con il fascismo. Ma nemmenouna volta è stata pronunciata la parola Sta-lin. Per un polacco questo è incomprensibi-le. La specificità dell’esperienza polacca èquesta: noi polacchi abbiamo avuto espe-rienza di due totalitarismi, quello hitleria-no e quello staliniano. Il primo settembre laPolonia è stata invasa da Hitler, e il 17 lastessa cosa è stata fatta da Stalin da Est.Risultato del patto Ribbentrop-Molotov.

La prima reazione, quando è arrivata la li-bertà, è stata quella di volere la verità, in-nanzitutto su ciò che fino ad allora era sta-to una menzogna. Tutti i giornali, tutte lelibrerie, erano colme di libri sul patto Rib-bentrop-Molotov, sui gulag. Questa è statauna prima reazione del tutto comprensibile,e però i gulag non contengono tutta la veri-tà sul comunismo. Il comunismo era unadottrina estremamente complessa, non puòessere ridotta a Stalin e ai gulag. Quandoall’interno della società polacca hanno co-minciato a formarsi delle divisioni, eranodelle divisioni fra quelli che volevano giudi-care il comunismo e quelli che invece vole-vano capirlo. I primi erano innanzitutto iprocuratori, i secondi gli storici. I comunistipolacchi erano solo degli agenti dell’Urss?Il comunismo polacco aveva anche le suefonti proprie, oriunde? Il comunismo davadelle risposte false a delle domande vere?Voglio dire che i contesti erano molteplici,e uno certamente importante era che a por-tare alla liberazione della Polonia da Hitlerera stato il comunismo di Stalin. Il che eravero così come era vero, però, che i soldatidell’Armata rossa non potevano portare lalibertà, perché non l’avevano loro stessi, lalibertà. Era questa la situazione complessain cui si andava a trovare la Polonia. Quin-di anche i conti, la resa dei conti con il co-munismo, il bilancio di tutto questo, eramolto complesso. Lo dice anche il fatto chemolti che erano stati comunisti all’epoca diStalin erano anche oppositori del comuni-smo nell’epoca del disgelo. Soprattutto nel’56, dopo il famoso rapporto di Kruscev. Lapiù radicale critica della dittatura comuni-sta è venuta dagli ex comunisti. Lo scrittoreIgnazio Silone, italiano, ha scritto, che il co-munismo sarebbe stato distrutto dagli excomunisti. Ovviamente, come le grandi for-mule di questo tipo, conteneva un grado diesagerazione ma conteneva anche molta ve-rità. I critici più severi del comunismo era-no gli ex comunisti. Gilas, Kolakowsky, Ha-vemann, il generale Grygorenko in Russia,

Zhelev in Bulgaria. Si può fare un lungoelenco di nomi. In questo senso, il problemapolitico diventa se insieme col comunismobisogna anche rigettare quelli che erano co-munisti ma poi l’hanno criticato e abbando-nato. A questo si sovrapponeva la questionedi chi era stato complice. E così gli archividel Kgb polacco sono diventati uno stru-mento di lotta politica.Goldkorn. Non so se poi vorremo tornare suquesto punto. Da polacco italiano mi vengo-no spontaneamente alcune associazioni conla storia italiana che ha visto molti fascistidiventare antifascisti, anche fra i più radi-cali. Il problema dell’uscita dal fascismo,parlo dell’aspetto giuridico, non storiografi-co, è stato forse risolto con l’amnistia di To-gliatti che ha chiuso i conti giuridici, il che,forse, ha permesso poi agli storici di lavora-re. Non so se è una sciocchezza, ma pensoche senza l’amnistia gli storici avrebberoavuto molte più difficoltà, per non parlaredella sfera della politica. Allora la domandariguarda proprio la storia della Polonia pri-ma del comunismo, una storia che oggi ve-diamo riemergere nelle divisioni politiche,coi laici che si rifanno a una certa tradizio-ne, a un certo ethos, Kaczynski e i suoi a unaltro. Ricordo la discussione molto dura, dicui Michnik è stato uno dei protagonisti, suJedwabne, un paesino in cui nel ’41 i polac-chi chiusero tutta la popolazione ebraica inun granaio e gli diedero fuoco. Ecco, quellafu una discussione fondamentale per la Po-lonia, che a mio parere cambiò il volto inmeglio, perché introdusse un elemento digrande onestà nel discorso pubblico. Ma og-gi assistiamo, dal lato opposto, a ragazziche si rifanno esplicitamente alla tradizio-ne fascista, a una organizzazione nazional-radicale che esisteva prima della guerrache era molto affine al regime fascista, maancor più ai franchisti spagnoli, perché era-no più cattolici di Mussolini; oggi sono nellestrade, nelle piazze vestiti nelle loro divisee danno a Walesa del traditore della patria.C’è poi stata la questione di Pilsudski, chefece il colpo di stato del ’26, uno degli episo-di più contraddittori nella storia della Polo-nia in Europa. Adam Michnik è stato prota-gonista di una discussione su Pilsudski, sucui non torno. Ricordo solo che Pilsudski fe-ce un colpo di stato sanguinario nel 1926,prima della guerra, per difendere una Polo-nia multietnica e multiculturale, che invecele destre “democratiche” al potere, volevanodistruggere. Questa è una contraddizioneche ci costringe a una riflessione anche oggi. Michnik. Hai mosso tanti argomenti, perpoterti rispondere dovrei scrivere una tesidi dottorato. Quindi mi concentrerò su Pil-sudski. Pilsudski è una figura storica estre-mamente ambivalente. Era un cospiratore,un socialista, un militante della rivoluzio-ne, simpatizzante di Rosa Luxemburg. Manon aveva mai rinunciato alla parola d’or-dine di una Polonia indipendente, sovrana.

Pilsudski era un organizzatore delle forzearmate polacche, non era uno statista, maripeteva tenacemente che quello cui aspira-va era la Polonia indipendente. Divenne ca-po dello stato nel 1920, nella guerra polaccacontro l’Urss dei bolscevichi. Era capo dellostato quando il parlamento approvò una co-stituzione che all’epoca era la più avanzatadi tutta Europa. Subì un grande shockquando nel 1922 un fanatico del campo na-zionalista uccise il primo presidente dellaPolonia libera. Nella Polonia che per 123anni non era esistita sulle carte geografi-che, che aveva riguadagnato libertà e indi-pendenza e aveva eletto il suo parlamento,un fanatico nazionalista aveva assassinatoGabriel Narutowicz, il primo presidenteeletto democraticamente. Per Pilsudskiquesto fu un fatto sconvolgente. L’argomen-to addotto dai nazionalisti colpevoli dell’as-sassinio era che il presidente era stato elet-to con i voti ebraici. Secondo loro quei par-lamentari eletti come rappresentanti deipartiti ebraici non avevano diritto di vota-re. Per Pilsudski questo era inaccettabile.Diede le sue dimissioni e si ritirò. Dalla suaprospettiva di ex comandante dimissionariovedeva che la Polonia stava annegando nel-la corruzione, e, come si addice a un ex co-spiratore, a un capo militare, si comportòcome un De Gaulle francese, cioè fece unputsch, un colpo di stato militare. E poi, sic-come la Polonia non era la Francia, il cam-po dei vincitori divenne un campo direttoda una logica dittatoriale, con elezioni fal-sificate, con un parlamento le cui decisionivenivano ignorate, con arresti dei leaderdell’opposizione del centrosinistra, che ven-nero trattati in un modo orrendo, con pro-cessi e condanne.

Quindi un giudizio storico su Pilsudski nonpuò essere univoco. In Polonia, da un latoPilsudski è contestato dai democratici, malo è anche dall’altra parte dai nazionalistidi destra. Io personalmente lo vedo dalpunto di vista dei democratici. È un uomoche ha fatto cose molto buone per la Poloniae molte pessime e oggi non bisogna pren-derlo a modello perché Pilsudski ha distrut-to la democrazia polacca. Ovviamente nonequivale a Mussolini, non ha introdotto unsistema totalitario, era una specie di semi-dittatura, abbastanza grottesca; non haaiutato in nulla la Polonia e ha distrutto ilrispetto per la democrazia. Quindi dopo il1945 quando i comunisti, un passo dopol’altro, distruggevano la democrazia, pote-vano in qualche modo far riferimento a Pil-sudski. Però è sicuro che resterà sempre unpersonaggio ambivalente, non univoco nellastoria polacca. Così è il caso di Stolypin,primo ministro russo. Se i terroristi non

la specificità dell’esperienzapolacca è di aver vissuto duetotalitarismi, quello hitleriano

e quello staliniano

d’Europa

se i terroristi non avessero uccisoStolypin, la Russia non sarebbe

entrata in guerra, non ci sarebbestata la rivoluzione bolscevica

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avessero ammazzato Stolypin, la Russianon sarebbe entrata in guerra, non ci sa-rebbe stata la rivoluzione bolscevica, ecce-tera, eccetera. Ma se leggiamo delle repres-sioni attuate da Stolypin, dopo il 1907, al-lora si perde parecchio la simpatia che sipotrebbe provare per lui. Se si legge la suariforma, si riguadagna la simpatia. AncheStolypin, quindi, non è un personaggio uni-voco. Ma non è forse questo tutto il fascinodella storia? La storia è fatta di situazioni,di personaggi non univoci.Goldkorn. Parlando di Pilsudski, viene fuo-ri il problema delle minoranze nazionali,che è un’invenzione lessicale fantastica cherisale all’invenzione degli stati monoetnici.Potrei dire che Pilsudski era molto amatodagli ebrei, si sentivano molto protetti dalui, dittatura o no, rispetto all’antisemiti-smo, molto forte allora in Polonia. In Polo-nia, oltre agli ebrei c’erano ucraini, lituani,Leopoli era una città polacca, Vilnus erauna città polacca, c’erano tedeschi. Gli ebreifanno parte della storia della Polonia, cosìcome in qualche modo per gli israeliani èimportante la Polonia. Lo stesso vale per ilrapporto con gli ucraini, particolarmentedifficile anche per vicende storiche moltodure avvenute durante la Seconda guerramondiale, e così coi lituani e con i tedeschi.Anche questa è una domanda complessa. Ipolacchi stanno facendo i conti con la pro-pria storia rispetto a questi popoli o no, ecome li stanno facendo?

Michnik. Ecco un’altra tesi di dottorato. LaPolonia dell’anteguerra era un paese mul-tietnico e due uomini l’hanno resa monoet-nica: Hitler e Stalin. Hitler sterminando lapopolazione ebraica e Stalin modificando iconfini orientali della Polonia e autorizzan-do l’espulsione dei tedeschi della Polonia. Nell’Europa centrale ed orientale non ci so-no dei confini giusti. Tutti i confini sono in-giusti. E questo influenza i rapporti tra po-lacchi e tedeschi, tra polacchi e slovacchi,tra polacchi e lituani, e i rapporti tra la Po-lonia, la Bielorussia e la Russia. Che contivengono fatti oggi? Qui bisogna differenzia-re i conti che vengono fatti dal gruppo al po-tere oggi e quelli della società polacca toutcourt. Per quel che riguarda i conti sociali,nessuno dei paesi di quella regione, dell’Eu-ropa centrale e orientale, è andato più lon-tano nel rispettare la Polonia.

Ovviamente, chi invece è avanzato di più suquesta strada sono i tedeschi. Non sonod’accordo con Niklas Frank: io ritengo che itedeschi, nei loro conti, siano andati piùavanti di tutti gli altri. Se paragoniamo itedeschi con gli italiani e i polacchi non c’èalcun dubbio che abbiano lavorato di più,che siano andati più avanti in questa stra-da della resa dei conti.

Per quanto riguarda la Polonia, ci sono dueproblemi diversi, dentro a questa situazio-ne. C’è l’atteggiamento nei confronti dellastoria e l’atteggiamento rispetto alla situa-zione attuale. Nella politica dello stato po-lacco di oggi non c’è alcun antisemitismo,ma non è un merito perché in Polonia nonci sono più ebrei! Però è vero che non ci so-no nemmeno i musulmani, eppure i polac-chi sono xenofobi e antimusulmani! Quindinel ’68 avevamo un antisemitismo in unpaese senza ebrei, e adesso abbiamo un’isla-mofobia in un paese senza musulmani! Invece, certamente c’è una diatriba, unalotta, un dibattito acceso sulla storia. I po-lacchi e gli ebrei hanno un tratto in comu-ne, entrambi questi popoli si consideranoeletti e vittime allo stesso tempo. Quindi,quando si incontrano due popoli che si con-siderano entrambi eletti dal messia, ovvia-mente questo non può che creare dei pro-blemi! E questo problema ovviamente esi-ste. Negli ambienti ebraici funziona moltolo stereotipo che dice che ogni polacco hasucchiato l’antisemitismo con il latte ma-terno. E queste sono le parole di Rabin, expremier israeliano. Mentre invece i polac-chi dicono che in Polonia non ci sarebbenessun antisemitismo se non ci fosse un an-tipolonismo ebraico. Sono due idiozie dellostresso livello. Ma la stessa cosa che funzio-na nei rapporti polacco ebraici, su una scalamaggiore funziona anche nei rapporti trapolacchi e lituani, tra polacchi e ucraini, e

tutti i confini sono ingiusti e ciòinfluenza i rapporti tra polacchi etedeschi, tra polacchi e slovacchi,

tra polacchi e lituani e russi

Adam Michnik (al centro) in una riunione a Roma nel 1977 nella sede dell’Avanti. Il primo a sinistra è Gino Bianco.

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anche nei rapporti tra polacchi e russi. Peril nazionalista russo non c’è una colpa rus-sa. Se chiedi: “Chi ha fatto il bolscevismo?”,“Noi russi, no! L’hanno fatto Trotsky, ebreo,Zinoviev, ebreo, Kamenev, ebreo, Mikoyan,armeno, Stalin, georgiano, Dzerzinskij, ca-po della Ceka, polacco; il bolscevismo è sta-to imposto ai russi dagli stranieri”. Comeha detto il parlamentare russo ValentinRasputin: “Il bolscevismo non è colpa no-stra, è la nostra sciagura, una disgrazia checi è stata imposta”.

Con un ragionamento di questo genere è dif-ficile costruire un dialogo che possa portareda qualche parte. Per questo l’eroe del nazio-nalismo russo oggi è Putin, perché lui dice:“I russi si alzano, prima stavano in ginoc-chio, adesso si mettono dritti”. Così la Polo-nia viene rialzata, dalla posizione inginoc-chiata, da Kaczynski. Quindi in Russia c’è ilgrande Putin, e in Polonia c’è un lilliputin.Goldkorn. Avrei ancora alcune domande.Una è a proposito di Putin e dell’uso dellastoria e della memoria e della somiglianzadel vittimismo ebreo con quello polacco. Peril pubblico chiarisco che siamo due polacchiebrei, quindi parliamo sia da polacchi cheda ebrei. Venendo a Varsavia, si ha l’im-pressione che il governo al potere oggi, colpartito di “Diritto e giustizia”, stia co-struendo una memoria storica molto similea quella criticata a suo tempo da un impor-tante storico ebreo americano, Yosef Yeru-shalmi. Lui aveva avanzato una tesi secon-da la quale la memoria ortodossa degliebrei sovrappone in un insieme senza di-stinzione tutte le sciagure, la distruzionedel primo tempio è come la distruzione delsecondo, la cacciata dalla Spagna è come ladistruzione del secondo tempio, i pogrom diBogdan Chmelnickij, il capo della ribellionedei cosacchi del Seicento, sono come la cac-ciata dalla Spagna, i pogrom sotto lo zar so-no come quelli di Chmelnickij, la Shoah èun po’ come… e alla fine gli ebrei sono sem-pre vittime in cui non si distingue più ilcontesto, e questo porta all’impossibilità dipensare razionalmente e dà la possibilità dimanipolare la storia come si vuole. Ho l’im-pressione che in Polonia oggi una cosa simi-le la stia facendo il governo, per cui la guer-ra contro i bolscevichi del 1920 si sovrappo-ne all’insurrezione di Varsavia del 1944,l’incidente di Smolensk in cui morì il fratel-lo di Kaczynski e tutta l’équipe al governosi sovrappone all’insurrezione di Varsa-via… Questa specie di postfattualità ti per-mette di fare della storia quello che vuoi.Sto esagerando?Michnik. Sia gli ebrei che i polacchi amanoessere vittime. Prediligono essere vittime.E rendono solenni, e celebrano le proprie

sconfitte. Non amano celebrare i propri suc-cessi. Isaac Rabin, che ha avuto un grandesuccesso storico, gli accordi di Oslo, è statopunito, assassinato da uno sciovinistaisraeliano. Il più grande successo polacco,quello di smantellare il comunismo senzarompere un solo vetro, è stato definito re-centemente come il più grande tradimento.Oggi io mi trovo a dover giustificare ciò dicui dovremmo andare fieri, a dover spiega-re che nessuno mi ha pagato, né il Cremli-no, né Tel Aviv. Sono stato in Israele, face-vo una passeggiata sul lungomare, e sonoentrato in un museo dell’indipendenza, unmuseo molto interessante, che parla delcammino di Israele verso l’indipendenza.Fatto in modo molto moderno, con film, fo-tografie, c’era tutto. Però nessuno si è ac-corto che nell’indipendenza di Israele hasvolto un certo ruolo un signore che si chia-mava Ben Gurion, che non era nominato inquel museo. Perché quello era un museo delLikud. Ma questo è il modello di fare storiadel partito bolscevico. Gli elementi dellastoria del bolscevismo sono presenti nellefotografie, e da quelle fotografie man manovengono eliminate alcune figure, primaTrotsky, poi Zinoviev, poi Bucharin, eccete-ra, fino a che, accanto a Lenin, rimane soloStalin. Ecco, oggi il governo di Kaczynskiprocede allo stesso modo con la storia polac-ca. Si butta via Walesa, si butta via Kuron,e altri. In questo senso qui ci sono delle so-miglianze fra tre sistemi culturali, appa-rentemente molto diversi: la destra israe-liana, la destra polacca e il bolscevismo. Maguarda caso la metodologia è uguale. È pa-radossale, vero? Kaczynski, verbalmente, èun nemico mortale di Putin e della Russiaintera. Ma il sistema politico che lui intro-duce in Polonia è esattamente il sistemaputiniano. Abbiamo un vessillo, una ban-diera democratica, ma sotto questo vessillointroduciamo un autoritarismo putiniano.È questa più o meno l’essenza del regime diKaczynski.Goldkorn. Ultima domanda. Mentre noiparliamo, stiamo molto bene, sentiamo coseinteressanti, sotto le nostre finestre stannomorendo delle persone. C’è una bellissimapoesia di Milosz, “Campo di fiori” dove siparla di una giostra sotto il muro del ghettodi Varsavia: mentre il ghetto bruciava c’eragente normale che andava a divertirsi, cheportava i bambini a quella giostra. Miloszparagona questa giostra a Campo dei fioridove, mentre Giordano Bruno viene arso vi-vo, il mercato continua e continua anche labellezza. È una poesia molto ambivalente,la bellezza dei frutti di mare, delle merciesposte dei commercianti. Io ho l’impressio-ne che noi siamo oggi su una giostra e che,come oggi pomeriggio c’era il figlio di Frankche parlava del suo senso di colpa, fratrent’anni i nostri nipoti ci chiederanno cosaabbiamo fatto e sarà difficile rispondere.Credo che in Polonia questo problema sia

ancora più difficile, perché è uno dei paesiche non vuole nessun profugo. Vorrei cheMichnik ne parlasse.Michnik. Su questa vicenda posso dire soloquesto. Io mi vergogno del mio paese. Le di-chiarazioni del governo polacco in questafaccenda le ritengo infami, pagine nere nel-la storia del nostro paese. Io mi rendo contoche il problema non è facile. Non voglio faredel moralismo da dietro la scrivania. Mirendo conto che per ogni governo implicatoin questo gravissimo problema, la faccendanon è semplice, ma per questo io sono ungrande sostenitore e simpatizzante di quel-lo che ha detto Angela Merkel: siamo apertiai migranti perché sono persone che fuggo-no dalla sofferenza e dalla morte e noi nonpossiamo voltargli le spalle. Invece il miogoverno polacco ha voltato le spalle. Cosìcome il governo ungherese di Orban. ForseWlodek ha formulato la questione in modomolto duro, radicale, estremo. Perché infondo questo problema è sempre esistito:oggi come ieri e anche domani, sempre daqualche parte moriva della gente, e noi nonsiamo stati in grado né capaci di aiutaretutti. Per questo sono cauto a fare del mo-ralismo facile. Io capisco che può essere unasituazione problematica, però non si può di-re, come ha detto Kaczynski, che non pos-siamo far entrare i rifugiati perché porte-ranno malattie, o perché quei musulmaniverranno qui a violentare le nostre ragazzecattoliche, cristiane, polacche. La ritengouna cosa scandalosa. E ritengo che la no-stra storia non dimenticherà questa infa-mia. Lo dico qui, ma vi garantisco che lastessa cosa la dico anche in Polonia. Dal pubblico. Michnik ha detto che si ver-gogna della Polonia. Io mi vergogno dell’Eu-ropa intera...

Michnik. Le cose stanno così: ti fidanzi conuna donna e poi ne sposi un’altra, comple-tamente diversa. È chiaro che è molto piùpiacevole vergognarsi dell’Europa che dellaPolonia; E meglio ancora è vergognarsidell’umanità intera! Ma io mi vergogno perla Polonia. Perché ritengo che questo gover-no distrugge, rovina, non solo la Polonia,ma anche l’Europa. Ovviamente, certo,l’Europa ha dei problemi. Ai nostri occhil’Europa si sta colorando di un marrone,quello delle camicie brune. Brexit, Marinele Pen, Lega nord, l’Afd in Germania, peròabbiamo qualcosa di meglio? La nostra Eu-ropa è la nostra diletta, la beneamata, peròla nostra diletta si è innamorata di qualcunaltro! O la abbandoniamo, oppure le provia-mo che valiamo di più di quegli altri! Io ri-tengo che la democrazia vale di più perl’Europa che lo sciovinismo e la xenofobia.E l’Europa tornerà a noi! Io ci devo credere.

d’Europa

la nostra Europa è la nostradiletta, la beneamata, però

la nostra diletta si è innamoratadi qualcun altro!

però ho sempre visto la differenza tra il regime

che mi ha fatto soffrire in queglianni e il regime stalinista

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La mia biografia non mi permette di esserepessimista. Poi sai, i pessimisti, in Polonia, sono moltipopolari, perché in genere hanno ragione.Però sono noiosi. E poco interessanti per ledonne. L’ottimista, l’originale, invece, destacuriosità. Ecco perché sono ottimista! Dal pubblico. La mia impressione è che nonsi racconti alle nuove generazioni cosa ve-ramente era il comunismo in Polonia, neglianni Sessanta, Settanta, per la vita quoti-diana. Il terrore che c’era. Michnik. Innanzitutto bisogna dire la veri-tà. È vero che c’erano i sentieri della salu-te, c’erano le perquisizioni di notte, ma ilterrore era negli anni dell’epoca stalinista,non negli anni Sessanta. E non quando era-vamo in prigione noi. La differenza fonda-mentale consiste in questo: che negli annistaliniani, dalla prigione non si usciva più.Mentre noi, sì, ci passavamo qualche an-netto ma poi uscivamo. Poi magari ci rin-chiudevano di nuovo, ma poi uscivamo. Eragià un totalitarismo con qualche dentemancante. Non era un socialismo dal voltoumano, ma un totalitarismo un po’ sdenta-to. Io non sono gentile nei confronti dei co-munisti. Quando scrivevo delle lettere dallaprigione dicevo che erano dei porci e dei dit-tatori. Però ho sempre visto la differenzatra il regime che mi ha fatto soffrire in que-gli anni e il regime stalinista. Così comeogni ragionevole storico italiano vede benela differenza tra Mussolini e Hitler.Dal pubblico. Vorrei un suo parere su Ra-dio Maria...Michnik. Credo che bisogna avere moltacrudeltà nel cuore per prendere sul serioRadio Maria. Perché è veramente un hor-ror. È un emittente che non parla il lin-guaggio del Vangelo, ma un linguaggio datrogloditi. Antisemita, populista, antidemo-cratico… Dal pubblico. Ci può dire qualcosa dei rap-porti tra Polonia e Ucraina?Michnik. Io in Polonia passo per filoucrainoe in Ucraina invece sono proprio una vaccasacra. Ritengo che il dovere di un polaccosia sostenere e aiutare la democrazia ucrai-na. Io ci sono andato molte volte, ho moltiamici lì, ovviamente c’è un problema che ri-guarda le relazioni fra questi due paesi, fraquesti due popoli, durante la Seconda guer-ra mondiale. In Polonia non capiscono comeè nato e cresciuto in Ucraina il culto di Ste-pan Bandera. I polacchi vedono Banderasoltanto come simbolo del massacro dellapopolazione polacca in Volinia. Invece pergli ucraini Bandera è simbolo della resi-stenza antisovietica, e finché i polacchi nonlo capiranno il problema rimarrà. I polacchinon vogliono sentire parlare del fatto chelui era stato prigioniero a Sachsenhausen.C’è un nazionalismo polacco molto cieco.Ma un nazionalismo altrettanto cieco lo ri-scontriamo anche dall’altra parte, cioè inUcraina. Tuttavia io preferisco parlare del

nazionalismo del mio paese, e la critica delnazionalismo ucraino la lascio ai miei colle-ghi, ai miei compagni ucraini. Molti anni faho chiesto a uno dei miei amici russi, ungrande scrittore: “Andrei, dov’era la diffe-renza tra te e Solzenicyn?”, e lui: “La diffe-renza sta in una cosa sola. A me mi puzza lamerda mia, e a lui gli puzza la merda mia!”.Io ritengo che il mio dovere è fare i conti conla merda polacca, non con quella ucraina.Quella ucraina la lascio agli ucraini.

Dal pubblico. Può spiegare chi era Bandera?Michnik. Prima della guerra era un grandeleader del movimento nazionalista ucraino,che però era attivo principalmente nel ter-ritorio polacco, ex polacco, parliamo diquando la Polonia “aveva” una parte del-l’Ucraina. Dal punto di vista ucraino, orametto gli occhiali ucraini: gli ucraini nellaPolonia prebellica si sentivano come citta-dini di terza categoria. Non avevano paridiritti nell’istruzione, nelle università, e leloro istituzioni venivano regolarmente di-scriminate. Quindi si è creato un campo,una frazione nazionalista, che diceva: “Faretrattative con i polacchi non porta a nulla,bisogna usare violenza”. E hanno comincia-to a sparare. Sia agli ucraini che volevanotrovare un’intesa con i polacchi come airappresentanti del potere del regime polac-co. Ovviamente ai polacchi non piacevamolto. E quindi Bandera è un’icona del fa-scismo ucraino. Ma il dramma ucraino sta-va nel fatto che il loro unico alleato possibi-le erano i tedeschi e invece i tedeschi ave-vano come duce Hitler. In questo fatto vedola tragedia ucraina. E secondo me andreb-bero aiutati a uscirne. E quindi spiego aipolacchi che ognuno, ogni popolo, ogni na-zione ha la sua storia. Nella più grandepiazza di Varsavia al centro c’è la statua diRoman Dmowski che era l’ideologo nazio-nalista della democrazia nazionale e del-l’antisemitismo polacco. Questo vuol direche tutti i polacchi sono antisemiti? MaDmowski oltre al fatto che era antisemita,ha svolto anche un ruolo fondamentale nel-la storia polacca durante il trattato di Var-savia. Abbiamo quindi una storia comples-sa, noi polacchi, e gli ucraini pure! Il passa-to non lo possiamo mutare, non possiamorenderlo migliore. Invece il futuro sì! Macerto non con Kaczynski! Dal pubblico. Può dare un giudizio su Jaru-zelski?Bah! Io sono stato prigioniero di Jaruzelski.E poi, dopo la trasformazione del paese sia-mo diventati dei buoni conoscenti. Ci siamoincontrati più volte, ho parlato con lui spes-so. Io credo che Jaruzelski nel ’45-46, quin-di nell’immediato dopoguerra, fosse giuntoalla conclusione che l’unica forma politica

che la Polonia poteva avere, che era possi-bile in quel periodo, era quella di una Polo-nia pro-sovietica. È andato nell’esercito, se-guendo un ragionamento che diceva: qual-siasi cosa accada, dell’esercito la Poloniaavrà sempre bisogno. Però far parte di unesercito comunista, ovviamente, non erauna passeggiata sul corso, voleva dire con-dividere tutte le schifezze comuniste e pa-garne le conseguenze. Credo che il suo rap-porto, il suo atteggiamento nei confrontidella Russia fosse questo: noi abbiamo biso-gno della Russia perché garantisce i nostriconfini occidentali, ma se cominciamo a ri-bellarci avremo a Varsavia Budapest o Pra-ga, cioè le truppe del patto di Varsavia.Quindi aveva la consapevolezza che biso-gnava collaborare con i russi ma aveva an-che la consapevolezza che andassero temu-ti. Nell’89, quando ha visto che l’Urss diGorbaciov stava allargando i margini dellepossibilità di certe autonomie, lui ha subitosfruttato il momento. Senza Jaruzelski nonsaremmo usciti in un modo così pacifico dalcomunismo. La Polonia è stata la prima, glialtri sono arrivati dopo. Quindi quello dellatavola rotonda con gli accordi dell’89 è unsuccesso comune, che condividiamo, non so-lo di Walesa, ma di Walesa e Jaruselski. Esono felice di aver contribuito in parte aquesta cosa. Poi più volte mi è successo di difendere Ja-ruzelski, perché ritenevo che fosse una cosascandalosa firmare un accordo con qualcunodurante la tavola rotonda, e poi, dopo, met-terlo sul banco degli accusati. Ovviamente,invece, l’estrema desta polacca ha fatto diJaruzelski un bersaglio. Durante il suo fu-nerale ci sono stati degli episodi molto tristi,con fischi e aggressioni. Ho trovato quelcomportamento obbrobrioso, indegno. Dal pubblico. La storia spesso è raccontataper screditare gli avversari politici…Michnik. Beh, certo. La storia può esser unbastone che aiuta a muoversi, a cammina-re, e può invece essere un bastone da base-ball per dare mazzate sulla testa dell’avver-sario politico. Questo uso politico della sto-ria è noto sia nella storiografia nazista chenella storiografia bolscevica e comunista.Proprio per questo gli storici sono portatoridi una responsabilità tutta particolare.Hanno il dovere di difendere la verità. Nonsempre sanno scoprirla, svelarla, ma sem-pre possono e devono evitare la menzognaconsapevole. Un grande poeta polacco, An-toni Słonimski, per il quale ho lavorato eche chiamavo capo, mi dava un consiglioche va bene anche per gli storici. Mi diceva:“Adam, se in qualche situazione non avraitutte le informazioni di cui hai bisogno, nonavrai la chiarezza assoluta, non saprai tut-to, e non saprai come comportarti, vista lasituazione, allora, per ogni evenienza, com-portati come un uomo dabbene”.

(traduzione di Ludmila Ryba)

la storia può essere un bastoneche aiuta a camminare

o un bastone per dare mazzatesulla testa dell’avversario politico

d’Europa

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hearth and mind

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Con l’implosione della campagna presiden-ziale di Donald Trump non sono necessarielunghe argomentazioni circa la scelta tra Hil-lary Clinton e il suo avversario proto-fascista.Lei è una spietata politica neo-liberal di gran-de eleganza e raffinatezza mentre Trump èun bullo, un bugiardo e una minaccia per letradizioni democratiche americane. Hillary èun’erudita ed è sempre ben preparata, Trumpinvece è inaffidabile e risponde a istinto, sen-za pensare. Hillary ha servito il suo paese co-me First Lady, come Senatrice e come Se-gretario di Stato. Trump è un imbonitore natoe vissuto con la pappa pronta, che ha dichia-rato bancarotta sei volte, ha ingannato i pic-coli investitori, è a favore del diritto a portarearmi senza restrizioni, della deregulation e hatradito Atlantic City. La scelta del giudice dellaCorte suprema da parte di Hillary permetteràsenz’altro di sostenere la parità negli stipenditra uomo e donna, il diritto di scelta delle don-ne, le libertà civili e permetterà un attacco aCitizen United (la sentenza che permette il fi-nanziamento illimitato da parte di privati e so-cietà private ai partiti). L’amministrazione Hil-lary darà fondi a Planned parenthood, limiteràla vendita di armi, e inserirà un po’ di civiltà inun ambiente polarizzato. C’è anche un’impor-tanza simbolica nell’eleggere una donna perla carica più alta in particolare quando unsessista senza ritegno rappresenterà i peg-giori elementi del sistema di governo ameri-cano all’indomani dell’elezione. Anche soloqueste differenze sono sufficienti a fornireuna valida ragione a chiunque sia razionaleper votare Hillary.

Non ci sono dubbi: la sfida alle primarie traHillary Clinton e Bernie Sanders era truccata.L’ex dirigente in capo Debbie WassermanSchultz e il Democratic National Committeenon erano imparziali. Hillary è stata ancheaiutata da grandi media liberal di importanzacome la Cnn e Msnbc e dai commentatoriprogressisti che, ora pieni di indignazione,adulavano Wasserman Schultz nei suoi ap-parentemente infiniti interventi come ospite.Aggiungeteci la disparità tra i contributi finan-ziari da parte dei donatori “d’élite” e i più di400 delegati che hanno appoggiato Hillaryancora prima di cominciare le primarie e ca-pirete che era come se Bernie avesse dovutovincere una partita di baseball già in svantag-gio 6-0 ancora prima che venisse lanciata laprima palla. Sin dall’inizio Hillary ha beneficia-to delle tattiche organizzative anti-democrati-che e dello squilibrio strutturale di influenza edi potere che hanno favorito il candidato prin-cipale del partito Democratico.

La maggior parte dei progressisti sa bene chele elezioni sono sempre una scelta tra “il mi-nore dei due mali”. Ma rimangono abbastan-za sostenitori di Bernie arrabbiati, depressiper la sua sconfitta, che sembrano non volersporcare i loro principi radicali anche se il lororifiuto di votare può solo dare forza a qualsia-si residua legittimazione Trump e la sua “de-stra alternativa” possano avere. Cosa farà

Hillary se vincerà? Rappresenta l’ala di de-stra dell’amministrazione Obama che ha so-stenuto i trattati di libero scambio internazio-nale come il Nafta (North American Free Tra-de Agreement) e il Tpp (Trans-Pacific Par-tnership). Non ci sono ragioni per pensareche cambi marcia. Guadagnare un vantaggiocompetitivo sul mercato libero internazionalesignifica abbassare il costo della manodoperae ridurre i programmi di welfare. Hillary ha fat-to diverse concessioni ai sostenitori di Berniee ha stilato con lui il programma di partito. Mail sospetto è fondato. Dopo tutto, quando erapresidente, Bill Clinton dichiarò che avrebbe“eliminato il welfare per come lo conosciamo”.

Hillary viene legittimamente rappresentatacome un “falco liberal”. L’ossessione per lesue e-mail mentre era Segretario di Stato ogli attacchi oltraggiosi sul suo ruolo nel falli-mento di Bengasi distraggono da cose benpiù importanti. Hillary è acritica nei confrontidella Nato e non sembra aver imparato nulladalla guerra in Iraq e dal suo “errore” nel so-stenerla. L’impegno di Hillary per un cambiodi regime in Libia ha portato alla disintegra-zione di uno stato sovrano, a conflitti ancorain atto tra tribù guerriere, alla diffusione degliestremisti fuori dal confine e all’aumento del-l’instabilità regionale. Ha chiesto un aumentodei bombardamenti a supporto della divisa edinefficace opposizione Siriana, di aumentarea presenza militare americana in Iraq e so-stiene una “no fly zone” che non può funzio-nare (e potenzialmente esplosiva). La sua po-sizione nei confronti di Israele è certamentemeno critica di quella del Presidente Obama.Sì certo, ha sostenuto e protetto i diritti umani.Ma questo non deve trarre in inganno: i dirittiumani servono principalmente ai falchi liberalcome copertura per le loro strategie interven-tiste. Gli entusiasti di Hillary in particolare do-vrebbero informarsi sul lato oscuro delle suepolitiche piuttosto che proteggerla dogmatica-mente dalle critiche.

Il presidente Obama ha colto nel segno nelsuo discorso alla convention prendendo dimira Trump con la frase: “Non fischiatelo! Vo-tate!”. Ma dovremmo sapere a cosa ci stiamoavviando. E la nostra posizione dovrà cam-biare il giorno dopo le elezioni. Quelli che nonsono seguaci entusiastici del partito Demo-cratico si troveranno senz’altro estraniati.Presto riconosceranno la necessità di scen-dere in strada e protestare. Non meno delmarito, Hillary tende ad utilizzare una strate-gia di “triangolazione” che mira a quello che iliberali hanno chiamato “il centro vitale”. Lastrategia funziona così: Trump è contrarioall’aumento dello stipendio minimo; BernieSanders propone di portarlo a 15$ l’ora; e poic’è Hillary che mira ai 12$ dollari per ora. IRepubblicani non hanno molto da dire sull’ar-gomento del debito degli studenti; Bernie por-ta avanti una battaglia per un’educazione li-bera nelle università pubbliche; e Hillary pro-pone una educazione “senza debiti”. Hillaryha trasformato il compromesso in un principio

e concettualmente rinuncia alla strategia perla tattica. Nel corso dei quattro anni, la volon-tà di Hillary a sostenere proposte radicali di-penderà molto meno dal fatto di essere unapersona di valore o una femminista quantopiuttosto da quanta pressione sapranno eser-citare i movimenti sociali e non-governativiper farle fare le riforme.

I movimenti americani nascono quando i De-mocratici sono al governo. Fioriscono più fa-cilmente con amministrazioni liberal piuttostoche con amministrazioni dichiaratamente didestra. Questo si è verificato anche con ilPresidente Obama. Le marce di solidarietàagli immigrati hanno avuto un importante im-patto politico. Così come è stato per OccupyWall Street, e per Livable Wage e Black LivesMatter. Visto che lei rappresenta l’ala destradell’amministrazione Obama e ha meno debi-ti di riconoscenza con la parte più di sinistradel partito, Hillary sarà probabilmente più dif-ficile da influenzare. Ma questo è solo un mo-tivo ulteriore per sostenere gli insorti di Bernienel loro tentativo di creare una struttura orga-nizzativa “Our Revolution” (www.ourrevolu-tion.com). Forse potrebbe funzionare come ilPoor People Movement della fine degli anniSessanta con un piede dentro e un piede fuo-ri dal Partito Democratico. Forse invece pren-derà una strada completamente diversa.

