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1 UNA 500 A ZONZO TRA I RICORDI Raccolta di pensieri e di ricordi di Alberto Benedetto - 2011

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UNA 500

A ZONZO

TRA I RICORDI

Raccolta di pensieri e di ricordi di Alberto Benedetto - 2011

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A Simona che condivide con me

le tante avventure della vita.

A Niccolò ed a Christian, i nostri piccoli tesori,

continui ispiratori del racconto e nostro motivo di gioia e di vita.

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INDICE

1 - Un fatto insolito ed inaspettato ................................................................................................................ 4

2 - Inizio di un incubo?......................................................................................................................................11

3 - Passeggiata nella storia............................................................................................................................ 13

4 - Risveglio nel presente alla luce dei ricordi........................................................................................27

5 - Finalmente a destinazione........................................................................................................................41

6 - Vecchia gloria, nuova amica .................................................................................................................. 53

7 - Ritorno al passato ...................................................................................................................................... 58

8 - Alla luna ........................................................................................................................................................98

9 - Profumo di caffè ....................................................................................................................................... 106

10 - Arriva la cavalleria!..................................................................................................................................115

11 - Ritorno a casa............................................................................................................................................ 119

12 - Una morbida sorpresa............................................................................................................................139

13 - Un comico addestramento ....................................................................................................................145

14 - Una galoppata verso il Medio Evo.................................................................................................... 148

15 - Candeline sul presente e sul passato................................................................................................155

16 - Gita tra castelli e ricordi........................................................................................................................170

17 - Scontrino galeotto....................................................................................................................................195

18 - Avventura ad alta quota ........................................................................................................................198

19 - Una domenica tra le aquile ...................................................................................................................219

20 - Fine di un’avventura o inizio di una nuova storia?....................................................................230

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Un fatto insolito ed inaspettato

Era una bella mattina di primavera e Piazza Castello si stava animando.

C’era gente che andava di fretta verso il proprio lavoro, i tram sferragliavano carichi di

persone distratte che non si accorgevano delle due imponenti torri di Palazzo Madama che

da secoli vedevano svolgersi il solito tran-tran della quotidianità. Certo, cambiavano le

persone, i vestiti ed i mezzi di trasporto, ma gli atteggiamenti delle persone, quello no,

erano sempre gli stessi.

Come erano lontani i tempi in cui quelle due imponenti torri contornavano la porta di

accesso alla città di Julia Augusta Taurinorum, quando intimorite le persone accedevano

all’interno della città impressionate dalla loro mole austera e severa. Di storia e di storie

ne avevano viste e vissute tante come aveva già aveva avuto modo di sottolineare Gozzano

quando diceva “Il Palazzo Madama è come una sintesi di pietra di tutto il passato torinese, dai

tempi delle origini, dall'epoca romana, ai giorni del nostro Risorgimento”.

Ma oggi dovevano, a loro insaputa, essere testimoni di un insolito ed inaspettato quadretto in

grado di vincere la monotonia del vivere quotidiano di una città come Torino.

Infatti, verso metà mattinata, quando il sole con i suoi raggi iniziava a scaldare i sampietrini

della piazza, all’improvviso una bellissima 500 color grigio perla, con la carrozzeria lucida

come se fosse appena uscita dalla fabbrica, si aggirava irrequieta e frizzante per la piazza in

cerca di un parcheggio orgogliosa di svettare con la sua grazia e bellezza sulle poche auto che

transitavano in sua compagnia.

Alla fine, dopo un lungo girovagare che ricordava le fatiche patite da Ulisse per tornare alla

sua cara Itaca, ormai sconfortata dalla cronica mancanza di parcheggi, la nostra 500

orgogliosamente si fermava a lato strada in quella che abitualmente viene definita “doppia

fila”.

La sua orgogliosa proprietaria non potendo più aspettare, presa la borsetta e le chiavi si

recava a passo svelto verso l’ingresso di Palazzo Madama.

La 500 lasciata sola si era preoccupata sapendo che la sua sosta non era proprio

regolamentare, ma subito si tranquillizzò pensando che la sua proprietaria non avrebbe certo

rischiato di perderla o farla danneggiare. Inoltre una vettura così bella, in una piazza così

avrebbe solo attirato sguardi invidiosi.

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Assorta nei suoi pensieri improvvisamente veniva ridestata dallo sferragliare di un tram che

percorreva un’ampia curva per poi svanire sotto i portici in direzione di Corso Regina. Con i

suoi fanali furbi, ma molto delicati, non aveva potuto non notare i raggi riflessi dai suoi

meravigliosi cerchi in acciaio lucido che si erano abbattuti come fulmini sui vetri del tram e tra

sè e sè pensò a quanto fosse stata fortunata ad essere una 500 e non quella squallida ed

insulsa 106 parcheggiata, ma regolarmente, al suo fianco. Osservandola meglio con i suoi

specchietti, commentava ad alta voce quelli che per lei erano difetti.

- Ma guarda che linea squadrata che ha, che strano colore, non si capisce se è grigia

perché è il colore originale o se sono l’età e lo smog ad averla ridotta così! E poi

guarda che cos’ha sopra la ruota … ma come fa a non vergognarsi ad avere

un’ammaccatura come quella! Poi quei fari trapezioidali e quel frontale severo e

percorso da tre fessure con un leone rampante in bella mostra … niente a che vedere

con il mio faccino morbido e rotondo e con i miei quattro faretti rotondi, intriganti e

provocanti!

La 106, sentiti i commenti poco delicati, preso coraggio, rispondeva timidamente alla 500.

- E’ vero che tu sei molto carina, ma devi sapere che io ho ormai più di venti anni sulle

mie ruote. Quando ero giovane come te viaggiavo orgogliosa per le strade forte della

mia carrozzeria che era stata disegnata da una matita di prim’ordine e che ha avuto

talmente successo che io e le mie sorelle siamo rimaste in produzione per tanti anni

andando addirittura a sostituire la nostra cugina pluripremiata 205!

La 500 sbigottita per simili affermazioni stentava a credere a quelle parole.

E poi chi era questa pluripremiata 205? Ma pluripremiata in che cosa? Non aveva il coraggio di

chiedere ulteriori spiegazioni perché non voleva far vedere che si fermava a parlare con quella

che ormai considerava un rottame su quattro ruote.

Nel frattempo la 106, desiderosa di scambiare quattro chiacchiere con una vettura giovane

cominciò a raccontare la sua storia.

- Mi aveva comprato un simpatico vecchietto che però mi usava veramente poco, ma mi

trattava da regina. Ero sempre pulita e lucida, non ho mai patito né il freddo né il caldo

perché riposavo in un bel garage caldo d’inverno e fresco d’estate. Mi ricordo ancora le

lunghe galoppate sull’autostrada diretti verso la Liguria. Che spettacolo vedere far

capolino il mare dalle pendici degli appennini e poi, quasi giunti a Savona, vedere le

grandi navi ormeggiate in attesa di portare verso lontani lidi speranzosi turisti. Che

bello vedere i riflessi dei raggi solari infrangersi sulle onde blu del mare.

Poi sono stata ceduta ad un ragazzo giovane che aveva iniziato la sua avventura nel

mondo e nel lavoro. Mi parcheggiava all’aperto e mi lasciava per lunghe ore sola in un

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grande parcheggio in mezzo ad altre auto che come me non vedevano l’ora di

sgranchirsi le ruote dopo la lunga attesa. Ma io ero sempre tra le ultime ad uscire dal

parcheggio quando ormai il sole aveva lasciato il posto alla luna. Sai, mi divertivo a

pensare che ero più fortunata delle mie colleghe del parcheggio poiché ogni sera mi

facevo una “tintarella di luna”!

Però non mi ha mai trascurato. Mi lavava quasi tutte le settimane e mi curava come

fossi sua figlia. Era bello andare a spasso con lui. Sapeva come farmi contenta; mi

portava spesso in montagna e mi permetteva di divertirmi destreggiandomi tra curve e

tornanti. Eravamo talmente affiatati che la salita tra Savona e Millesimo si consumava in

un attimo e pur essendo piccola e non tanto potente tenevo testa a berline molto più

grosse e veloci. Non sai che soddisfazione veder sparire le loro sagome nei miei

specchietti e prendermi delle meritate rivincite! Ma l’emozione più grande è stata

quando mi ha addobbato con nastri colorati e l’ho accompagnato in chiesa per sposare

la sua compagna; così lucida, spendente, anche se ormai ero una vettura matura mi

sentivo al centro dell’attenzione; tutti si voltavano a guardarmi ed ai semafori sentivo i

commenti delle altre auto invidiose dei miei addobbi. E poi via verso Malpensa per

accompagnarli a prendere il volo per un posto lontano, credo che si chiamasse

Tenerife, ma non so dove sia. Pensa, è stato così carino che prima di lasciarmi nel

parcheggio da dove potevo vedere il via vai degli aeroplani ed i loro candidi ricami

cuciti in cielo mi ha anche dato una carezza appena sopra il parabrezza e mi ha

sussurrato di aspettarmi perchè non poteva portarmi con lui perché non sapevo volare.

Solo dopo, parlando con le altre auto ho capito che Tenerife era un’isola … soddisfatta

l’ho atteso per due settimane e poi insieme siamo tutti e tre rientrati a casa.

Poi però di fronte alla loro gioia mi sono rattristata; ho sentito che stavano aspettando

un bimbo e quindi ero orgogliosa, ma anche preoccupata di portare in giro una mamma

con il pancione: sai che responsabilità! Ma presto mi sono resa conto che sarei stata

troppo piccola e scomoda per le esigenze di una famiglia e soprattutto di un bambino

(passeggini, seggiolini, pannolini); ormai le monovolume non erano più né rare né una

novità! Ormai ero consapevole che presto o tardi sarei andata in altre mani, ma sono

stata fortunata perché adesso mi guida una signora; certo, non mi diverto più su e giù

per i tornanti, ma forse è meglio così, sai adesso sono una vecchietta!

La 500 dopo un attimo di riflessione sentenziò tra sé e sè che la sua vita sarebbe stata

differente; la sua proprietaria è una ragazza sempre alla moda, la porta con lei in vacanza, a

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spasso con le amiche ed a fare shopping, la lava tutte le settimane. Sicuramente un destino

simile a lei assolutamente non poteva capitare!

La 500 nell’ascoltare la storia della 106 non si era accorta che ormai il sole era alto nel cielo ed

illuminava la grande piazza. Ormai era già da più di un’ora che stava aspettando il ritorno

della sua proprietaria … evidentemente gli impegni l’avevano trattenuta più a lungo di quello

che pensava; d’altronde è un’affermata architetto che si occupa di restaurare e conservare

palazzi storici.

La sua proprietaria è un’appassionata di arte e vive in un piccolo appartamento ricavato nel

sottotetto di una splendida villa sulla collina torinese il cui tetto era “alla Mansart”, dal nome

del famoso architetto francese dei Seicento che per rendere abitabili i sottotetti dei palazzi ideò

questo tipo di copertura. E poi che belli i riflessi del sole sull’ardesia che lo ricopre! Quando la

proprietaria la parcheggia nel giardino in una bella giornata di sole si diverte a competere con

l’ardesia sfruttando le sue lucide cromature per creare lampi luminosi e la battaglia si protrae

fin tanto che il sole regala ai due contendenti i suoi raggi caldi e brillanti.

La villa è circondata da un giardino con varie specie di alberi che in primavera regalano un

delicato profumo ed ai loro piedi cespugli di tulipani colorati contribuiscono ad esaltare la sua

morbida e sinuosa carrozzeria; in inverno, invece, la nostra 500 si gode il tepore all’interno del

suo box ricavato nelle vecchie scuderie della villa in compagnia di alcune vetture tra cui una

sfacciata Mini rossa che con quei due buffi faretti supplementari si da arie da sportiva.

La cosa che più inorgoglisce la 500 è il panorama della città che si può osservare una volta

usciti dal giardino della villa. Dopo l’imponente portone in ferro battuto si gode la vista della

cupola della Mole Antonelliana, costruzione voluta dall’architetto Antonelli e realizzata nella

seconda metà dell’Ottocento, e della sua guglia sormontata da una grande stella che dall’alto

dei suoi 165 metri campeggia su Torino e sui Torinesi e si contrappone al teatro alpino alle sue

spalle. Ed alla sera, poi, i tre anelli colorati con i colori della bandiera italiana le conferiscono

un aspetto ancora più maestoso.

E poi giù per le strade ricche di curve; un faro alla strada ed uno al paesaggio, al susseguirsi

di scorci panoramici che spaziano tra Moncalieri e Chivasso, tra la sagoma del Lingotto ed

una villa storica che troneggia in mezzo ad un parco. Che aria pulita che può respirare il suo

motore e che bello giocare con il cambio che il suo cervello gestisce al meglio in funzione della

strada! Che soddisfazione non dover sentire le grattate che accompagnano le scalate delle

altre macchine!

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Ma all’improvviso un’ombra la distoglieva dai suoi pensieri; davanti a lei una macchina bianca

con una striscia verde incorniciava tre gocce colorate per ogni lato della coda di questa

vettura.

Ricordava i volti degli alieni di Ben 10 che ogni tanto vedeva raffigurati sugli zaini dei bambini

che andavano a scuola. Dalla porte scendevano due vigili impeccabili nella loro divisa scura

dai bei bottoni dorati; sono fortunata pensava la 500 poiché uno dei due “civich” è una ragazza

con una folta chioma bionda e riccia. Sicuramente si saranno fermati per vedere quanto sono

bella ed elegante, pensò.

La bionda vigilessa, a dispetto di quanto immaginato dalla 500, estratto un blocchetto ed una

penna, con fare indagativo incominciava ad avvicinarsi alla sua luccicante carrozzeria;

controllava il parabrezza, forse per verificare il tagliandino dell’assicurazione, e poi la targa

anteriore. Accidenti pensò la nostra 500; adesso mi farà una bella multa … e chi la sente poi la

mia proprietaria?

Finito di compilare il modulo, la vigilessa con fare sbrigativo posizionava sia la multa che il

bollettino postale sotto la spazzola destra del parabrezza; la 500 era indignata. Ma come osava

appoggiare la sua divisa con i bottoni dorati alla sua carrozzeria! L’avrebbero potuta graffiare!

Insomma, un po’ di rispetto! Insomma non sono mica vecchia come la 106 al mio fianco!

Ad un tratto si ricordò anche dell’altro vigile; dallo specchietto vide che il vigile stava parlando

al walkie-talkie e sembrava anche che la discussione fosse abbastanza concitata.

La 500, allora, preso nuovamente coraggio, decise di chiedere spiegazioni alla 106; d’altronde

essendo vecchia doveva sapere come andavano queste cose!

- Scusa la mia domanda, ma tu sicuramente avrai più esperienza di me in queste cose;

secondo te cosa stanno facendo i due vigili? A me hanno dato la multa, ma non riesco a

sentire cosa si stanno dicendo alla radio!

- Mi spiace di non esserti utile; in tutta la mia vita ho avuto modo di ricevere solo una

multa e per di più fattami dagli ausiliari del traffico; sai era un giorno afoso di luglio, ed

il mio giovane proprietario si stava recando dal dentista credo per saldare il conto. Non

trovando parcheggio aveva deciso di parcheggiarmi di fianco a dei bidoni

dell’immondizia … non ti dico cosa ho dovuto respirare per almeno un quarto d’ora!

Non so da dove siano sbucati quei due, ma dopo nemmeno cinque minuti me li sono

trovati addosso e poi ho visto il foglietto con la multa sul mio parabrezza. Non sai che

vergogna ho provato!

- Ed il tuo proprietario cosa ha fatto?

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- L’ha presa con filosofia! Ha ripetuto mille volte mentre tornava verso l’ufficio che non li

aveva visti e scherzando sosteneva che probabilmente erano sbucati da dentro il

bidone! Sai, era proprio uno spasso il mio giovane proprietario!

- Speriamo, rispose, che anche la mia sia così spiritosa! Però vorrei tanto che arrivasse

per portarmi via perché ho un tremore alla marmitta e questo non preannuncia niente di

buono!

- Non ti preoccupare, io devo stare qui tutto il giorno perché la mia proprietaria si è

recata alla Biblioteca Nazionale perché doveva aiutare la nipotina a fare una ricerca

sul Lingotto e quindi prima che finisca di leggere tutta la documentazione passerà

veramente molto tempo!

- Il Lingotto? Ma non è quell’edificio giallino che si vede dalla collina? Perché deve fare

la ricerca su di un centro commerciale?

- Ma tu non sai, chiese un po’ perplessa la 106, che il Lingotto prima di essere un centro

commerciale è stato una fabbrica di automobili ammirata e decantata persino da un

architetto di fama mondiale come Le Corbusier che la citava come esempio più

significativo del Razionalismo?

- Ma davvero? E tu come fai a saperlo?

- Perché il mio giovane proprietario ne ha parlato tante volte quando andava a spasso

con gli amici e gli passava davanti.

- E tu la ricordi la storia?

- Cosa credi, che solo perché sono vecchia non mi ricordi di una fabbrica così

particolare? Devi sapere che all’inizio del Novecento Torino era la sede di molte

fabbriche che producevano automobili. Noi discendiamo, nel bene e nel male, da quelle

prime vetture fumanti, rumorose e scomode. Le fabbriche allora erano semplici officine

realizzate all’interno di cortili. Pensa che il mio giovane proprietario si divertiva a

raccontare che la prima vettura costruita da Vincenzo Lancia era così larga che per

farla uscire in strada si era reso necessario scalpellare il muro del portone che

chiudeva il cortile del palazzo dove era situata la sua officina! La FIAT, una delle più

grandi in attività, aveva invece le officine sparse un po’ in tutta Torino, che era molto

più piccola di quella che conosciamo oggi. Il senatore Agnelli, amministratore delegato

della società, dopo vari viaggi negli Stati Uniti per capire la filosofia automobilistica

che stava nascendo sulla base della filosofia di Henry Ford, decise di razionalizzare la

produzione concentrandola in un unico stabilimento. Si scelse quindi la zona del

Lingotto vista anche la vicinanza con la ferrovia che era l’unico vero mezzo di trasporto

terreste a motore poiché allora gli aerei erano poco più che prototipi ed “attrazioni da

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baraccone”. Nel 1916 iniziarono i lavori seguiti dall’ing. Trucco, un ingegnere meccanico

che dopo anni passati a progettare vetture si appassionò dell’Ingegneria Civile, e

terminarono negli anni Trenta. La particolarità dell’edificio è rappresentata dal fatto che

le linee di montaggio delle vetture erano formate da due lunghi corpi longitudinali che

si sviluppavano su cinque piani, destinati alla produzione delle automobili, di oltre

cinquecento metri di lunghezza, uniti da cinque traverse, dedicate ai servizi per il

personale. In questo modo la vettura veniva realizzata in un unico stabilimento

congiuntamente con i vari componenti che venivano portati direttamente alla

postazione dedicata per essere poi montati. Alle estremità dei corpi lunghi furono

costruite due rampe elicoidali per consentire alle automobili di accedere dal piano terra

direttamente alla pista di collaudo, costituita da due rettilinei di oltre quattrocento metri

di lunghezza, collegati da due curve sopraelevate. In questo stabilimento sono state

costruite le famose Topolino e l’ultima vettura realizzata dopo quasi settant’anni di

attività fu la Lancia Delta.

Meravigliata da questa scoperta inaspettata, la 500 si era completamente scordata dei due

vigili fintantoché un’ombra minacciosa non l’aveva nuovamente riportata alla realtà.

Un furgone giallo con un braccio da cui pendevano due inquietanti corde stava

manovrando verso la sua lucida e perfetta fiancata.

- Che sta succedendo? Cosa vogliono farmi?

- La 106, cercando di tranquillizzarla ed utilizzando un tono di voce il più calmo possibile

rispose: credo che ti stiano per caricare sul furgone per portarti al deposito dove poi la

tua proprietaria ti verrà a recuperare pagando ovviamente il trasporto e l’intervento del

carro-attrezzi.

- Ma non è possibile! Cosa penserà quando tornando non mi vedrà più?

Nel frattempo il ragazzo del carro-attrezzi aveva già bloccato le ruote della 500 ed aveva

iniziato ad issarla lentamente sul pianale del furgone.

La 500, come estremo atto di resistenza, iniziò a far suonare l’antifurto ed a segnalare la

sua presenza con le quattro frecce che all’impazzata si accendevano e spegnevano quasi

come a segnalare l’ansia e lo stato di agitazione che stava vivendo. Sperava che tanto

trambusto potesse fare accorrere la sua proprietaria per salvarla da quella situazione. Si

sentiva come i fanti circondati da un esercito avversario in attesa che la cavalleria arrivi al

galoppo sui suoi splendidi destrieri per salvarli.

Ma oggi la cavalleria sarebbe arrivata in ritardo!

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Inizio di un incubo?

Terminata l’operazione la 500 si era trovata sul pianale del carro-attrezzi giallo limone,

mentre il ragazzo addetto alla manovra stava posizionando i fermi alle ruote.

La 500 tentò il tutto per tutto; fece suonare ancora più forte l’antifurto nel vano tentativo di

richiamare la sua proprietaria, ma l’unico effetto che ottenne fu quello di far girare i rari

passanti che a quell’ora transitavano per la piazza ottenendo in cambio solo sguardi

infastiditi!

- E adesso, pensò tra sè, cosa faccio? Dove mi porterà questo furgone? E se poi non mi

ha ben bloccato e cado, che ne sarà della mia bella carrozzeria?

Mentre cercava di dare una risposta a tutta quella serie di interrogativi, il ragazzo, salito

sul furgone, metteva in moto. Dal tubo di scarico si levò una nuvola di fumo nero che

investì la 500 mentre le luci gialle intermittenti si infrangevano sul suo parabrezza!

- Ecco, esclamò, a coronamento della bella mattinata, mi tocca pure l’affumicatura!

Con uno scossone, il furgone si mosse e la 500 si trovò nuovamente immersa nel traffico,

ma questa volta da inerme passeggera!

- Accidenti, e adesso le altre vetture cosa penseranno di me? Sicuramente rideranno

della mia disavventura! Perché non mi hanno nascosto sotto un telo?

Il carro-attrezzi nel frattempo si era immesso in Via Po, una lunga via circondata da portici

che sbucava sul Po, il fiume più lungo d’Italia, un ruscello rispetto ai grandi fiumi americani

o al famosissimo Nilo!

Ad un tratto, però, dai suoi fanali vide seduto in braccio alla propria mamma sul tram

arancione, sferragliante nella sua corsia preferenziale, un bimbo dai capelli color oro e dai

vispi occhietti verdi che tutto emozionato la stava indicando. La 500, quindi, si sentì di

nuovo al centro dell’attenzione e pensò che quel pianale poteva trasformarsi in una

passerella su cui sfilare sovrastando le altre vetture! Era una nuova occasione per mettersi

in mostra e far luccicare tutte le sue cromature!

Presa coscienza di questa nuova ed inaspettata situazione, decise di godersi la città

cercando di capire dove la stessero portando; chissà, magari vicino a casa o in un cortile

con tanti fiori profumati! Forse era meglio di no, perché rischiava poi di sentire la nostalgia

di casa!

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Si ricordò della frase di Goethe che ripeteva sempre la sua proprietaria: “Per sfuggire al

mondo non c’è niente di più sicuro dell’arte e niente è meglio dell’arte per tenersi in

contatto con il mondo”.

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Passeggiata nella storia

Decise quindi di osservare il mondo che le stava passando rapidamente sotto i tondi fanali

cercando di ricordare cosa raccontava la sua proprietaria, grande appassionata di arte ed

architettura. Almeno adesso non doveva preoccuparsi del traffico, delle vetture gelose

della sua bellezza che con noncuranza si avvicinavano furtive alla sua carrozzeria per

lasciare un graffio, un ‘ammaccatura che potesse svilire tanta eleganza!

Adesso, pensò, siamo in Via Po, una via lastricata e molto sconnessa; certo, dall’alto del

suo palcoscenico gli scossoni si facevano sentire molto di più di quando, invece, erano le

sue ruote a calcare le scene, ma questa era la situazione e tanto valeva accettarla, ma

rassegnarsi mai, quello no!

Insomma, sono una 500, giovane, fresca e piena di vita e quindi devo reagire per poter

superare anche questa difficile situazione!

Si ricordò dei racconti della sua proprietaria, già Bianca Camilla, la giovane architetto con

la voglia di scoprire il mondo e di farlo conoscere a tutti …

- Ma cosa mi sta succedendo? –pensò. Ho chiamato la mia proprietaria per nome? Non è

mai successo! Sarà stata sicuramente opera della 106! Non è che mi sono lasciata

intenerire? Non si è mai vista un’auto che sente la nostalgia della sua proprietaria!

Non dando peso alla questione, verificò quanto raccontato, ma sì, va bene anche così, da

Bianca; effettivamente il lato occidentale della strada ha i portici che si interrompono ad

ogni incrocio con una via, mentre quello orientale, quello per intenderci su cui si affaccia

l’Università di Torino, è continuo e non si interrompe mai.

Le leggende torinesi sostengono che questa differenza costruttiva sia stata voluta dai

Savoia per non bagnarsi e non far bagnare la propria corte durante le giornate piovose nel

tragitto tra Palazzo Reale ed i palazzi nobili di Torino.

- Che gente strana, però, penso ad alta voce la 500! Erano proprietari di un palazzo e

non potevano permettersi un ombrello!

La sua esclamazione fu colta da un vecchio tram in servizio sulla linea 7; il tram era piccolo

rispetto a quelli che la 500 aveva visto sferragliare per Torino. La sua strana carrozzeria

era dipinta di rosso e crema e sul tetto aveva un buffo cartello con la scritta “10 Crocetta –

Regio Parco”. Aveva un unico fanale rotondo, piuttosto austero, posto proprio sotto la

cabina di guida del tram. Il pianale era posto in alto, molto più in alto rispetto ai tram che

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aveva visto fino ad ora, con solo due accessi per lato e senza porte! Infatti, per entrare si

deve accedere da due balconcini coperti; certo che è proprio buffo questo tram, pensò!

Il tram, fermo come la 500 al semaforo in attesa che “scattasse il verde”, decise di dare una

risposta alla domanda della 500.

- Devi saper, disse, che all’inizio l’ombrello veniva usato probabilmente per ripararsi dal

sole (infatti, il nome ombrello deriva da ombra) o per motivi religiosi come tra gli antichi

Egizi che lo usavano a scopo rituale. Inoltre, fino al Settecento l'ombrello, che era

realizzato con della pelle o con della tela cerata, è rimasto un oggetto in uso solo fra i

nobili e le persone ricche ed era portato da un servo come distintivo onorifico. Per

ripararsi dalla pioggia, infatti, si usavano mantelli e cappucci. Solo nell'Ottocento si è

iniziato a diffondere l'uso dell'ombrello come parapioggia così come lo conosci tu oggi!

- Quindi le persone preferivano bagnarsi?

- Sai, una volta la gente lottava per mangiare; non aveva la possibilità di spendere i pochi

soldi che riusciva a risparmiare per comprarsi un oggetto come quello!

- E tu che ne sai?

- Vedi, io sono un vecchio tram, il mio nome è Motrice 116; sono stato costruito da una

ditta che tu sicuramente non conoscerai e che si chiamava Diatto nel lontano 1911. A

quel tempo non c’erano tante macchine e la gente si spostava a piedi o con cavalli e

carri! Non sai che problemi che si creavano con gli animali che si imbizzarrivano

all’arrivo di quelle rare vetture rumorose e fumanti! Pensa che a quel tempo e ancora

per molti anni per riscaldarsi la gente usava le stufe a legna o a carbone e non aveva i

termosifoni in tutte le stanze. Torino d’inverno era coperta da una coltre di fumo nero

che rendeva irrespirabile l’aria! Ho visto carri trainati da cavalli portare legna dalle

campagne per rifornire i palazzi. Un giorno ho sentito un contadino che diceva che il

giorno prima era arrivato da Vercelli con un carico di legna e che aveva consegnato ad

una cugina che era monaca in un convento di Torino e che per pagamento gli aveva

regalato due casse di uccelli imbalsamati addirittura dal British Museum di Londra. La

sua preoccupazione era di arrivare a casa con quel prezioso carico entro sera poiché

era in viaggio già dalla mattina precedente, ma era disperato perché non sapeva come

far rendere il prezioso carico!

- Tu mi hai detto che ti ha costruito una ditta che si chiama Diatto, di cui io, però non ho

mai sentito parlare. Visto che a causa di un’auto parcheggiata malamente in doppia fila

sembra proprio che dovremo stare fermi ancora un po’, mi racconti la storia di questa

Diatto?

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Nel mentre, una leggera velatura rossastra colorava il frontale della 500 circondandone lo

scudetto luccicante; infatti, se era su quel pianale era perché anche lei si trovava fino a

qualche tempo prima in doppia fila!

- Devi sapere, proseguì la motrice che non si era accorta dell’imbarazzo della 500, che la

Diatto aveva origini lontane nel tempo essendo stata fondata all’inizio dell’Ottocento

come officina per la costruzione di carrozze, che come ti avevo già detto prima erano i

mezzi di trasporto della gente prima dell’avvento della motorizzazione di massa di cui

tu sei erede.

- Carrozze, e cosa sono le carrozze? – chiese affascinata la 500;

- Erano dei veicoli per il trasporto delle persone realizzate con strutture in legno e con

all’interno dei sedili imbottiti su cui prendevano posto i passeggeri. La struttura era

sospesa alle ruote tramite balestre per avevano lo scopo di attutire le irregolarità delle

strade, che una volta non erano mica asfaltate come adesso. Erano trainate da uno o

più cavalli e solitamente il conduttore era sistemato al di fuori del comparto destinato

ad ospitare i passeggeri in posizione avanzata o sul posteriore in un alloggiamento

rialzato; in pratica è come se tu invece si muoverti grazie al tuo motore ti muovessi

tirata da uno o più cavalli. Le carrozze erano di tipologia diversa a seconda

dell'impiego a cui erano adibite; esisteva ad esempio la berlina chiusa con funzione di

rappresentanza, il calesse, una carrozza aperta per la bella stagione, il Landau, dotato

di capote che si apriva nelle belle giornate di sole esattamente come quella Porche 911

cabrio ferma proprio davanti a te. Pensa che anche i primi tram in realtà erano trainati

da cavalli e si chiamavano “omnibus a cavalli” ed erano costituiti da una carrozza

coperta trainata da cavalli le cui ruote viaggiavano su dei binari di metallo proprio

come me. D’inverno, per scaldarsi, i passeggeri avevano a disposizione, ma solo su

alcune carrozze, anche una piccola stufa.

Per soddisfare la tua curiosità, proseguì il tram, continuo il racconto: la Diatto passò

quindi dalla produzione delle carrozze alla produzione di vagoni ferroviari e di tram

come me e da ultimo si dedicò alla costruzione di automobili. Costruiva vetture così

straordinarie che quando io ero un giovane tram si diceva che “I nomi Diatto e Bugatti,

dalla sana e seria tradizione meccanica e dalla più ardita e geniale innovazione,

intrecciati e fusi insieme in un’opera comune, sono straordinariamente eloquenti e

significativi per ogni tecnico e per ogni automobilista”.

- Ma come, costruivano anche automobili?

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- Certo, rispose la motrice; si racconta che nel 1905 i fratelli Diatto, grandi appassionati

di automobili, acquistarono un’auto dai Fratelli Ceirano che però li lasciò

completamente insoddisfatti. I Diatto si rivolsero quindi al Tribunale ed al termine

della causa la Ceirano dovette riprendersi l'auto restituendo l'intero importo ai due

fratelli. La sentenza del Tribunale, inoltre, stabilì per la prima volta la necessità di

garanzie che le case automobilistiche dovevano fornire a favore degli acquirenti. Delusi

da quella loro esperienza i due fratelli fondarono quindi una loro officina per la

costruzione di autovetture ed assunsero subito 500 operai; pensa che nello stesso

periodo la Fiat aveva solo 770 operai ed era considerata già una grande industria!

Appena terminato il racconto, il traffico riprese nevrotico; la 500 non fece nemmeno in tempo a

ringraziare e salutare la motrice che l’arzillo vecchietto era già arrivato alla fermata dove lo

stavano aspettando alcuni bambini visibilmente eccitati.

Sempre tra scossoni e torsioni che mettevano a dura prova le sue sospensioni, finalmente la

500 arrivò all’inizio di Piazza Vittorio; che spettacolo che si apriva davanti ai sui tondi fanali!

La 500 ricordò quella volta che Bianca Camilla provò e riprovò la lezione che doveva tenere ad

un gruppo di ragazzi in una scuola di Torino mentre si recava all’appuntamento: “Piazza

Vittorio, così chiamata in onore della battaglia di Vittorio Veneto, ma anche in onore di Vittorio

Emanuele I. Copre una superficie di circa 40.000 mq, cioè quanto cinque campi da calcio, ed è

sia la più grande piazza porticata che la più grande piazza priva di monumenti d’Europa.

La piazza è degradante verso il fiume; infatti tra le due estremità della piazza c’è un dislivello di

circa sette metri che il suo progettista, l’Architetto Frizzi, ha dissimulato realizzando “ad hoc“

i portici ai suoi lati; infatti, l’altezza dei portici cresce verso il fiume e solo un occhio attento è

in grado di scoprire il trucco!”

- Mi auguro, pensò la 500, che almeno qualcuno di quei ragazzi si sia preso la briga di

controllare!

Arrivati al fondo, la 500, da sopra il tetto della cabina del carro-attrezzi, riusciva a scorgere la

sagoma della Gran Madre che svettava sullo sfondo delle colline retrostanti. Che voglia di

gettarsi giù dal pianale e scappare lungo il ponte Vittorio Emanuele I e poi dietro la chiesa per

proseguire lesta lesta verso Villa della Regina, seicentesca villa di campagna del Cardinale

Maurizio di Savoia e “giardino segreto” di Anna di Orleans che qui consumava i suoi incontri

amorosi (una leggenda narra che la regina, per evitare gli scandali, nascondesse i suoi amanti

in una botola segreta che conduceva in un tunnel così ripido che questi vi cadevano dentro

rimanendone vittime) e quindi verso casa, sicuro rifugio dopo una mattinata così movimentata!

Ma purtroppo le ruote erano bloccate e alcune cinghie la tenevano irrimediabilmente legata al

suo oscuro destino.

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Non le restava che osservare la chiesa della Gran Madre, omaggio torinese al pantheon

romano, quasi una premonizione del futuro destino della Casata Torinese, mentre sempre

dondolando il carro-attrezzi svoltava verso Corso San Maurizio.

Notò la cupola che si stagliava orgogliosa e riuscì a leggere la scritta in bronzo posta sotto il

timpano “La nobiltà ed il popolo di Torino per il ritorno del Re”.

- Che bella faccia tosta, pensò, hanno i Torinesi! Prima cacciano il Re e poi quando torna

gli dedicano una chiesa per chiedere perdono!

Approfittando di un rallentamento del traffico notò anche le due statue immobili davanti alla

chiesa; da quello che si ricordava dovevano rappresentare la Fede che sorreggeva un calice e

la Ragione. La 500 si ricordò quindi del racconto di Bianca ad una sua amica, un giorno che si

erano fermate in un bar lì accanto per sorseggiare un sorbetto al limone cercando di liberarsi

della canicola estiva:

- Devi sapere, disse all’amica, che alcune leggende sostengono che lo sguardo della

statua che rappresenta le Fede, la statua che tiene in mano un calice, in realtà indichi il

luogo dove sarebbe stato nascosto il Sacro Graal, la leggendaria coppa che nel Medio

Evo si riteneva fosse stata utilizzata da Gesù nell’ultima Cena e che avesse contenuto

anche il suo sangue fuoriuscito dalla ferita al costato causata dalla lancia scagliata da

Longino, il centurione romano che nei Vangeli è ricordato perchè al momento della sua

morte ha esclamato “Costui era veramente il figlio di Dio!”.

La 500 era ancora assorta nei suoi pensieri quando improvvisamente si sentì spingere verso

l’esterno dalla stessa oscura forza che agisce ogni volta che affronta una curva con fare

sportivo e che Bianca corregge immediatamente con un colpo di freno maledicendo quella che

lei chiama ”forza centrifuga”!

Fece in tempo, però a scorgere la sagoma della Basilica di Superga che si stagliava alta e fiera

sulla collina. Si dice che i Savoia abbiamo realizzato proprio a Superga le loro tombe perché la

basilica è visibile da lontano, ben prima di Torino; era quindi un messaggio ai propri sudditi:

sono io che governo e decido e quindi, attenzione!

Altre storia torinesi dicono che il suo aspetto maestoso nacque dalla volontà del suo

progettista, Filippo Juvarra, di imitare la grandiosità della monumentale cupola

michelangiolesca di San Pietro. Quello che sicuramente aveva colpito la nostra 500 la prima

volta che Bianca l’aveva portata lassù, in cima alla collina la cui vetta arriva a quasi 700 metri,

ma che la 500 aveva affrontato con fare sportivo aggredendo la strada e le curve che si

snocciolavano in sequenza e che seguiva con i suoi giovani fari per evitare inattese sorprese,

era il panorama che spaziava dalle alpi cuneesi alle alpi che maestose si spingono in una

direzione verso la Val di Susa con le figure imponenti del Castello di Rivoli e della Sacra di San

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Michele che come sentinelle silenziose controllano da secoli il traffico alpino verso la Francia

e dall’altra verso la Val d’Aosta e verso la Lombardia! Che bello vedere il Monviso svettare

solitario sulla sinistra e il Rosa, maestoso nella sua forza rocciosa, sulla destra! Lo stesso

papa Pio XI in visita alla basilica aveva affermato che da Superga si poteva osservare “il più

bel panorama d'Europa” e lo stesso Rousseau, presente a Torino alcuni secoli prima aveva

scritto che “Io ho dinnanzi il più bello spettacolo che possa colpire l'occhio umano”.

Che bei ricordi quando un bel pomeriggio di una domenica di maggio Bianca aveva fatto a

gara con la “dentiera” per arrivare alla basilica! La strada si inerpicava stretta e ripida su per

la collina tra distese di alberi interrotte da ville con viste mozzafiato sulla pianura, ma lei, la

sua fedele 500, aveva mantenuto fede alla promessa fatta a Bianca, di arrivare per prima in

cima alla vetta!

In realtà quella che i Torinesi chiamano “dentiera” è una tranvia realizzata alla fine

dell’Ottocento dall’Ingegner Agudio, modificata negli Anni Trenta del secolo appena passato in

una tranvia a dentiera con trazione centrale; il nome deriva dal fatto che il binario centrale è

una “dentiera”, cioè un binario dotato di denti su cui ingranano i denti di una ruota dentata

collegata ad un motore installato a bordo del trenino e che gli consente di muoversi.

Già, Superga, tanto cara ai Torinesi di tutti i tempi e di tutte le età. Fu costruita per volere di

Vittorio Amedeo II che, durante l’assedio di Torino del 1706 alla vigilia della grande battaglia in

cui Torino, ormai allo stremo e con pochissima polvere da sparo, nel momento in cui nobili e

popolani si erano uniti tutti insieme per difenderla lasciando cadere le barriere sociali e

culturali che li avevano sempre tenuti separati, dopo l’eroico sacrificio di un giovane biellese,

Pietro Micca detto Passepartout, che aveva concesso a Torino, con il suo estremo sacrificio in

una stretta e buia galleria di contromina posta ad estrema difesa della Cittadella congedando il

suo terrorizzato compagno con la famosa frase “Alzati, che sei più lungo d'una giornata senza

pane”, altro tempo per sperare in un provvidenziale aiuto da parte del suo Duca, si giocava il

suo destino in Europa ed in Italia, salito con il cugino Principe Eugenio per verificare le

postazioni dell’esercito Francese di Luigi XIV, il famoso “Re sole”, artefice di quella

meravigliosa reggia che è Versasilles, fece voto, davanti alla statua lignea della Madonna delle

Grazie, presente in una vecchia chiesetta dedicata a Santa Maria sub pergolam (il nome

affettuoso le era stato assegnato dai Torinesi poiché la facciata della chiesa era protetta da un

pergolato), di costruire una Basilica se l’esito della battaglia gli fosse stato propizio. Così fu e

Vittorio Amedeo affidò allo Juvarra la costruzione del complesso, mentre il Principe Eugenio

regalò il suo cuore ormai esanime alla Cripta Reale in segno di riconoscenza per quell’eroica

giornata.

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Ma questa non fu l’unica occasione in cui Superga legò in un vincolo di amicizia e fratellanza i

Torinesi; infatti, il 4 maggio 1949, l’aereo che riportava a casa i giocatori del Torino, il Grande

Torino come veniva chiamato allora, a causa di una fitta nebbia si schiantò alla base della

Basilica infrangendo per sempre i sogni dei giocatori e dei tifosi. I giocatori ed i dirigenti della

squadra furono scortati nel loro ultimo cammino da tutti i Torinesi, di ogni tifoseria e di ogni

età!

La 500, ormai inerme passeggero su un moderno cavallo giallino, guardava con occhi

incuriositi i raggi del sole che giocavano a nascondino tra le foglie degli alberi che

fiancheggiavano la via. La brezza del vento contribuiva a rendere magico il momento.

Una cosa che aveva sempre stupito la 500 ovunque accompagnasse Bianca era la quantità di

alberi che fiancheggiavano i dritti e spaziosi corsi di Torino; ogni corso aveva una sua varietà

arborea, dai platani, che rappresentano la specie più diffusa, ai tigli, agli aceri, agli ippocastani

ed agli olmi. E anche questo, diceva sempre Bianca, rappresenta una particolarità di Torino;

infatti è la città più ricca di verde pubblico dall’alto dei sui ben 25 parchi cittadini e collinari in

cui d’estate, per sfuggire alla calura e godersi un po’ di meritato riposo dopo settimane di

intenso lavoro, si rifugiava con un libro in mano godendosi il fresco sotto un albero.

Mentre lei era assorta nella lettura, anche la 500 godeva del refrigerio dell’ombra donata da un

albero, ma per la nostra 500 la tranquillità era interrotta ad ogni batter d’ali poiché la poverina

aveva paura che un simpatico merletto, dalle corvine piume e dal sottile ed aguzzo becco

giallo, oppure un goffo colombo con le sue striature nere e grigie sulle tozze ali, le rovinassero

la stupenda e luccicante carrozzeria con delle medaglie monocolore con sfumature tra il

bianco, il grigio ed il nero e dai bordi frastagliati che non erano certo un bello spettacolo da

presentare ai passanti!

La simbiosi città-alberi ha una lunga tradizione nella cultura dei Torinesi; infatti un amico di

Bianca, un simpatico botanico dai pochi capelli ormai bianchi e svolazzanti, con un buffo

farfallino giallo perennemente in lotta con il colletto della camicia e simpatici occhialetti

rotondi calzati sull’imponente naso, sempre in giro per il mondo alla ricerca di piante

sconosciute, un giorno che le aveva chiesto di accompagnarla al castello di Pralormo per

partecipare ad una sua conferenza sui tulipani - ma pensando ai fiori la 500 ebbe nuovamente

nostalgia del suo bel garage e del bel giardino – le raccontò che già nel Seicento i Savoia

avevano ornato le grandi strade di collegamento con le loro maestose residenze, quelle che

costituiscono ancora la “Corona delle Delizie” richiamata e pubblicizzata nell’Europa delle

grandi Monarchie dal Theatrum Sabaudiae, una raccolta in immagini delle dimore, chiese e

luoghi, facenti parte del dominio dei Savoia alla fine del XVII secolo, con lunghi rettilinei

alberati e che l’urbanista Lombardi nell’Ottocento proseguì la tradizione redigendo il piano

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generale dell’urbanizzazione di Torino in cui imponeva la convivenza dei nuovi spazi con il

verde.

Improvvisamente venne riportata alla realtà da una potente frenata.