Il tempo ci dirà se “our revolution” saprà so-stenersi. Bernie è rimasto relativamente tran-quillo nel corso della campagna presidenzialee si è attenuto ai suoi temi più classici. C’è unpo’ l’idea che il movimento sia in attesa. Maha portato centinaia di migliaia di personedentro il processo politico e ha dato al PartitoDemocratico la piattaforma più radicale dellasua storia. Chi avrebbe pensato che “Feel theBern” fosse una cosa possibile? Per decennici è stato detto che usare l’etichetta di socia-lista e parlare di classi era un suicidio politicoCome sempre i “pragmatici” non solo aveva-no torto ma erano anche lontani dalla realtà.Tredici milioni di persone sono state ispirateda un messaggio diverso e radicale. Quandosono cominciate le primarie presidenziali, ar-gomenti come le tasse universitarie gratuitenelle università pubbliche, la riduzione del po-tere della banche, l’assicurazione sanitariapubblica, lo stipendio minimo a 15$ e un di-verso sistema di tassazione, erano conside-rati dai media principali come “inapplicabili”,“insostenibili” e “utopistici”. Non più. Le con-cessioni ai ribelli sono già state fatte dall’esta-blishment democratico e, dopo la vittoria diHillary, i radicali dovranno tenere alta la pres-sione. Naturalmente, può sempre succederequalcosa di drammatico che cambi gli obietti-vi (non ultimo, un improbabile trionfo diTrump). I Repubblicani saranno a pezzi ma èsciocco credere che la destra alternativascomparirà. Esiste un solo modo di porsi dalpunto di vista politico che abbia un senso peri progressisti nei confronti del Partito Demo-cratico: solidarietà critica.

(traduzione a cura di Andrea Furlanetto)

La nostra Hillary di Stephen Eric Bronner

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IL REFERENDUM

Personalmente ritengo sbagliato e inaccet-tabile che il referendum sulla riforma costi-tuzionale, previsto ormai per il prossimo 4dicembre 2016, venga tramutato in una sor-ta di plebiscito a favore o contro il Presiden-te del consiglio Renzi e il suo Governo. Qua-lunque sia il giudizio che si abbia nei con-fronti del Governo Renzi -che può essere po-sitivo o negativo o anche articolato rispettoai singoli provvedimenti del suo program-ma- nel referendum deve prevalere esclusi-vamente il giudizio sull’insieme della rifor-ma costituzionale. Intendo quindi esprimer-mi soltanto sulla materia costituzionale, esulla connessa (anche se non sottoposta areferendum) legge elettorale per la Cameradei deputati (il cosiddetto “Italicum”), chene costituisce il logico completamento. Una riforma costituzionale non deve mai es-sere legata alle sorti di alcun Governo “protempore”, perché la Costituzione, anche seriformabile e riformata (alle riforme prece-denti ho partecipato io stesso), è la leggefondamentale che riguarda tutti i cittadinie anche tutte le forze politiche, a prescinde-re dalle transeunti maggioranze che sosten-gono di volta in volta uno specifico governo.E deve avere la capacità e possibilità di unalunga durata e validità, al di là delle singolecontingenze politiche. Il popolo sovrano si ègià pronunciato due volte con un referen-dum su complesse riforme costituzionali: laprima volta nel 2001 approvando la riformadel Titolo V del centrosinistra (che ora inve-ce si vuole stravolgere) e la seconda nel2006, bocciando la riforma Berlusconi-Cal-deroli. Nessuna ripercussione sui governi.Per quanto riguarda la riforma elettorale,entrata in vigore il 1° luglio 2016, essa èstrettamente connessa alla riforma costitu-zionale, pur se attualmente non sottopostaa referendum, mentre successivamente sa-rà sottoposta al giudizio della Corte costitu-zionale, anche alla luce della sentenza n. 1del 2014 sulla incostituzionalità di alcuniaspetti essenziali della precedente leggeelettorale (il cosiddetto “Porcellum”). Pensoche si tratti di una legge inaccettabile sottodiversi profili. In particolare ritengo sba-gliato: 1) che il premio di maggioranza pos-sa essere dato anche a chi non ha raggiuntoil 50% dei voti espressi, che permetterà diottenere il premio di maggioranza anchesulla base del consenso di una ristretta mi-noranza di elettori (nell’attuale sistema tri-

RAGIONI DI MERITO PER UN NOdi Marco Boato

A seguire le interviste a Lorenza Carlassare, per il no, e a Michele Salvati, per il sì.

discussioni

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polare e con i crescenti tassi di assentei-smo, potrebbe realisticamente trattarsianche solo del 20-25% degli aventi dirittoal voto); 2) che sia esclusa la possibilità diformare coalizioni, come invece è previstosia per le elezioni regionali che per le ele-zioni comunali, senza che questo abbiacomportato problemi di governabilità,permettendo anzi una più ampia rappre-sentatività e un più ampio pluralismo siatra le forze di governo che tra quelle diopposizione; 3) che siano previsti i capili-sta bloccati decisi dalle segreterie deipartiti, senza possibilità per gli elettori diesprimere su di loro il voto di preferenza,e che per di più sia prevista per i capilistala possibilità di candidature plurime (finoa dieci!), mettendo in questo modo esclu-sivamente nelle mani dei segretari di cia-scun partito la scelta verticistica e auto-cratica degli eletti, espropriando gli elet-tori di ogni possibilità di scelta e ritor-nando a realizzare conseguentementeuna Camera dei deputati in grande pre-valenza di “nominati” e non di eletti; 4)che tutto questo comporti di fatto unamodificazione surrettizia della forma diGoverno, espropriando sostanzialmenteil Presidente della Repubblica del potereeffettivo di nominare il Presidente delConsiglio incaricato, come previsto dallaCostituzione, arrivando invece ad unasorta di “democrazia di investitura” ob-bligata sulla base dei risultati elettorali. Per quanto riguarda la riforma costitu-zionale, un giudizio analitico può faremergere sia luci che ombre, ma comples-sivamente si tratta di una riforma noncondivisibile per il suo impianto comples-sivo. Tra gli aspetti positivi possono esse-re citati, ad esempio, la più rigorosa disci-plina della decretazione d’urgenza (infla-zionata in modo crescente anno dopo an-no e ormai giunta, proprio con Renzi, a li-velli inaccettabili) e la soppressione delCnel, organismo ormai totalmente obso-leto. Tuttavia entrambi gli obiettiviavrebbero potuto essere raggiunti consingole leggi costituzionali “ad hoc”, nellalogica dell’art. 138, che avrebbero reali-sticamente trovato il consenso della quasitotalità del Parlamento. E comunque, incaso di vittoria dei No nel referendum,potranno essere realizzati nel prossimofuturo appunto con singoli provvedimentidi natura costituzionale, anche nell’ambi-to temporale dell’attuale legislatura.Tuttavia le ombre e gli aspetti critici del-la riforma prevalgono nettamente sui po-chi aspetti positivi. Il superamento del bi-cameralismo perfetto o paritario, obietti-vo pur condivisibile, è stato realizzato inmodo confuso e pasticciato, sotto il profilosia della composizione del futuro Senato,sia delle sue competenze legislative e delsuo rapporto con la Camera dei deputati

e con il Governo. Appaiono inaccettabili econtradditorie tanto le modalità di elezio-ne indiretta, del resto demandate ad unafutura legge ordinaria di cui non si cono-scono le caratteristiche, quanto la suaambigua natura politica, priva di effetti-va rappresentanza territoriale. Per quanto riguarda l’altro fondamentaleaspetto della riforma, e cioè la modificadel Titolo V in materia di autonomie re-gionali, anziché individuare alcune limi-tate e specifiche correzioni rispetto allariforma introdotta nel 2001 e confermatadal referendum popolare -ad esempio inmateria di infrastrutture nazionali, dienergia e di turismo-, si è scelta la stradadi un totale stravolgimento dell’impiantoprecedente. Anziché arrivare ad una for-ma di federalismo o di regionalismo benarticolato ed equilibrato, si è arrivati aduna vera “controriforma” con una fortis-sima ricentralizzazione dei poteri in capoallo Stato, svuotando di poteri, competen-ze e responsabilità il sistema delle Regio-

ni a Statuto ordinario, congelando invecegli effetti della riforma stessa per quantoriguarda le cinque Regioni a Statuto spe-ciale. Inoltre la riforma costituzionale tri-plica le firme necessarie per le leggi diiniziativa popolare e riduce il quorum divalidità per i referendum popolari solo aprezzo di un forte aumento (da 500.000 a800.000) delle firme necessarie per la loropromozione, a fronte delle enormi difficol-tà per la certificazione delle firme dei cit-tadini.Complessivamente, il combinato dispostodella riforma costituzionale e della com-plementare legge elettorale darebbe vitaad un assetto costituzionale e istituziona-le fortemente squilibrato sul lato dellapresunta “governabilità”, a scapito dellaaltrettanto essenziale -e fondamentale indemocrazia- rappresentatività. Non saràla campagna demagogica e populista suicosti della politica a poter strumental-mente coprire gli squilibri politici e isti-tuzionali, il surrettizio cambiamento del-la forma di Stato e della forma di Gover-no, le incoerenze e le numerose complica-zioni del procedimento legislativo (basti

leggere l’incredibile nuovo art.70), le ri-percussioni negative sul sistema delle ga-ranzie costituzionali e dei “pesi e contrap-pesi”. Garanzie che dovrebbero semprecaratterizzare una autentica democraziapolitica e costituzionale, quali erano statedelineate dal disegno dei padri (e madri)costituenti nella Costituzione vigente.Qualche settimana fa Renzi ha senten-ziato: “In questo referendum si tratta diridurre le poltrone. Punto!”. Sinceramen-te mi sono vergognato per lui e anche peri cittadini italiani che sono invitati a vo-tare con questa demagogia.Per tutti questi motivi, ritengo necessariosostenere il No nel referendum costitu-zionale. D’altra parte, il Presidente delconsiglio Renzi, e con lui la Ministra Bo-schi, sbagliano radicalmente nel metteresullo stesso piano l’esito del referendume le sorti del Governo. Se il Governo do-vesse dimettersi, sarebbe per sua autono-ma e discutibile scelta, non per la volontàdegli elettori, che sono chiamati a pro-

nunciarsi sul merito della riforma costi-tuzionale e non sulla ipotizzata sconfittadel Governo. In ogni caso, se per propriadecisione cadesse il Governo Renzi, nonci sarà alcun obbligo o automatismo discioglimento delle Camere, essendo que-sta una esclusiva responsabilità del Pre-sidente della Repubblica. Il quale, perdettato costituzionale, dovrà eventual-mente o rinviare l’attuale Governo alleCamere o, dopo opportune consultazioniparlamentari, individuare un altro Presi-dente del consiglio. Se prevarranno i No,è falso inoltre affermare che si chiuderàil capitolo delle riforme. Un capitolo chesi potrà invece tempestivamente riapriregià in questa legislatura, sia per quantoriguarda le leggi elettorali per la Camerae il Senato, sia con singole modifiche co-stituzionali per le parti più largamentecondivise. E, nella prossima legislatura,con un Parlamento più democraticamen-te legittimato rispetto a quello espressodal “Porcellum”, con la capacità di elabo-rare una riforma più equilibrata, più con-divisa e più largamente partecipata.

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Lorenza Carlassare, giurista e costituziona-lista, è professoressa emerita di diritto costi-tuzionale all'Università degli Studi di Pa-dova, dove vive.

Per molti di coloro che si battono peril no la riforma costituzionale insiemealla riforma elettorale fa parte di ununico disegno. Lei cosa pensa? Certamente sono due cose intrecciate. Tem-po fa avevo scritto che il primo, reale obiet-tivo era la riforma elettorale, tant’è veroche l’hanno voluta approvare per primaperché altrimenti la riforma costituzionalenon avrebbe realizzato lo stesso effetto chei suoi proponenti volevano ottenere. È l’in-treccio delle due che rivela una filosofiacomplessiva molto semplice: restringere lasfera di partecipazione. Da molti anni sicerca di verticalizzare il potere e di toglieredalla scena istituzionale le voci minoritariee quelle che esprimono i bisogni sociali checostano. Non si vuole che queste domandesociali riescano ad arrivare alle istituzioni,che possano avere voce e trovare ascoltosottraendo risorse agli interessi consolidati.Proprio a questo serve un sistema elettora-le che artificialmente, attraverso il premio,trasformi in maggioranza assoluta una for-za politica, la quale, posta in posizione do-minante, renda ininfluenti tutte le altre,soffocando la molteplicità delle voci. La con-troversia tra la Fiat e la Fiom, dove si è tol-ta perfino la rappresentanza in fabbrica auna delle più importanti associazioni sinda-cali è un esempio chiaro! Per fortuna laFiom ha fatto ricorso alla Corte costituzio-nale che ha dichiarato illegittima quel-l’esclusione. Mi chiedo: se in Parlamento cifosse stata una voce che si fosse levata a di-fesa di questi operai così vilipesi in una Re-pubblica che per Costituzione, ricordiamolo,dovrebbe essere fondata sul lavoro (art.1),forse anche la dirigenza Marchionne nonavrebbe avuto il coraggio di spingersi cosìavanti. La verità è che nessuno li ha difesi:in Parlamento quegli interessi erano prividi rappresentanza!Il disegno è togliere rappresentanza agli in-teressi che confliggono con quelli consolida-ti, interessi complessi più o meno identifi-

cabili da sempre tutelati, che certamentenon sono gli interessi della maggioranzadelle persone. Ma perché la riforma del bicamerali-smo andrebbe in questo senso?Perché il Senato sarebbe una camera sot-tratta al voto popolare, del tutto manipola-bile. Nel disegno che vedo io, il senso del-l’operazione si capisce benissimo; altrimen-ti, qualcuno mi sa dire cosa sarà questo Se-nato? Chi rappresenta? Nel testo della Ri-forma è scritto che i senatori rappresentanole istituzioni territoriali, ma è un falso. Nonrappresentano i cittadini di quei territori,dai quali non sono eletti. Come sono eletti?Vengono scelti dai consiglieri regionali alloro interno, dai consiglieri che si votano fraloro. Dato il numero esiguo di senatori daeleggere in ciascuna Regione (in alcune Re-gioni saranno solo due) si capisce quale sa-rà il criterio con cui si eleggeranno: un cri-terio di ripartizione politica. Oltre ai consi-glieri regionali, nel nuovo Senato ci sonoanche i sindaci. Al che ci si potrebbe ralle-grare: ci sono i sindaci, uno per regione, chebellezza, sono rappresentati anche i comu-ni! No! Perché non solo questi sindaci nonsono eletti dai comuni, né dal popolo dei co-muni, ma sempre dai consiglieri regionali.A che titolo?

Quindi il tutto ha anche dei caratteri irra-zionali. Ancora più irrazionale il fatto chese rappresentano le istituzioni territoriali,dovrebbero portare in Senato la voce di que-ste istituzioni, la voce dei vari territori, in-vece è scritto espressamente nella riformache anche i senatori eserciteranno le lorofunzioni senza vincolo di mandato così co-me i deputati. Ma questi rappresentano lanazione intera, non delle frazioni come in-vece i senatori i quali, se rappresentano leistituzioni territoriali dovrebbero parlarecon una voce sola, a nome dell’istituzioneregionale. Invece no, rimane loro evidente-mente libertà di voto. Si riprodurrà quindila logica partitica, avremo una piccola ca-

mera formata da persone fidate perché scel-te dalle segreterie dei partiti e a queste,non agli elettori o ai Consigli regionali, inuovi senatori risponderanno. Ecco allora che il disegno diventa più chia-ro: è un disegno di verticalizzazione, di sof-focamento delle voci, di manipolazione degliorgani costituzionali, in modo da poterlicontrollare. Ma questo senato avrà poi funzionimolto importanti?Sì, infatti. A un senato così mal costruitohanno attribuito funzioni molto importanti,mentre continuano a dire che il senato fa-rebbe molto poco, e dunque ha poca impor-tanza discutere di come viene eletto. Impor-ta moltissimo invece, perché ha molte im-portanti funzioni costituzionali. Intantopuò intervenire su qualunque legge; ognilegge approvata dalla Camera dev’essereportata al Senato, che può non fare niente,tacere, e allora la legge va, ma può ancheproporre modifiche, e allora la legge tornaalla Camera e si prevedono una varietà dipercorsi, basta leggere due articoli, l’art. 70e il 72 ( che contiene, fra l’altro vari rinviiad altri articoli, il che lo rende ancor menochiaro): alcune volte il testo rinviato dovràessere riapprovato dalla Camera addirittu-ra con maggioranza assoluta, altre volte, in-vece, dal Senato: una complicazione a dirpoco incredibile. Va sottolineato che alcunematerie restano di competenza di entrambele camere, così come ora: continua il bica-meralismo paritario per le leggi di revisionedella Costituzione, per le leggi in materia direferendum, sull’elezione degli stessi consi-glieri regionali, oltre a leggi che riguardanoi rapporti con l’Unione Europea. Ci si rendeben conto dell’importanza della cosa, perchéoggi quelle sono norme fondamentali. E suqueste avranno voce i senatori nominati inquel modo. Quindi, lei dice, aumenterà molto an-che la complicazione… Di certo non è una semplificazione. Prendail caso che una legge non tratti una materiasola, ma due, una delle quali di competenzapure del Senato. Allora in quei casi, cosa sifa? Potranno sorgere conflitti fra le due ca-mere, con il Senato che rivendicherà il di-

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si riprodurrà quindi la logicapartitica, con una piccola cameraformata da persone fidate perchéscelte dalle segreterie dei partiti

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NON HA SENSO?O, PURTROPPO, LO HAIl combinato riforma costituzionale-legge elettorale teso ad accentrare il potere sull’esecutivo e arendere manipolabili gli organi di garanzia; un senato che non si sa cosa rappresenterà, nominatoper ripartizione partitica, ma che avrà funzioni molto importanti; una legge elettorale che vuol fardiventare maggioranza chi non lo è e che permetterà l’elezione diretta del capo del governo;l’esempio della legge truffa del ’53, niente in confronto a questa. Intervista a Lorenza Carlassare.

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ritto di dire la sua, oppure invocherà l’obbli-go di un’approvazione a maggioranza asso-luta. Attenzione, non è un’eventualità im-maginaria: è la stessa riforma a prevedereil sorgere di conflitti fra le due camere. Ecosa propone? Che a risolverli siano i duepresidenti “d’accordo fra loro”. Il che apreun bel problemino nel caso in cui l’accordofra i due non ci sia. Cosa si fa? Si va allaCorte costituzionale? Ci rendiamo conto dicosa può succedere nel corso del procedi-mento? E parliamo di semplificazione?Piuttosto sembra un grande pasticcio! C’è poi un altro interrogativo: chi sarà inmaggioranza in un simile senato? Potrebbe-ro essere i senatori della lista che ha lamaggioranza nella maggior parte delle re-gioni, e quindi potrebbe risultare un senatomolto omogeneo alla maggioranza parla-mentare: di nuovo un doppione inutile.Mettiamo, però, che il Senato risulti diver-so, allora i conflitti diventerebbero dram-matici e paralizzanti. Insomma, credo chepeggio di così non si potesse fare. Lo diconodel resto gli stessi sostenitori del sì.Quindi una riforma confusionaria. Malei parla del rischio di manipolazionedegli organi di garanzia…Certo. Hanno modificato l’elezione dei giu-dici della corte costituzionale, che oggi, co-me sappiamo, sono quindici: cinque elettidal parlamento in seduta comune, cinquedalle supreme magistrature e cinque nomi-nati dal Presidente della Repubblica chedovrebbe essere super partes, quindi do-vrebbe individuare persone competentisenza tener conto delle appartenenze poli-tiche. Adesso cosa si fa? I cinque che eleg-geva il parlamento in seduta comune, sa-ranno eletti separatamente: tre dalla Ca-mera dei deputati composta da oltre seicen-to persone, e due dal Senato che conta centomembri.

È evidente che si accentua il potere del se-nato; un senato nominato eleggerà duemembri della corte che su quindici non sonopochi e potranno essere decisivi spostandogli equilibri delicati esistenti al suo interno. L’altro organo di garanzia toccato dalla ri-forma è il Presidente della Repubblica che,come dicevo, dev’essere superpartes e, dun-que, non dev’essere riconducibile ad alcuno;la Costituzione prevede un procedimento dielezione concepito in modo da svincolarlo daogni parte politica. La sua elezione avvienea voto segreto perché nessuno sappia chi loha votato; non si possono presentare candi-dature ufficiali; non c’è dibattito in Parla-mento, si vota in silenzio senza dichiarazio-ni di voto. E soprattutto si richiedono mag-gioranze elevate affinché l’elezione sia an-

che frutto di incontri e, alla fine, dopo diver-si tentativi, si trovi una persona su cui iparlamentari concordano: nelle prime trevotazioni è necessaria una maggioranza didue terzi dei componenti dell’assemblea(Camera e Senato riuniti insieme), dallaquarta è necessaria la maggioranza assolu-ta dei componenti ( 50+1 di tutti i parla-mentari). Secondo i suoi sostenitori, con lariforma si aumentano le garanzie perchédopo la terza votazione viene richiesta nonpiù la maggioranza assoluta, ma i tre quintidei componenti, e, dopo la settima, i trequinti dei votanti: il che fa una bella diffe-renza! Gli assenti, o coloro che non votanoper protesta non si contano. È una maggio-ranza molto bassa, altro che aumento dellegaranzie! Anche tenendo conto del numerolegale minimo di presenze richiesto per lavalidità delle delibere, in definitiva baste-ranno poco più di duecento voti per eleggereil Capo dello Stato. Ma c’è qualcosa di positivo in mezzo aquesta marea di articoli?Certo, ci sono anche delle norme del tuttoaccettabili; ad esempio che la mozione disfiducia al governo parta solo dalla Cameradei deputati e non anche dal Senato, unacosa che trova tutti concordi. Ma bastavauna sola norma che lo dicesse. Vogliamoabolire il Cnel? Bastava una sola norma perabolirlo. Queste sono cose comprensibili,ma è ridicolo che per non voler il bicamera-lismo paritario e introdurre una differen-ziazione fra le camere si debbano modifica-re oltre quaranta articoli cambiando il sen-so della Costituzione. Si è detto anche che andiamo verso un“premierato”...La preminenza del governo c’è già nella ri-forma costituzionale: viene introdotta lapossibilità di intervenire sull’agenda parla-mentare con la norma dell’approvazione adata certa; poi con il ruolo del Presidentedella Repubblica che si indebolisce, diven-tando il presidente della maggioranza, èchiaro che di converso la figura del Presi-dente del Consiglio diventa ancora più libe-ra e potente. Già questo è chiaro, ma il veroproblema si sposta sulla legge elettorale,perché è lì che noi vediamo il rischio auto-ritario. È davvero una legge pericolosa cheil governo ha voluto fermamente; ha messodue volte la fiducia per farla approvare,tanto la considerava essenziale! Si trattavadi sostituire la legge, giustamente chiamata“Porcellum”, in base alla quale gli attualiparlamentari sono stati eletti, che la Cortecostituzionale nel 2014 aveva annullato,una legge che faceva comodo, tanto è veroche la nuova legge elettorale -denominataItalicum- sostanzialmente la riproduce.Non dimentichiamo che la maggioranza cheha consentito di votare quest’ultima legge èstata eletta grazie a quel premio di maggio-ranza elargito da una legge che la Corte ha

dichiarato illegittima anche per il premioper il quale non era prevista una soglia. Co-sa hanno fatto allora? Nell’Italicum hannomesso una soglia del 40%, per ottenere ilpremio. Ma è una falsa soglia. Infatti, senessuno ottiene il 40%, le due liste più vo-tate, con il nome del capo, vanno al ballot-taggio, qualunque numero di voti abbianoottenuto. Non c’è una soglia per il ballottag-gio. Anche se una lista avesse raggiunto il21% e l’altra il 20% andrebbero al ballottag-gio: una delle due vincerebbe per forza. Ca-pisce che è illegittimo?

Con una percentuale così bassa, una mino-ranza -trasformata in maggioranza grazieal premio- avrebbe il totale dominio delleistituzioni. Va aggiunto che con l’indicazio-ne del capolista, che sarà poi il presidentedel consiglio, si cambia anche la forma digoverno perché oggi è il Presidente dellaRepubblica che sceglie il Presidente delConsiglio, dopo aver consultato le forze po-litiche. Non solo, ma l’indicazione del “capo”trasforma l’elezione della Camera nell’ele-zione del primo ministro, la riduce ad unacompetizione a due, personalizzata, il cherafforza il vincitore che potrà dire di esserestato eletto direttamente dal popolo. Fortedi una simile legittimazione popolare chi lofermerà, non essendo rafforzati gli organi digaranzia? Non si sono aggiunte garanzie, anzi si tol-gono. Si rinvia al regolamento della Came-ra lo statuto delle minoranze. Lo si rinviaad altre norme che potranno esserci oppureno: il regolamento lo farà una camera elettacon questa legge elettorale, quindi sarà lamaggioranza artificialmente prodotta dal‘premio’ a fare lo statuto della minoranza.Lei capisce che questo non ha senso?O piuttosto, purtroppo lo ha.Si dice che siamo a un passo dal presi-denzialismo...Ma non è così. Qualcuno parla del sistemapresidenziale degli Stati Uniti dimentican-do che a fronte dei forti poteri del Presiden-te stanno i poteri del Congresso, non menoforti e quelli della Magistratura indipen-dente. La separazione dei poteri, non l’ac-centramento, è la regola base di poteri chesi bilanciano e si limitano a vicenda. Il Con-gresso deve approvargli le spese e deve ap-provargli le leggi, altrimenti il Presidente èparalizzato! Quello è il presidenzialismo, cosa ben diver-sa dal sistema di concentrazione del potereche esce dalle nostre riforme!In America il presidente ha spesso lemani legate.Certo. Al nostro premier non ci sarebbenessuno che potrebbe legargliele.

con l’indicazione del capolista,che sarà poi il presidente

del consiglio, si cambia anche la forma di governo

un senato nominato eleggeràdue membri della corte

che su quindici non sono pochi e potranno essere decisivi

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Quindi il problema della soglia rimane,anche per la Corte presumibilmente...Infatti la Corte costituzionale certamentel’Italicum l’avrebbe annullato. Adesso harinviato il giudizio, non conosco esattamen-te le motivazioni, ma l’esito finale è sicuro:anche in questa legge elettorale la rappre-sentanza è sacrificata alla governabilità, èviolato il principio di eguaglianza del voto,manca la soglia di accesso al ballottaggio. Ilpunto cruciale più delicato è quello, e val lapena di ricordare due cose sul premio. Laprima volta che lo si è introdotto è stato conMussolini con la legge Acerbo del 1923, edè quello che ha consentito al fascismo diprendere in mano tutto il potere e di sov-vertire lo Statuto albertino, la Costituzioneliberale vigente dal 1848. Gli argomenti diallora, addotti per far approvare la leggedal Parlamento, erano gli stessi di oggi: lavelocità delle decisioni che il governo dove-va assumere senza impacci, senza i contra-sti e gli ostacoli delle opinioni diverse cherallentavano l’azione del governo che nondoveva essere disturbata. E la votarono an-che illustri personaggi dell’epoca, dicendoche era l’unico modo per far funzionar il si-stema parlamentare rappresentativo, perconservarlo: dopo pochi mesi, hanno vistocosa avevano conservato! La seconda volta nella nostra storia che en-tra in ballo il premio è nel 1953, con unalegge, voluta da De Gasperi, che venivachiamata, lo voglio ricordare, legge truffa.Ma in confronto a questa era niente. Le dif-ferenze sono due, fortissime: quella leggestabiliva che il premio l’avrebbe preso lacoalizione che avesse raggiunto il 50%, ilche significa che si dava un premio a chi giàera maggioranza. È per questo che lo sichiama premio di maggioranza; in parla-mento sia De Gasperi che Moro insistetterosu questo punto: noi non facciamo diventa-re maggioranza chi non lo è, ma diamo unpremio a chi è già maggioranza per consen-tirgli di governare con maggiore facilità. Èun concetto molto diverso dal far diventaremaggioranza chi non lo è. Seconda cosa,egualmente importante: in quella legge senessuno raggiungeva il 50% il premio nonsi dava a nessuno, ognuno prendeva i seggi

a seconda dei voti che aveva avuto. E cosìavvenne, perché la coalizione che aveva alcentro la Democrazia cristiana non rag-giunse il 50%, il premio non scattò. La leggefu poi abrogata. Anche le modalità, per entrambe le ri-forme, sono state molto discutibili?Direi che il modo in cui sono state approva-ta è stato orribile. Non mi dilungo ma sonostate approvate con delle forzature dellaprocedura parlamentare fortissime, conti-nue, tagliando i tempi, bloccando i dibattiti,con una serie di meccanismi tirati fino almassimo che in un dibattito, in particolaresu una legge costituzionale, non sono am-missibili.

La Costituzione, art.138, non vuole accele-razioni, ma riflessione, e ciò richiede tempilunghi. Infatti sono necessarie due deliberedi ciascuna Camera proprio per consentireun pensiero meditato, una convinzione ma-turata dopo un dibattito serio e partecipato. Se poi pensiamo che la riforma costituzio-nale è stata varata da un parlamento ille-gittimo, da una maggioranza artificiale cheè tale soltanto grazie al premio dichiaratoillegittimo, senza il quale la riforma nonsarebbe mai passata, il quadro è davverodesolante. Appare chiaro che sia una riforma total-mente da respingere.Torniamo un attimo, per concludere, aquelle che potremmo chiamare le pa-role chiave di questo periodo, velocità,decisione…Sì, la velocità. Abbiamo anche troppe leggi,come è stato detto da tutti. Non è che nedobbiamo approvare ancora. Ci vorrebbe unpo’ più di riflessione sulle leggi che appro-viamo, perché le approvano in velocità e poisi accorgono che sbagliano. Come adesso:l’Italicum è sbagliato? Ma se l’hai appenaapprovato! Non potevano pensarci meglio,invece di andare veloci, forzando il dibattitoparlamentare? Democrazia vuol dire rifles-sione, ponderazione degli interessi in gioco

-necessariamente divergenti perché la real-tà sociale è complessa e frammentata- sfor-zo per comporli fra loro mediando fra le di-verse posizioni. Si chiama parlamento per-ché si parla. C’è una discussione. E questacertamente rallenta i tempi. Ma allora cosafacciamo? Facciamo prendere le decisioni auno solo? Ma allora siamo fuori dalla demo-crazia, entriamo in un diverso regime. A parte poi che se vogliono le leggi le appro-vano con una velocità fulminea. Quandoc’era Berlusconi, tutte le leggi che servivanoal suo interesse sono state approvate inmen che non si dica: il falso in bilancio, l’ab-breviazione dei termini di prescrizione deireati, la legge sulle rogatorie internaziona-le. Tutto in pochissimi giorni. Al fondo, però, credo che il problema piùgrave riguardi la cultura politica. Spesso ledecisioni sono assunte da parlamentari chenon conoscono niente, in primo luogo nonconoscono la Costituzione. Come si possonofare leggi che devono essere in armonia conla Costituzione se non la si conosce? Non co-noscono la storia e spesso ignorano persinola realtà in cui operano, il momento attuale,i bisogni della società! Una volta i partitipreparavano la futura classe politica, c’era-no serie scuole di formazione. Adesso im-barcano nelle liste -accanto a politici seriche per fortuna esistono ancora- anche per-sone impreparate che vedono la politica co-me mestiere e restano abbarbicati alla se-dia non avendo sbocchi professionali miglio-ri. Alla fine questo è il punto: le leggi nonsono pensate, non sono ragionate, sono fat-te affrettatamente da persone poco compe-tenti e senza riflessione. Insomma, la velo-cità col pensiero ha poco a che vedere. Si cita spesso la complessità odierna. Mauna realtà complessa non può prestarsi asemplificazioni pericolose che alla fine por-tano a decisioni autoritarie perché assuntesenza contraddittorio efficace, senza tenerconto delle posizioni diverse e degli interes-si sacrificati, imposte agli altri grazie allaforza di numeri magari dovuti a premi ille-gittimi.

(a cura di Gianni Saporetti)

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il problema più grave è che le decisioni sono prese da

parlamentari che non conoscononiente, neanche la Costituzione

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Michele Salvati è un economista, politico epolitologo italiano, deputato dal 1996 al2001 e primo teorizzatore del Partito demo-cratico. Tra le sue pubblicazioni ricordiamoTre pezzi facili sull’Italia. Democrazia, crisieconomica, Berlusconi (Il Mulino, 2011) eCapitalismo, mercato e democrazia (Il Mu-lino, 2009).

Il combinato riforma costituzionale eriforma elettorale ha suscitato tantisospetti. Lei cosa ne pensa?Il punto dolente, dove c’è uno strappo, unatto di fiducia eccessivo nel sistema politicoitaliano, è quello della legge elettorale, nonquello della riforma costituzionale, che èuna cosa modesta, diciamolo molto franca-mente. Le modificazioni importanti che faquesta riforma sono fondamentalmentedue: l’eliminazione del potere di fiducia delsenato e la sua trasformazione in cameradelle regioni, o delle autonomie, e in secon-do luogo la modifica delle prerogative delleregioni eliminando i casi di sovrapposizionenetta tra regioni e stato dovute alla riformadel Titolo V, che assegnava poteri impor-tanti alle regioni anche seguendo una modaallora prevalente di andar dietro alla Lega.Quindi la riforma costituzionale di per sé èrelativamente modesta: una riforma cheavesse voluto accrescere sul serio i poteridel premier e del governo, a mio avviso an-che abbastanza saggiamente, avrebbe in-trodotto la fiducia costruttiva e la capacitàdi scioglimento del parlamento in capo alpremier; condizioni presenti entrambe indue costituzioni sicuramente eccellenti co-me la tedesca e, a seguito di quella, la spa-gnola.

Dopo la repubblica di Weimar, di sciogli-mento in scioglimento del parlamento (do-vuti alla congiunzione delle opposizioni en-trambe contrarie al governo, però impossi-bilitate a mettersi d’accordo tra loro), si ar-rivò a Hitler. Di qui la sfiducia costruttiva:non puoi sfiduciare il premier se non hai

già pronta un’altra coalizione che è un po’ ilproblema che avremmo noi se dovessimo ri-tornare a un sistema puramente parlamen-tare nel quale bisognerà, nella buona so-stanza, mettere insieme tutti quelli che so-no contro i Cinque stelle. Il che natural-mente non farebbe altro che dare ulteriorefiato ai Cinque stelle, per nulla pronti a go-vernare ma prontissimi ad approfittare del-l’insoddisfazione dei cittadini di fronte alleperformance molto modeste sia di questogoverno che dei precedenti. È questa la prospettiva che lei intrave-de nel caso che vinca il no?Beh, in una situazione di incapacità di cre-scita dell’economia, che poi è il guaio grossoche abbiamo, un’incapacità che dura ormaida una ventina d’anni e non dà segni di fi-nire, molto probabilmente se salta il refe-rendum e con esso quasi necessariamentel’Italicum, la nuova legge elettorale che sifarà sarà giocoforza una legge più di tipoproporzionale. Il rischio, quindi, della for-mazione di uno schieramento abbastanzaraffazzonato di personaggi che voglionocontinuare a governare, sarà molto forte.Saggiamente, dal loro punto di vista, i Cin-que stelle si sono tirati indietro, quando inrealtà sarebbero i favoriti da una legge elet-torale come quella approvata dalla Camerain luglio, sia perché sono avanti nei prono-stici, sia soprattutto perché nel probabileballottaggio le destre voterebbero per loro;lo si è già visto. Ma stranamente preferisco-no ancora un periodo, diciamo, di macera-zione dell’assetto tradizionale in modo daaver più tempo per prendere contatti conpersone che diano almeno l’apparenza disaper governare un sistema complesso co-me l’Italia. Al momento loro non hanno nes-suno, però stante la predisposizione di mol-ti tecnici e intellettuali italiani a correre insoccorso del vincitore, anche i Cinque stellepotrebbero mettere in piedi un’apparenzadi governo. Ma questo non adesso, donde lo-ro continuano una sorta di aventino, votanocontro l’attuale legge elettorale e aspettanodi vedere che tipo di governo potrà formarsicon una legge elettorale diversa di tipo pro-porzionale. Questa è un poco la situazionecome la vedo adesso. Di qui la mia predispo-

sizione per il sì. Ma la sua analisi parte dall’economiae, se si può dire, dallo stato del mondoglobalizzato, un’analisi niente affattoottimistica… Sì, nel saggio cui lei, credo, fa riferimento,espongo la mia idea su un programma chesia democratico quanto è possibile nella si-tuazione attuale. E l’ho scritto proprio perreazione a tante pubblicazioni recenti cheparlano di crisi della democrazia, o comun-que di una situazione attuale senza viad’uscita da un punto di vista democratico. Ora, che la situazione sia più sgradevoleper la gran parte dei cittadini, meno vicinaalle loro esigenze materiali, di quanto lo siastata nel periodo tra la fine della Secondaguerra mondiale e gli anni Ottanta, il pe-riodo del nostro grande sviluppo, su questonon c’è il minimo dubbio.

Ma questo non era merito della democrazia,c’erano i grandi partiti naturalmente, ma lastessa spiegazione della persistenza di que-sti grandi partiti va ricondotta semplice-mente alle condizioni estremamente favo-revoli della situazione internazionale. Erauna situazione in cui il grande gruppo deipaesi capitalistici avanzati cresceva al 4, 5,6 per cento. La pattuglia era guidata dauna leadership liberal americana che avevaben presente i guasti fatti tra le due guerree aveva ben presente che la cruciale compe-tizione con il mondo comunista, con l’Unio-ne sovietica, si decideva sulla dimostrazio-ne che un sistema liberale era altrettantoin grado di creare benessere e piena occu-pazione di quanto lo fosse l’Urss. Ricordia-moci che la situazione non era così chiaraalla fine della Seconda guerra mondiale. Lacompetizione dell’Urss era molto forte, per-ché lì non c’era disoccupazione, c’era un mo-destissimo benessere che però stava cre-scendo, c’era una crescita economica incre-dibile che si manifestava soprattutto incampo militare ma non solo in quello. Tuttoquesto preoccupava gli occidentali e i libe-

discussioni

la stessa persistenza dei grandipartiti va ricondotta alle

condizioni molto favorevoli dellasituazione internazionale

i Cinque stelle si sono tiratiindietro, quando in realtà

sarebbero i favoriti da una leggeelettorale come l’Italicum

I TRENTA GLORIOSI CHE NON TORNERANNO Una riforma modesta, che non prevede le due cose che rafforzerebbero veramente l’esecutivo: lasfiducia costruttiva e la possibilità del premier di sciogliere le camere, presenti nelle costituzionitedesca e spagnola; una globalizzazione devastante e una situazione economica senza precedentiche impoverisce il ceto medio favorendo la crescita di movimenti populisti; il declino probabiledell’Italia e un’esile speranza, legata all’esito positivo del referendum. Intervista a Michele Salvati.

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discussioni

rali. Di qui il governo da parte di una eliteliberal che aveva fatto proprio il grande in-segnamento di Keynes, la possibilità di svi-luppare un’economia di mercato ma in con-dizioni di piena occupazione, da cui il ruolodello stato, il ruolo del welfare, eccetera.

Allora, gran parte del rimpianto per i gran-di partiti di massa di allora aveva più a chefare con questa particolare situazione eco-nomica, e gran parte dell’esecrazione che c’èadesso nei confronti dei partiti al governo,siano essi socialisti o conservatori è dovutoa una situazione economica molto diversache è venuta ad attuarsi a livello interna-zionale a partire dalle vittorie di Thatchere Reagan nel ’79 e sempre più chiaramentenegli anni Ottanta e dopo: lo sbrigliamentodelle capacità del capitalismo e della finan-za sull’intero quadro mondiale. Se fosse vivo, Marx sarebbe felice di questasituazione, la sua idea, infatti, era chequando il capitalismo fosse diventato un si-stema mondiale, allora sarebbe diventatomondiale anche il numero dei suoi poten-ziali becchini, cioè gli operai. Le cose nonsono andate propriamente così, però grosso-modo la previsione di Marx sulla capacitàespansiva del capitalismo si è avverata.Prima questa era rimasta frenata perchéun sistema di controllo della finanza, del-l’esportazione dei capitali, come imposto aBretton Woods nei grandi accordi del ’44, laimpedivano; gli stati erano liberi di chiude-re le frontiere all’esportazione di capitali,sia a breve che lungo periodo. Adesso nonpiù, si è data mano libera, la deregolazioneè stata completata sia a livello interno siainternazionale e i suoi effetti si vedono. Si sono messi in concorrenza tra loro i lavo-ratori dei paesi poveri ma con grandi capa-cità tecnologiche potenziali, cinesi soprat-tutto, con i lavoratori dei paesi ricchi, inparticolare quelli dello strato intermedio,con grado di istruzione modesto. Mentre in-vece chi è stato favorito sono stati i ceti alti,sia a livello tecnico sia, soprattutto, a livellofinanziario e manageriale. E questo hacreato una situazione di disagio in tutti ipaesi a cominciare dagli Stati Uniti. Il fatto che negli Stati Uniti sia candidatoun personaggio dell’estrema destra comeTrump, e dall’altro lato lo sarebbe potutodiventare Bernie Sanders, uno che pratica-mente porta avanti un programma quasisocialista, cosa inaudita negli Stati Uniti!,è il segnale di una profonda instabilità; unagrave spaccatura si è aperta fra i lavoratoriintermedi (la chiamano middle class mastanno tra i primi livelli operai e impiegati-zi) spazzati via dalla rivoluzione informati-ca e un’insieme di ceti relativamente bene-

stanti. Se persino negli Usa è avvenutoquesto, che è il paese che più ha beneficiatodall’ultima rivoluzione tecnologica, quellainformatica e delle telecomunicazioni, im-maginiamoci in tutti gli altri paesi. Allora,in una situazione come questa, con tassi didisoccupazione molto alti e con poche chan-ce per i giovani, se i partiti, lo metto tramolte virgolette, ragionevoli, sia del centro-destra che del centrosinistra, non si scaglia-no contro questa situazione, sono destinatiad avere grossi problemi con i movimentipopulisti che inevitabilmente sorgonoquando la gente sta male. Quando la gentesente minacciata l’occupazione dei propri fi-gli, è ovvio che tende a credere in una seriedi sbruffoni che dicono di voler cambiaretutto, ma evitando accuratamente di dareun’idea ragionevole e funzionante del possi-bile diverso sistema economico e politicoche metterebbero al posto di questo che vo-gliono scassare. L’Europa?L’Europa fa dei tentativi maldestri. Sempli-cemente non ha il coraggio, e non può aver-lo, di venire direttamente in aiuto dei suoipaesi più deboli perché questo comportereb-be una sanzione immediata da parte deipaesi più ricchi: “Sperperate i soldi che noiindustriosi tedeschi”… Non è possibile inEuropa la cosiddetta transfer union, l’unio-ne dei trasferimenti per cui una parte delpaese dà soldi a un’altra parte. Immaginia-moci, non funziona nemmeno in un paeseunificato come l’Italia. Le obiezioni che ha fatto la Lega ai soldi peril Mezzogiorno sono altrettanto virulente eforti di quelle che fa la Germania nei con-fronti dei soldi all’Italia. E se neanche noi,dopo più di un secolo e mezzo di unità, sia-mo riusciti a risolvere questo problema, aspegnere la potenziale incompatibilità tranord e sud, immagini se lo si può fare a li-vello internazionale, dove non c’è quanto-meno un ceto politico, intellettuale, di opi-nione pubblica che legga gli stessi giornali,che voti per gli stessi partiti, ecc. In Europaogni paese deve cavarsela per conto proprio.Alcuni paesi ce la fanno meno di altri, l’Ita-lia per una serie di ragioni idiosincratichesu cui non entro adesso ce la fa meno di al-tri paesi, quindi è fortemente a rischio. Uscire dall’Europa aiuterebbe o aggra-verebbe la situazione?Intanto va detto che l’uscita dall’Europa èun rischio che c’è. Il problema è che se noiuscissimo dall’Europa, o per qualche cata-clisma internazionale, per un attacco dellafinanza internazionale o per altri motivi,dalla padella salteremmo nella brace. Per-ché le regole che valgono a livello interna-zionale sono quelle che l’Europa cerca diimporci. L’Europa cerca di imporci le regoleil cui rispetto taciterebbe la finanza inter-nazionale, che poi, essendo ormai unificata,non dimentichiamolo, è fatta, anche, certo,

da finanzieri d’assalto, ma per la gran partedai fondi pensioni e d’investimento dove ab-biamo messo i nostri risparmi, fondi che de-cidono a livello internazionale dove è me-glio investire. Ma c’è un altro aspetto della globalizzazio-ne divenuto preoccupante per la gente nor-male: l’immigrazione. Che l’immigrazione,specialmente da paesi musulmani o comun-que molto lontani dai nostri costumi, creiproblemi allo stato di benessere della gentee non solo a quello, è un fatto ovvio, inutilenasconderselo. Che quindi movimenti popu-listi contro l’immigrazione o contro la finan-za internazionale emergano è altrettantoovvio. Quel che non vedo sono i rimedi proposti dachi ha invece una posizione più di classe,come si diceva una volta. Noi non ritornia-mo a una situazione come quella dei Trentagloriosi, degli anni subito dopo la guerra.Non possiamo ritornarci. O, se ci ritornere-mo, sarà per qualche cataclisma internazio-nale come quelli che hanno determinato igrandi spostamenti, i grandi riorientamentidel mondo capitalistico. Io mi rendo conto che la situazione è dram-matica e molto pesante per i ceti più poverie meno colti e meno attrezzati. Lo è negliUsa, lo è da noi, ma anche in Francia. Sono i poveri che combattono contro i pove-ri. Bisognerebbe bloccare la globalizzazione,pesantemente, ma questo l’Europa non lofarà mai.

Detto questo chiedo: se l’Europa fosse unostato veramente democratico, e potesse vo-tare, lei crede che la situazione cambiereb-be molto? Se i cittadini europei nel loro in-sieme fossero in grado di scegliere un verogoverno europeo, invece di lasciarlo sempli-cemente al Consiglio europeo fatto dai capidi governo; se avessimo un vero parlamentoeuropeo, in cui competessero partiti europeicome avviene negli stati nazionali; se al-l’improvviso questi fenomeni di insufficien-te fiducia di un paese nei confronti dell’al-tro, di insufficiente grado di fraternità (è laterza parola del famoso trittico francese,ma enormemente importante, una demo-crazia c’è soltanto quando ci sono dei livellidi fraternità tali per cui una decisione delgoverno anche se danneggia una serie di ce-ti interni è accettata da tutti); ebbene, se cifosse tutto questo, lei si immagina che unadecisione a livello europeo che danneggia lostato italiano, o quello francese, o quello te-desco sarebbe accettata da tutti? Ma anche se arrivassimo a un grado di de-mocrazia europea di questo genere, cosa deltutto implausibile, lei pensa che il governoeletto sarebbe un governo di sinistra? Mah!

Marx sarebbe felice di questasituazione, la sua idea era che

quando il capitalismo fossediventato un sistema mondiale...

la concorrenza tra i lavoratori dei paesi poveri ma con grandi

capacità tecnologiche e i lavoratori dei paesi ricchi

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Ho grandi dubbi. Sarebbe un governo comequello italiano che risponde in parte dandodelle mance al Mezzogiorno, e poi fa gli in-teressi degli industriali del Nord e comun-que dei finanzieri, e sarebbe un governo do-minato dalla Germania, che è di gran lungail potere più forte.Alla luce di tutto questo a me questo granparlare, fissarsi su una democrazia che nonfunziona, ecc., cosa vuole che le dica, io lavedo più da economista politologo e sociolo-go: guardo ai fatti grossi e i fatti grossi nonmi convincono che questo sia il problemaprincipale. Ma anche se fosse, gli americanidirebbero: “So what?”, e allora? Quali sa-rebbero le conseguenze? Crediamo vera-mente che riusciremmo a fermare l’impattodistruttivo della globalizzazione, del pro-gresso tecnico scatenato su scala mondiale?Con una concorrenza con lavoratori che ri-mangono con bassi salari anche se ormai leloro capacità tecnologiche sono diventatealtissime? Basta vedere chi fa i migliori te-lefonini oggi: sono i cinesi, con Huawei.

Ormai questi hanno raggiunto livelli tecno-logici talmente alti che noi non saremo piùin grado di imitare! E hanno salari bassi.Quindi possono consentirsi un’accumulazio-ne formidabile. Ti sfornano un milione diingegneri all’anno. Noi abbiamo una forzalavoro di una qualità bassissima se la con-frontiamo con quella tedesca, inglese ofrancese. Insomma, pur da innamorati, co-me un po’ tutti siamo, della socialdemocra-zia com’è stata nei trenta, quarant’anni deldopoguerra, dobbiamo convincerci che i fa-mosi Trenta gloriosi non ritornano e nonpossono ritornare. E quindi di fronte a uno scenario delgenere il referendum?Per quanto riguarda il referendum, io sonocosternato dal livello di irritazione, spacca-tura nel paese, da questo clima da guelfi eghibellini che divide tra loro anche personeragionevoli. Me ne rendo conto, in parte èstata colpa di Renzi, però non è che perchéè colpa sua adesso dobbiamo votare sbaglia-to per punirlo. Certo che è stata colpa sua!So what? La colpa è già maturata, ha esa-gerato, ma quand’anche lui fosse stato ilpiù possibile tranquillizzante e moderato,ma fermo sulle sue decisioni sia di riformacostituzionale che di legge elettorale, la ca-nea contro di lui sarebbe stata diversa?Non attacchiamoci a quello, lui ha sbaglia-to, l’ha riconosciuto e amen. Però adesso co-me la mettiamo? Io le ragioni del mio moderato e non entu-siasta sì le ho scritte da tutte le parti. Pen-so che la riforma costituzionale, e torno agliinizi, sia modesta, ma vada nella direzione

giusta e che molte delle continue criticheche le vengono rivolte, siano, se non del tut-to speciose, rimediabili nel periodo di ro-daggio che una riforma importante deve ne-cessariamente avere. Se c’è la buona volon-tà potrebbero essere fatti opportuni ritocchicostituzionali in seguito. Il rischio vero checorriamo è che i senatori che avremo nonrappresentino in modo efficace le loro real-tà territoriali e si allineino a spaccature po-litiche pregresse. Ma dipende molto da co-me viene presa l’intera cosa: c’è anche lapossibilità che si crei una dialettica positivain cui, per darle l’idea, un lombardo dica,prima di far lega con una regione scialac-quatrice: “Scusa un secondo, non faccio legacon te. Noi andiamo insieme per rivendica-re i nostri poteri, però fammi il piacere, tumetti a posto i tuoi conti”.Essendo casomai dello stesso partito…Casomai dello stesso partito…Ma la mancanza del vincolo di manda-to allora non è un errore?Ma non potevi darlo. L’unica cosa che si sa-rebbe potuta fare sarebbe stato che nonerano i consigli che dovevano mandare inproporzione ai partiti rappresentati neiconsigli, ma i governi regionali, gli esecutiviregionali, però è una cosa che non si potevafare perché su 20 esecutivi regionali 18 so-no del Pd e allora immaginiamoci cosa sa-rebbe successo. Questo sarebbe stato l’idea-le. Potevamo prendere tutta l’esperienzadel Bundesrat tedesco, ivi incluse tutte lemodificazioni che ha avuto in seguito, per-ché poi anche quella non è stata un’espe-rienza senza contraddizioni; i dissensi dipartito hanno operato eccome, e si è dovutarimettere a posto con grandi riforme, peròadesso è una cosa che funziona. Però questonon lo si poteva fare, semplicemente. Quin-di rimane una speranza, che questi si com-portino da rappresentanti veri degli inte-ressi della loro regione. Poi ci sono altri rilievi, ma alcuni di questisono piccolezze su cui la gente si accapigliaper niente. Non hanno il tempo necessarioper andare a Roma? Ma facitemi ‘o piacere,come avrebbe detto Totò. Questi sono con-siglieri regionali, adesso vedremo come èfatta la loro elezione ma ce ne saranno unpaio, o tre, o quattro, a seconda delle regio-ni, che si specializzeranno su Roma e faran-no fondamentalmente quello; il loro lavoroin consiglio regionale sarà minore, darannoil voto ma saranno in pratica distaccati. Lariforma è piena di sfridi, come si dice dallenostre parti, ma è stata fatta in grandefretta per una serie di ragioni politiche e diconsenso che Renzi pensava di avere, que-sto sì, non lo nego. È talmente evidente cheè così. Però, oggettivamente, qual era un’al-ternativa? Di riforma costituzionale si è discusso finoall’infinito nelle più diverse sedi. Dalla bi-camerale, ai vari incarichi che sia l’ex pre-

sidente della repubblica, Napolitano, avevaaffidato ai saggi, sia quelli della commissio-ne istituita da Letta. Si sono registrati deipunti di dissenso, però su alcuni punti ilconsenso c’era. Io sono stato nella bicame-rale di D’Alema, ero parlamentare allora ele garantisco che un’esperienza più disa-strosa e mortificante di quella raramentel’ho vista.

In realtà una cosa del genere fatta su baseparlamentare, politica, non funziona. A me-no che noi non vogliamo rifare la costituzio-ne, ma potrebbe riprodursi quel consensoche un grande trauma come la guerra ave-va indotto tra ceti politici di altissimo livel-lo che sapevano che dovevano salvare l’Ita-lia? No, certo. Se si voleva fare una riformala strada era questa. Questa tutto conside-rato va nella direzione giusta, è abbastanzamodesta, avrà dei problemi, nel senso chenon rafforza sufficientemente l’esecutivo,su questo sono del parere di Berlusconi, odei costituenti tedeschi e spagnoli. Ma un esecutivo fatto con il ballottag-gio eviterà i problemi?Intendiamoci, non ho alcun dubbio sulla de-mocraticità. A mio avviso le seconde prefe-renze valgono come le prime. Ma perchénon ci siano problemi dovrebbero essere“vere” seconde preferenze, che vuol dire mo-tivate da un’analisi accurata dei program-mi dei partiti, per dar modo ai votanti alballottaggio di scegliere a ragion veduta.Diamo il caso concreto che una buona partedei votanti berlusconiani dica: “Toh, guar-da, il programma del Pd ha molti punti dicontatto con il nostro, voto per lui”, e chequesta considerazione prevalga sulla vogliadi prendersi una rivincita e fare i Brunetta.Il rischio del ballottaggio è quello: che fac-ciano tutti i Brunetta, e votino contro qual-siasi programma. Qui sta il problema dellaseconda preferenza.Sì, questo può valere quando la sceltaè fra due programmi, ma delle volte sipuò essere costretti a votare per chi cipiace poco per evitare che vada su chinon ci piace per nulla e addirittura cifa paura. Anche in quel caso il mio votoal ballottaggio mi rappresenterebbe?Accetto l’obiezione, però io ho una concezio-ne della politica come il meno peggio. Ripe-to che la situazione migliore è quella in cuile seconde preferenze sono una scelta medi-tata tra due grandi partiti, tutti e due ra-gionevoli, e le cui ricette, tutto considerato,non sono troppo diverse l’una dall’altra.L’esempio tedesco è illuminante: tra il pro-gramma socialdemocratico tedesco e quellodella Cdu le differenze non erano molto for-ti, e hanno potuto fare un grande accordo, e

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il rischio è che i senatori nonrappresentino le loro realtà

territoriali e si allineinoa spaccature politiche pregresse

ricordiamoci il detto famoso di Nenni: “Se fai il puro a un

certo punto nella tua vita trovi uno più puro che ti epura”

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sensato, mettendo per iscritto su 130 paginetutte le possibili leggi che avrebbero votatoinsieme e pure i punti ammessi di dissensoo i punti in cui un partito cedeva all’altro.Ma il paese si ritrova i cittadini e i politiciche ha. E se i cittadini credono in massa aun programma populista, che grida: “Tuttia casa, mandiamoli via, fan tutti schifo, so-no tutti disonesti”; se nel paese sembra siadiventata una categoria politica l’onestà e ladisonestà quando non lo sono mai state -ri-cordiamoci il detto famoso di Nenni: “Se faiil puro a un certo punto nella tua vita troviuno più puro che ti epura”- allora potrestiessere costretto a votare il meno peggio. Maanche in questo caso se al partito che va alballottaggio attribuiamo una percentuale di“convinti” ragionevolmente sull’ordine del

28, 30 per cento, con un un’aggiunta di unaltro 20 per cento di mugugnanti e meno-peggisti, arriviamo al 51 per cento. Beh, pe-rò a quel punto chi avesse vinto avrebbe unparlamento dietro di lui.Stiamo parlando di Renzi. Per lei quin-di varrebbe come investitura piena?Certo, e a quel punto si potrebbe vedere severamente ha la stoffa. Adesso lui ha cerca-to di sopravvivere dando un’idea di quel chefarebbe, ma in una condizione di estremadebolezza. Dovendo contrattare tutto, conquelli del centrodestra, dell’Ncd, e non do-vendo scontentare però del tutto un’animadel partito che c’è. Io, per dire, amo moltoCuperlo, per quei suoi modi garbati e ai mo-di corrisponde anche un animus e, se devodirlo, Renzi personalmente mi risulta un

personaggio troppo arrogante e devo spe-gnere la tv quando parla perché se no miarrabbio, però sulla sua linea politica io cisono e ci sono in pieno. Ma non escludo af-fatto che possano esserci delle moderateaperture a sinistra da parte sua. Non loescludo affatto.

Nelle circostanze attuali, in cui lui non haun’investitura elettorale sufficiente, devesopravvivere. E da qui quelle scelte un pocodemagogiche che gli rimprovera Monti. Maun politico per sopravvivere in queste situa-zioni cosa deve fare? Ecco, io non gliele scuserei per nulla doma-ni quando lui avesse una buona investitura.Allora no. E allora però il mio giudizio sa-rebbe che l’Italia, come diceva Mussolini oGiolitti, non è difficile da governare, è im-possibile. Un paese di questo genere è desti-nata al declino. Io penso sia destinato al de-clino comunque, ho scritto vari libri sul de-clino, parlavo di declino quando tutti gli al-tri economisti non ne parlavano, quandoera un errore parlarne. Oggi però dico che una piccola speranza cel’ho ancora: che quando Renzi si sentissesufficientemente forte, sarebbe forse in gra-do di prendere anche misure dure. Se vince il no?Se vince il no, si entra in uno stato di diffi-cile governabilità, i nostri problemi veri,quelli di cui fa menzione Monti, rimarrannoirrisolti. Se Monti spera che col proporzio-nale che verrà con la sconfitta del sì, potre-mo andare in direzione delle sue terribilimisure di razionalizzazione, si sbaglia digrosso. In realtà penso che sappia benissi-mo che non avverrà così. Avverrà ancorapeggio, ci sarà maggiore confusione. Probabilmente non ci saranno rischi a bre-ve di un’uscita dall’Ue, ma si farà una coa-lizione appiccicaticcia fra Pd, pezzi di Forzaitalia che non accettano il viaggio comunecon la Lega e con i Fratelli d’Italia, e Ncd.Forse riusciranno a silenziare un po’ Bru-netta, chi lo sa, ma certamente sarà una co-sa ancora più corriva nei confronti delleaspettative popolari e anche più debole diquanto non sia stato Renzi fino ad adesso.Di certo non sarà una cosa che potrà usareil pugno di ferro di un Monti, per intender-ci, cosa di cui credo anch’io, in parte, ci sa-rebbe bisogno. Tutto qui. Ho dato l’idea?

(a cura di Gianni Saporetti)

Le foto: a pagina 9, un seggio per le elezioni dellaCostituente; a pagina 10, Aldo Moro tra La Pirae Dossetti durante i lavori per la Costituente; apagina 13: un graffito a Roma contro la leggetruffa del 1953; in questa pagina: risultati delleelezioni per la Costituente nel seggio di Osio So-pra (Bg).

discussioni

allora però il mio giudiziosarebbe che l’Italia, come dicevaMussolini o Giolitti, non è difficile

da governare, è impossibile

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problemi di scuola

Marie Camille Coudert, insegnante di fisicae chimica, da quest’anno è impegnata nelprogetto Les Savanturiers del Cri (CentreRecherche Interdisciplinaires) di Parigi.

Cosa sono le classi “inversé”?La classe “invertita”, capovolta, è una pra-tica pedagogica che cerca di affidare all’au-tonomia dello studente una parte dell’atti-vità di trasmissione del sapere ponendolafuori dalla classe (di solito sotto forma di vi-deo da guardare a casa), così da dedicare iltempo trascorso in classe ad attività digruppo e a un sostegno individualizzato. Leclassi capovolte sono nate negli Stati Uniti.In Francia la prima volta che ne ho sentitoparlare è stato tre anni fa. Mi sono incurio-sita e ho cercato di saperne di più. Siccomeda tempo sentivo il bisogno di avere tempoin classe per fare altre cose mi sono detta:proviamo. Ne ho prima discusso con il di-rettore della scuola. Dopodiché, all’incontrodi inizio anno ho spiegato ai genitori comeavrebbe funzionato. In Francia quando hocominciato ero veramente fra i primi. Nellamia materia, fisica, eravamo in tre, poi ilnumero è cresciuto. Da due anni esiste an-che un’associazione che si chiama “Inver-sons la classe” che ha messo gli insegnantiin rete. Nel 2015 hanno organizzato il pri-mo congresso che ha visto partecipare circaduecento insegnanti; quest’anno c’erano cir-ca ottocento persone. C’erano anche inse-gnanti italiani.Si stima che oggi in Francia siano più di unmigliaio gli insegnanti che adottano la clas-se capovolta almeno una volta all’anno. Èdifficile avere delle stime precise perchémolti lo fanno da soli nella loro classe.Devo dire che il mio non è stato l’approccioclassico. I professori spesso sperimentanoquesta modalità per stimolare la motivazio-ne degli studenti. L’approccio tradizionale,la lezione frontale infatti rischia di non an-dare in profondità: il ragazzo sta in classe,ascolta ma non apprende. Per alcuni inse-gnanti si tratta anche di andare incontro aun problema di uguaglianza. I compiti percasa infatti rischiano di aumentare le diffe-renze. In questi pochi anni abbiamo potutoconstatare che con le classi capovolte gli al-lievi dal rendimento meno soddisfacenteprogrediscono di più. Fare gli esercizi peruno studente che non ha una famiglia chelo segue, può essere complicato, perché ma-gari non ha capito la lezione, non sa appli-carla, stabilire dei nessi. Paradossalmentequello che si fa in classe è più facile. L’ideaallora è di fare l’inverso: a casa gli si chiede

di fare cose semplici, vedere un video, rico-piare una definizione, mentre in classe sifanno le cose complicate. In questo modo iragazzini che al pomeriggio sono a casa dasoli non vengono penalizzati.Tu come organizzi le lezioni?Io ho un rapporto particolare con la scuola.Sono molto lontana dallo schema classico.Per me gli allievi devono poter fare quelloche vogliono quando vogliono. Se desidera-no procedere più speditamente propongodel lavoro ulteriore da fare a casa, se nonvogliono, non sono obbligati. Anche in clas-se il tempo è libero, non sono costretti a la-vorare se non vogliono. Bisogna anche met-tere gli allievi in condizione di apprenderequando sono più efficaci. Per esempio quan-do ho un’ora di scuola dalle 13 alle 14, in cuipraticamente dormono, è inutile cercare difargli fare cose impegnative, invece a metàmattina è il momento ideale per lavorare.

Il mio approccio è molto libero. Anche ri-spetto ai telefonini: esistono regolamentiscolastici molto rigidi che ne consentonol’uso solo durante la ricreazione. La mag-gior parte dei prof confisca gli smartphone.Nella comunità delle classi invertite i tele-foni invece sono molto utilizzati, sono unostrumento di lavoro e devo dire che, a partequalche caso molto raro, non abbiamo maiavuto problemi. Ormai dai quattordici annihanno tutti un telefono cellulare, allora iodico: usiamolo! Per esempio, se un ragazzi-no non ha capito un concetto, posso dirgli:“Prova a guardare il video che ho caricatosu youtube, vedi se ti aiuta...”.Per me la cosa più importante è responsabi-lizzarli. Io, per esempio, gli chiedo che cosavogliono fare nei successivi quindici giorni:“Decidete su quale nozione volete lavorare epoi vi organizzate come preferite”, dopodi-ché possono vedere dei video, approfondiresu internet, sui libri, l’importante è che il la-voro sia fatto. È un modo per dargli fiducia.Io sono lì per vegliare che scelgano degliobiettivi che non siano né troppo ambiziosiné troppo banali. Non solo lì per organizzar-gli il lavoro, questo lo debbono fare loro.Il lavoro in classe come funziona?Io ho due stanze: sta a loro scegliere doveandare. Gli studenti che sentono la necessi-tà o il desiderio di lavorare in gruppi di dueo tre ragazzi hanno la possibilità di staresoli in una stanza, dove possono stare tran-

quilli e concentrarsi. Io sto nell’altra stan-za, la classe tradizionale, dove rimangonoquelli che vogliono lavorare con il professo-re. Parlo degli anni della secondaria. I piùpiccoli, fino ai 14 anni, stanno tutti nellastessa classe.In questi anni ho insegnato sempre a Pari-gi, prima nell’VIII arrondissement in unascuola molto favorita dal punto di vista cul-turale, con una certa élite sociale, e poi nelXX arrondissement che è un quartiere mol-to più misto socialmente. Ho sperimentatole classi capovolte in entrambi i contesti conrisultati diversi. Gli studenti favoriti sulpiano socio-culturale, anche quelli che ave-vano problemi di metodo, hanno compresoil principio della scuola. Parliamo di ragaz-zini che sanno segnarsi sul diario le cose dafare e sanno mettersi al lavoro. Nel XX giàquesto succede con più difficoltà: gli allieviscrivono nel diario, ma poi non lo aprononemmeno! Non sono autonomi, ma nonsanno nemmeno chiedere aiuto. Nella VIII ho registrato proprio un altro ap-proccio: un ragazzo che non capisce qualco-sa non esita a chiedere spiegazioni; in uncontesto più critico, gli studenti non chiedo-no aiuto, sono molto passivi, rassegnati.Molto del tempo viene investito proprio perinsegnargli a essere studenti. Dicevi che le classi capovolte permet-tono un approccio personalizzato.È soprattutto per questo che ho scelto laclasse capovolta, per avere il tempo di per-sonalizzare l’apprendimento, di fare un ac-compagnamento individuale. Quando haitrentacinque allievi, ti trovi ad aver a chefare con persone che apprendono in manie-ra diversa e con tempi diversi. Offrire lostesso corso a tutti non funziona. Con la le-zione tradizionale io mi sono accorta che aseguirmi davvero erano tre o quattro allie-vi, e tutti gli altri? Di qui l’idea di sperimentare un altro modo.Come dicevo, nelle mie classi sono gli stu-denti a decidere su cosa lavorare all’internodi un ventaglio di opzioni. Una volta chehanno deciso, io controllo i risultati e li fac-cio lavorare in funzione degli errori chehanno fatto. Ogni volta che si può faccio sìche si aiutino tra di loro “Guarda, hai fattolo stesso errore che aveva fatto tizio, fattelospiegare da lui”. Lavorare sugli errori è fon-damentale, già questo costringe a persona-lizzare. In questo modo seguo passo passoquello che hanno compreso i miei allievi ri-spettando il loro ritmo di apprendimento.Attenzione, il lavoro è modulato sui loro de-ficit, ma anche sulle loro ambizioni. Gli al-

gli allievi devono poter farequello che vogliono. Se vogliono

procedere più veloci do del lavoro in più da fare a casa

LA CLASSE CAPOVOLTAFare i compiti la mattina in classe e ascoltare la lezione al pomeriggio: la casse capovolta, sistemaadottato negli Stati Uniti e ora in Francia, per favorire un accompagnamento personalizzato cheincoraggia la curiosità, l’autonomia e la responsabilità. Intervista a Marie Camille Coudert.

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lievi che vogliono fare i “prépa”, le classipreparatorie che conducono dalla maturitàalle Grandes Écoles, hanno bisogno di avereuna formazione diversa da chi intende fer-marsi al Bac, il Baccalauréat, il diploma.Questi gruppi di tre, quattro studenti, for-mati mettendo assieme livelli di apprendi-mento compatibili, fanno sì che nessuno siapenalizzato: chi ambisce ai prépa viene aiu-tato ad andare più lontano; chi ha altri pro-grammi e magari più difficoltà può a suavolta andare a un ritmo più lento ed essereseguito. È un metodo molto radicale, quanto èdiffuso?Siamo pochissimi. Il mio metodo è molto di-verso da quello adottato normalmente. Iosono andata molto avanti nell’autonomiadegli allievi e nella loro responsabilizzazio-ne. Teniamo presente che anche all’internodel movimento delle classi capovolte c’è unagamma di possibilità molto ampia, si va dalprofessore che semplicemente indica qualevideo guardare al pomeriggio a chi, comeme, punta alla massima autonomia.In genere i professori che scelgono la stradadella classe capovolta lo fanno concedendoun’autonomia che cresce gradualmente.Quello che tutti verificano è che gli allieviavanzano di più se responsabilizzati.Quali sono i risultati e i problemi?I risultati sono difficili da misurare, ancheperché non esistono valutazioni esterne.Personalmente, ho l’impressione che i mieiallievi siano complessivamente migliori, eche quelli più bravi siano nettamente mi-gliori. I mediocri sono più o meno nella me-dia, mentre i peggiori sono meno peggioridegli altri. Quindi direi che di questo meto-do trae vantaggio chi va molto bene e chi vamale; gli altri restano nella media. Quandoho iniziato a insegnare avevo mediamenteuna decina di allievi per classe a cui proprionon riuscivo ad arrivare, oggi sono uno odue: con la classe capovolta è nettamentediminuita la quota di allievi che non sonoattivi, che non si sentono protagonisti.

È per questo che non tornerei indietro. Inol-tre migliora moltissimo il clima in classe: glistudenti sono contenti di venire a scuola ec’è molto aiuto reciproco fra di loro. Alla finedell’anno tutti gli studenti mi hanno dettodi non aver mai avuto un ambiente di studiomigliore. Nella classe capovolta, si speri-menta un grande aiuto reciproco non soloall’interno dei gruppi, ma anche fra i gruppipiù avanti e quelli meno. Così il sapere cir-cola e c’è un apprendimento reciproco.Veniamo ai problemi. Questo metodo richie-de un cambiamento di attitudine da partedell’allievo. Lo studente classico, se può, simette in fondo alla classe, vicino al termo-

sifone, ascolta un po’ e poi si distrae; l’inse-gnante classico, durante la sua lezione, lorichiama, cerca di attrarne l’attenzione. Ecco, qui c’è un problema perché con il miosistema se si mettono in fondo alla classe enon fanno niente, semplicemente l’appren-dimento è nullo. Questo è difficile da farcomprendere agli alunni: loro tendono a es-sere passivi, aspettano che sia il professorea offrirgli le conoscenze. Io invece voglio chesiano loro a chiedere, a diventare attori del-la loro formazione. È molto difficile per certiallievi e per alcuni è quasi impossibile. Queidue o tre che non si lasciano coinvolgere ot-tengono un risultato peggiore che nel siste-ma tradizionale. Questo va detto.D’altra parte io credo molto nell’apprendi-mento attraverso la ricerca. Il progetto LesSavanturiers (un gioco di parole fra savante aventure) in cui oggi sono impegnata è vol-to proprio ad aiutare le istituzioni e i pro-fessori a costruire una scuola più ambiziosafondata sulla ricerca e la cooperazione.Il lavoro dell’insegnante cambia com-pletamente.Sì, il nostro mestiere cambia molto e all’ini-zio può essere faticoso. Anche per questo icolleghi iniziano offrendo poca autonomia epoi la aumentano. Anch’io ho impiegato unpo’ di tempo, però i risultati sono stati mol-to incoraggianti, si valorizza proprio la clas-se. In quest’ottica di un accompagnamentoquasi individuale, la relazione umana inse-gnante-allievo diventa veramente il cuoredel mestiere, molto di più che non la prepa-razione delle lezioni. Il tempo trascorso congli allievi diventa molto appassionante estimolante.I genitori?Anche in Francia non è più come un tempoquando la scuola era sacralizzata. I genitorisono molto critici con gli insegnanti. Soprat-tutto nell’VIII arrondissement c’eraun’enorme aspettativa da parte dei genitoririspetto ai figli e quando arrivava un bruttovoto a volte nascevano dei conflitti. Davantiai cambiamenti, a volte i genitori fanno re-sistenza anche perché temono di non sapereaiutare i loro figli. Attraverso il dialogo, cre-do di essere riuscita a spiegare in modo con-creto che cosa l’allievo dovesse fare e comepotevano aiutarlo, ad esempio assicurando-si che vedessero i video, che guardassero lele loro agende, cose molto semplici e preci-se. Una volta superato l’ostacolo iniziale,anche i colleghi mi confermano un ritornopositivo fra i genitori della classe capovolta.Anzi direi che i genitori sono piuttosto con-tenti perché capiscono che così c’è la possi-bilità di una personalizzazione. Questoaspetto è molto apprezzato: finalmente siinizia a lavorare a una scuola su misura perloro figlio.Direi che abbiamo più problemi con le isti-tuzioni. L’istituzione considera molto positi-va la classe invertita, a parole dice di volerlavalorizzare, ma poi magari ti chiede di ral-

lentare per non mettere in difficoltà i colle-ghi che non sono in grado di adottare questometodo. Così però gli insegnanti più intra-prendenti rischiano di essere lasciati soli...Inoltre non tutti hanno gli strumenti e lecapacità. C’è anche un problema di qualitàdegli insegnanti. Sarkozy nel 2012 ha sop-presso la nostra formazione. Hollande hareinserito la formazione pedagogica, ma do-po tre anni non siamo ancora a regime.

Oggi, dopo aver vinto il concorso, gli inse-gnanti per un anno passano metà del tempoa scuola e l’altra metà seguendo dei corsi dilivello universitario per apprendere la pe-dagogia. Dopodiché si entra in un percorsodi formazione continua. Io ero entusiasta diquest’idea, la delusione è arrivata quandoabbiamo scoperto che questi formatori spes-so non avevano mai insegnato. Insomma ilproblema resta ed è grave perché una for-mazione di cattiva qualità finisce per demo-tivare gli insegnanti: quando ti chiedono ditrascorrere una giornata ad ascoltare qual-cuno che non parla dei tuoi problemi quoti-diani, ti passa proprio la voglia di andarci!In una società sempre più composita,la scuola riveste una ruolo cruciale...Credo che abbia un grande ruolo, ma ancheche si pretenda troppo. L’ultima scuola incui ho insegnato era privata e tuttavia c’eraun documento-guida per la salvaguardiadell’eterogeneità sociale. Un’attenzione ra-ra nel privato. In quella scuola le cose fun-zionavano molto bene, c’erano allievi di tut-ti i colori e di tutte le confessioni. L’ultimoanno, gli attentati hanno messo a dura pro-va la comunità scolastica e direi l’interoquartiere: la presenza in classe di allievimusulmani ha messo in crisi tutti, lorocompresi. Io avevo scelto quella scuola pro-prio per queste caratteristiche, perché c’eral’intera società. Però davvero, è stata dura.In Francia abbiamo un grave problema disegregazione geografica e purtroppo lescuole ghetto rischiano di essere le più pe-nalizzate, perché gli insegnanti cambianoogni anno, nessuno vuole rimanerci a lun-go. Nella prima banlieue parigina, Créteil,Versaille, dove c’è una situazione sociale di-sagiata, e dove quindi ci sarebbe un granbisogno di professori bravi, oggi ci finisconosoprattutto stagisti e insegnanti all’iniziodella loro carriera. Gli insegnanti più anzia-ni o più esperti chiedono di andare nellescuole più socialmente favorite: vorrebberoandare tutti a Nizza, Montpellier e nessunoa Saint-Denis! Dopodiché si chiede allascuola di fare l’integrazione: non è facile!