- Accidenti, pensò, ma vogliono ammaccarmi? Non sanno leggere i colori di un

semaforo? Eppure i semafori sono noti da ormai cent’anni, dal primo installato in

America, credo a Cleveland, e non sono mai cambiati!

Guardò quindi negli specchietti per controllare che la sua elegante carrozzeria non fosse

ammaccata o rigata quando un raggio del sole la abbagliò.

Per difendersi da questa violenza, girò lo sguardo alla sua destra, forse per cercare conforto

nell’unico fanale della motrice 116 che avrebbe potuto affiancarla lì sulla carreggiata dedicata

al transito dei tram, ma non vide neanche uno degli ultimi tram di Torino, quei grossi serpenti

grigi che sobbalzano sulle rotaie e bloccano la circolazione quando svoltano! Ma che lei, agile

e piccolina riesce ad aggirarli sfruttando ogni centimetro disponibile prendendosi la rivincita

sugli altri macchinoni!

Sulla sua destra notò uno strano palazzo di uno strano colore giallino.

- Che buffo palazzo, osservò, e tanto alto, ma così stretto che sembra voglia cadere da un

momento all’altro!

Nello stesso momento veniva affiancata da una Scenic di un colore bronzeo che definire strano

era un complimento. Era guidato da una giovane mamma che stava “combattendo” con i due

bimbi che portava. Il più grande era seduto sui sedili posteriori rivolto verso la coda della

macchina intento a giocare con delle macchinine e per nulla interessato ai richiami all’ordine

della mamma, mentre il più piccolino si contorceva per liberarsi dalla cintura che lo teneva

bloccato contro il sedile con la mamma che cercava di dividersi tra la guida e la ribellione

della “petit peste”!

E’ inutile che ti dimeni, pensava la 500, tanto sei legato e ben assicurato esattamente come me!

- Beata te che ti godi il panorama da sopra il pianale, esclamò la Scenic! Non sai come è

dura andare a spasso in queste condizioni con due bimbi che non vogliono star seduti

e la mamma che li sgrida richiamandoli all’ordine!

- Non sai cosa darei per sgranchirmi un po’ le ruote! È da cinque minuti che sono

imprigionata e già non vedo l’ora di essere liberata! Ma dimmi, tu passi spesso da

queste parti?

- Si, rispose la Scenic. Ma perché mi fai questa domanda?

- Perché stavo guardando quello strano palazzo e mi sa che prima o poi possa cadere!

La Scenic abbozzò una risata e la 500 chiese il perché.

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- Devi sapere, proseguì la Scenic, che quello strano palazzo come lo chiami tu è quella

che i Torinesi chiamano “fetta di polenta”, anche se in realtà si chiama Casa

Scaccabarozzi dal nome della moglie dell’Architetto Antonelli, quello della Mole,

perché ricorda una fetta di polenta appena tagliata!

E’ stato costruito per scommessa dall’Antonelli che aveva comprato un appezzamento

di terreno di forma trapezioidale lungo circa sedici metri con un lato di circa cinque

metri ed uno di circa mezzo metro sperando di convincere il proprietario del terreno

vicino a vendere pure il suo appezzamento. Nonostante varie proposte, il vicino rifiutò.

Il rifiuto colpì l’architetto nel suo orgoglio e quindi per sfida volle dimostrare ai

Torinesi di saper costruire un palazzo anche in uno spazio così ristretto. Per accedere

ai vari piani realizzò una scala a forbice mentre nel lato corto realizzò la canna fumaria,

ma una volta terminati i lavori nessuno voleva andare ad abitarci poiché avevano paura

che crollasse. Quindi vi abitò insieme alla moglie per vari anni. Si racconta che un

giorno era intento a sorseggiare un caffè in un bar lì vicino quando gli operai addetti al

trasloco lo andarono a cercare per chiedergli come fare a portare i mobili poiché non

passavano dalle scale. Senza scomporsi, così si racconta, l’Antonelli disse di installare

una carrucola all’ultimo piano per sollevare i mobili e se non si riusciva a farli passare

per le porte, di abbattere le pareti che poi le avrebbe rifatte costruire! Ma come vedi, a

dispetto di tutte le malelingue il palazzo è ancora in piedi dopo così tanto tempo!

La 500 si ricordò poi di quella volta che Bianca, stufa dei malevoli pettegolezzi di una sua

amica, le raccontò la storia della Scala delle Forbici di Palazzo Reale. Lo Juvarra, anche lui

architetto di corte, per collegare i due piani del palazzo ed avendo a disposizione poco spazio,

realizzò una scala a tenaglie così leggera che le malelingue sostenevano che non avrebbe

retto; infatti molti palazzi di Torino, tra cui Palazzo Barolo, avevano subito le conseguenze del

crollo di scale mal progettate!

Ma lo Juvarra, sicuro del suo operato, decise di prendersi una bella rivincita sui cortigiani.

Infatti, in un medaglione decorativo posto sulla volta del pianerottolo, fece raffigurare il volto

di un cortigiano la cui lingua viene tagliata da un paio di forbici!

- Ah, sospirò la 500, passano gli anni, cambiano le mode, gli usi e gli attori, ma la

commedia è sempre la stessa!

Pensò anche che l’ironia doveva essere una caratteristica degli architetti e quindi anche

Bianca sicuramente prenderà con ironia la situazione!

L’immaginava di ritorno da Piazza Castello con il suo passo veloce e leggiadro, con il volto

girato verso di lei, la sua amata 500 grigio perla intenta a giocare con i raggi del sole che si

infrangevano sulla sua lucida e sinuosa fiancata!

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Con faccia stupita ed interrogativa si sarebbe chiesta se per caso avesse ricordato male il

posto dove l’aveva lasciata, ma poi, come per ispirazione, l’intuizione che la sua 500 avesse

subito lo scempio della rimozione forzata. Imperturbabile, con un sorriso ironico sulle rosse

labbra, avrebbe esclamato:

- Accidenti, stamattina mi sono dimenticata di mettermi le scarpe da ginnastica! Pazienza,

tornerò a casa anche con i tacchi così avrò il tempo di gustarmi “el sènter”, come

chiamano il centro storico i Torinesi, senza che automobilisti frustrati strombazzino un

istante dopo che il semaforo diventa verde!

Come per empatia, allo scattare del verde, un vecchietto su di una rumorosa minicar

tamburellava sul clacson come preso da una strana frenesia! Ma l’inerzia del carro-attrezzi,

snervando l’attempato guidatore, fece rinascere il suo giovanile spirito bellicoso e con una

manovra acrobatica, scansando il traffico contrario, con uno scatto felino, dribblando

l’ostacolo, si proiettò rapido e traballante verso il successivo incrocio!

Il carro-attrezzi, lentamente, ma sempre strattonando riprendeva il cammino, ma per dove?

Per nulla preoccupata, la 500 si chiedeva se anche le carrozze trainate dai cavalli

strattonavano allo stesso modo i passeggeri:

- Purtroppo non lo saprò mai, sospirò, poiché l’arzilla motrice ha seguito un diverso

cammino!

All’incrocio successivo notò alla sua sinistra la fiera sagoma della Mole Antonelliana, altro

capolavoro dell’Antonelli e pensò:

- Ma Torino era tutta opera sua?

Già, la Mole, quella fiera torre che Bianca poteva ammirare dalle finestre della sua mansarda

coccolata dalla fresca arietta mattutina, bellissima quando la sua sagoma massiccia alla base

e poi sempre più sottile salendo verso il cielo si stagliava sulle alpi imbiancate o quando

ingioiellata per i 150 anni dell’unità illuminava Torino con il suo tricolore a ricordare che

l’Italia è una, ma ricca di usi, costumi tradizioni e dialetti differenti che convivono e pulsano in

un unico grande stivale!

L’Italia dei Comuni e del campanilismo che dopo 150 anni continua a respirare l’aria del

proprio cortile e non si fa travolgere dall’imperioso vento dell’Europa unita! Ma lei no, Bianca,

coma la 500, avevano la speranza che l’Europa prima o poi sarebbe diventata veramente

un’unica grande Nazione! Oggi lo era dal punto di vista monetario, ma nei giovani il seme

dell’unione stava maturando e prima o poi avrebbe messo salde radici, così diceva sempre

Bianca.

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Quando la 500 portava Bianca all’Università per tenere alcuni incontri di storia dell’arte agli

studenti, si meravigliava sempre quando all’improvviso da dietro un anonimo palazzo vedeva

ergersi fiera e maestosa la cupola con la sua esile guglia!

E rideva da sotto il baffo cromato quando vedeva accaldati turisti che si affannavano con le

loro macchine digitali a cercare di fotografare per intero il dispettoso monumento! Prima li

osservava piegarsi da un lato, poi dall’altro, ed infine allontanarsi e poi dopo aver provato

innumerevoli posizioni yoga rinunciare e ripiegare sui dettagli. E Bianca, scuotendo

dolcemente la testa, come quando una mamma rimprovera bonariamente il proprio bimbo che

si è fatto trovare con le mani nella marmellata e tutto rosso cerca di nascondere le prove del

suo reato chiedendo venia con gli occhietti furbetti, con voce divertita sospirava “è inutile

contorcersi, tanto non la si riesce a fotografare per intero”!

La Mole Antonelliana, diventata simbolo della città di Torino; la si ritrova ovunque, anche nelle

pasticcerie dove il liquore al gianduja, altro simbolo di Torino, osserva dalle trasparenti

vetrine delle pasticcerie i Clienti intenti a scegliere le bignole da dentro la sua bottiglia a forma

di Mole. Ma la Mole è anche una girovaga, poiché di mano in mano viaggia per il mondo o

riposa nelle tasche delle persone che distrattamente si dimenticano di quella piccola,

luccicante monetina da due centesimi!

La storia della Mole è singolare perché rappresenta la lotta di un eccentrico architetto

sognatore contro le traversie economiche e le critiche della gente, che si batte e si consuma

pur di veder realizzata la sua opera sicuro fino alla follia del raggiungimento del risultato

tanto agognato.

La Mole, realizzata nella Contrada del Cannon d’oro per conto della Comunità Ebraica di

Torino che voleva realizzare con una grande Sinagoga la celebrazione della libertà di culto

concessa dallo Stato a tutte le religioni non cattoliche, inizialmente doveva essere un edificio

in muratura alto circa 47 metri, ma poi con varie scuse il progettista riuscì ad elevarla a 113

metri.

A causa della scarsità di fondi, ed in attesa di un nuovo finanziatore il progetto si arrestò per

riprendere dopo l’acquisizione dell’edificio da parte del Comune. La sua costruzione terminò

solo nel 1908, ben vent’anni dopo la morte del suo progettista, ma alla fine risultò la

costruzione in muratura più alta d’Europa dall’alto dei suoi 167 metri.

Si racconta che l’Antonelli per convincere il Comune a finanziare i lavori di costruzione,

avesse deciso di dedicare la costruzione a Vittorio Emanuele II, primo Re d’Italia, o come

dicono i Torinesi, il Re degli Italiani per la sua smodata passione per il gentil sesso,

adducendo come scusa per le infinite successive modifiche il fatto che un così grande artefice

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dell’Unità dovesse essere celebrato degnamente con un monumento pari al suo valore e che

quindi le modifiche erano necessarie per ottenere il risultato tanto agognato!

Ma il destino della Mole doveva ancora compiersi; a seguito di un uragano che si abbatté su

Torino, la guglia si spezzò, ma nella sua magnanimità, la Mole trattenne il moncone e non lo

fece precipitare rovinosamente al suolo. Il gesto altruistico, però, non la salvò dall’onta di

perdere il primato di altezza che dopo il restauro ridusse la sua altezza a soli 165 metri,

consentendo quindi alla cupola della Basilica di San Gaudenzio di primeggiare in Europa! Per

uno scherzo del destino, anche quest’opera era stata realizzata dall’Antonelli!

Ma la Mole ha ottenuto anche il privilegio di essere uno dei primi edifici di Torino ad essere

illuminato con il gas di città, progenitore del moderno metano.

La 500 ricordava ancora quando Bianca aveva accompagnato Niccolò, il suo nipotino, a

visitare la Mole; ricordava ancora l’emozione del bimbo al ritorno da quella che il piccolo

considerava una grande avventura quando raccontava l’ascesa verso il balcone colonnato

sull’ascensore panoramico in vetro. La salita verso un pozzo scuro con la cupola che

velocemente convergeva verso l’alto c che alla fine inghiottiva l’ascensore nel buio per poi

aprirsi alla luce nel porticato da cui si poteva ammirare tutta Torino e la sua collina! E poi la

veloce discesa con la cupola che si apriva nel vuoto lasciando i passeggeri come sospesi in un

grande mare di luce con l’inquietante statua del film Cabiria pronta ad ingoiare i passeggeri o

ad afferrarli con le sue possenti braccia! Bianca sorrideva ricordando che nella discesa,

Niccolò, spaventato dall’immensità che si apriva sotto i suoi piedi le aveva afferrato la mano

stringendola forte forte!

Persa nei suoi ricordi ed un po’ malinconica per la lontananza di Bianca, la 500 non si era

accorta che il carro-attrezzi aveva attraversato il mercato del Balon luogo frequentato

nell’Ottocento dai rigattieri torinesi e si stava dirigendo verso il Rondò della Forca, come

veniva chiamata dai Torinesi a causa del triste incarico che veniva svolto nelle sue vicinanze la

grande rotonda che collegava il centro con la periferia della città.

Ricordandosi dei racconti di Bianca, istintivamente volse i suoi tondi fanali alla sua sinistra

per cercare conforto nella cupola della chiesa dei Torinesi, in Colei che nei momenti più tragici

della storia cittadina aveva sempre protetto il suo popolo!

Bianca raccontava che la chiesa, capolavoro del Barocco Piemontese a cui contribuirono

anche il Guarini e lo Juvarra – e sì, sempre lui! - era stata voluta da Arduino nel 1016 a seguito

di un sogno nel quale gli apparvero la Madonna, San Benedetto e Maria Maddalena con la

richiesta di costruire tre cappelle. La tradizione racconta che durante la costruzione della

cappella venisse ritrovata un’antica immagine della Consolata da parte di un giovane ragazzo

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cieco, un tale Giovanni Ravacchio, partito dalla Francia a seguito di una visione, che come

ricompensa del miracoloso ritrovamento riacquistò la vista.

Il Santuario della Consolatrice o Consolata, come famigliarmente la chiamano i Torinesi, è

dedicata a Colei che fu invocata come protettrice della città durante l’assedio del 1706 e che,

per riconoscenza al termine della sanguinosa guerra, la città l’elesse Patrona di Torino.

Ma alla 500 piaceva ascoltare il suono delle nove campane presenti nella cella campanaria che

diffondevano le loro sonorità tremolanti nel cielo di Torino ed in particolare il suono grave

della campana maggiore, che fusa nel 1940 è la più grande campana del Piemonte, mentre

attendeva che Bianca tornasse dal Caffè del Bicerin, storico locale che si apre di fronte alla

basilica, dove in compagnia delle amiche sorseggiava il Bicerin, tipica bevanda torinese di cui

lo stesso Conte Camillo Cavour, di cui il papà di Bianca era un appassionato ammiratore – da

qui il nome dato alla bimba! – andava matto. La 500 non conosceva Cavour, ma si immaginava

Bianca seduta insieme alle amiche ai tavolini di marmo intente a chiacchierare ed a

sorseggiare l’energetica bevanda circondate dalle colonnine e dai capitelli in ghisa e riscaldate

dalle boiseries di legno decorate con specchi e rimaste immutate negli ultimi due secoli.

E che aroma di caffè e cioccolato quando soddisfatte dal dolce nettare Bianca e le amiche

ritornavano da lei continuando a filosofare lungo la strada del ritorno!

- Ah che nostalgia del bicerin! – esclamò quasi esausta la 500.

L’esclamazione venne sentita da un’elegante tram con una luccicante carrozzeria blu e crema

con alcuni bambini che si divertivano a fare le linguacce dai vetri e che stava svoltando in

direzione di Piazza Statuto.

- Scusa se ti disturbo, ma sai, io sono originaria di Roma e sono qui da poco tempo. Ho

tanto sentito parlare del Bicerin, ma non so che cos’è: riesci a descrivermelo mentre

attendiamo che il semaforo diventi verde?

- Certamente, disse la 500, cercherò di essere sintetica, ma anche esaustiva. Devi sapere

che il “Bicerin” è la bevanda tipica di Torino, un’evoluzione della settecentesca

"Bavareisa", bevanda servita in grandi bicchieri tondeggianti, e realizzata con caffè,

cioccolato e crema di latte dolcificata con sciroppo. Il rituale del Bicerin prevedeva che

i tre ingredienti fossero serviti separatamente. Inizialmente erano previste tre varianti:

pur e fior (simile al cappuccino), pur e barba (caffè e cioccolato), ’n pòc ’d tut (ovvero un

po' di tutto), con tutti e tre gli ingredienti miscelati. È stata quest’ultima formula ad avere

più successo ed a prevalere sulle altre. Ovviamente il tutto veniva accompagnato da dei

"bagnati", biscotti artigianali che ne esaltavano il sapore.

- Grazie dell’informazione e buon viaggio verso la tua destinazione! Fa sempre piacere

parlare con bellezze come te!

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La 500 al quel complimento arrossì un pochino, ma subito si riprese; era su di una passerella e

stava sfilando nel traffico, non poteva sfigurare!

Ma poi pensò a Bianca e tristemente si adagiò sul pianale. Nemmeno la vista della Basilica di

Maria Ausiliatrice con la Madonna dorata che da più di un secolo la protegge dai fulmini e

dalle avversità riuscì a sollevarla; anzi, il pensiero che Bianca veniva tutti gli anni alla Festa

dell’Ausiliatrice ed alla processione che ogni anno si ripete il 24 maggio e che adesso non era

lì con lei contribuì ad aumentare la sua inquietudine.

A nulla servì il ricordare i racconti di Bianca in merito all’enorme quadro che raffigura Maria

Ausiliatrice e che troneggia sul tabernacolo della Basilica, che la tradizione descrive come il

quadro con più santi raffigurati del mondo e che per le sue generose dimensioni costrinse il

pittore, Lorenzone, a prendere in affitto per ben tre anni il più alto salone di Palazzo Madama,

o la cupola così grande che, si dice, potrebbe consentire l’atterraggio al suo interno di un

elicottero.

Il carro-attrezzi passò sobbalzando nel controviale a causa dei lavori per realizzare una

galleria ferroviaria che passasse sotto la Dora, uno degli innumerevoli fiumi di Torino,

liberando spazi per la città in continua e frenetica evoluzione e che sembravano non finire mai.

E poi, una svolta a destra, una a sinistra, qui un sobbalzo, là una buca ... una vera tortura per

la nostra 500 che ormai allo stremo, sentitasi abbandonata da tutti, in una zona a lei ignota

della città, esausta, spense i suoi tondi faretti e si abbandonò inerme al suo destino.

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Risveglio nel presente alla luce dei ricordi

Un improvviso trambusto la scosse dal suo torpore.

Aprì i fari, si guardò a destra ed a sinistra e riconobbe il luogo dove si trovava. Sempre sul

pianale, ma proprio di fronte alla caserma che dal 1883 era diventata il Comando dei Vigili del

Fuoco di Torino da dove una fiera autopompa rosso fiammante con un’elegante striscia bianca

che cingeva le grandi ruote nere e con innumerevoli serrande chiuse che completavano

l’imponente fiancata del veicolo, con le intermittenti luci blu che fendevano eccitate l’aria e la

grave sirena che si affannava ad avvisare le altre auto di fare largo ai pompieri,

rumorosamente ed anche un po’ goffamente stava uscendo dal suo comodo riposo.

Da sopra il suo palcoscenico poteva guardare la scena, libera da ogni preoccupazione.

Vedeva un’auto spostarsi a destra, una a sinistra e l’immancabile indisciplinato che voleva

sfruttare la situazione per guadagnare un po’ di strada e poi lei, la sgargiante e grossa

autobotte che passava zigzagando tra le due ali di veicoli; vista dalla 500 sembrava Mosè che

guidava il suo popolo verso la Terra Promessa tra le due alte mura di acqua che ne

proteggevano il cammino!

Già, l’autopompa, il mezzo principe dei Pompieri, come vengono affettuosamente chiamati dai

bambini; un veicolo dotato di una pompa ed un piccolo serbatoio per l’acqua che velocemente

trasporta la sua squadra alla zona di operazione insieme all’ingombrante fardello di attrezzi

necessari all’intervento!

Torino, per cercare di arginare la piaga di tutti i tempi, il fuoco, che distruggeva costantemente

città e villaggi, si era dotata di un corpo di pompieri già nel Medio Evo quando il comune di

Torino, nel 1442 stabilì che “ciascuna decina di uomini della città di Torino sia tenuta a fare dei

secchi in cuoio e delle scale sovrapponibili per assicurarsi del fuoco degli incendi se

accadesse ciò che si verifichi”.

Ma come portare l’acqua per spegnere l’incendio? Certo, a quel tempo non esistevano le

grosse autobotti e quindi il Comune arruolò dei Brentatori, persone che abitualmente

trasportavano il vino delle osterie su dei carri-botte; certo, soluzione non gradita agli osti, ma

sicuramente apprezzata dai pompieri! Per segnalare il pericolo e quindi attivare i pompieri, un

regio decreto del lontano 1786 del Re Vittorio Amedeo, stabilì che l’allarme sarebbe stato dato

dai campanili delle chiese più vicini al luogo dell’incendio facendo suonare “a martello” le

campane. Il segnale veniva raccolto dai Tamburini dei Corpi di Guardia che a seconda della

gravità suonavano il “Rapel” o “La Generala” allertando quindi le squadre di intervento!

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Solo con le scoperte scientifiche del Sei-Settecento si arrivò alla “trisnonna” dell’autobotte che

era in realtà un carro trainato da cavalli che trasportava una pompa a mano. Quanta acqua

sotto i ponti e quanti incendi dovettero passare prima che si arrivasse alle nostre autobotti ed

ai telefoni per avvisare le caserme!

Il carro-attrezzi proseguiva svelto nella sua corsa per una destinazione ignota, ma la 500 voltò

a sinistra tutti e quattro i suoi fanali per vedere lo spettacolo del Parco della Pellerina con gli

splendidi alberi in fiore.

Già, Parco Carrara, detto famigliarmente dai Torinesi “La Pellerina”, il più grande parco di

Torino e d’Italia con i suoi quasi 84 ettari di estensione.

Lorenzo, il botanico amico di Bianca, un giorno, mentre stavano sorseggiando una tazza di the

nel giardino della villa in collina, le raccontò che l’origine del nome del parco è alquanto

incerta poiché esistono varie interpretazioni, dalla più semplice a quelle che scomodano

addirittura il latino e la filologia.

- Devi sapere, disse, che per me è corretta l’interpretazione che vuole che il nome derivi

da una cascina nel Seicento che venne inglobata nel parco e che si chiamava appunto

“Cascina della Pellerina” che probabilmente prendeva il nome dalla “bealera della

Pellerina”, un canale portava acqua ad alcuni mulini e fucine, i cui magli, o martinetti,

erano azionati dall'energia idraulica. Però, qualcuno sostiene che il nome derivi

dall'accostamento della dizione “pellerina”, termine utilizzato per denominare gli edifici

o i locali dove venivano giudicati ed esposti i debitori insolventi, con la pietra della

berlina o pera berlina dove venivano messi appunto “alla berlina”. I debitori insolventi

venivano esposti senza mutande, onde il detto “picchiare il sedere per terra” per

indicare i soggetti in rovina economica.

Ma ecco che ormai l’arteria pulsante del traffico torinese svoltò verso sinistra, in direzione

della Val di Susa; ed ecco che immancabilmente la nostalgia di casa attanagliò nuovamente la

nostra 500.

Infatti alla sua destra imperiose gru stavano muovendo dei grandi cilindri di metallo che come

un enorme Lego stavano innalzando dal terreno la ciminiera della centrale di cui tante volte

Bianca aveva parlato con Thomas, l’ingegnere quarantenne che occupava l’appartamento al

piano terreno della sua villa.

Era un tipo particolare, sempre in cravatta, ma che teneva leggermente allentata attorno al

colletto costantemente sbottonato, perennemente immerso nei suoi fogli di carta e che passava

nella bella stagione i pomeriggi liberi, quei pochi che aveva, in giardino costantemente intento

a leggere o ad usare il suo portatile con cui comunicava con mezzo mondo. Però, la 500 dal

cortile, sbirciando attraverso il vetro della grande finestra rivolto verso l’autorimessa, riusciva

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a vedere, e ne era entusiasta, una grande stanza tutta piena di scaffali riempiti con file e file di

tomi che ogni volta aumentavano andando a riempire i pochi spazi ancora vuoti.

Si ricordò di quella volta che Thomas era in cortile, seduto su di una sedia di vimini con il

computer sulle ginocchia; stava ridendo così forte che aveva le lacrime agli occhi.

Bianca nel frattempo era uscita dalla porta di accesso della villa, una solida porta di legno

massello con un grande batacchio in ottone trattenuto dalle fauci di un leone e protetta da una

pensilina realizzata con snelle travi di legno e coppi che però stonavano con il bel tetto in

ardesia.

Bianca incuriosita si era avvicinata all’ingegnere:

- Che succede? Perché stai ridendo così di gusto? – domandò

- Stavo leggendo i commenti di alcuni amici piloti alle imprecisioni di alcuni giornalisti.

- E di che cosa parlano?

- Sembra che ieri pomeriggio un Airbus A330 sia stato costretto ad un rientro in

emergenza a causa del cedimento di un motore; anzi, se hai tempo di leggo i commenti.

- Perché no, tanto volevo fare un giro in centro, ma visto che oggi è una bella giornata e

l’ombra di questi alberi è così piacevole, quasi quasi resto qui!

Ovviamente all’udire quelle parole la nostra 500 che già si era illusa di galoppare allegramente

per le stradine della collina che degradavano verso la città, si rattristò un pochino, ma il resto

della conversazione contribuì a farle tornare il buon umore.

- Senti cosa hanno scritto i giornali - disse in tono trionfale Thomas – “L’Airbus A330

qualche minuto dopo il decollo ha evidenziato un surriscaldamento del motore sinistro

che è stato subito messo in folle rispettando la procedura di emergenza” ed ancora, un

altro: “Il motore sinistro ha evidenziato un surriscaldamento, non è stato spento, ma

messo in folle”.

- Ma perché, è così strano? – chiese Bianca

- In realtà i motori di un aereo non hanno “la folle” come le automobili; in questo caso si

dice che il motore, che è una turbina a gas, viene messo in “Idle”, diciamo al minimo, e

poi si cerca di rientrare velocemente in aeroporto. Infatti un utente di questo forum ha

chiesto come si fa a mettere un motore di un aereo “in folle” ed ha ricevuto la risposta

di due piloti professionisti che hanno dimostrato senso di humour. Infatti il primo ha

scritto che “basta che sposti la leva del cambio su N - Neuter, perché D serve per

partire, P per parcheggiare e R per fare la retromarcia”, mentre un pilota di un Boeing

777 ha aggiunto: “Il mio triplo 7 ha anche la funzione W – Winter che aiuta nei periodi

freddi a mantenere il controllo!”.

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- Sai, in realtà mi sono sempre chiesta che tipo di motori hanno gli aerei; hai voglia di

spiegarmelo?

- Per te sempre – rispose - anche perché amo condividere quel poco che so con

qualcuno interessato!

Ebbene, devi sapere che all’inizio gli aerei montavano motori derivati da quelli

automobilistici e quindi a pistoni in linea. La massima evoluzione si ebbe con i famosi

motori a cilindri radiali, più conosciuti come “motori stellari” per la loro somiglianza,

visti frontalmente, con una stella stilizzata, come quelle che disegnano i bambini sui

loro svolazzanti fogli, particolarmente graditi ai costruttori aeronautici perché la loro

forma ne consentiva il raffreddamento con l’aria che li lambiva evitando così di

costruire complicati circuiti di raffreddamento a liquido, quelli, per intenderci che

servono per raffreddare il motore della tua 500 e della mia Strada. Questi motori stellari

raggiunsero il culmine sui caccia impiegati, ahimè, nella Seconda Guerra Mondiale,

anche se alcuni storici ritengono superiori per prestazioni i motori in linea, cioè i

motori che siamo abituati a vedere montati sulle nostre automobili. Al temine del

conflitto e con il progresso della tecnologia dei motori a turbina vennero abbandonati a

vantaggio dei “motori a getto” che sono quelli comunemente impiegati sugli aerei che

vedi passare nel cielo.

Nella storia, però, rimangono famosi due motori stellari, noti per le loro dimensioni

ciclopiche. Il primo è di produzione americana, è un Pratt & Whitney R-4360 Wasp

Major, dotato di ben 28 cilindri disposti su quattro stelle (dove con stella si intende il

ramo su cui si muove il cilindro o una serie di cilindri collegati tra di loro), mentre il

secondo è di produzione russa, uno Zvezda da 42 cilindri disposti su sei file di stelle

ciascuna con sette cilindri, impiegato per applicazioni marine. Pensa che un motore

stellare venne impiagato anche su un’automobile da competizione voluta dal Conte

Carlo Felice Trossi, famoso pilota, nel 1935. Non riuscì però ad eccellere nelle

competizioni perché il pesante motore ne comprometteva la stabilità in curva.

Comunque, se la vuoi vedere, è esposta al Museo dell’Automobile, proprio qui a Torino.

Ma, come ti ho già accennato, subito dopo la guerra prese il sopravvento il “motore a

reazione” o “a getto”, così chiamato perché sfrutta il famoso principio base della

Meccanica “dell’azione e della reazione” che in parole povere dice che “ad ogni azione

corrisponde una reazione di pari intensità, ma di verso opposto”.

- Azione e reazione? Ma esattamente cosa intendi?

- Per spiegartelo userò due semplici esempi, uno “da laboratorio” ed un “naturale”; sai,

l’uomo crede di essere un grande inventore, ma non si accorge che la Natura ha già una

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soluzione a portata di mano! Infatti ho fatto mia una considerazione di Leonardo che

affermava che “Ogni azione fatta dalla natura si po’ fare con più breve modo co’ i

medesimi mezzi. Date le cause la natura partorisce li effetti per i più brevi modi che far

si possa”.

Allora, l’esempio “da laboratorio” è in realtà un semplice esperimento. Sicuramente da

bambina avrai gonfiato dei palloncini con l’aria dei tuoi polmoni e ti sarà capitato che

magari nella fretta di fare il nodo per evitare che uscisse l’aria il palloncino ti sia

scappato dalle mani. Pensa, a me succedeva praticamente sempre ed infatti i palloncini

sono un mio incubo! Quando i miei nipotini mi chiedono, tirandomi per i pantaloni, di

gonfiarne uno … beh … cerco sempre una scusa per evitare brutte figure!

Ebbene, se il furbo palloncino si è riuscito a divincolare dalla presa non proprio ferma

delle dita, avrai sicuramente notato la comparsa di due effetti: il primo è la pernacchia

con cui il palloncino si libera dell’aria e quindi si sgonfia, mentre il secondo è la

traiettoria del palloncino che si libra in aria nella direzione opposta a quella in cui esce

l’aria!

Il secondo esempio, invece, lo prendo in prestito dagli abissi marini! Sicuramente avrai

visto almeno nei documentari una seppia; pensa, io ero un affezionato spettatore di

“Super Quark” e quindi di seppie ne ho viste tante, ma non le ho mai assaggiate perché i

molluschi visti dal vivo mi hanno sempre “fatto senso”! Comunque, la seppia è uno dei

molluschi cefalopodi marini più diffusi nel mare e negli oceani; è di forma ovale

circondata da una pinna che agita per muoversi nell’acqua ed ha dieci zampe, di cui

otto sono tentacoli, mentre le restanti due sono appendici dotate di tentacoli che

utilizza per difendersi o per riprodursi. La sua caratteristica principale è la capacità di

mimetizzarsi cambiando colore in funzione del fondale o per incantare le prede in modo

da catturarle più facilmente. Al suo interno racchiude una conchiglia interna, l’osso di

seppia che, sicuramente avrai sentito nominare anche a scuola quando studiavi le

poesie di Montale, ed una sacca in cui racchiude l’inchiostro che usa quando si sente

minacciata. Ebbene, quando la seppia deve scappare per allontanarsi da un pericolo o

da un predatore emette un getto di inchiostro che velocemente la allontana, ma dalla

parte opposta alla direzione del getto! Dunque la seppia per scappare usa un motore a

reazione!

- Bene, la prossima volta che prendendo un aereo e guarderò i motori fare capolino da

sotto le ali penserò al tuo esempio e mi verrà fame!

- Vedi che la Natura e la Tecnica sono sempre generosi di collegamenti e di curiosità?

Comunque, giusto per concludere la spiegazione alla tua domanda, i motori “a seppia”

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degli aerei sono stati sviluppati negli Anni Trenta del secolo scorso. A parte un primo

brevetto del 1921 concesso ad un francese di nome Guillaume, il vero sviluppo di questo

motore si ebbe con un costruttore aeronautico tedesco, Heinkel, che nel 1939 fece

debuttare il primo aereo a getto del mondo, He 178.

- Va bene, ma come funziona? In realtà tutti gli aerei che ho preso quando andavo in

vacanza non sparavano inchiostro per viaggiare! E poi l’aereo non viaggiava mai in

retromarcia!

- Cercando di semplificare al massimo, facendo per intenderci una spiegazione alla

“Piero Angela”, il motore a reazione è composto da tre elementi fondamentali: il

compressore, il combustore e la turbina. Per descriversi seguiamo l’avanzamento

dell’aereo nell’aria. L’aria entra nel motore, passa nel compressore dove viene

compressa, cioè aumenta la sua pressione e si scalda. Passa quindi nel combustore

dove in parte viene miscelata con il cherosene in apposite “sacche”, ed in parte fatta

passare all’esterno di queste “camere di combustione”. Qui avviene la combustione,

cioè la miscela di cherosene e di aria prende fuoco. Nella combustione l’aria aumenta la

propria temperatura che passa da circa 300°C a più di 1500°C. Il flusso ad alta

temperatura passa quindi nella turbina dove viene espanso creando quindi la spinta

necessaria all’aereo per volare. Ovviamente le palette della turbina non possono

sopportare temperature così alte e quindi necessitano di un sistema di raffreddamento.

Per raffreddarle si utilizza una quota di aria che viene “spillata”, cioè prelevata, dal

compressore e tramite condotti interni alla paletta inviata sulla sua superficie.

- Ma quanto consumano questi mostri?

- Beh, dipende dall’aereo; pensa che un grande aereo come un Boeing 747,noto come

Jumbo, per spostarsi dall’aerostazione dell’J.F. Kennedy di New York alla pista di

decollo consuma la stessa quantità di cherosene di un piccolo turboelica come un ATR

42 che vola da Roma ad Ancona!

- Scusa, ma perché l’hai chiamato Jumbo?

- Perché era il nome che affettuosamente gli era stato dato dai passeggeri a causa della

sua fusoliera molto grande rispetto agli aerei che volavano abitualmente in quel

periodo. I piloti, invece lo chiamavano “The Queen of the sky”, cioè “La regina dei cieli”

per vie delle sue dimensioni e prestazioni in volo. Infatti a terra è grosso ed impacciato,

mentre in volo è docile e molto agile nelle manovre. Pensa che è talmente lungo che in

volo la sua fusoliera subisce una non trascurabile flessione che però non era stata

tenuta in considerazione dai tecnici quando svilupparono l’autopilota, cioè un

dispositivo meccanico ed elettronico che è in grado di far volare l’aereo senza

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l’intervento continuo dei piloti. Di conseguenza, l’autopilota leggeva quindi queste

flessioni come oscillazioni del velivolo e quindi attuava le manovre necessarie per

riportarlo in assetto; il risultato fu che i passeggeri seduti in coda soffrirono di un forte

“mal d’aria”! Ovviamente i tecnici, saputa la cosa, studiarono il problema e, trovata la

causa, corsero ai ripari aggiornando il sistema!

Mi ricordo ancora la sensazione di inferiorità quando io, stipato in un piccolo aereo,

credo fosse un Jumbolino, per rientrare a Torino da una riunione di lavoro a

Francoforte, guardando fuori dal piccolo oblò ho visto i passeggeri di un Jumbo

salutare dai finestrini, che, essendo l’aereo indiano, erano tutti decorati di merletti

rossastri che ricordavano le loro finestre, da una quota superiore al nostro aereo. Ho

come avuto l’impressione che noi con tutto il nostro aereo stessimo passando

tranquillamente sotto le sue enormi ali!

- Ma senti, una volta al rientro da Roma in una giornata di forte vento, l’aereo subito

dopo l’atterraggio ha come accelerato perché ho sentito i motori salire di giri, ma

invece di riprendere quota come mi aspettavo, in realtà ha rallentato e si è fermato al

fondo della pista. Secondo te, l’aereo ha avuto qualche problema o è normale?

- Complimenti, hai notato una cosa che in tanti non notano! In realtà quel forte rumore

che hai sentito non serviva per “riattaccare”, cioè per riprendere quota velocemente per

evitare, ad esempio, un ostacolo in pista, ma per frenare!

- Per frenare? – chiese stupita Bianca.

- Certo, per frenare. Ha infatti utilizzato gli “inversori di spinta”, chiamati anche

“reverse”. Sono realizzati in vari modi e congiuntamente con i freni e gli aerofreni, detti

volgarmente alettoni, contribuiscono a far fermare l’aereo all’interno della lunghezza

della pista! Il compito degli inversori di spinta è quello di dirottare il getto di gas in

uscita dal motore in direzione opposta al moto dell’aereo in modo che la spinta anziché

spingere in avanti l'aereo funga da freno. Il loro funzionamento si basa su dei “tegoli”

metallici resistenti al calore ed opportunamente sagomati che, venendo immersi nel

getto di gas per azione di attuatori, il cui azionamento è comandato dai piloti che, in

funzione delle condizioni e della lunghezza della pista, possono anche modularne

l’intensità, lo deviano invertendone la direzione. Da qui la sensazione che hai provato

di sentire i motori salire nuovamente di giri! La temporanea inversione della direzione

in cui vengono espulsi i gas di scarico del motore, in avanti anziché indietro, produce

una cospicua azione frenante ed il loro utilizzo contribuisce in misura rilevante a

ridurre lo spazio totale d'arresto, che altrimenti avverrebbe con una percorrenza di

pista eccessiva, specialmente nel caso dei grossi aerei di linea e dei caccia ad alte

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prestazioni. In casi molto rari, gli inversori di spinta sono usati per permettere

all'aeroplano di muoversi all'indietro per abbandonare la piazzola di sosta e dirigersi

verso la pista di decollo!

- Interessante!

- Ma senti un po’, Bianca, che ne dici, vista ormai l’ora, di farmi compagnia per pranzo?

Avevo pensato di preparare un bel piatto di “panissa”, piatto tipico vercellese che mi

faceva sempre mia nonna.

- Perché, tu avevi una nonna vercellese?

- Certo! Insieme a mio nonno hanno dedicato una vita a coltivare il riso, il Sant’Andrea

che per loro era il migliore. E poi, coma da tradizione, ogni domenica a pranzo la

nonna faceva il risotto. Me la ricordo ancora in cucina, intenta a girare il riso sulla

stufa a legna con il suo immancabile grembiule legato attorno alla vita, che io mi

divertivo sempre a slegare, ed ad aggiungere il brodo fatto con la gallina per evitare

che attaccasse alla pentola e poi a sbuffare perché il riso era pronto e noi non eravamo

ancora seduti al tavolo!

- Ma come si fa la “panissa”?

- Devi preparare una cipolla, olio, lardo senza cotenna, un salame sottograsso, dei

fagioli freschi, quattro pugni di riso - mi raccomando, Sant’Andrea come diceva sempre

mia nonna! – mezzo bicchiere di Barbera, e del parmigiano grattugiato. Fai cuocere i

fagioli con il lardo in acqua non salata e nel frattempo prepari in una padella il soffritto

con olio, cipolla e pezzetti di salame sottograsso. Quando la cipolla è dorata, aggiungi

il riso ed amalgami il tutto. Aggiungi poi il vino, ma non tutto, fino a farlo evaporare, ma

mi raccomando, devi sempre mescolare durante la cottura! A questo punto metti un

mestolo di brodo di fagioli e lardo continuando ad aggiungerlo man mano che viene

assorbito.

Un po’ prima della fine della cottura aggiungi il parmigiano grattugiato e il vino che

avevi lasciato da parte.

- Mi hai convinto – esclamò Bianca, mentre tu prepari la pappa io apparecchio il tavolo!

E la nostra povera 500, non potendo partecipare al lauto pranzo, si accontentava di

godersi la frescura del castagno sotto cui era posteggiata respirando a pieni polmoni le

fragranze di un cespuglio di rose selvatiche poco distante!

Accanto a lei, parcheggiata un po’ di traverso e con le ruote anteriori ferme su di un

leggero avvallamento che terminava vicino alla cancellata in ferro che racchiudeva e

proteggeva il delizioso giardino, si trovava la Strada Lumberjack di Thomas.

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La 500 osservava la carrozzeria rossiccia lucida coma la sua, ma solo perché nuova di

zecca – diceva con un po’ di invidia! – con il frontale racchiuso da quattro faretti affogati

nelle vistosa modanatura in plastica nera e con i passaruota accentuati da fascioni in

plastica con viti a vista! Solo a guardarla venivano in mente gite in mezzo ai boschi,

mulattiere montane che conducevano a meravigliosi laghetti blu … in una parola: libertà!

La 500 vedeva Thomas che arrancava sui fornelli; si vedeva che “voleva fare lo splendido”,

ma era in evidente difficoltà! Non riusciva a coordinare i tempi del soffritto con i tempi del

brodo e nel momento topico del versamento del Barbera nella padella, quando la nuvola di

vapore prodotto dal vino a contatto con il caldo soffritto balzò verso l’alto, il poveretto per

scansarlo si versò il prelibato nettare sulla camicia!

Bianca, piegata in due dal ridere propose allo sventurato di dedicarsi alla tavola, che forse

ai fornelli era meglio lei perché altrimenti invece del pranzo avrebbero fatto un francescano

digiuno!

Ma il temerario ingegnere riacquistò il controllo della situazione chiedendo a Bianca quale

vino volesse per accompagnare la panissa; se della Barbera, del corposo Grignolino,

adorato dal Re Umberto I, o perché no, del nobile Nebbiolo, così chiamato perché il suo

acino scuro appare appannato (annebbiato, per l’appunto) oppure perché a causa della

sua maturazione tardiva si vendemmia nel periodo delle nebbie autunnali, perché, disse,

come diceva sempre la mia nonna “Il riso nasce nell’acqua, ma muore nel vino!”.

Finalmente i due si sedettero a tavola, e Thomas, contento di avere compagnia – e che

compagnia! – contrariamente al solito si aprì ed iniziò a raccontare con affetto il tempo

passato in campagna con la nonna che a distanza di anni da quando se ne era andata,

proprio il giorno della processione di Maria Ausiliatrice alla quale era molto devota,

ricordava ancora con molto affetto e tenerezza.

Il suo rimpianto era quello di non averla accompagnata nel suo ultimo viaggio, poiché per

lavoro si trovava all’altro capo del mondo!

E così, in un turbinio di ricordi, che come i mali segregati nel vaso di Pandora una volta

scoperchiato si avvinghiavano l’un l’altro freneticamente per guadagnare l’uscita, raccontò

a Bianca di quella volta che aveva accompagnato i nonni, che lui chiamava fin da piccolino

“nonni Bobi” (perché il loro cane si chiamava Bobi ed anche per distinguerla dall’altra

nonna, “nonna polpetta” perché per farlo mangiare faceva sempre le polpette di carne) in

campagna per la “monda”, cioè l’antico e faticoso lavoro che consisteva nello stare nella

risaia allagata con l’acqua alle ginocchia, ma per fortuna con i piedi all’interno di verdi

stivali di gomma, curvi per togliere le erbacce che impedivano la crescita delle deboli e

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fragili piantine di riso o per trapiantare le stesse dalle zone in cui ne erano cresciute

troppe nelle zone dove le piantine erano più rade!

- Sai, mi ricordo ancora il nonno sul trattore, un vecchio ma orgoglioso Fiat 411R nel suo

sgargiante colore arancio, con il suo cappello di paglia a dirigere le operazioni ed a

trasportare le piantine, adagiate delicatamente nella ruspetta, da una risaia all’altra,

mentre la nonna, con il suo largo cappello di paglia, due vecchie calze private della

tomaia infilate alle braccia per difendersi dalle zanzare e con la gonna lunga sollevata

fino alle ginocchia togliere o trapiantare le piantine di riso! Ero talmente contento di

stare nell’acqua che correndo inciampai cadendo in acqua e rimanendo completamente

bagnato!

Oppure quella volta che avevo accompagnato in bicicletta il nonno per verificare che gli

argini delle risaie non fossero stati minati dai topi che hanno la brutta abitudine di

costruire al loro interno i propri nidi con il risultato di farli cedere e quindi far svuotare

la risaia e lasciare il riso all’asciutto! Quante volte i nonni avevano riempito sacchi e

sacchi di terra per tappare queste falle! Il nonno aveva incontrato un suo amico e

siccome non finiva più di chiacchierare, stufo presi la bicicletta ed andai verso la risaia

dove stava lavorando la nonna che non vedendomi e non sapendo che ero andato con

il nonno era corsa a cercarmi. Ovviamente tornando e non vedendola corsi anch’io a

cercarla seguendo la strada che portava verso casa, ma alla fine ci incontrammo in

paese tirando entrambi un sospiro di sollievo!

E poi che festa a settembre quando si tagliava il riso! Quante volte sono salito nella

cabina della mietitrebbia che con la sua ruota uncinata mieteva le spighe del riso

fagocitandole nel suo ventre irto di setacci da cui usciva la paglia che, terribilmente ed

implacabilmente, si attaccava alla pelle causando un prurito irrefrenabile! E poi, mi

vedo, io piccolino, in cima ad una montagnola di riso, con una pala in mano più grossa

di me che aiuto i nonni ed anche papà ad alimentare la vite di Archimede per far andare

il riso nel seccatoio o per farlo andare “nel ventolino”, un vecchio setaccio elettrico

costruito in legno, che i nonni usarono fino all’avvento del nuovo setaccio in metallo,

un’alta torre con una serie infinita di setacci abbarbicati su di una struttura metallica

che sfiorava il tetto del capannone!

E quasi con le lacrime agli occhi si ricordò di quando la domenica si metteva i

pantaloni bianchi per andare alla “messa grande”, cioè la messa delle undici, e la nonna

vedendolo scendere tutto “fighetto” dalla scala, gli cantava sempre “Padron daj braje

bianche föra i palanchi föra i palanchi …”. Accorgendosi che Bianca non capiva il suo

stentato Piemontese, idioma che aveva sentito parlare a casa fin dalla culla, ma di cui

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oggi se ne vanno perdendo le tracce, decise di tradurre le poche parole della canzone

che si ricordava “Padrone dai pantaloni bianchi, tira fuori i soldi, tira fuori i soldi …”.

Bianca rimase sorpresa da quelle confidenze. Era da tanti anni che vivevano nella stessa villa,

ma non l’aveva mai sentito parlare della sua fanciullezza e non immaginava neppure di trovare

un cuore pulsante di ardore in una fredda e filiforme armatura di ghiaccio!

- E di tuo nonno, non racconti nulla?

- Beh, mi ricordo che aveva una predilezione per la 600 celestina ma soprattutto per il

suo trattore. Anche da anziano e zoppicante, aveva rinunciato a guidare la 600, ma il

suo trattore no, per nulla al mondo lo avrebbe abbandonato!

Zoppicava da una gamba perché, così mi aveva raccontato, da giovane per evitare che

il carro trainato da un cavallo slittasse e tornasse indietro si era lanciato verso il

cavallo per fermarlo, ma scivolando era stato schiacciato da una ruota del carro.

Portato all’ospedale di Vercelli era uscito con una gamba ingessata, ma siccome

doveva andare a lavorare in campagna, aveva tagliato il gesso a mo’ di stivaletto.

Tornato all’ospedale per un controllo, era uscito ingessato fino al bacino!

Subito dopo la guerra aveva acquistato a rate il trattore, uno dei primi del paese. Mi

ricordo ancora il suo muso sottile con quei due fari ai lati e con la griglia del radiatore

divisa in due sezioni. Aveva l’espressione un po’ triste, ma comunque simpatica. Pensa

che in inverno, quando rientrava dalla campagna, svuotava il circuito di raffreddamento

per evitare che gelasse e quindi, tutte le volte che doveva usarlo, mi ricordo che faceva

mettere sulla stufa a legna da mia nonna tante pentole piene di acqua che faceva

scaldare e che poi versava nel serbatoio dell’acqua. E poi, da piccolino, mi aveva

insegnato ad accenderlo; prima devi dare mezzo giro alla chiave, poi ruoti questa leva e

la tieni ferma in questa posizione contando fino a sessanta e poi dai contatto. Ed

improvvisamente, in una nuvola di fumo nero, il motore scoppiettando si metteva in

moto!

Sistemato il trattore aveva poi comprato la macchina, una 600 D celestina, sempre

comprata a rate, che mia nonna pagava vendendo il latte delle mucche. Quando ero

piccolino mi chiamava per farmi vedere come girare la farfalla nella posizione “Inverno”

per la stagione fredda o “Estate” per quella calda!

Incuriosita Bianca chiese a Thomas perché le risaie in primavera venivano allagate; la aveva

notate un giorno quando a bordo della sua 500 stava correndo l’autostrada verso Milano ed

era rimasta incantata dall’enorme distesa d’acqua che come un enorme specchio rifletteva il

mondo superiore giocando con le bianche nuvole che temerarie lo stavano solcando!

La 500, invece, cercava disperatamente di vedere riflessa la sua sinuosa ed elegante fiancata

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orgogliosa di mostrarla a quei poveri e goffi trattori che a parte le grandi ruote potevano

vantare solo impietose macchie fangose sulle scarse lamiere colorate. Anzi, si chiedeva come

facevano a non sentirsi imbarazzati, quei rudi veicoli, che avevano l’impudenza di mettere in

mostra i loro poderosi motori quasi tutti verniciati in nero!

- Devi sapere che in Piemonte il riso è coltivato in modo estensivo dal XV secolo in

particolare nelle zone del Vercellese e del Novarese, come riportano alcune testimonianze

scritte che parlano di commercio del risone tra il Duca di Milano ed il Duca di Ferrara il

quale inviò al Milanese numerosi sacchi del prezioso alimento perché ne sperimentasse le

coltivazioni nelle sue terre che allora comprendevano anche parte del Piemonte orientale.

Per consentirne la coltivazione, si effettuarono ingenti opere idrauliche come la

canalizzazione delle acque che vennero imbrigliate in argini con guide in fossi poiché per

la coltivazione del cereale sono necessarie ingenti quantità di acqua per la sua crescita

poiché l’acqua permette di attenuare gli sbalzi termici tra il giorno e la notte che potrebbero

danneggiarlo. Inoltre in quella zone del Piemonte erano presenti numerosi fiumi in grado di

garantire le ingenti quantità di acqua richieste per la sua coltivazione.

La semina del risone, preventivamente ammollato in acqua per evitare che una volta

seminato galleggi nella risaia, avviene in primavera con la risaia già allagata.

Successivamente si procede a più fasi di diserbo; inizialmente si eliminano le alghe e le

piante infestanti e successivamente si elimina il crodo facendo passare dei trattori, muniti

di ruote in ferro con speroni appuntiti, nella risaia con a bordo un filo teso su cui è fatto

arrivare da un apposito serbatoio del diserbante. Il filo viene tenuto ad una certa altezza

per andare a colpire solo la spighe del crodo, una pianta simile al riso, ma considerata

infestante perché i suoi cicchi hanno la tendenza a cadere prima del periodo della raccolta

del riso.

- E come fanno ad eliminare solo il crodo e non il riso buono? – chiese Bianca

- Semplice, perché la pianta di crodo ha un’altezza maggiore della pianta di riso e quindi

tenendo sufficientemente alto il filo si riesce a colpire solo la pianta infestante!

- E poi?

- Poi verso l’estate le risaie vengono asciugate a da settembre è possibile procedere con

la trebbiatura. Pensa che mi raccontava la nonna, che in primavera, quando allagavano

le risaie, i contadini gettavano nell’acqua delle carpe che poi ripescavano facilmente in

estate quando toglievano l’acqua alle risaie!

Non si erano ancora spenti gli echi dei ricordi di Thomas, quando improvvisamente nella

stanza riecheggiò la Marcia alla Turca di Mozart.

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- Questi sono sicuramente guai! – esclamò Thomas.

Infatti, alzata la cornetta del cordless, Thomas fu risucchiato come da un vortice dai problemi

del suo lavoro. Stava infatti seguendo la costruzione della centrale di Corso Regina, già,

proprio quella che aveva riacceso i ricordi della nostra 500 mentre viaggiava sul pianale del

furgone giallo limone. Era un progetto importante perché doveva garantire la produzione di

energia elettrica, ma nello stesso tempo produrre anche acqua calda per il teleriscaldamento

di Torino.

Torino, la città più teleriscaldata d’Italia ed una delle prime in Europa; con questa nuova

centrale la città sarebbe riuscita a coprire il 55% del suo territorio liberando quindi l’aria dalle

polveri sottili e dall’inquinamento che ormai frequentemente creavano una nuvola rossastra

perennemente stabile sulla città. La 500 non la sopportava; era frustrante passare, nel giro di

qualche curva, dall’aria fresca della villa su in collina a quell’aria rossastra e pesante della

città! La dispettosa nuvola sembrava il passaggio segreto che dalla foresta conduceva al

villaggio dei Puffi o il vortice magico che dalla grotta conduceva i Puffi alla città di New York

come mostravano le locandine affisse per la città che pubblicizzavano un film con quei buffi e

simpatici personaggi blu dal cappello e pantaloni bianchi!

Al termine della telefonata, congedandosi da Bianca ed accompagnandola verso la porta che

dava direttamente sul cortile e ringraziandola per la piacevole mattinata trascorsa insieme,

disse:

- Scusa, ma devo andare in cantiere perché stasera dobbiamo portare la turbina a gas in

centrale e dobbiamo organizzare il suo passaggio per la città con i Vigili e la Polizia

Stradale.

- Una turbina a gas? Ma non servono per far volare gli aerei?

- Servono anche per produrre energia! Se, infatti, la fissiamo al terreno, possiamo

produrre energia collegando la turbina con un alternatore e possiamo sfruttare i suoi

gas di scarico, che escono dalla turbina a circa 500°C inviandoli in una caldaia dove

opportune tubazioni trasformano l’acqua in vapore che può essere usato per dei

processi produttivi, come nel caso di stabilimenti alimentari o farmaceutici, per

produrre calore con un impianto di teleriscaldamento, o inviato ad una turbina a

vapore, a sua volta collegata con un generatore, per produrre altra energia.

- Incredibile! Ma scusa, perché devi mobilitare tutte queste persone per farla arrivare in

centrale?

- Devi sapere che la turbina a gas in questione pur essendo stata costruita a Genova,

cioè a circa 200 chilometri da qui, dato il peso di circa 300 tonnellate che nessun

camion sarebbe stato in grado di trascinare su per le montagne che separano il

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Piemonte dalla Liguria, ha seguito un lungo viaggio per mare fino a Mestre. Quindi è

stata caricata su una chiatta e trasportata via fiume per 382 chilometri fino a Piacenza

dove si interrompe la navigabilità del Po e poi è stata caricata su di un pianale

speciale.; stasera, finalmente, arriverà in cantiere. Però a parte il peso, questa turbina

rimane comunque un colosso di 15 metri di lunghezza per 2,5 metri di diametro e quindi

è necessario muoverla con molta cautela per le vie della città! Ecco spiegato perché

tanto spiegamento di forze!

Un po’ dispiaciuto, Thomas, chiusa dietro di sé la porta salutò Bianca e salito sulla sua

Strada si diresse verso la città conscio che quella giornata sarebbe finita molto tardi …

sempre sperando che non sorgessero intoppi!

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Finalmente a destinazione

Un nuovo sobbalzo scosse le sospensioni della 500 che si ridestò dalla marea di ricordi che

aveva invaso la sua centralina.

Si guardò intorno per cercare un paesaggio amico, ma si trovò sperduta in mezzo alla

campagna che si stava tingendo di verde interrotta qua e là solo da qualche capannone.

Poi da lontano vide la grande scritta “Ikea” e si ricordò di essere sulla strada che conduce alla

Reggia di Venaria. Ormai era già da più di un’ora che stava viaggiando per Torino a bordo del

furgone e non vedeva ancora la fine di questo strano viaggio nel tempo!

Il furgone rallentò e poi si fermò per consentire ad una vecchia Panda bianca piena di polvere

e fango di svoltare in una strada sterrata.

E la 500 fu sommersa nuovamente dai ricordi.

Era la mattinata di una domenica di inizio estate; lei era dentro i locali di un concessionario

insieme ad altre auto nuove e fiammanti tutte preoccupate del loro futuro.

Chi sperava di trovare uno sportivo che sapesse sfruttare il suo motore, chi la lavasse tutte le

settimane, chi sperava di non finire in una famiglia con tanti bambini che avrebbero rovinato i

sedili con i resti delle perpetue merende e con le scarpe …

Lei, invece, voleva una persona che la sapesse apprezzare per la sua eleganza e la sapesse far

sentire una regina nel traffico quotidiano.

Ad un certo punto nel parcheggio del concessionario si fermò una Lybra blu, con gli interni

crema e dei bei cerchi in lega che lasciavano vedere i dischi lucidi dei freni e le potenti

pastiglie. Si notava che aveva percorso tanta strada dalle piccole righe e da qualche bollo di

troppo che faceva capolino dalla fiancata. Dalla Lybra scesero un papà, una mamma ed una

ragazza alta e snella, con due occhi verdi e dei biondi capelli. Aveva una maglietta lilla ed i

pantaloni neri che arrivavano alle caviglie che però erano scoperte. Ai piedi aveva due scarpe

aperte dietro e con un tacco non eccessivamente alto.

Il gruppo entrò nel concessionario e si fermò a guardare una Panda color violetto con cerchi

in lega che stilizzavano una stella e portapacchi all’americana. Il papà prese subito possesso

del posto guida elogiandone le finiture e l’ergonomia, mentre la bionda ragazza, dopo aver

dato una veloce occhiata tutt’intorno si era avvicinata alla 500, le aveva passato la mano sulla

carrozzeria, aveva apprezzato il buffo musetto e poi era salita a bordo. Aveva impugnato il

volante, provato il cambio, chiuso lo sportello e poi si era lasciata sfuggire una frase che

l’aveva subito conquistata: “sei bellissima, sembri un’opera d’arte, con te mi sentirei una regina

nel traffico!”.

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Poi era scesa ed aveva raggiunto i genitori che stavano discutendo con il venditore del prezzo

e delle dotazioni della Panda.

La 500 fu presa dalla voglia di distruggere la rivale, ma non poteva muoversi; inoltre non

poteva far suonare l’antifurto né lampeggiare … però non poteva farsi scappare quella ragazza

che aveva colto la sua essenza e avrebbe saputo come renderla felice!

Ricevuta copia del preventivo, la famigliola si avviava all’uscita, ma la bionda ragazza prima di

uscire andò verso la 500 per vederla per l’ultima volta.

Qualche giorno dopo, la 500 vide arrivare nuovamente la Lybra blu, ma dalla macchina

scesero solo il papà e la mamma.

- Ecco, pensò, vengono per prendere la Panda!

Ma con somma sorpresa una volta entrati nel negozio si diressero verso al 500; il venditore,

riconosciuti i potenziali clienti, si avvicinò ed iniziò a parlare. La 500 non poteva credere alle

sue casse stereo; non erano venuti per la Panda, ma per lei!

La figlia si sarebbe laureata in Architettura la settimana successiva e come regalo i suoi

genitori volevano regalarle la sua prima macchina come augurio di una prospera vita

professionale, ma soprattutto di una vita spensierata e felice.

In realtà pensavano di regalarle una Panda, essendo una vettura piccolina come chiedeva la

mamma, ma un po’ alta per proteggerla nel traffico come voleva il papà; ma il gusto artistico

per le cose belle aveva spinto la ragazza verso la 500 e loro non avevano potuto non notarlo.

In meno di un’ora l’acquisto era stato concluso e per la 500 sarebbe iniziata una nuova

avventura! La 500 era talmente contenta che non notò la delusione della concorrente.

Il tempo passava velocemente, ma l’unica novità per la 500 era stata il trasloco dall’autosalone

all’officina dove dopo esser stata preparata per la nuova destinazione era stata tristemente

abbandonata tra macchine in attesa di riparazione, auto incidentate e vetture a cui la polvere

accumulata tristemente sulla carrozzeria assegnava un triste destino.

Poi all’improvviso vide una persona sconosciuta che presi i documenti e le chiavi salì e mise in

moto facendo provare alla 500 la novità del traffico cittadino.

La 500 tutta agitata pensava ad un errore, non poteva andare con uno sconosciuto, doveva

essere della ragazza dai capelli biondi e dagli occhi verdi!

Dopo qualche isolato una prima sosta, da un distributore per fare il primo rifornimento;

e pensare che le prime stazioni di servizio furono inventate solo nei primi decenni del

Novecento, cioè molti anni dopo la diffusione delle prime vetture a motore. Infatti agli albori

delle auto, i carburanti erano venduti in contenitori sigillati in drogheria!

- Mi raccomando, pensava, non fare colare il gasolio che mi macchia la bellissima

vernice!

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E poi di nuovo via nel traffico verso una destinazione ignota. I semafori scorrevano veloci e

poi finalmente l’ingresso in tangenziale. Una curva stretta a sinistra e poi subito a destra, un

breve rettilineo affrontato in accelerazione e poi una violenta frenata con inserimento rabbioso

a destra, in un curvone che sembrava non finire mai! Il guidatore, sicuro di sé, affondò il piede

nell’acceleratore e la 500 schizzò via come un fulmine. Prima verso l’interno della curva oltre

la zona zebrata e poi all’esterno quasi a sfiorare il guard rail e poi di nuovo all’interno e poi, a

freccia alzata, eccola infilarsi in autostrada tra due camion che pesanti stavano portando i

loro carichi. Che balla galoppata dopo intere settimane passate immobile dal concessionario.

In un baleno erano già al curvane di Bruere affrontato sempre con cipiglio sportivo: frenata

violenta, scalata in manuale e poi via verso l’interno della curva e poi all’esterno per aggredire

il successivo rettilineo! E via veloci fino allo svincolo di Venaria, dove la 500 affrontò una

curva a sinistra e poi una a destra rallentando fino a fermarsi al successivo semaforo. Da qui,

dopo aver svoltato a sinistra di nuovo nel traffico caotico ad affrontare una serie di rotonde

che il guidatore pennellava in modo “rude” obbligando al 500 a saltare sul piccolo scalino che

delimitava la rotonda.

La 500 già prevedeva un futuro fatto di bolli, graffi, ammaccature …

Dopo esser passati su di un ponte, alla rotonda successiva un’altra svolta a sinistra e poi una

lunga strada in ciottoli di pietra che sembravano volessero testare la sua solidità.

Al termine della strada, però, la 500 sgranò tutti i suoi faretti; da dietro una piccola torretta

con un grande orologio a sfondo bianco, da una fontana immaginaria uscivano tanti getti di

acqua che trafitti dai raggi solari brillavano d’arcobaleno.

E sullo sfondo un bellissimo palazzo con una bianchissima facciata.

Il tempo passava, ma la 500 era sempre immobile sotto gli alberi che fiancheggiavano la strada.

Per ingannare il tempo e non pensare al suo destino, la giovane vettura guardò meglio il

vecchio palazzo. Da dietro le cancellate che delimitano il cortile d’onore si fermò a guardare la

Reggia di Diana dal suo bel colore bianco e poi, sulla sinistra una lunga galleria con molte alte

porte che culminava con una strano tetto blu, lo stesso che da lì a poco avrebbe descritto la

sua vita con Bianca.

Ad un certo punto, un grande autobus bianco, con una grande disegno che raffigurava una

costruzione che alla 500 sembrava un castello arroccato su di uno sperone di roccia si fermò

a pochi passi da lei.

Non sapeva che quello scarabocchio altro non era che la Sacra di San Michele, scelta dalla

Regione Piemonte come monumento simbolo per rappresentarla nel Mondo. La Sacra di San

Michele è un complesso architettonico collocato sul monte Pirchiriano, all'imbocco della Val di

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Susa costruito sui resti di un presidio fortificato di epoca romana successivamente rafforzato

dai Longobardi per difendere il loro territorio dalle incursioni dei Franchi. Il Monastero

Nuovo, di cui oggi rimangono solo le rovine, venne edificato nel luogo in cui probabilmente

sorgeva la fortificazione di epoca romana ed è rimasto nella mente e nei racconti degli anziani

per la leggenda della Torre della bell'Alda. La tradizione racconta che una fanciulla, chiamata

bell’Alda, volendo sfuggire dalla cattura di alcuni soldati di ventura, si ritrovò sulla sommità

della torre; dopo aver pregato, disperata, preferì saltare nel burrone piuttosto che farsi

prendere, ma le vennero in soccorso gli angeli che la sorressero e la posarono delicatamente a

terra. La ltradizione vuole che, per dimostrare ai suoi compaesani increduli quanto era

successo, tentasse nuovamente il volo dalla torre, ma che per la vanità del gesto ne rimase

uccisa non avendo più ricevuto il soccorso degli angeli.

Una valanga di turisti, muniti di macchine fotografiche di tutti i colori e dimensioni si affollò

intorno alla sua carrozzeria e con meraviglia notò che alcuni scatti erano dedicati a lei. Solo

allora si accorse che lo spericolato autista, prima di abbandonarla l’aveva ornata con alcuni

fiocchi rosa; alcuni erano agganciati agli specchietti retrovisori, uno alla sua piccola antenna

posteriore ed un lungo nastro rosa che partiva dal parabrezza e finiva in un grande fiocco che

incorniciava il suo bel musetto. Si sentì orgogliosa di competere con quella vecchia

costruzione a cui lei non dava alcuna importanza. Ma poi, distrattamente, si fermò ad ascoltare

la spiegazione della guida che ormai come un automa ripeteva da anni la stessa pappardella.

Esordì con una frase in una lingua, che lei, povera 500 nata nella lontana Polonia non

conosceva e non capiva, ma presto le sarebbe diventata famigliare.

Un detto di queste parti recita che: “Chi a vëd Turin e nen la Venaria, a vëd la màre e nen la

fija”. Mossa a compassione delle stralunate facce del suo uditorio la guida tradusse i quindi

l’arcana frase: “Chi vede Torino e non la Venaria, è come se incontrasse la madre, ma non la

figlia!”.

La reggia, proseguì la guida, fu fatta costruire nel 1659 dal Duca Carlo Emanuele II per emulare

e possibilmente superare la famosa Reggia di Versailles. Il progetto, però, prevedeva di

modellare intorno alla reggia anche il borgo che doveva servire per alloggiare le persone

addette alla cura della corte ed anche i membri di basso rango della corte stessa. Inoltre

doveva servire per garantire il sostentamento economico della reggia. Infatti il borgo di

Venaria diventò un famoso e redditizio centro per l’allevamento del baco da seta necessario

per la produzione della seta da cui si ottenevano, con la sapiente lavorazione degli artigiani

del borgo, splendidi arazzi, damaschi, sete, velluti venduti in tutta Europa.

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Raccontò quindi che la bachicoltura cominciò ad essere praticata in Cina, probabilmente già

nel VII millennio a.C. e la leggenda dice che la sua nascita si deve all'imperatore Xi Ling Shi.

Per millenni fu un procedimento tenuto segreto, in modo da poter mantenere il monopolio

cinese della produzione della seta. Infatti, la conoscenza delle tecniche di allevamento del baco

da seta giunse in Europa solo intorno al 550, attraverso l'Impero bizantino; la leggenda dice

che dei monaci agli ordini dell'imperatore Giustiniano furono i primi a portare a Costantinopoli

alcune uova di baco da seta nascoste nel cavo di alcune canne per non farsi scoprire.

Dopo un infinito elenco di ambienti, pittori, decoratori si soffermò a parlare di una Grande

Galleria, famosa nel mondo e poi delle scuderie e delle Citroniere.

Al momento la Grande Galleria non provocò alcuna emozione alla 500, ma in seguito, ogni

volta che sentiva quella parola, la 500 avvertiva come un fremito, poiché era stata proprio la

Grande Galleria a segnare il destino di Bianca, il suo gusto estetico e quindi, anche il suo

legame con lei.

Bianca, infatti, un giorno che andava a fare shopping con una sua amica per Torino, le

raccontò come mai avesse deciso di seguire i corsi di Architettura e di votarsi all’Arte.

Bianca raccontò della sua prima visita alla Reggia di Venaria, quando era ancora

abbandonata a se stessa dopo un passato come caserma, ancora circondata da un deposito

militare dove sagome scure di veicoli nati per la guerra erano poi morti in nome della pace.

Era un pomeriggio di un sabato di metà autunno; lei, insieme ad un’amica ed al suo ragazzo,

avevano deciso di passare un pomeriggio diverso, dedicato ad uno svago colto, anziché ai

soliti pomeriggi a zonzo per la città senza una meta e senza un perché!

Faceva freddo poiché l’unico ambiente riscaldato della reggia era la Galleria Grande. Che

tristezza vedere i segni che le travi dei soppalchi avevano lasciato sui muri affrescati! Che

nodo alla gola vedere stupende pareti ornate di preziosi affreschi deturpate dalla vernice

verde dei militari e divinità trionfanti sminuite da gelide scritte quali “Max 40 q.li”, “Vietato

fumare” …

In Bianca prese corpo un senso di ribellione, un sacro fuoco che l’avrebbe votata alla difesa di

quei capolavori che ben rappresentavano il cammino dell’Uomo nella Storia! E poi, come

premio per la missione che avrebbe intrapreso, il meraviglioso, coinvolgente, estatico incontro

con la Grande Galleria.

La “Galleria di Diana”, nome forse mai più azzeccato per la Galleria Grande, immenso

corridoio di 80 metri, rivestito di uno spettacolare pavimento a rombi in marmo bianco di

Carrara e verde di Susa, con una fuga di innumerevoli finestre che la cingono su entrambi i lati

e da cui la luce invade lo spazio inondando e travolgendo l’ammirato spettatore! L’orgia di

stucchi che dalle finte colonne raggiungono il soffitto a 15 metri di altezza creando meravigliosi

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decori e poi i due portoni d’accesso, con due austere colonne grigie che come cariatidi

innalzano sul timpano due corone che con un asapiente gioco di luce dovevano cingere la

testa del re al suo ingresso!

Tempio della luce voluto da Juvarra, per esaltare la maestà e la regalità del suo pensiero, della

sua arte e della sua capacità di far vivere gli ambienti sfruttando con sapienza il variare della

luminosità dell’enorme fornace solare nell’arco della giornata!

Bianca si ricordava della luce che variava tra il giallo e l’arancione e che colorava il pavimento

con le loro ombre. Era rimasta immobile a contemplare lo spettacolo, ferma per non rovinare

l’incanto della visione, con la speranza che l’eternità cogliesse lo stupore dei suoi occhi e

l’esaltazione del suo spirito!

Da questo mare di sensazioni, da questa indigestione di colori maturò l’idea di seguire

l’Architettura che in modo così sorprendente le chiedeva di diventare una sua discepola!

La guida proseguì quindi parlando delle citroniere, soffermandosi a parlare di trompe d’oil

raffiguranti immaginarie finestre che si aprivano su altrettanti immaginari paesaggi e che si

contrapponevano agli specchi collocati sulla parete prospiciente per rilanciare l’illusione di

trovarsi nel mezzo della campagna e delle scuderie in grado di ospitare anche 320 cavalli

suddivisi in tre ambienti intercomunicanti dedicati alla loro cura. Le due gallerie, poi, erano

messe in comunicazione tra di loro tramite dei condotti in modo che d’inverno il calore dei

cavalli presenti nella stalla potesse arrivare anche alle citroniere per conservare al caldo sia le

piante di bergamotto che facevano di Venaria un vanto nelle Corti Europee del tempo, che i

vasi dei fiori che ornavano il meraviglioso giardino di circa 80 ettari con più di 1400 alberi,

7500 cespugli e 3000 rosai.

La 500 pensava di potersi riposare gli specchietti, quando un impudente ragazzino, munito di

spessi occhiali rotondi, domandò alla guida spiegazioni sul bergamotto a cui lei rispose

immediatamente. Spiegò che il nome derivava da una parola araba che si poteva tradurre in

“pero del Signore”, mentre la sua origine non era ancora stata determinata con precisione. La

pianta, però, occupava un posto di riguardo nei tempi passati, poiché dal bergamotto si

ottenevano unguenti e medicinali (visto il suo potere antisettico ed antibatterico), estratti per

sciroppi o per aromatizzare altre bevande come ad esempio il tè, e poi perché dal bergamotto

si potevano ricavare oli essenziali per i profumi ed in un’epoca in cui lavarsi, anche tra la

nobiltà, era una prassi alquanto sconosciuta, il profumo era l’unico modo per cercare di

coprire l’olezzo della corte!

Come conclusione della recita, la guida, con un sorrisetto malizioso ammonì l’uditorio a non

avventurarsi nella reggia di notte per non incontrare il fantasma che si aggira per le vuote e

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buie stanze; infatti, si racconta che in alcune notti il fantasma del Duca Vittorio Amedeo II,

molto legato alla reggia, avvolto in un nero mantello, accompagnato dal suo fiero destriero

bianco che tiene per le briglie con la mano sinistra, con una torcia, ma qualcuno dice anche

con un candeliere in oro, si aggira per le scuderie e per la citroniera accompagnato dal

profumo del bergamotto.

A quelle parole la 500 rabbrividì, anche perché i fidi raggi solari incominciavano a lasciare il

posta al delicato pallore della luna …

- Ecco, pensò, avevo tanta voglia di scappare dal salone del concessionario, ma adesso

avrei voluto la compagnia di quella smorfiosetta Panda violetta che voleva soffiarmi la

bella ragazza bionda che sicuramente non rivedrò più! E se dovessi vedere il fantasma,

cosa faccio?

Chiuse i due specchietti e si fece silenziosa.

Riaprì i faretti in tempo per vedere lo spettacolo della Fontana del Cervo; incredibili getti di

acqua si alzavano verso il cielo fino a 30 metri di altezza cambiando colore al suono della

musica che si diffondeva nel parco. La facciata della Reggia si colorava all’unisono con la

fontana creando un’atmosfera incantata.

All’improvviso una dolce melodia rapì la 500; era la Water Music di Handel, composta nel 1717

dal famoso componitore per accompagnare Re Giorgio I d’Inghilterra nel suo tragitto sul

Tamigi e per portare anche a Londra il fasto delle feste veneziane che si tenevano sulle barche

che transitavano orgogliose e trionfanti sul Canal Grande.

Il tempo sembrava sospeso nella magia del luogo. Poi all’improvviso la 500 vide uscire da una

porta laterale della reggia una ragazza bionda in un tailleur nero che ne faceva risaltare la

bellezza ed eleganza accompagnata da un gruppetto di persone. Spalancò i faretti credendo di

sognare, ma alla fine riconobbe la dolce ragazza che la settimana prima le aveva accarezzato

la carrozzeria e le aveva sussurrato la sua ammirazione!

Il papà le diede una scatola di legno lucido che la ragazza aprì subito e ne estrasse un mazzo

di chiavi blu con un simbolo rotondo ornato di alloro! Subito capì, si guardò intorno e poi alla

fine i suoi occhi incrociarono i faretti della 500. Con un balzo la raggiunse e ne prese

possesso! Finalmente il sodalizio, che la 500 credeva spezzato per sempre, si ricompose. Dopo

l’emozione, la ragazza corse dai genitori e li abbracciò, contenta del regalo che non si

aspettava di ricevere.

Che emozione il viaggio verso la sua nuova casa! Bianca, con una delicatezza fino allora

sconosciuta alla 500, la condusse premurosa verso la tangenziale e da qui verso Sud, verso il

destino che aveva deciso di unire le sorti di due meravigliose principesse che si stavano

affacciando alla vita, a quella vera vita a cui sono chiamati gli uccellini quando tremanti ed

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intimoriti devono lasciare l’accogliente nido per affidarsi alle loro alette inesperte, ma che in

breve e con tanti tentativi a volte buffi, alle volte drammatici, li renderanno abili veleggiatori,

temutissimi rapaci o tenerissimi passerotti!

Ma Bianca quella sera era troppo frastornata per rientrare subito a casa; era ancora

emozionata per la mattinata che aveva coronato con successo il suo corso di studi, quando,

dopo aver discusso la tesi che tanto l’aveva impegnata e che riguardava una proposta di

restauro di alcuni ambienti del Castello di Agliè, aveva ricevuto l’agognata pergamena dalle

mani del Magnifico Rettore nel sottofondo entusiasta di un centinaio di mani che celebravano

ogni nuovo dottore!

Decise quindi di andare sul suo balcone preferito, quello da cui, nei momenti di sconforto

abbracciava la sua Torino, la sua città, il suo piccolo mondo!

La 500 per la prima volta si aggirava tra stradine strette e tortuose, che si inerpicavano sui

fianchi di un poggiolo naturale. Ed ecco che in cima, a coronamento della salita, davanti ai fari

della 500 si aprì per la prima volta lo spettacolo delle luci di Torino. Corso Francia, illuminato

da centinaia di lampioni, sembrava volesse guidare lo sguardo ammirato della 500 verso il

cuore pulsante di Torino; un lungo e dritto sentiero luminoso che faceva della 500 un aereo in

avvicinamento alla sua destinazione.

E alle sue spalle il Castello di Rivoli, opera incompiuta dei Savoia, ultimo baluardo prima della

Val di Susa, luogo fortificato dalla notte dei tempi, silenzioso spettatore dell’epica battaglia che

contrappose Carlo Magno, Re dei Franchi, a Desiderio, Re dei Longobardi. Qui si svolsero le

vicende raccontate da Manzoni nell’Adelchi, qui si infranse l’estremo tentativo di difendere

l’Italia Longobarda dall’invasione Franca.

Da qui si compì il destino di Ermengarda che cedette il passo ad un nuovo capitolo della storia

d’Italia, ma consacrò con Manzoni la sua figura di fanciulla innamorata!

E mentre la 500 osservava Bianca seduta sul muretto assorta nella contemplazione del

meraviglioso panorama, la 500 fu distratta da un’ombra che si aggirava nella Manica Lunga,

unico reperto di quella galleria d’arte che avrebbero voluto realizzare i Savoia. Ero uno strano

personaggio; si aggirava per la galleria con fare meditativo, grattandosi continuamente il

pizzetto che gli circondava il mento. E poi, quando un pallido raggio di luna lo inquadrò, la

500 notò che l’ombra in realtà era una persona completamente vestita di verde.

- Che strano tipo, pensò la 500, ma a casa sua non ci sono specchi? Come si fa ad andare

in giro vestiti in modo alquanto bizzarro e sicuramente poco fashion?

Chissà se il Conte Verde, al secolo Amedeo VI di Savoia, udì lo stravagante commento della

giovane impertinente! Come era lontano il tempo in cui il suo nome spaventava i nemici!

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Già, Amedeo VI, un personaggio alquanto complesso o come diremmo noi oggi, “particolare”:

dall’età di nove anni fino all’età di quarantacinque, rispettò il voto di digiuno al venerdì e al

sabato e di astensione da carne e pesce al mercoledì, lavando ogni venerdì santo i piedi a

dodici poveri. Si dedicò a dure penitenze, compiendo frequenti pellegrinaggi ed elargendo doni

ai monaci, pur amando la caccia, il gioco d’azzardo e gli scacchi. Ricorse a prestiti consessi

addirittura dai suoi servi. Amava circondarsi di menestrelli, giocolieri e giullari e, passione

comune anche alla sua discendenza, tesse romantiche e appassionate avventure sentimentali.

Ma in quella meravigliosa, fresca, stellata sera tutto questo non contava; era nato un legame

profondo tra una vettura e la sua guidatrice!

Ad un certo punto la 500, ridestatasi dall’emozione dei ricordi, scorse dopo una successioni di

rotonde uno strano palazzo, realizzato con grandi archi in cemento armato che sorreggevano

un corpo completamente vetrato.

- Che strano palazzo, pensò, sembra che galleggi nell’aria!

Non sapeva che quello strano palazzo in realtà era stato realizzato di un grande architetto del

Novecento, un certo Niemeyer, autore della città di Brasilia e di molte altre meraviglie

architettoniche.

Il palazzo si affacciava su due piscine triangolari che la 500 riusciva a scorgere dal pianale.

Sembrava che ci fossero dei festeggiamenti in corso, perché alcuni violini stavano

accompagnando il banchetto di alcune persone più concentrate ad avventarsi sulle cibarie

posate su alcuni tavoli che alle dolci note che la 500 riconobbe subito; stavano infatti

suonando le “Quattro stagioni” di Vivaldi, detto il Prete Rosso per il colore dei suoi capelli.

Ma queste note, che stavano esaltando la natura che in primavera si risveglia dopo il lungo

inverno, contribuirono a rattristare la 500 che si ricordò di quando Giulia, un’amica di Bianca

che stava studiando violino al Conservatorio, e grande appassionata del prete rosso, le

raccontò che la Biblioteca Nazionale di Torino conserva la più grande raccolta di spartiti

autografi dell’illustre “sconosciuto” compositore. Di fronte allo stupore di Bianca, Giulia le

raccontò per sommi capi l’epopea degli spartiti perchè più che un racconto, le confidò Giulia,

sembra un romanzo di avventura.

- Devi sapere, esordì, che nell'autunno 1926, il direttore del Collegio Salesiano San Carlo

di Borgo San Martino dovendo procedere ad alcuni lavori di manutenzione del tetto

dell’edificio ebbe l'idea, per raccogliere i fondi necessari, di mettere in vendita gli

antichi manoscritti musicali che possedeva la biblioteca del Collegio. Al fine di

conoscere il prezzo da proporre agli antiquari, sottopose gli spartiti al musicologo e

direttore della Biblioteca Nazionale di Torino, che affidò questo lavoro ad Alberto

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Gentili professore di storia della musica dell'Università. I volumi contenevano ben

quattordici opere di Antonio Vivaldi, musicista che dopo la sua morte cadde nell’oblio,

ma anche opere di Stradella e di altri compositori. Ovviamente Gentili, conscio della

scoperta, cercò di convincere la Biblioteca Nazionale ad acquistare i volumi, ma, come

spesso accade alle biblioteche, servivano soldi, che la Biblioteca non possedeva.

Gentili non si perse d’amino e convinse un ricco agente di cambio, Roberto Foà, ad

acquistare i volumi per poi donarli alla Biblioteca. Ma analizzando i manoscritti con più

calma, Gentili si accorse che questi erano solo una parte di una raccolta ben più vasta

e caparbiamente, come un Indiana Jones in anticipo sui tempi, si mise alla ricerca dei

manoscritti perduti. Scoprì quindi che i volumi in possesso dei Salesiani erano parte di

un lascito del Marchese Marcello Durazzo; analizzando gli alberi genealogici, Gentili

riuscì a risalire a suo fratello, Flavio Ignazio, che aveva ricevuto sempre in eredità la

restante parte della collezione. Si recò quindi a Genova dove risiedeva e con l’aiuto del

Marchese Curlo riuscì ad ottenere anche la restante parte della collezione. Vista la

cronica carenza di fondi della Biblioteca, Gentili si rivolse all’industriale Filippo

Giordano il quale acquistò la collezione genovese e la donò alla Biblioteca Nazionale

riunendo i frammenti della collezione originaria, appartenuta in origine al conte

Giacomo Durazzo, ambasciatore d'Austria a Venezia, in un solo corpo.

La collezione riunita consta di ben 27 volumi di manoscritti Vivaldiani autografi ed

includono 50 cantate, 42 opere sacre, 20 opere, 307 brani strumentali e l’oratorio

“Juditha triumphans”.

Giulia chiuse il racconto raccontando a Bianca che Vivaldi, pur essendo un prete, in realtà non officiava messa, perché, come pettegolò il conte Orloff "Una volta che Vivaldi diceva la Messa, gli viene in mente un tema di fuga. Lascia allora l'altare sul quale officiava, e corre in sacrestia per scrivere il suo tema; poi torna a finire la Messa. Viene denunciato all'Inquisizione, che però fortunatamente lo giudica come un musicista, cioè come un pazzo, e si limita a proibirgli di dire mai più Messa”.

La conclusione di Giulia fu perentoria e non lasciava spazio a repliche: “Il Mondo, in qualsiasi

tempo ed in qualsiasi luogo, non riconoscerà mai un genio, almeno non da vivo!”.

Arrivati al semaforo, il carro-attrezzi svoltò a destra e proseguì per una strada che scendeva

inoltrandosi tra capannoni ormai vuoti; e poi ancora a sinistra e via verso una nuova rotonda

e poi a destra per finire finalmente la corsa davanti ad un cancello che si stava aprendo. La

500 sospirando si rese conto che la passeggiata si stava concludendo.

- Adesso vedrò in faccia il mio destino! – pensò

Ma avrebbe tanto desiderato affrontare la prova con Bianca al suo fianco.

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Alzando i faretti, riconobbe sullo sfondo la sagoma famigliare del Monte Musinè dove ogni

tanto Bianca andava a fare delle passeggiate con suo papà.

Il Musinè, montagna delle Alpi Graie, la cima più vicina a Torino che domina la pianura

dall’alto dei sui 1150 metri, ma che spesso a causa dello smog e della foschia si nasconde alla

vista, è un luogo ricco di storia e di misteri. Il Musinè, infatti fu probabilmente protagonista,

insieme ai “Campi Taurinati”, zona pianeggiante compresa tra Grugliasco e Rivoli, della

leggenda secondo la quale al futuro imperatore Costantino, prima della battaglia decisiva,

apparvero delle croci fiammanti e la scritta “In hoc signo vinces”; Costantino, fidandosi della

visione, sostituì quindi le aquile delle sue insegne con la croce e sconfisse nella successiva

battaglia le truppe del suo rivale Massenzio.

Esistono poi varie leggende, alcune veramente fantasiose le quali riportano che Erode, il Re di

Giudea, che per sbarazzarsi del piccolo Gesù fece trucidare tutti i neonati nati a Gerusalemme,

sarebbe stato condannato ad espiare i suoi crimini sorvolando per l’eternità la montagna

rinchiuso in un carro di fuoco che durante i temporali creerebbe addirittura improvvisi bagliori

(che però la Scienza ha associato al fenomeno dei fulmini globulari essendo la montagna

composta da rocce di origine ferrosa).

Altre storie, addirittura fantastiche, sostengono, invece, che da qualche parte sulla montagna

vi sarebbe una grotta nascosta, sorvegliata da un grosso drago che conterrebbe un fantastico

tesoro che però mai nessuno ha trovato.

Improvvisamente le corde che avevano imbrigliato la 500 qualche ora prima si tesero e la 500

si sentì sollevare leggera in aria. Si ricordò allora di quella volta che Bianca era andata con i

suoi due nipotini, Christian, il più piccolino, e Niccolò dal gommista per cambiarle le gomme.