(a cura di Bettina Foa e Barbara Bertoncin.Traduzione di Cesare Panizza)

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problemi di scuola

direi che i genitori sono piuttostocontenti perché capiscono che così c’è la possibilità di una personalizzazione

con la classe capovolta è nettamente diminuita la quota

di allievi che non sono attivi, che non si sentono protagonisti

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Marina Piazza, Sisa Arrighi, Laura Aveta,Chiara Baratti, Anna Bertola, Ornella Bol-zani, Gabriella Buora, Caterina Casula,Lia C., Nicoletta Chizzoli, Cecè Damiani,Franca Fabbri, Tina Ferrari, Foberta Fio-roni, Maria Grazia Longhi, Simonetta Juc-ker, Marisa L., Clara Mantica, Lia Miniut-ti, Antonella Nappi, Marilena Quarello, Da-niela Ravasi, Francesca Rossi, Carla San-guineti, Simona Sieve, Sonia Tsvrenis han-no partecipato a un ciclo di incontri e con-fronti tra donne sulla vecchiaia. La trascri-zione “riveduta” di questi incontri ha datovita al volume Incontrare la vecchiaia. Gua-dagni e perdite, a cura di Marina Piazza,edito da Lud, Libera Università delle Donne2016. Marina Piazza, Antonella Nappi,Francesca Rossi e Simona Sieve ne hannodiscusso con noi.

Per un paio d’anni, alla Libera Univer-sità delle Donne di Milano, un gruppodi donne si è incontrato per parlaredella vecchiaia. Potete raccontare?Marina. Il gruppo è nato su sollecitazionedi Lea Melandri; dopo l’uscita del mio libroL’età in più è stata lei a propormi di orga-nizzare un gruppo sulla vecchiaia. All’inizioio, che consideravo quel libro come un fattomolto personale e il processo di invecchia-mento un processo individuale e singolare,ero un po’ incerta, ma poi mi sono convintache poteva essere bello e utile mettere in co-mune i pensieri. Così ho fatto girare un po’di mail e nel giro di poco tempo si è costitui-to questo gruppo di una ventina di donne.Ci siamo riunite da novembre 2013 a mag-gio 2015 con una presenza costante e anchepuntuale. Devo dire che fin da subito c’èstata un’adesione molto forte. Molte donnehanno subito riconosciuto la necessità diuno scambio, di un confronto. Dall’altraparte è emersa fin da subito anche una spe-cie di paura, di resistenza di fronte alla pa-rola “vecchiaia”. Anche l’altro giorno duran-te una presentazione una signora ha detto:“Per carità, questo termine è terribile, per-ché avete usato quella parola?”.C’è una specie di pregiudizio verso questotermine; allora se ne inventano altri, comeappunto “senior” al posto di anziano, o, come

propone Laura Balbo, “post-adulto”. Io inve-ce ho molto rivendicato l’uso di questa parolaperché ho l’impressione che una certa intol-leranza per la propria vecchiaia, questa dif-ficoltà a definirsi vecchi, segnali un’intolle-ranza verso la vecchiaia degli altri.Qual è stato il vostro percorso?Marina. Parliamo di venti donne dai 60 ai78 anni. Abbiamo intanto preso consapevo-lezza dell’esistenza di fasi molto diverse: isociologi oggi parlano di “giovane vecchia-ia”, “media vecchiaia”, e “grande vecchiaia”.Noi ci siamo concentrate sul periodo dell’in-vecchiamento, cioè dell’incontro con la vec-chiaia, che, a mio parere, è il periodo forsepiù forte, più inquieto, perché vai incontroa qualcosa che non conosci, e questo generamolto turbamento. Il nostro percorso è statoproprio sul filo dell’indagine su questa in-quietudine, che abbiamo cercato di guarda-re da vicino. Perché tu passi da una fase incui pensi di essere padrona di te stessa, del-la tua autonomia, della tua indipendenza,eccetera, a una fase in cui intravedi la mi-naccia di caduta nell’impotenza, magarireale o magari immaginata.Ecco, potrei dire: ci siamo messe in ascolto,non solo con le orecchie ma con l’anima,sperimentando una modalità che potreichiamare di com-passione, e cioè di condivi-dere la passione.

È stata un’indagine per capire quali potes-sero essere gli strumenti per affrontare l’in-quietudine che si prova quando ci si inoltrain un territorio sconosciuto, inabitato e al-l’apparenza inabitabile perché spesso ci vie-ne rimandato dall’esterno come un tabù (lavecchiaia come negazione della giovinezza,come “negativo”). Questo all’interno di unoscenario basato sull’idea che l’esistenza allafine sia caratterizzata da un’incessante me-tamorfosi per gestire la quale non ci sonomodelli. Ma in un certo senso la nostra ge-nerazione è caratterizzata dall’essere senzamodelli, senza modelli nella nostra vitaadulta, senza modelli anche ora. Siamo

donne in ricerca.I primi incontri li abbiamo dedicati a capirechi eravamo: l’età, il lavoro, il non-lavoro, leaspettative... Dopodiché abbiamo comincia-to a lavorare sulle perdite, ma anche suipiccoli guadagni, quelli che abbiamo chia-mato, riprendendo il titolo del libro di Fran-çoise Héritier, “il sale della vita”.Abbiamo affrontato anche il tema delle re-lazioni in famiglia: i figli, le amiche, gliamici, e ovviamente il tema della solitudinee anche quello della sessualità. Abbiamo la-vorato molto sulla capacità di ricevere e didare, di chiedere, di farsi aiutare. Infine cisiamo interrogate sul senso politico dell’in-vecchiare, sul posto dei vecchi nella nostrasocietà: “che cosa ne facciamo di quest’ulti-ma parte della nostra vita?”.Francesca. Io sono stata subito molto atti-rata da quest’opportunità. All’epoca avevopassato i sessant’anni ed ero in pensione daun paio d’anni. Ho lavorato per quarant’an-ni; facevo l’impiegata, ma ho fatto anche ladelegata sindacale e già allora mi chiedevo:“Che cosa farò dopo? Chi sono io dopo?”.Ero quindi in una fase un po’ così: mi but-tavo su quello che trovavo in città. Devo di-re che al cinema, a teatro non esitavo a di-re: “Ho la riduzione vecchiaia!”. So che al-cune donne si vergognano, piuttosto paganola tariffa intera. Qualche esercizio sta al-zando la soglia ai settant’anni: è un segnodei tempi.Quello che fin da subito mi ha colpito è cheai vari eventi cui mi trovavo a partecipare,erano tutti della mia età o più vecchi! Iopartecipo a dei gruppi di lettura in bibliote-ca, ecco, le persone giovani sono rare, vuoiperché lavorano oppure non hanno tempo.Questo mi dispiace.Antonella. Io sono molto interessata allavecchiaia, soprattutto alla cosiddetta “gran-de vecchiaia”. Mi verrebbe infatti da direche dai sessanta ai settantacinque anni sitratta semplicemente di adulti: lasciali fa-ticare. Dopo gli ottanta, gli ottantacinque,gli acciacchi invece ci sono e possono esseregravi… Purtroppo nel nostro paese sembrache nessuno voglia vedere la vera vecchiaia,quella in cui si torna bisognosi come bam-bini. Ecco, cosa ne fai di queste persone?

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il tema delle relazioni: i figli, le amiche, gli amici,

e ovviamente la solitudine e anche la sessualità

L’avvicinamento alla vecchiaia, un passaggio segnato da paure e inquietudini, ma anche dallaconquista di un inedito senso di liberazione: dai tempi coatti, dal giudizio degli altri e anche, a volte, dagli oggetti del passato; l’importanza di un gruppo in cui condividere preoccupazionianche molto materiali, ma anche la messa a fuoco di cosa vogliamo farne di questi anni comunquepieni di vita. Intervista a Marina Piazza, Antonella Nappi, Francesca Rossi e Simona Sieve.

IL PRESENTE DELLA VECCHIAIA

buone pratiche

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Perché o gli permetti di morire molto bene,quando lo desiderano, o progetti un’assi-stenza civile, relazionale e umana, che peròcomporta un lavoro immenso. Da molto ri-fletto su quest’idea che quando non sei piùcompetitivo, la società ti mette da parte.Per me l’obiettivo è anche affrontare e sgre-tolare tutta questa ideologia, come si è fattocon il femminismo. Simona. Le motivazioni delle persone chehanno partecipato al gruppo erano le più di-verse. Ognuna di noi ha ritrovato una trac-cia, un senso. Personalmente io sono statamolto colpita dal nome, ma positivamente.Anch’io ero appena andata in pensione eun’amica, anche provocatoriamente, mi hagirato l’invito, che ho accolto con curiosità.Io tendo ad avere un approccio anticipatorioverso le cose, mi piace andare a vederle unpo’ prima, così anche se non mi sentivo an-cora “arrivata” ho voluto entrare nel grup-po. Ecco, poter confrontarmi con donne cheavevano dieci o anche quindici anni più dime è stato fondamentale e anche incorag-giante: c’è ancora tanta vita! Da qualche anno, io sento in atto un cam-biamento: si tratta di riposizionarsi, di ri-prendere le misure, anche rispetto all’im-magine fisica che gli altri hanno di te. Pur-troppo la saggezza non è più un valore; co-me dicevano alcune del gruppo, quandoparli con i figli, in famiglia, a volte ti accorgiche fai fatica: “Per favore rallentate, perchénon vi seguo!” e la reazione spesso è un ge-sto significativo come dire “Che palle!”…

Ecco, tutte queste cose messe assieme van-no a scalfire un po’ quella che è la percezio-ne che hai di te stessa, la tua relazione congli altri.Dicevi che siete partite dalla percezio-ne delle mancanze, delle perdite...Marina. Soprattutto Sonia, la più vecchiatra noi (adesso ha ottant’anni) ha messo sultavolo questa percezione delle perdite: di-venti un po’ sorda, ci vedi peggio, magaridevi subire un intervento (a me è capitatoall’anca), insomma tanti piccoli malanni, avolte anche grandi: una di noi ha avuto unictus.

Questo dato di realtà ti interroga e ti mettein crisi rispetto a una percezione di vitalità,di energia, di autonomia. Il corpo nella no-stra generazione è sempre stato vissuto co-me qualcosa di molto forte, che si poteva an-che trascurare. Ecco a quest’età il corpo in-vece reclama la sua presenza, diventa quasiuno stregone con cui devi fare i conti.Personalmente ho trovato interessante an-che il fatto che la questione dell’esteticapraticamente non sia stata quasi tirata fuo-ri, probabilmente è più un problema dellecinquantenni, quando cominci a registrarei primi cambiamenti esteriori.Abbiamo comunque cercato di far venir fuo-ri questo intreccio delle perdite e dei guada-

gni, forti della convinzione che l’anziano èanche una risorsa, non solo un carico assi-stenziale. Il percorso è stato segnato da un continuomettere a confronto punti di vista diversi,senza contrapposizione, riprendendo un po’,se vuoi, il discorso dell’autocoscienza. Que-sto ritrovarsi è stato molto stimolante: ma-gari tu partivi da un’immagine molto dura,molto pessimistica dopodiché ti dovevi con-frontare con chi invece ti offriva uno sguar-do diverso, opposto. Abbiamo parlato moltodel rapporto con i figli, spesso riconoscendodi non essere d’accordo su alcune cose, an-che con il senso liberatorio di poter dire:“Vabbé, diciamocelo che persino i nostri fi-gli a volte non ci piacciono!”.Io certo ho imparato molto da questa espe-rienza. Da sempre, quando sono malata,tendo a rintanarmi, a fare un po’ cuccia, hodifficoltà a chiedere. Qualche tempo fa, co-me dicevo, ho dovuto sottopormi a un inter-vento all’anca. Ebbene, dopo tutte questenostre discussioni sul saper dare, ma anchericevere, al momento di entrare in ospedale,per la prima volta, ho chiesto aiuto. Ancheal ritorno a casa, sono stata accompagnatada tante persone che mi aiutavano, mi pre-paravano la cena; una cara amica è stataqui un mese con me. Insomma alla fine misono trovata a riconoscere che avevo davve-ro ricevuto tantissimo, ma perché finalmen-te avevo saputo chiedere!Francesca. Quando ho cominciato a parteci-pare a questi incontri, avevo un po’ di titu-

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diventi un po' sorda, ci vedipeggio, magari devi subire

un intervento (a me all’anca),insomma tanti piccoli malanni

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buone pratiche

banza a dirlo alle amiche, la buttavo lì cosìe regolarmente nessuno mi chiedeva nulla,come se ci fosse il timore… Io sono sempre stata molto diffidente versoi centri anziani, non mi piacciono i ghetti:perché inibirmi la possibilità di fare cose in-sieme a chi ha venti, trenta o quarant’anni?Ecco, mi spaventa un po’ l’idea di fare spa-zio a una cosa specifica per gli anziani.Marina. Ma non è certo quello il nostro pro-posito!

Simona. Noi siamo la generazione che hacercato sempre di autodeterminarsi, di au-todefinirsi, è normale che ci interroghiamo:se guardiamo i centri anziani, le Rsa, la fi-ne con la badante, ti viene da dire: “No, nonposso finire così!”. Io questa cosa la sentoproprio come un dovere di coerenza! Nontanto nel senso di finire così, ma nel sensodi non averci pensato, perché invaliderei ilpercorso precedente. Avete dedicato del tempo al tema delcohousing.Marina. Abbiamo affrontato anche il temadella vita materiale: il lavoro, il non lavoro,e ci siamo molto soffermate sulla situazioneabitativa: dove andrò? Starò da sola, conuna badante, in istituti protetti, in un co-housing? Qualcuno aveva già fatto delleesperienze: alcune pure andate male, altresolo pensate, altre ancora in fieri. Personal-mente non ho mai pensato al cohousing co-me a un luogo di tutte vecchiette, mi piace-rebbe un cohousing che mettesse assiemediverse generazioni.In Italia purtroppo siamo molto arretratida questo punto di vista. In Francia, inGermania ci sono situazioni molto piùavanzate, in cui non devi necessariamentecomprare il tuo pezzo di casa, puoi anchestare in affitto. Però la cosa interessante, amio parere, è che finalmente ci siamo anda-te dentro a questa cosa, chiedendoci seria-mente: “Ma io, che da vent’anni parlo di co-housing con le mie amiche, lo vorrei davve-ro?”. Abbiamo tentato di capire meglio. Si-curamente alla base di questa scelta c’è lapaura della solitudine, ma anche la vogliadi condividere; e poi ci sono le questionipratiche: “Come faccio a vendere la mia ca-sa, con il rischio che dopo tre mesi mi accor-go che quella situazione non fa per me?”.Insomma, abbiamo fatto uscire anche gliaspetti problematici, abbiamo messo assie-me i vari tasselli.Se mai dovessimo passare a un’esperienzapiù “politica”, nel senso di coinvolgere la po-lis, ecco oggi siamo consapevoli degli aspet-ti positivi, ma anche delle difficoltà, delleinquietudini, delle contraddizioni di una si-mile opzione.

La soluzione abitativa è indubbiamenteuno dei crucci maggiori. Anche questo è se-gno dei tempi. L’altro giorno ho vistoun’amica che abita in Spagna: lei ha settan-taquattro anni, il marito ha passato gli ot-tanta; il figlio ha quarantacinque anni e vi-ve in Sud America. Ebbene, lei diceva: “Mase io dovessi restare vedova, dove vado?Madrid non è la mia città, a Milano ci sonostata un po’: tornare a Carpi non mi dicepiù niente, a Lima, se mio figlio avesse unfiglio, ci andrei subito, ma diversamente co-sa vado lì a fare?”. Questo dilemma le don-ne della generazione precedente non se loponevano; adesso fra le nostre amiche sonoabbastanza numerose quelle che hanno i fi-gli dall’altra parte del mondo.Avete parlato di un senso di liberazio-ne.Marina. Tra i guadagni c’è anche questosenso di liberazione da impegni coatti: nonhai più i figli piccoli, non hai più scadenzelavorative...Simona. Io vivo anche un’inedita libertà daigiudizi. Molte di noi hanno registrato, nelrapporto con gli altri, una maggiore legge-rezza. Questa è una cosa bella.Marina. Questa liberazione dall’approva-zione degli altri alla fine curiosamente por-ta a un maggior riconoscimento perché tiviene riconosciuta proprio questa libertà edignità. Agli incontri abbiamo ricordatoquella citazione di Brecht sulla “vecchia si-gnora indegna”: quella che fa tutto quelloche le piace. Lo stesso concetto di liberazione è stato in-terpretato in modo diverso. C’era chi volevadisfarsi delle cose che appartenevano alpassato, gli oggetti, le lettere, i mobili.Chiara, ad esempio, diceva: “Faccio il vuoto,ho voglia di pulizia!”. E poi c’era l’altra fa-zione che invece si ribellava: “Ma no, è bel-lo!”. Una raccontava: “Ho scoperto la tazzi-na della mia mamma e adesso mi piace ber-ci il caffè alla mattina”; oppure piccole cosedi lessico familiare.

Alla fine siamo arrivate a dire che la cosaimportante è non farsi sommergere dairimpianti; una di noi ha confessato: “Misento come se avessi vissuto la vita a miainsaputa”. Insomma, non rimpianti, ma ri-cordi buoni.Simona. Personalmente ho apprezzato chenon ci fosse, nell’ascolto dell’esperienza de-gli altri, una cosa giusta e una sbagliata. Io,per esempio, prima di frequentare il grup-po, appena andata in pensione avevo fattouna grande pulizia nella mia stanza, but-tando via tante cose. Mi dicevo: “Un pezzodi vita finisce e ne comincia un’altra: viatutta questa zavorra, bisogna liberarsi, se-

pararsi da queste cose” e così buttavo, but-tavo… poi sono arrivata lì e mi è piaciutosentire che invece c’era chi teneva; perchénon è che privarsi di alcuni oggetti non pro-vocasse un dispiacere. Oltre certi livelli ri-schia di essere una scelta un po’ ideologica,tant’è che alla fine mi trovavo a guardarmiintorno e a chiedermi: “Mamma mia, nonl’avrò mica buttata quella cosa lì?”.Alla fine mi sono identificata di più nel farpulizia, però scoprire che per altri era belloanche trovare il senso del tenere, mi ha da-to una sensazione di avvolgimento, cioè chenulla è sbagliato.Marina. Abbiamo affrontato anche questoconcetto del “tempo liberato”: della grandeliberazione dal lavoro, dagli impegni di cu-ra, eccetera. Negli anni passati, mentre silavorava, si erano accumulati anche moltidesideri repressi; il fatto è che se tu li hailasciati perdere, non è facilissimo ripren-derli in mano. Abbiamo parlato della que-stione del volontariato: dove si faceva, chilo faceva, chi non lo voleva fare… oppuredel godere dei piaceri della vita, che va be-nissimo, ma va contemperato con questanecessità di avere un nodo di senso, un cen-tro. Un’amica scherzando suggeriva: “Avereun centrino, almeno!”.Alla fine la domanda fondamentale è: chece ne facciamo di quest’ultima parte dellanostra vita? Rispetto al passato possiamodire che comunque sia andata è stata la no-stra vita, ma adesso? Ecco, adesso mi pia-cerebbe avere qualche strumento in più percapire che cosa ne faccio di questi anni, do-ve punto. E non è facile perché nessuna tipuò dare la sua vita, la sua ricetta. Nonpuoi dire: “Guarda quella com’è brava, fac-cio anch’io così!”.Avete parlato anche della malattia edella morte.Simona. L’incontro sulla morte lo abbiamofatto con l’aiuto e la conduzione di una so-ciologa, Grazia Colombo, che ha lavoratotanto sulla formazione degli operatori inospedale, sulle perdite legate soprattutto alpercorso della nascita pretermine. Io sonoostetrica e il mio lavoro mi ha insegnato afare i conti con queste situazioni. Certo èstato un incontro faticoso...Marina. Infatti, la volta dopo, prima di ri-prendere il discorso, abbiamo fatto il “partydella resurrezione”, abbiamo portato lagrappa, il formaggio, il pane, per tirarci su! Simona. Complessivamente, l’esperienzadel gruppo mi ha riportato un po’ al mio la-voro, nel senso che mi è sembrato anch’essoun percorso di preparazione alla nascita. Itemi sono gli stessi perché anche in un per-corso di nascita affronti il tema del cambia-mento, dell’adattamento a una nuova im-magine, dell’accettazione di te, della ses-sualità, della paura, del dolore, della solitu-dine, della possibilità di condivisione, del-l’ansia di controllo e del lasciar andare.

sono diffidente verso i centrianziani, non mi piacciono i ghetti:

perché inibirmi la possibilità di fare cose con chi ha trent'anni?

una raccontava: “Ho scoperto la tazzina della mia mamma

e adesso mi piace berci il caffè alla mattina”

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una città 23

buone pratiche

Marina prima parlava del chiedere, del da-re e del ricevere. Quanto è difficile, nel mo-mento del parto, stare accanto a donne chenon sanno chiedere, che non sanno cosachiedere! È una questione anche di umiltàriconoscere: “Ho bisogno che tu mi stia vici-no e che tu mi dia una mano”.Non ne siamo più capaci. Non riusciamopiù nemmeno ad andare a chiedere l’uovoper fare la frittata o il prezzemolo alla vici-na di casa,… quand’ero piccola ricordo chemia mamma mi diceva: “Vai dalla vicina achiedere il burro!”. Oggi se ci manca un in-grediente piuttosto cambiamo ricetta!Francesca. Rispetto al tema della morte,devo dire che nel periodo della partecipazio-ne al gruppo, io ho perso un’amica e un’al-tra si è aggravata, così nel giro di qualcheanno mi sono trovata senza due personemolto vicine. Questo mi ha dato molto dapensare, anche rispetto alla capacità di faredelle nuove amicizie in età adulta.Poi io sento molto la minaccia della perditadi autonomia. Dico sempre che sono statamolto fortunata come salute. In questi ulti-mi anni però qualche acciacco si è presen-tato. Davanti a certi dolori è venuta fuori la“caduta del metatarso” (a sessant’anni nonsapevo neppure cosa fosse il metatarso!).Quest’inverno mi sono trovata a zoppicareper una settimana, era la prima volta. Sonocose che mi spaventano, proprio perché va-do verso una certa età, ho 68 anni, e vivosola. A volte mi scopro a pensare: “E se poinon riesco più a camminare, come faccio?”.Per ora sto bene, però ci penso, se c’è un do-lore, cerco subito di capire da che cosa di-pende e di recuperare. Marina. La malattia terribile e improvvisache ha colpito Vita Cosentino ci ha moltoturbato, ma di più ci ha impressionato l’in-credibile mobilitazione delle amiche di cuiha parlato nel suo libro e in un’intervista a

“Una città”. Mi ricordo che quando ne ab-biamo discusso qualcuna ha fatto notare:“Ma una rete così non è che si improvvisa!”.È proprio così: le reti, le amicizie bisognaguadagnarsele in qualche modo. Anche su questo il nostro lavoro di gruppoè stato utile. Si tende a pensare che alcunigesti “straordinari” arrivino come un dono,invece abbiamo capito che la rete o te la co-struisci oppure non c’è! Purtroppo è molto vero quello che diceFrancesca: in questa fase della vita le ami-cizie sono un po’ più complicate rispetto al-la fase precedente. Noi siamo state abituatead avere le amiche con cui andavamo inviaggio, con cui condividevamo i bambini oi lavori; adesso ognuna, in qualche modo,prende la sua strada: una è ancora nel pie-no del lavoro, l’altra fa solo la nonna, l’altrasi è trasferita, per cui c’è questa percezionedi una dispersione.

Qualche anno fa, la mia ipotesi di spostar-mi da Milano a Roma, dove vive mio figlio,è stata considerata dalle mie amiche unavera offesa! All’inizio non avevo capito… In-vece la stessa cosa è successa qualche tem-po fa quando un’amica che si trova con la fi-glia da una parte, la sorella dall’altra, hacominciato a interrogarsi su dove andare avivere e anche lei ha detto la stessa fraseche avevo detto io: “Vado dove sono i mieiparenti!”; ecco, questa volta io stavo dall’al-tra parte e assieme alle altre donne presen-ti le abbiamo risposto: “Ma come, e le tueamiche?!”. Della sessualità avete parlato?Marina. È un tema che abbiamo affrontato,anche se non posso dire che siamo andate

molto a fondo. Mi sembra che siano venutefuori due percezioni molto diverse tra chi èin coppia e chi (tra l’altro la maggioranza)è single.Antonella. Va detto che anche chi ha uncompagno spesso rinuncia alla sessualità;in ogni caso pesa il venir meno della capa-cità di attrarre.Simona. Abbiamo parlato anche della tra-sformazione dell’approccio alla sessualitàcon la prevalenza di una ricerca di abbrac-ci, di affettuosità, piuttosto che di una ses-sualità genitale. Questa cosa mi è sembrataabbastanza comune. Marina. Alcune donne in coppia segnalava-no una diversità dalla sessualità maschile:“Io mi sono tirata fuori, voglio una sessua-lità diversa, voglio un abbraccio, voglio sta-re insieme, mentre lui invece...”.Ugualmente complicata è, d’altra parte, lasituazione di chi è single, che ancora piùdifficilmente riesce a riempire la mancanzadi sessualità con un’affettuosità, una vici-nanza diversa. C’è quella bella poesia diDavide Maria Turoldo che dice: “Non homani che mi accarezzino il volto”… Sul desiderio poi il discorso si è fatto piùampio. Nell’età adulta la tua identità è mol-to connotata dall’esterno: perché hai deicompiti, un lavoro, un ruolo; a quest’etàsuccede che la legittimazione la devi cerca-re dentro di te: una bella sfida!Forse, uno dei guadagni del gruppo alla fi-ne sta anche nell’aver sviluppato questapazienza, questa apertura verso ciò che èignoto, questa capacità perfino di disimpa-rare quello che sei stato per accogliere lepossibilità, anche impreviste, che ti offre lavita. La vecchiaia non è, insomma, un in-sieme di passato e di possibile futuro, è unpresente. Come dire: adesso sei quello chesei e sta a te decidere: che vita vuoi vivere?

(a cura di Joan Haim e Barbara Bertoncin)

quest'inverno mi sono trovata a zoppicare, era la prima volta

e mi ha spaventano, perché vadoper i 68 anni e vivo sola

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“L’Isis ha commesso il crimine di genocidio, nonché molteplici crimini contro l'umanità e crimini di guerra pensabili”. Il rapporto della Commissione internazionale indipendente d’inchiesta sulla Siria dell’Onu, pu attivisti, avvocati, giornalisti e personale medico. L’Isis, denuncia l’Onu, ha cercato di distruggere il popolo inumani e degradanti, trasferimenti forzati che hanno causato gravi danni all'integrità fisica e psicologica; tra donne e uomini, la sottrazione di bambini yazidi dalle loro famiglie da parte dei combattenti Isis… Nell

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a contro gli yazidi, migliaia dei quali sono tenuti prigionieri in Siria, dove sono sottoposti agli orrori più im- ubblicato il 16 giugno scorso, si basa su 45 interviste con sopravvissuti, leader religiosi, contrabbandieri,

o yazida attraverso: l’assassinio, lo sfruttamento sessuale, la riduzione in schiavitù, la tortura e trattamenti l’imposizione di condizioni di vita che determinano una lenta morte; la conversione forzata, la separazione

a foto: rifugiate yazide in fuga dall’Isis, Faysh Khabur, 9 agosto 2014.

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una città26

interventi

Un rapporto del McKinsey General Institutedel luglio scorso (vedi link), citato da Federi-co Rampini su “Repubblica” del 13 agosto,confronta il reddito lordo e il reddito disponi-bile (dopo le tasse e i sussidi) nel decennio2005-2014 con quello del decennio prece-dente in 6 Paesi: Italia, Stati Uniti, RegnoUnito, Olanda, Francia e Belgio. Non sorprende che, dopo la crisi, ci sia undeclino dei redditi in quasi tutti i paesi. Sor-prende l’entità e la pervasività del declino, ladistribuzione per decili di reddito della popo-lazione (le persone nello stesso decile direddito, a distanza di dieci anni, non le stes-se persone più vecchie di dieci anni). Sor-prendono le differenze tra paesi e tra redditolordo e reddito disponibile nei vari paesi, chesono una sorta di indicatore complessivodelle politiche sociali. Si commentano più difrequente gli andamenti del Pil e della pro-duttività, o le clamorose e crescenti differen-ze di reddito e di ricchezza, sulla stradaaperta da Piketty. Gli andamenti del redditodisponibile ci sono meno familiari.Il McKinsey General Institute ha scelto di mi-surare le differenze di reddito dello stessodecile a distanza di dieci anni perché ritieneche le differenze tra le varie classi socialipossano anche non sconvolgere la societàse il reddito di chi sta più in basso cresce,ma che la caduta permanente del redditodella stessa classe sociale nel tempo difficil-mente possa essere tollerata senza scosse.Ma veniamo ai dati essenziali. In Italia la ca-duta del reddito lordo ha riguardato il 97%della popolazione; negli Stati Uniti l’81%; nelRegno Unito il 70%; in Olanda il 70%; inFrancia il 63%; in Svezia il 20%. Per il reddito disponibile, dopo le tasse e isussidi, in Italia il declino riguarda il 100% (3punti in più che per il lordo); negli Stati Unitimeno del 2% (80 punti in meno); nel RegnoUnito il 60% (dieci punti in meno); in Olandail 70% (livello immutato); in Francia il 10%(53 punti in meno); in Svezia meno del 2%(18 punti in meno). In sostanza Stati Uniti,Francia, Svezia, in misura minore RegnoUnito, hanno una politica sociale di sostegnoal reddito. Italia e Olanda non ce l’hanno.Come hanno fatto Stati Uniti, Francia, Sve-zia, Gran Bretagna, a sostenere il reddito?Gli Stati Uniti, secondo il Rapporto, hannosostenuto il reddito delle famiglie con 350miliardi di dollari che, insieme con le cifre an-cora maggiori usate per sostenere le ban-che, hanno portato il loro debito pubblico vi-

cino al 100% del Pil. In misura minore hannofatto la stessa cosa la Francia e la Gran Bre-tagna. L’Olanda non ha fatto nulla. La Sve-zia, con una situazione assai più equilibrata,ha accresciuto il debito pubblico nell’imme-diato, ma poi lo ha riportato vicino al 40%precedente.L’Italia, con un debito pubblico molto alto elo spread in crescita rispetto ai bond tede-schi, come ricordiamo, ha preso misure re-strittive che hanno peggiorato la situazione.

Le differenze in dettaglioSe si guardano i mutamenti del reddito lordoe di quello disponibile paese per paese e de-cile per decile (o quintile per quintile) si tro-vano varie conferme e qualche novità.L’Italia ha una situazione peggiore, e un ef-fetto negativo delle tasse e sussidi, ancheprima della crisi. La Francia tampona (nondel tutto) il peggioramento del quintile piùbasso. La Svezia annulla in media il peggio-ramento, ma lascia immutati i maggiori au-menti dei quintili più alti.In tutti i paesi il tasso di occupazione deimolto qualificati è maggiore di quello dei me-no qualificati (ma con dieci punti, o venti perle qualifiche medie) di differenza tra Sveziae Italia.La precarietà è aumentata per tutti, ma congrandi differenze tra paesi.In genere il quintile più basso ha avuto unacaduta maggiore del reddito lordo, compen-sata dall’intervento pubblico.In Olanda il quintile più basso ha resistito al-la crisi passando al lavoro autonomo.In generale si può osservare che non c’èun’importanza magica dei settori di punta.Non c’è stato l’aumento di produttività atte-so dall’automazione, che inoltre distruggeposti di lavoro senza crearne altrettanti dinuovi. Conta di più l’intreccio e l’equilibriotra settori.

Dove stiamo andandoIl Rapporto è solo uno di moltissimi contribu-ti, ricerche e libri, che mettono in guardia dalconsiderare la crescita continua come undato permanente. di natura (vedi anche se-condo link). Ricchi per sempre?, si è chiestoPierluigi Ciocca degli italiani. Robert J. Gor-don ha scritto The Rise and Fall of AmericanGrowth: The US Standard of Living since theCivil War: storia, non profezia. Non si trattadi una ripresa dell’ideologia del declinodell’Occidente, ma di un declino dell’ideolo-

gia della crescita continua, dei modelli onni-comprensivi ed espansivi in eterno. Non soloEuropa e Stati Uniti, per ragioni strutturali,fanno fatica a mantenere il reddito dei loropoveri e del loro ceto medio ma anche iBrics non sembrano in buona salute. Il Rapporto si limita al passato, ma non siastiene dall’esprimere, prudentemente, timo-ri sulla tenuta sociale. “Un periodo lungo di redditi piatti o declinantipotrebbe avere effetti importanti sulla cresci-ta economica e sui bilanci degli Stati. Se sirompe la connessione tra crescita del Pil ecrescita dei redditi e si crea la possibilità chela prossima generazione sia più povera diquella dei genitori, si distrugge anche la dif-fusa aspettativa di progresso. Ne può deri-vare una insoddisfazione sociale e politica eun senso di alienazione, di ostilità verso al-cuni aspetti del sistema economico globale.”È quello che è accaduto negli Stati Uniti, inGran Bretagna, in Italia. Un po’ dappertutto.La ricetta che sembra aver funzionato me-glio è la vecchia ricetta socialdemocratica: “IlGoverno svedese si è concentrato sulla con-servazione e la creazione di posti di lavoro,aggiungendo lavori temporanei al settorepubblico, riducendo le tasse sui salari per leaziende e dando incentivi fiscali per l’assun-zione di giovani e di disoccupati di lungo pe-riodo. Il Governo americano ha puntato dipiù alla stabilizzazione dei settori come quel-lo bancario e quello automobilistico e stimo-lando la domanda nell’economia.”Il Governo italiano, ha seguito, a parole, lastrada svedese, ma in pratica, al contrario,ha applicato l’austerità per i cittadini, tempe-rata da qualche regalo, e gli sgravi per leaziende, senza l’autonomia e la stabilità del-le economie forti e perciò senza ottenerne irisultati. Nei commenti del Rapporto sembra intera-mente sparita l’illusione della crescita edell’equilibrio determinati dal mercato. Sen-za regole e interventi pubblici resteremo conl’acqua alla gola. Fino alla prossima crisi.

http://www.mckinsey.com/global-themes/em-ployment-and-growth/poorer-than-their-pa-rents-a-new-perspective-on-income-inequa-lityhttp://www.mckinsey.com/industries/private-equ i ty -and-pr inc ipa l - inves to rs /our -insights/why-investors-may-need-to-lower-their-sights

Più poveri dei genitori di Francesco Ciafaloni

UNA CITTA’ Redazione: Barbara Bertoncin, Giorgio Calderoni, Stefano Ignone, Silvana Massetti, Giovanni Pasini, Paola Sabbatani, Gianni Saporetti (direttoreresponsabile). Collaboratori: Isabella Albanese, Katia Alesiano, Rosanna Ambrogetti, Giorgio Bacchin, Luca Baranelli, Alfonso Berardinelli, SergioBevilacqua, Guia Biscàro, Marzia Bisognin, Stephen Eric Bronner, Thomas Casadei, Alessandro Cavalli, Francesco Ciafaloni, Luciano Coluccia,Francesca De Carolis, Carlo De Maria, Ildico Dornbach, Bruno Ducci, Fausto Fabbri, Enzo Ferrara, Bettina Foa, Andrea Furlanetto, Bel Greenwood,Joan Haim, Massimo Livi Bacci, Giovanni Maragno, Emanuele Maspoli, Franco Melandri, Annibale Osti, Cristina Palozzi, Cesare Panizza, AndreaPase, Edi Rabini, Alberto Saibene, Ilaria Maria Sala, Massimo Saviotti, Sulamit Schneider, Alessandro Siclari, Massimo Tirelli, Franco Travaglini,Alessandra Zendron. Hanno collaborato: Antonio Fedele, Andrea Furlanetto, Andrea Rizza Goldstein, Marie-Anne Matard-Bonucci. In copertina:foto di Iga Lubczanska. Proprietà ed editore: Una Città società cooperativa. Cda: Rosanna Ambrogetti, Barbara Bertoncin, Giorgio Calderoni, EnricaCasanova, Francesco Ciafaloni, Stefano Ignone, Silvana Massetti, Paola Sabbatani, Gianni Saporetti, Franco Travaglini. Questo numero è statochiuso il 5 novembre 2016.

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Ottobre 2016Cielo imbronciato sul Majdan. Nubi com-patte strozzano i timidi raggi del sole acer-bo del mattino che non ha ancora la forza diriscaldare gli incerti passanti che taglianola piazza. Qualche piccione arruffato saltel-la sul selciato danzando attorno ad un pre-sidio di testimoni di Jehova pronti ad inter-cettare gli incauti avventori dei locali delcentro distribuendo loro bibbie che certifi-cano la parola di Dio. Nel mezzo si stagliaun grande poster con le foto delle vittimedell’eccidio del febbraio di due anni fa, peri-te in quello stesso luogo sotto il fuoco deicecchini dei famigerati corpi speciali dellapolizia di Yanukovich. Di fianco la sede deisindacati che ospitava il quartier generaledei manifestanti è impacchettata dalle im-palcature sulle quali muratori e carpentieriprovvedono alle laboriose opere di restaurodopo l’incendio scoppiato durante gli scontridi allora. Lungo il corso Kreshatik il trafficoprocede a strappi scanditi dal ritmo dei se-mafori. Fatico ad orientarmi in questa piaz-za dove ritorno dopo una lunga assenza. Miguardo intorno spaesato nello spazio vuotomentre nella mia testa scorrono e si sovrap-pongono alla rinfusa immagini e ricordi diangoli famigliari che stento a riconoscereadesso che hanno riacquistato le grigiesembianze della routine quotidiana. La nor-malità annoia e uccide la fantasia ma noncancella il passato recente, un passato chea tratti riappare e continua a ingombrare isogni e le ambizioni dell’Ucraina.

Il referendum olandeseTutto era cominciato nell’ottobre del 2013quando l’allora presidente Yanukovich siera improvvisamente rifiutato di sottoscri-vere l’Accordo di Associazione con l’UnioneEuropea da lui stesso negoziato e concluso.Sono trascorsi tre anni nei quali in Ucrainaè accaduto di tutto, fra dimostrazioni spon-tanee, proteste più o meno pacifiche, som-mosse e rivoluzioni, occupazioni di spazipubblici, azioni di resistenza attiva, scontriviolenti con la polizia, esecuzioni di massa,cambio di regime, invasioni camuffate,guerre di secessione, conflitti congelati conmigliaia di vittime e milioni di profughi, equell’accordo non ha ancora trovato attua-zione. Questa volta, tuttavia, non è colpa diKiev, è la controparte europea che non è ingrado di far fronte agli impegni presi . Ba-sta poco per inceppare i contorti e farragi-nosi meccanismi decisionali dell’Unione atestimonianza di quanto fragile, delicata ecomplicata sia la macchina comunitaria.

Ogni accordo internazionale sottoscrittodall’Ue per entrare in vigore deve essere ra-tificato secondo le procedure previste daitrattati e in conformità con le norme stabi-lite dall’ordinamento giuridico di ciascunodei paesi membri. In parole povere occorreil consenso del Consiglio e del ParlamentoEuropeo, da un lato, e quello dei governi edei parlamenti nazionali dei paesi membri,oltre che del paese terzo, dall’altro. Se man-ca anche uno solo di questi passaggi l’accor-do resta lettera morta, buono solo per la te-si di laurea di qualche studente di scienzepolitiche o di qualche saggio o dissertazioneaccademica. In genere il tempo tecnico cheintercorre fra la firma ufficiale del docu-mento e la conclusione della procedura diratifica è di circa un paio di anni.

Non era mai successo, in precedenza, cheun paese membro bloccasse l’iter procedu-rale dopo la firma ufficiale delle parti, av-venuta, in questo caso, il 27 giugno del2014. Il 6 aprile scorso, però, i cittadiniolandesi sono stati chiamati a pronunciarsitramite referendum sull’approvazione del-l’accordo fra Unione Europea e Ucraina euna schiacciante maggioranza, il 61% deivotanti, ha espresso parere contrario. Pocoimporta se il risultato non è vincolante trat-tandosi di una consultazione priva di valoregiuridico; di fatto il governo dell’Aja si èsentito nell’obbligo di sospendere la notificaa Bruxelles, ultimo passaggio tecnico, dellaratifica parlamentare approvata a stra-grande maggioranza pochi mesi prima get-tando nel panico le autorità europee. L’ini-ziativa referendaria era stata promossa dagruppi euroscettici decisi ad interrompereil processo di integrazione del vecchio con-tinente. Più che dell’accordo in sé, nel corsodella campagna si è discusso di politiche co-munitarie e nelle urne si è sfogata la rabbiadi coloro che reputano l’Unione responsabi-le di tutti i mali che affliggono l’Olanda.Con il risultato che poco più di due milionie mezzo di elettori olandesi hanno datoscacco alla diplomazia europea, ai ventottogoverni dei paesi membri e ai rispettiviventotto parlamenti nazionali, con l’Ucrai-na vittima innocente e impotente delle con-torsioni epilettiche dell’opinione pubblicadei Paesi Bassi. Si tratta di capire, ora, se ecome è possibile andare avanti. L’accordo diassociazione, infatti, è di natura mista cioè

in parte di competenza esclusiva dell’Unio-ne, che non ha bisogno quindi della ratificadei parlamenti nazionali, e in parte di com-petenza condivisa che richiede, invece, ilconsenso di questi ultimi. Così dal primogennaio 2016 i capitoli di prerogativa comu-nitaria, che riguardano gli scambi commer-ciali e le misure economiche relative, ven-gono applicati in via provvisoria mentre perquanto riguarda il resto, che ha valenza so-prattutto politica, il giudizio è sospeso in at-tesa di attento esame degli azzeccagarbuglidi Bruxelles chiamati dalle autorità olande-si a sbrogliare la matassa. In questa para-dossale situazione una cosa è sicura: il pa-sticcio non si risolverà, per ovvie ragioni,prima delle elezioni legislative che si ter-ranno nei Paesi Bassi nella primavera delprossimo anno con i populisti anti-europeiche viaggiano con il vento in poppa. PoveraEuropa, bistrattata, sbeffeggiata e avvitatasu se stessa in un turbine vertiginoso, e po-vera Ucraina impantanata e aggrovigliatain problemi che esulano in buona parte dalcontesto nazionale proiettandosi sullo sce-nario della nuova guerra fredda che vedeancora una volta contrapposti i paesi occi-dentali e la Russia.

Lotta alla corruzione Hugues Mingarelli è un funzionario di lun-go corso passato al servizio diplomaticodell’Unione quando questo corpo fu creatonel gennaio del 2011. Sempre incaricato dioccuparsi di aree di crisi, dai Balcani alCaucaso e, negli ultimi anni, ai paesi dellasponda meridionale del Mediterraneo, l’hospesso incrociato nelle aule parlamentaridove gli eurodeputati lo interpellavano,spesso con domande fuori tema, sull’uso deifondi comunitari e l’efficacia delle politichedi assistenza. Da qualche mese è stato no-minato ambasciatore europeo in Ucraina.Spetta a lui, quindi, il coordinamento deidiplomatici che rappresentano a Kiev i 28paesi membri. Ed è sempre lui che funge damoderatore all’incontro che apre la visita diquesta nuova delegazione dell’eurocameranella ex-repubblica sovietica. Il primo aprendere la parola, lupus in fabula, è l’am-basciatore olandese che, non senza un certoimbarazzo, fa il punto della situazione sullamessa in atto dell’accordo di associazione,seguito da quello danese che sposta subitoil discorso sull’altra grande malattia che af-fligge l’Ucraina, la corruzione. Era statoproprio il rifiuto nei confronti della corru-zione dilagante una della cause predomi-nanti che aveva spinto la gente nelle piazze

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appunti di viaggio

ASPETTANDO BRUXELLESL’adesione dell’Ucraina all’Europa incagliata in un referendum olandese, senza valore vincolante,ma in cui la maggioranza, circa due milioni e mezzo, si sono pronunciati contro la candidaturaucraina; la situazione nel Donbass, la Crimea e la decisione della Finlandia. Di Paolo Bergamaschi.

nelle urne si è sfogata la rabbiadi coloro che reputano l’Unione

responsabile di tutti i mali che affliggono l’Olanda

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durante i giorni della “rivoluzione della di-gnità”. Tangenti e mazzette erano la normaai tempi di Yanukovich come, peraltro, loerano ai tempi dei governi filo-occidentaliprecedenti ai quali, però, Bruxelles guarda-va con strabica indulgenza. Il nuovo corsoucraino poggia sulla lotta alla corruzionema risulta difficile estirpare con le sole ri-sorse umane autoctone un male radicato eormai cronicizzato a tutti i livelli nellestrutture dello stato. Nel quadro della va-riegata assistenza offerta a Kiev, l’UnioneEuropea ha, così, messo a punto un pro-gramma specifico per combattere questapiaga ed ha incaricato la Danimarca, ai ver-tici nelle classifiche mondiali dei paesi me-no corrotti, di attuarlo. “La corruzione è ilcancro della società di questo paese -sotto-linea l’ambasciatore danese- ma non si trat-ta di un tumore circoscritto rimovibile conun semplice intervento chirurgico, è qualco-sa di sistemico, più simile a una leucemiache richiede una terapia totale a dosi mas-sicce”.

Uno dei primi provvedimenti del nuovo go-verno è stato l’istituzione dell’Agenzia Na-zionale per la Lotta alla Corruzione che, pe-rò, manca ancora dei mezzi necessari peroperare a pieno regime. Dal primo settem-bre, inoltre, è entrato in vigore per 40.000funzionari statali l’obbligo della dichiara-zione elettronica dello stato patrimonialeche impone ogni anno e per i tre anni suc-cessivi alla fine del mandato anche ai poli-tici che occupano cariche pubbliche di ren-dere noti redditi e proprietà. Fonti ufficiosedel ministero della giustizia parlano di 500giudici che per evitare la gogna mediaticadi patrimoni sospetti abbiano preferito ilpensionamento anticipato. Secondo alcuneorganizzazioni non governative paradossal-mente oggi l’Ucraina è diventata, così, ilpaese più corrotto e, allo stesso tempo, piùtrasparente d’Europa.

Non c’è pace nel DonbassNel Donbass si continua a morire. Sono rarii giorni in cui i bollettini che arrivano dallalinea del cessate-il-fuoco non riportano vit-time. Dal primo settembre è entrata in vi-gore l’ennesima tregua già violata dalleparti in numerose occasioni con scambi diaccuse e attribuzioni reciproche di respon-sabilità. Nonostante Mosca insista nel ne-gare ostinatamente ogni coinvolgimento di-retto nel conflitto, si spara e ci si ammazzada ambo le parti con armi russe. Con gli in-sorti, però, operano anche 6000 soldatidell’ex armata rossa intruppati in batta-glioni più o meno regolari. Il quartetto in-caricato di portare avanti il processo di pa-ce, composto da Ucraina, Russia, Francia e

Germania, si incontra regolarmente così co-me frequenti sono i colloqui telefonici fraMerkel, Putin e Hollande ma agli impegnipresi a parole non corrispondono i fatti. Dif-ficile rimettere assieme i pezzi del mosaicodopo feroci e prolungati combattimenti chehanno lasciato sul terreno quasi 10.000morti e provocato la fuga di tre milioni dipersone fra sfollati interni e rifugiati ripa-rati in Russia. L’accordo negoziato a Minska febbraio prevedeva la cessazione delleostilità, il ritiro dell’artiglieria pesante dal-la linea di contatto, l’attribuzione di unostatuto speciale alle regioni orientali, il ri-torno delle guardie regolari ucraine allafrontiera con la Federazione Russa, la libe-razione dei prigionieri, l’amnistia per i se-cessionisti e le elezioni locali nel Donbassper definire il nuovo assetto istituzionale.Tutti concordi sui contenuti ma profonda-mente divisi sui tempi di attuazione. PerKiev prevale la sequenzialità delle misurepreviste dagli accordi, per Mosca la sincro-nizzazione. Come è possibile tenere libereelezioni senza il pieno controllo dei confini?Sostengono gli ucraini. Mentre i separati-sti, spalleggiati dai russi, ribadiscono dinon fidarsi della controparte volendo primavedere fatti concreti. Più che un piede interritorio ucraino, a Mosca interessa unpiede nello stato ucraino per controllarne,condizionarne o influenzarne le scelte. D’al-tronde un pezzo di Ucraina strategicamen-te più importante, la Crimea, è già salda-mente in mano russa, annessa alla federa-zione dopo l’invasione strisciante del 2014.La penisola del Mar Nero è stata, oggi, tra-sformata in un’immensa base militare pro-iettata verso il Medio Oriente in appoggioall’intervento delle forze russe in Siria, conbuona pace delle strutture turistiche locali,quasi deserte, e dell’unica minoranza au-toctona, quella tartara, messa a tacere conla forza. Le sanzioni occidentali mordono,ma Mosca non demorde, nonostante barcol-li sotto il peso di una situazione economicapreoccupante. E all’opinione pubblica russasembra interessare più la proiezione ester-na del paese, con lo status riacquisito di su-perpotenza, che la situazione interna, comesottolineato dalla vittoria schiacciante delpartito di Putin alle elezioni di settembreper il rinnovo della Duma.“La Russia non mi spaventa”, mi dice RuneGlasberg, un collega finlandese, nella halldell’hotel mentre sorseggiamo con lucidacalma due dita di brandy ucraino. “Si puòdiscutere di tutto ma una cosa è certa”, ag-giunge ironico, “non è possibile cambiare laposizione geografica dell’Ucraina come nonè possibile cambiare quella della Finlan-dia”. “A Helsinki da tempo si dibatte seaderire o meno alla Nato -sottolinea- ma ladiscussione è pacata e, pur con opinionicontrastanti, nessuno si azzarda ad accusa-re l’altro di tradire il proprio paese come av-viene invece a Kiev”. Rune, probabilmente,

ha ragione, ma è difficile applicare la ricet-ta finlandese a un paese in guerra come èl’Ucraina odierna. Anche perché la stessaFinlandia, contravvenendo in parte allapropria storica neutralità, il 7 ottobre scor-so ha sottoscritto un accordo bilaterale congli Stati Uniti che ha molto irritato Mosca.I frequenti sconfinamenti russi nei paesibaltici, che spesso hanno il sapore di provo-cazione, sono visti con preoccupazione an-che da chi, come la Finlandia, ha saputo co-struire nel tempo una solida relazione dibuon vicinato con l’ingombrante vicino su-bendone, in parte, l’irruenza fino ad autoli-mitare nel passato, più per timore che perscelta, l’orizzonte della propria politicaestera. “Stiamo facendo la Russia più fortee l’Europa più debole di quanto non siano inrealtà”, afferma Rune, ma non sembra con-vinto di quello che dice.

Incontrare le vittime di guerra è sempreun’esperienza toccante che lascia un segnoprofondo. Storie vissute e testimonianze di-rette si intrecciano con emozione e doloreriattizzando lutti che, invece, bisognerebbeavere la forza, col tempo, di riassorbire emetabolizzare. Quella che racconta Volody-myr è un’esperienza terrificante. Nato nelDonbass e, come la maggior parte della po-polazione della regione, di madre lingua edetnia russa, allo scoppio della crisi era ri-tornato a casa dal luogo dove era emigratoper portare in salvo la famiglia. “C’eranosoldati con uniformi senza mostrine per lestrade che parlavano russo con un accentodiverso, provenienti da chissà quale partedella federazione”, narra. “Nessuno spiega-va quello che stava succedendo, nessuno ri-spondeva alle mie domande”, insiste con vo-ce sommessa. “Volevo ripartire, ma non mel’hanno permesso così nella fuga sono salta-to accidentalmente su una mina perdendole braccia”, racconta mostrando gli arti am-putati. Ferito e catturato dai separatisti,volevano obbligarlo ad una confessionepubblica alla televisione ma lui si è rifiuta-to finendo in carcere da cui è uscito graziea uno scambio di prigionieri.

“I russi vogliono un’Ucraina debole da an-nettere pezzo per pezzo -dichiara sconforta-to- mentre io mi batto perché il mio paesesi integri al resto d’Europa”. Volodymyrcontraddice e sconfessa la narrativa di Pu-tin secondo la quale i russi del Donbass era-no discriminati da Kiev. È netta l’impres-sione che senza lo mano di Mosca la guerranon sarebbe mai scoppiata. Adesso, però,occorre voltare pagina e provare a costruireuna pace che appare impossibile. Ho incon-trato vittime di tante guerre e ho imparatoche il dolore è un’esperienza che non appar-

paradossalmente oggi l’Ucrainaè diventata, così, il paese

più corrotto e, allo stesso tempo, più trasparente d’Europa

è netta l’impressione che senza lo mano di Mosca

la guerra non sarebbe mai scoppiata

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tiene esclusivamente ad una parte. È giustoe doveroso individuare torti e ragioni machi soffre ha il bisogno intimo di condivide-re e il primo passo verso la riconciliazionesarebbe quello di farlo con chi ha vissutoesperienze analoghe nel fronte opposto. Senza vistoUno dei capisaldi del Partenariato Orienta-le è la mobilità agevolata. Nel quadro del-l’assistenza offerta, Bruxelles mette a di-sposizione dei cittadini dei paesi che ne fan-no parte la possibilità di entrare nell’Unio-ne senza l’obbligo del visto, il cui otteni-mento è, attualmente, costoso, complicato e,per certi versi, umiliante. Per avere questaconcessione, però, occorre soddisfare una

lunga lista di requisiti che richiedono l’ade-guamento di tutti gli organi dello stato, de-gli apparati, delle normative e dei sistemicoinvolti. Sono estremamente elaborate eminuziose le procedure tecniche e burocra-tiche che bisogna aggiornare o creare ex no-vo, dall’introduzione dei passaporti biome-trici allo scambio elettronico dei dati, perottenere il via libera degli inflessibili ispet-tori della Commissione europea inviati pe-riodicamente in loco a verificare l’applica-zione degli accordi. E anche quando, poi,tutto sembra a posto dal punto di vista tec-nico e amministrativo, l’ultima parola spet-ta, comunque, sempre a Bruxelles, in parti-colare ai ministri degli interni dei paesi

membri che fino all’ultimo resistono, recal-citrano e si contorcono prima di dare l’ago-gnato semaforo verde. All’Ucraina ci sonovoluti otto anni per concludere l’iter e anchedopo avere ottemperato a tutte le clausolepreviste non ha ancora ottenuto il sospiratook. La questione della liberalizzazione deivisti continua ad essere al primo postonell’agenda delle relazioni bilaterali fraKiev e Bruxelles, ma i vertici dell’Unionenicchiano trovando sempre nuovi pretestiper rimandare la decisione definitiva che leautorità ucraine sperano possa avvenireprima della fine dell’anno. D’altronde, inpiena emergenza migranti, nessun ministroeuropeo ha il coraggio di prendersi la re-sponsabilità di aprire ulteriormente le por-te dell’Unione ad altri potenziali ospiti in-desiderati. Non importa se si tratta solo divisti brevi che non contemplano il permessodi lavoro; l’ossessione dell’immigrato è tal-mente forte da spaventare qualsiasi politicocon il risultato che, da una parte, l’UnioneEuropea è incapace di mantenere le pro-messe fatte e dall’altra, nei paesi partner,aumenta il senso di frustrazione e la rabbiadi chi si sente preso in giro.

Cinque per cento. A tanto ammonta la per-centuale di bilancio che anche quest’anno ilgoverno di Kiev ha destinato alla difesa. Sitratta di una spesa enorme per un paeseche era sull’orlo del tracollo economico. Ep-pure negli ultimi mesi si sono registrati se-gnali incoraggianti. Dopo la caduta rovino-sa del prodotto interno lordo nel 2014, ilpaese è lentamente tornato a crescere e haraggiunto la stabilità macro-finanziaria. Indue anni le riserve di valuta straniera sonoaumentate di cinque volte con il deficit cheè sceso dal 10% a poco più del 3%. La nuovaUcraina guarda a Occidente. La maggio-ranza degli scambi commerciali è conl’Unione Europea mentre diminuiscono ver-ticalmente quelli con la Russia. Già, laGrande Madre Russia che affonda le radicistoriche in Ucraina e che non vuole rasse-gnarsi al fatto che i figli prima o poi possa-no recidere il cordone ombelicale. Le fami-glie allargate hanno il pregio di offrire piùstimoli e opportunità di crescita. L’Ucrainadi oggi non rinnega o disconosce le origini,ma ha deciso di liberarsi di un abbracciosoffocante che rischiava di diventare mor-tale. C’è ancora tempo e spazio per una rap-pacificazione a condizione che le madri rico-noscano i diritti dei figli e non pretendanodi avere l’ultima parola sulle loro scelte.Compresa quella di cercarsi una nuova casae progettare un futuro diverso. Nell’attesache a Bruxelles si diano una mossa.

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nessun ministro europeoha il coraggio di prendersila responsabilità di aprire

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Jean Birnbaum è responsabile del supple-mento libri di "Le Monde". Il libro di cui siparla nell’intervista è Un silence religieux.La gauche face au djihadisme, Seuil 2016.

Nel tuo ultimo libro accusi la sinistradi non capire il fondamentalismo isla-mico, anche per la paura di essere ac-cusata di islamofobia. Nel mio libro c’è un capitolo intitolato “Rienà voir avec l’Islam?” (Niente a che vederecon l’islam?). Questo capitolo l’ho scritto perevitare che ci fossero fraintendimenti: ilmio non è un libro ostile all’Islam come re-ligione, non è un libro contro l’Islam. Il mioobiettivo era quello di cercare di tracciareuna frontiera tra l’islam come spiritualità el’islamismo come ideologia politica, il jiha-dismo come violenza terrorista. L’ho fatto apartire dalla tradizione di pensiero di Chri-stian Jambet, di Henry Corbin, studiosi chehanno sempre fatto una chiara distinzionetra l’Islam come esegesi spirituale di un te-sto, e un Islam politico e dottrinale che irri-gidisce e falsa il senso di quello stesso testo. Il punto è che ogni volta che cerchiamo ditracciare una linea semplice tra islam eislamismo ci rendiamo conto che non ci so-no dei criteri chiari, né per quanto riguardal’interpretazione dei testi, né rispetto alrapporto con la politica. La rivista “LesTemps Modernes”, fondata da Sartre, hapubblicato un numero molto interessantesull’Islam, la teologia e lo Stato, in cui de-nuncia appunto come sia difficile distingue-re, separare questi aspetti. Io ho voluto comunque fare un tentativoper uscire da possibili equivoci. È infatti in-negabile che oggi c’è un’ostilità versol’islam proprio come religione. D’altra par-te, in Francia la sinistra si è costruita sullaguerra alle religioni, sulla guerra alla Chie-sa, sulla rimozione e la negazione del reli-gioso. Per la sinistra occidentale, ma so-prattutto francese, l’emancipazione socialeè prima di tutto l’emancipazione dal religio-so. Il progresso in qualche modo coincidecon il crollo delle religioni. La religione, omeglio la sua assenza, è un indice del livel-lo di modernizzazione e civilizzazione di unPaese. Di qui l’idea che se delle persone uccidono

in nome di Dio vengono dal Medioevo, fan-no parte del passato. In realtà oggi sappia-mo che queste persone sono spesso istruitee usano le tecnologie più moderne, in Alge-ria si parla di ‘islam degli ingegneri’. Quin-di è possibile che la religione possa essere ilnostro presente e, forse, anche il nostro fu-turo. Una certa forma di religione. Questoevidentemente per noi è un problema. Iovedo innanzitutto un problema di incom-prensione quando si riduce la religione auna sorta di arcaismo, a un’illusione da dis-sipare, a qualcosa che appartiene al passa-to. A sinistra, la religione in quanto tale èsempre stata percepita come qualcosa chenon ha autonomia, il sintomo di qualcos’al-tro: la crisi sociale, la disoccupazione, lageopolitica, per cui se un ragazzo fa appelloalla religione, bisogna indagare cosa questanasconda.

Questa è la cultura politica in cui sono cre-sciuto. All’indomani degli attentati di gen-naio abbiamo sentito dire che questi giova-ni “sono disagiati, sono delle vittime sociali,giocano troppo ai videogame, usano troppofacebook”. Sono state prese in considerazio-ne tutte le possibili motivazioni, salvo una:la religione. Cosa trovano i giovani nella religionemusulmana? Molti ci trovano semplicemente la loro reli-gione, si ritrovano in essa. Un giovane mu-sulmano mi ha raccontato: “Cercavo qualco-sa: sono andato alla moschea dove ho trova-to dei notabili, dei borghesi, che non eranointeressanti. Dopo aver sentito parlare deisalafiti, ho capito che loro erano meglio, maerano legati a dei paesi che non mi piaceva-no. Infine ho sentito parlare dell’Islam ra-dicale, e allora mi sono convertito, ma nonall’islam radicale, all’Islam e basta”. Per lo-ro l’islam è l’islam. D’altra parte questa vo-lontà di distinguere tra islam e islamismoquasi li fa ridere i jihadisti.Cosa cercano nella religione? È una doman-da difficile: sicuramente un senso di spe-ranza radicale che non trovano altrove. La

sinistra, anche quella riformista, ha lottatocontro un mondo pieno di ingiustizie, perun futuro migliore. Lo slancio rivoluziona-rio si è alimentato di questa speranza. Eb-bene, dov’è oggi una sinistra che proponeun’idea di mondo futuro credibile? Gli isla-misti appaiono così i soli depositari dellasperanza in un mondo diverso. Dopodiché cisono ovviamente differenze radicali tral’islamismo e la sinistra. Perché i jihadistipensano a un aldilà in cui viene reinstaura-to il mondo di Dio, mentre la sinistra volevaabbandonare il capitalismo, le iniquità erientrare nella vera storia umana. C’è unrapper francese di origini colombiane, Roc-ca, che in una delle sue canzoni più famosedice che “la speranza è vitale, come l’ossige-no che respiriamo”. Ecco, è un po’ questo.Un altro rapper, Booba, grande star inFrancia, in una delle sue canzoni dice “perfortuna abbiamo l’aldilà per andare avan-ti”. C’è tutta una tradizione politica, unatradizione della speranza, dove è propriol’orizzonte di un altro mondo possibile ciòche permette di resistere. Ora che è venutomeno un’orizzonte profano, secolare, politi-co, di speranza, la gioventù torna a guarda-re all’aldilà; un aldilà che per di più è inter-nazionale, come lo sono sempre stati gli al-dilà autentici. Pensiamo ai movimenti in-ternazionalisti, rivoluzionari, alla guerra diSpagna, a quest’idea di una speranza senzafrontiere, solidale. Ebbene, questi stessielementi li ritroviamo nel jihadismo. Non èun caso se nei video vengono mostrati con-tinuamente questi combattenti che arriva-no da tutto il mondo. Si può parlare di una spinta universa-lista?Assolutamente. Si tratta di universalismirivali. Purtroppo in un momento in cui lastessa Europa è profondamente in crisi, lerisposte sono tutte nazionali. In Francia ab-biamo un movimento fondato da persone vi-cine a Valls, la "Primavera francese”, chepretende di salvaguardare la laicità france-se. Nonostante la sinistra vanti una tradi-zione fortemente internazionalista, oggiquando si analizzano l’islamismo e il jihadi-smo si ragiona in modo ultranazionale, lo-cale. Si pensa siano problemi nazionali, ri-feriti alle banlieue, alla società francese,

un rapper, Booba, grande star in Francia, in una canzone dice“per fortuna abbiamo l’aldilà

per andare avanti”

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Una sinistra che per spiegare perché tanti giovani vanno a morire per l’Islam, cerca spiegazioni“sociali” per non risultare islamofobica; l’errore di non dar credito all’influenza della religione nonaccorgendosi così di restare dentro a un immaginario coloniale; la forza della speranza che oggisolo l’islamismo sembra saper offrire; la potenza dei simboli che da noi non ci sono più; la decisiva lotta fra l’Islam che interpreta e quello che legge e basta. Intervista a Jean Birnbaum.

UNA CAUSA PERANDARE A MORIRE

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non capendo che appartengono al mondo in-tero. Certo, le persone vengono reclutateanche a partire dai disagi vissuti in un de-terminato paese, ma la forza di questo mo-vimento sta nel fatto che oltrepassa le fron-tiere. La gioventù nella religione trova an-che questo: una forza di mobilitazione enor-me che le permette di dire: “Non apparten-go alla mia piccola banlieue, non apparten-go nemmeno alla Francia, io appartengo al-la Umma, una comunità mondiale di fratel-li e sorelle. E affronto un male che è altret-tanto mondiale, cioè la miscredenza”. È in-credibile come siano riusciti a creare unoscenario mondiale in un’epoca in cui non cisono più cause politiche in grado di mobili-tare le persone oltre le proprie frontiere. Hai citato la Spagna, però i combatten-ti delle Brigate internazionali avevanouna grande spinta vitale. I jihadisti in-vece sembrano affascinati da un mon-do di morte. È vero. Tutte le canzoni rivoluzionarie inSpagna parlano di vita: “la vita sarà bella,il mondo sarà giusto...”. I jihadisti invecehanno il culto della morte e la volontà di

abolire la storia. E tuttavia ci sono delle as-sonanze nelle testimonianze di chi parte og-gi e di chi partiva allora. Io vengo da unacultura e da una famiglia di sinistra, in cuila memoria della guerra di Spagna è cen-trale: quando si pensa ad una causa che haattirato migliaia di giovani in solidarietà aifratelli oppressi si pensa alla Spagna. È ilmodello assoluto. È anche forse una mia os-sessione: se penso che oggi l’unica causa perla quale migliaia di giovani europei sonopronti ad andare a morire dall’altra partedel mondo è il jihadismo… è qualcosa chenon mi fa dormire. Possiamo dire che è colpa della società, del-la crisi, della disoccupazione e così via, maci sarebbero tantissimi altri motivi per an-dare a combattere: per i ceceni, per i tibeta-ni, per l’ambiente… Invece, il fatto che lasola causa per la quale le persone sonopronte a rischiare la propria vita sia il jiha-dismo è una questione enorme. Sono statocriticato per queste considerazioni, ma dav-vero penso che non possiamo capire e af-frontare questo problema senza porci laquestione della speranza. Bernanos, a pro-

posito della Spagna, diceva: “Bisogna va-gliare questi avvenimenti attraverso il se-taccio della speranza”. Ecco, il jihadismooggi dice qualcosa sullo stato della speran-za nel nostro mondo. È la grande questionedell’Illuminismo: “cosa mi è permesso disperare?”. È la questione di Kant, che Fou-cault ha ripreso in seguito. C’è una scenamitica dove si vedono dei giovani maoistiinsieme a Foucault che dicono: “Andremo ariprendere la questione di Kant: cosa ci èconcesso sperare”.

Oggi la speranza è che il meno peggiore trai candidati riesca a gestire in qualche modola società affinché il peggiore tra i candidatinon arrivi al potere. È tutto quello che spe-riamo. Ebbene, io volevo porre innanzitutto questaquestione: perché una giovane, di ceto me-dio, ben integrata in un liceo parigino, daun giorno all’altro decide di partire per la

se uno dice: “Sono un nazista e ucciderò perché sono nazista”,

non puoi rispondergli: “No, non sei nazista”

Francesca Pintus

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Siria? Non credo che la sua valutazione sia:“sono cattiva e voglio tagliare la testa allepersone”. Non è questo. Prima di tutto lei èmotivata da quella che vive come un’ingiu-stizia di fondo, e quindi da una volontà dilottare al fianco dei propri fratelli e sorellemusulmani, che sono oppressi. Dopodiché,lungo il suo percorso, è possibile che com-metta delle azioni orribili, ma, ripeto, laspinta iniziale è un’altra e noi non possia-mo sottrarci. Bernard-Henri Lévy mi ha accusato di fareun “regalo” ai jihadisti parlando di speran-za, perché si tratta solo di bastardi. Inten-diamoci, io penso che il jihadismo rappre-senti una minaccia assoluta. Proprio perquesto è fondamentale distinguere i nemiciprincipali da quelli un po’ meno principali,diciamo, nel senso che per reagire a questaminaccia bisogna comunque ascoltare ciòche dicono questi giovani. Tu parli di un inconsapevole approc-cio “coloniale” in certa sinistra nell’af-frontare l’islamismo radicale. Puoispiegare?Chi sostiene che dietro il jihadismo non c’èalcuna questione religiosa manca l’obietti-vo. Una certa sinistra, con questo atteggia-mento, pensa di prendere posizione control’egemonia occidentale, contro il coloniali-smo. Per me invece, paradossalmente, pro-prio questo è un ragionamento coloniale!Perché parte dal principio che questi giova-ni jihadisti non sappiano quello che dicono.Davanti a un giovane jihadista che affer-ma: “Faccio quello che dico e dico quello chefaccio. E uccido in nome di Dio per salvareun’immagine di Dio che è quella in cui cre-do”, ci viene spiegato che lui non ha capito,non pensa quello che dice, che in realtà hadei problemi, perché non è integrato, è di-soccupato... Io la trovo una reazione incre-dibile! Se uno dice: “Sono un nazista e ucci-derò perché sono nazista”, non puoi rispon-dergli: “No, non sei nazista”. C’è un passaggio fondamentale di Derridain cui parla della fede e spiega: “Non biso-gna fare confusione: l’islamismo non èl’Islam, ma l’islamismo si esercita in nomedell’Islam”.

È la questione formidabile del “nome”.Quando qualcosa viene esercitato “in nome”di qualcos’altro, non si può non approfondi-re la questione. Insomma, bisogna prendereseriamente la “grave questione del nome”.Oggi, a mio parere, di tali questioni ne ab-biamo due. La prima è che queste personeuccidono in nome di Dio. La seconda è unadomanda, se vuoi provocatoria: in nome diche cosa un dirigente socialista o un intel-lettuale di sinistra occidentale affermano

che il giovane che si richiama al jihadismonon ha nessun rapporto con la religione? Innome di che cosa diciamo a quel giovaneche non sa quello che dice, che sì, fa riferi-mento al Corano, ma in realtà non lo ha ca-pito? Io invece dico che fanno quello chefanno e dicono quello che dicono. E dobbia-mo ascoltarli. Il giovane jihadista che ha ucciso due poli-ziotti a Magnanville ha pubblicato un videodi rivendicazione terribile, in cui cita il Co-rano dicendo: “Il credente è lo specchio delcredente”. L’ho trovata un’affermazionemolto forte: il credo jihadista riflette e ci re-stituisce il nostro credere che la religione ela fede non siano nulla. Perché anche que-sto è un credo.Torniamo così alla questione iniziale. Noicrediamo di avere delle buone intenzioniquando diciamo che l’islamismo non haniente a che fare con la religione, che nonc’è alcun legame, e invece così tradiamo eboicottiamo la battaglia di tanti intellettua-li musulmani, che sanno benissimo chel’islamismo è una avatar dell’Islam, che iljihadismo è un prodotto criminale del-l’Islam, che tutte le religioni portano con séil pericolo di una deriva violenta. Non possiamo fingere di non vedere che è inatto una specie di guerra civile mondialeall’interno del mondo musulmano. Un filo-sofo marxista molto importante, ÉtienneBalibar, dopo gli attentati di gennaio hascritto su Libération: “La nostra sorte è nel-le mani dei musulmani”. Io ho interpretatoquesta frase nel senso che c’è questa guerramondiale interna all’Islam, e che la nostrasorte dipenderà da chi la vincerà. La vince-ranno coloro che vogliono leggere e conte-stualizzare i testi o quelli che li vogliono cri-stallizzare in una dottrina violenta e san-guinaria? Dopodiché noi possiamo anchecontinuare a dirci che tutto questo non haniente a che vedere con la religione e però...In questi mesi si è parlato della crisidel modello di laicità francese.La laicità è prima di tutto una cornice digaranzia della libertà di coscienza e di cultoper tutte le religioni. Quindi è fondamenta-le. Va tuttavia riconosciuto che il contestostorico in cui la laicità alla francese si è co-struita è stato segnato da toni aspri e vio-lenti; questo fa sì che spesso la laicità vengavista come un’arma contro le religioni, anzicontro una religione in particolare. Si trattadi un altro modo di non prendere seriamen-te la dimensione religiosa. Perché la religio-ne è un rapporto con il mondo, con i testi,con i riti, con il mangiare e il digiunare, conil corpo… non può essere ridotta a un’ideo-logia. Le prese di posizione di Manuel Vallscontro il velo ridotto a mero simbolo politicorivelano proprio quest’incapacità di consi-derare la religione come un’esperienza inti-ma ed esistenziale.Io poi registro proprio un equivoco nella

pratica della laicità. Ripeto, l’obiettivo dellalaicità non è di eliminare la religione dallasfera pubblica. Purtroppo il livello di rimo-zione, amnesia, cattiva fede e ignoranzarende tutto molto complicato. Le donne cheportano il velo, lo fanno per mille ragioni di-verse; non si può trattare chi indossa il veloin nome della sua relazione con Dio come sefosse l’aderente ad un partito. Detto questo, sono stati alcuni intellettualiarabi a dire che il burkini è un’invenzionerecente del wahabismo, e nient’affatto unaquestione di spiritualità. Insomma, è tuttomolto complicato, però se eliminiamo la di-mensione religiosa, io dubito fortementeche possiamo capire cosa sta succedendo. Gli attentati che hanno colpito la Franciahanno cambiato il clima nel paese.Questo libro ha avuto un’ottima accoglienzaa sinistra. Chiaramente anche delle criti-che, ma costruttive, non aggressive. Credoche gli attentati di novembre abbiano cam-biato tutto.

Gli attacchi di gennaio 2015 a Charlie Heb-do erano stati letti come un’aggressione adei giornalisti che avevano commesso deglierrori, che avevano provocato; anche i mortiall’Hyper Cacher… beh, erano ebrei e poic’è la situazione in Medio Oriente... Il 13 novembre è stato deflagrante perché siè capito che possono uccidere chiunque, chetutti possono essere colpiti, anche dei ra-gazzi che vanno ad un concerto. La “giusti-ficazione” della provocazione per la vignet-ta di Charlie Hebdo o della situazione inMedio Oriente non erano più ammesse. Poic’è stata Nizza. Si è detto che a Nizza le vit-time più numerose erano musulmane. Io lotrovo un argomento discutibile perché per ijihadisti loro non sono musulmani. È comericordare che le vittime dello stalinismoerano in maggioranza dei comunisti. In re-altà i loro obiettivi non erano affatto i co-munisti, ma quelli che non lo erano abba-stanza. Qui avviene lo stesso. Non stannouccidendo dei musulmani, ma dei traditoridell’Islam: se quelle persone il 14 luglio era-no in strada a festeggiare, allora non sonodei musulmani e quindi possono essere uc-cisi. Cioè mentre il cristiano lo uccidono inquanto cristiano, tant’è che lo vanno a cer-care in chiesa, gli altri li uccidono perchénon sono davvero musulmani. Quindi i mu-sulmani non sono mai veramente degliobiettivi. Qui parliamo di persone che pre-tendono di incarnare il vero Islam e che uc-cidono dei cristiani, degli ebrei, e a volte an-che dei musulmani se appunto li considera-no dei traditori dell’Islam. Ne abbiamo di-scusso molto anche alle riunioni in redazio-ne. Io ho posto la domanda: “Quando è sta-

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in nome di cosa diciamo al giovane che sì, fa riferimento

al Corano, ma in realtà non lo ha capito?

ciò che definisce l’umanità sonoproprio i simboli. Jean-Pierre

Vernant, grande storico delle religioni ce lo ha insegnato

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ta l’ultima volta che un prete è stato sgoz-zato durante la funzione nella sua chiesa inFrancia?”. Io non ne ho idea, forse durantela Rivoluzione francese. Dovremmo rifletterci. Di nuovo, se nonprendiamo la religione seriamente, non riu-sciremo nemmeno a capire cosa può farscattare nella memoria collettiva l’uccisionedi un prete nella sua chiesa durante la mes-sa. È un fatto enorme, eppure nessuno haparlato del valore simbolico di questo gesto.Quand’è che abbiamo iniziato a pensare chela dimensione simbolica fosse irrilevante?In realtà ciò che definisce l’umanità sonoproprio i simboli. Jean-Pierre Vernant,grande storico delle religioni e dell’anticaGrecia, ci ha insegnato che il simbolismo ètutto. E così Derrida e Foucault. Non capi-sco perché oggi la maggior parte degli intel-lettuali neghi questa realtà. In questi mesi di dibattito, alcuni hannochiesto per quale motivo si polemizzassetanto sul velo quando lo “string”, il tanganon dà alcun fastidio. Ma come si fa a nonvedere la differenza tra un abito che ha unadimensione simbolica di portata spiritualee uno slip sensuale? Lo stesso vale per il ci-bo. Il fast food belga Quick ha deciso cheavrebbe servito solo prodotti “halal” ed èscoppiata una polemica. Ebbene, molti han-no detto che non capivano il perché di que-ste reazioni e che non sarebbe successoniente se la carne fosse stata bio: di nuovocome fai a non vedere la differenza tra ha-lal e biologico? Mangiare halal è un qualco-sa che implica un rapporto con la religione,quindi con la condotta, l’abbigliamento, ilcorpo, ecc. Non stiamo parlando solo di cibo.La questione del simbolismo è stata com-pletamente accantonata, rimossa, dimenti-cata, ma oggi non possiamo capire cosa stasuccedendo se non analizziamo a fondo que-sta dimensione. Tornando a chi partiva per la Spagna,oggi sembra che nessuna democraziasia realmente disposta a combattereper i propri valori. Forse per il sensodi colpa coloniale, forse perché cimanca il coraggio...Quella del senso di colpa è una grande que-stione. Molti mi hanno detto che nel capito-lo dedicato alla Spagna sembra che io dicache un’idea degna di essere difesa è un’ideaper la quale dobbiamo essere pronti a mori-re. Ammetto che un po’ è così.