La 500, sollevata sul ponte si sentiva a disagio, poiché lassù in alto non poteva nascondere il

suo sottoscocca che quindi risultava visibile a tutti. La cosa buffa, però, era stata la reazione

del piccolo Chry-Chry, come Bianca affettuosamente lo chiamava. Alla vista della sua 500 sul

ponte, il piccolino, sprofondato nel passeggino, aveva iniziato a piangere e quando il

gommista tolse le vecchie gomme dalla 500, il pianto divenne disperato! E mentre Niccolò

saltava sulle gomme abbandonate a terra, Bianca prese il piccolo Chry in braccio e lo portò

vicino alla sua 500 per rassicurarlo! Il piccolino, con grandi goccioloni che scendevano dai

begli occhi verdi, singhiozzando, si tranquillizzò.

Allora Bianca, posato Chry nel passeggino si accucciò al suo fianco e gli domandò:

- Allora Chry- Chry, dov’è la 500?

- Alta! - sentenziò il piccolo

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E la tragedia si risolse in una risata generale!

La 500 venne quindi posata un po’ bruscamente per terra e sciolta dalle briglie; il furgone che

l’aveva accompagnata nel lungo tragitto, spente le gialle luci intermittenti, uscì dal portone per

continuare nella sua missione.

La 500 stava scrutando la prigione in cui era stata portata quando i suoi fari videro avvicinarsi

minaccioso un grosso e peloso cane; aveva il manto bianco con grandi macchie grigie e due

orecchie grandi e morbide che oscillavano ritmicamente durante la sua corsa. Le zampe

sembravano enormi e quelle posteriori erano munite di un artiglio, segno che il cane era un

pastore. La 500, intuendo la missione del cane, iniziò a far suonare l’antifurto pensando di

spaventarlo, ma il cane si fermò proprio di fronte al suo musetto, si sedette, la guardò con

occhietti furbi ed iniziò ad annusarla. Poi iniziò a girare intorno alla sua carrozzeria che

brillava sotto i raggi del sole. La 500 prevedendo l’intenzione della pelosa bestiola fece

suonare ancora più forte l’antifurto, ma dopo un po’ la sirena accusò un brusco calo di voce!

Allora l’animale, con una rapida mossa si pose di lato ed impunemente e sfacciatamente, alzata

la zampa posteriore, innaffiò una con il suo caldo fluido la ruota posteriore della 500 che

furiosa e rabbiosa riprese a soffiare nella sirena in cerca di un aiuto; ma Bianca non c’era e la

cavalleria sembrava essersi persa per strada!

- Ecco, pensò la 500, sono appena uscita da un incubo e sto per iniziarne un altro!

Decise quindi di attendere gli eventi; per il momento cercava solo di godersi i caldi raggi

del mezzodì, preparandosi a trascorrere la notte all’aperto!

Si guardò intorno e vide sparse un po’ ovunque nel piazzale carcasse di quelle che una

volta dovevano essere auto come lei. Da una parte lo scheletro nudo di una grossa berlina,

là una coupè con il muso fracassato, lì un fuoristrada bianco fasciato da un telone di

plastica bianca che lasciava intravedere il dramma patito dal poveretto; il calore

dell’incendio aveva addirittura fuso il parafango anteriore lasciando in evidenza i resti del

radiatore e parte del motore annerito dal fumo.

- Ma dove sono finità? – esclamò disperata la 500.

- Dov’è Bianca? Quando mi verrà a salvare da quest’incubo?

Disperata chiuse i fanali e senza farsi vedere iniziò a piangere. Adesso si sentiva

veramente sola ed abbandonata! Iniziò a pensare alla sua vita senza Bianca, che magari

era già andata all’autosalone a scegliersi una nuova compagna …

La disperazione si impossessò della 500 che frastornata da un turbinio di pensieri cadde in

uno stato di incoscienza.

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Vecchia gloria, nuova amica

Quando riaprì i fari ormai la luna era alta in cielo. Il piazzale era ornato di ombre ed una

leggera brezza muoveva la polvere.

I pallidi raggi lunari si riflettevano sulle carrozzerie contorte della auto che aveva visto prima

di lasciarsi scoraggiare. Ripensò a Bianca che al caldo della sua mansarda si stava

preparando la cena, magari delle “uova alla Bela Rosin”, piatto preferito dal primo Re d’Italia

insieme alla Bagna Cauda ed ai Tajarin con i tartufi. Si ricordò della Strada di Thomas

parcheggiata sotto il grande noce che troneggiava nel giardino ed alla furbetta Mini al caldo

del suo garage.

La 500 si domandava quando sarebbe cessato il suo calvario, quando Bianca sarebbe arrivata

per riportarla a casa …

La 500 scrutava nervosamente lo spazio circostante con i fanali fissi nell’oscurità come un

naufrago alla ricerca di uno scoglio o di un isola che potesse dargli ristoro per affrontare il

destino ignoto, con gli specchietti tesi a percepire ogni minimo fruscio …

Nella solitudine del luogo percepiva in lontananza solo latrati di isolati cani e motori di veicoli

frettolosi …

Poi, imporovvisamente, percepì un’ombra che piano piano le si avvicinava; la 500 si fece

piccola, strizzò i fari per cercare di scorgere nell’oscurità un’eventuale pericolo e poi con

meraviglia ed aiutata dalla luna che faceva nuovamente capolino dalla nuvola dispettosa che

l’aveva nascosta vide arrivare una specie di buffa scatoletta metallica che scoppiettando si

fermò proprio davanti a lei.

Era una piccola vettura bianca con due sottili strisce che ne esaltavano i fianchi, con due tondi

e furbetti fari attorniati da due conetti in plastica che delimitavano il frontale e poi uno strano

paraurti cromato che terminava con una sottile barra, sempre cromata, che ricordava

l’apparecchio per i denti che portava Niccolò.

L’intrusa, prese l’iniziativa, ed iniziò ad interrogare la nuova ospite dell’autorimessa.

- Ciao, io sono una 500, sono qui da diverso tempo e mi piace conoscere i nuovi ospiti

dell’autorimessa!

- Ciao, anch’io sono una 500, ma ci deve essere un errore perché io e te siamo differenti!

- Tu credi? – chiese la 500 bianca.

- Certo, anche le altre 500 sono come me!

La vecchia 500 si rese conto di avere davanti un’auto giovane che aveva sempre viaggiato

senza accorgersi delle altre compagne di viaggio. Forse era potente, elegante, bella, ma in

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realtà era una giovonetta vuota e concentrata solo su se stessa. Un po’ come era lei tanti anni

prima, ma poi la vita e l’esperienza le avevano fatto capire l’importanza degli altri!

- Sai, disse, in questa autorimessa ogni giorno arrivano e partono tantissime vetture.

Alcune vengono qui per un controllo, altre accompagnate dal carro-attrezzi perché

guaste o perché hanno infranto qualche regola del codice della strada, altre perché

incidentate. Alcune vengono riparate e tornano a circolare, altre, invece, terminano qui

la loro esistenza.

- E che fine fanno? – chiese terrorizzata la giovane 500.

- Dipende, risposte l’anziana. Dipende se la vettura è nuova o se ha una certa età. Molte

volte vengono posteggiate in un angolo del piazzale e poi cannibalizzate.

- Cannibalizzate? – chiese con il terrore nei fanali la 500.

- Si, cannibalizzate. Ma non è una cosa brutta come credi! Vedi, auto vecchie come me

possono guastarsi più facilmente di vetture giovani e nuove, ma a differenza di te, che

essendo in produzione hai comunque a disposizione dei ricambi nuovi, noi, essendo

cessata la produzione da anni, facciamo fatica a trovare i pezzi di ricambio. Quindi o il

nostro proprietario se li fa costruire da ditte specializzate, ma a costi esorbitanti,

oppure deve andare alla ricerca di qualche carcassa da cui prelevare i pezzi necessari.

In sostanza, è come se subissimo un trapianto di pezzi da una vettura ormai morta! E’

come se con noi la vettura distrutta continuasse a vivere, ma nella carrozzeria di

un’altra auto, come se ne preservassimo la memoria e la storia anziché farla cader

nell’oblio!

- E quindi capiterà anche a me?

- Speriamo proprio di no, anche perché sei così giovane e carina!

Rotto il ghiaccio e la diffidenza, tra le due auto nacque la voglia di scambiare due chiacchiere

anche perché la serata era solo all’inizio e la temperatura stava scendendo e quindi

chiacchierare faceva dimenticare ad entrambe la loro “fredda” condizione.

La vecchia 500 cominciò a raccontare la sua storia spiegando alla più giovane che lei, insieme

alla cugina 600 avevano contribuito a motorizzare l’Italia, cioè avevano consentito agli Italiani

di lasciare a casa la bicicletta ed i cavalli per viaggiare comodamente seduti.

Ma da un angolo lontano si levarono delle feroci proteste.

- Ma chi è che si sta lamentando?- chiese la più giovane

- E’ una vecchia Lambretta che sostiene che è stata lei a motorizzare l’Italia per prima!

- Lambretta? Chi è la Lambretta?

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La vecchia 500 propose alla giovane amica di andare a conoscere gli altri inquilini del

piazzale in modo che potessero raccontare la loro storia e le loro esperienze affinché le

giovani generazioni potessero tramandarle nel tempo.

La 500 entusiasta acconsentì, anche perché così avrebbe sentito meno il freddo e l’umidità, lei

che non aveva mai dormito una notte sotto le stelle che brillando rendevano magica quella

serata.

- Devi sapere, disse la vecchietta, che nel capannone laggiù, al fondo del piazzale,

proprio a lato degli uffici, sono posteggiate alcune vetture, ormai storiche nonnette, che

hanno vissuto un passaggio più o meno importante della storia, ed ognuna è ansiosa di

raccontare la sua avventura per non sentirsi vecchia, per rivivere, anche solo nei

ricordi, i bei tempi in cui erano auto belle e rombanti come te.

Insieme e scortate da quella specie di orso peloso che nel pomeriggio aveva osato imbrattare

le ruote della più giovane 500 si avviarono verso il capannone.

La più anziana notò che la 500 cercava di evitare il cane e ne chiese la ragione. La 500 disse

che il cane le aveva sporcato i bei cerchi luccicanti e che quindi non voleva che si ripetesse

l’episodio. A questa spiegazione il motore della 500 scoppiettò dalle risate.

- Devi sapere che Bobi, il bel cagnone che ti sta trotterellando a fianco, lo fa con tutti i

nuovi arrivi. E’ una caratteristica di tutti i cani (e non solo); serve per demarcare il loro

territorio, vale a dire che qui, in questo piazzale comanda lui e che non vuole

concorrenti. Infatti, se tu uscissi dal piazzale e ti fermassi, ad esempio, in una via,

subiresti lo stesso trattamento da un altro cane che fiutato l’odore di Bobi,

immediatamente ti innaffierebbe per cancellare la traccia del precedente cane e per

lasciare la sua nuova firma (d’altra parte sei entrata nel suo territorio e non in quello di

Bobi!).

- Grazie della spiegazione, rispose, ma non vedo l’ora che Bianca mi lavi per far

luccicare nuovamente i miei cerchi.

Quindi, con un po’ di malinconia, sentimento a lei ignoto fino a quel momento, raccontò alla

vecchia 500 di Bianca e della sua strana avventura, da quando era stata prelevata a forza da

una potente braccio munito di corde a quando era arrivata al piazzale.

Finalmente entrarono nel capannone, dove le auguste veterane stavano riposando

tranquillamente. Il loro sonno era vegliato da un piccolo cagnolino, che la vecchia 500 chiamò

Miro, con un corto pelo marrone e grandi macchie bianche. Le orecchie cascanti, la coda che

ricordava il ricciolo dei maialini e lo sguardo simpatico. Alla vista della vecchia 500, si destò

dalla sua cuccia, una piccola brandina con un caldo plaid di lana, e le corse incontro

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scodinzolando in segno di amicizia. Si fermò quando vide la 500 grigia che si era messa sulla

difensiva forse per non farsi innaffiare anche da questo tenero peluche.

- Ciao Miro, disse la vecchietta, saluta un po’ la nostra nuova ospite!

Al che il cagnolino si sedette con la schiena dritta dritta alzando le due zampine anteriori.

- Hai visto, disse la vecchia 500, ti sta salutando facendo la marmotta, come gli ha

insegnato Tony, il titolare del deposito!

La giovane sorrise e tranquillizzata sulle intenzioni di Miro si guardò intorno per scrutare i

nuovi amici.

Erano posteggiati lungo la parete del capannone e stupiti della presenza di una nuova ospite

erano intenti a scrutarla.

La vecchia 500 introdusse l’ospite e la condusse davanti ad ognuno di loro per fare

conoscenza e per proporre loro di raccontare, senza dilungarsi nei particolari, la loro storia

anche perché molto probabilmente l’ospite sarebbe partita già la mattina (ed era quello che

sperava nella sua centralina anche la nostra 500!).

Ma all’improvviso come una zanzara in picchiata sul braccio di un povero accaldato passante

in una torrida serata d’estate, una strana motoretta bianca, con due piccole ruote nere, un

grande faro rotondo agganciato proprio sotto il manubrio e due strani sellini in cuoio che ben

si addicevano ad una bicicletta più che a una motoretta si parò davanti alle due 500.

- Insomma, disse, tutte le volte la stessa storia! Sono io che ho motorizzato per prima

l’Italia e non voi! Come ve lo devo far capire?

- Guarda cara, che non è vero! - rispose da lontano una stretta ed alta vettura, nera come

il carbone, ma lucente come una notte stellata, con due grandi fari circolari ai lati di un

imponente radiatore con due buffi parafanghi che proteggevano due sottili ruotine e

con un lungo cofano costeggiato da tante piccole feritoie poste elegantemente sui lati

dello snello cofano.

- Signore e signori, un po’ di pazienza, che così spaventate l’ospite! – strillò la vecchia

500.

- Con un po’ di calma e pazienza racconterete tutti la vostra storia! Non parlate tutti

insieme perché così confondete le idee alla nostra elegante ospite!

Le due primedonne, mugugnando cessarono il battibecco.

La vecchia 500 spiegò quindi alla giovincella che in realtà la questione non era così semplice,

perché la motorizzazione degli Italiani avvenne in un tempo lungo e a più riprese. Era corretta

sia la versione della motoretta, la Lambretta, che quella della 508, la vettura nera, ma non

andavano dimenticate né lei né la sua cugina 600.

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Per evitare gelosie, la 500 propose di far parlare i membri della comunità seguendo l’ordine di

nascita, in modo da non offendere nessuno e lasciando comunque alla 500 lo spazio per fare

delle domande se avesse voluto.

La nostra 500 si mise davanti a loro pronta per iniziare una nuova avventura.

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Ritorno al passato

Prese quindi la parola la 508. La luce della luna che filtrava dalle finestre esaltava il suo colore

nero ed evidenziava una simpatica carrozzeria squadrata, ma con qualche accenno di

curvatura che ne smussava un po’ il tono serioso.

- Devi sapere che nell’intenzione dei miei progettisti, dovevo essere una macchina alla

portata di molti, dovevo cioè rompere la tradizione che voleva che le auto fossero un

giocattolo per gente ricca. Dovevo quindi rendermi disponibile sia per il lavoro, che per

le gite delle famiglie che per i viaggi anche lunghi. Si voleva quindi infrangere il mito

creato dal Futurismo che vedeva nella macchina un simbolo di progresso, dinamicità,

libertà dell’uomo sulla natura, esempio di stile ed eleganza, per riportare l’auto alla sua

essenza, cioè a strumento di lavoro e semplice mezzo per gli spostamenti.

Con me nasceva quindi il concetto di utilitaria, cioè una vetturetta di piccole dimensioni

e con un ventaglio di soluzioni in grado di soddisfare il maggior numero di clienti con

costi di gestione poco impegnativi sia nella produzione che nella gestione, anche

perché l’Europa e l’Italia in quel periodo stavano pagando le conseguenze della grande

crisi del 1929 che partita dagli Stati Uniti era rapidamente arrivata anche in Europa.

Per avvicinare la gente alla nuova utilitaria, e per segnare il nuovo legame che si voleva

creare tra l’auto, fino ad allora bene destinato ai soli ricchi, e le gente comune, venni

battezzata con il nome di “Balilla”, soprannome di Giovanni Battista Per asso, un

giovane passato alla storia per il gesto eroico che compì nel lontano 1746. Dal suo

lancio di un sasso contro un ufficiale austriaco, che pretendeva che alcuni popolani

tirassero fuori dal fango a forza di braccia un pesante mortaio impantanato nel fango,

si innescò la ribellione della gente che portò alla cacciata degli Austriaci da Genova.

Inoltre, per consentire alla gente di acquistarmi, venne proposta per la prima volta la

formula, usata fino a quel momento solo negli Stati Uniti, dell’acquisto a rate tramite

cambiali.

Essendo quindi un progetto ambizioso ed importante, all’inizio degli Anni Trenta

all’Ufficio Tecnico della FIAT si decise di progettare un veicolo medio, robusto e

spazioso, ma per non renderlo troppo costoso, non eccessivamente innovativo nel

segno della filosofia di uno dei più grandi progettisti della FIAT, Dante Giocosa (padre

di modelli famosi come la 600, la 500, la 126, 127, 1 28, la Campagnola e tanti altri), che

sosteneva che “Progettare è anche valutare le difficoltà, individuare i problemi

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essenziali, ricercarne le diverse soluzioni possibili e selezionare quelle che appaiono in

grado di risolverli nel modo più semplice e completo”.

Furono quindi creati due differenti gruppi di lavoro, ognuno incaricato di seguire una

propria proposta. Il primo gruppo era coordinato dall’Ingegner Lardone e prevedeva il

progetto, fortemente innovativo, di una vettura con motore anteriore raffreddato ad aria

e trazione anteriore, mentre il secondo, guidato dall’Ingegner Fessia, proponeva una

vettura sempre a motore anteriore, ma con trazione posteriore. L’innovazione della

trazione anteriore si scontrava però con le carenze tecniche dell’epoca poiché

occorreva che la ruote anteriori oltre a trasmettere il moto alla vettura dovessero anche

consentirne la sterzatura rendendo quindi molto delicato tutto l’insieme. La trazione

posteriore, invece, permetteva di dividere i ruoli tra i due assali limitando quindi il ruolo

delle ruote anteriori alla sola direzionalità del veicolo.

Purtroppo il progetto di Lardone, che per i tempi era molto innovativo, naufragò

inesorabilmente durante i primi collaudi. Si racconta infatti che un giorno Lardone,

accompagnato dal Senatore Agnelli, iniziarono una serie di collaudi su strada del

prototipo che però si conclusero con una veloce fuga dal veicolo che durante le prove

aveva preso fuoco! Il risultato fu l’immediato licenziamento di Lardone e l’oblio della

parola “trazione anteriore” dal vocabolario dell’Ufficio Tecnico della FIAT, oblio che

durò fino al 1969 con l’avvento della FIAT 128.

Alla fine vinse il progetto del gruppo di lavoro di Fessia che così descrisse la sua

vettura: “Non aveva nulla di originale, ma era perfettamente equilibrata”. Aveva però

pienamente rispettato le aspettative della Dirigenza; non restava quindi che vedere la

reazione della gente.

Prima della presentazione ufficiale fui sottoposta ad una serie di estenuanti collaudi

condotti da Carlo Salamano, famoso pilota di quei tempi lontani, che mi portò a spasso

per la mulattiera che saliva su fino alla Sacra di San Michele, poi alla salita sul Musinè,

che se non mi sbaglio, sai ad ottant’anni ho qualche piccolo problema di messa a fuoco,

dovrebbe essere quel monte che si vede da queste finestre, poi via nelle montagne del

bergamasco ed infine nel deserto della Cirenaica dove percorsi ben 700 chilometri

lungo le vie carovaniere per concludere la gita sul Massiccio del Gebel. Non sai che

fatica, ma alla fine ne sono uscita impolverata, ma indenne, e soddisfatta per aver

compiuto il mio compito!

Fui quindi presentata a Roma nel 1932 accompagnata da una serie di slogan

pubblicitari che mi ricordo ancora adesso, nonostante siano passati ottant’anni da

allora ed i gusti della gente siano cambiati in modo vorticoso e repentino.

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Uno diceva che “L’automobile che va finalmente verso il popolo!”, un altro rilanciava

che “Balilla, la vetturetta italiana per tutti gli Italiani”.

La 500 ascoltò attenta il racconto. Poi preso coraggio decise di chiedere alcune cose ce le

sfuggivano.

- Hai parlato di mulattiere e vie carovaniere, ma io non le ho mai sentite e credo di non

averle mai viste; puoi descrivermele così posso immaginarle e capire a quale compito

gravoso di sei sottoposta?

- Devi sapere che queste strade esistono ancora, ma non sono adatte ad una signorina

come te perché per affrontarle devi essere ben attrezzata perché altrimenti rischieresti

di rompere la tua meccanica ed ammaccare la tua bella carrozzeria! Al giorno d’oggi,

voi giovani siete troppo “specializzati”, cioè vi potete dedicare solo ad alcune cose e

non ad altre, non necessariamente per colpa vostra! Infatti, oggi questo tipo di percorsi

sono riservati a vetture fuoristrada come le due Campagnola che ci tengono compagnia

o a veicoli modificati come poteva essere la Panda 4x4 che è stata qui con noi qualche

settimana in attesa di essere riparata. Ai miei tempi, invece, vennero create delle

vetture, chiamate “Coloniali”, che con poche modifiche rispetto ad esempio a me, che

non ero destinata al deserto, potevano egualmente e dignitosamente affrontare quei

percorsi, salvo poi naufragare miseramente in mezzo a grandi pantani!

- Perché dici così? – chiese la 500.

- Perché le Coloniali erano auto normali, pensate per le strade di tutti i giorni, anche se

erano molto diverse da quelle di oggi, modificate solo in parte, e quindi con tutti i limiti

delle vetture non pensate per viaggiare su strade così accidentate come potevano

essere le mulattiere o le strade che attraversano i deserti!

- Ed in che cosa differiscono le strade che hai percorso durante le prove dalle mie?

- Beh, ad esempio la mulattiera, il cui nome trae origine dalla parola mulo, è una strada,

o meglio, un percorso, in terra battuta, sterrato con pietre che sporgono dal terreno,

oppure scavato nella roccia, molto tortuoso ed accidentato e con pendenze a volte

anche elevate. Veniva percorso a piedi, a cavallo o con i muli e serviva per collegare

terreni o villaggi oppure per consentire il transito del bestiame.

In Piemonte, poi, nel Parco del Gran Paradiso esiste una “Mulattiera Reale”, costituita

da una fitta rete di mulattiere, fatta costruire dal Re Vittorio Emanuele II per consentire

a lui ed al suo seguito di spostarsi comodamente a cavallo all’interno della riserva. La

strada è lastricata di pietre, sostenuta da muri a secco e si snoda ad una quota

compresa tra i 2000 ed i 3000 metri di altitudine e nei tratti più ripidi è stata realizzata

scavandola direttamente nella roccia!.

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- Ma scusa, chiese la 500, perché un Re si era fatto costruire delle strade così su una

montagna? Non ne capisco l’utilità!

- Devi sapere che Vittorio Emanuele II era un amante della caccia. Si racconta che nel

1850 il giovane re, incuriosito dai racconti del fratello Fernando, che durante una visita

alla miniera di Cogne era stato a caccia, volle percorrere di persona le aspre valli

valdostane. Lungo questo tragitto cacciò sei camosci ed uno stambecco; il re rimase

talmente colpito dalla abbondanza di fauna che decise di costituire in quelle valli una

riserva reale di caccia. Il Re si recava nella riserva del Gran Paradiso di solito nel mese

di agosto e vi si fermava da due a quattro settimane e le campagne di caccia erano

organizzate in modo che il re potesse fare il tiro a segno sulle prede stando

comodamente ad aspettare in una delle postazioni di avvistamento costruite lungo i

sentieri. Pensa che il seguito del re era composto da circa 250 uomini, ingaggiati tra gli

abitanti delle valli, che svolgevano le mansioni di battitori e portatori. Per quest'ultimi la

caccia cominciava già nella notte. Si recavano nei luoghi frequentati dalla selvaggina,

formavano un enorme cerchio attorno agli animali e poi con urla e spari li

spaventavano in modo da spingerli verso la conca dove il re era in attesa dietro una

vedetta semicircolare di pietre. Soltanto il sovrano poteva sparare agli ungulati, ma

solo ai maschi di stambecco e di camoscio adulti in modo da favorire il numero di

cuccioli ed incrementarne quindi la popolazione. Il giorno dopo la caccia il Re ed il suo

seguito si trasferivano alla successiva casa di caccia, mentre la domenica era di riposo

per i battitori e dai paesi qualche prete saliva a celebrare la messa all'aperto. Dunque

per favorire gli spostamenti di un così gran numero di persone occorrevano strade e

sentieri “comodi” e ben segnalati!

- Grazie per la spiegazione, solo il sentir parlare di montagne e stambecchi mi fa venir

voglia di volare su quei panorami e posare le mie ruote su quei bei prati erbosi a

respirare l’aria fresca e pura!

- Sono contenta che simili paesaggi e descrizioni ti tocchino la centralina. Però adesso

dobbiamo cambiare luogo e spostarci in paesaggi aridi, caldi e polverosi perché devo

descriverti le vie carovaniere. Queste erano in pratica le uniche rotte commerciali che

mettevano in comunicazione le popolazioni del Mediterraneo con le popolazioni

dell’Africa occidentale o con quelle della Cina (come ad esempio la famosa Via della

seta, quella raccontata anche da Marco Polo nel suo celebre libro) prima dell’avvento

dell’epoca dei grandi navigatori che scoprirono le rotte per circumnavigare l’Africa e

quindi raggiungere via mare l’India e la Cina.

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Prima di allora, i prodotti da trasportare, come ad esempio le spezie o la seta, venivano

portate in barca dai luoghi di produzione a dei porti situati al termine di queste vie

carovaniere. Da qui, venivano trasportati verso l’Europa da lunghe carovane di

cammelli o dromedari arabi, anche più di mille per carovana, che venivano messi ad

ingrassare per mesi nelle regioni del Maghreb o del Sahel prima di essere posti a

formare una carovana. Queste lunghe colonne erano condotte da guide berbere che

conoscevano tutte le piste del deserto rendendo così sicuro il loro passaggio e

proteggendolo dai nomadi che frequentemente facevano razzia delle merci, quando

incontravano una carovana sul loro cammino. La sopravvivenza di una carovana, non

potendo questa trasportare tutto il necessario per il viaggio, faceva affidamento sulle

capacità della guida e su una meticolosa coordinazione tra i suoi componenti, che

prevedeva anche un sistema di messaggeri mandati avanti nelle oasi, permettendo che

l'acqua fosse portata alla carovana quando questa era ancora a giorni di distanza.

- Dunque tu hai viaggiato su strade polverose in mezzo al deserto?

- Si, ma non solo io! Guarda infatti alla tua destra, vedrai un’altra vettura che ha percorso

tutta l’Africa, ma rispetto a me, però, era stata pensata per viaggiare su strade

sconnesse ed accidentate per non trovarsi in difficoltà in caso di strade fangose o

accidentate.

La 500 si voltò lesta e vide una vettura stretta, squadrata ed alta, di uno sgargiante colore

arancione che faceva risaltare il delicato bianco dell’abitacolo. Aveva uno stretto e sinuoso

musetto ornato da lunghe aperture rettangolari con le estremità arrotondate da dove

facevano capolino due fari rotondi e simpatici protetti da una griglia metallica. I parafanghi

prorompenti contornavano il musetto ed evidenziavano le sottili ruote protette da una

spessa barra metallica che rendeva solido tutto l’insieme. Sui parafanghi sono montati due

grandi fanali privi di protezione, mentre un terzo sporgeva da sopra il parabrezza diviso in

due parti. Sulle fiancate facevano bella mostra due taniche argentate. L’insieme era

completato da un grande portapacchi metallico che cingeva la campagnola come una

corona.

- Io sono una Campagnola, si presentò la nuova interlocutrice, il primo fuoristrada

progettato in Italia sulla scia della Jeep che durante i bui anni della guerra aveva

mostrato sorprendenti doti di mobilità grazie alla trazione su tutte e quattro le ruote e

rendendo palesi i limiti delle vetture “Coloniali”.

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Il progetto che doveva essere sviluppato per dotare il nuovo esercito nazionale di un

veicolo multiuso tipo Jeep venne camuffato, poiché in quel periodo in Italia si voleva

assolutamente dimenticare il periodo precedente; dunque Giocosa formò il suo gruppo

di lavoro chiedendo di progettare un veicolo fuoristrada per uso agricolo e per celare il

reale scopo del progetto, il nuovo veicolo venne battezzato Campagnola, nome mutuato

da una canzone in voga nel dopoguerra che, se mi ricordo bene, doveva suonare più o

meno cosi: “Oh campagnola bella, tu sei la reginella …”. Inoltre venni presentata

ufficialmente a Bari all’interno di una manifestazione che doveva celebrare l’agricoltura

ed il progresso tecnico. Ma per convincere anche l’esercito della bontà del mio

progetto, venni impiegata per compiere imprese dure ed esotiche; insomma, sono stata

utilizzata per farmi pubblicità!

Infatti, come ti aveva accennato la Balilla, ho avuto l’onore di calcare le vecchie vie

carovaniere che attraversavano l’Africa godendo di paesaggi mozzafiato, deserti,

foreste, grandi fiumi, ma patendo anche le difficili condizioni ambientali che hanno

messo a dura prova sia la mia meccanica che la tempra dei miei compagni d’avventura.

Nel 1952 fui la protagonista del record di traversata del continente africano da Città del

Capo, in Sud Africa, ad Algeri, in Marocco, record che ad oggi risulta ancora imbattuto

nonostante negli anni vetture e fuoristrada abbiano introdotto tecnologie e materiali

che ai miei tempi non erano disponibili.

Capo spedizione era Paolo Butti che fece coppia con Domenico Racca. Il viaggio partì

da Algeri verso Città del Capo e fu percorso insieme ad un’altra Campagnola, mia

gemella. Eravamo entrambe state preparate per la spedizione dalla Savio, storica

carrozzeria di Torino fondata nel 1919, per rendere più confortevole la spedizione e per

alloggiare i ricambi e le provviste indispensabili per compiere l’impresa.

Partimmo da Città del Capo alle 6 di mattina del 21 Gennaio percorrendo velocemente

comode strade asfaltate. I due guidatori si alternavano freneticamente alla guida

concedendosi poche ore di sonno. Ma questo bell’esordio fu subito interrotto dalle

intense piogge che resero le strade fangose e rapidamente le piste si trasformarono in

corsi d’acqua obbligandomi ad avanzare tra mille difficoltà e con le marce ridotte

inserite fino alla base di Kabinda dove finalmente potei concedermi un po’ di riposo a

bordo di un traghetto con cui attraversammo diversi grandi fiumi. Sbarcati,

procedemmo velocemente fino alla Repubblica Centrafricana dove vissi momenti

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d’angoscia per la paura di rompermi o danneggiarmi, facendo quindi sfumare la

possibilità di ottenere il record, a cause delle piste con profonde buche e temperature

di 55°C. Poi la strada si trasformò in una lunghissima pista polverosa. Fui obbligata a

viaggiare quasi alla cieca, a causa del polverone sollevato da un camion che mi

procedeva, per ben 45 chilometri prima che riuscissi nuovamente a correre veloce e

solitaria lungo la strada che attraversava il grande continente!

Attraversata la Nigeria, mi ritrovai immersa nella sabbia, costretta a viaggiare su piste

praticamente invisibili che attraversavano il silenzioso ed infinito deserto senza mai

fermarsi, nemmeno di notte. Non puoi immaginare la nostra preoccupazione anche

perchè i regolamenti locali di quel periodo vietavano di viaggiare la notte.

Lasciai alle spalle il deserto, e mi concentrai sui 2000 chilometri che ancora mi

separavano dalla meta di Algeri. Spinta dall’entusiasmo e dalla voglia di arrivare,

affrontai un difficile guado, ma a metà del percorso trovai un ostacolo improvviso e

pensai di non riuscire a trarmi fuori dall’imprevisto che mi era capitato. Cominciai a

disperarmi perché mi ritrovai bloccata in un pantano simile alle sabbie mobili, prodotto,

ma lo seppi solo dopo, dall’acqua del fiume che a metà del guado era così profonda da

trasformare la sabbia in fango. Rimasi lì immobile, bloccata dalla paura perché era

notte e dal vicino villaggio nessuno si accorse di noi e ci soccorse. Ma i miei compagni,

quasi a seguire gli insegnamenti di Albert Einstein che sosteneva che “la creatività

nasce dall'angoscia come il giorno nasce dalla notte oscura”, usando come tavole le

casse in legno dei ricambi, i cuscini ed il materasso della brandina, riuscirono a

liberarmi. Per ripagarli del loro impegno e della loro fatica cercai di riscaldarli, poiché

erano completamente inzuppati d’acqua, con il calore del tunnel del cambio, anche

perché i tecnici della FIAT non mi avevano dotato di un impianto di riscaldamento.

Arrivammo quindi sul massiccio dell’Ahaggar seguendo la pista che sale fino a 2000

metri, ma grossi massi franati dall’alto ci ostacolavano il cammino. Spostati a forza di

braccia, riprendemmo la marcia per interromperla nuovamente impantanati in mezzo ad

un guado quando ormai mancavano meno di 30 metri alla sponda, nostra salvezza! Con

l’aiuto di alcune persone di un vicino villaggio vennero costruite delle rampe di fortuna

su cui fui issata con il martinetto e con grandi sassi messi sotto le ruote spinta dalle

braccia dei soccorritori poiché dopo tante ore a mollo in acqua e con le luci accese, la

mia batteria si era esaurita! Raggiunsi la riva poco prima che il livello dell’acqua salisse

pericolosamente.

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A causa delle abbondanti piogge che avevano reso impraticabili le piste che dovevamo

seguire, fummo costretti ad eseguire una lunga deviazione, ma raggiungemmo senza

intoppi i monti del Piccolo Atlante dove dei trattori avevano già provveduto a spalare

la neve caduta in precedenza per facilitarci il cammino. Arrivammo quindi ad Algeri tra

due ali di folla festante dopo un viaggio di ben 14193 chilometri percorso in 11 giorni, 4

ore e 54 minuti!

Ma la solita Lambretta insorse contestando l’intromissione della Campagnola che non aveva

rispettato il suo turno. La vecchia 500, per evitare che le proteste potessero degenerare in

inutili battibecchi privando la giovane della possibilità di conoscere le storie e sentire i

racconti dei presenti, diede finalmente la parola alla Lambretta.

- Come avevo sottolineato prima, io sono una famosa motoretta, conosciuta in Italia e nel

Mondo per aver motorizzato per prima gli Italiani e non solo. Infatti, subito dopo il

disastroso esito della guerra, gli Italiani avevano la necessità di ricostruire l’Italia dalle

rovine che ne caratterizzavano il paesaggio e avevano bisogno di mobilità per

spostarsi e per lavorare. E’ vero che l’Italia era piena di mezzi utilizzati durante la

guerra ed abbandonati, ma non tutti potevano permetterseli e quindi o si muovevano a

piedi, o in bicicletta o con i cavalli.; Io ho rappresentato un’alternativa economica a

questi mezzi! L’idea di costruirmi nacque in Innocenti, commerciante di tubi e

costruttore di ponteggi, quando vide i mezzi di trasporto in dotazione ai paracadutisti

inglesi. Intuì che alla fine della guerra gli Italiani avrebbero avuto la necessità di

spostarsi e quindi concepì quella che poi sarebbe diventata la Lambretta. Al termine del

conflitto contattò il Colonnello D’Ascanio per sottoporgli il suo progetto, ma questi, per

divergenze con Innocenti, preferì andare alla Piaggio dove progettò la Vespa, mia

eterna rivale. Senza perdersi d’animo, Innocenti si rivolse al Colonnello Torre per

sviluppare la meccanica, essendo Torre il progettista dei motori dell’idrovolante

Savoia-Marchetti S.55A che consentì ad Italo Balbo di effettuare la prima trasvolata

atlantica in formazione, e a Pallavicino per definirne il design.

- Pensa, disse la Balilla, nel 1930 quattordici idrovolanti partirono da Orbetello per

tentare un’impresa ritenuta quasi folle, e cioè attraversare l’Oceano Atlantico

dall’Africa al Sud America in formazione. Dei trentadue idrovolanti partiti per l’impresa,

ben ventidue fallirono, ma alla fine, in 11 idrovolanti riuscirono a coronarla coprendo

ben 3000 chilometri in circa 18 ore!

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- Ancora? Ma sei proprio rincitrullita! – osservò indispettita la Lambretta. E’ il mio turno,

tu hai già raccontato la tua storia! Allora … dove ero rimasta? … Ah si, mi ricordo …

venni realizzata sfruttando le tecnologie che Innocenti aveva sviluppato per la sua

azienda di ponteggi in uno stabilimento vicino al Lambro nei dintorni di Milano e senza

alcuno sforzo di fantasia, venni battezzata Lambretta come per suggellare il mio legame

con il fiume che scorreva vicino allo stabilimento. Però con l’avvento dell’automobile, io

che avevo avuto l’onore di motorizzare gli Italiani, persi d’importanza. Ebbi però la

fortuna di incrociare nel mio destino gli Indiani che nel 1972 acquistarono le mie linee di

montaggio per trasferirle in India dove contribuì a motorizzare quello Stato che era

riuscito a liberarsi dal giogo di un lungo periodo di Colonialismo con la teoria “non

violenza” professata da un certo mahatma Gandhi che era solito affermare che “occhio

per occhio … ed il mondo diventa cieco”!

Ah quanti ricordi … Pensa che il mio primo proprietario mi usava per andare a

prendere i giornali che poi vendeva in negozio o mi usava per portare piccoli carichi.

Sono stata anche testimone di un avvenimento comico il cui pensiero mi fa ancora

sorridere. Un pomeriggio, il mio proprietario e suo papà, che era già avanti negli anni,

si stavano recando alla vigna che avevano in un terreno vicino. La strada di accesso al

terreno era però sterrata, con tante buche e pietre. Ad un certo punto,

involontariamente, mi arrestai in una buca. Il guidatore diede gas, ma il peso era tale e

la potenza a mia disposizione non eccessiva che non riuscii a superare l’ostacolo.

Allora, l’anziano signore, senza dire niente al figlio si alzò in piedi alleggerendomi

quindi del peso che dovevo spiostare. Dato gas, schizzai via fino alla vigna. Il guidatore

che non si era accorto di nulla continuò tranquillamente a chiacchierare fino a

destinazione non preoccupandosi dell’assenza di risposte da parte del padre, ma

arrivati a destinazione e spento il motore si voltò e solo allora si accorse che aveva

dimenticato il passeggero da qualche parte. Quindi, riaccese immediatamente il motore

e si precipitò verso casa, pensando che fosse successo qualcosa. A circa metà strada

trovò il padre che stava camminando tranquillamente verso la vigna. Quando lo

incontrò gli chiese il perché di quell’assenza. Per risposta ottenne un commento del

tipo: “Stavo per dirtelo, ma tu sei partito come un fulmine lasciandomi lì da solo!”.

Sicuramente era una persona curiosa, quel vecchietto; lavorava come falegname a

Torino per le fabbriche che allora costruivano automobili. Lavorava sia per la FIAT che

per Farina, quella che poi sarebbe diventata PininFarina, realizzando le carrozzerie

delle prime auto che allora si costruivano in legno. Una volta raccontò al figlio la sua

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terribile esperienza su una di quelle prime vetture. Un giorno un suo amico

collaudatore gli propose di accompagnarlo in un collaudo su strada. Lo fece sedere su

una specie di cassetta di legno imbullonata alla buona al telaio, ma durante una svolta

la cassetta si sganciò lasciando il passeggero attonito ed appeso a quei pochi bulloni

che non avevano ceduto. Da allora in poi non salì mai più su un’automobile anche se

qualche tempo dopo ne comprò una che carrozzò lui stesso e che rivendette subito

dopo averla realizzata!

- Cosa?!? Carrozzerie erano in legno? – chiese sconcertata la giovane 500.

- Certo, rispose la Balilla che si era inserita nuovamente nella conversazione. Devi

sapere che le prime autovetture erano in realtà delle carrozze fissate ad un telaio in

acciaio dotato di ruote e motore e le carrozze, erano e lo sono ancora oggi, realizzate

in legno. Pensa che molte delle Carrozzerie che ancora operano nel mondo dell’auto

erano in realtà nate come aziende dedite alla costruzione di carrozze. Le prime

fabbriche che costruivano automobili, nella pratica, si limitavano a produrre solo il

telaio con tutte le principali componenti meccaniche, mentre i carrozzieri ne curavano

l’allestimento realizzando la carrozzeria. Ad esempio, la Carrozzeria Savio, ai suoi

albori, ottenne un contratto dalla Itala per la realizzazione di ben 900 carrozzerie.

Questo spiega anche il perché le prime automobili avevano dei costi di acquisto molto

elevati. E questo modo di realizzare le vetture andò avanti fino al 1923 quando Vincenzo

Lancia con la sua Lancia Lambda produsse per la prima volta un’auto con struttura

autoportante, cioè con telaio e carrozzeria che formavano un unico elemento, che oltre

a rendere la vettura più leggera e resistente, ne abbassava notevolmente i costi. In

America, invece, si continuò ancora per lungo tempo a tenere separati i telai e la

carrozzeria sia per motivi tecnologici (essendo le vetture americane molto più grandi di

quelle europee risultava difficoltoso realizzare costruzioni a scocca portante) che

commerciali (perché i clienti Americani pretendevano che ogni anno venisse

commercializzato un modello completamente differente da quello dell’anno precedente,

cosa che sarebbe stata eccessivamente costosa nel caso di strutture a scocca

portante).

Dopo un momento di silenzio dedicato ad osservare Miro che si era alzato dalla sua comoda

brandina per stiracchiarsi un pò le zampe e fare un profondo sbadiglio seguito da un buffo

starnuto, prese la parola una tozza vettura con due fanali rotondi ai lati del frontale

sormontati da due frecce e con un buffo disco rosso al centro con la scritta 600 messa in

risalto da un lungo profilo lucido e da quattro piccoli baffetti cromati che rendevano snello

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l’insieme. La fiancata presentava linee tese che esaltavano la lunga coda inclinata che

nascondeva uno scoppiettante motore. Le ruote presentavano una larga fascia bianca che ne

snelliva la mole sottolineata dal colore blu scuro della carrozzeria.

- Ma come mai le tue ruote hanno quella strana fascia bianca sui lati? – chiese la

giovincella.

- Devi sapere che questi sono pneumatici speciali per noi auto storiche; una volta erano

comunemente usate per darci un tocco di eleganza, mentre adesso sono solo un vezzo

di un’anziana romantica vecchia carretta!

- Ma come venivano fatti? – chiese interessata la nostra 500 che pensava che magari

pneumatici di quel tipo avrebbero potuto esaltare ancora di più la sua sinuosa e

lucente linea.

- Il termine tecnico li definisce “Whitewall tire” , cioè “ruote con fascia bianca”, e non

sono molto differenti dai pneumatici che monti tu. Forse non sai che i primi pneumatici

per auto erano realizzati in gomma naturale ed erano completamente bianchi dal

momento che la gomma naturale è di colore bianco; però le caratteristiche di questo

materiale non erano soddisfacenti e quindi si aggiunse del nerofumo alla mescola

necessaria per produrli facendo sì che il loro colore da bianco diventasse nero. Il

nerofumo inizialmente si utilizzava solo per migliorare le caratteristiche del battistrada,

e quindi i pneumatici risultavano bianchi sui fianchi e neri sulla parte a contatto con il

terreno, il battistrada, appunto. Poi si passò ai pneumatici completamente neri

relegando quindi i pneumatici a fascia bianca alle vetture di basso costo. Ma negli Anni

Trenta ritornarono di moda, poiché la loro sgargiante fascia bianca permetteva di far

esaltare nuovamente le ruote nascoste sotto affusolati parafanghi. Però, siccome i

parafanghi erano chiusi e quindi si poteva vedere solo un lato del pneumatico, la fascia

bianca venne ridotta ad un solo fianco. Questo vezzo durò fino agli Anni Settanta,

quando questo tipo di gomme serviva per evidenziare da lontano una vettura di lusso

differenziandola dalle altre.