L’Occidente sta assistendo a una specie diriflusso da qualsiasi prospettiva di emanci-pazione, oggi gli eserciti sono professiona-lizzati... Gramsci parlava di questa dialet-tica tra la speranza di redenzione, di rivolu-zione e il suo venir meno: quando non c’è

più alcuna speranza di emancipazione pro-fana e quindi di idee per le quali si è prontia morire (che sono idee politiche in effetti),c’è quasi un rovesciamento automatico percui tornano in primo piano le fonti religioseo messianiche. A questo si aggiunge la questione della de-bolezza. I jihadisti ripetono che loro sonopronti a morire, mentre noi non lo siamo.Bin Laden in un’intervista disse: “Il vostroproblema è che noi amiamo la morte quan-to voi amate la vita”. Questo pone una que-stione enorme. Nella Teoria del drone, Chamayou, filosofodi estrema sinistra sostiene che ormai l’Oc-cidente è talmente vigliacco da essersi ridot-to a uccidere con i droni, mentre dall’altraparte ci sono delle persone pronte a sacrifi-care la propria vita. Venendo dalla culturapolitica di una sinistra occidentale piena disensi di colpa, per lui chi è oppresso è uneroe pronto a sacrificarsi e coloro che domi-nano sono dei pavidi. Insomma, secondo ilsuo ragionamento, il drone è l’arma dei do-minatori, quindi l’arma dei codardi. Non sipone mai il problema di come dovremmocomportarci di fronte a qualcuno che non so-lo è pronto a morire, ma vuole anche morire.Un esercito composto da persone che tengo-no alla vita è un esercito debole. L’altro aspetto interessante è che tutti i ra-gionamenti sul senso di colpa partono dalprincipio che l’Occidente, l’Europa siano an-cora dominanti. Anche se sappiamo che iljihadismo è finanziato dal Qatar, dall’Ara-bia Saudita, ecc. continuiamo a pensare chel’islam sia la religione dei poveri. In parte èvero, perché è la religione degli immigrati,di coloro che fuggono da condizioni di pover-tà e sfruttamento e tuttavia non possiamodire che oggi a livello mondiale i paesi mu-sulmani siano deboli. Anche per il filosofo Badiou tutto ciò chesuccede avviene obbligatoriamente per col-pa dell’Occidente. Gli altri non esistono. Latrovo una visione politica molto banale,quasi infantile. Si resta fermi al XIX e XXsecolo, a una visione dell’Occidente comeunico protagonista. Prendiamo la Siria: og-gi la Russia sta mostrando una capacità diintervenire e manipolare la situazione mol-to maggiore degli Stati Uniti o dell’Europa.I russi hanno agenti ovunque, hanno for-mato l’esercito di Assad, hanno bombardatosenza problemi. Eppure della Russia nessu-no vuole parlare. Sono andato alla Festadell’Umanità, la festa del Partito comunistafrancese: tutti a discutere della colpa degliamericani, dell’Europa, della Francia, del-l’interventismo, e nessuno che facesse cen-no alla Russia. E ancora meno si parla delruolo dell’Arabia saudita o del Qatar. Ilmondo della sinistra crede di lottare control’egemonia imperialista dell’Occidentequando questo Occidente è sempre meno alcentro del mondo.

Si può parlare di una sorta di riflessopaternalistico?Qui c’è proprio un paradosso. Credono dilottare contro l’egemonia occidentale, men-tre perpetuano un’eredità coloniale. Qual-che anno fa Sarkozy a Dakar fece un discor-so che scandalizzò tutti, perché se ne uscìdicendo: “L’uomo africano non è entratonella storia”. Ecco, l’impressione è che perla sinistra francese, europea, il jihadista oil musulmano non siano mai entrati nellastoria.

Quindi tutto ciò che fanno non è che unareazione all’Occidente. Non sono mai dellepersone che agiscono storicamente. La sto-ria è l’Occidente, l’Occidente è la storia e glialtri si agitano. Francamente io trovo chequesto approccio rilanci e perpetua un im-maginario assolutamente coloniale. Come uscire da questa trappola?Il problema è che in questo periodo le posi-zioni si stanno radicalizzando e purtroppole persone più colte e fini, che sarebbero ca-paci di fare un discorso diverso e di uscireda queste logiche sbagliate, preferisconostare zitte o si irrigidiscono anch’esse. Io so-no molto pessimista al riguardo. Forse sono gli intellettuali arabi o musul-mani quelli che possono aiutarci. Penso aRachid Benzine, intellettuale musulmano,che non ha alcun problema a dire che iprincipali centri di trasmissione e di inse-gnamento dell’Islam nel mondo oggi sonopiù vicini a Daesh che alla moschea di Pa-rigi. In Francia si pensa che, sì, ci sono de-gli estremisti, ma globalmente prevalgonogli altri. Invece a dominare sempre più ilmondo musulmano è un islam che non èparticolarmente moderno o riformista. Ben-zine lo denuncia da un po’, ma pochi sonodisposti ad ascoltarlo e chi lo fa spesso è sulversante opposto, quello che liquida l’islamcome religione orribile. Teniamo presente che l’islamismo è ancheuna reazione a un movimento di riforma in-terno all’Islam. Nel corso del dibattito sulburkini si sono sentite persone dire che “bi-sogna rispettare le loro tradizioni”, come sesi trattasse di condotte che vengono dallanotte dei tempi, quando invece sono inven-zioni ultramoderne. Identificare l’islami-smo con l’islam delle origini o al contrarionon prenderlo sul serio dicendo che nonc’entra niente con la religione non rende unbuon servizio al lavoro coraggioso dei pen-satori musulmani impegnati in un tentati-vo di riforma e di lotta al fanatismo.

(a cura di Bettina Foa e Barbara Bertoncin.Traduzione di Joana Fresu de Azevedo)

Chamayou, filosofo di estremasinistra sostiene che ormail’Occidente è così vigliacco

da ridursi a uccidere con i droni

forse sono gli intellettuali arabi o musulmani quelli che possono

aiutarci. Penso a Rachid Benzine,intellettuale musulmano...

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pagine di storia

Nunzia Augeri, saggista e traduttrice di te-sti di diritto, economia, scienze politiche pervari editori, da giovanissima ha collaboratocon Lelio Basso nella redazione della rivista“Problemi del Socialismo”. Il libro di cui siparla è L’estate delle libertà. RepubblichePartigiane e Zone Libere, Carocci editore2014.

Nell’estate del ’44 in Italia settentrio-nale e lungo l’Appennino in alcune zo-ne liberate si sperimentarono formeoriginali di autogoverno democratico.Puoi raccontare?Nel libro cito in tutto ventotto zone libere,più una ventinovesima, quella di Maschito,che è particolare. Le ventotto zone sonoquanto di più eterogeneo, e talvolta folclori-co, si possa immaginare, ma erano vere am-ministrazioni; non parliamo quindi di par-tigianato combattente. Certo c’era il com-missario politico partigiano che faceva datrait d’union, ma poi le amministrazionierano davvero civili e dentro c’erano anchei contadini, spesso semianalfabeti, o, comenel caso di Maschito, analfabeti del tutto,che per la prima volta si rendevano prota-gonisti della storia di questo Paese.Direi che le Repubbliche partigiane princi-pali sono state tre. L’Ossola è sicuramentela più importante, anche per la sua posizio-ne al confine con la Svizzera, dove si eranorifugiati molti intellettuali italiani che, ap-pena seppero della liberazione di quel terri-torio, scesero per partecipare. C’erano Um-berto Terracini, che qualche anno dopo fir-mò la Costituzione italiana, e curava il bol-lettino della Repubblica dell’Ossola; FrancoFortini, allora giovane sottufficiale, che diquell’esperienza ci ha lasciato lo splendidolibro “Sere in val d’Ossola”; c’era ConcettoMarchesi, che da Rettore dell’Università diPadova si era rifugiato in montagna con isuoi allievi; e ancora Gianfranco Contini,Massimo Bonfantini e tanti altri. Duranteil periodo della repubblica dell’Ossola Gisel-la Floreanini fu la prima donna a conqui-stare di fatto la carica di Ministra in Italia(con delega all’Assistenza e ai Rapporti conle organizzazioni popolari). Teniamo pre-

sente che all’epoca alle donne non era nep-pure riconosciuto il diritto di voto.Sempre per via del confine, all’Ossola arri-varono i giornalisti stranieri, e così tutto ilmondo seppe che gli italiani erano in gradodi governarsi da soli, che c’era una classedirigente democratica pronta a prendere inmano il paese.Le altre due repubbliche importanti sonoquella della Carnia, in Friuli, che durò tremesi, e quella di Montefiorino, a ridossodella linea gotica.La Carnia riuscì a emettere una legislazio-ne delle più avanzate; tanto per cominciare,diedero il voto alle donne, ma in quanto ca-pifamiglia. Inoltre introdusse una primaforma di democrazia diretta, che si rifacevaal comune rustico, che è appunto l’assem-blea dei capifamiglia. I capofamiglia eranoanziani o donne -gli uomini erano dispersisui fronti di tutta Europa, o sulle montagne.

La Repubblica della Carnia introdusse per-fino un proprio sistema di fiscalità, stabilitacon criteri che poi verranno accolti nell’art.53 della Costituzione. I redditi venivano di-visi in otto scaglioni, tassati con criterioprogressivo. Da Montefiorino invece passòin Costituzione l’art. 54, tale e quale comel’aveva scritto il sindaco della Repubblicapartigiana: “I cittadini cui sono affidatefunzioni pubbliche hanno il dovere di adem-pierle con disciplina e onore, prestando giu-ramento nei casi stabiliti dalla legge”. Le repubbliche di cui parliamo nascono tut-te nell’estate del ’44, per ovvie ragioni. I te-deschi, in grossa difficoltà, si limitano or-mai a tenere le aree più importanti, legrandi vie di comunicazione, le grandi cittàe i luoghi dove c’erano aziende che ancorapotessero servire. Devono invece abbando-nare le montagne. Ci sarebbe la repubblicadi Salò, però in montagna il fascismo avevaattecchito poco. Teniamo conto che il fasci-smo “passava” soprattutto attraverso lascuola, ma da quelle parti a otto anni i ra-

gazzini erano già a lavorare! Inoltre, nelleAlpi c’era una tradizione secolare di emi-grazioni stagionali. Queste persone anda-vano e venivano dalla Svizzera, dalla Ger-mania, dalla Francia, dove avevano contat-ti con i movimenti socialisti e cooperativi;lavoratori magari semianalfabeti, che peròqualcosa avevano orecchiato. Per esempio,in Carnia e a Varzi il bestiame viene datoai contadini che si associano in cooperativanon in proprietà privata. Queste repubbliche si trovano a fronteggia-re il problema della povertà, ma anche del-la gestione delle attività economiche...Non tutte le zone sono in condizioni dispe-rate: l’astigiano è ricco, ha già una grandetradizione di produzione di vini pregiati;negli ultimi anni del conflitto i vini non sipossono vendere, perché con l’alcol si face-vano andare le macchine e quindi era unprodotto strategico. E allora, non potendocerto buttarlo, costruiscono dei serbatoi. Poic’è il caso del biellese, che fin dall’Ottocentoha una forte industria tessile. Anche lì ci sipone il problema di cosa fare: continuare avendere i tessuti rischia di costituire unaiuto per il nemico; d’altra parte, non ven-dere vuol dire mettere a rischio la produzio-ne e il salario per gli operai. Vengono stabi-liti dei modus vivendi, per cui i camion te-deschi in determinati momenti possonopassare per caricare i tessuti; insomma, ilpartigianato combattente talvolta si fa ca-rico delle necessità civili e all’occorrenzascende anche a patti. Intanto le ammini-strazioni civili sono impegnate ciascuna coni propri problemi. Il primo indizio, e una delle cause più im-portanti del fallimento della Repubblica diSalò è che non era riuscita a riorganizzareil mercato interno. Noi stavamo a Milano edevo dire che per fortuna c’era la cascinadei nonni! Mio padre la domenica si faceva160 chilometri in bicicletta per andare lì aprendere qualcosa da mangiare. Avevano ilmaiale e si faceva il salame, che sul merca-to milanese valeva oro. In Carnia si faceva proprio la fame... Questo dappertutto. In Carnia però ci sono90.000 persone e 42 comuni, nella zona li-

il partigianato combattente a volte si fa carico delle necessità

civili e all’occorrenza scendeanche a patti

Alcune zone liberate dall’occupazione nazi-fascista sperimentarono forme di autogoverno moltoavanzate: la Carnia diede il voto alle donne e adottò un sistema fiscale progressivo, nell’Ossolasi progettò perfino una scuola media modernissima, a Montefiorino si introdusse l’assistenzamedica gratuita; l’incredibile vicenda di un paesino della Basilicata dove dei contadini analfabeti fondarono la Repubblica antifascista di Maschito. Intervista a Nunzia Augeri.

NELL’ESTATEDEL ‘44...

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bera. Fai conto che allora gli italiani erano36 milioni. Questi 42 comuni vengono isola-ti da una cintura di nazifascisti che non la-sciano passare i cereali, che in alta monta-gna non ci sono. Risorge così la tradizionedelle portatrici del Carso: 150 donne, orga-nizzate dal Partito comunista, vanno a pie-di in Emilia, caricano in spalla i cereali, etornano a casa attraverso l’unico passo ri-masto aperto, a piedi. Queste donne salva-no 90.000 persone dalla fame, portando suqualcosa come cinque tonnellate di cerea-li… Il Pci aveva organizzato tutto, dall’ac-quisto nelle regioni ricche della pianura pa-dana da Mantova in giù, ai posti di tappadove queste donne potevano mangiare edormire. Fortunatamente non tutti sono così dispe-rati; Montefiorino, che è in Emilia, ha biso-gno soltanto di organizzare le squadre peraiutare i contadini per la trebbiatura. An-che lì c’è un afflato politico di tipo socialisti-co, collettivo. In generale gli amministrato-ri delle zone libere cercano di venire a patticon le situazioni che si ritrovano. I contadi-ni devono pur guadagnare qualcosa, e peròi prezzi del mercato nero sono ormai folli;dove è possibile si calmierano i prezzi di al-cuni generi, oppure viene imposto un prez-zo politico. Nelle zone ricche la razione giornaliera am-montava a seicento grammi di pane -un pa-ne immangiabile- e duecento di carne. Larazione del pane per gli operai di Milanoera di centocinquanta grammi al giorno... A

un certo punto le fabbriche non possono piùprodurre perché gli operai proprio non ce lafanno fisicamente. Le amministrazioni dovevano occu-parsi anche dei servizi sanitari, dellascuola…La Repubblica di Montefiorino istituiscel’assistenza medica gratuita per tutti, e or-ganizza un ospedale con le attrezzature diun albergo ormai chiuso, mettendoci medicisempre a disposizione. Provvede anche alservizio ostetrico: all’epoca si partoriva incasa, ma con l’assistenza di un’ostetrica.

Tutte le zone libere, per quanto piccole, af-frontano anche il problema della scuola: bi-sogna riaprirla. La repubblica dell’Ossola,con un comitato composto da intellettuali,stabilisce un nuovo ordinamento scolastico,una scuola media unica per tutti con un ap-proccio molto moderno, che dà ampio spazioallo studio delle scienze e delle lingue stra-niere. Pensiamo che la scuola media unicavedrà la luce in Italia solo vent’anni dopo!In quegli anni “la scuola per tutti” erano leelementari, la media era roba da signori,esisteva solo nelle città. Purtroppo l’anno scolastico non comincerànemmeno, perché alla fine di settembre tor-nano i tedeschi. Fortunatamente circa due-mila bambini hanno già trovato riparo in

Svizzera, assieme a molti partigiani (altrisono fuggiti per organizzarsi altrove). Ven-titré patrioti, rimasti a proteggere la ritira-ta, vengono catturati e impiccati. Domodos-sola è ormai una città fantasma. L’esperien-za della repubblica dell’Ossola è conclusa.Dicevi che la repubblica di Maschito facaso a sé.È l’unica del Sud. Maschito non c’entra coipartigiani: è un paese della Basilicata, acinquanta chilometri da Potenza. Dopo l’8settembre, i soldati tedeschi ammazzanoventi persone a Rionero in Vulture, lì vici-no. A Maschito sono già tutti ferocementeantifascisti: intanto, perché per colpa delfascismo i giovani dei paesi sono tutti spa-riti, chi in Africa, chi in Egitto, chi in Rus-sia, chi in Grecia; le famiglie sono state di-strutte e sono venute a mancare le braccia.In secondo luogo, i contadini dal ‘36 eranoobbligati a portare i loro prodotti all’am-masso, che all’inizio pagava decentemente,ma nel ’44 per niente. Non solo: Maschito èil territorio di origine del vino Aglianico, egià allora i contadini erano molto orgogliosidelle vigne, che rendevano bene. Il fascismoli aveva invece obbligati a coltivare grano,che peraltro rendeva pochissimo. Per tuttiquesti motivi erano furiosi! Così decidono dicostituire una repubblica libera, indipen-dente e antifascista, e procedono a un’as-semblea. Il capo è un contadino che si chia-ma Domenico Bochicchio. Il fatto è che sonotutti analfabeti, non sono in grado nemme-no di stendere il verbale, figuriamoci di oc-

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nelle zone ricche la razionegiornaliera era seicento grammidi pane -un pane immangiabile-

e duecento di carne

Repubblica dell’Ossola: confezione di uniformi per i partigiani di una divisione garibaldina

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cuparsi dell’amministrazione del consorzioagrario, delle bolle, delle operazioni di ven-dita... Alla fine decidono di andare a chiede-re aiuto a un proprietario terriero che nonaveva mai taglieggiato i contadini, Giusep-pe Guglielmucci, che apparteneva a una fa-miglia di socialisti pre-fascisti. Sarà lui ilsindaco-notaio, l’unico in grado di redigerei verbali e firmare gli atti.C’è poi la necessità di amministrare lagiustizia, di garantire l’ordine pubbli-co...Sì, perché intanto di reati se ne compivanodappertutto, quindi servivano i tribunali.Ma nelle repubbliche ci si occupa anche deldiritto di famiglia: in Carnia, ad esempio,quando una donna con dei figli viene ab-bandonata dal marito, quest’ultimo vieneritrovato e obbligato a occuparsi della fami-glia. Nel cuneese una ragazza rimane incin-ta, il ragazzo sparisce e viene ripescato an-che lui...

Viene affrontato anche il problema dei pri-gionieri. L’Ossola sistema i fascisti cattura-ti in un ex collegio, a Druogno, su in monta-gna. In alcuni posti ho ritrovato i conti degliosti che fornivano i pasti ai detenuti! A Do-modossola a un certo punto arriva un co-mandante partigiano che si mette a inveirecol mitra in mano perché ha scoperto che iprigionieri fascisti avevano due coperte atesta, mentre i suoi uomini in montagna neavevano una sola. Sono racconti molto inte-ressanti. Nel cuneese, il partito d’Azione re-dige una specie di codice civile in cui viene

proibito persino di denudare il prigionieroper non offendere la sua dignità umana.Questo in un contesto di assassinii, stupri etorture inenarrabili...È impressionante quante cose riescanoa fare in così poco tempo. Queste re-pubbliche durano infatti molto poco...La repubblica dell’Ossola dura quarantagiorni! Altre anche meno, due, tre settima-ne… Eppure in quel poco tempo fanno ditutto: riescono perfino a emettere francobol-li e buoni finanziari, acquistano bestiame...E poi c’è l’attività editoriale: tutti hanno illoro bollettino, i loro foglietti, i loro manife-sti... Nella zona libera della Val Maira, val-le alpina in provincia di Cuneo, instauranoaddirittura una tipografia, recuperandouna macchina per stampa, una “pedalina”affidata a un tipografo che si fa aiutare daalcuni volontari e dai partigiani in convale-scenza. Vengono pubblicati i giornali parti-giani “ufficiali”, quelli dei partiti, e poi i bol-lettini ufficiali con le ordinanze, le decisio-ni, la legislazione delle amministrazioni ci-vili; i giornali delle brigate, ognuna ha ilsuo. C’è un bellissimo documentario sullaRepubblica dell’Ossola in cui mi sembraConcetto Marchesi racconta di alcuni giova-ni di Domodossola che erano andati a chie-dere di poter pubblicare il loro giornalino. Elui gli aveva spiegato: “Guardate che qui c’èla libertà di stampa. Non dovete chiedere ilpermesso a nessuno!”. Questi restano stupi-tissimi! Libertà di stampa, di associazione,di riunione, tutte cose inaudite. Sto lavorando a un libro sulle scuole parti-giane, quelle che vengono fuori dalla repub-blica dell’Ossola, e che fondò mio marito,Luciano Raimondi, i convitti scuola dellaRinascita. C’è uno statuto e poi c’è un codi-

ce lunghissimo, quattordici cartelle. Appe-na l’ho visto mi sono chiesta: perché è cosìdettagliato? Quella normativa oggi fa ride-re, è pleonastica, inutile, ma allora era ne-cessaria, perché non c’erano precedenti.Quel codice è il risultato delle assemblee diogni convitto, è stato discusso dagli allievi,tutto fatto ex-novo. Non c’erano tradizioni,anche perché nemmeno l’Italia liberale ave-va inserito il popolo italiano nelle sue strut-ture. Alle elezioni votava meno del 2% e daquando era stato introdotto l’allargamentoal suffragio universale maschile, di votazio-ni praticamente non ce n’erano più state. In queste repubbliche c’è spazio anche perlo svago e si assiste a dei cambiamenti sulpiano dei costumi. Gorrieri, che ha dedicato un libro alla re-pubblica di Montefiorino, parla di “feste,balli e gozzoviglie”! Per qualcuno era unoscandalo. Le donne sono le grandi protago-niste, insieme ai contadini e al clero, dellezone libere. E tuttavia le donne più anzianetemono che in queste Repubbliche si stianodiffondendo dei costumi pericolosi. Teniamopresente che in queste aree era pieno di gio-vani, di adolescenti, molti partigiani aveva-no 16 anni, i più maturi erano tutti in guer-ra. Ebbene, questi ragazzini rimasti neipaesi partecipavano con estremo entusia-smo e ballavano tutte le sere. In Val Sesiasi lanciò persino un concorso musicale. Inquelle settimane rifiorisce tutta una vita ci-vile che era stata soffocata dalla dittaturafascista e poi dalla guerra. In una delle re-pubbliche vengono perfino proiettati film edocumentari sulla guerra, inediti in Italia.Si portava il cinema in paesi dove non eramai esistito! Come dicevo, questa rivoluzione dei costu-

Gorrieri, che ha dedicato un libro alla repubblica

di Montefiorino, parla di “feste,balli e gozzoviglie”!

Scambio di prigionieri tra partigiani ossolani e fascisti a Traffiume di Cannobio, settembre 1944. Al centro, un giornalista olandese con la moglie

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mi viene molto ben accolta dalle donne gio-vani, e fortemente disapprovata dalle an-ziane e dai preti. Soprattutto le anziane sipongono come freno a questi costumi rite-nuti licenziosi. Alcuni preti, più progressi-sti, si vedono costretti a prenderne atto, maci sono anche i reazionari, come il vescovodi Udine che nel bel mezzo della tragediainvia una lettera in cui deplora “che le ra-gazze mostrino le ascelle nude”!In questi esperimenti di giunte ammini-strative erano presenti ispirazioni diverse.Obbligatoriamente dovevano essere presen-ti tutti i partiti del Cln, quindi comunisti,socialisti, Partito d’Azione. Il problema èche nei paesini non c’erano tutti, al che ca-pitava che si prendesse qualcuno da parte egli si assegnasse il ruolo: “Tu sei il Partitod’Azione”. Quello magari non sapeva nean-che cosa fosse! In altre no, i partiti eranopresenti eccome! In Carnia gli appartenentialle brigate Osoppo e i comunisti stavanoper cominciare a spararsi addosso. Nel cuneese non si sono sparati addosso, mac’è mancato poco. Per fortuna fu destituito ilcapo dei partigiani e arrivò Nuto Revelli cheriuscì a tenerli buoni, se no era un massa-cro: da una parte i partigiani antifascisti erepubblicani convinti, dall’altra non solo idemocristiani, ma anche le bande partigia-ne comandate e in parte costituite da uffi-ciali dell’esercito che tendevano a mantene-re il modello militare e si ricordavano moltobene del giuramento di fedeltà al Re.Questi avevano comportamenti molto di-versi, anche di fronte ai nazisti, erano piùattendisti, più disposti a patteggiare. I par-tigiani no, patteggiavano solo in condizionidisperate.

Qual è l’epilogo di queste repubbliche?Tutte finiscono cadendo reinvase dai nazi-fascisti. La Carnia era una delle porte versol’Austria e la Germania, quindi lì i nazifa-scisti dovevano tenersi aperti i varchi pertornare a casa. Sopra Sondrio, una delle re-pubbliche dura solo tre giorni. Lì c’erano lecentrali elettriche che davano elettricitàall’industria milanese e padana, e i fascistil’avevano individuato come loro via di fuga.Infatti da dove sarebbe scappato Mussolini?Dal lago di Como. Quindi quella era una zo-na controllatissima. Per fortuna i partigia-ni riescono a salvare tutte le centrali elet-triche che i nazifascisti avevano program-mato di distruggere. Poi c’è il Piemonte alto e basso, dalla Vald’Aosta al cuneese, fino a saldarsi con la zo-na appenninica della Liguria. In un primomomento era stato tutto abbandonato. Quile zone libere erano sette; succede che glialleati minacciano un altro sbarco fra Ge-nova e Savona. E invece, mentre a Savonasi erano organizzati e li aspettavano da ungiorno all’altro, sbarcano in Provenza.Quindi i nazifascisti sono costretti a spo-starsi su quel territorio per difendersi dal-l’eventuale sbarco.

Ciò che queste repubbliche elaborarono inquelle poche settimane però non andò per-duto. Non a caso nel mio libro l’ultimo capi-tolo è dedicato a quanto delle conquiste del-le zone libere è passato nella nostra Costi-tuzione. Tantissimo! Dalle libertà fonda-

mentali, la libertà di riunione, di associa-zione, di partito, di stampa, ai sindacati...In quel periodo nascono i primi sindacati;nel biellese e nell’astigiano si redigono i pri-mi contratti collettivi di lavoro. Il primocontratto nazionale del tessile prenderà pa-ri pari quello della zona libera del biellese.Del sistema sanitario e fiscale ho già accen-nato, ma soprattutto vengono introdotte li-bere elezioni. Ci sono le istruzioni del Clndell’Alta Italia che dicono di costruire que-ste giunte amministrative con la presenzadei partiti, e con gruppi locali che siano ri-spettabili -cioè non compromessi col fasci-smo. Quindi giunte aperte a gruppi di citta-dini, quella che oggi chiamiamo “società ci-vile”. In Carnia e nel cuneese viene abolitala pena di morte; sempre in Carnia si recu-pera la tradizione cooperativa del sociali-smo: anch’essa entrata nella nostra Costi-tuzione.Per concludere, puoi raccontare la sto-ria della Carnia e dei Cosacchi?Ai Cosacchi del Don, feroci avversari dei so-viet, che al tempo dell’invasione tedesca sierano alleati con Hitler, i nazisti avevanopromesso una “Kosakenland” in Carnia.Nel 1942 ci fu quindi questa transumanzabiblica: non soltanto i soldati, ma anche lefamiglie e i loro pochi beni; una carovana diquarantamila uomini, seimila cavalli, tren-ta cammelli. Arrivarono in Carnia. Quandoi nazisti riconquistarono queste zone, obbli-garono la metà degli abitanti ad abbando-nare le loro case, lasciando tutto, piatti,pentole, biancheria, tutto, per farvi insedia-re i cosacchi. I quali fecero una strage. Il bi-lancio parla di 150 assassinati, mille depor-tati e poi stupri, incendi… fino a che a uncerto punto i cosacchi si resero conto che sevolevano vivere lì dovevano cambiare atteg-giamento. Qualcuno cominciò ad aprire gliocchi e andò coi partigiani. Qualcuno gli oc-chi li mise sulle ragazze e si sposò… Ho in-cluso nel libro il racconto di una famigliapresso cui si insedia un cosacco. Dapprimafa il prepotente, poi la mamma lo “mette aposto”, e questo da bravo ragazzo china ilcapo e si mette in riga. Alla fine gli voglionobene! In seguito i tedeschi promisero un’altra Ko-sakenlanden in Carinzia, per cui dovetteroandarsene tutti. Il fatto è che in Carinzia èinverno, siamo già al febbraio del ’45. Nascecosì la leggenda secondo cui i cosacchi si sa-rebbero suicidati in massa nelle acque geli-de della Drava. In realtà non è vero; sì,qualcuno si è suicidato, ma il grosso alla fi-ne è rimasto in Carinzia, o a Lienz, a ridos-so del confine italiano, dove finirono sotto ilcontrollo degli inglesi. Alla fine verrannoconsegnati ai sovietici, i generali condanna-ti a morte, gli altri deportati in Siberia, e illoro capo verrà impiccato pubblicamentesulla Piazza Rossa.

(a cura di Bettina Foa e Barbara Bertoncin)

ai Cosacchi del Don, ferociavversari dei soviet e alleatidi Hitler, i nazisti promisero

una “Kosakenland” in Carnia

pagine di storia

Un accordo per uno scambio di prigionieri a Gravellona durante la Repubblica Ossolana

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Le poesie memorabili, antologizzabili e an-tologizzate che si leggono negli Ossi di sep-pia di Montale sono effettivamente molte.Dopo “Meriggiare pallido e assorto” e “Spes-so il male di vivere” (commentate nellapuntata precedente) vengono “Esterina”,“Non chiederci la parola”, “Portami il gira-sole”, “Gloria del disteso mezzogiorno”,“Forse un mattino andando”: tutti testi checontengono alcune di quelle icastiche for-mule autoesplicative che fanno sempre co-modo quando si legge un poeta così sugge-stivo ma anche avaramente comunicativo,nei suoi primi tre libri, come Montale: usa-to e abusato scolasticamente per spiegarein breve come è fatta e che sapore ha la liri-ca moderna nella sua variante italiana.Quando poi si ha veramente poco spazio,sembra proprio che non si possa parlare nédegli Ossi né di tutto Montale senza rileg-gere due poesie come I limoni e Arsenio.Due poesie che con il loro svolgimento e laloro più distesa articolazione strofica tendo-no al poemetto, al monologo raziocinante oalla micronarrazione.Autoritratto trasposto (in Arsenio) e mono-logo raziocinante (nei Limoni) segnalanosubito che Montale sentiva di esordire, al-l’inizio degli anni Venti del Novecento, inun momento non facile per la poesia. Biso-gnava dare subito un’idea forte di se stessie del proprio stile. Lo spiegò più tardi nellasua famosa “intervista immaginaria” del1946: “Non ci fu mai in me una infatuazio-ne poetica, né alcun desiderio di ‘specializ-zarmi’ in quel senso. In quegli anni quasinessuno si occupava di poesia. L’ultimo suc-cesso di cui abbia ricordo in quei tempi fuGozzano, ma gli spiriti forti dicevano maledi lui, e anche io (a torto) ero di quel parere.I letterati migliori, che presto si riunironointorno alla Ronda, pensavano che la poe-sia dovesse scriversi, da allora in poi, inprosa. Ricordo che pubblicati i primi versi,nel Primo Tempo di Giacomo Debenedetti,fui accolto con ironia dai miei pochi amici(ch’erano già immersi nella politica e anti-fascisti dal più al meno, verso il ’22-’23)”.Dunque, difficoltà di situazione e mancan-za di fede nell’autoidentificazione “specia-lizzata” di poeta. Senza escludere, anzi in-cludendo quella che gli psicologi hannochiamato “identificazione con l’aggressore”:se gli altri tendono a fare dell’ironia sul fat-to che scrivo poesie, sarò io stesso a scriver-le in modo da far sentire sfiducia e ironia sume stesso e anche sui poeti e sulla poesia ingenerale, almeno per come è comunemente,volgarmente intesa:

Come si vede è un monologo in scena, cheperò tenta il dialogo (“Ascoltami”, “Vedi”).L’autore dei versi si illustra, si rappresen-ta, si spiega e in parte si giustifica. I suoiversi esistono perché hanno quel particola-re contenuto, un contenuto che si definisceanzitutto per differenza e opposizione ri-spetto al tradizionale idolo-poesia. La pole-mica antidannunziana e autodifensiva èimplicita ma evidente. Il poeta “laureato”,chiunque fosse, era, voleva essere, era statoconsiderato un uomo speciale, la cui vitaspeciale non somiglia e non deve somigliarealla vita “di tutti”. Se si ha presente quantoera già accaduto nella poesia italiana congli autori nati negli anni ottanta dell’Otto-cento, da Gozzano a Ungaretti, a Moretti, aSaba o Sbarbaro, la novità portata da Mon-tale è in questo senso piuttosto scarsa.L’aureola estetica indossata da D’Annunzioera andata da tempo fuori uso e di “perditadell’aureola” aveva già parlato Baudelairepiù di mezzo secolo prima in uno dei suoipoemetti in prosa. Come in molte altre cose,Montale più che scoprire e innovare, siste-ma, arricchisce, costruisce, solidifica. In ve-rità, almeno tecnicamente, si mostra subi-to, benché lo neghi, più professionale deisuoi fratelli maggiori. Non è un poeta inve-stito, squassato e travolto né dalla poesiané dalla sua impossibilità. I suoi dubbi sto-rici di autore non sono radicali, neppurequando sono radicalmente espressi. Il suo èuno scetticismo temperato e compensato dauna forte e decisa vocazione vocale e da unapassione tecnica per gli artefatti verbali chesupera quella dei suoi predecessori maggio-ri e minori: certo non supera la perizia diPascoli, ma quella di D’Annunzio sì. Anchesenza espansività, lo stile di Montale esibi-sce una “bravura”, un’incisività lessicale,metrica e anche retorica che sorprendono evogliono sorprendere.Se dopo i primi dubbi Montale apprezzeràmolto Gozzano in uno dei suoi saggi criticipiù tempestivi e acuti sul poeta torinese, èperché Gozzano sapeva costruire, era dota-to di una sua teatrale e narrativa eloquen-za di tipo nuovo, che negava se stessa an-che nell’atto di prodursi senza pudore.La poesia sui limoni oppone botanicamentel’umile al sublime. Si nota in questo ancheuna tipica tendenza ligure alla concretezza,al risparmio, al poco. Comunque non c’èdubbio che il gusto di Montale per la preci-sione e la rarità lessicale viene subito fuorinei primi versi, quando dice che no, lui non

Novecento poetico italiano/14di Alfonso Berardinelli

di poesia

I limoni

Ascoltami, i poeti laureatisi muovono soltanto fra le piantedai nomi poco usati: bossi ligustri

o acanti.Io, per me, amo le strade che riesconoagli erbosifossi dove in pozzangheremezzo seccate agguantano i ragazziqualche sparuta anguilla;le viuzze che seguono i ciglioni,discendono tra i ciuffi delle cannee mettono negli orti, tra gli alberi

dei limoni

Meglio se le gazzarre degli uccellisi spengono inghiottite dall’azzurro;più chiaro si ascolta il susurrodei rami amici nell’aria che quasi non simuove,e i sensi di questo odoreche non sa staccarsi da terrae piove in petto una dolcezza inquieta.Qui delle divertite passioniper miracolo tace la guerra,qui tocca anche a noi poveri la nostraparte di ricchezzaed è l’odore dei limoni.

Vedi, in questi silenzi in cui le coses’abbandonano e sembrano vicinea tradire il loro ultimo segreto,talora ci si aspettadi scoprire uno sbaglio di Natura,il punto morto del mondo, l’anello chenon tiene,il filo da disbrogliare che finalmente

ci mettanel mezzo di una verità.Lo sguardo fruga d’intorno,la mente indaga accorda disuniscenel profumo che dilagaquando il giorno più languisce.Sono i silenzi in cui si vedein ogni ombra umana che si allontanaqualche disturbata Divinità.

Ma l’illusione manca e ci riporta il temponelle città rumorose dove l’azzurro

si mostrasoltanto a pezzi, in alto, tra le cimase.La pioggia stanca la terra, di poi;

s’affoltail tedio dell’inverno sulle case,la luce si fa avara - amara l’anima.Quando un giorno da un malchiuso

portonetra gli alberi di una corteci si mostrano i gialli dei limoni;e il gelo del cuore si sfa,

e in petto ci scroscianole loro canzonile trombe d’oro della solarità.