- Ma tu sai come sono nati i pneumatici?

- Diciamo che essendo stata utilizzata intensamente per una campagna di collaudi

quando era molto giovane, ho avuto la possibilità di ascoltare i discorsi che facevano i

tecnici e ben volentieri cercherò di ricordare quello che avevo sentito. Ho condiviso

tanto tempo con loro perchè sono stata la prima vettura FIAT ad essere sottoposta

all’analisi con le prime rudimentali tecniche elettroniche per lo studio e la successiva

analisi dei fenomeni che valenti ingegneri avevano calcolato alle loro scrivanie; sono

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servita, cioè da cavia per verificare l’efficacia dei sistemi di analisi che dovevano

validare i modelli teorici usati per i calcoli progettuali. Pensa che i collaudatori mi

portavano fin su sulla collina di Torino e poi mi gettavano a folle velocità giù in discesa

lungo le curve ed i ciottoli della strada vecchia di San Vito in modo da consentire ai

sensori di cui ero stata dotata di misurare le sollecitazioni che i miei supporti ruota

subivano! Mi ricordo ancora i commenti della gente quando mi vedeva passare:

“Guarda come corre quella macchina, smija na boja panatera che scappa!”. Comunque

per rispondere alla tua domanda senza dilungarmi troppo, anche per lasciare spazio

agli altri, cercherò di riassumerti quasi mille anni di storia! I pneumatici, i tuoi come i

miei, sono realizzati con un materiale che si chiama gomma, che in Inglese, sai allora i

tecnici sentivano l’esigenza di confrontarsi con i colleghi sparsi nel mondo e quindi

incominciavano a studiare quella che poi sarebbe diventata la lingua internazionale, si

chiama Rubber, dal verbo “to rub”, cioè cancellare. Sicuramente ti chiederai il perché,

ma la spiegazione è più semplice di quello che pensi. Infatti, nel 1775 un certo Priestley

scoprì che questo materiale era adatto per cancellare i segni di matita dai fogli; da

questa considerazione al suo nome, il passo fu breve! All’inizio era gomma naturale,

cioè il materiale di partenza veniva recuperato in natura e poi dagli Anni Trenta con il

progresso della Chimica venne prodotto direttamente nei laboratori. La gomma altro

non è che la linfa di un albero che sia i Maya che gli Atzechi chiamavano “caa-o-chu”.

Queste antiche popolazioni scoprirono nel corso del tempo che la linfa di questa

particolare pianta se sottoposta ad un riscaldamento originava un materiale permeabile

utile per fabbricare scarpe, vestiti e contenitori. Veniva anche usato per costruire dei

palloni che erano usati per giochi rituali e per scrutare la volontà delle loro divinità. Nei

suoi viaggi alla scoperta di quella che riteneva India, Cristoforo Colombo osservò che

le popolazioni con cui stava entrando in contratto usavano quello strano materiale, ma

non ne comprese le potenzialità, che invece furono intuite nel Settecento da Charles

Marie de La Condamine che fu anche il primo europeo a descrivere la raccolta della

linfa e la sua lavorazione ad opera dei nativi. Solo nell’Ottocento fu scoperta la

possibilità di sciogliere quella linfa immergendola nella nafta. La prima applicazione

pratica furono gli impermeabili; un certo Macintosh spalmandola tra due strati di

tessuto riuscì a ricavare un abito che potesse riparare le persone dalla pioggia. Ma ben

presto l’impresa che aveva costituito per la loro produzione fallì a causa delle

lamentele dei clienti scocciati dal fatto che il tessuto degli impermeabili con il caldo

diventava appiccicoso e puzzolente, mentre con il freddo diventava fragile e si rompeva.

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Ma nonostante i primi insuccessi industriali, l’interesse per la gomma non venne mai

meno. La tradizione racconta che un giovane e squattrinato inventore, Goodyear, nel

1839 a seguito dell’ennesimo tentativo fallito di rendere la gomma non appiccicosa,

vinto dalla delusione, gettò sulla stufa quel materiale che lo stava ossessionando;

destino volle che sulla stufa fosse rimasto dello zolfo. Pulendo la stufa da quei residui

bruciacchiati, Goodyear si accorse che involontariamente aveva ottenuto un nuovo

materiale che conservava l’elasticità della gomma, ma ne eliminava l’appiccicosità.

Aveva quindi scoperto quello che in seguito i Chimici avrebbero definito “processo di

vulcanizzazione della gomma”, scoperta che avrebbe aperto la strada all’uso della

gomma nell’industria. Ma torniamo ai pneumatici ed alla loro interessante storia. Devi

sapere che il primo brevetto di un pneumatico fu depositato a Londra nel 1846 ad opera

dello scozzese Thomson, ma rimase sepolto sotto la polvere per almeno mezzo secolo

anche perché non esistendo né le biciclette né le automobili e nessuno ne capì

l’importanza. La sua proposta prevedeva la realizzazione di una camera d’aria

realizzata con una foglia di gomma o di tela impregnata di gomma, un rivestimento in

cuoio per sopportare il peso e le sollecitazioni della ruota e una valvola attraverso cui

insufflare l’aria all’interno della camera d’aria in modo che “durante la sua rivoluzione

la ruota avrebbe sempre presentato verso la strada, il binario, la carreggiata, un

cuscino d’aria”. Per dimostrare la fattibilità della sua proposta, fece applicare questo

primo pneumatico alle ruote della sua carrozza ed organizzò una prova pratica nel

1849 al Regents Park di Londra. La prova dimostrò che questa soluzione permetteva di

ridurre notevolmente la forza richiesta ai cavalli per trainare la carrozza, la rendeva

molto più maneggevole, ne riduceva il rumore ed aumentava il confort dei passeggeri.

Ma questa dimostrazione, riportata anche nei giornali dell’epoca, rimase confinata tra

le curiosità dell’epoca e cadde nell’oblio. La svolta si ebbe nel 1888 grazie ad un

bambino di dieci anni, figlio di un certo Dunlop, che si lamentava con il papà del suo

triciclo, secondo lui troppo lento e difficile da guidare. Da buon padre e non potendo

deludere le aspettative del suo pargolo, si mise all’opera per trovare una soluzione al

“grande” problema del bimbo. Non sapendo nulla del precedente tentativo di Thomson,

pensò di adattare un tubo di gomma alle ruote in legno del triciclo e per testare la

soluzione, così raccontavano i collaudatori, Dunlop decise di confrontare le

prestazioni della ruota in legno con quella modificata. Prese quindi la ruota in legno e

la lanciò nel cortile in direzione della casa, ma la ruota dopo pochi metri si fermò e

cadde su se stessa. Prese poi la ruota rivestita con il tubo in gomma e la lanciò con la

stessa forza; la gomma attraversò tutto il cortile ed andò a sbattere contro il muro della

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casa rimbalzando. Intuita la potenzialità economica della sua applicazione, lo stesso

anno la brevettò indicandone anche le possibili applicazioni su biciclette, carrozzelle e

veicoli leggeri. L’anno seguente la sua invenzione venne applicata alle ruote della

bicicletta di un certo William Hume, un mediocre ciclista, che grazie a questa soluzione

vinse facilmente tutte le competizioni organizzate dal Queen’s College Sports di Belfast.

Il successo fu tale che la ditta che aveva fornito la bicicletta a Hume in pochi giorni

vendette più di 50 biciclette! Poi avvenne un episodio veramente singolare, uno di quei

rari esempi di correttezza e di sportività che rappresentano un eccezione, ma che

invece dovrebbero rappresentare la normalità; Dunlop nel 1890 venne a conoscenza del

precedente brevetto di Thomson, di cui nessuno ne ricordava l’esistenza eccetto un

solerte impiegato dell’Ufficio Brevetti che lo trovò durante la risistemazione degli

archivi. Dunlop, informato, avvisò i capi della sua azienda che stavano

commercializzando la nuova ruota e congiuntamente decisero di comunicare l’episodio

alla stampa specificando, però, che Dunlop era giunto alla stessa soluzione pur

partendo da premesse differenti. L’opinione pubblica lodò Dunlop per la correttezza,

ma gli tolse il brevetto che venne restituito “postumo” a Thomson. Risolto l’aspetto

legale, rimanevano però da risolvere due grossi problemi che limitavano l’applicabilità

del pneumatico: il fissaggio del pneumatico al cerchione e le frequentissime e

fastidiosissime forature che rendevano laboriosa la sua sostituzione. Infatti, per

riparare quei primi pneumatici occorrevano almeno tre ore di lavoro ed un’intera notte

per l’essiccazione della tela e l’incollaggio al cerchione, tempo eccessivamente lungo

per una possibile applicazione alle prime vetture dell’epoca! Il primo problema venne

risolto da un ingegnere di nome Welch che inventò il tallone, cioè un cerchione non più

piatto come quello usato sui carri, ma dotato di un incavo per alloggiare la camera

d’aria e con due rialzi laterali che, secondo le sue intenzioni, avrebbero dovuto

trattenere, pinzandole in una specie di tenaglia, le parti del copertone che nel

montaggio dovevano incastrarsi nei rialzi. Ma l’esperienza pratica dimostrò che in

realtà bastava anche solo un leggero gonfiaggio della camera d’aria per far sfilare il

copertone. Fu l’inventore americano Bartlett che trovò la soluzione al problema.

Bartlett ideò un copertone in cui due cavi d’acciaio affogati nel copertone (chiamati

cerchietti) correvano lungo tutta la sua circonferenza e si andavano ad incastrare nei

due rialzi proposti da Welch impedendone quindi la fuoriuscita anche in caso di

gonfiaggio della camera d’aria. Un altro problema era rappresentato dal

surriscaldamento del pneumatico causato dallo scorrimento delle varie trame che lo

componevano provocandone quindi una rapida usura. Vennero proposti e brevettati

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vari tessuti e varie trame, ma alla fine prevalse la proposta di Moseley che prevedeva

un tessuto senza trama, costituito da una striscia di fili paralleli annegati nella gomma e

disposti su strati sovrapposti ed incrociati. L’ultimo componente dei primi pneumatici

oggetto di miglioria, congiuntamente con il materiale costituente il pneumatico, fu il

battistrada; all’inizio era realizzato in cuoio in quanto questo materiale consentiva

l’inserimento di chiodi o borchie utilizzati per migliorare l’aderenza del pneumatico al

terreno. Come ti ho accennato all’inizio del racconto, le prime gomme erano biancastre

perché realizzate con gomma naturale e tendevano ad usurarsi rapidamente sulle

asperità del terreno che non era asfaltato come ai giorni nostri. Per ovviare a questa

debolezza della gomma, nel 1912 si introdusse nella mescola per la realizzazione dei

pneumatici, il nerofumo che aveva la capacità di aumentarne la resistenza. Con

l’avvento di queste nuove mescole, il battistrada in cuoio venne rapidamente sostituito

da un battistrada scolpito in gomma, quello per intenderci che si può trovare sulle tue

gomme, ma anche sulle mie,. Anzi, molte case produttrici di pneumatici, per farsi

pubblicità, scolpirono addirittura il loro nome sul battistrada in modo che rimanesse

impresso nella polvere delle dissestate strade di allora. A causa dei problemi che ti ho

elencato, fino a fine Ottocento i pneumatici erano stati applicati solo alle ruote delle

biciclette; la prima applicazione automobilistica, infatti, si deve ai fratelli Michelin che

forti della loro esperienza maturata con le ruote delle biciclette decisero di applicarla

anche alle ruote delle automobili prima e degli autocarri poi. L’occasione si presentò ai

due fratelli quando nella loro azienda di Clermont-Ferrand, specializzata nella

produzione di attrezzi agricoli e palle in gomma, si presentò un ciclista per acquistare i

prodotti necessari per riparare i pneumatici della sua bicicletta. Edmound Michelin,

conscio della complessità dell’operazione e dei lunghi tempi per completarla maturò

l’idea di rendere facilmente smontabile e riparabile un pneumatico. A seguito dei suoi

studi per rendere agevole la sua sostituzione, brevettò la sua invenzione che consentiva

di riparare un pneumatico in soli 15 minuti. La corsa ciclistica Parigi-Brest-Parigi del

1891 gli consentì di presentare la mondo la sua soluzione. Infatti, il loro ciclista Terront

vinse la corsa cambiando ben 5 pneumatici alla sua bicicletta. A seguito del successo

ottenuto, organizzarono un’altra competizione ciclistica che si svolse tra Parigi e

Clermont-Ferrand e per dimostrare la bontà della loro soluzione, cospersero di chiodi

il percorso che seguirono a bordo della loro Eclair dotata di pneumatici gonfiati con

aria. Fu la prima applicazione automobilistica dei pneumatici! I due fratelli, inoltre,

compresero l’importanza della pubblicità e della necessità di avere un simbolo che ne

potesse immediatamente far risaltare il nome tra i concorrenti. L’idea di “Bibendum”,

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l’omino simbolo della Michelin realizzato con tanti pneumatici bianchi, nacque, così

vuole la tradizione, all’Esposizione Universale del 1894. Si racconta che all’ingresso del

loro stand fossero state collocate due pile piuttosto alte di pneumatici e che Edmound,

che aveva un trascorso da pittore, osservandole abbia esclamato: “Se avesse braccia e

gambe sarebbe un omino di neve!”. L’idea venne ripresa dal fratello qualche anno dopo

e con l’aiuto del grafico O’Galop propose al pubblico il celebre omino che secondo i

due ideatori ricordava un bevitore di birra; da questa somiglianza fu mutuato il nome di

Bibendum, ripreso da un verso del poeta latino Orazio che diceva “Nunc est

bibendum!”, cioè “Adesso dobbiamo bere!”. Ovviamente l’utilizzo dei pneumatici sulle

vetture impiegò molti anni prima di prendere il sopravvento sulla ruota piena poiché i

detrattori ne contestavano la scarsa durata rispetto alle gomme piene (dicevano che

duravano 7000 chilometri, mentre una ruota piena ne durava, secondo loro, anche

15000), la facilità di foratura, …

Ma il commento più strano che mi ho sentito è questo: “La vettura del Re monta gomme

piene; ciò che soddisfa lui deve soddisfare chiunque!”. Ma la storia recente fece cadere

molti Re e quindi il pneumatico ebbe la strada libera per la sua diffusione!

- Grazie della spiegazione, ma non capisco perché non li sostituisci con pneumatici

completamente neri.

- Perché molto spesso vengo utilizzata per portare a spasso le giovani coppie di sposi

che per il loro giorno più emozionante vogliono festeggiare, ma anche attirare

l’attenzione, viaggiando su auto non più in produzione, come ad esempio me o la

Balilla. Infatti, la scorsa domenica sono stata addobbata con delle belle rose bianche,

che esaltavano la mia scura carrozzeria, per accompagnare all’altare una giovane

sposa tutta emozionata. Ho atteso pazientemente l’uscita degli sposi dalla chiesa ed ho

osservato preoccupata il lancio del riso agli sposi.

- Lancio del riso? Ma perché agli sposi si lancia del riso? – chiese stupita la giovane 500.

- Devi sapere, disse la Campagnola che l’usanza del lancio del riso sugli sposi ha origine

dalla tradizione cinese: un’antica leggenda narra che il Genio Buono, alla vista dei

contadini colpiti da una grave carestia, mosso a pietà abbia chiesto loro di irrigare i

campi con l’acqua del fiume in cui egli disperse i propri denti. L’acqua trasformò i denti

in semi, da cui germogliarono migliaia di piante di riso, che sfamarono l’intera

popolazione. Il riso da allora divenne simbolo di abbondanza e prosperità e lanciarlo

sugli sposi equivale ad augurare loro un futuro di felicità e soddisfazioni.

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- Ma per noi che dobbiamo poi accompagnare gli sposi a fare le fotografie e poi al

ristorante per il banchetto nuziale, proseguì la 600, è sempre una tortura perché i

chicchi lanciati alla fine cadono sui nostri tappetini e sedili rendendo poi complicato il

lavoro di rimozione e pulizia! Dobbiamo passare almeno un’ora ogni volta ferme ad

ascoltare il borbottio continuo e fastidioso dell’aspirapolvere che disperatamente cerca

di intrufolarsi in ogni nostro angolino per aspirare anche un solo chicco dispettoso che

vuole giocare a nascondino!

Ci fu un momento di silenzio a cui tutti i presenti parteciparono assorti nei propri pensieri e

ricordi; fino a qualche tempo prima potevano correre liberamente, confrontarsi con le loro

coetanee, mentre adesso erano relegate in un capannone ad aspettare qualcuno, qualche

romantico, che, magari ricordando l’auto che da bambino lo portava a scuola o al mare, o la

macchina dei nonni, voleva essere accompagnato all’altare sull’onda dei ricordi, dell’emozione

di un affetto che inesorabilmente il tempo aveva portato via.

La vecchia 500 si fece avanti con le sue forme rotonde, amichevoli, robuste e fluide che, come

sosteneva Giocosa, davano l’idea del movimento anche da ferme ed invitò una timida ospite

della serata a presentarsi ed a raccontare la sua esperienza, le sue emozioni, le sue storie.

Era una graziosa vettura grigia con due acuti fari rotondi all’estremità del frontale dominato

da un vistoso paraurti in plastica che terminava appena sotto ad un liscio cofano motore

sovrastato da una vistosa presa d’aria in plastica nera.

Le maniglie delle porte, sempre in plastica nera, erano rotonde e graziose e ricordavano le

manopole di una lavatrice. Le ruote erano montate su cerchi in acciaio dominate da uno strano

disegno con quattro rettangolini neri che ricordavano i savoiardi, tipici biscotti piemontesi

chiamati anche Biscotti di Savoia poiché realizzati per la prima volta nel 1348 dal cuoco di

Amedeo VI di Savoia in occasione della visita del Re di Francia e abitualmente dati come dolce

ai piccoli rampolli della storica Casata, che però appesantivano la semplice, ma elegante linea

che terminava con un cofano spiovente chiuso da un grande paraurti nero su cui erano

incastonati i fanali posteriori sempre di forma rettangolare e separati da una vecchia targa

nera con scritte rosse e bianche, segni di un passato recente.

- Il mio nome è Ritmo, si presentò, e sono nata nel 1978 dopo anni difficili, segnati dalla

crisi petrolifera che costrinse gli Italiani a rinunciare alle gite fuori porta la domenica

limitandosi a passeggiare per le città con la radiolina a pile in un orecchio per

ascoltare le partite di calcio e soffrire per e con la squadra del cuore, degli scioperi che

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paralizzavano le città e gli stabilimenti, anni in cui in FIAT, dopo la fine dell’epoca d’oro

di Valletta che per tanti anni aveva saputo tenere con mano ferma il timone della più

grande azienda italiana del tempo, si era cercato un capitano che potesse traghettarla

fuori dal questo mare in tempesta! Avevo il compito di raccogliere l’eredità pesante

lasciata dalla 128, prima auto FIAT a trazione anteriore, lodata da tutti per le sue

eccellenti doti stradali, ma ormai terribilmente vecchia con la sua linea squadrata che

sembrava disegnata da un bambino e non più in linea con le nuove tendenze della moda

che erano state anticipate da Giugiaro con la Golf. Occorreva un’auto che avesse una

linea inconfondibile, che potesse attirare l’attenzione, ma che conservasse i pregi di

guidabilità della 128, che fosse polivalente ed adatta alle famiglie, che avesse una

meccanica robusta ed affidabile e che potesse esser riparata anche dal meccanico sotto

casa. Per differenziarmi dalle altre vetture, i progettisti esplorarono il mondo della

plastica, materiale che stava conoscendo un rapido successo, da utilizzare sia

all’esterno che all’interno per rendere caldo ed accogliente l’abitacolo, per farlo quasi

diventare un salotto in cui distrarsi durante i viaggi e dimenticare le vecchie utilitarie

con la loro fredda lamiera sempre in vista! Mi fu assegnato il nome di progetto X1/38 e

fui completamente sviluppata dal centro stile di Boano, sia per gli interni che per

l’esterno. La tradizione FIAT riporta che un giorno Enzo Ferrari, fondatore della

famosa casa automobilistica, volle salire a bordo di una Ritmo come me perché voleva

vedere e provare gli interni realizzati con questo nuovo materiale e rimase così

sbigottito che si affrettò a commentare che tutta quella plastica faceva sembrare quella

macchina un grande imballaggio! Ero considerata l’auto dei tanti primati perché

riuscivo a percorrere il tragitto Milano – Napoli con un solo pieno. Ero apprezzata dai

guidatori perché molto silenziosa e comoda ed ottenni un ottimo punteggio nelle prove

di urto americane. Fui però anche un elemento di rottura con la tradizione perché con

me si introdussero i robot nella produzione delle auto; pensa che per costruirmi

bastava la metà degli operai che sarebbero serviti utilizzando le tecniche tradizionali.

Fui quindi la causa delle lotte degli operai che vedevano nei robot un concorrente, la

causa della loro disoccupazione.

- Ma perché, prima come venivano costruite le auto? – chiese la 500.

- Devi sapere, si intrufolò nuovamente la Balilla, che all’inizio la produzione delle auto

era artigianale, esattamente come avveniva per la realizzazione delle carrozze o dei

carri. Solo con le teorie di Henry Ford, nel 1906, si passò dal concetto di artigianato al

concetto di catena di montaggio, quella da cui siamo nati sia tu che io.

- Catena di montaggio?

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- Si, ed è stata una rivoluzione sia per quanto riguarda la tecnica produttiva che per

quanto riguarda la sociologia del lavoro. Si racconta che Ford applicò il concetto di

catena di montaggio alle sue fabbriche sull’esempio di quanto aveva visto fare nei

macelli di Chicago in cui per il trasporto dei grandi pezzi di carne da tagliare venivano

utilizzati dei sistemi di trasporto dedicati e le persone venivano impiegate per eseguire

solo una determinata operazione e non tutto il procedimento di macellazione. In pratica,

l’operaio specializzato, che aveva dominato la scena fino ad allora, cioè un operaio in

grado di eseguire tutte le operazioni necessarie alla realizzazione del veicolo, veniva

sostituito da operai-montatori, ciascuno specializzato solo in una serie limitata di

operazioni. La catena di montaggio è, in pratica, un processo di assemblaggio in cui si

cerca di ottimizzare il lavoro degli operai per ridurre i tempi di montaggio ed i costi; se

all’inizio un’azienda si poteva permettere di realizzare una vettura a settimana, oggi per

essere competitivi e ridurre i costi è necessario realizzarla in otto ore e considera che

le vetture attuali sono molto più complesse di me o di quelle che vedi in questo

capannone! Prima l’operaio aveva una sua area all’interno del capannone in cui

realizzava tutta o parte della vettura e per procurarsi i pezzi necessari alla sua

realizzazione doveva andare fino al magazzino, prendere i pezzi che gli occorrevano

per la lavorazione e poi tornare alla sua postazione di lavoro; con la catena di

montaggio, l’operaio si specializzava solo più in un numero limitato di attività che

ripeteva per tutta la durata del lavoro, mentre la vettura viaggiava lungo una linea di

trasporto che la posizionava proprio davanti a lui ed i pezzi da montare gli venivano

forniti o da colleghi o da nastri trasportatori che li depositavano sempre accanto alla

sua postazione. Finita l’operazione la vettura in automatico avanzava alla stazione

successiva dove un altro operaio eseguiva l’operazione successiva. Per farti un

esempio, se prima un operaio doveva montare i parafanghi e le ruote, adesso uno

montava solo i parafanghi, un altro solo le ruote ed i pezzi necessari erano già lì

accanto a loro in modo da non interrompere il lavoro di assemblaggio della linea.

Per l’operaio si trattava quindi di un lavoro meccanico e ripetitivo che, secondo molti

studiosi del tempo, poteva portare a disturbi motori o problemi mentali. Famoso è un

film in bianco e nero di Charlie Chaplin, “Tempi moderni”, in cui vengono denunciati,

sotto forma di racconto comico, i rischi che potevano nascere da un sistema produttivo

come quello proposto da Ford ed applicato da tutti i costruttori come segno di

modernità. L’operaio era costretto ad eseguire la sua mansione nel rispetto delle

tempistiche assegnate, non per propria volontà o per paura di sanzioni disciplinari, ma

perché, scaduto il tempo necessario, il veicolo veniva spinto avanti dalla catena di

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montaggio e se l’operazione non era stata portata a termine si creava un blocco della

linea con le inevitabili conseguenze!

- Dunque, con me, proseguì la Ritmo, si è iniziato ad applicare i robot e l’automazione

alla produzione per sgravare le persone dall’eseguire operazioni meccaniche, ripetitive,

faticose o pericolose ricorrendo al loro aiuto ed assistenza, dapprima nella saldatura

della scocca e nella verniciatura per poi estendersi all’assemblaggio di porte,

portelloni, cristalli, cruscotti. In questa nuova configurazione, l’operaio ha

riconquistato il suo ruolo di operaio specializzato, poiché a lui è stato delegato il

controllo delle operazioni svolte dalle macchine.

- Ma come sono nati i robot? – chiese incuriosita la giovane 500.

- Anche se sembrerà strano, proseguì, la storia dei robot è antica; le sue origini si

possono ritrovare addirittura nell’antica Grecia, con i famosi automi. E’ il concetto o

l’uso dei robot che creano una grossa differenza tra gli automi ed i robot come li

intendiamo noi adesso. Cominciamo dal nome di “robot”; il termine deriva da una

parola medioevale di origine ceca utilizzata per descrivere il lavoro obbligatorio

(corvée) che i contadini, chiamati servi della gleba, dovevano prestare a titolo gratuito

al loro signore, chiamato feudatario. In quest’ottica, una sua possibile traduzione

potrebbe essere “lavoratore per lavori pesanti, gravosi”. Sembra una sciocchezza, ma è

in questa definizione che si può riscontrare la differenza tra i primi “robot”, gli automi,

ed i robot come li intendiamo noi. I primi erano una “machina ludens”, cioè macchine da

gioco nate per incantare e divertire i re, i nobili o la gente nei teatri, commissionate da

persone che volevano stupire o affermare il proprio prestigio all’occhio dei

contemporanei, mentre i secondi sono macchine fatte per lavorare, per ridurre tempi ed

i costi di produzione o per sollevare l’uomo da attività pericolose, come ad esempio,

aprire i bagagli abbandonati all’aeroporto, ispezionare condotti, cercare dispersi sotto

le macerie.

Gli automi erano delle macchine realizzate per eseguire dei movimenti o emettere suoni

sfruttando l’acqua, il vapore o l’aria. Le prime tracce di queste macchine create per

stupire si trovano negli scritti di Erone di Alessandria, considerato dai suoi

contemporanei un “mago” nella realizzazione di queste macchine. A lui si deve il primo

distributore automatico di bevande, poiché la tradizione vuole che Erone abbia

costruito una macchina che a seguito dell’introduzione di una moneta in una fessura

consentiva l’erogazione di una determinata quantità di acqua o di vino, e le prime porte

ad apertura automatica realizzate in un tempio della sua città sfruttando l’aria calda

prodotta da un braciere. Accendendo il braciere posto davanti alla divinità le porte si

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aprivano come d’incanto, mentre spegnendolo si richiudevano tra lo stupore della

gente che attribuiva il fenomeno alla volontà della divinità del tempio!

Si arriva quindi all’800 d.C. quando gli Arabi sfruttarono le conoscenze tramandate da

Erone per costruire macchine per stupire gli ospiti dei loro palazzi. Ad esempio, il

califfo al-Ma’mun si fece costruire un albero in oro ed argento sui cui alberi alcuni

uccellini come per magia cantavano delle melodie, mentre altri califfi si fecero costruire

altri alberi in cui gli uccellini oltre a cantare muovevano anche le ali. Si racconta che

nel 1206 Al-Jazari realizzò, per intrattenere gli ospiti alle feste di corte, una barca che

galleggiava in un laghetto su cui erano collocati quattro musicisti, tra cui un tamburino

che tramite il movimento di alcune leve era in grado di eseguire varie melodie oltre che

alcuni movimenti del corpo e del viso.

Anche Leonardo da Vinci si interessò a queste macchine; sua è la realizzazione di un

automa con le sembianze di un cavaliere in armatura in grado di alzarsi in piedi, agitare

le braccia e muovere la testa, mentre Luigi XIV, il famoso Re Sole, da bambino giocava

con un cocchio in miniatura, realizzato da un artigiano di nome Camus, con cavalli e

fanti in grado di muoversi da soli.

Con lo sviluppo dei meccanismi degli orologi avvenuta nel tardo Medio Evo, i tecnici di

quel tempo realizzarono capolavori di orologeria all’interno dei campanili, come ad a

Venezia dove è possibile osservare il celebre orologio dei Mori; al rintocco delle ore, i

due mori, così chiamati per via del loro colore scuro, si inchinano alla Madonna e

colpiscono le campane con un martello.

Il culmine degli automi mossi con meccanismi derivati dall’orologeria si ebbe nel

Settecento con le realizzazioni di Vaucanson; famosi rimangono il suonatore di flauto e

l’anatra meccanica, un automa in grado da prendere il grano dalla mano di una persona

allungando il suo collo, di digerirlo e di restituirlo in poltiglia espellendolo da sotto la

sua coda!

Ma come ti avevo accennato, i tecnici di allora non si resero conto della possibilità di

applicare questi meccanismi alla produzione anche perché a quei tempi la manodopera

era relativamente a basso costo e non si era ancora entrati nell’epoca della rivoluzione

industriale e delle logiche di mercato in cui i fattori tempo e costo avrebbero assunto

un peso rilevante. Il cambio di mentalità, cioè il passaggio da macchine automatiche per

stupire a macchine automatiche per il lavoro arrivò solo ad inizio Ottocento, in piena

rivoluzione industriale, con il telaio Jacquard che, utilizzando una serie di schede

preforate in cartone, era in grado di realizzare da solo differenti tipi di tessitura. Il

meccanismo riprendeva il principio di funzionamento dei carillon, dove un tamburo

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rotante su cui sono stati incisi vari rilievi di metallo mette in vibrazione delle lamine

metalliche disposte a pettine causando la produzione della melodia; cambiando il

tamburo, varia la melodia. Nel caso del telaio, cambiando la scheda preforata cambiava

la trama della tessitura!

Le prime applicazioni negli impianti industriali si ebbero solo negli Anni Cinquanta dl

secolo scorso, grazie a quelli che sono considerati i padri degli attuali robot, gli

ingegneri Vale, Devol ed Engelberger che nel 1946 realizzarono il primo robot

“industriale”. Ma la prima applicazione “di massa” di robot nell’industria si ebbe solo

negli Anni Settanta con l’uso dei robot per le operazioni di saldatura ed assemblaggio

della scocca e per la verniciatura.

Oggi, grazie agli enormi passi dell’elettronica e dei sistemi di controllo, si hanno robot

in grado di eseguire operazioni complesse, come ad esempio il taglio laser, o di

precisione come foratura, fresatura.

Venne finalmente il turno di una vettura alta e squadrata, con un grande parabrezza piatto e

segnato da un piccolo tergicristallo nero, con le saldature a vista sul tetto e le cerniere delle

porte in bella mostra sulla fiancata. Il frontale piatto, dominato da grandi fari rettangolari

chiusi da due frecce di colore arancione che sovrastavano un semplice paraurti grigio, che

nascondeva un frullante motore, ed una lunga fascia metallica appesantita da una serie di

feritoie che nella sua essenzialità le conferiva un’aria giovane e simpatica che ben si

armonizzava con la piatta e semplice fiancata su cui imperava un’imponente fascione in

plastica grigia che collegava le due piccole ruotine.

- Il mio nome è Panda, sono stata presentata al pubblico nel 1980 per sostituire le piccole

utilitarie che ormai non riuscivano a tenere il passo della concorrenza. Secondo

l’intenzione dei miei creatori avrei dovuto sostituire la 126, utilitaria di rottura con il

passato in quanto, a differenza di quanto raccontatoti dalla Balilla, con la 126 si

sviluppò il concetto di “seconda auto”; erano ormai finiti i tempi in cui le famiglie

italiane potevano permettersi solo una vettura da usare per il lavoro e per la famiglia.

Con il benessere che si respirava negli Anni Settanta, nacque la possibilità di avere

anche una seconda auto, per le mogli e per le mamme che così si rendevano autonome

ed indipendenti. La storia racconta che nel 1976, pochi giorni prima dell’inizio delle

vacanze estive, la FIAT contattò Giugiaro per proporgli lo studio di una vettura

utilitaria, spartana, ma con una buona abitabilità, in grado di sostituire l’ormai vecchia

126. Giugiaro si portò i compiti in vacanza e sviluppò l’auto partendo non dagli

ingombri o dalla sua missione, cioè essere un’utilitaria cittadina, ma partì dall’abitacolo

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e dai passeggeri sviluppando quindi un veicolo che sembrava un grosso frigorifero,

essendo alto e squadrato, ma creando un ambiente molto abitabile in cui si

intravedevano i primi elementi che sarebbero poi stati alla base dello sviluppo delle

monovolume attuali, cioè vetture caratterizzate da un’elevata spaziosità longitudinale e

verticale dell’abitacolo. La vettura che portò al successo questa nuova formula di auto

fu la Renault Espace presentata al pubblico nel 1984, dapprima guardata con diffidenza

e poi osannata come esempio di razionalità e spaziosità. Però già nel passato

automobilistico si ebbero esempi prematuri o acerbi di vetture in cui si voleva garantire

ai passeggeri uno spazio a disposizione maggiore che sulle altre vetture. Nel passato

recente si possono ricordare la FIAT 600 Multipla, presentata nel 1956 che sfruttando la

meccanica della sua sorella 600 poteva offrire ben sei posti su tre file di sedili oppure

un ampio veno di carico in una carrozzeria comunque da utilitaria, oppure il primo

minibus della storia, il famoso FIAT 850 pulmino del 1965, utilizzato da molti oratori o

società sportive per portare i ragazzi in gita o sui campi per affannati tornei di calcio.

Ma la cosa curiosa è che il primo esempio di monovolume “ante litteram” risale

addirittura al 1913 e fu realizzato da Ettore Castagna, famoso carrozziere di Milano, in

collaborazione con il Conte Ricotti che ne curò la progettazione ispirandosi alla forma

dei dirigibili, mezzo di trasporto molto in voga a quel tempo. Sfruttando la meccanica

dell’Alfa Romeo 46/60 Hp, realizzarono una carrozzeria aerodinamica a forma di

goccia; la vettura, chiamata appunto Aerodinamica, nonostante la forma avveniristica

ed inconsueta per i tempi fu un successo poiché ne vennero realizzate ben ventisette.

Oggi ne rimane solo più una, abbandonata tristemente nel Museo dell’Alfa Romeo di

Arese. Ma allora il concetto di abitabilità era solo agli inizi e l’abilità e lo sfruttamento

dello spazio all’interno dei veicoli erano i temi preferiti dai Carrozzieri che li

declinavano in varie proposte ai vari Saloni dell’Automobile.

Giugiaro al rientro dalle vacanze presentò la sua proposta che fu subito ben accolta in

FIAT; era semplice e pratica, economica da costruire e da mantenere. Pensa che i sedili

erano realizzati con dei tubi di metallo rivestiti con un semplice tessuto; diciamo che si

ispiravano all’amaca, un sistema comodo ed economico per riposare inventato dai

Maya ed immediatamente adottato dai marinai Spagnoli per dormire sulle loro navi

durante le lunghe e pericolose traversate oceaniche. La parola stessa “amaca”, nella

lingua dei nativi di Haiti, significa “rete da pesca” poiché le prime amache venivano

realizzate con cortecce d’albero intrecciate che ricordavano una rete da pesca. L’amaca

divenne uno complemento d’arredo diffusissimo nel Sud America perché aveva la

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capacità di evitare la trasmissione di malattie, punture di insetti o morsi di animale, tra

cui i serpenti, poiché consentiva di riposare su una specie di letto sospeso dal terreno.

Ero stata pensata anche per le giovani mamme che potevano realizzare una comoda

culla per i bebè ripiegando i sedili posteriori o per le giovani coppie in vacanza che

potevano sistemare i sedili in modo da realizzare un “comodo” letto matrimoniale!

Pensa che ebbi così tanto successo che rimasi in produzione per ben ventitré anni,

diventando la FIAT prodotta più a lungo di tutta la sua storia; venni mandata in

pensione non a causa della mia linea o della mia semplicità, ma perché ormai il

progetto era talmente superato che non ero più in grado di rispettare le normative

relative alla sicurezza e protezione dei passeggeri in caso di urto!

Ero una vettura inarrestabile; sulla neve, grazie alla mia altezza, potevo competere con

i fuoristrada ed il mio proprietario, un anziano contadino, mi faceva pure competere

con i trattori! Mi usava infatti come muletto per portare gli attrezzi necessari per la

conduzione della campagna come badili, zappe; come furgoncino per trasportare

pesanti sacchi di concime, sementi e poi come rimorchio per l’erba che andava a

tagliare fresca nei prati con la falce per darla da mangiare alla sue tre mucche che

accudiva come figlie nella sua piccola stalla. Non ti dico che passeggiate in mezzo a

prati accidentati con le sospensioni che si torcevano sui sassi o i percorsi dissestati

che ero obbligata a seguire per raggiungere i campi ed i prati. E poi i due cani che si

portava sempre dietro e che ad ogni curva rotolavano da una parte all’altra del cofano!

I sedili sempre sporchi, l’abitacolo zeppo di polvere e terra, la carrozzeria degna di una

Delta dopo un rally africano. Con me hanno imparato a guidare i suoi innumerevoli

nipoti, ma nonostante tutto sono ancora qui con tanta voglia di continuare a correre.

Adesso mi vedi bella lucida, ma quando sono arrivata in questo piazzale volevano

rottamarmi; è stata la buona volontà di Tony che con sacrifici e passione è andato in

giro per sfasciacarrozze a cercare i pezzi di ricambio per ripararmi convinto che io

rappresenti un pezzo importante nella storia delle utilitarie anche se poi ho scoperto

che il mio restauro è partito dal suo cuore perché sono stata la sua prima macchina e

come dice un famoso detto popolare “il primo amore non si scorda mai”!

- Ma tu non ti sei mai ribellata per come venivi trattata? – chiese sconvolta la giovane

500.

- Assolutamente no, perché io non ero una vettura per andare a passeggio, io ero il suo

mezzo di lavoro e quindi mi trattava come trattava i trattori. Pretendeva che io eseguissi

bene e senza incertezze la mia missione ed io ero e sono orgogliosa di non averlo mai

tradito, di averlo sempre condotto in sicurezza per i campi e per i prati. Pensa che

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quando faceva tanto caldo, il mio simpatico contadino si fermava sotto un grande

albero per prendere un po’ di fresco. Tirava fuori dal suo sacchetto un salame o del

formaggio e poi prendeva dalla tasca della mia portiera una bella bottiglia di vino e tra

un sorso ed un robatà si rinfrescava e si ritemprava dalle fatiche. Sembrava di ritornare

indietro nel tempo quando i poeti cantavano la natura come luogo di riposo e di

tranquillità.

- Robatà? Ma che cos’è il robatà? - chiese la 500.

- Per bacco! Il robatà è per definizione il grissino tipico piemontese. Dalla tua domanda,

mi pare di capire che non lo conosci per niente! Visto cha la luna è ancora alta nel cielo

e quindi la notte è ancora giovane mi permetto di raccontarti brevemente la sua storia.

La tradizione vuole che il grissino, chiamato in origine “gherssin” dal nome del pane di

forma allungata che si cuoceva allora e di cui il robatà è il rappresentante tipico di

Torino, fu realizzato per la prima volta nel 1679 dal fornaio di corte Antonio Brunero su

indicazioni del medico Teobaldo Pecchio per nutrire il futuro Duca Vittorio Amedeo II

che era di salute cagionevole ed incapace di digerire la mollica del pane. Si racconta

che il padre del piccolo, il Duca Carlo Emanuele I, preoccupato per la salute del figlio,

convocò i Sindaci, due Senatori e due Consiglieri insieme a quattro panettieri per

conferir loro l’incarico di realizzare un pane buono, sano e ben cotto che potesse

essere mangiato dal piccolo duca. Il fornaio di corte decise quindi di realizzare un pane

biscottato che risultasse quindi ben cotto per consentire al piccolo malato di poterlo

digerire, cosa che puntualmente avvenne. E da questo pane biscotto nacque quello che

viene universalmente chiamato grissino. Il grissino ebbe subito un successo enorme,

anche perché era molto più digeribile del pane e soprattutto si poteva conservare molto

più a lungo. Tra i suoi estimatori si possono trovare personaggi famosi come ad

esempio il Re di Sardegna Carlo Felice di Savoia che ne era talmente goloso da

sgranocchiarli addirittura mentre assisteva alle opere recitate al Teatro Regio di

Torino. Ma tra i suoi estimatori si può annoverare anche Napoleone Bonaparte il quale

all’inizio dell’Ottocento creò addirittura un servizio di trasporto tra Torino e Parigi per

farsi portare “les petits batons de Turin”.

La storia più recente racconta che sotto l’obelisco di Piazza Siccardi, eretto per

celebrare le nuove leggi dello Stato Sabaudo che limitavano i privilegi del Clero,

vennero sepolti all’interno di una cassetta in legno dei grissini insieme a delle monete,

dei semi di riso ed una bottiglia di Barbera!

- Interessante! Peccato che non possiamo assaggiare questa prelibatezza! – esclamò

entusiasta la 500.

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- Tranquilla, che se avrai la possibilità di portare a spasso dei bambini ne vedrai delle

belle con briciole sparse sui sedili, sui tappetini e magari con grandi manate lasciate

come ricordo sui tuoi vetri!

- Beh, al momento sono fortunata e non corro questo rischio! Però la mia proprietaria

Bianca è giovane e quindi non si può trascurare questa possibilità!

- Mi piace l’entusiasmo dei giovani! – esclamò la vecchia, ma ruggente Panda.

- Ma senti, nel tuo racconto, disse la giovane 500, hai parlato di dirigibili. Non ne ho mai

sentito parlare e credo di non averne mai visto uno. Tu sai cosa sono? Ne hai mai visto

uno?

- Vedi, i dirigibili sono un mezzo di trasporto molto in voga negli Anni Trenta del secolo

scorso, rispose la vecchia 500.

- Credo che alla tua domanda possa rispondere le Balilla che quel periodo l’ha vissuto e

magari ha avuto anche la possibilità di vederli, le fece eco la Panda.

- Effettivamente, disse la 508, ho vissuto nelle descrizioni dei giornali dell’epoca il trionfo

e la caduta di questi primi mezzi di trasporto aereo. Il dirigibile è un grande pallone in

grado di sostenersi in aria, grazie all’Idrogeno o all’Elio, due gas più leggeri dell’aria,

contenuti nel suo grande involucro, e di muoversi grazie a motori e a superfici di

controllo del volo. In pratica è un grande palloncino, simile a quelli che vedi in mano ai

bimbi e che immancabilmente dopo un po’ si liberano dalla loro insicura presa e felici si

alzano nel cielo blu andando a confondersi con le bianche nuvolette.

I dirigibili si dividono in due grandi categorie costruttive. La prima è rappresentata dai

dirigibili “rigidi”, cioè dotati di un telaio in metallo, generalmente in alluminio, a forma

di sigaro e realizzato con tante celle stagne riempite con un gas (Elio o Idrogeno),

mentre la seconda tipologia, chiamata dirigibile “semirigido” è costituita da una

struttura metallica che ricorda lo scafo di una nave su cui è poi collegato un pallone

riempito di gas. Alla prima categoria appartenevano i famosi dirigibili Zeppelin, mentre

alla seconda apparteneva il famoso dirigibile Norge con cui il Generale Umberto Nobile

raggiunse per primo il Polo Nord.

I dirigibili furono i precursori dei viaggi in aereo. Rispetto alle mongolfiere, la cui prima

ascensione avvenne a Parigi nel 1783 ad opera dei fratelli Montgolfier, che venivano

usate per fare ascensioni in alta quota, ma che si muovevano nello spazio seguendo i

venti e le correnti e che quindi non potevano rappresentare un efficace sistema di

trasporto per collegare più destinazioni, il dirigibile aveva anche la possibilità di

muoversi nello spazio trasportando merci e persone. Gli Zeppelin, dirigibili realizzati

dall’Ingegnere tedesco Von Zeppelin e pubblicizzati come massima espressione della

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tecnologia Tedesca del primo Novecento, ad esempio venivano impiegati per

trasportare merci ed un centinaio di passeggeri dall’Europa all’America attraversando

l’Oceano Atlantico, cosa irrealizzabile con una mongolfiera e con gli aeroplani degli

anni Trenta. Questi dirigibili divennero il simbolo di un epoca; i ricchi passeggeri

potevano attraversare l’Europa, l’oceano ed arrivare in America dolcemente cullati dal

vento e coccolati da camerieri in guanti bianchi e da abili cuochi, riposare dondolati dal

vento in lussuose cabine e mantenere i contatti con il mondo grazie ad uno dei primi

sistemi di posta aerea. Infatti, i dirigibili facevano cadere i sacchi postali su precisi

obiettivi e da qui il normale servizio postale provvedeva a recapitarli a destinazione. Ma

il destino di questo sogno era già segnato ed era custodito nelle mani del più semplice

elemento chimico, l’Idrogeno, un gas molto più leggero dell’aria, ma facilmente

infiammabile. Nel 1937 il dirigibile Zeppelin Von Hindenburg, regolarmente partito dalla

Germania arrivò alla sua destinazione, la località di Lakehurt negli Stati Uniti, il 7

maggio durante un fortissimo temporale. Attese fluttuando nell’aria almeno un’ora

prima di decidersi ad effettuare l’atterraggio. Ma nella fase finale delle operazioni, forse

per una scarica elettrostatica dell’atmosfera o forse per alcune fiamme emesse dai

motori di cui era dotato il dirigibile, il sigaro pieno di Idrogeno bruciò in un’immensa

fiammata davanti agli occhi attoniti dei giornalisti. L’impatto sull’opinione pubblica fu

tale che il sipario calò definitivamente su questo aristocratico mezzo di trasporto

salutato dalla stampa dell’epoca come “pioniere dei servizi aerei transatlantici che con

regolarità cronometrica aveva attraversato ripetutamente l’oceano dimostrando in

modo definitivo la vittoria dell’uomo sullo spazio”.

- Sai, disse la 500, mi ricorda il triste destino che subì anche il Concorde, primo aereo

civile supersonico della storia.

- Concorde? – esclamarono con i fari aperti gli altri membri del gruppo.

- Non avete mai sentito parlare del Concorde? Eppure è un aereo progettato e costruito

tanti anni fa, famoso per la sua eleganza e le sue soluzioni tecniche originali ed

innovative. L’unico aereo al mondo che per atterrare era obbligato ad abbassare il suo

lungo ed affusolato muso per consentire ai suoi piloti di vedere la pista!

Pensate che la sua storia è ricca di intoppi e di contrattempi, funestata da crisi

economiche e petrolifere che ne hanno decretato una prematura uscita di scena!

- Allora, visto che fino ad adesso abbiamo raccontato noi le nostre esperienze e le nostre

storie, la provocò la 600, puoi raccontarci tu qualche episodio recente che può aprirci i

fanali su come sta cambiando il mondo dal momento che noi, chiuse qui nel capannone,

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possiamo informarci solo ascoltando i racconti e le confidenze dei vari ospiti che di

volta in volta passano per questo piazzale!

- Certamente! – esclamò contenta la nostra 500. Vi racconterò la storia che Thomas, un

ingegnere che abita nella stessa villa di Bianca, la mia dolce proprietaria, ha raccontato

un tardo pomeriggio estivo contemplando un aereo che sereno completava il suo

avvicinamento all’aeroporto di Torino accompagnato da un bel tramonto dorato che

faceva capolino tra le vette dell’arco alpino.

Il Concorde era nato con l’obiettivo di realizzare un aereo che potesse trasferire le

conoscenze aeronautiche sviluppate per i moderni caccia militari anche ad aerei per il

trasporto civile. Si voleva realizzare un aereo che potesse viaggiare ai limiti

dell’atmosfera terrestre a velocità supersoniche, cioè in grado di abbattere il “muro del

suono”.

- Muro del suono? – chiese un pò diffidente la Lambretta.

- Forse vi sarà capitato di sentire in una tranquilla giornata un forte “bang” che

squarciava la tranquillità della gente con un frastuono simile a quello prosotto da vetri

infranti. Ebbene, quel bang altro non era che il segnale che un caccia aveva superato il

famoso “muro del suono”, così definito dai tecnici che si stavano avventurando nel

campo del volo ad alte prestazioni per evidenziare le tragiche conseguenze di alcuni

voli sperimentali. Infatti, i primi velivoli impiegati per la sperimentazione, a causa

dell’aumento di resistenza e delle vibrazioni a cui venivano sottoposti dalle nuove

condizioni di volo, si disintegravano nel cielo con un effetto simile a quello di un aereo

che si fosse schiantato contro un muro. I primi progetti vennero portati avanti da tecnici

Inglesi, che stavano lavorando sul loro primo progetto già sul finire degli Anni

Cinquanta del secolo scorso, ma poi, a causa degli alti costi necessari per il suo

sviluppo e per le complicazioni tecniche che via via si manifestavano, chiesero a vari

Stati Europei di partecipare all’impresa condividendo rischi e successi. All’appello

risposero solo i tecnici Francesi; da questo momento il progetto prese il nome di

“Concorde”, anche se da subito iniziarono a manifestarsi rivalità e problemi tra i due

gruppi di lavoro, tant’è che scherzosamente si ribattezzò il progetto come “Sconcorde”.

Il primo prototipo, di costruzione francese, effettuò il suo battesimo dell’aria il 2 marzo

del 1969, ma fu il prototipo inglese il primo a volare supersonico il 4 novembre 1970

raggiungendo la velocità di Mach 2, cioè una velocità circa doppia rispetto a quella del

suono! Non ottenne però il primato di primo aereo civile a superare la barriera del

suono poiché preceduto dal suo rivale russo, il Tu-144, chiamato beffardamente

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Concordski, che però non superò mai lo stadio di prototipo a causa di un grave

incidente che lo coinvolse ad una manifestazione aerea..

Dopo ben 5500 ore di collaudi di cui quasi 2000 a velocità supersonica, il 21 gennaio

1976 entrò ufficialmente in servizio tra mille polemiche causate dal suo rumore e dagli

spropositati consumi di cherosene. Pensa che il Concorde per raggiungere la pista di

decollo partendo dalla sua piazzola di sosta consuma qualcosa come 2 tonnellate di

cherosene; per questo motivo, i piloti, una volta atterrati, spegnevano immediatamente

due dei quattro motori per muoversi lungo le piste per raggiungere la piazzola di sosta

dove far sbarcare i passeggeri! La sua produzione terminò nel 1979 per mancanza di

ordini da parte delle compagnie aeree che nel frattempo si erano dotate dei nuovi

giganti dell’aria, i famosi Jumbo. La cosa buffa è che nonostante i tecnici avessero

risolto con successo importanti problemi tecnici, dell’airone dei cieli vennero prodotti

solo 16 velivoli, inclusi i due primi prototipi. La sua storia si interruppe

drammaticamente nel luglio del 2000 vicino a Parigi, dopo quasi trent’anni di attività e

ben 900000 ore di volo a seguito di un gravissimo incidente in fase di decollo.

- Ma tu hai parlato di problemi tecnici che ne hanno condizionato lo sviluppo, però non

capisco cosa ci può essere di tanto complicato quando gli aerei volavano già da molti

anni, chiese curiosa la 600.

- Hai ragione, rispose la giovane 500, ma lo sviluppo degli aerei non aveva ancora

interessato il volo in regime supersonico. Anzi, lo sviluppo dei primi prototipi in grado

di superare questa barriera è stata complessa e travagliata quasi come far arrivare

l’uomo sulla luna! Nessuno fino all’avvento dell’aereo-razzo Bell XS-1 pilotato da

Charles "Chuck" Yeager, che diventò il primo uomo a volare più veloce del suono in

volo livellato il 14 ottobre 1947, aveva mai raggiunto un traguardo simile. Addirittura

grandi menti scientifiche erano giunte a pensare che l’abbattimento del muro del suono

avrebbe portato alla distruzione dell’aereo cosa che invece non avvenne. L’unico

fenomeno associato al superamento di questo limite fu la produzione di due fragorosi

boati, battezzati dalla gente “boom sonico” per evidenziare l'abbattimento del muro del

suono!

Comunque, il primo problema che i tecnici dovettero affrontare per la realizzazione del

Concorde riguardava il volo supersonico. Infatti, quando un aereo supera il muro del

suono è soggetto ad effetti aerodinamici che rendono molto poco confortevole il volo.

Per evitare fastidiosi mal d’aria ai passeggeri, il Concorde fu dotato di un complesso

impianto che pompava il cherosene in vari serbatoi collocati lungo l’aereo per

bilanciare questi effetti. Inoltre, fu munito di una grande ala a delta, cioè a forma di

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triangolo isoscele, che partiva poco dietro la cabina di pilotaggio e terminava poco

prima della coda dell’aereo. Queste ali erano e sono tuttora un capolavoro di

ingegneria anche perché i tecnici riuscirono a sistemare i quattro motori direttamente

all’interno dell’ala sia per risolvere problemi legati all’aerodinamica che per evitare di

avere carrelli con lunghe gambe!

Il secondo problema che affrontarono era legato all’allungamento dell’aereo durante il

volo.

- Allungamento durante il volo? – chiesero perplessi gli ascoltatori

- Si, perché in volo supersonico la superficie dell’aereo tende a scaldarsi arrivando

anche a temperature dell’ordine dei 120 – 130°C. Infatti, i piloti durante il volo a velocità

superiori a quelle del suono non potevano toccare i finestrini a causa delle loro elevata

temperatura. La cabina del Concorde, che era realizzata in Alluminio, durante il decollo

si scaldava notevolmente per poi raffreddarsi durante la fase di salita alla quota

prestabilita. A velocità supersonica si scaldava ulteriormente e poi nella fase di discesa

si raffreddava per poi riscaldarsi ancora durante l’atterraggio. Tutti questi fenomeni

dovuti al moto dell’aria intorno all’aereo facevano sì che il Concorde una volta atterrato

fosse più lungo di circa 30 centimetri rispetto a quando aveva lasciato l’aeroporto di

partenza. Per attenuare l’effetto del riscaldamento della superficie, tutti i Concorde

erano stati verniciati di bianco e quando nel 1996, per motivi pubblicitari, si decise di

verniciare in blu un velivolo, ai piloti venne proibito di viaggiare a velocità supersonica

per più di venti minuti consecutivi e di limitare la velocità a 1,7 Mach (contro i 2 Mach di

crociera).

Un altro problema, legato alla sicurezza dell’equipaggio e dei passeggeri e che fu

affrontato in modo originale, fu la pressurizzazione della cabina, dove con il termine

“pressurizzazione” si evidenzia il fatto che la pressione all’interno della cabina è

differente da quella all’esterno. Un aereo che vola ad una quota superiore ai 6000 metri

vola in una zona dell’atmosfera terrestre dove la presenza di Ossigeno è scarsa e

quindi la vita umana, in queste condizioni, non è possibile perché “manca l’aria!”; infatti

i piloti militari nei loro caccia indossano una mascherina da cui possono respirare

l’Ossigeno necessario all’organismo. Ma su di un velivolo commerciale non è possibile

obbligare i passeggeri a sopportare una simile tortura e quindi si ricorre alla

pressurizzazione della cabina. In pratica si prende un po’ di aria dai motori dell’aereo,

dalla zona dei compressori, la si raffredda poiché molto calda e la si umidifica, perché

altrimenti sarebbe troppo secca, e la si immette in cabina per ottenere condizioni

ambientali che riproducono un’atmosfera che si può trovare in montagna ad una quota

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di circa 1800 – 2400 metri. Ma il Concorde volava a circa 18000 metri e quindi occorreva

incrementare la pressurizzazione della cabina, cosa alquanto pericolosa poiché in caso

di un cedimento parziale della carlinga si sarebbe ottenuta una improvvisa e rapida

riduzione della pressione che in solo 10 – 15 secondi avrebbe creato danni irreversibili

alla persone poiché non avrebbero avuto il tempo di utilizzare le mascherine per

l’Ossigeno che vengono appunto rilasciate dalle loro sedi in eventi drammatici come

questi. Dunque i tecnici optarono per dei finestrini molto piccoli, grandi circa la metà di

quelli degli altri aerei in modo da ridurre la velocità di riduzione della pressurizzazione

e consentire all’aereo di scendere rapidamente alla quota di sicurezza, cioè a circa

3000 metri.

L’ultimo problema affrontato riguardava l’elemento che ha reso celebre questo aereo, e

cioè il suo lungo ed affilato muso che poteva essere abbassato. La sua forma era un

compromesso tra le necessità aerodinamiche di ridurre l’attrito durante il volo e la

necessità di consentire ai piloti di vedere la pista durante le fasi del volo a terra

(decollo, atterraggio e rullaggio). Infatti, un aereo con le ali come quelle del Concorde

alle basse velocità si comporta come un aquilone nel vento, cioè l’aereo nelle fasi

critiche del volo come il decollo e l’atterraggio ha la tendenza a puntare il muso verso

l’alto rendendo quindi problematico se non impossibile per i piloti vedere la pista.

Dunque il muso venne dotato di un meccanismo in grado di abbassarlo di circa 5° in

fase di decollo e rullaggio e di più di 12° in fase di atterraggio, mentre durante il volo

rimaneva in posizione orizzontale.

A questo punto si fece avanti un’altra vettura che fino ad allora si era tenuta in disparte ad

ascoltare. Era una vettura alta e stretta, con un muso squadrato caratterizzato da una

grande serie di feritoie e due grandi fari rotondi. Il cofano imponente presentava una serie

di gobbe molto vistose che facevano risaltare il piatto parabrezza contornato da due

specchietti francescani che stonavano con l’insieme. Sulla capotta un grande

parallelepipedo rettangolare in metallo e grandi fari rotondi ne segnalavano la storia

passata.

- Io mi ricordo di quando quell’aereo, esordì l’ultima arrivata. Era simile ad un grande

predatore quando atterrò per la prima volta all’aeroporto di Torino tra gli applausi

entusiasti della folla in trepidante attesa. Era un pomeriggio di un sabato di ottobre del

1982 quando un rombo di motori annunciò fragorosamente l’arrivo del grande airone

bianco, con una linea affusolata e snella sorretta da tre sottili gambine che rendevano

delicato e fragile l’insieme. Si fermò all’aeroporto di Torino Caselle alcune ore per poi

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riprendere il volo verso Parigi. Ma osservarlo decollare ad una velocità quasi doppia

rispetto agli altri aerei e vederlo scomparire come un fulmine tra le nuvole del cielo

seguito dall’imponente rombo dei suoi motori mi creò un’emozione unica che ancora

adesso mi fa tremare la marmitta!

Pensa che la sua velocità di decollo, così sentivo dire dai tecnici assiepati attorno a me

ai bordi della pista mentre lo seguivano con lo sguardo ammirato, era di circa 400

km/h, mentre un aereo di linea raggiunge in decollo un po’ più dei 300 km/h, e per

consentirgli di fermarsi all’interno della lunghezza della pista in caso di decollo fallito, i

tecnici che progettarono i freni introdussero addirittura un sistema elettromeccanico

per evitare il bloccaggio dei freni, quello che oggigiorno chiamiamo ABS, realizzarono

dei dischi freno in materiale ceramico, che oggi montano solo vetture ad alte

prestazioni come quelle da corsa. Queste innovative soluzioni consentivano all’elegante

uccello metallico di fermarsi in meno di 1600 metri nonostante una velocità in

atterraggio di 305 km/h e un perso di 188 tonnellate!

- E come mai ti ricordi di questo arrivo che sembra abbia calamitato l’attenzione dei

Torinesi? – chiesero curiose le vetture.

- Perché in quel periodo ero in servizio all’aeroporto di Caselle come vettura “Follow

me”.

- Vettura “Follow me”! Ma cosa significa? – chiese curiosa la 500.

- Dalla tua domanda deduco che non sei mai stata in un aeroporto. L’aeroporto è in

pratica una piccola città divisa in varie aree collegate da una serie di piste, strade e

raccordi. Per un aereo, che è fatto per volare e non per viaggiare a terra, il transito in

aeroporto è un’operazione molto complicata. Se poi i piloti arrivano per la prima volta

in un aeroporto e non hanno cartine aggiornate, perché ogni aeroporto ha una sua

piantina, gli spostamenti diventano un problema. Inoltre gli aerei sono molto grandi e

quindi non possono essere superati come fate voi sulle normali strade! Sono quindi

state predisposte delle vetture come me, chiamate appunto “Follow me” perché su quel

grosso scatolone metallico che abbiamo sul nostro tetto è inserita una scritta luminosa

con scritto “Seguimi” in Inglese, lingua ufficiale dell’aviazione, per guidare i movimenti

degli aerei nell’aeroporto. Per semplificare le cose, in un aeroporto ci sono le piazzole

di sosta dove gli aerei si fermano per far salire (imbarcare) i passeggeri o per farli

scendere (sbarcare), per riempire i serbatoi di carburante e per fare eventualmente della

piccola manutenzione. Poi ci sono le piste di decollo ed atterraggio collegate con i

piazzali da piste di raccordo, chiamate taxiway illuminate con delle delicate lucine blu.

Tutto questo movimento viene coordinato da delle persone che all’interno della torre di

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controllo, gestiscono i movimenti come un direttore d’orchestra gestisce e coordina gli

orchestrali, cioè i membri dell’orchestra che suonano differenti strumenti che insieme

contribuiscono a rendere magica un’aria o un’opera!

- Deve essere bello, disse entusiasta la giovane 500, lavorare in un aeroporto!

- Dipende, perché in un aeroporto ci sono tante cose da fare e possibilmente in tempi

molto rapidi. Ad esempio, un aereo che atterra deve liberare molto velocemente la pista

per non intralciare l’atterraggio successivo. Alle volte capita che un aereo impieghi

troppo tempo a liberare la pista obbligando l’aereo successivo ad eseguire la manovra

di “Go Around”, cioè di riattaccata.

- Riattaccata?

- Si, è una manovra molto comune che i piloti eseguono sempre durante le loro sessioni

di esercitazione al simulatore di volo, che consiste nel riprendere rapidamente quota

anche se si è molto vicini al terreno. La manovra può essere eseguita per vari motivi,

come ad esempio un aereo ancora in pista o un pilota sbadato che entra in pista senza

autorizzazione, per mancanza di visibilità, folate dispettose e molto forti di vento e

consiste nel portare i motori alla massima potenza in modo da guadagnare rapidamente

quota; da qui il forte rumore che i passeggeri sentono e che alcuni interpretano come la

premessa a qualcosa di grave!

- Tu hai parlato di simulatore di volo, ma che cos’è? – chiese la vecchia 500.

- E’ un grosso videogioco molto realistico in cui i piloti si esercitano ad affrontare le

situazioni normali o di pericolo che possono capitare durante un volo. I piloti sono

seduti in una finta cabina che però riproduce fedelmente il Cockpit, cioè la cabina di

pilotaggio dell’aereo, su cui volano (quindi ne esisteranno diverse tipologie in funzione

degli aerei), collocata su una serie di cilindri che simulano i movimenti dell’aereo. Il

parabrezza, invece è costituito da una serie di monitor che rappresentano la situazione

che stanno provando (notte, giorno, nebbia, decollo, volo, …) e che viene gestita da una

serie di operatori che alla fine devono giudicare ed eventualmente correggere le

procedure seguite dai due piloti impegnati nella sessione di simulazione. In pratica, con

il simulatore è possibile simulare la rottura (piantata) di un motore, la foratura di una

gomma in decollo o atterraggio, un atterraggio nella nebbia o senza carrello senza però

rischiare la vite dei piloti e l’integrità dell’aereo.

- Si, ma queste sono situazione che non si presentano mai! – esclamò la Lambretta.

- Quello che dici è vero solo in parte. Innanzi tutto, i piloti hanno la responsabilità di far

arrivare a destinazione molte persone e quindi devono essere preparati, addestrati, a

risolvere al meglio ed in tempi rapidi qualsiasi inconveniente che possa capitare. Infatti,

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se tu finisci al benzina o buchi una gomma o ti si rompe il motore puoi accostare a lato

della strada, mentre un aereo in volo non ha né piazzole di sosta né officine volanti

dove fermarsi per verificare la situazione. Inoltre nelle fase critiche del volo come

decolli ed atterraggi l’aereo è pericolosamente vicino al suolo e quindi basta una

manovra errata per fare danni oppure per cacciarsi in situazioni spinose e pericolose.

Inoltre, nei miei lunghi anni trascorsi in aeroporto, ho assistito a tantissimi

inconvenienti, che sono differenti rispetto agli incidenti, ma che comunque non possono

essere trascurati.

- Ma che differenza c’è tra le due parole? A me sembrano le stesse! – esclamo la Ritmo.

- No, in Italiano sembrano uguali, ma in Inglese, lingua ufficiale dell’aeronautica, hanno

significati per presici. Esistono infatti gli “Incident”, cioè inconvenienti non gravi che

non pregiudicano la sicurezza del volo come ad esempio un ruota sgonfia, una perdita

del sistema idraulico, un motore piantato, gli “Accident”, inconvenienti di maggior

gravità che possono pregiudicare la sicurezza del volo come ad esempio un problema

ad un membro del personale di bordo o ad un passeggero (dal malore ad una frattura)

o un problema all’aeromobile che potrebbe mettere a rischio la continuazione del volo

come ad esempio la rottura di un carrello al decollo, un’aeromobile che finisce fuori

pista, ma senza danni a persone o cose, e “Crash” che sono i nostri “incidenti” che

portano alla distruzione totale o parziale dell’aereo con la perdita di vite umane.

La cosa importante è che le normative aeronautiche richiedono comunque di indagare

su qualsiasi problema si è manifestato durante il volo, dalla sciocchezza al disastro;

questo perché è necessario capire quali sono state le cause del problema (errore dei

piloti, cedimenti meccanici, procedure non corrette) e quali possono essere i mezzi o le

indicazioni (raccomandazioni) necessarie per evitare che il problema si manifesti

nuovamente. Ad esempio, un giorno avevo sentito due piloti che discutevano su un

“incident” occorso a dei colleghi turchi che per un’errata interpretazione delle note i

una cartina avevano rischiato di colpire una collina. La cartina da loro usata riportava

un’indicazione sulla quota minima a cui effettuare la virata - credo che indicasse di non

virare prima di aver raggiunto gli 8000 piedi - ma i due piloti, che non erano mai

atterrati in quell’aeroporto, interpretarono la nota come obbligo di non salire ad una

quota maggiore agli 8000 piedi senza l’autorizzazione della torre di controllo: in

conseguenza di quest’errore di interpretazione, le Autorità Aeronautiche hanno

richiesto l’aggiornamento della cartina con l’inserimento di una frase più chiara.

- Quindi osservando gli aerei in un aeroporto è possibile vedere tanti inconvenienti? –

chiese la Balilla.

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- Fortunatamente questi inconvenienti non sono così frequenti. In tanti anni trascorsi in

aeroporto ho assistito raramente ad atterraggio di aerei senza carrello, oppure decolli

interrotti a causa di motori “piantati”. Invece la cosa che ho visto con maggiore

frequenza sono stati i “Bird strike”, cioè gli impatti degli aerei con volatili vari, anche se

alle volte l’animale era un coniglio!

- Ma come può un uccello creare problemi ad un aereo che è molto più grande di lui? –

chiese la vecchia Campagnola.

- Non è tanto la dimensione dell’animale in sè a rendere pericoloso il fenomeno, quando

l’azione combinata del suo peso (un uccello può pesare qualche chilo) e della velocità

dell’impatto (un aereo decolla a velocità prossime ai 200 chilometri orari). E’ in scala

ridotta lo stesso fenomeno che potete vedere anche voi quando viaggiate sulle strade

nelle serene ed afose sere estive. Gli insetti, mosche, api, zanzare, attratte dalle luci dei

vostri fari, impattano sul parabrezza e, ad esempio nel caso di grossi insetti come

mosconi o api, l’impatto produce un piccolo botto. Se pensate che l’impatto è avvenuto

con un insetto che pesa qualche decina di grammi a velocità modeste, immaginatevi

cosa potrebbe accedere nel caso in cui colpiste un gabbiano a velocità molto più alte!

In prima approssimazione, si può pensare che l’impatto di un aereo con un uccello di

circa 5 chili ad una velocità di 240 km/h equivale all’energia sprigionata dall’impatto al

suolo di una piccola utilitaria che cade da un’altezza di circa due metri!

- E come si può evitare il problema? – chiese curiosa la Balilla.

- Esistono vari metodi che tentano di allontanare gli uccelli dalle zone aeroportuali come

ad esempio sistemi che emettono suoni o fischi o che riproducono il verso di rapaci, ma

il grosso problema è che gli uccelli dopo un po’ si abituano e quindi continuano a

sostare tranquillamente accanto alle piste. Esistono poi metodi più incisivi, come quello

ad esempio utilizzato a Caselle che consiste nel liberare un falco poco prima dei decolli

o degli atterraggi. La sola presenza del falco fa scappare o nascondere gli altri uccelli

rendendo quindi più sicuri gli atterraggi ed i decolli.

- Ma tu hai mai assistito ad un incidente grave di un aereo? – chiese la Lambretta

guardando con fare furbetto la Campagnola.

- Purtroppo si, ho assistito ad un incidente che per fortuna si è concluso con la salvezza

di tutti i passeggeri dell’aereo. Era la notte di Capodanno del 1970, almeno così mi

sembra di ricordare, quando un Caravelle, “Il rapido, sicuro, dolce Caravelle” come lo

chiamava Charles de Grulle, famoso presidente francese, aereo molto apprezzato dai

passeggeri per la sua silenziosità (tant’è che si diceva che un bisbiglio in coda potesse

essere udito dai piloti) si mosse dall’aerostazione di Caselle con le ali zeppe di

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cherosene in mezzo alla nebbia e tra forti raffiche di vento cariche di neve. I mezzi

spazzaneve avevano appena terminato di pulire la pista di decollo e si stavano

spostando nelle taxiway quando il Caravelle si posizionò all’inizio della pista

attendendo l’autorizzazione della torre di controllo per il decollo. Ricevuta

l’autorizzazione, con i motori ruggenti e furiosi, la bianca sagoma dell’aereo iniziò la

sua lunga corsa inghiottito dal buio e dalla nebbia. Io lo stavo osservando incantato dal

mio comodo posteggio sul piazzale; quando l’aereo raggiunse la metà della pista notai

sfocata la sagoma enorme di uno spazzaneve che si era fermato lungo la pista in attesa

di istruzioni; trattenni il fiato, mentre il mio carburatore si stava caricando di aria

pronto per raggiungere con uno scatto fulmineo la pista. Avrei voluto fare qualcosa,

segnalare con suoni o luci il pericolo al pilota, ma ormai era inutile poiché l’aereo

aveva quasi raggiunto la velocità di non ritorno e quindi non si sarebbe potuto fermare

in tempo! Per fortuna, intervento della Divina Provvidenza e l’abilità del comandante,

risolsero la situazione. L’aereo ormai a poca distanza dallo spazzaneve riuscì a

schivarlo passando alla sua sinistra e sfiorando con le ruote l’erba bagnata del prato.

La fusoliera passò a pochi metri dal tetto del mezzo, mentre l’ala destra si fracassò

contro la turbina spazzaneve che fu avvolta da una grande palla di fuoco. Un lampo di

luce illuminò la pista e come un sipario che si alza per mostrare la scena, svelò a tutti il

dramma che si era appena consumato. Nel frattempo, l’aereo anche con un ala distrutta

riuscì a fermarsi senza altri danni ed il comandante diede l’ordine di evacuazione

dell’aereo. Mi lanciai insieme ai mezzi dei pompieri sulla pista raggiungendo in un

baleno l’aereo ed i suoi occupanti che solo una volta a terra si resero conto del

pericolo scampato! In pochi minuti i pompieri domarono le fiamme e mentre il fumo

saliva sconsolato verso il cielo, tutti ringraziammo la Divina Provvidenza che quella

sera non aveva preso parte al Cenone di Capodanno!

- Ma tu hai detto che in caso anche di un inconveniente, le Autorità aprono un’inchiesta

per capire le cause che l’hanno prodotta. Ma se non ci sono testimoni oculari, come nel

caso del tuo racconto, come è possibile ricostruire gli eventi? – chiese perplessa la

giovane 500.

- Hai ragione, se non ci sono testimoni a terra o a bordo non è possibile ricostruire gli

eventi, ma anche se ci fossero, sarebbe alquanto difficile ricostruire i fatti poiché ogni

osservatore, ogni testimone, racconta la sua verità, cioè racconta quello che ha visto o

gli è sembrata di vedere poiché i sentimenti, gli stati d’animo possono inficiare il

racconto eliminando o aggiungendo fatti e circostanze non realmente presenti durante

lo svolgimento dei fatti.

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- E quindi come si può fare? – chiese la vecchia 500.

- Per fortuna sono state inventate le “Black box”, le scatole nere che a dispetto del nome

sono verniciate con colori sgargianti per essere facilmente individuate. Questa “scatola

nera” è in realtà un dispositivo installato a bordo del velivolo che registra una serie di

parametri di volo e dell’aereo nonché le conversazioni dei piloti presenti nella cabina

che possono essere utilizzati in caso di incidente per cercare di definire le cause

dell’incidente. L’idea di avere un dispositivo che registrasse i parametri fondamentali

del volo nacque nel 1953 dalla tragica esperienza vissuta da un chimico australiano,

David Warren, che voleva chiarire le cause che avevano portato alla distruzione il

Comet su cui stavano viaggiando i suoi genitori. Ma per il suo impiego pratico

occorsero anni e nuove legislazioni.

La sua idea era quella di realizzare un apparato in grado registrare le voci dei piloti e

le indicazioni degli strumenti di bordo e che potesse resistere alle sollecitazioni

causate dalla caduta dell’aereo. Infatti, le moderne scatole nere possono resistere a

temperature molto elevate così come a pressioni notevoli, anche quelle che si trovano a

5000 metri sotto il livello del mare. Sono composte da due unità; la prima, collocata

generalmente nella parte posteriore della fusoliera, il Flight Data Recorder (FDR) ha lo

scopo di registrare i parametri di volo quali velocità, quota, accelerazioni, posizione

delle superfici di volo quali timone, flap, e parametri del motore, mentre la seconda, il

Cockpit Voice Recorder (CVR), collocato nella parte anteriore della fusoliera, ha lo

scopo di registrare le voci ed i suoni presenti nella cabina di pilotaggio. In caso di

incidente, le scatole vengono recuperate ed inviate a dei laboratori dove è possibile

scaricare i dati registrati e quindi fornire agli ispettori le informazioni che possono

consentire l’analisi dell’incidente.

- Senti, disse la giovane 500, alla sera quando osservo il cielo dal giardino su in collina

dove vengo posteggiata, vedo tante luci intermittenti che si dirigono verso l’aeroporto

ed ho notato che non sono tutte dello stesso colore; sai il perché?

- Vedi, rispose la Campagnola, gli aerei hanno molte luci ed ogni tipologia ha un suo

compito preciso. Ad esempio, un aereo ha le luci di navigazione, che sono posizionate

sia sulle ali (rossa su quella di sinistra e verde su quella di destra) sia in coda (bianca).

I tre differenti colori consentono ad un osservatore di individuare la direzione che sta

seguendo l’aereo in quel momento; se tu stai guardando il cielo verso l’arco alpino,

potrai così stabilire che un aereo che mostra la luce verde e quella bianca verso

sinistra probabilmente sta andando in direzione di Caselle, mentre se vedi una luce

rossa e la luce bianca sulla destra, probabilmente sta andando ad Ovest, verso la

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Francia. Poi ci sono le luci anticollisione installate sulla punta delle ali o sulla sommità

della deriva, la grossa pinna che è posizionata sulla coda dell’aereo, che sono bianche

ed intermittenti e sono quelle che vedi brillare in cielo durante la notte. Poi ci sono i fari

che vengono usati durante le manovre a terra o durante i decolli e gli atterraggi che

hanno la stessa funzione dei nostri, cioè quello di farci vedere la strada davanti a noi.

Ma questi ultimi vengono anche usati dai piloti per salutarsi in volo.

- Per salutarsi? – esclamarono in coro le vetture

- Certo, come facciamo noi per strada. E’ un’usanza dei tempi passati quando gli aerei

non erano dotati dei dispositivi automatici anticollisione, quelli che i tecnici chiamano

TCAS e che in automatico riconoscono una possibile interferenza di rotta e, quindi, un

potenziale rischio di collisione, ed indicano ad entrambi i piloti dei due velivoli

interessati le manovre da seguire per “risolvere il conflitto”, cioè mantenere una

distanza (separazione) tale da evitare pericolosi incroci. Nei decenni scorsi, quando

questo strumento era ancora nella mente dei tecnici o sui tavoli dei progettisti in attesa

di essere sviluppato, gli aerei volavano lo stesso e capitava sovente di sorvolare zone

non coperte dalle torri di controllo, zone disabitate come la Siberia, l’oceano, o zone

mal coperte dai radar come ad esempio ampie aree dell’Africa. Dunque, i piloti che

sorvolavano queste zone di notte scrutavano attentamente l’orizzonte ed appena

scorgevano delle luci di navigazione di un aereo, immediatamente azionavano in modo

intermittente questi potenti fari in modo da segnalare la propria presenza. A questo

segnale anche l’altro velivolo rispondeva; ma oggi, questo primitivo sistema di

comunicazione è diventato solo più un arcaico modo di scambiarsi i saluti in volo!

- Un’altra cosa che ho notato, scrutando il cielo alla sera, è che non tutti gli aerei

viaggiano alla stessa velocità quando si dirigono a Caselle, ma forse è solo una mia

impressione – disse la giovane 500.

- Ebbene no, non è un’impressione, ma è una realtà. Infatti, aerei di grandi dimensioni,

come ad esempio il Jumbo, hanno un peso molto grande rispetto ad un aereo piccolo

come il Caravelle. Di conseguenza impiegano molto più tempo per rallentare e quindi

per scendere dalla loro quota di crociera per seguire quello che i piloti chiamano il

sentiero di discesa che poi li porta sulla pista dell’aeroporto. Quindi debbono iniziare a

rallentare molto tempo prima rispetto a quelli più piccoli ed è per questo che tu hai

facilmente notato che i velivoli più grandi viaggiano più lentamente di quelli piccoli in

prossimità dell’aeroporto!

- Voi parlate di cose che quando io ero giovane non esistevano! – disse nostalgica la

Balilla.

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- Che vuoi dire?

- Che quando ero giovane mi è capitato di osservare degli aerei, ma erano molto piccoli e

soprattutto avevano delle grandi eliche sulle ali. Mi ricordo che la loro punta era

disegnata con una specie di linea bianca molto vistosa.

- Quella che tu hai visto, rispose la Campagnola, si chiama spirale ed era dipinta

sull’ogiva dell’elica. I primi ad utilizzarla furono i Tedeschi per segnalare la presenza

dell’elica in movimento. Infatti, un osservatore non è in grado di capire se un’elica è in

rotazione oppure no e quindi rischia di avvicinarsi troppo e di venire risucchiato. La

spirale bianca, invece, simulando una vite senza fine che sta ruotando, è in grado di

trasmettere all’occhio umano un messaggio molto chiaro: “Attenzione sono in

movimento, quindi, alla larga!”.

- Ma oggi non si usano più queste spirali, visto che gli aerei non hanno più le eliche? –

chiese la giovane 500.

- No, rispose la Campagnola. Ancora oggi viene verniciata sull’ogiva dell’albero della

ventola del motore per trasmettere al personale a terra lo stesso messaggio!

- Ma i motori degli aerei sono così pericolosi? – chiese la 600.

- Certamente, rispose la Campagnola. Ho assistito ad incidenti comici che per fortuna

non si sono trasformati in tragedia! Un giorno, un pilota aveva acceso i motori

dell’aereo convinto che intorno a lui non ci fossero oggetti o personale, ma nel

momento in cui stava aumentando la velocità dei motori per spostarsi sulla piazzola, un

forte rumore mi fece sobbalzare; guardai alla mia sinistra e poi alla mia destra e vidi un

carrello dei bagagli risucchiato dentro il motore dell’aereo! Risultato: motore distrutto

ed aereo a terra con i passeggeri infuriati!

Un altro incidente che mi torna in mente, invece, è stato causato da un aereo che stava

accelerando per avvicinarsi alla pista di decollo. Ero parcheggiato nelle vicinanze di un

Boeing 737 in attesa di scortalo fino alla pista di decollo e stavo guardando un pilota

che stava facendo la “walk around”, cioè una passeggiata intorno all’aereo per

controllare che tutto sia in ordine, gli sportelli chiusi, le gomme gonfie …

Finita l’ispezione stava salendo in cabina tramite una piccola scala di alluminio

appoggiata alla carlinga, quando all’improvviso un grosso aereo, non mi ricordo più

quale modello, ha accelerato per muoversi verso la pista. Il getto di fiumi caldi dei suoi

motori, pur essendo l’aereo distante, fu di tale intensità che scala e pilota volarono per

terra, con il pilota che rialzatosi a gesti spiegò al suo collega che cosa era accaduto.

- Ma è così forte il getto dei fumi di un aereo? – chiese la Lambretta divertita

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- Pensa che per evitare incidenti di questo tipo, i piloti devono seguire le procedure

operative dell’aereo che specificano anche quanta potenza dare al motore per muoversi

sui piazzali. Non possono mica fare le ”sgasate” come i ragazzini sul motorino!

Dopo le risate seguite alla battuta, nel capannone calò il silenzio. Ognuno dei partecipanti

alla serata si perse nei propri ricordi di gioventù, cercò di fissare nella memoria i racconti

della serata e poi cullati dai pallidi raggi della luna ognuno riprese il proprio posto

all’interno del capannone.

Solo Miro, che nel frattempo si era cullato nelle dolci braccia di Morfeo, sembrava avesse

ancora voglia di continuare la serata.

Ma le due 500, separate da più di cinquant’anni di storia ed avventure si avviarono

lentamente all’uscita per andare a respirare l’aria frizzante della serata.

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8

Alla luna

Guadagnata l’uscita le due vetture contemplarono il silenzio calato sul piazzale. La luna

luccicava tra le carrozzerie abbandonate e si specchiava nei parabrezza addormentati.

L’arietta era fresca, ma non faceva freddo; solo le foglie sibilavano mosse dal vento come tanti

piccoli sonagli che cullano il sonno dei bambini.

Sembrava passata un’eternità, invece la nottata non era ancora finita.

La giovane 500 stava cercando di dare un senso alla serata ed alla sua avventura; era

preoccupata del domani, ma contenta di aver ascoltato storie passate e di aver anche lei,

giovane ed inesperta navigante di questo grande oceano chiamato mondo, arricchito le

auguste vecchiette con storie di vita recente.

La quiete delle serata fu interrotta da un lontano fischio. Un TGV frettolosamente stava

attraversando la pianura poco distante per raggiungere Parigi, la sua città natale.

A quel suono un’ombra giocherellona si mosse dal suo cantuccio; era Bobi intento a giocare

con una vecchia palla sgonfia.

La teneva tra i denti e si divertiva a lanciarla in alto per poi riafferrarla al volo.

Ma all’ennesimo lancio, la dispettosa palla invece che fermarsi tra le sue fauci si fermò sulla

sua testa. Con un’abile mossa, Bobi riuscì a divincolarsi dalla presa e rapidamente la riafferrò

tra i denti per poi andare a posarla nella sua comoda cuccia.

La giovane 500 tirò un sospiro di sollievo non appena il cane, che il piccolo Chry - Chry

chiamava sempre “bau”, si allontanò da loro; le sue ruote ed i suoi delicati cerchi erano salvi!

Nel frattempo fu raggiunta dalla 500 più anziana che alzando i fari alla luna sospirò.

- Perché sospiri? – chiese la giovine

- Perché ho visto Bobi con la palla sulla testa e mi sono venuti in mente i “Ciciu” ed i

felici momenti della mia giovinezza quando il mio proprietario ed i suoi giovani amici

alla domenica si divertivano a passeggiare tra le colline e la pianura per dimenticare il

lavoro e le preoccupazioni! Ah come era differente il mondo allora!

- I ciciu !?! – esclamò perplessa la giovincella

- Si, è una parola piemontese che significa “pupazzo, fantoccio”, anche se in realtà

assomigliano più a dei grandi funghi piuttosto che a dei pupazzi.

- Ma che cosa sono?

- Sono delle sculture naturali situate vicino a Dronero, nel Cuneese, realizzate

dall’erosione del terreno ad opera dell’acqua. Si sono formati tanto tempo fa quando a

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causa dello scioglimento dei ghiacciai i torrenti della zona, usciti dai loro argini, hanno

eroso, cioè mangiato, le pendici del Monte San Bernardo e portato a valle i grossi massi

che avevano strappato. Questi grandi massi che prendono il nome di “massi erratici”,

cioè vaganti, anche se la tradizione popolare li chiama Massi delle Streghe poiché data

la loro mole solo la magia di una strega avrebbe potuto muoverli, si fermarono a valle e

furono coperti dal terreno alluvionale di colore rossiccio, ricco di sostanze ferrose. Nel

corso dei tempi, il fiume che scorreva lì vicino iniziò a scavare il terreno sottostante

riportando alla luce queste grosse pietre che grazie allo scorrere dell’acqua furono

levigate ed arrotondate (come succede ai sassi che si trovano sulle spiagge). Invece, le

piogge con i loro rigagnoli di acqua che scorrevano sul terreno iniziarono ad erodere il

terreno rossastro, ma solo nelle zone non protette dai massi che quindi fungevano da

ombrello per il terreno sottostante. Il risultato finale di questo lungo processo di

erosione sono i ciciu, cioè questi funghi di erosione costituiti da una colonna di terra

mista a piccole pietre che sorregge un masso erratico.

La credenza popolare, invece, associa queste colonne ai camini delle fate, perché la

gente riteneva che solo un incantesimo o un miracolo avrebbe potuto crearle.

Ma la tradizione locale vuole i ciciu si siano formati grazie ad un miracolo di San

Costanzo, un legionario romano della legione "Tebea" famosa all’epoca dell’Imperatore

Diocleziano per le sue strabilianti vittorie in Oriente. Si narra che San Costanzo fosse

arrivato fino al monte San Bernardo per sfuggire ad un numeroso gruppo di soldati

romani che volevano ucciderlo poiché, essendo cristiano, si era precedentemente

rifiutato di offrire sacrifici alle divinità venerate a quel tempo; ad un tratto si voltò verso

i legionari che lo schernivano e lo minacciavano di morte, e disse loro: "O empi

incorreggibili, o tristi dal cuore di pietra! In nome del Dio vero vi maledico. Siate pietre

anche voi!", e così si formarono i ciciu!

La 500 più giovane si accorse che dai faretti dell’anziana 500 scendevano due sottili rigagnoli

d’acqua; lei era troppo giovane e non poteva comprendere i sentimenti dell’altra vettura.