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vuole parlare di “bossi ligustri o acanti”, maintanto li nomina, si diverte a farli risuona-re quei “nomi poco usati”, facendo in modoche restino, anche se ironicamente, nellamemoria del lettore. Segue poi uno dei versipiù lunghi della poesia, quello che fissa ilgesto della differenza, dell’opposizione: “Io,per me, amo le strade che riescono agli er-bosi”, un verso che si inarca in un efficacis-simo enjambement aperto su una pioggia diversi fonicamente insistiti, gremiti di con-sonanti doppie e di evidenze fisiche tali daprovocare in chi li legge (e in chi li ha scrit-ti...) una specie di ebbrezza iperpercettiva.È una scenografia che contiene già un mo-vimento, un dinamismo narrativo. Iniziacosì la passeggiata, il vagabondare del soli-tario osservatore e meditante inquieto. È laprima fase di una progressione visionariaverso l’incontro che ha qualcosa della rive-lazione. L’odore dei limoni che chiude la se-conda strofa segnala che le percezioni fisi-che, in un crescendo parossistico, hannoprovocato quella piccola estasi che dà “a noipoveri la nostra parte di ricchezza”. Da que-sto punto in poi, attraverso ciò che era fisicosi entra nel metafisico. Del resto, è statoDebenedetti a ricordare nelle pagine dellasua Poesia italiana del Novecento dedicatea Montale che “tutta la grande poesia lirica,forse, è anche metafisica”.Nelle due strofe che seguono, prima si offrel’enunciazione più chiara di una filosofiapoetica nel momento in cui si rivela (“Vedi,in questi silenzi in cui le cose/ s’abbandona-no e sembrano vicine/ a tradire il loro ulti-mo segreto”) e poi si torna all’opacità e alconfuso torpore in cui la luce estiva, il silen-zio rivelatore, lo splendore solare dei limo-ni, sono sopraffatti, sottratti alla coscenza equasi dimenticati (“Ma l’illusione manca eci riporta il tempo/ nelle città rumorose do-ve l’azzurro si mostra/ soltanto a pezzi”). Imomenti della visione, dell’intuizione o pre-monizione conoscitiva sono rari e transitori.La vita quotidiana (urbana, piovosa, inver-nale) non è altro che uno stato di atonia deisensi, “gelo del cuore”, offuscamento. Il gial-lo dei limoni è un’apparizione estiva, meri-diana: un vero sapere e un vero sentire cheforse è solo una momentanea illusione diaver sentito e capito che cosa tiene insiemeil mondo, il suo senso o il suo sostanzialevuoto. Questa conoscenza resta una mezzaconoscenza, uno stato sospeso fra la certez-za momentanea della comprensione e l’im-possibilità di raggiungerla davvero e di far-la durare. Resta l’emblema, la presenza fi-sica (colore e odore) dei limoni.Anche nella costruzione e nello stile, che èeccezionalmente denso, ramificato, labirin-tico, una poesia come Arsenio va oltre lasemplicità del dualismo (bene e male, pienoe vuoto, luminosità e opacità) su cui poggiaOssi di seppia. Scritto nel 1927, due annidopo la prima edizione del libro, il poemetto

viene aggiunto nell’edizione del 1928. Se-condo lo stesso Montale, Arsenio è un ponteverso il libro successivo, Le occasioni, uscitonel 1939, documento tipico e classico del-l’ermetismo anni trenta.Nella traduzione di Mario Praz, Arseniouscì nella rivista “Criterion” di T.S.Eliot eresta uno dei capolavori di Montale. Il no-me Arsenio consuona con Eugenio, il nomedell’autore. Ma il pudore, il ritegno, lo scet-ticismo di Montale sulla consistenza biogra-fica dell’Io, fanno del personaggio un corre-lativo narrativo che scivola fuori dalla sog-gettività dell’autore sottraendosi all’auto-biografismo esplicito. L’io perciò diventa un“tu” e chi legge viene tirato dentro un oscu-ro viluppo di descrizioni e di allusioni.Quella certa scioltezza che è sembrata per-fino eloquente, diretta, lapidaria in moltitesti del libro, ora è oscuramente bloccata einibita. Arsenio si muove, cammina, ma isuoi passi sono faticosi, intralciati. Si parladi “viaggio” ma l’esito è un’ “immobilità”:

Oltre che un virtuoso della descrizione scor-ciata, quasi una strozzata “prosa d’arte”lampeggiante, compressa in endecasillabi,Montale si mostra efficiente anche nell’in-venzione di formule concettuali e morali.Qui abbiamo quel “delirio d’immobilità” co-sì potentemente allusivo da poter diventarel’emblema diagnostico di una situazionedella vita (degli scrittori, degli individui)negli anni del fascismo. Ma come sempre,in Montale la storia è mascherata da meta-storia, o tradotta in termini di substoriaesistenziale. Arsenio vive e si muove in unincubo a occhi aperti. Ogni percezione è ni-tida ma nasconde o annuncia non si sa checos’altro. Si riesce a malapena a capire chesiamo in una cittadina sul mare, che è incorso uno di quei temporali estivi tempesto-si, con tuoni e lampi, che provocano trombed’acqua, mentre intanto un’orchestra in unalbergo continua a suonare sotto i palmizi.Di Arsenio si dice che discende sul lungo-mare. Abbondano le sequenze enumerative,le specificazioni, gli incisi. La sintassi è ral-lentata e come inceppata da un eccesso dioggetti, sensazioni, presentimenti. Finchénell’ultima strofa, la più ampia, in un cre-scendo conclusivo di visioni disperate e ag-ghiaccianti, piovono le formule morali chehanno fatto di Montale il più intellettual-mente, allegoricamente novecentesco poetadel Novecento italiano: colui che è riuscitoa fare dell’incomunicabile biografico unamicroepica dell’attesa metafisica e il codiceemblematico di un destino storico. Montaleha certo avuto letterariamente successo,ma è anche finito in cattive mani, propriolui nelle mani di tutti, senza che quasi nes-suno potesse davvero capire e accettare isuoi messaggi. Ma questo è stato il destinodi quasi tutta la poesia moderna.

di poesia

I turbini sollevano la polveresui tetti, a mulinelli, e sugli spiazzideserti, ove i cavalli incappucciatiannusano la terra, fermi innanziai vetri luccicanti degli alberghi.Sul corso, in faccia al mare, tu discendiin questo giornoor piovorno ora acceso, in cui par scattia sconvolgerne l’oreuguali, strette in trama, un ritornellodi castagnette.

È il segno d’un’altra orbita: tu seguilo.Discendi all’orizzonte che sovrastauna tromba di piombo, alta sui gorghi,più d’essi vagabonda: salso nembovorticante, soffiato dal ribelleelemento alle nubi; fa che il passosu la ghiaia ti scricchioli e t’inciampiil viluppo dell’alghe: quell’istanteè forse, molto atteso, che ti scampidal finire il tuo viaggio, anello d’unacatena, immoto andare, oh troppo notodelirio, Arsenio, d’immobilità…

Ascolta tra i palmizi il getto tremulodei violini, spento quando rotolail tuono con un fremer di lamierapercossa; la tempesta è dolce quandosgorga bianca la stella di Canicolanel cielo azzurro e lunge par la serach’è prossima: se il fulmine la incidedirama come un albero preziosoentro la luce che s’arrosa: e il timpanodegli tzigani è il rombo silenzioso.

Discendi in mezzo al buio che precipitae muta il mezzogiorno in una nottedi globi accesi, dondolanti a riva, –e fuori, dove un’ombra sola tienemare e cielo, dai gozzi sparsi palpita

l’acetilene –finché goccia trepido

il cielo, fuma il suolo che s’abbevera,tutto d’accanto ti sciaborda, sbattonole tende molli, un frùscio immenso radela terra, giù s’afflosciano stridendole lanterne di carta sulle strade.

Così sperso tra i vimini e le stuoiegrondanti, giunco tu che le radicicon sé trascina, viscide, non maisvelte, tremi di vita e ti protendia un vuoto risonante di lamentisoffocati, la tesa ti ringhiottedell’onda antica che ti volge; e ancoratutto che ti riprende, strada porticomura specchi ti figge in una solaghiacciata moltitudine di morti,e se un gesto ti sfiora, una parolati cade accanto, quello è forse, Arsenio,nell’ora che si scioglie, il cenno d’unavita strozzata per te sorta, e il ventola porta con la cenere degli astri.

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lettere

Cari amici,sono stata per un paio di settimane in Sri Lan-ka. Come vi ho già raccontato, rispetto a HongKong, Taiwan o al Giappone, anche lì è pienodi turisti cinesi che fanno shopping con serietàe dedizione. Trattandosi di una località per loropiù esotica di quanto non lo siano Hong Kongo Taiwan, capita, come in Giappone, di vederli“mascherati” da locali mentre brandiscono ilbastone per fare i selfie: ragazze in sari checamminano spedite verso i luoghi “pittoreschi”,e poi si fotografano l’un l’altra con una totalemancanza di imbarazzo, lasciando sventolareall’aria un lembo del sari, per fare foto roman-tiche. E pazienza.La parte più interessante però non sono tantoi turisti, che appunto sono ovunque. No, quelloche è impressionante sono gli investimenti ci-nesi: in particolare a Colombo, la capitale, so-no davvero vistosi, dato che si concentranosull’impressionante lungomare, quel GalleGreen dove le bellissime onde dell’Oceano In-diano si infrangono sul muretto di guardia conforza. Proprio oltre il Green sono in costruzio-ne dei grandi edifici –grattacieli che divente-ranno alberghi e palazzi di uffici, fatti dalla Ci-na e per la Cina. Alle sei di sera, mentre la lu-ce si fa rosa per il tramonto, ecco che esconodai cantieri gruppi di muratori cinesi un po’spaesati, che aspettano l’autobus che li ac-compagna in dormitorio. Ho camminato lungo tutto il lungomare, pervedere cosa stesse succedendo al porto diColombo, della cui costruzione si sta occupan-do un’azienda cinese, la China Harbour Engi-neering Company Ltd. La storia del porto di

Colombo è un po’ travagliata: sotto il presiden-te precedente, Mahinda Rajapaksa, un grandeamico della Cina, il porto era stato trasformatoda deposito per container a niente meno cheuna “port city”, a spese dei cinesi. Si trattava dicostruire grattacieli, alberghi di lusso, shop-ping malls e per l’appunto il porto, per un valo-re di 1.4 miliardi di dollari Usa, tutti cinesi. Perla Cina si trattava di aggiungere perle alla suacollana (la chiamano proprio così: “collana diperle”) che porta dalla Cina all’Europa con unaserie di punti scalo per favorire i trasporti di co-se e persone, via terra e via mare. Ma l’ab-braccio che Rajapaksa ha voluto estendere aPechino è stato così stretto che pare gli sia co-stato la rielezione. Pechino infatti stava met-tendo su bottega un po’ dappertutto, anchenell’altro porto, quello a sud di Hambantota, evisto che tutti i lavoratori che sono impegnatinei grandi lavori cinesi sono per l’appunto ci-nesi, ai singalesi la cosa non è piaciuta tantis-simo. Nuove elezioni, ed è andato al potereMaithripala Sirisena, che ha prontamente af-fernato che tutti i grandi investimenti cinesi an-davano rivisti, dal momento che non eranostati approvati con le dovute cautele, soprattut-to rispetto all’impatto ambientale. Pechino, co-me era prevedibile, è andata su tutte le furie, eha fatto pressione là dove Colombo è più vul-nerabile: chiedendo, cioè, il rimborso dei pre-stiti. Subito. Impossibile. Così, senza tante fan-fare, Sirisena ha fatto ricominciare i lavori alporto, anzi, alla Port City.Dunque sul fare del tramonto mi sono messaa passeggiare intorno al cantiere, guardandoquanto tutto fosse cinese: gli stessi slogan sul-

la sicurezza e le meraviglie della progettistica,lo stesso faccione un po’ sovietico del lavora-tore con l’elmetto che guarda al futuro, con afianco i caratteri che dicono “Prima di tutto si-curezza!”, e poi, naturalmente, gli stessi lavo-ratori con la pelle ispessita dalle intemperie,ma qui un po’ spaesati.Camminando, ho iniziato a chiacchierare conuno di loro, che mi ha solo detto che si chia-mava Zhang -nome talmente comune che ma-gari se l’è inventato perché ero troppo ficcana-so. Mi ha detto che è lì da due anni, e per seimesi, quando ci sono state le elezioni, nonhanno fatto nulla. Ma visto che la decisione ditornare in Cina non è sua, ma dell’azienda, eche ha il permesso di rientrare solo per il Ca-podanno cinese, se n’è rimasto lì, ad aspettareinsieme agli altri. Lavorano dieci ore al giorno,a volte fanno gli straordinari e mangiano nelcapannone cinese (“Cibo locale? Mai provato.Non siamo abituati a mangiare cose non cine-si”, mi spiega), dormono in un altro capanno-ne; escono solo per chiamare casa con i cellu-lari, per avere un po’ di privacy. Sono in venti-seimila. Gli ho chiesto quanto sarebbe rimastoa Colombo in queste condizioni e mi ha detto,come niente fosse: “Vent’anni. È il contrattoche abbiamo con il governo, e l’azienda ha de-ciso che restiamo tutti, per costruire e gestire ilporto”. Poi siamo stati interrotti da una guardia, cineseanche quella, insospettita dalle mie chiacchie-re, e così ho tolto il disturbo. Tornando verso ilGreen, non riuscivo a credere alle dimensionidel progetto, e mi chiedevo davvero quanto lapopolazione di Colombo sappia, ed apprezzi,questo sviluppo: dato che il porto, una volta fi-nito, sarà tutto cinese anche quello.

Ilaria Maria Sala

dalla Cina

Il porto di Colombo

Cari amici,il crowdfunding viene usato per diverse cose:veicoli a tre ruote, nuovi smartwatch, film, pro-getti artistici e perfino design e sistemi gestio-nali innovativi per il carcere, ma azzardereil’ipotesi che una revisione giudiziaria sostenu-ta dal crowdfunding non si sia mai vista. Chis-sà cosa verrebbe offerto agli investitori: un po-sto nella commissione? Un senso di giustizia?Una bandiera ricamata del sindacato dei mina-tori? Una banda di operai di miniera che suo-nano “Jerusalem”? È proprio perché il governonon ha saputo esercitare il potere di revisionegiudiziaria sulle inaudite violenze della poliziain una delle giornate dello sciopero dei minato-ri a Orgreave, nel 1984, che la campagna perla giustizia e la verità ha annunciato l’intenzio-ne di finanziare la propria ricerca su come an-darono le cose con il crowdfunding. Orgreave è uno di quegli episodi che compon-gono l’album della nostra esistenza. Non im-porta se eravate lì, ma che eravate in vita al-l’epoca dei fatti. Non è un’esagerazione affer-mare che quel lunedì 18 giugno del 1984 lapercezione che la gente aveva del governo,della polizia e del Paese cambiò per sempre.

Fu una battaglia, parte di una guerra che sem-brava mossa dal governo contro il suo stessopopolo. Ci furono violenze da ambo le parti,ma il picchetto aveva esordito in modo decisa-mente pacifico. Era un bel giorno d’estate e iminatori, che erano arrivati a cessare la forni-tura di carbone raffinato alla cokerie, si stava-no godendo il sole in un campo non lontanodal posto di lavoro, quando migliaia di poliziottiarrivarono convergendo da tutte le parti dellanazione. La cavalleria fu spedita alla carica efece irruzione nel campo a gran galoppo. Lefoto delle violenze scioccarono il Paese. Il nu-mero di poliziotti non aveva precedenti, comeanche quello dei cani e dei cavalli impiegatinell’azione. Gli arresti furono moltissimi, manon un singolo minatore fu incarcerato per al-cun crimine, dal momento che i tribunali re-spinsero le prove delle forze dell’ordine: troppeversioni identiche, tutte dettate dalla polizia delSouth Yorkshire. La testimonianza anonima diun poliziotto di Orgreave rivelò che gli ufficialiavevano ricevuto l’ordine di usare la massimaforza e confermò che i minatori non avevanofatto niente. Un minatore, Stefan Wyzocki, rac-contò alla Bbc di essere stato arrestato e quin-

di fatto passare tra file di poliziotti che lo rico-prirono di pugni e calci fino al punto che biso-gnò portarlo via di peso.Eppure è stato ritenuto che un’inchiesta nonsarebbe di “interesse pubblico”. Parte dellemotivazioni per cui Amber Rudd ritiene cheuna revisione giudiziaria sia inutile dipendonodall’assenza di “decessi” o “arresti illegali” le-gati alle azioni della polizia del South Yorkshi-re. Ah, beh. Caso risolto.Esistono fin troppi documenti ufficiali sullosciopero dei minatori ma ancora oggi sonotroppo sensibili per poter essere resi noti alpubblico, come solitamente accade passatitrent’anni. Si sa ancora fin troppo poco delledirettive governative sul mantenimento dell’or-dine durante lo sciopero, ma si sospetta molto.Persino l’attuale capo della polizia e dell’anti-crimine, il dr. Alan Billings, che si aspettavache il governo annunciasse un’inchiesta, è ri-masto scioccato nell’apprendere la decisionedi Amber Rudd.Grazie all’inchiesta, la polizia del South Yor-kshire avrebbe potuto esorcizzare i fantasmidel suo passato a Hillsborough e Rotherham.Parlando alla Bbc, Billings ha dichiarato: “Nonsappiamo con precisione cosa sia accaduto aOrgreave, perché sia stato necessario un simi-le dispiegamento di forze armate, né se fu co-ordinato dal governo”. Ha poi aggiunto la se-guente riflessione: “Uno di quei momenti, a

dall’Inghilterra

La battaglia di Orgreave

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Cari amici,vi scrivo a pochi giorni dalle elezioni legislativein Marocco, che hanno visto la conferma delPartito Giustizia e Sviluppo (Pjd) di AbdelilahBenkirane, primo ministro dal 2011. In Maroc-co di politica si parla poco, in quanto la parte-cipazione al voto è talmente bassa da renderel’effetto delle elezioni poco rilevante. La genteè toccata dall’aumento del costo della vita odalle difficoltà legate a un sistema largamentecorrotto, nonostante i proclamati tentativi dipulizia da parte di re e partiti politici. Pochicondividono l’interesse per il confronto tra isla-misti moderati del Pjd e Partito Autenticità eModernità, ovvero del presunto scontro trapartiti della Koutla o di movimento e quelli delregime o Makhzen (cosiddetti partiti dell’ammi-nistrazione).Scrive Tahar Lamri, intellettuale algerino di Ra-venna: “Marocco, gli islamisti vincono le ele-zioni, così titolano, unanimi, i giornali da ieri. Inqualsiasi altro contesto i titoli sarebbero stati:Voto in Marocco. Il Partito Giustizia e Svilupporiconfermato; oppure: Marocco, il Partito ecc.vince le elezioni. Nei contesti arabo-islamici,pare, qualsiasi partito in odore di islam è isla-mista: sottinteso oscurantista, jihadista, antide-mocratico, ecc. Nessuno dice che il Pjd (Parti-to Giustizia e Sviluppo), che si definisce ‘parti-to politico nazionale’ e nulla più, già al governodal 2011, ha governato assieme agli ex comu-nisti del Partito del Progresso e del Sociali-smo, al partito di centro-destra Rni (Raggrup-pamento Nazionale degli Indipendenti), ai libe-rali del Mp (Movimento Popolare)”.Anche oggi il Pjd dovrà formare un governo dicoalizione. Sono cominciate le trattative e, co-me già nel 2011, non si tratterà quasi certa-mente di un governo esclusivamente dellaKoutla, bensì di una coalizione di partiti moltodiversi tra loro, come sempre amalgamati for-malmente sotto l’egida reale. Potrebbe tornareal governo il partito degli indipendenti, che de-ciderà del suo ingresso con una diversa lea-dership. Altri partiti amministrativi stanno atten-dendo la decisione. Ma la vera novità è l’ormaidata per certa partecipazione del partito con-servatore Istiklal, quello nazionalista dell’indi-pendenza. Dalle fila dell’Istiklal era uscita lafrangia socialista, oggi Unfp, che, dopo le ulti-

me elezioni, sembra propensa all’avvicina-mento al Pjd, con l’affermazione del quale giàdal 2002 l’Unione Nazionale delle Forze Popo-lari aveva visto un calo costante e impietoso diconsensi: oggi questo partito dalla storia glo-riosa supera di pochi punti la soglia del 3%,portando in Parlamento 20 deputati soltanto. Apartire dalla fine degli anni Novanta del secoloscorso, forte dei consensi che lo facevano pri-ma forza politica del paese, la Unfp fu coopta-ta al governo e incominciarono a spegnersi lesperanze per un orizzonte monarchico costitu-zionale con una possibile vera democrazia; fula stessa sinistra di potere a tradirle. Oggi lesperanze dei democratici marocchini sembra-no nelle mani del Pjd, che con più del 30% deivoti si è riconfermato prima forza politica delpaese, ottenendo 125 deputati, 23 in più delPam. L’Istiklal è la terza forza, ma con l’11%ha meno della metà dei parlamentari del Pam;seguono Rni e Movimento Popolare, partitimoderati amministrativi.Le istanze della sinistra sono oggi lasciate auna debole federazione di partiti che sembrariscuotere consensi soprattutto tra i giovanidella nuova borghesia urbana; questi non pa-iono confidare nella democrazia rappresenta-tiva e non si iscrivono neppure nelle liste elet-torali. Di conseguenza la Federazione della si-nistra democratica (Fgd) non ha raggiunto ilquorum del 3%, perdendo la rappresentanzanazionale femminile e giovanile delle listecreate ad hoc per un maggiore equilibrio gene-razionale e di genere in Parlamento. Neppurela combattiva leader Nabila Mounib è diventa-ta deputata e la Federazione ha due soli eletti,a Rabat e Casablanca.È forse una sinistra troppo elitaria; già all’inter-no del Movimento 20 febbraio e in seguito allacrisi dell’alleanza con gli islamisti ne era emer-sa la fragilità. Sono quindi i movimenti a ispira-zione religiosa a prevalere nel favore dell’opi-nione pubblica perché in grado di portare labandiera delle questioni socio economiche, lalotta alla povertà e alla corruzione (su quest’ul-timo tema lo stesso primo ministro Benkiraneaveva per altro ammesso il fallimento del go-verno). Permane una corruzione molto diffusa,forse senza soluzione: lo stesso re che si di-chiara paladino dell’onestà governa un siste-

ma, il Makhzen, diffusamente corrotto. E i par-titi politici galleggiano per spartirsi il potere cheresta, e con esso il denaro. A Sidi Bibi, una cittadina a sud di Agadir, dopole elezioni ci sono stati grandi problemi di ge-stione della sicurezza per il fatto che alcuni cit-tadini avevano costruito abusivamente le lorocase. Li si era lasciati liberi di agire prima delvoto, per poi punirli duramente con la distruzio-ne di quanto costruito non appena le urne so-no state chiuse: forse questo fatto potrebbeben rappresentare che opinione possano farsii marocchini della democrazia elettorale...D’altronde il Marocco resta un paese di grandidisparità: tra classi sociali, tra quartieri di unastessa città, fra regioni. Che importanza pos-sono avere le elezioni per un pastore d’un vil-laggio montano dell’Alto Atlante che parla sol-tanto in berbero e vive a fatica in un’economiadi sussistenza? Un amico di Tata m’ha raccontato con passio-ne del suo fallito tentativo di diventare rappre-sentante cittadino per l’Istiklal. Le differenzeideologiche tra i partiti, già pallide a livello na-zionale, quasi spariscono a livello locale: qui lascelta di una parte politica dipende prevalen-temente dalle persone che la rappresentano:per Hassan conta soprattutto la capacità di far-si carico dei bisogni del suo villaggio e dei cit-tadini, nel tentativo di vincere la radicata abitu-dine della compravendita del voto che favori-sce personaggi corrotti. Oggi siamo rimasti bloccati a Tata dalle pioggeinsistenti: dalle montagne è arrivata una gran-de ondata d’acqua che ha invaso queste arideterre impedendo qualunque collegamentostradale per la città. Non ci sono ponti: Benki-rane passando di qui li aveva promessi, maforse Tata è troppo lontana da Rabat o è man-cato da parte degli eletti un reale interesse peril miglioramento delle condizioni di vita dei loroelettori. Hassan non è stato eletto, ma almenoè soddisfatto per l’invio in Parlamento del rap-presentante del suo partito, piccolo segnale dicambiamento politico in questa provincia.Continuerà pertanto e, nonostante tutto, a im-pegnarsi per la sua gente confidando che intanta indifferenza, di colpo possa scoppiare untemporale delle coscienze, in grado di riempirei fiumi come l’acqua che oggi scorreva impe-tuosa, unica protagonista di questa giornatanel sud Marocco.

Emanuele Maspoli

lettere

dal Marocco

Dopo le elezioni

mio avviso, in cui la polizia diviene quasi inte-ramente uno strumento di Stato; uno di queimomenti che è meglio evitare”. Michael Mansfield, l’avvocato della Coronache difese i minatori, ha spiegato chiaramenteil motivo per cui ritiene di grande importanzal’apertura di un’inchiesta: non si tratta di ciòche è successo ma di come sia stato possibilearrivarvi, e perché.Centro! Questa è una campagna di crowdfun-ding a cui parteciperò e che consiglierò achiunque io conosca. È uno di quei casi in cuiil governo non riesce a guidare e ad assicurareverità e giustizia, finché non sono le persone ela vita di tutti i giorni a prendere il sopravvento.Intanto tutti i giorni ci sono ragazze e giovanidonne affette da problemi mentali come mai

prima d’ora. Il 37% delle ragazzine soffre didepressione e ansia. Le richieste scolastiche,il futuro incerto, i problemi estetici, la sessua-lizzazione precoce e il bullismo su internet eper strada creano stress; aggiungiamolo ai so-cial e alla tensione per mantenere un’immagi-ne pubblica impossibile e sarà davvero troppo.L’estetica è stata uno degli stimoli che hannoportato alla creazione dello “Spare Rib Maga-zine”, una rivista femminista iconica creata daRosie Boycott e Marsha Rowe, tra le altre. Ilprimo numero apparve nel 1972, come sfidaalla situazione delle donne dopo la rivoluzionedegli anni Sessanta, nell’inebriante e illumi-nante seconda ondata del femminismo. Lepubblicazioni cessarono nel 1993. Sembra im-possibile che dopo tutti quei nostri presunti

progressi una mia giovane amica si ritrovi aessere intimidita sulla metropolitana da un uo-mo di mezza età che le si spinge contro, sen-tendosi in pieno diritto di invadere il suo spaziopersonale, respirare la sua aria e succhiarlevia la dignità. Che un giovane possa urlare allasua ragazza di “chiudere quella cazzo di boc-ca” non una, non due ma tre volte, e che la ra-gazza rimanga zittita, senza voce. Sembra im-possibile che le nostre giovani siano talmentepreoccupate del loro aspetto da procurarsi deitagli per alleviare il dolore della loro infelicità.Non si tratta di cosa è successo, come dicevaMichael Mansfield riguardo a Orgreave, ma dicome ci siamo arrivati. E perché.

© Belona Greenwood(traduzione di Antonio Fedele)

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2 ottobre. Il populismo non è fascismo,ma…Marine Le Pen è fascista? Un tribunale fran-cese ha sentenziato che i suoi oppositori han-no il diritto di definirla così. E Norbert Hofer, illeader del Partito della libertà austriaca? EDonald Trump?Sheri Berman, nel suo intervento sull’ultimonumero del “Foreign Affairs”, interamente de-dicato al populismo, solleva qualche dubbio.Sicuramente il contesto di crisi economica einadeguatezza delle élites politiche ricordamolto quello degli anni Venti e Trenta. Proprioper questo varrebbe la pena capire perché lacrisi economica comune a Germania e StatiUniti portò a esiti così diversi. Berman ricordaad esempio come mentre la Germania si inte-stardiva in una politica di austerità, Rooseveltponeva le fondamenta del futuro stato socia-le. Non a caso, la forza del fascismo stavaanche nella promessa di uno Stato che si sa-rebbe occupato dei suoi cittadini, difendendolidagli effetti del capitalismo.Ovviamente al successo del fascismo contri-buirono molti altri elementi, la frustrazione deireduci, la connivenza delle forze conservatri-ci, l’appeal nazionalistico…E oggi? Berman intanto fa notare che i popu-listi non parlano mai di abbattere la democra-zia, bensì di migliorarla. Sono antiliberali, manon antidemocratici. Una differenza tutt’altroche banale. E poi c’è il contesto: nonostantetutti i limiti, attraverso le istituzioni democrati-che, i partiti e le organizzazioni della societàcivile, i cittadini possono esprimere le propriepreoccupazioni, influenzare la politica e, attra-verso il welfare, trovare risposta ai loro biso-gni. Tutto bene dunque? Beh, se è vero quel-lo che dice Theda Skocpol, e cioè che i movi-menti rivoluzionari non creano le crisi, bensìle usano, allora è invece il caso di preoccu-parsi. Ma delle cose giuste. Il passato ci inse-gna che più che dei populisti dobbiamo pre-occuparci dei problemi che affliggono la no-stra democrazia e che sono la crescente di-suguaglianza, i bassi salari, la disgregazionedelle comunità, eccetera eccetera. (foreignaffairs.com)

10 ottobre. Morire di carcereUn detenuto di 23 anni ha provato a impiccar-si nella propria cella della Casa Circondarialedi Fuorni. Le guardie carcerarie, accortesi deltentativo, hanno dato subito l’allarme. Intuba-to e stabilizzato, il ragazzo è stato trasferitocon urgenza all’ospedale di Salerno del Rug-gi, dove è stato ricoverato in rianimazione incoma. (Ristretti Orizzonti)

12 ottobre. Il GaokaoOgni anno, ai primi di giugno, gli studenti ci-nesi che stanno per conseguire il diploma sicimentano nei test d’ammissione alle univer-sità: i Gaokao (letteralmente “esami superio-ri”) sono considerati un evento nazionale, alpunto che nelle prossimità delle sale d’esamesi interrompono i lavori nei cantieri, viene de-viato il traffico e le forze di polizia verificanoche nelle strade adiacenti non si faccia chias-so. In più, per evitare gli imbrogli, le aule ven-

gono sorvolate da apparecchi che rilevanoonde radio “anomale”. Fuori, intanto, si assie-pano i genitori degli esaminandi, che si pre-parano per quel momento sin dalle elementa-ri. Già, perché i posti disponibili sono circauno ogni 50.000 candidati, e dal risultato delGaokao può dipendere il resto della vita: dallacarriera alle prospettive di matrimonio. Certoun sistema tanto competitivo attira diverse cri-tiche anche in Cina; d’altra parte, l’opinionecondivisa è che non ci sia alternativa a unesame tanto duro. “Abbiamo troppa gente”.(theguardian.com)

16 ottobre. Dove sono finiti i lavoratori?Nel mercato del lavoro statunitense mancanoall’appello milioni di uomini. Dove sono finiti?Questa è domanda che guida la ricerca dapoco pubblicata di Alan B. Krueger, professo-re di economia a Princeton. Gli economisti datempo si scervellano per capire perché unacrescente quota di giovani uomini non solonon lavora, ma nemmeno cerca un impiego.Gli ultimi dati ci dicono che a settembre 2016negli Stati Uniti l’11,4% degli uomini tra i 25 ei 54 anni (sette milioni di persone) non fa par-te della “forza lavoro”. Com’è possibile? Al dilà delle tendenze demografiche, che ovvia-mente incidono, la preoccupante scoperta diKrueger è che il 40% di chi sta “fuori” soffre,nel senso proprio di dolore fisico, anche di in-tensità elevata; un terzo ha delle disabilità divario tipo; il 44% prende antidolorifici tutti igiorni e, ciò che è peggio, continua a provaredolore. (nytimes.com)

20 ottobre. Tutti programmatori?Negli Stati Uniti si è aperto un dibattito attornoall’idea che saper programmare è diventatoun aspetto dell’alfabetizzazione di importanzapari al saper leggere e far di conto e quindi vainsegnato a tutti. Ne parla Annie Murphy Paulsull’ultimo numero de “Le Scienze”. L’ammini-strazione Obama si sta muovendo su questastrada. Nel Regno Unito, già nel 2014 per glistudenti è diventato obbligatorio saper pro-grammare. Sheena Vaidyanathan, che inse-gna alla scuola elementare di Palo Alto, èconvinta che tutti, maschi, femmine, ragazziniapparentemente poco dotati per la matemati-ca, possano imparare a programmare. Ovvia-mente la sfida è molto ambiziosa, soprattuttoperché per ora mancano gli insegnanti di in-formatica. I più diffidenti mettono anche inguardia dal rischio che lungo questa strada siinseriscano le grandi imprese interessate soloai loro profitti. I più fiduciosi sostengono inve-ce che “saper programmare” nel senso discrivere codici, è troppo poco. Quello che bi-sogna insegnare, partendo dai bambini, è ciòche sta “sotto”, diciamo così, la programma-zione, e cioè il pensiero computazionale, valea dire “la capacità di saper prendere un gros-so problema e scomporlo in tanti problemi piùpiccoli”, un’abilità che in effetti non serve soloa chi usa il computer. (Le Scienze)

28 ottobre. L’imamaLa moschea Mariam, la prima a conduzionefemminile, ha aperto in marzo a Copenaghen.

Al primo incontro si è parlato di diritto delledonne. Sherin Khankan, 42 anni e quattro fi-gli, una delle imam che guida la preghiera, ènata in Danimarca. Nel 2001 ha fondato “Cri-tical Muslims” un gruppo che promuove unislam democratico e pluralista.Sherin porta il velo solo quando prega e neisuoi sermoni rilegge il Corano “secondo i no-stri tempi e la nostra società”.La sua mo-schea trova ispirazione nel sufismo, ma tuttisono i benvenuti. Nella moschea di Sherin sisono celebrati già cinque matrimoni (due deiquali tra persone di fede diversa). Uomini edonne sono invitati a partecipare alle varie at-tività della moschea, ma il venerdì è riservatoalle donne. (wsj.com)

31 ottobre. Mr HussainSharakat Hussain, ventiseienne di Birmin-gham, aveva acquistato un iPhone7 da 799sterline per la sorella, dopodiché aveva deci-so di restituirlo. Gli era stato comunicato chesarebbe arrivato un rimborso, ma dopo qual-che settimana gli è arrivata un’email di Applein cui gli si chiedeva di dimostrare di non es-sere il defunto dittatore iracheno. Ovviamenteha subito pensato fosse spam, ma si sbaglia-va. Il suo cognome era finito dentro la “blacklist”. A quel punto Hussain, che fa l’autista, siè infuriato, oltre che indignato per l’associa-zione. Apple si è scusata dell’errore umano eha garantito che i soldi sarebbero stati riac-creditati quanto prima. (independent.co.uk)

31 ottobre. Effetti BrexitSulla prima pagina del “Guardian” oggi si par-la di un effetto della Brexit piuttosto curioso:alcuni discendenti delle decine di migliaia diebrei tedeschi che trovarono rifugio in GranBretagna in fuga dal nazismo, oggi rivendica-no il loro diritto alla cittadinanza tedesca. Leautorità tedesche parlano di circa quattrocen-to domande arrivate dal Regno Unito. Michael Newman, dell’associazione dei rifu-giati ebrei, parla di una sfida psicologica con-siderevole: dopo aver aiutato gli ebrei a di-ventare cittadini britannici, oggi gli viene chie-sto di assistere chi vuole riacquistare la citta-dinanza tedesca.In base all’art. 116, infatti, qualsiasi discen-dente di persone perseguitate dai nazisti hadiritto a chiedere la cittadinanza tedesca.Ovviamente non tutti sono pronti a una similescelta. Harry Heber, 85 anni, nato in Austria earrivato in Gran Bretagna all’età di sette anninel dicembre del 1938, dice che l’idea di tor-nare nel luogo dove i suoi parenti sono statiassassinati semplicemente gli provoca orrore.(theguardian.com)

1 novembre. PoverofobiaIn francese si dice “pauvrophobie” ed è la pa-rola scelta dopo un sondaggio condotto daAtd Quart Monde (movimento di lotta controla miseria presente in 34 paesi) in occasionedella giornata mondiale contro la povertà.Sembra che questa fobia della povertà inFrancia (ma non solo) stia colpendo comunitàlocali e amministrazioni in un modo inedito.Non ci sono solo gli episodi eclatanti degli at-

appunti di un mese

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tacchi ai centri per i poveri e gli immigrati, rac-conta Isabelle Rey-Lefebvre su “Le Monde”,ora ci si mettono anche gli arredi urbani a ri-badire il concetto: come le gabbie metallicheanti-clochard installate intorno alle panchinedi Angoulême. I poveri ormai non sono piùtollerati neanche sui marciapiedi. D’estate aCannes, Nizza, Fréjus, si ripetono i decretianti-accattonaggio. A Lione sono arrivati achiudere le fontane in piena canicola.“Le Monde” ha dedicato un lungo reportagealla fobia per la povertà. Ciò che colpisce èanche proprio il senso di fastidio che si stadiffondendo verso chi non ce la fa: se nel1995 era il 25% delle persone a pensare che“i poveri non fanno abbastanza per usciredalla loro situazione”, oggi, a parità di indicedi povertà, a pensarla così è il 36%. (lemonde.fr)

3 novembre. Il grande fratello e l’Rc autoAgli ideatori doveva essere sembrata unabella trovata. “Firstcarquote” il nuovo prodottodella compagnia assicurativa inglese Admiralsi rivolge esplicitamente alla “generazione di-gitale” alle prese con l’acquisto della primaauto facendo un’offerta allettante. Permettimidi “quotarti”, cioè di capire quante possibilitàci sono che tu faccia un incidente, e ti farò unbello sconto. Quotarti come? Beh, studiandotiattraverso il tuo account su un social network.Facebook ha bloccato sul nascere l’iniziativaperché viola gli elementari principi di privacy.Admiral si è giustificata spiegando che c’è unlegame comprovato tra la personalità e il mo-do di guidare e che il loro servizio era pensa-to per aiutare i giovani neoguidatori spessomolto penalizzati dai premi assicurativi. Sarà.Certo la prospettiva che un’assicurazione usidegli algoritmi per sapere, per esempio, inche orari e dove incontri le persone, quali pa-role usi nei post e quanto lunghe sono le tuefrasi fa, a dir poco, una certa impressione.(dailymail.co.uk)

4 novembre. Ivan il terribile Il primo leader russo a rivalutare la figura diIvan il Terribile, sanguinario zar del sedicesi-mo secolo, era stato Stalin; in un celebreaneddoto, il povero Eisenstein, reo di aver gi-rato un film non proprio agiografico sulla suafigura, era stato duramente ripreso dal ditta-tore, che stimava Ivan come “grande e sag-gio governante”. Con la fine dello stalinismo, anche il Terribileera tornato a essere considerato una figuracupa della storia di Russia. Così fino a oggi,perché la città di Oryol, nella Russia sud-oc-cidentale, ha appena inaugurato nella piazzaprincipale una statua equestre in suo onore.All’inaugurazione, alla presenza di alte auto-rità, il governatore cittadino ha affermato:“Anche ora abbiamo un presidente potente,che ha costretto il mondo intero alla deferen-za verso la Russia. Proprio come aveva fattoIvan il Terribile”. Non tutti ci stanno, e in cittàsi è animato un piccolo gruppo di attivisti an-ti-statua. Una di loro è già stata aggredita, eper la paura ha lasciato il paese.(politico.eu)

appunti di un mese

Il dovereLa catastrofe non potrebbe essere la grandeoccasione per una rinascita dell’Italia, in nomedel bene comune? Perché non chiamare tutti icittadini alla solidarietà non solo verso chi sof-fre adesso, ma verso chi potrà soffrire domanie verso figli e nipoti il cui futuro non deve esse-re gravato da ancora più debiti? In che modo?Varando una grande patrimoniale una tantum,su beni immobili e mobili, pesantemente pro-gressiva, per ricostruire, per mettere in sicu-rezza buona parte del paese, per dare un forteimpulso alla ripresa economica; ma che pos-sa, soprattutto, darci ciò che rasserena gli ani-mi e unisce: la consapevolezza di aver fatto ilproprio dovere.