Decise quindi di lasciarla da sola, immersa nei suoi ricordi.

In quel momento si ricordò di Bianca e si sentì nuovamente sola. Chissà se anche lei un giorno

avrebbe avuto la fortuna di condividere le sue esperienze con delle vetture più giovani.

Fantasticò sul loro aspetto e sulle loro capacità; sarebbero state di plastica, di carbonio o

ancora di acciaio? Avrebbero viaggiato o volato? Sarebbero andate a benzina o ad aria?

Ma il sogno venne interrotto dall’ulutato di Bobi che stava seduto in mezzo al piazzale con la

testa rivolta al cielo.

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Già, ma perché i cani ululano? La nostra 500 se l’era sempre chiesto, ma non riusciva a darsi

una risposta. Sapeva solo che quell’ululare rendeva ancora più lugubri le lunghe notti

nebbiose che lei passava al riparo nel suo caldo garage o rovinavano la magia di un bel cielo

stellato in una tiepida notte d’estate. E poi ad un cane che ululava seguivano cori interminabili

di altri cani, via via sempre più lontani, che si perdevano poi nel vento!

Miro, il piccolo e buffo cagnolino che aveva partecipato alla serata dei ricordi, era uscito

anche lui per godersi un po’ di fresco e per sgranchirsi un po’ le corte zampette. Non visto

dalla 500 le si era avvicinato ed aveva notato che con i suoi faretti stava fissando Bobi con

aria interrogativa.

- Secondo me, disse, ti stai chiedendo perché lo fa, vero? – chiese la tenera bestiola.

- E tu come fai a saperlo? – rispose seria la 500.

- Perché è una domanda che si fanno in molti!

- E tu hai una spiegazione, visto che sei un cane anche tu?

- Beh, diciamo che anche noi ci tramandiamo storie e racconti. Devi sapere che noi cani

siamo animali sociali, cioè viviamo in gruppo e comunichiamo tra di noi o con il

linguaggio del corpo, ad esempio muovendo la coda o le orecchie in modo da

segnalare il nostro stato d’animo, le nostre paure, oppure con vocalizzi come guaiti,

ululati o abbaiando. In parole povere siamo dei lupi addomesticati e quindi abbiamo la

necessità di comunicare tra di noi e di segnalare la nostra posizione agli altri membri

anche perché i nostri cugini lupi cacciano le prede in branco e quindi per coordinare i

loro movimenti devono conoscere la posizione dei altri membri intenti nella caccia. E’

un po’ come un calciatore durante una partita che oltre a dribblare gli avversari deve

sapere dove sono i suoi compagni di squadra per passar loro la palla per il cross

vincente!

Ululando comunichiamo agli altri membri del gruppo la nostra posizione sul territorio

oppure se ci sentiamo soli in una notte magari senza stelle lo facciamo per comunicare

e per farci coraggio.

Invece Bobi lo fa abitualmente per rispondere ad una sirena di un capannone qui

vicino! Tante volte l’ho avvisato che l’ululato che sente non è di un altro cane, ma una

sirena di un allarme di un capannone della zona, ma non vuole ascoltarmi!

- Ci voleva proprio un cane innamorato di una sirena per tirarmi su di morale in una

serata di ricordi come questa! – esclamò la vecchia 500 che nel frattempo aveva

raggiunto lo strano gruppetto.

Al commento della 500 seguirono delle lunghe risate; poi Miro chiese alla giovane 500

informazioni sulla luna.

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- Sai, noi abbaiamo alla luna, ma non sappiamo nulla di lei, anche perché nessuno di noi

è mai partito per l’esplorazione del cielo!

- Non è vero! - rispose la vecchia 500. Il primo esploratore spaziale è stato proprio un

cane, anzi una piccola cagnolina, per la precisione!

- Ma sei sicura? – chiese stupefatto Miro.

- Certo, ripose la 500, si chiamava Laika ed era un piccolo cane meticcio, un incrocio tra

un husky ed un terrier. Era stata raccolta randagia per strada e quindi selezionata per

il programma spaziale russo che dopo l’invio di alcuni satelliti nello spazio voleva

verificare la possibilità della vita all’interno delle navicelle spaziali. Siccome le prime

navicelle erano molto piccole, cioè non potevano contenere una persona, gli scienziati

russi optarono per un animale intelligente, ma di piccole dimensioni.

- E perché volevano verificare le condizioni di vita nello spazio? Non erano in grado di

prevederle con dei calcoli e delle teorie? – chiese sconcertato Miro.

- No, perché alla fine degli Anni Cinquanta nessuno scienziato aveva esperienza della

vita in assenza della gravità, cioè quella forza che ci tiene ancorati sul terreno e che fa

sempre cadere gli oggetti per terra, e soprattutto non si conoscevano eventuali disturbi

o danni per gli esseri umani che vi avevano vissuto anche solo per un limitato periodo.

- E cosa successe alla povera Laika? – chiese preoccupato il cagnolino.

- Laika venne lanciata nello spazio all’interno di una navicella che pesava solo 18

chilogrammi, completamente foderata e condizionata in modo da proteggerla dagli

sbalzi di temperatura che avrebbe trovato nello spazio, dalla base di Baikonur una

fredda mattina del novembre del 1957. Aveva spazio a sufficienza per alzarsi e

sgranchirsi le zampe, acqua e cibo per alcuni giorni ed era collegata a dei sensori che

dovevano monitorarne i parametri vitali. Il lancio fu perfetto e Laika arrivò nello

spazio, ma dopo solo sette ore non si seppe più nulla di lei. Ritornò sulla terra

precipitando con la sua navicella che non avendo nessuno scudo termico bruciò

completamente nell’atmosfera.

- E voi umani avete sacrificato la vita di una creatura innocente! – abbaiò furioso Miro.

- Ma come è stato possibile! Nessuno si è opposto ad un’atrocità del genere? – fece eco

la giovane 500.

- Infatti subito dopo che l’opinione pubblica venne a conoscenza del lancio, l’allora

Unione Sovietica fu subissata di proteste ufficiali da parte dei Governi del vari Stati.

Pensa che lo stesso Direttore del progetto, Oleg Gazenko, aveva espresso il suo

rammarico per il sacrificio di Laika ritenendo che la sua missione fu un sacrificio

inutile che non contribuì alla conoscenza della vita nello spazio. Come consolazione,

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Laika è stata inserita nell’elenco di tutti gli astronauti che hanno perso la vita per

permettere all’uomo di andare nello spazio!

- Almeno Laika ha avuto la fortuna di vedere la luna da vicino! Penserò a lei ogni volta

che guarderò la luna e la saluterò all’infinito con il mio ululato! – guaì commosso Miro.

- Dai, Miro, non fare così! Mi hai chiesto di raccontarti delle storie sulla luna e voglio

accontentarti, disse materna la giovane 500 che si stupiva di questo nuovo sentimento

che nasceva in lei.

- Devi sapere che la Luna è l’unico satellite della Terra, mentre Giove, ad esempio, ne ha

ben 63!

- Satellite? – chiese Miro.

- Già. Si chiama satellite un qualunque oggetto che orbita attorno ad un pianeta

trattenuto dalla sua forza gravitazionale. E’ come quando del polline ti gira attorno al

naso facendoti starnutire e non c’è verso di allontanarlo! Il nome del nostro satellite,

cioè “Luna”, deriva da una parola latina, la lingua parlata dagli antichi Romani, e

significa “luce riflessa” poiché la luminosità della luna, quel bel colore argenteo che

vediamo anche questa sera alzando gli occhi al cielo, deriva dalla sua capacità di

riflettere i raggi del sole che ne colpiscono la superficie, un po’ come uno specchio

fatto con del metallo. A dispetto di quanto credevano gli antichi, la sua superficie non è

piatta, ma è zeppa di crateri, cioè di grossi buchi, e non è fatta di formaggio, con buona

pace dei topolini, ma è costituita da metalli come ad esempio il Ferro e non è abitata da

strani personaggi che passano il tempo ad accumulare gli oggetti che perdiamo o

dimentichiamo. La luna è stata raggiunta dall’uomo solo nel 1969 ed ad oggi solo dieci

persone hanno avuto la possibilità di calpestare la sua superficie.

- Già, è vero, disse la vecchia 500, mi ricorderò sempre quel giorno, credo fosse il 20

luglio 1969, in cui il mondo intero era immobile davanti agli schermi dei televisori a

guardare scorrere le immagini in bianco e nero che mostravano l’evento. Mi ricordo

ancora l’emozione della gente quando descriveva la discesa di Neil Armstrong dal

modulo lunare che aveva appena appoggiato le sue zampe metalliche sul suo suolo, le

sue parole quando stava scendendo i gradini della scaletta che lo avrebbe portato,

primo nella storia, sul suo suolo roccioso: “That’s one more step for man, one giant

leap for mankind”, cioè “Questo è un piccolo passo per l’uomo, ma un grande balzo per

l’Umanità”. E poi l’immagine indimenticabile della nuvola di polvere alzata dallo

scarpone della sua tuta spaziale quando si posò sul duro terreno, …

- Quindi erano tutti entusiasti? – chiese la giovane 500.

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- Macché! Molti non ci credevano, dicevano che era tutta una montatura, che lo sbarco

sulla Luna era solo un film realizzato in America e trovavano mille giustificazioni alle

loro strampalate teorie.

- Beh, d’altra parte è da secoli che la Luna ispira poeti, scrittori, intere religioni, ma

anche ciarlatani! - disse la giovane.

- Perché dici così? – chiese Miro.

- Perché la Luna ha sempre ispirato le persone. E’ stata venerata nell’antichità come dea

con vari nomi, come ad esempio Selene ed Artemide per i Greci, Luna e Diana per i

Romani, Nanna o Sin per i Mesopotamici e Thoth, unico caso di divinità maschile, per

gli Egizi. Per i comuni mortali era la causa della pazzia delle persone, tant’è che una

persona che ha sbalzi di umore frequenti si definisce lunatica, mentre per contadini e

pescatori era un mezzo per regolare i cicli di semina e raccolto o per le uscite in mare

per la pesca. Infatti, i pescatori uscivano in mare con la luna piena perché credevano

che i pesci, attirati dalla sua luce, venissero in superficie per vederla rendendo quindi

facile la loro cattura, mentre i contadini mettevano il mosto nelle botti solo con la luna

nuova, cioè quando non è visibile nel cielo, ma non si facevano tagliare i capelli perché

altrimenti, almeno così dicevano, ricrescevano troppo in fretta!

Nel Medio Evo, invece, si credeva che la luna piena facesse trasformare le persone in

lupi e che nelle notti di luna piena le streghe si riunissero sotto i loro alberi sacri per le

loro feste convinte che in questa situazione la luna con le sue influenze aumentasse

l’efficacia dei loro riti magici.

- Ma in realtà queste credenze sono solo delle bufale, vero? – chiese la vecchia 500.

- Secondo il Lorenzo, il botanico amico di Bianca, la Scienza ha smentito

categoricamente queste credenze e leggende. Sicuramente la Luna è in grado di influire

sulle maree, ma non è in grado di influire sulla vita degli uomini trasformandoli in

animali o potenziando i poteri dei maghi e delle streghe!

- Quindi la Scienza ha distrutto la magia della Luna! – affermò un po’ triste la vecchietta

500.

- No, la Luna, almeno secondo Bianca, mantiene il suo fascino misterioso, anche perché

noi vediamo sempre e solo la stessa faccia del nostro romantico satellite!

- Cosa vorresti dire? – chiesero Miro e la vecchia 500.

- Dovete sapere che sia la Terra che la Luna impiegano lo stesso tempo per fare un giro

compelto su se stesse e quindi entrambe si mostrano sempre la stessa faccia! Non è

quindi escluso, come dice sempre Bianca ai suoi nipotini, che nelle faccia nascosta viva

il coniglio lunare!

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- Coniglio lunare? Ma nello spazio gli uomini hanno mandato anche i conigli oltre alla

povera Laika? –abbaiò rabbioso Miro.

La giovane 500 rise di gusto, ma poi, per evitare che Miro si arrabbiasse ancora di più spiegò

il significato del coniglio lunare.

- Devi sapere, disse, che la Luna, se la guardi bene, ha delle macchie scure, dovute alla

sua superficie irregolare. Gli antichi, che erano grandi osservatori, forse aiutati dal

fatto che non avevano a disposizione la televisione, avevano notato che la forma di

quelle macchie scure ricordava un coniglio seduto sulle zampe posteriori con a fianco

un pestello da cucina, quello per intenderci, usato per schiacciare il basilico ed i pinoli

per fare il pesto alla genovese di cui Bianca va matta e che ottiene dalle profumatissime

foglie di un basilico che gli procura Lorenzo e che prende non so dove …

Addirittura questo coniglio lunare ha un posto preminente nelle leggende cinesi e

giapponesi; le storie di quei lontani popoli narrano che quattro amici animali, una

scimmia, una lontra, uno sciacallo ed un coniglio un giorno decisero di impegnarsi per

compiere delle opere di bene. Incontrarono sulla loro strada un anziano viandante che

era da giorni che non mangiava; decisero quindi di sfamarlo. La scimmia si arrampicò

su un albero per prendere della frutta, mentre la lontra si buttò nel fiume per pescare

del pesce. Lo sciacallo, invece, entrò in una casa e rubò del cibo. Il povero coniglio non

riuscì a procurarsi nient’altro che dell’erba, ma siccome voleva dare qualcosa al povero

viandante offrì se stesso gettandosi nel fuoco. Commosso dal gesto eroico del povero

animaletto, il viandante, che in realtà era una divinità, per premiarlo del suo sacrificio,

disegnò la sua immagine sulla luna affinché il suo gesto fosse ricordato da tutti.

Un’altra versione della leggenda, invece, racconta che la divinità, impressionata dal suo

gesto, decise di portarlo con sé sulla luna dove ogni giorno il generoso coniglietto usa

il pestello per macinare le erbe per ottenere l’elisir di lunga vita da offrire alla divinità

lunare che lo salvò dalle fiamme.

- Ecco perché nel 1969 sentivo parlare di questo strano coniglio! – esclamò la vecchia

500.

- Cosa vorresti dire? – chiesero in coro Miro e l’altra 500.

- Perché sentendo i racconti delle persone che passeggiando commentavano il famoso

sbarco, avevo sentito dire da un ragazzetto con un sorriso malizioso stampato sulla

faccia, che gli astronauti, prima di scendere sulla superficie lunare, avevano

comunicato alla NASA che coordinava la missione una frase del tipo “Ricevuto, faremo

attenzione alla coniglietta”, frase che fino ad oggi non ho mai capito, ma che adesso,

con la tua spiegazione, mi è finalmente chiara!

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Ormai la Luna stava scomparendo dietro i raggi di un nascente sole che prometteva

un’altra bella e frizzante giornata primaverile.

La vecchia 500, salutando commossa la giovincella si avviava scoppiettante verso il

capannone, mentre Miro si avvicinava rapidamente alla porta dell’ufficio in attesa

dell’arrivo di Tony.

Boby, invece si era accucciato in un cantuccio dopo aver passato la notte in compagnia

della sirena e si stava ritemprando con il calore dei primi raggi solari.

Sicuramente era stata una notte diversa per la giovane 500, una notte indimenticabile che le

aveva permesso di scoprire che non contavano solo la freschezza della gioventù e la

bellezza delle linee, ma anche le proprie esperienze passate e la capacità di rapportarsi

con gli altri.

Aveva scoperto sentimenti nuovi quali amicizia, affetto, nostalgia, voglia di conoscere e far

conoscere e condividere le proprie esperienze e conoscenze.

Era passata solo una notte da quando quell’inquietante braccio meccanico l’aveva

allontanata da Bianca, ma alla 500 sembrava di aver viaggiato per tanto, tanto tempo. In

effetti la serata appena passata era stata una corsa nel tempo e nella storia. Aveva

conosciuto eleganti macchine del passato e recenti catorci, ma aveva imparato a rispettare

ognuno di loro; si era persino pentita di come aveva trattato la 106 che le aveva tenuto

compagnia in quella tiepida mattinata e che l’aveva incoraggiata ad affrontare la nuova

avventura con serenità e fiducia nell’avvenire.

Adesso, però, il peso delle nuove emozioni prese il sopravvento, e la nostra bellissima 500

dolcemente cullata dalle braccia di Morfeo e dalla leggera brezza che si stava alzando,

chiuse i faretti delicati e si abbandonò nel sonno.

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106

9

Profumo di caffè

La 500 fu svegliata dal cigolio del grande cancello che si stava aprendo. Una Delta verde, con

dei bei sedili in pelle color crema stava aspettando con la porta aperta che il suo proprietario

risalisse per entrare nel piazzale.

Nonostante l’età era ancora una bella macchina con quel motore vigoroso e potente che

borbottava nell’attesa di partire. Quattro piccoli faretti rotondi che delimitavano una splendida

mascherina nera incorniciata da un elegante cornice argentata su cui campeggiava, ben

visibile, l’inconfondibile scudetto Lancia e sulla sinistra la mitica scritta HF con l’elefantino

rosso ad evocarne la vocazione sportiva. Il cofano muscoloso si raccordava ai grandi

passaruota bombati in un’armonia di linee e curve che anche da ferma esaltavano la destrezza

ed il vigore dell’auto.

Il rombo crescente del motore accompagnava il cammino della vettura che con uno scatto

fulmineo attraversò il piazzale e si fermò proprio davanti alla porta dell’ufficio dove Miro era

già seduto sulle zampe posteriori pronto a ricevere le carezze del suo padrone.

Lentamente e pesantemente Bobi si alzò dal terreno e si avviò anche lui verso l’ufficio, ma

senza fretta. Arrivò alla porta nel momento in cui Tony l’aveva aperta ed insieme a Miro sparì

all’interno dell’ufficio.

La 500 osservava la Delta, affettuosamente battezzata dagli appassionati “Deltona” per via dei

suoi vistosi passaruota. Anche il posteriore esprimeva grinta e sportività. Il piccolo lunotto

sormontato da un discreto alettoncino, i due grandi scarichi e i grandi passaruota palesavano

una vocazione sportiva che la Delta poteva esprimere solo sulle strade asfaltate, mentre le sue

sorelle avevano scatenato vittoriosamente nella polvere africana, sul ghiaccio svedese,

nell’insidioso fango inglese, sui taglienti sassi greci dominando i rally mondiali per ben sei

anni consecutivi e vantando ben 46 vittorie assolute, come ricordava orgogliosa la targhetta

incollata sul vetro posteriore della verde e muscolosa auto.

Dopo una decina di minuti la finestra dell’ufficio si aprì leggermente ed un aroma di caffè,

accompagnato dal borbottio di una vecchia caffettiera, si diffuse nel piazzale.

Già, il caffè, quella scura bevanda fumante che Thomas sorseggiava nelle calde mattinate estive

in giardino prima di andare in cantiere contemplando lo spettacolo dell’anfiteatro alpino che si

svegliava coccolato dai raggi del sole nascente.

La 500 si ricordò di quel pomeriggio di fine settembre quando il giardino della villa si stava

spegnendo in un malinconico giallo-arancione e l’erba verde del prato stava già cedendo il

posto alle dorate foglie che inermi cadevano ad ogni folata di vento. Seduti attorno ad un

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vecchio tavolino in ferro battuto coperto da una pesante lastra di marmo rosso di Verona si

trovavano seduti Thomas, Bianca e Lorenzo, l’amico botanico. Thomas era intento a

sorseggiare il suo caffè fumante, e tra un sorso e l’altro decantava le virtù della miscela da lui

tanto adorata, la miscela 100% Arabica, corposa e saporita, a suo dire. Lorenzo, invece,

ribatteva che la miscela migliore era la Robusta, quella ottenuta dalla varietà coffea canephora

che conferiva alla bevanda leggerezza, delicatezza e soprattutto il profumo della sua terra

d’origine, l’Africa Centrale.

Bianca, invece, preferiva la varietà coffea liberica che le ricordava i profumi dell’Indonesia, i

viaggi dei mercanti di spezie e l’atmosferica esotica e misteriosa delle sue misteriose città.

Approfittando della presenza del suo amico botanico, Bianca propose al gruppetto di

ascoltare da Lorenzo la storia del caffè, giusto per passare un pomeriggio in compagnia, liberi

dalle preoccupazioni e dai pensieri stressanti del vivere quotidiano.

Il botanico non si fece sfuggire l’occasione per fare bella figura con Bianca e primeggiare sul

rivale più giovane di lui e con meno capelli bianchi!

- Dovete sapere, esordì, che il nome “caffè” deriva da una parola araba che significa

“vino” oppure “bevanda eccitante”, forse a sottolineare la presenza in grandi quantità

di caffeina, sostanza che agisce da stimolante del sistema nervoso, che allevia la

stanchezza e favorisce la concentrazione. Pensate che il caffè è sicuramente la bevanda

più diffusa sulla terra ed ogni giorno nel mondo quasi tre miliardi di tazzine di caffè!

L’origine della bevanda si perde nella leggenda. La più famosa sostiene che un giovane

pastore etiope, chiamato credo Kaldì, aveva portato le sue pecore a pascolare in un

prato in cui erano presenti delle piante di caffè. Le sue capre incominciarono a

mangiare le bacche della pianta e a masticarne le foglie. Scesa la notte, le capre anziché

dormire cominciarono a vagabondare piene di vitalità e di energia. Il pastore intuì che

lo strano comportamento degli animali doveva dipendere da quelle bacche scure che

avevano mangiato al pascolo e quindi decise di raccoglierne un po’ e dopo averle

abbrustolite e tostate le mise in infusione in un recipiente con acqua calda. Senza

saperlo, aveva realizzato il primo caffè della storia!

- Io invece, continuò Thomas, avevo sentito raccontare che il caffè era stato servito

dall’Arcangelo Gabriele a Maometto. La leggenda, così come mi è stata raccontata,

narra che un giorno Maometto si sentiva malissimo e Dio mandò l’arcangelo Gabriele

sulla terra in suo soccorso. L’arcangelo gli consegnò una bevanda preparata

direttamente da Dio; era una bevanda scura, dello stesso colore della sacra pietra

conservata alla Mecca, che lo rianimò subito consentendogli di partire per realizzare le

grandi imprese di cui la storia parla.

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- Si, è vero, ma ne esistono anche altre, continuò Lorenzo. Ad esempio, un’altra leggenda

narra che il caffè è stato scoperto da un Iman di un monastero arabo che preparò un

decotto e lo fece bere a tutti i monaci del convento che restarono svegli e vigili per tutta

la notte.

Esiste poi anche il racconto che vede come protagonista il monaco sceicco Ali ben

Omar che rimasto solo durante un viaggio verso la città di Mokha, dove infuriava una

grave epidemia, fu incoraggiato a proseguire il suo viaggio da un angelo. Giunto in

città, con le sue preghiere riuscì a guarire molti malati tra cui la figlia del re di quella

città di cui si innamorò. Il re, accortosi del tenero sentimento che legava il giovane a

sua figlia, lo allontanò immediatamente dalla città. Il monaco fu quindi costretto a vivere

in solitudine su di una montagna e sfinito dalla fame e dalla sete invocò l’aiuto del suo

maestro, il quale esaudì le sue richieste inviando sulla terra un bellissimo uccello dalle

piume coloratissime e dal canto soave. Il giovane monaco si avvicinò all’uccello per

ammirarlo ed avvicinandosi notò un albero dai fiori bianchi e frutti rossi, che altro non

è che la pianta del caffè. Raccolse quindi le bacche e ne fece un decotto che aveva virtù

salutari e che il monaco offriva ai pellegrini che si recavano al suo rifugio. I pellegrini

al rientro in città decantavano e lodavano le virtù magiche di quella bevanda spingendo

altri pellegrini a raggiungere il rifugio solitario del monaco che acquistò grande fama

tra i cittadini che lo invitarono a rientrare in città, onorato ed ascoltato da tutti.

Sicuramente il caffè era conosciuto al mondo arabo ben prima della sua diffusione in

Europa; infatti è noto il suo utilizzo in Yemen già intorno al 1450 da parte dei sufi per

restare svegli durante le veglie notturne, mentre nel XV secolo a Damasco e poi ad

Istambul sorsero dei luoghi di ritrovo dove si beveva questa bevanda.

Le prime notizie di questa portentosa bevanda giunsero in Europa grazie ai racconti

dei mercanti ed ai botanici come Prospero Alpini, medico personale del console

veneziano in Egitto, che ne parlò nel suo libro “De medicina aegyptiorim” del 1591, ma fu

solo con Charles de L’Ecluse che vennero descritte le bacche della pianta del caffè; ma

eravamo già all’inizio del Seicento.

In ogni caso il caffè arrivò in Europa grazie alle navi della Repubblica di Venezia già

alla fine del Cinquecento, ma all’inizio era una merce molto preziosa e costosa,

utilizzata soprattutto come medicina per curare alcune patologie, tant’è che una libbra

di caffè a Parigi poteva costare, ad inizio del Seicento, anche 40 scudi, cifra esorbitante

che potevano permettersi solo nobili e famiglie molto agiate. Solo verso la fine del

Seicento il caffè divenne alla portata di tutti; le persone potevano degustarlo in appositi

locali che prendevano il nome di “Botteghe del Caffè” e che ben presto si trasformarono

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in luoghi di discussione dove iniziarono a prendere forma le idee di libertà e di

eguaglianza che avrebbero portato ben presto all’Illuminismo ed alla Rivoluzione

Francese. Siccome il caffè era una merce preziosa, si scatenò una lotta di interessi tra

chi voleva conservare l'esclusiva delle preziose piantine e chi desiderava ottenere una

parte dei profitti che esse procuravano. Come in una guerra moderna di spie e di

spionaggio, si scatenò una corsa per ottenere delle piantine di caffè da piantare in

regioni in cui il clima avrebbe favorito la loro coltivazione. I primi a rompere gli indugi

furono un gruppo di marinai olandesi, nel 1690, che sbarcò di nascosto nelle vicinanze

della città Yemenita di Mohka, porto da cui partivano le navi cariche del prezioso

materiale, per impossessarsi di alcune piantine. Ottenute le piantine, i marinai le

portarono a Giava ed a Sumatra dove grazie al clima favorevole sorsero importanti

piantagioni di caffè. Da qui nel 1706 portarono alcune piantine di caffè ad Amsterdam

per conservarle nell’orto botanico della città, ma nel 1713 un francese riuscì a portare in

patria una di quelle piantine conservate nell’orto botanico. La piantina trafugata fu

curata amorevolmente per ottenerne altre e nel 1720 alcune di queste furono piantate

nei Carabi da dove si diffusero poi rapidamente in tutta l’America Centrale (Haiti,

Guadalupa, Giamaica, Cuba, Porto Rico), mentre altre furono piantate nella Guaina

Francese e poi in Brasile dove vennero realizzate vastissime piantagioni.

- Quindi, affermò Bianca, il caffè fu subito un successo in Europa!

- Assolutamente no, rispose il botanico. La Chiesa, ad esempio, osteggiò fermamente ed

in tutti i modi la diffusione del caffè, definendolo addirittura “bevanda del diavolo”,

poiché questo veniva servito solo nelle Botteghe del caffè che ben presto si

trasformarono, a detta della Chiesa, in luoghi di perdizione! I preti chiesero quindi al

papa di quel tempo, Clemente VII, di proibirne il consumo addirittura con una bolla; il

papa, però, prima di acconsentire volle assaggiare questa bevanda, ma tra lo stupore

generale se ne innamorò tant’è che non solo non la vietò, ma la battezzò pure “bevanda

cristiana”!

- Ma come si ottiene il caffè? – chiese curioso Thomas.

- Quando le bacche sono mature vengono staccate dalla pianta. Per i caffè più pregiati

l’operazione viene svolta manualmente scegliendo solo le bacche mature che una volta

raccolte vengono spolpate e lasciate fermentare un paio di giorni prima di essere lavate

in acqua e poi lasciate essiccare al sole, mentre per i caffè meno pregiati o dove il costo

della manodopera è alto si procede alla raccolta meccanizzata e poi tutte le bacche, sia

quelle mature che non, vengono fatte essiccare al sole per diversi giorni e

successivamente decorticate. Dopo l’essiccazione le bacche vengono insaccate ed

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inviate alla torrefazione. La tostatura del caffè avviene con l’utilizzo dell’aria calda

(scaldata a circa 200°C); i chicchi vengono immessi nella corrente d’aria dove fluttuano

per circa 5 minuti arrostendosi in modo uniforme su tutta la superficie. Durante la

tostatura il chicco perde peso a causa della perdita d’acqua, mentre sulla sua

superficie compare una patina oleosa, chiamata caffettone, che ne determina l’aroma, e

soprattutto rende più friabile il chicco facilitandone la successiva macinazione.

Finita la sua lezione, il botanico con gesto teatrale, allungò la mano verso la tazzina e la

sollevò in alto, verso il suo naso per godere a piene narici dell’aroma che si sprigionava

dalla bevanda che, però, dopo la lunga lezione accademica era mestamente diventata

fredda.

Di fronte alla delusione di Lorenzo, Bianca recitò quel proverbio arabo che suo nonno,

dopo un viaggio nel Mar Rosso a bordo di una nave, aveva tante volte recitato a tavola

quando lei, bambina, poteva solo immaginare il gusto ed il sapore di quella sostanza a lei

ancora proibita e che più o meno suonava così: “Il caffè va bevuto caldo come l’inferno,

nero come l’inchiostro, dolce come l’amore!”.

Thomas, commosso dal proverbio sussurrato dalle rosee labbra di Bianca, si offrì di

prepararne un altro per il botanico che accettò di gusto. Prese le tazzine e le posò sul

vassoio ovale in acciaio che brillava alla luce del sole al tramonto; poi sollevò la

caffettiera, la sua moka migliore, quella usata per le occasioni speciali, e come un attore

consumato esclamò:

- Lo sapevate che per realizzare questa caffettiera sono servite ben 32 lattine di

Alluminio riciclate?

Poi, di fronte alla stupore generale continuò dicendo

- E ci sono voluti diversi secoli e molti esperimenti prima di inventarla.

Allora il botanico, incoraggiato da un sorrisetto divertito di Bianca, chiese all’ingegnere di

raccontarne la storia, ma solo dopo aver servito a tutti del caffè caldo come l’inferno e nero

come la pece!

- Come l’inchiostro! – gli fece eco Bianca.

Dopo una decina di minuti Thomas tornò con lo stesso vassoio argenteo, ma con tre nuove

tazzine, questa volta in vetro colorato, e con la bella moka fumante che inondava l’ambiente

con il suo profumo di caffè. Dopo aver versato la scura bevanda nelle tre tazzine ripeté con

fare teatrale: “Il caffè va bevuto caldo come l’inferno, nero come l’inchiostro, dolce come

l’amore!” e nel ripetere le ultime tre parole incrociò con il suo sguardo gli occhi verdi di

Bianca.

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Ma la nostra 500, intenta ad assaporare l’aroma di caffè che il leggero vento trasportava, non

notò l’incrocio degli sguardi.

Seduto sulla sua sedia, con la tazzina tra le mani, iniziò il suo duello dotto con il botanico.

Bianca si divertiva, perché le sembrava di essere una dama contesa dai cavalieri che per

ottenere un suo bacio si sarebbero battuti nella corte di un castello con tutte le loro forze pur

di primeggiare nel torneo a lei dedicato.

- Dovete sapere, esordì Thomas, che le prime caffettiere sono nate con il caffè; la

capostipite nacque in tempi lontani in Etiopia ed era conosciuta con il nome di Jabena.

Da qui si diffuse nel mondo arabo e poi in Turchia dove venne modificata per

consentire sia la preparazione della bevanda che la sua distribuzione; era il famoso

Ibrik, ancor’oggi usato per preparare il “caffè turco”, cioè un caffè sciropposo che deve

riposare qualche minuto nella tazza prima di esser bevuto, altrimenti insieme alla

bevanda si ingoiano pure i fondi di caffè!

- Ma tu sai come si prepara questo caffè? – chiese in tono di sfida il Lorenzo.

- Certo, l’ho visto preparare ad Istanbul mentre attendevo di imbarcarmi per il volo che mi

avrebbe condotto a casa dopo un viaggio di lavoro in Iran. Il barista aveva macinato

fine fine del caffè che poi aveva messo all’interno di un ibrik d’ottone pieno di acqua,

poi aveva aggiunto dello zucchero e delle spezie tra cui, credo, del cardamomo famoso

per il suo intenso profumo e per il suo costo (infatti è la terza spezia più costosa dopo

lo zafferano e la vaniglia!). L’aveva messo su di un fornello e giunto ad ebollizione

l’aveva tolto dal fuoco ed aeva prelevato con un cucchiaio la schiuma che si era

formata in superficie mettendola delicatamente nella tazzina. Per ben altre due volte

eseguì meccanicamente la procedura ed al termine versò la miscela nella mia tazzina.

Dopo aver atteso qualche minuto ho assaggiato il famoso caffè turco che trovai molto

pastoso e denso, ma comunque profumato e saporito. Terminato di bere la bevanda,

notai che sul fondo della tazza erano rimasti dei sedimenti di caffè che avevano assunto

una forma che a ben vedere ricordava, ma lontanamente, un cuore che il Turco, che mi

confidò di discendere da una famiglia che da secoli praticava la mantica, cioè la lettura

dei fondi di caffè, interpretò come un indizio di un mio futuro fidanzamento!

- E come è andata? – chiese curiosa Bianca.

- Sono passati già sei anni da allora e sono ancora single!

- Quindi come mago quel Turco valeva poco! – esclamò il botanico

- Può darsi, replicò Thomas, ma almeno il caffè turco lo sapeva preparare bene!

- Va bene, disse Bianca, ma stavi parlando del caffè turco, non del nostro buon caffè!

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- Hai ragione, rispose Thomas. Ma vedi, fino al Settecento il caffè veniva preparato

solamente in questo modo. Con il Settecento si iniziò a filtrare la polvere di caffè in

modo da ottenere la bevanda per infusione; in pratica si metteva la polvere di caffè

dentro un sacchettino di tela trattenuto da un sottile cordoncino di tessuto che veniva

immerso nell’acqua della caffettiera, che in realtà era un bollitore chiamato samovar,

realizzato in ottone, rame o peltro e sorretto da tre sottili piedini sotto i quali si metteva

un piccolo fornello per scaldare l’acqua. In pratica si compivano le stesse operazioni

che eseguiamo noi oggi quando ci prepariamo una camomilla o un tè. Si arriva quindi

con vari passaggi in cui si sviluppano varie tipologie di filtro in grado di trattenere la

polvere di caffè senza farla passare nella bevanda, al 1829 quando il francese Morize

inventò la caffettiera che noi chiamiamo “Napoletana” o “Cuccumella” per la sua forma

allungata che ricorda un cocomero realizzata in stagno o latta. Ma l’utilizzo di questo

tipo di caffettiera risultava un po’ macchinoso e quindi nel 1933 un industriale che

aveva fatto fortuna con la lavorazione dell’alluminio, Alfonso Bialetti, realizzò la

caffettiera per eccellenza, quella che comunemente chiamiamo “moka” o “macchinetta

per il caffè”, realizzata in alluminio con la sua inconfondibile forma ottagonale. Questa

caffettiera ebbe successo non solo in Italia (le statistiche dicono che il 73% degli Italiani

prepara il caffè con questo tipo di caffettiera), ma anche nel mondo rendendo famoso

l’omino con i baffi, simbolo della caffettiera, che aveva il duplice vantaggio di rendere

più facile la preparazione del caffè (rispetto alla caffettiera Napoletana) e di

raggiungere temperature dell’acqua più alte in modo da esaltare l’aroma ed il profumo

del caffè.

- Ma guarda, anche questa caffettiera ha disegnato un buffo omino con i baffi! – calmò

Lorenzo.

- Sì, ed è il modello che preferisco. Pensate che il famoso “omino con i baffi” venne

disegnato negli Anni Cinquanta a scopo pubblicitario da Paul Campani che era stato

incaricato di preparare lo spot da presentare alla trasmissione “Carosello” ed ottenne

subito un grande successo per la sua semplicità e per la simpatia che ispirava.

- Già, il Carosello. Mia nonna, disse Bianca, mi raccontava sempre che era la

trasmissione dei bambini di quel tempo e che alla fine del programma i bimbi venivano

mandati a dormire con la frase “Dopo Carosello, tutti a nanna!”.

- Confermo, disse con tono nostalgico il botanico. Ai quei tempi ero un gagno e quindi mi

ricordo di quelle pubblicità in bianco e nero completamente differenti da quelle a colori

che vediamo oggi.

- Ma com’erano? – chiesero all’unisono Bianca e Thomas.

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- Carosello era una trasmissione in bianco e nero, poiché allora non esistevano le

televisioni a colori che vennero molto tempo dopo, che durava una decina di minuti e

che andò in onda ininterrottamente per vent’anni dal lontano 1957 tutte le sere dalle

20,50 alle 21,00. Ci furono poche interruzioni nella programmazione e quasi tutte dovute

a scioperi o ad eventi tragici, tranne che la sera del 9 febbraio 1971 quando non venne

mandato in onda per consentire il collegamento via satellite con la NASA che

trasmetteva l’ammaraggio dell’Apollo 14. Me lo ricordo ancora, perché la capsula

ammarò in pieno oceano a circa 7 chilometri dalla portaerei che doveva coordinare le

operazioni di recupero degli astronauti, credo che fosse la USS New Orleans, ed a meno

di 1,1 chilometri dal punto dove i tecnici della NASA avevano calcolato la posizione

dell’ammaraggio rendendo così l’ammaraggio dell’Apollo 14 il più preciso di tutta la

storia del Programma Spaziale Apollo. Pensate che in quella missione, che fece

sbarcare per l’ultima volta l’uomo sulla Luna, il comandante Shepard decise di giocare

a golf con le due palline che si era portato dietro utilizzando l’asta di una strumento

come bastone; con quell’esibizione, Shepard è stato il primo uomo a giocare a golf sulla

Luna e nello spazio!

Il programma era formato da una serie di filmati di scenette comiche seguite dai

messaggi pubblicitari della ditta che li sponsorizzava che comunque erano scollegate al

soggetto della pubblicità, cioè l’oggetto da pubblicizzare non compariva e non era mai

citato nei dialoghi. Il programma era talmente famoso che attori di primo piano, anche

internazionali, presero parte alla realizzazione delle scenette. Mi ricordo di Totò,

Gassman, Manfredi, Vianello, Gino Cervi ed anche Fernandel, attore francese diventato

famoso impersonando Don Camillo in coppia con Gino Cervi che recitava nei panni di

Peppone!

La trasmissione iniziava con un sipario che si apriva accompagnato dal suono di una

fanfara, poi si svolgeva la scenetta che aveva una durata fissa di circa due minuti

seguita dai trenta secondi di un filmato che pubblicizzava il prodotto. Il passaggio dalla

scenetta alla striscia pubblicitaria avveniva tramite una frase “chiave” che il

protagonista della scenetta recitava alla fine del filmato del tipo "Non è vero che tutto fa

brodo, è Lombardi il vero buon brodo!" oppure "Lei è un fenomeno, ispettore: non

sbaglia mai". "Non è esatto! Anch'io ho commesso un errore: non ho mai usato la

brillantina Linetti”.

Ma il Carosello diede origine anche a personaggi famosi, tra cui i primi cartoni animati

e le prime animazioni, come ad esempio Calimero, il pulcino nero della Mira Lanza che

era sempre vittima delle cattiverie altrui, ma che durante il periodo natalizio si

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riscattava con l’arrivo di un personaggio che ne prendeva le difese ('”Uh, che

maniere!...Qui fanno sempre così perché loro sono grandi e io sono piccolo e nero... è

un' ingiustizia però!"), l’omino con il baffo della Bialetti, Linea della Lagostina,

Trinchetto della Recoaro ("Cala, cala, cala! Cala Trinchetto!"), Cimabue che

pubblicizzava l’amaro Dom Bairo (“Cimabue, Cimabue, fai una cosa e ne sbagli due" e

lui reagisce: "Eh, che cagnara, sbagliando si impara!"), l’ippopotamo blu della Lines che

pubblicizzava i pannolini per bambini e la famosissima coppia “Carmencita –

Caballero”, ideata da Armando Testa per il Caffè Paulista ("Nella Pampa sconfinata,

dove le pistole dettano legge, va il Caballero misterioso in cerca della bellissima donna

che ha visto sul giornale. S'ode un grido nella Pampa: Carmencita abita qui?" Il

Caballero alla fine conquista la sua bella e le dice “Carmencita, sei già mia, chiudi il gas

e vieni via”).

- Non so se una trasmissione come quella al giorno d’oggi possa ancora aver successo,

visto che oggi le persone non hanno la capacità di apprezzare cose così semplici! –

sentenziò Thomas.

- E’ vero, rispose Bianca, adesso viviamo immersi nella tecnologia e nel progresso che

vediamo ed osanniamo come una conquista di libertà ed indipendenza, ma non ci

accorgiamo che lentamente ne stiamo diventando prigionieri, schiavi!

Il cigolio della porta che si apriva lasciando liberi Miro e Bobi fece riaffiorare dal torrente

dei ricordi la giovane 500. Dietro di loro uscì Tony con due ciotole metalliche in mano.

Bobi zampettava al suo fianco, mentre Miro lo precedeva ed a tratti si fermava accennando

un salto verso la ciotola che puntualmente veniva alzata lasciando il cagnolino senza la

sua preziosa preda.

Le due bestiole volevano divorare la loro colazione, una bella ciotola di latte con pezzetti

di pane o dei biscotti; certo, quella pappa avrebbe fatto storcere il naso a qualsiasi

veterinario, ma a loro piaceva tanto!

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Arriva la cavalleria!

Ormai il sole aveva bucato le poche nubi che dalla mattina avevano velato un tranquillo

cielo azzurro e si stava alzando alto e fiero all’orizzonte, quando un possente motore come

un rombo di tuono segnalava il suo avvicinarsi al piazzale. Se la 500 fosse stata costruita

in America, probabilmente avrebbe scambiato questo frastuono con l’avvicinarsi di una

mandria di bisonti, ma lei, europea, non aveva la benché minima idea di che cosa fosse un

bisonte.

Il suono aumentava segnalando l’imminente arrivo di un nuovo ospite del deposito.

All’improvviso un enorme bisonte nero, coperto di segni e simboli riflettenti, mosso da ben

12 ruote, grandi e possenti che evidenziavano il battistrada tassellato, con due fari severi

protetti da una griglia nera e con due fendinebbia aggrappati al paraurti, che sembrava

scomparire sotto l’imponente cabina su cui dominava un rombo argentato, fece il suo

fragoroso ingresso nel piazzale.

Agganciato al potente mezzo, come un pesce in balia dell’amo della canna di un pescatore,

avanzava mestamente un camioncino bianco che sembrava scomparire dietro la mole del

muscoloso Renault Kerax; sembrava di vedere un topolino trainato da un bue grasso. Già, il

bue grasso, tradizionale meta di Bianca e dei suoi genitori che immancabilmente ogni anno

a Dicembre si recavano a Carrù per mangiare un succulento bollito condito con della

salsetta verde, la regina del bollito, che immancabilmente lasciava il suo segno sui vestiti

dei visitatori, ma che Bianca prepara amorevolmente tritando separatamente le foglie del

prezzemolo, che ogni primavera pianta nei vasi che poi mette in giardino, dell’aglio, del

basilico, quello che ogni anno il suo amico botanico le regala per il suo pesto alla

genovese, e delle acciughe che va a prendere direttamente dai pescatori quando si reca al

mare nelle calde domeniche estive insieme alle sue amiche. Poi mette il tutto in un pentolino

ed aggiunge olio di oliva fino ad ottenere una salsa fluida; dopo aver messo un pizzico di

sale scalda il tutto, ma senza farlo bollire ed una volta freddo lo sistema con cura nei

vasetti che conserva in frigo. E poi, la domenica a pranzo in giardino, quando il tempo lo

permette, la distribuisce sulle carni che serve ai suoi ospiti. Tutti ne sono entusiasti, anche

il piccolo Chry-Chry che si diverte ad inzupparci il pane che poi mangia di gusto e che

condivide sia con i suoi vestiti che con quelli degli ospiti assisi alla tavola, fedele al

pensiero di Buddha che dice che “la felicità non diminuisce se la si condivide con altri”!