Cosa succede in fabbrica?Confessiamo che non avevamo capito, ed ègrave, che i cinque operai Fca, licenziati permotivi disciplinari avendo inscenato una discu-tibile sceneggiata su un Marchionne suicida(per ricordare il suicidio, quello vero, di alcunicassintegrati Fca), sono stati reintegrati dalgiudice solo perché il loro contratto era antece-dente al jobs act. Se fossero stati assunti doposarebbero fuori con qualche mensilità in tasca(poche). Beh, intanto fa impressione la disparità con cuidue operai, fianco a fianco sul lavoro, ma as-sunti in tempi diversi, verrebbero trattati per lastessa infrazione disciplinare: uno licenziatol’altro no. (Ma la Corte avrà da ridire? Speria-mo, visto che è così puntuale a revocare, in no-me dell’uguaglianza, i contributi di solidarietà achi guadagna molte migliaia di euro al mese).Ancora più impressione, però, fa l’eventualitàche in fabbrica torni la paura del padrone.

Il voto sballottatoA chi gli fa notare che con la sua legge eletto-rale anche un partito del 25% potrebbe averela maggioranza assoluta in Parlamento, unodegli architetti della legge elettorale ribatte cheil voto al ballottaggio è pienamente rappresen-tativo, e lì, per forza, ma questo non c’era bi-sogno che ce lo dicesse lui, ci sarà chi avrà piùdel 50%. Quindi io dovrei sentirmi rappresen-tato in Parlamento dal voto che ho espresso inun ballottaggio? Se fossi in Francia, per esem-pio, e fossi costretto a votare Sarkozy persbarrare la strada alla Le Pen, dovrei poi sen-tirmi rappresentato da una persona e da unadestra che detesto? E poi in Francia fra il pri-mo turno e il ballottaggio ci si può coalizzare,quindi si può trattare, fare patti e ottenere qual-cosa. Qui no, assolutamente: che non sia maiche si arrivi a un “inciucio” (ma chi è stato cheha introdotto nel linguaggio politico questa pa-rola? La più antipolitica e volgare che sia maistata usata!). Ma facciamo pure il caso italia-no, in una delle ipotesi neanche poi tanto cam-pate per aria: la minoranza Pd se ne va ed èuna separazione con astio che impedisce, al-meno all’inizio, una ricomposizione in una listacomune; al ballottaggio ci vanno i Cinquestellee la destra a quel punto riunita, con un Salviniin prima fila. Cosa voteranno gli altri? E co-munque votino, si sentiranno rappresentati? Finora, per anni, ha funzionato un ricatto (acui, però, a rigore, ci si poteva anche ribellare):“Se voti i piccoli, disperdi”, “Se non voti, votiBerlusconi”, eccetera. Cosicché, in tanti, pertante volte, a malincuore abbiamo votato Pd.Adesso siamo alla costrizione. E quella, nonso se se ne stiano accorgendo gli ingegneridella governabilità e i loro committenti, a tantinon va proprio giù.

La parola maggioranzaQualcuno ha definito “la democrazia comel’espressione della volontà della maggioranzatemperata dalle garanzie della minoranza”. Ladefinizione non sembra entusiasmante, suonaun pochino prosaica, ma per questo chiedere-mo a chi di dovere. Su una cosa però ci sen-tiamo di dire la nostra: maggioranza vuol diremaggioranza, non “chi arriva primo”. Giusto?

IL 25 e il 55Ma siete proprio sicuri che un grande premioassicuri stabilità, governabilità e soprattutto diala forza per cambiare? Se si ottiene la maggio-ranza dei seggi con una percentuale del 25%,siete convinti che questo non condizioni poil’azione di un governo? Il paese non sparisceil giorno dopo le elezioni, tant’è che, per fareun esempio, non c’è stato un solo governo, dei“maggioritari” che si sono succeduti, che l’ab-bia spuntata su 700 tassisti. Non può succedere che un premier del 55% inparlamento e del 25% nel paese sia portato aconquistare dopo, il consenso che non ha con-quistato prima? In che modo? Varando leggi eprovvedimenti “popolari” piuttosto che necessa-ri ma “impopolari” e i cui benefici si vedrebberosolo nel tempo. E così saremmo alle solite.

Da Lenin a RenziSi discuteva alla Lewin, accapigliandosi anchequi, sul sì e il no. Ma poi si è andati a parlaredei vecchi amici e lontani conoscenti del ’68, ingran parte schierati con il sì. Un amico presen-te, a suo tempo militante a tempo pieno, s’èmesso a raccontare che dovendo andare a da-re un esame di storia contemporanea (se nedava uno all’anno per rimandare il militare) conun assistente che era un compagno, portònientemeno che “Proletari senza rivoluzione”,di Del Carria, uno dei testi canonici del tempo.Con il professore ordinario, invece, esperto dicostituzioni, si sarebbe dovuto preparare sullecostituzioni scandinave. Mentre andò benissi-mo sul Del Carria, quando si trovò di fronte alcostituzionalista fece scena muta. Le sue di-spense non le aveva neanche aperte e la ma-teria era comunque arabo per lui. Il professore,dopo aver chiesto al suo assistente com’eraandata con lui e che questi aveva risposto:“Benissimo”, guardò fisso lo studente per qual-che secondo, e poi disse: “Ho capito, le do 30con disprezzo”. Il nostro amico ha aggiuntoche, malgrado la supponenza rivoluzionaria diallora e tutto il nostro, di disprezzo, per l’acca-demia e quant’altro, non era riuscito a rimuo-vere con un’alzata di spalle l’episodio, che gliera rimasto impresso come uno di quei ricordisgradevoli, di “peccati commessi”, che ci ac-compagnano per tutta la vita. Dopodiché ci siè messi a ricordare di quanto disprezzassimola democrazia (qualcuno ha sfidato a contarele volte che la parola appare nei giornali rivo-luzionari), di quali fossero le nostre parolechiave: “potere”, “forza” (e non solo per “i rap-porti”), “masse”, “avanguardia”, di quanto di-pendessimo da un capo, di quanto ammirassi-mo Lenin e la sua arte sublime dell’insurrezio-ne (da solo, contro tutti: né il 6 né l’8, ma il 7!).Poi, ritornando all’oggi dei vecchi compagni,qualcuno ha detto: “Il giacobinismo è duro amorire”. E l’amico: “Se qualcuno facesse lorola domanda della professoressa Carlassare:‘Ma un senato così chi rappresenta?’, farebbe-ro scena muta”. Poi, andandosene, ha dichia-rato: “Per disprezzo della mia ignoranza e ar-roganza di allora voterò no”.

Gianni Saporetti

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Discussione generale sul Titolo V relativa-mente alla Regione. Seduta pomeridiana divenerdì 16 giugno 1947, intervento di Olivie-ro Zuccarini.

Sulla Regione e il fascismo… Della Regione si è Parlato in tutti i tem-pi, e non già per creare qualche cosa di arti-ficioso, ma in relazione alla necessità di mi-gliorare, modificandola, la costituzione poli-tica, amministrativa, dello Stato italiano, laquale, se non sembrava fosse la costituzioneideale 60 anni fa, tanto meno sembra -alme-no a noi- che possa essere la costituzione damantenere e da stabilizzare oggi, dopo il fa-scismo. Il problema fu sentito anche daMazzini il quale, dopo il 1860 ed anche pri-ma, si ribellò contro il sistema accentratorepiemontese che si voleva imporre, e s’impo-se infatti, a tutta l’Italia, e ne vide fin da al-lora tutte le conseguenze. «Non è questal’Italia che io sognavo» -egli disse- e pensòalla Regione e al Comune; anzi, al Comuneprima della Regione.[…] il problema della Regione diventò vivo,vivissimo, e fu agitato subito dopo l’avventodel fascismo: allora si capì veramente checosa poteva rappresentare per la libertà nel-la vita politica di uno Stato un ordinamentoa base regionale. Si vide quello di cui non s’èaccorto, nemmeno oggi, l’onorevole Nitti: co-sa rappresenti cioè Roma nella vita politicaitaliana, Roma, la capitale dello Stato, la ca-pitale in cui sono concentrati tutti gli ufficie tutti i poteri e dove bastò che Mussoliniarrivasse con le sue camicie nere. C’è statala marcia su Roma, onorevoli colleghi, nonsu Palermo o su Napoli o su altre città, nel-le quali non avrebbe avuto conseguenze po-litiche. La marcia su Roma invece, sì, pote-va averle e le ebbe, appunto perché, quandoc’è l’accentramento statale come c’era e c’èin Italia, è molto facile mettere la mano sul-le leve di comando e assoggettare tutto ilPaese.È un vecchio avvertimento della democraziaed è una vecchia esperienza. Quando in unsolo punto stanno concentrati tutti i poteri etutte le forze è assai facile -e lo avvertì ungiorno Cattaneo- a chi riesce a mettere lemani sul potere stabilire la dittatura.Ed infatti l’antifascismo si orientò istintiva-mente verso la soluzione regionale; e vi siorientò valutandola sotto l’aspetto di unasoluzione di democrazia e di libertà nelloStato. Nessuno fra di noi, che ne facemmoargomento della nostra battaglia, pensò allaRegione di per se stessa, come ad un organi-smo separato e indipendente dalla vita dellaNazione. La vedemmo invece, proprio nelperiodo del fascismo, come una soluzionedemocratica. E alla Regione non si pensavadi arrivare, come si pensa di arrivare oggi,per una concessione dall’alto: si pensava di

arrivarci, invece, attraverso le autonomiecomunali e con un sistema di collegamentotra comune e comune, che facesse della Re-gione non già un organismo per sé stante,ma un mezzo, una specie di ponte di passag-gio fra le autonomie locali e l’autorità delloStato.Quest’idea della Regione, intesa non già co-me un organismo indipendente e separatoda tutti gli altri ma come un organo di colle-gamento, di trasferimento della sovranitàdal basso verso l’alto, fu compresa e accetta-ta da tutti. Io ricordo, avendo stampato unlibro in quel tempo, che «Critica Sociale»diede, almeno da parte di qualcuno dei suoicollaboratori, ampio riconoscimento a que-sta concezione nuova e democratica dellastruttura dello Stato; e ricordo altresì chequelle mie tesi furono apertamente sostenu-te anche da un altro giornale socialista cheera allora diretto, oltre che dal Rosselli,dall’onorevole Nenni, «Il Quarto Stato», emolto esplicitamente.Anche dopo, durante il fuoruscitismo, il pro-gramma di agitazione e di lotta che s’inten-deva svolgere contro il fascismo e contro ladittatura fu impostato da tutti partiti -dicoda tutti i partiti- sul terreno delle autono-mie. Dirò di più: spaventatevi pure, fu im-postato sul terreno del federalismo. Persinodai comunisti, come ha ricordato del restol’onorevole Lussu!Sul regionalismo, inteso come problema disovranità che si diffonde dal basso versol’alto, si manifestarono concordi pure altriuomini politici di varia provenienza: potreicitare il Gobetti, che aderì completamentealle nostre idee; potrei ricordarvi GuidoDorso, rievocato e celebrato anche oggi, chesulla base della esigenza autonomista e an-ticentralista, impostò quella che egli chiamòla rivoluzione meridionale. [...]Se il fascismo fosse caduto per una rivolu-zione, per una insurrezione cioè, anzichéper il risultato di una guerra perduta, noinon staremmo certo a discutere di questecose.Saremmo già sul terreno delle attuazioni.Abbiamo invece atteso ad arrivarvi e abbia-mo dimenticato e dimentichiamo -e credoche facciamo male- che usciamo dal fasci-smo e che il fascismo ci ha posto inequivoca-bilmente il problema della organizzazionedello Stato, e che la organizzazione delloStato è sempre, adesso mentre discutiamo,quella che abbiamo trovato. E non è soloquella organizzazione centralistica e paras-sitaria di venti anni addietro che ha resopossibile il fascismo e che ci sembrava giàallora insopportabile; è quella invece che ilfascismo nei suoi venti anni ha sviluppatocon tutti i suoi organi, con tutte le sue orga-nizzazioni, con tutte le sue conseguenze.Volete mantenerla in piedi? Volete lasciar lo

Stato così com’è? Credete che in questo Sta-to la democrazia possa comunque esercitar-si? Oppure non si presenta anche a voi, co-me si presenta, e non soltanto in Italia, main Europa, nel mondo, un problema nuovo,che del resto venne sempre sentito, ma chenon si era presentato mai nelle condizioniattuali e nella gravità attuale, il problemacioè dello Stato egocentrico e monolitico, ditroppe funzioni, dello Stato burocratico, del-lo Stato senza organi rappresentativi capacidi funzionare e soprattutto senza alcuna,aderenza alla realtà e ai bisogni della popo-lazione? Ma non vi accorgete che, attraversola disfunzione dello Stato, c’è la incapacitàdegli attuali organismi burocratici e ammi-nistrativi, come il fascismo li ha sviluppati,a funzionare efficacemente?Non vi accorgete che abbiamo una organiz-zazione, anzi uno Stato, che è una prigioneper tutti; per cui, se non provvederemo aduna sua diversa organizzazione interna, senon andremo verso una profonda trasforma-zione non solamente dell’organismo delloStato, ma anche dei compiti e delle funzionistesse dello Stato, verso una diversa distri-buzione, cioè degli organi rappresentativi,verso una più larga ed effettiva partecipa-zione dei cittadini alla vita pubblica per ladifesa dei propri interessi, noi non risolvere-mo il problema della democrazia? [...]L’indifferenza dei cittadini, sempre più ma-nifesta per l’opera di questo Parlamento eper l’opera dello Stato, non vi dice dunquenulla? Cresce il malcontento; e cresce conesso il sentimento, anzi il desiderio di auto-nomia. Ne avete la dimostrazione nella ten-denza stessa dei nostri comuni a riacquista-re la loro autonomia, e della popolazione acrearne di nuovi ancora più piccoli. Non visembra anche ciò una manifestazione evi-dente di questo bisogno che è nel popolo, enelle campagne, e cioè nell’Italia rurale cheè la vera Italia, di liberarsi dall’oppressionedello Stato, di essere più liberi e sopratuttodi imprimere la propria volontà nella vitapubblica per la tutela dei propri interessi ? Signori, qui è il problema della democrazianello Stato, la quale non si è mai positiva-mente ed effettivamente realizzata. È no-stro compito realizzarla. Infatti, se andiamoa vedere, tutti gli Stati, così come sono oggiorganizzati, riproducono esattamente l’or-ganizzazione dei vecchi Stati autoritari, pergrazia divina. Domandatevi perché la rivo-luzione francese sia finita così rapidamentein una dittatura, anzi in una serie di ditta-ture.La risposta è che la rivoluzione ebbe questotorto: di proclamare i diritti dell’uomo, madi mantenere in piedi, dei vecchi organismi,il sistema amministrativo; e il vecchio siste-ma naturalmente, dopo pochi anni, diedeNapoleone e le altre dittature. È il sistema

DISCUSSIONE SUL TITOLO V di Oliviero Zuccarini

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stesso che vige anche oggi in Francia, nono-stante la Repubblica. È il centralismo e cioèil potere che viene dall’alto e che vuole go-vernare dall’alto tutte le cose. Finché rimar-remo su questo piano, finché vorrete faredal centro il Governo di tutte le cose, voinon realizzerete la democrazia ma prepare-rete il terreno a nuove dittature. Il proble-ma è in Italia più grave che altrove. E lo èperché usciamo dal fascismo. E proprio ilfatto che il fascismo ha rappresentato pernoi una grande esperienza ci dovrebbe ren-dere più sensibili ai problemi dell’organizza-zione dello Stato.Domandiamoci adesso che cosa dovrebbe es-sere la Regione nella organizzazione delloStato. Ho sempre pensato -e credo che lopensino tutti, anche se il progetto di Costi-tuzione non ha risolto la questione nel modomigliore- che la democrazia dello Stato pos-sa realizzarsi solamente così: con una largaautonomia ai comuni, con comuni collegatiquindi fra di loro in circoscrizioni relativa-mente più grandi, per passare all’ente Re-gione e da questo allo Stato. Non si trattadunque solamente di un problema di decen-tramento e di snellimento, si tratta di arti-colare meglio le membra dello Stato. Ed èproblema di democrazia. […]

Sul Comune e la ProvinciaÈ stato, nel progetto, dimenticato il Comu-ne. Il Comune non vi ha avuto quella tratta-zione particolareggiata che gli doveva esse-re data. Ed è stato un altro motivo di criticache poteva essere evitato. Sono stato il soloche, col mio progetto, abbia sostenuto la ne-cessità di dare al Comune determinate ga-ranzie di autonomia. Il Comune doveva, se-condo me, avere nella Costituzione una con-siderazione speciale. Si è avuto il torto dinon dargliela. Non si è poi parlato della Pro-vincia in modo sufficientemente preciso. LaProvincia è, si è detto qua dentro, un con-sorzio di Comuni. Effettivamente non lo è.La Provincia, così come fu costituita ed e ri-masta, non rappresenta nulla. È un organi-smo arbitrario, determinato dalla volontàdel potere esecutivo che l’ha creata come havoluto. Attraverso il tempo, naturalmente,nel capoluogo di Provincia si sono venuti astabilire determinati interessi; quindi, in uncerto senso, la Provincia è diventata un or-gano quasi naturale di collegamento; è peròsempre un organo artificioso, la cui costru-zione, essendo venuta dall’alto, risponde an-che oggi, in molte parti, a tale criterio arbi-trario, senza tener conto delle esigenze edelle preferenze dei comuni che vi apparten-gono. Ora che si tratta di fare la Regione, sireclama anche il mantenimento della Pro-vincia. E per la Provincia ci si è mossi da di-verse parti. Ed allora dico: conserviamo pu-re il nome, perché la sostanza non c’è stata,e diamo pure alle Provincie quell’autonomiache chiedono. Anzi direi di più: se fosse pos-sibile, se servisse a rendere più facile l’orga-nizzazione della Regione, facciamo pure del-

la Regione una federazione di Province.Diamo però alle Province anche la facoltà didelimitarsi come vogliono. Quello che è arti-ficioso nella Provincia di oggi è infatti chemolti comuni sono incorporati a Provincie acui non hanno interesse né desiderio di ap-partenere. Le Province poi che sono una co-struzione del tutto artificiosa, e il fascismomolte ne creò per motivi puramente politicie con criteri politici, bisogna abolirle. Passo subito alle altre cose essenziali e chepiù mi premeva di prospettare. Debbo farlodi volo.

Sulla burocrazia e l’autonomiaLa Regione, pure così incompleta, nonostan-te tutte le critiche, anzi approfittando ditutte le critiche che sono state fatte, può es-sere tuttavia perfezionata, migliorata in ciòche nel progetto ha di difettoso, e potrà rap-presentare un elemento rinnovatore nellavita politica italiana.La creazione della Regione porrà, intanto,sul tappeto, ed imporrà, una immediata ri-soluzione del problema della burocrazia inItalia, problema che non si è mai risolto, chenon si è mai potuto risolvere. Non serviran-no a risolverlo ora gli studi, le commissioni,i progetti, tutte le iniziative e le buoninten-zioni che volete; solamente la costituzionedella Regione può imporre la riforma buro-cratica. Non se ne potrà fare a meno. Solo invista di tale risultato, che altrimenti non siotterrebbe, io dico che dovremmo votare perla creazione della Regione. Dobbiamo esige-re, che con la creazione della Regione, si at-tui immediatamente la trasformazione delsistema burocratico dello Stato. Si tratta,badate bene, del problema più imponente epiù grave della nostra vita politica, e che sipresenta sotto una infinità di aspetti. Diròche è il problema stesso dello Stato. Per va-lutarne l’importanza basta tener conto solodel numero degli impiegati dello Stato cheoggi costituiscono la burocrazia. Tra i moltie gravi, esso è il più urgente problema che sisia posto fra quelli della nostra vita politica.C’è un altro problema che solo la Regionepuò risolvere: quello della funzionalità delParlamento nazionale. Ma francamente cre-de l’assemblea parlamentare, con l’esperien-za che ne ha fatto in questo periodo, di esse-re in condizioni di affrontare e risolvere con-venientemente tutti i problemi della vitadello Stato? Crede veramente, prendendonota di tutte le leggi che vengono sfornategiorno per giorno e di cui ci dà notizia laGazzetta Ufficiale, di poter assolvere allasua funzione legislativa? O pensa invece,appunto per lo svilupparsi dei compiti delloStato, appunto perché lo Stato si occupa og-gi di troppe cose, di troppe minuzie, che nonsia indispensabile ridurre la sua funzionelegislativa a pochi compiti essenziali di ca-rattere veramente nazionale, demandandotutti gli altri compiti più minuti alle Assem-blee delle Regioni, le quali su certe materie,oserei dire in tutte le materie, potranno con

maggior competenza, con maggiore interes-samento, con maggiore capacità risolvere edaffrontare i problemi che direttamente ci ri-guardano e che sono i quattro quinti almenodi tutta la legislazione? Non si tratta conciò, badate, di distruggere l’unità della leg-ge, non significa creare nuovi particolari-smi, non significa nemmeno impedire checerte grandi riforme si applichino in un ter-reno più vasto della Regione. Nulla impedi-sce che alcune Regioni si uniscano per af-frontare insieme certi problemi, che ugual-mente le interessino. Opere di bonifica, didistribuzione idrica, di irrigazione, di comu-nicazioni possono interessare più Regioni fi-nitime, che per esse possono benissimo in-tendersi e collegarsi. È molto diverso checerti problemi vengano risolti a Roma, o cheinvece siano risolti nel luogo dove sono sen-titi! Altri benefici possono derivare dall’isti-tuzione della Regione: benefici politici cheoggi devono essere tenuti in particolare con-siderazione, e oggi per oggi, non fra due, tre,o quattro anni! Sappiamo, infatti, come van-no a finire le riforme che non si attuano su-bito. Non si fanno più. Noi abbiamo inveceurgente bisogno di uscire dalla presente si-tuazione. [...]Il problema dell’autonomia non può finirecosì. O voi date ad esso una soluzione o al-trimenti voi avrete l’agitazione autonomistain tutta Italia. Non sarà più l’agitazione perle Regioni. Sarà l’agitazione contro lo Stato,la lotta contro lo Stato. Non crediate, dun-que, di aver superato il problema. Questalotta contro lo Stato si manifesterà; si ac-centuerà, s’inasprirà, ed allora noi, che ab-biamo voluto veramente contribuire conquesto progetto della Regione a creare inItalia un ambiente nuovo di vita e di tran-quillità, portando il cittadino all’assolvi-mento delle sue funzioni e all’esercizio deisuoi diritti, noi pure ci schiereremo contro loStato, in questa nuova lotta per la libertà.La lotta può finire qui: ma di qui può ancheincominciare. E allora si potranno veramen-te temere per l’Italia giorni peggiori diquanto oggi non si possa nemmeno sospet-tare.Ho assolto più o meno bene, e più male chebene, il compito che mi ero proposto.Volevo soprattutto richiamare la vostra at-tenzione sull’importanza delle decisioni chestate per prendere. Non seppellite, vi prego,quello che è stato il risultato del lavoro dellavostra Commissione. Perfezionatelo, miglio-ratelo e date all’Italia la sicurezza di uscireda l’attuale situazione e di creare a se stes-sa un ambiente di libertà e di democrazia,un ambiente in cui non siano più possibili,in avvenire, né le dittature né i governi di-spotici dall’alto. Questo è il mio augurio,questa è la speranza con cui noi tutti parte-cipiamo ai lavori di questi giorni e per laquale vogliamo sentirci riconfortati in que-sto grande amore che abbiamo per il nostroPaese, l’Italia! (Vivi applausi - Molte congratulazioni).

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L’ELEZIONE DEL SINDACO DI SREBRENICA Di Hasan Nuhanovic�*

“Srebrenica, oh Srebrenica”, sono le paroleche risuonano nella Valle dei šehid (marti-ri) l’11 luglio di ogni anno. Così i giornalistihanno soprannominato questa conca al con-fine tra la municipalità di Srebrenica equella di Bratunac, delimitata da un latodal monte Čauš e dall’altro dalle alture sul-le quali si trovano i villaggi di Budak, Palee Gornji Potočari. Quest’anno, durante l’intervista televisivanella diretta dal Memoriale di Potočari, hodimenticato di ringraziare tutte le personecomuni che, sfidando il caldo torrido, forseper la decima o quindicesima volta, sono ri-tornate in autobus a rendere omaggio allevittime del genocidio. Sventurati quelli chenon sono arrivati a Potočari in automobilecon l’aria condizionata e quelli che hannodovuto aspettare ore -dopo la cerimonia-per risalire in pullman trasformati in forni,per ritornare a casa da qualche parte in Fe-derazione, in Croazia, nel Sangiaccato o inqualche altro luogo da cui hanno viaggiatoper molte ore per essere qui, alla ricorrenzadell’11, anniversario del genocidio di Sre-brenica, per stare vicino alle madri di Sre-brenica e al loro dolore. Mentre se ne vanno tutti guardo, in piedi,verso l’ex base olandese dell’Unprofor: cer-cano dell’acqua per riempire le bottiglie oper rinfrescarsi, cercano un bagno prima dirisalire sugli autobus e attraversare la Re-publika Srpska per arrivare in Federazio-ne. L’autista ha aperto tutte le porte del-l’autobus e qualcuno si è seduto sugli scali-ni con le gambe a penzoloni vicino alle ruo-te. Fa caldo, sono tutti sudati… “Eh, facciarrivare a casa”, sembrano pensare questepersone, e io le osservo e penso: “Grazie,gente, per essere venuti anche questa volta.Non siamo soli”. Lasciano Srebrenica aisuoi abitanti; passati altri 364 giorni, ritor-neranno, se dio vuole, per commemorarequesto giorno importante per la Bosnia, peri bosgnacchi, per i bosniaco-erzegovesi e pertutti coloro che conoscono il significato diquesto giorno.

Nella Srebrenica desertaAttraverso il cimitero, la vista è offuscatadalla polvere che non è ancora calata dopoche le ossa dei martiri sono state sepoltenella terra inaridita. Madri, sorelle, vedovee sopravvissuti rimangono accanto alletombe, pronunciano la Fatiha -la liturgiadel lutto- piangono, esitano, non sanno seandare o rimanere ancora qualche minutoprima della partenza. I giornalisti ripongo-no l’attrezzatura, sistemano i cavi, smonta-no le antenne… se ne vanno a Sarajevo, a

Tuzla, Zagabria, Belgrado… Non vedo i vip: le loro limousine nere han-no attraversato la folla prima che le perso-ne con i badili iniziassero a interrare le ba-re. Gli abitanti di Srebrenica invece riman-gono nella città deserta. La città è di nuovovuota. Domani ci sarà ancora un po’ di traf-fico, principalmente giornalisti che negli ul-timi anni hanno ricevuto l’incarico dai lorocapi di rimanere anche il 12 luglio per docu-mentare un altro evento -la parata dei čet-nici a Srebrenica. C’è anche questo sui me-dia e poi arriva il 13 luglio e di Srebrenicanon si parla e non si scrive più. Cominciano quegli altri 364 giorni, quandoper gli abitanti di Srebrenica la vita dovreb-be trascorrere come in ogni altra città dellaBosnia-Erzegovina. Ma non è così. Comenon lo è per i bosgnacchi che sono tornatinelle municipalità di Bratunac, Vlasenica,Han-Pijesak, Zvornik, Rogatica, Više grad.Le cittadine da cui, a causa del genocidio, ibosgnacchi, a partire dall’aprile 1992, fuggi-rono verso Srebrenica; circa metà delle vit-time del massacro commesso a luglio del1995 era originaria di questi luoghi. Non voglio entrare nei dettagli di questastoria, ma voglio sottolineare che quello chenoi chiamiamo il genocidio di Srebrenicanon è riferito solo a Srebrenica, non è ungenocidio circoscritto a un Comune, agliabitanti di solo una municipalità, perché il“genocidio di una municipalità” non esistecome concetto teorico, e comunque gli as-sassini di Mladić non si sono fatti fermaredai confini municipali. La stessa sentenzadella giustizia internazionale del 27 febbra-io 2007, nel processo contro la Serbia e ilMontenegro parla di: “… genocidio com-messo nei confronti dei musulmani di Bo-snia-Erzegovina da parte dell’Esercito edella Polizia della Republika Srpska”. E tuttavia l’unica municipalità tra quellecolpite dal genocidio nella regione intornoalla Drina (e sono state colpite tutte, anchese ci soffermiamo solo sugli eventi del luglio1995, senza considerare quello che è succes-so a partire dall’aprile 1992) che dopo laguerra ha avuto un sindaco bosgnacco èquella di Srebrenica. Di fatto nel 2012 Sre-brenica era l’unica cittadina della Republi-ka Srpska dove non fosse stato eletto unsindaco serbo. Nel 2012 è stato possibile anche perché gliamericani e forse pure l’Unione europea,con le loro pressioni hanno permesso chepotesse votare anche chi risiedeva a Srebre-nica prima della guerra. Tra l’altro questonon sarebbe bastato se quell’anno non fossestato creato un gruppo intorno alla Ong

“Primo marzo”, capace di mobilitare l’opi-nione pubblica così da garantire un numerosufficiente di voti. Ćamil Duraković (il sin-daco bosgnacco uscente) all’epoca è statoeletto con una maggioranza risicata. Nonsono abbastanza abile da spiegare le proce-dure legali che nel frattempo sono entratein vigore, con il semaforo verde dei partitinazionali, in base alle quali la possibilità divotare per corrispondenza e in absentia èstata notevolmente ridotta. Un dato inconfutabile è che il numero deipotenziali elettori bosgnacchi per le ammi-nistrative del 2016, con queste nuove proce-dure, si è ridotto significativamente rispet-to al 2012.

Molto più di un’elezioneConsiderando che il mio lavoro non è quellodi occuparmi di elezioni o di politica in ge-nerale, non avevo intenzione di scriverequesto articolo. Però sono stato sollecitatoda una telefonata ricevuta qualche giornofa da un giornalista di Parigi, che stavascrivendo un articolo sulle elezioni ammini-strative a Srebrenica per il maggior quoti-diano francese “Le Monde”. Tra le altre co-se, mi ha chiesto se ho avuto la possibilitàdi votare a Srebrenica e ho colto l’occasioneper spiegargli che io a Srebrenica ci sonoarrivato durante la guerra come profugo, infuga dalla municipalità di Vlasenica, nellaquale, come a Srebrenica e in tutte le altremunicipalità della valle della Drina, è statocommesso un genocidio. Normalmentequindi io dovrei votare per l’elezione delsindaco di Vlasenica. Considerando il fatto che la maggior partedelle vittime del massacro di luglio del 1995proveniva dalla municipalità di Srebrenica,che l’Onu aveva dichiarato Srebrenica zonaprotetta, che a Srebrenica si trova il Memo-riale dedicato alle vittime del genocidio, èovvio che l’attenzione internazionale siaconcentrata su Srebrenica e non sulle altremunicipalità in questione. Il giornalista mi ha chiesto perché è cosìimportante se il sindaco sarà bosgnacco oserbo; a quel punto gli ho chiesto a mia vol-ta perché volesse scrivere proprio delle ele-zioni a Srebrenica e non di qualche altramunicipalità. La risposta è: il genocidio. Miha chiesto anche se il prossimo anno saràpossibile svolgere le commemorazioni a Po-točari per l’11 luglio nel caso in cui venisseeletto il candidato serbo. Gli ho risposto chel’11 luglio è solo un giorno dell’anno e chequel giorno si può fare la commemorazioneanche senza la presenza del sindaco. È mol-to più importante, per le persone che sono

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ritornate là nonostante il genocidio, chi sa-rà il loro sindaco negli altri 364 giorni del-l’anno. Questa è la domanda cruciale, noncerto chi rappresenterà il Comune di Sre-brenica l’11 luglio a Potočari. Gli ho anche detto che i bosgnacchi rientra-ti nelle altre municipalità della valle dellaDrina in qualche modo vedevano in ĆamilDuraković anche il loro sindaco, visto che èstata creata una situazione per cui è moltodifficile che nelle loro municipalità vengamai eletto un bosgnacco. La questione delsindaco di Srebrenica, ovvero delle elezioniin questa municipalità, dovrebbe esserefuori dalla logica aritmetica. Si tratta or-mai di un simbolo per questa nazione e peril mondo intero, perché il mondo, ovverol’Onu, non ha impedito il genocidio. Un sindaco bosgnacco a Srebrenica è allorail minimo, qualcosa che l’opinione pubblicain Bosnia-Erzegovina ha accettato come do-vuto. Penso che anche la maggior parte deiserbi consideri la questione allo stesso modo.

Non c’è niente di garantito.Il problema è che per questo minimo, i bo-sgnacchi devono combattere ogni quattroanni. Se è così significa che nulla è dovuto,nulla è garantito. Questo dato di fatto, senon altro, ha svegliato l’opinione pubblicabosniaca che solo quest’anno ha realizzatoche questo minimo ragionevole non è ga-rantito né agli abitanti di Srebrenica né aibosniaco-erzegovesi in generale. Mi ricordobene un’intervista dell’ottobre 2012 in cuiMilorad Dodik (presidente della RepublikaSrpska) disse: “Che sia pure questa volta,ma la prossima volta, nel 2016, il sindaco diSrebrenica sarà serbo”. Le elezioni a Srebrenica non sono una que-stione di programma o di orientamento po-litico, tutto ruota intorno alla domanda se ilsindaco sarà bosgnacco o serbo. Perché i serbi, in così grande numero, pernon dire in blocco, hanno votato per Gru-jičić? Ho visto alcune sue apparizioni suimedia in questi giorni e ho concluso che ilsuo vocabolario e il suo livello di istruzionerasentano quelli di un bambino delle ele-mentari, per non dire di peggio. I serbi vo-tano per Grujičič perché è serbo. I bosgnac-chi votano per Duraković per lo stesso mo-tivo, ma anche perché ha dimostrato di sa-per affrontare le sfide che la sua funzionepubblica comporta. Grujičič sembra capacesolo di postare su facebook delle foto in cuiindossa la šajkača e la kokarda (tipico co-pricapo četnico). Potrei dilungarmi, ma preferisco fermarmiqui provando a trarre qualche conclusione:l’unica cosa positiva che succederebbe seĆamil Duraković non venisse confermatosindaco, è che l’opinione pubblica bosniaca,innanzitutto i bosgnacchi, si sveglierebbe,uscirebbe dal sonno (diciamo pure dal mi-raggio federale) e forse si renderebbe contoche, nonostante sia stato commesso un ge-

nocidio, non c’è niente di acquisito per giu-stizia divina, non c’è niente di scontato enon otterremo niente senza lottare e senzaconsapevolezza -né riguardo le elezioni co-munali di Srebrenica, né riguardo la so-pravvivenza della Bosnia-Erzegovina comeStato unitario, e nemmeno riguardo il con-fronto con il passato e il riconoscimento daparte dei serbi che è stato commesso un ge-nocidio ai danni dei bosgnacchi. È semprepiù evidente che l’idea della “Grande Ser-bia” non è mai stata abbandonata. NellaRepublika Srpska tutto è srpsko, serbo -lestrade sono srpske, i boschi sono srpski, ecosì le acque, le ferrovie- solo il genocidionon è srpsko! Il giorno in cui quello che chiamiamo geno-cidio di Srebrenica verrà definito genocidioRepubličko-srpski, per il motivo per cui èstato commesso (realizzare la Grande Ser-bia), per il luogo in cui sono state compiutele esecuzioni di massa e dislocate le fossecomuni, e perché proprio lì vivono ancoracentinaia di criminali di guerra, cioè nellaRepublika Srpska; ecco, a quel punto non

avrà più importanza la nazionalità del sin-daco di Srebrenica. Per questi stessi motivi, anche se il nuovoconteggio determinasse la vittoria di Gru-jičič, il risultato non andrebbe validato.Personalmente credo che, proprio a causadel genocidio, i serbi di Srebrenica dovreb-bero votare un bosgnacco, anche se questifosse l’ultimo bosgnacco rimasto nella lorocittà.

(Traduzione di Andrea Rizza Goldstein)

http://balkans.aljazeera.net/vijesti/izbor-nacelni-ka-srebrenice-je-simbol-za-cijeli-svijet

*Hasan Nuhanovic, all’epoca traduttore per i ca-schi blu olandesi, a Srebrenica ha perso l'interafamiglia. Il 5 luglio 2011 il tribunale dell'Aja hariconosciuto che le truppe olandesi del Dutchbatsono state responsabili della morte del padre edel fratello di Hasan avendoli consegnati delibe-ratamente alle truppe serbo-bosniache che li uc-cisero a sangue freddo.

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ricordarsi

la visita

Cimitero di San Donà di Piave

“Sotto questo rispetto, lo spettacolo offerto dalla colonna italiana che occupa gliestremi avamposti del fronte di Huesca è singolarmente istruttivo, ineffabilmenteconfortante. Sotto le sue insegne fraternizzano da tre mesi volontari appartenenti atutte le regioni del nostro paese, seguaci di tutte le tendenze della dottrina e dellamilizia antifascista, uomini di tutte le età. Non che essi abbiano abdicato, per la cir-costanza, alle loro particolari concezioni, o rallentato i vincoli che li collegano ai lororispettivi gruppi. Nelle ore di riposo, nelle giornate di forzata inazione, le discussionisi accendono vivaci attorno alle trincee, frazionando, d’un tratto, l’unità militare inuna policroma varietà politica. Il visitatore inesperto che arrivasse in linea duranteuna di queste parentesi… potrebbe forse esser tentato di scandalizzarsi…Mai gli italiani d’Italia hanno guardato a noi con più ansiosa trepidazione e con piùardenti e audaci speranze. Bisogna non deluderle”.

Silvio TrentinDa “Impressioni sulla lotta in Catalogna. La funzione e il prestigio della Colonna italiana”

in “Giustizia e Libertà”, n. 43, 23 ottobre 1936

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