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Quante volte accompagnando Bianca a Carrù, la 500 aveva sentito raccontare la storia del

bue grasso; la tradizione vuole che ad inizio Novecento un veterinario di Carrù, Benedetto

Borselli, riuscì a convincere alcuni allevatori a mettere a riposo per alcuni anni dei buoi

non più adatti ad eseguire i lavori nei campi (anche perché allora non esistevano i trattori e

gli unici attrezzi meccanizzati erano trainati da cavalli o da buoi) nutrendoli con del buon

cibo in modo da permetter loro di ricostruire le masse muscolari ed ingrassare per poi

essere venduti come animali da carne.

Nonostante lo scetticismo generale, l’esperimento diede ottimi risultati tant’è che dal 1910 si

organizza annualmente la “Fiera del bue grasso” dove i migliori capi di bovini di razza

piemontese sfilano orgogliosi della loro muscolatura e mole.

Adesso, invece, la nostra povera 500 era intenta a guardare con i suoi faretti le operazioni

di sgancio dello sventurato che si ritrovava, sperduto e spurito, in un piazzale circondato

da veicoli incidentati: la sua unica consolazione era che almeno poteva sperare nella

presenza del suo proprietario che stava discutendo animatamente sia con l’addetto alle

operazioni di sgancio che con il proprietario del deposito.

Era così persa ad osservare la scena che non si era accorta dell’arrivo di un'altra vettura

nel piazzale; eppure quel suono doveva riconoscerlo, doveva attirare la sua attenzione!

Solo l’abbaiare di Bobi seguito dal piccolo Miro che si avvicinavano minacciosi all’intruso

che si era permesso di entrare nel loro territorio distolsero la 500 dal suo

imbambolamento. Si voltò verso i due cani e finalmente si accorse della Fiat Strada che era

arrivata poco prima.

- Non è possibile, pensò, sembra la macchina di Thomas. Non posso non riconoscere

quel colore rossiccio, quei passaruota in plastica con le viti a vista e quel frontale

muscoloso dominato dalla griglia argentea su cui campeggia lo scudetto FIAT!

Sicuramente avrò un miraggio, di quelli che avrà avuto il nonno di Bianca nei suoi

viaggi nel deserto e di cui ogni tanto parla con le sue amiche! Sarà un’illusione ottica

creata dalla mia fantasia, dalla mia nostalgia e dalla voglia di tornare a casa.

Ma mentre cercava con tutte le forze di scacciare via la malinconia e la paura di non

tornare a casa, le porte della macchina si aprirono e dal posto di guida scese Thomas,

vestito con pesanti scarponi giallini, jeans azzurri su cui svolazzava una camicia a

quadrettoni nascosta sotto un maglione rosso fuoco su cui troneggiava aperta una

cerniera argentea. Subito fu assalito da Bobi che scodinzolando ed abbaiando gli girava

freneticamente intorno. Thomas, allora si chinò ed iniziò a giocare con lui. Avendo capito

che si trovava di fronte una persona disposta a farlo giocare, Bobi scappò verso la sua

cuccia per afferrare il pallone bucato che consegnò diligentemente a Thomas il quale lo

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scagliò lontano. Bobi corse verso il pallone, lo afferrò, ma poi si fermò di scatto,

richiamato all’ordine dal suo padrone.

Nel frattempo Miro si era portato sull’altro lato della macchina aspettando che scendesse

anche il passeggero. Dopo qualche istante, la porta si aprì e scese una ragazza bionda,

vestita con jeans neri, una camicetta color perla chiusa da un giubbottino in pelle. Con il

sole alle spalle sembrava una dea scesa dall’Olimpo, ma la 500 riconobbe subito quella

sagoma, quei capelli dorati, quella figura snella e perfetta. Si sentiva emozionata come la

prima volta che l’aveva vista quando era ancora ferma all’autosalone in attesa di conoscere

il suo destino. Sembrava che anche Miro avesse riconosciuto in lei la bellezza e l’eleganza

di una dea; si avvicinò con suo musetto dominato dal tartufo marroncino e con fare timido

attese che Bianca le appoggiasse una mano sulla testolina ed iniziasse ad accarezzarlo.

Sembrava che Miro apprezzasse tantissimo le sue coccole e la 500 incominciò ad essere

gelosa. Come, aveva salutato Miro che non conosceva e non era ancora corsa da lei!?!

Ma tra una carezza e l’altra Miro la accompagnò verso la 500; Bianca nel vedere la sua

adorata macchinina fece un sorriso ed immediatamente le si avvicinò, le accarezzò la

carrozzeria, controllò che non ci fossero bolli o ammaccature.

Thomas la raggiunse insieme a Bobi ed a Tony, il titolare dell’autorimessa.

- La tua macchinina è ancora intera? – chiese con una punta di ironia Thomas.

- Certo, la mia Perlina sta benissimo; ha solo bisogno di una bella lavata per toglierle di

dosso questa polvere ed il regalino di uno di voi due birichini! - esclamò guardando

severa i due cani.

Miro avrebbe voluto difendersi dicendo che non era stato lui, ma preferì ripiegare sulla

strategia già altre volte collaudata; si avvicinò a Bianca e fece la marmotta in modo da

intenerirla e da farsi fare ancora un po’ di coccole!

- Bene, disse Thomas, allora andiamo in ufficio così sbrighiamo le pratiche in modo da

liberare la prigioniera!

Insieme si avviarono verso l’ufficio e poi sparirono dietro la porta che si chiuse per

impedire l’accesso ai due cani che avevano la brutta abitudine di considerare l’ufficio una

grande cuccia in cui giocare e le pratiche e le sedie giochi da morsicare, rosicchiare o,

peggio ancora, demolire!

Dopo un po’ uscirono; Thomas, salutata Bianca, risalì in auto ed attese che Bianca

raggiungesse la 500 prima di andar via. Ma mentre saliva, fece scivolare nelle mani di

Bianca un piccolo pacchetto avvolto con una carta colorata rossa ed un fiocco grigio. Era

un regalo per consolarla del fatto che era dispiaciuta di aver perso, anche solo per un

giorno, la sua amata compagna di viaggio e di vita.

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Raggiunta la 500, Bianca aprì la porta ed immediatamente si sedette al posto di guida,

appoggiò il pacchetto sul sedile del passeggero e poi afferrò il volante tra le mani.

- Pensavo che ti avessero rubato. Per fortuna dei passanti mi hanno avvisato che ti

avevano portato via con un carro-attrezzi; così ho chiamato subito i Vigili e mi sono

fatta dire dove ti stavano portando! La prossima volta farò più attenzione a dove ti

parcheggio!

Inserita la chiave nel nottolino, Bianca accese il motore della 500 che finalmente vedeva nel

portone aperto la sua riacquistata libertà. Ma Bianca non partiva e la 500 non capiva il perché.

Poi sentì Bianca che stava scartando il pacchettino che aveva ricevuto da Thomas; era un CD

di musica. Bianca lesse il nome dell’album “The memory of trees” di Enya e scorse l’elenco

delle canzoni che vi erano incise; poi inserì il CD nel lettore, alzò il volume e finalmente si

mosse verso il cancello.

La 500 orgogliosamente avanzava versa la libertà, ma in realtà era un po’ triste perché

lasciava lì le sue amiche di una sera e il piccolo Miro. Era invece ben contenta di abbandonare

Boby che non faceva altro che innaffiare abbondantemente le sue ruote!

Con il sottofondo delle canzoni del CD che richiamavano atmosfere magiche e misteriose,

boschi e foreste abitate da animali e personaggi fantastici, attraversò di corsa il cancello

riassaporando il gusto della libertà, della velocità, della strada!

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Ritorno a casa

La 500 si sentiva sicura nelle mani di Bianca; finalmente si era ricreata quell’atmosfera

magica che legava la macchina alla sua guidatrice. Adesso non poteva più fare la turista,

ma doveva concertarsi sulla strada.

Rispetto al giorno precedente, però, non si sentiva più una regina, ma una semplice

principessa che doveva ancora scoprire il mondo ed imparare a rispettare tutte le auto che

incrociava. Aveva scoperto che in ognuna di loro si nascondeva un’anima, una storia, un

cuore e non esistevano macchine superiori ad altre.

Al primo incrocio Bianca svoltò a sinistra e si avviò verso la strada che conduceva a

quello strano palazzo di cemento e vetro che la 500 aveva avuto modo di vedere dal

pianale del carro-attrezzi il giorno prima e da cui provenivano le dolci note della musica

delle composizioni di Vivaldi. Ma con sorpresa della 500, Bianca, raggiunta la rotonda su

cui troneggiava un strano personaggio argentato, una figura maschile con una mano in

tasca e l’altra appoggiata ad un bastone, svoltò per una strada in discesa che si presentava

un po’ mal ridotta. Superata una serie di dossi artificiali, messi a tutela dei pedoni in

transito sugli attraversamenti pedonali, la 500 si trovò in aperta campagna.

La 500 viaggiava tranquillamente lungo il nastro d’asfalto che si srotolava davanti ai suoi

fanali e si godeva la tranquillità campestre di quella mattinata gustando il verde dell’erba

che contornava le giovani spighe di grano che lentamente stavano maturando nei campi.

Ogni tanto vedeva spuntare dei fiori rossi, dei papaveri, soggetto della canzoncina che

Bianca cantava sempre a Chry-Chry quando lo portava a spasso e che faceva ridere di

gusto il piccolo terremoto, fiore che, secondo la tradizione, Gengis Khan, famoso

condottiero mongolo, aveva l’abitudine di far seminare sui campi di battaglia dove aveva

vinto in memoria di coloro che erano caduti con onore durante la battaglia.

Superata un’altra serie di rotonde, la 500 arrivò ad uno stretto curvone che piegava sulla

destra terminando in un’ennesima rotonda. Affrontando a velocità ridotta la curva, la 500

scorse con i suoi fanali un’edicola alla sua sinistra da cui si intravedeva la statua di una

Madonnina nera.

La 500 si ricordò allora di quel sabato mattina in cui lei stava tranquillamente parcheggiata

in giardino a godersi i delicati raggi solari, mentre Bianca, seduta al solito tavolino in

marmo con le eleganti gambe in ferro battuto, era intenta a consultare libri ed a tracciare

righe su di un foglio da disegno. Ad un certo punto comparve Thomas con un vassoio su

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cui una caffettiera fumante accompagnava due eleganti tazzine in ceramica bianca con dei

delicati fiorellini blu come ornamento.

Thomas aveva visto Bianca dalla finestra della sua biblioteca ed aveva pensato di

prepararle un caldo caffè per alleggerire il suo lavoro.

Durante la pausa caffè, Thomas chiese a Bianca in che cosa consistesse il lavoro che stava

seguendo. Bianca stava infatti studiando un’antica edicola da restaurare e voleva farlo

cercando di riportare il manufatto alla sua condizione originale.

Sempre sorseggiando la sua preziosa bevanda, Thomas raccontò a Bianca un episodio che

suo nonno gli aveva raccontato tante volte da bambino. Il nonno, molti anni fa, aveva

comprato un prato per costruire la sua casa, quella dove Thomas aveva passato tante

estati in compagnia dei nonni e degli amati cani. Il prato aveva, però, un piccolo sentiero

che portava ad un campo di proprietà del parroco del paese, cugino di suo nonno; il

nonno, propose quindi al cugino parroco di spostare il sentiero dalla parte opposta del

terreno trasformandolo, a titolo di risarcimento, in una strada al fine di consentire non solo

l’accesso al campo delle persone, ma anche il transito dei carri, poiché allora i trattori non

erano ancora stati inventati.

Il parroco, non si sa per quale motivo, non accettò la proposta, ma il nonno non si perse

d’animo e realizzò la casa e la strada, ma, per evitare le possibili ritorsioni del cocciuto

cugino, all’imbocco del sentiero della discordia realizzò una piccola edicola in muratura in

cui collocò una statua della Madonna nera di Oropa sicuro che il parroco non avrebbe mai

avuto il coraggio di farla demolire. Ed infatti così andò!

- Ma adesso l’edicola è ancora al suo posto? – chiese Bianca divertita.

- Certamente, rispose Thomas, anche perché mio nonno era un devoto della Madonna di

Oropa e tutti gli anni, finché il fisico lo consentiva, andava sempre in pellegrinaggio al

santuario. Il santuario, meta di villeggiatura dei Vercellesi di quel tempo, è situato a

circa venti minuti in auto da Biella e domina la pianura dall’alto dei suoi 1200 metri che

lo rendono il santuario più alto delle alpi. Io da ragazzo accompagnavo volentieri i miei

per poter guidare sui tornanti e sulle curve della strada che si inerpica sui monti e che

veniva usata anche per effettuare delle competizioni sportive che avevano visto il duello

tra due conti, il Conte Sforza su Alfa Romeo ed il Conte Trossi su Mercedes! Pensa che

la strada carrozzabile tuttora in funzione, almeno in parte, venne realizzata all’inizio del

Seicento per consentire il transito delle carrozze verso il santuario in modo da non

farle transitare sulla stretta e dissestata mulattiera che aveva condotto nei secoli tanti

pellegrini fino alla conca del santuario. Il tratto che preferivo era il misto in mezzo ai

boschi, una successione di corti rettilinei e di curve che si snodano in mezzo ad un

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bosco di faggi che nei giorni d’estate rendono magico il paesaggio celando e svelando i

raggi del sole tra le foglie mosse dalla brezza e regalando il profumo leggero e fresco

della natura che entra dai finestrini lasciati leggermente aperti. Con il senno di poi,

rimpiango di aver disturbato la natura con il frastuono del motore che tenevo sempre

su di giri!

Mio nonno, invece, da giovane si recava al santuario con la ferrovia a scartamento

ridotto che partendo da Biella raggiungeva Oropa su di un percorso tortuoso di circa

15 chilometri che si snodava lungo le pendici delle prealpi biellesi affrontando salite

con pendenze del 7% che resero celebre la tranvia con il nome di “Ardita d’Italia”. La

tramvia fu poi abbandonata a favore di quelle che mio nonno chiamava “corriere”, cioè

gli odierni autobus!

Pensa, proseguì Thomas, che la tradizione locale vuole che il santuario sia stato

costruito per volontà di Sant’Eusebio, primo vescovo di Vercelli, intorno al IV secolo

per venerare la statua della Madonna nera che il santo aveva portato con sé dalla

Palestina e che si riteneva fosse stata realizzata addirittura da San Luca, uno degli

Evangelisti. La particolarità di questo santuario è che non è stato costruito per volontà

di una famiglia nobile o reale, ma per volontà del popolo. Infatti la sua trasformazione

da piccola chiesetta a santuario si deve ai Biellesi che nel 1599 fecero erigere la

Basilica Antica sui resti del precedente saccello voluto da Eusebio, come

ringraziamento alla Madonna per aver risparmiato la città di Biella da un’epidemia di

peste. I Savoia, poi, si innamorarono del santuario e contribuirono al suo abbellimento

a cui si dedicarono anche il Guarini e lo Juvarra.

I nonni, quando ero un bimbo, mi raccontavano nelle sere d’estate che passavo in loro

compagnia alcune leggende che la tradizione popolare attribuiva alla Madonna nera ed

alle rocce su cui poggiava la chiesa antica. Mi raccontavano che un giorno i sacerdoti

di Biella si erano recati al Santuario per prelevare la statua della Madonna per portarla

in processione nella città. La caricarono devotamente su di un carro trainato da cavalli

e si avviarono verso la valle, ma giunti al confine del santuario, i cavalli si bloccarono

rifiutandosi di proseguire. Ai poveri sacerdoti non rimase che riportare la statua in

chiesa. Una seconda leggenda, di cui però non ho trovato menzione da nessuna parte

ed in nessun documento, sostiene che al completamento della Basilica nuova, i

sacerdoti spostarono la statua della Madonna dalla vecchia chiesa a quella nuova,

collocandola sul nuovo altare a lei dedicato. Ma al mattino i sacerdoti, entrando in

chiesa, scoprirono che l’altare era vuoto. Cercarono ovunque la statua ed alla fine

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pensarono ad un furto; invece, la ritrovarono alcune ore dopo al suo posto nella

Basilica Antica dove è tuttora presente.

- Dunque tu non credi alle storie raccontate dai tuoi nonni? – chiese Bianca.

- Diciamo che la prima leggenda può avere un fondo di verità, mentre la seconda,

secondo me, è inventata perché la costruzione della chiesa nuova è completata nel 1960

ed un episodio simile avrebbe sicuramente avuto una certa eco sulla stampa, mentre

non se ne ritrova alcuna traccia! Comunque la statua della Madonna nera ha

sicuramente delle caratteristiche che al rendono particolare. Infatti, pur essendo

realizzata in legno di cirmolo, cioè di cedro, all’incirca nel tredicesimo secolo, almeno

così sostengono gli storici, non presenta segni di logoramento e di tarlatura. Inoltre,

nonostante la tradizione dei tempi passati che voleva che il pellegrino toccasse con la

mano l’oggetto della sua venerazione per acquisirne, diciamo così, il suo “potere”

benefico, la statua non presenta alcuna usura, nemmeno al suo piede che era

abitualmente toccato o sfiorato dalle mani dei pellegrini, mentre, ad esempio, la statua

bronzea di San Pietro benedicente in Vaticano presenta un piede fortemente usurato a

causa di quest’usanza. E poi, i volti della Vergine e del Bambin Gesù non presentano

alcun accumulo di polvere, fatto non ancora spiegato dalla Scienza.

- Ma tu, chiese Bianca, che rapporto hai con il santuario?

- Diciamo che a me piace andare al santuario perché sicuramente è un ambiente che

dona serenità e tranquillità. Inoltre è sito in una conca che domina un paesaggio quasi

incontaminato ed in cui è possibile passeggiare a stretto contatto con la Ntura. Pensa

che ogni volta che entro nella basilica mi sento in soggezione, perché non si può

sfuggire allo sguardo sorridente, ma anche penetrante, della statua della Madonna

nera. Con Lei ho un rapporto strano e particolare poiché in molti momenti cruciali della

vita mi sono rivolto a Lei per un consiglio, per un’indicazione sulla strada da seguire.

Ad esempio, ed è la prima volta che lo racconto, durante i miei studi universitari,

diciamo a circa metà del corso di studi, ho avuto una pesante battuta di arresto.

Studiavo per gli esami, ma poi non riuscivo a superarli. In sei mesi avevo superato un

solo esame e per accedere al quarto anno avrei dovuto superarne due entro settembre,

un impresa che a me sembrava disperata; diciamo che ero tentato di “gettare tutto alle

ortiche” rinunciando quindi al mio sogno che era nato da quando ero un bimbo.

Mi ricordo che era inizio settembre e come ogni anno avevo accompagnato la famiglia,

inclusa la nonna, al santuario per il consueto pellegrinaggio. Ero entrato in chiesa

accompagnando la nonna che aveva paura di cadere sui gradini in pietra e l’avevo

aiutata a sedersi nel banco, lasciandola quindi sola affinché potesse recitare le sue

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preghiere. Con la scusa di osservare l’architettura della chiesa mi ero allontanato e mi

ero sistemato seminascosto nella navata di destra perché mi sentivo osservato e

giudicato da quegli occhi indagatori. Ad un certo punto, lo ricordo come fosse ieri,

presi coraggio e guardandola negli occhi Le chiesi “Ma tu che vuoi da me? Cosa vuoi

che faccia? Se vuoi che continui sulla strada che sto percorrendo devi darmi un segno,

devi farmelo capire, altrimenti mollo tutto e faccio altro!”. Uscii quindi dalla chiesa

insieme a mia nonna e non ci pensai più. Ebbene, sarà come sarà, ma in un anno e

mezzo riuscii a sostenere ben tredici esami senza mai sbagliarne uno. Il messaggio mi

fu chiaro e in breve conclusi gli studi.

Gli occhi di Thomas si erano fatti lucidi durante il racconto; il tono della voce tradiva una forte

emozione. Allora Bianca, per alleggerire la conversazione e per non mettere a disagio Thomas

che non voleva farsi vedere commosso, decise di raccontargli la storia delle Madonne nere.

- Devi sapere, esordì, che le Madonne nere sono un’anomalia in Europa; infatti tutte le

rappresentazioni, dalle statue ai dipinti, raffigurano la Vergine con carnagione chiara.

Però nella sola Europa tra statue originali e copie esistono circa 400 Madonne nere,

alcune famose, come quella di Loreto, di Czestochowa in Polonia a cui era molto legata

il mio Papa, Giovanni Paolo II, o quella meno nota di Tenerife che però è la Patrona

delle Isole Canarie. La colorazione scura dipende da tanti fattori quali il fumo delle

candele o di incendi che possono averne annerito il volto oppure i pigmenti, a base

piombo, utilizzati per dipingerla. Potrebbe dipendere anche, nel caso di statue rivestite

con una sottile lamina di argento, dall’ossidazione di questo materiale, mentre in Africa

ed in Messico la Madonna è stata raffigurata con la carnagione scura poiché i modelli a

disposizione degli artisti, cioè le donne del posto, hanno la carnagione scura!

La tradizione occidentale vuole che sia stato Sant’Eusebio il primo a portare in Europa

dalla Cappadocia, dove era stato esiliato, tre statue della Madonna nera oggi

conservate ad Oropa, a Crea ed a Cagliari, essendo Eusebio originario della Sardegna.

In realtà, studi più recenti degli storici dell’arte sostengono che le prime statue di

Madonne nere fossero state trovate sepolte sotto terra nelle sembianze di una donna

con un bambino e che i primi fedeli ritrovandole “miracolosamente”, le avessero

scambiate per la rappresentazione della Vergine con il Bambino, mentre in realtà

raffiguravano divinità e culti passati come ad esempio Iside ed Horus, culto molto

diffuso nell’Impero Romano oppure la dea Cerere. Nel primo caso il colore scuro

rappresentava il lato femminile della divinità mentre nel caso di Cerere, il colore scuro

richiamava la madre terra da cui proveniva, così ritenevano gli Antichi, la vita.

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In ogni caso, la diffusione delle statue di Madonne nere si ebbe nel Medio Evo, in

particolare durante il periodo delle crociate, quando molti crociati al ritorno in Europa

dopo il loro pellegrinaggio in Terra Santa portarono con sé molte reliquie ed icone

dove erano raffigurate Madonne dal colorito scuro che nel mondo bizantino era usato

per distinguere le persone comuni dai santi. Inoltre, in quel periodo San Bernardo da

Chiaravalle, predicatore entusiasta della seconda crociata, aveva redatto un celebre

commentario del Cantico dei Cantici in cui vedeva, nella sposa “nigra sed formosa”

l’annunciazione della venuta della Madonna. Questo parallelismo avrebbe spinto alcuni

artisti a rappresentare la Madonna con il volto scuro o addirittura a “restaurare” statue

già esistenti con questa nuova prospettiva come accaduta alla Madonna nera

conservata nel santuario di Crea che un recente restauro ha scoperto essere in realtà

di carnagione chiara!

La conversazione dotta era poi terminata con la promessa di Thomas di accompagnare un

giorno Bianca ad Oropa sia per vedere il santuario che il lago del Mucrone, ma anche per farle

assaggiare i piatti tipici della zona tra cui la famosa e prelibata polenta concia, piatto tipico del

biellese, che consiste nell’unire alla polenta pezzetti di Toma di Oropa oppure di Beddo,

formaggio tipico della zona che rende molto filamentosa la polenta, precedentemente sciolti in

un pentolino insieme a dei pezzetti di burro, il tutto accompagnato con un buon bicchiere di

vino come il Bramaterra, rarissimo vino piemontese prodotto dalla combinazione di uve

Nebbiolo, Bonaria, Croatina e Vespolina, dal colore rosso granato con sfumature tendenti

all’aranciato e dal sapore asciutto e leggermente amandorlato, oppure del Lessona, dal colore

rosso vivo e dal profumo fine ed intenso, chiamato anche “Vino d’Italia” poiché il Ministro

Quintino Sella, produttore anche di un eccellente Nebbiolo, durante la cena offerta ai Ministri

per celebrare l’unità d’Italia dopo la presa di Roma del 1870, sostituì durante il brindisi lo

champagne con il Lessona.

Ma la nostra 500 era già emozionata all’idea di percorrere agilmente le rapide salite, gli stretti

tornanti e di far risuonare il rombo del suo motore nel bosco di faggi come avevano fatto le

potenti vetture dei due Conti unendo il suono del suo scarico all’eco di quelli delle due

storiche vetture!

Ripresasi dai ricordi, la 500 stava già galoppando veloce sulla nuova variante che

rapidamenteportava alla tangenziale. Superara una rapida salita e la successiva curva verso

destra, la 500 poteva scorgere lassù, immobile sulla collina, la sagoma inconfondibile della

Basilica di Superga e l’argenteo camino della nuova centrale cogenerativa di Torino ancora in

fase di ultimazione. Giunti al bivio, Bianca, con mano sicura guidò la 500 nel lungo curvone

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che consentiva l’accesso alla tangenziale; come suo solito procedeva a velocità costante e poi,

giunta nella corsia di accelerazione dava libero sfogo alla 500 che poteva scatenare tutti i suoi

cavalli per “bucare” il flusso di vetture che velocemente procedevano verso sud. Ma Bianca

non aveva fretta; raggiunti i 90 chilometri ora rallentò dedicandosi all’ascolto del CD che

Thomas gli aveva regalato. La 500 fremeva nel vedersi superata da molte vetture, anche più

anziane di lei, ma non protestava, anche se era costretta ad accodarsi ad un pesante camion

che faticosamente stava procedendo verso la Val di Susa, persa nel ricordo dell’avventura

africana raccontata la sera precedente dall’arzilla Campagnola.

Superato il curvone di Bruiere, la 500 affrontò l’ennesima salita per poi proseguire attraverso

la campagna che si apriva a perdita d’occhio davanti ai suoi fari, racchiusa tra l’arco alpino

alla sua destra e le colline alla sua sinistra , colline che delimitavano l’area metropolitana di

Torino e su cui, la fiera basilica di Superga, era sempre lì, come vigile sentinella, a controllare

che la vita dei Torinesi scorresse tranquilla!

Arrivati all’interporto, il poco traffico aumentò non tanto nei numeri quanto nelle dimensioni.

Orde di camion carichi di merce si muovevano freneticamente lungo le vie ed i capannoni

dell’interporto come indaffarate formiche all’interno di un formicaio. Fieri autoarticolati

allineati nei parcheggi scrutavano severi le vetture che celermente procedevano sulla

tangenziale mentre un’auto della Polizia Stradale, impettita nei suoi colori d’ordinanza, ferma

sulla corsia di emergenza osservava i poliziotti che con sguardo severo controllavano

l’autovelox che impietosamente ricordava ai velocisti che i limiti di velocità devono sempre

essere rispettati in nome della propria ed altrui sicurezza!

La 500 procedeva tranquilla poiché la sua velocità non era variata da quando era entrata in

autostrada, ma altre vetture, notevolmente più veloci di quanto legalmente accettabile, si

esibivano in discrete, ma potenti frenate sperando di ingannare l’infernale macchinetta.

Ormai lontani dai severi sguardi del due agenti, due rombanti prototipi avvolti nelle loro nere

camuffature superarono “a spron battuto” la 500; la nostra vettura cercò di approfittare del

breve lasso di tempo per catturarne furtivamente i dettagli, per confrontare la sua elegante

linea con le nuove proposte, le nuove tendenze della moda. La prima vettura che la sorpassò

presentava un frontale caratterizzato da una grande calandra nera sormontata nella parte

superiore da un pesante baffo cromato che contornava lo spazio lasciato vuoto per lo stemma

della Casa automobilistica di origine e delimitata alle due estremità da grandi fari a sviluppo

verticale che terminavano ai lati di uno spiovente cofano motore. La coda, invece, mostrava

due fanali bianco-rossi che incastonavano un voluminoso cofano in lamiera “mosso” da una

scalfittura orizzontale che terminava superiormente in un accenno di piccolo spoiler. Il

secondo prototipo,invece, pesantemente camuffato mostrava un frontale molto aggressivo e

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filante delimitato da due fanali a sviluppo orizzontale che incastonavano un simpatico baffetto

cromato su cui campeggiava lo spazio lasciato vuoto per lo stemma della Casa. La massiccia

camuffatura permetteva di osservare solo due pronunciati passaruota anteriori, ma celava

impietosamente altri dettagli della vettura. Le due vetture affiancate affrontarono quindi in

velocità il lungo curvone che piegava sulla destra e così come erano arrivati, velocemente

sparirono inghiottiti dalle corsie dello svincolo che in breve le avrebbe condotte alla loro

officina all’interno del complesso di Mirafiori, che la 500 poteva vedere anche da lontano,

annunciato dalle sue alte e snelle ciminiere e dalle torri evaporative che solleticavano

l’azzurro cielo con le loro candide colonne di bianca condensa.

Mirafiori, il più grande complesso industriale italiano, la fabbrica più vecchia in Europa

ancora in servizio che si sviluppa su di una superficie di circa 20 ettari, attraversata da ben sei

chilometri di gallerie sotterranee che collegano i vari capannoni, utilizzate durante l’ultima

guerra come rifugio e protezione dalla popolazione, e dominato dalla palazzina degli uffici

lunga ben 220 metri interamente ricoperta in pietra bianca di Finale. Lo stabilimento venne

realizzato a partire dal 1936 su progetto di Bonadè Bottino per sopperire alle deficienze dello

stabilimento del Lingotto, che era comunque ritenuto lo stabilimento più all’avanguardia in

Europa negli Anni Trenta. Rispetto al primo, che prevedeva uno sviluppo verticale del flusso

produttivo, cioè la lavorazione iniziava al piano terra per proseguire verso l’alto e terminare

sulla pista realizzata sul tetto per il collaudo della vettura, lo stabilimento di Mirafiori

prevedeva invece uno sviluppo orizzontale, cioè tutto lo stabilimento era cucito attorno alla

linea di assemblaggio finale in modo da rendere più semplici i flussi dei materiali e dei

semilavorati dalle diverse aree di produzione e sottoassemblaggio alla linea di montaggio

finale. Come il Lingotto, anche Mirafiori era provvista di una pista di prova dei veicoli formata

da due lunghi rettilinei collegati da due curve paraboliche di diversa inclinazione che si

estendeva per una lunghezza complessiva di circa tre chilometri. Alla 500 venivano in mente le

parole che Bianca diceva sempre quando si parlava di Mirafiori: “Mirafiori è stata la goccia

che ha fatto traboccare il vaso del mio bisnonno!”. Infatti, dai racconti di Bianca sentiti sovente

dalla 500, sembrerebbe che suo bisnonno, originario delle campagne cuneesi e trasferitosi a

Torino per cercar fortuna, abbia definitivamente abbandonato l’ingiusta città a causa dei

continui e ripetuti traslochi a cui era stato costretto. Arrivato a Torino con la moglie ad inizio

Novecento, aveva aperto un’osteria ed aveva preso alloggio in una cascina situata in una zona

della città occupata da molti mulini; la zona si chiama tuttora Nizza – Millefonti sia perché da

qui partiva la strada che portava in Francia passando dalla città di Nizza, sia perché era una

zona ricca di acqua (millefonti).

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Dopo un po’ alla coppia nacque un bimbo, ma a causa dell’avvio dei lavori di costruzione

dell’ospedale maggiore di Torino, iniziati nel 1927 e terminati nel 1935 su progetto del Mollino,

quello oggi conosciuto dai Torinesi come “Molinette”, furono costretti a traslocare, andando

quindi ad abitare in zona Mirafiori. L’origine del nome “Molinette” è tuttora controversa, poiché

la tradizione attribuisce il nome dell’ospedale sia alla presenza nella zona di numerosi mulini

ad acqua che alla presenza di un antico mulino, poi abbattuto, che si chiamava “La molinetta”.

Il bisnonno aveva scelto con cura la nuova casa perché la voleva immersa nel verde. Decise

quindi di trasferirsi nella zone più verde dell’allora citta, la zona di Mirafiori, così chiamata in

ricordo del Castello di Miraflores donato alla fine del Cinquecento dal Duca Carlo Emanuele I

alla moglie Caterina d’Asburgo che fu poi distrutto dai Francesi durante l’assedio del 1706. Era

una vasta zona rurale costellata di cascine, ma anche di mirabili ville e tenute dei nobili

torinesi che qui si recavano in vacanza; erano in pratica le seconde case della nobiltà! Ad

inizio secolo accolse pure un ippodromo e le sponde del Sangone, il suo fiume ed uno dei tanti

di Torino, erano utilizzate nella stagione estiva dalla gente come spiagge. La villa nobiliare più

famosa della zona fu certamente quella conosciuta come “La generala”, nome mutuato dalla

carica del suo proprietario, il conte Trucchi, che era generale delle finanze del Duca Carlo

Emanuele II; era talmente bella che venne riprodotta anche nel “Theatrum Sabaudie” del 1682.

Oggi, invece, è stata inglobata nel comprensorio del Tribunale dei Minori causandone quindi

l’oblio. Ma il destino del bisnonno si incrociò nuovamente con la rapida espansione della città

che in breve tempo fagocitò le campagne circostanti; per consentire la costruzione del nuovo

stabilimento della FIAT, quello che poi sarà conosciuto da tutti come Mirafiori, il bisnonno fu

nuovamente sfrattato. Questa volta, però, stufo di dover ciclicamente prendere “armi e bagagli”

e trasferirsi da una casa ad un’altra, decise di ritornare al suo paese natale da cui era partito

molto tempo prima in cerca di fortuna per continuare ad esercitare l’attività che lo aveva reso

“ricco” in città!

Finalmente Bianca arrivò allo svincolo di Stupinigi; la 500 era veramente sulla strada di casa!

Affrontata con cautela la stretta e difficile curva dello svincolo, la 500 finalmente riuscì a

scorgere dai suoi specchietti la lontana, ma elegante sagoma della Palazzina di Caccia di

Stupinigi che fa capolino tra i due lunghi filari di alberi che disciplinatamente disegnano il

lungo corso guidando lo sguardo dell’osservatore verso la sagoma inconfondibile del cervo

che dal 1766 sormonta la cupola della palazzina. Inconfondibilmente barocca con il suo corpo

ellittico ed i lunghi e bianchi bracci che sembra vogliano abbracciare lo spettatore per

renderlo partecipe dello spettacolo di eleganza e luminosità, orgogliosa della sua maestosità,

in grado di farla competere con la Reggia di Versailles e di superarla con soluzioni

architettoniche uniche al mondo. Stupinigi non è una reggia, ma un delicato e prezioso

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palcoscenico per le reali cacce che si svolgevano durante le settimane dorate dell’autunno,

una cattedrale della luce che sublima la genialità dello Juvarra che sfruttando sapientemente

l’alternanza della luce e delle ombre che si rincorrono nell’arco della giornata creano effetti di

instancabile e naturale movimento degli ambienti, dona la vita alla fredda muratura, rende

flessibile la rigida materia, leggiadro l’intero edificio, contorna lo scrigno segreto di amori

dolci e passionali, di avventure galanti e di maestosi matrimoni. Prezioso dono di un vecchio

sovrano, Vittorio Amedeo II, al figlio per celebrarne ufficalmente l’ingresso nello scacchiere

politico europeo dopo ben 52 anni di regno del vegliardo padre, venne trasformato dalla

regina Polissena d’Austria a fine Settecento da padiglione di caccia a palcoscenico di

memorabili balli e feste, di sfarzosi matrimoni. Nell’Ottocento il suo sontuoso giardino,

adornato con aiuole geometriche che richiamavano lo sviluppo della palazzina, fu scelto come

luogo di residenza di uno strano personaggio della Real Casa, un certo Fritz, elefante indiano

inviato nel 1826 dal vice-re d’Egitto a Carlo Felice insieme a due guardiani egiziani in cambio di

100 pecore merinos provenienti dal Regno di Sardegna. L’elefante, giunto a Torino, fu spedito a

Stupinigi, insieme ad un “Manuale di istruzioni” redatto dagli eminenti zoologi dell’Università

di Torino, dove prese possesso delle Reali scuderie. Per consentire all’illustre ospite di

rinfrescarsi nelle afose giornate estive, venne realizzata una piscina dotata di una comoda

rampa d’accesso all’interno del parco. L’ingombrante ospite fu oggetto di costante curiosità da

parte della popolazione e da parte di noti pittori del tempo come Sofia Giordano ed Enrico

Gonin e di intensi e costanti studi eseguiti da Roddi, Genè e De Filippi, storici direttori del

Museo Zoologico torinese, che ne registrarono accuratamente le condizioni fisiche e le cure

sanitarie a cui era sottoposto per i suoi frequenti mal di denti ed indigestioni nonché

considerazioni sul suo comportamento. Oggi, Fritz, riposa al Museo di Scienze Naturali di

Torino accanto ad orsi e lupi e osserva i visitatori e le scolaresche che visitano il museo con la

sua possente mole.

Dopo una breve corsa sul dritto rettifilo che si apriva verso la città, la 500 giunse alla rotonda,

dove un massiccio tram attendeva pazientemente di riprendere servizio osservando annoiato

lo scorrere del traffico, per poi svoltare verso la collina e proseguire la sua corsa verso

l’amata villa, il suo profumato giardino ed il suo sicuro ricovero. Passò al volo un semaforo

che per dispetto si era immediatamente colorato di giallo, saltò elegantemente su una serie di

dossi, aggirò tombini e irregolarità stradali sfiorando delicatamente l’erba che costeggiava il

nastro di asfalto, ma alla fine fu costretta ad interrompere la corsa davanti ad un severo

semaforo rosso. Ma con i suoi faretti riusciva a scorgere appena sopra il muretto in mattoni

che chiudeva il cortile di una vecchie a trascurata casa, l’inconfondibile sagoma del mausoleo

della Bela Rosin. Il mausoleo, cioè una tomba di rappresentanza, un po’ come le piramidi per i

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Faraoni d’Egitto, è la copia esatta del Pantheon di Roma. Venne edificato su progetto del

Demezzi dai figli di Rosa Vercellana, meglio nota come la “Bela Rosin”, per accogliere le

spoglie mortali della moglie del primo Re d’Italia, poiché i legittimi eredi alla Corona non

concedettero l’autorizzazione alla sepoltura del corpo nel Pantheon accanto al marito. I due si

erano conosciuti nel 1847, lui ventisettenne, lei quattordicenne; fu un “colpo di fulmine” che

durò per tutta la vita del Re. Lui nobile e re, lei popolana; si racconta che alla morte di Vittorio

Emanuele suo figlio Umberto trovò tra le cose del padre un bastone da passeggio spezzato in

due, bastone che il re aveva rotto sulla schiena di un abate che aveva osato criticare

pesantemente la sua amante. Rosa era la figlia di un umile Porta aquila dell’esercito

napoleonico che dopo la caduta dell’imperatore era stato promosso ad ufficiale della Guardia

Reale del Re Carlo Alberto ed inviato a Racconigi come comandante del presidio del Castello,

dimora prediletta dall’austero re. Esistono vari racconti sul primo incontro dei due amanti; una

versione vuole che Vittorio vide per la prima volta la giovine intenta a raccogliere dei fiori

durante una battuta di caccia presso Moncalvo. La vide e si innamorò immediatamente; ritornò

più volte in quel luogo fino ad entrare in confidenza con la famiglia ed a frequentarne la casa.

La seconda, invece, sostiene che il magico incontro avvenne nei pressi del castello di

Racconigi, davanti ad una modesta casetta; la giovine era ferma sulla porta intenta a salutare il

padre che stava salendo sulla diligenza. Il principe, colpito dalla bellezza della ragazza tornò

varie volte vestito da cacciatore per raccontarle storie di caccia e di cacciatori. Poi un giorno

la fece prelevare da una carrozza e la portò via con sé. Si racconta che il padre, pensando ad

un rapimento intendesse sporgere denuncia alle Autorità; il principe, avvisato, inviò dei soldi

al padre della ragazza, ma questi li rifiutò dicendo “Ha voluto mia figlia, adesso se la tenga!”.

La relazione continuò anche quando Vittorio Emanuele divenne re, nonostante le feroci

critiche e le aspre resistenze ed opposizioni della Corte; infatti il re dallo “strano

comportamento” tirò dritto per la sua strada opponendosi anche al suo potente Ministro, il

Conte Camillo Benso di Cavour, alle sue trame matrimoniali e sventando i suoi trabocchetti che

a più riprese escogitò per interrompere quella “scandalosa” relazione, dove lo scandalo non

dipendeva dalla differenza di età, ma dal fatto che un re, un nobile, avesse una relazione

ufficiale con una popolana, odiata dalla Corte a causa delle sue modeste origini, ma amata dal

popolo! Vittorio Emanuele era considerato dai contemporanei “un re strano” poiché poco

amante dell’etichetta di Corte, che preferiva alle feste ed ai balli lunghe passeggiate nei boschi

con la sua amata, un padre amorevole con tutti i suoi figli, sia quelli avuti dalla Regina che

quelli avuti da Rosa e dalle sue innumerevoli amanti, un reale che con la sua amata si

spogliava di stemmi, titoli, decorazioni e medaglie per indossare le pantofole e diventare un

comune marito. Con lei mangiava piatti semplici come la bagna caoda, i tajarin ai tartufi, gli

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agnolotti, il coniglio alla piemontese o le famose “uova alla Bela Rosin”, uova fatte cuocere per

circa dieci minuti dopo l’ebollizione, raffreddate sotto l’acqua corrente e pelate, tagliate a metà

per il lato lungo e private del tuorlo che veniva poi riempito con la maionese mescolata ai

tuorli d’uovo precedentemente tolti e sminuzzati, condita con un pizzico di sale ed un po’ di

succo di limone.

Diventato Re d’Italia, Vittorio Emanuele si fece accompagnare prima a Firenze e poi a Roma da

Rosa che sposò nel 1877, rendendola moglie di un Re, ma non regina. Alla morte del suo amato

si ritirò a Pisa dove concluse i suoi giorni qualche anno dopo ricevendo come ultimo affronto

dalla Corte, che non l’aveva mai accettata, il divieto di condividere l’ultima sepoltura con il suo

amato Re.

Oltrepassato il mausoleo, protetto dal suo muretto di cinta, la 500 si fermò un po’ prima

dell’ennesimo dosso artificiale per consentire ad una coppia di ciclisti di attraversare il lungo

rettilineo, percorso da irrequiete e veloci autovetture, per raggiungere il Parco Colonnetti, un

polmone verde di quasi 40 ettari dedicato ad un ingegnere e matematico del Politecnico di

Torino. Questo parco fu oggetto di un’animata discussione tra Thomas e Lorenzo, il botanico;

il primo ne ricordava l’importanza nella storia dell’Aviazione Italiana, poiché i primi aerei ed i

primi piloti italiani sbatterono le loro giovani ed inesperte ali per la prima volta su quei prati

incontaminati, mentre il secondo si soffermava sulla flora e sulla fauna che avevano trovato

rifugio in una specie di riserva naturale che le case e la cementificazione avevano rubato loro.

Il “singolar tenzone” si concluse ancora una volta con la mediazione di Bianca che si inserì

nella battaglia con una domanda che faceva trapelare il suo stupore per un uso del parco che

in ben pochi ricordano. Infatti, i prati di questa zona periferica della città nel 1911 ospitarono

quello che può essere considerato a pieno titolo il primo aeroporto di Torino poiché da queste

primitive strutture partirono regolarmente i voli che collegavano Torino con Milano, Roma e

Venezia. Inoltre ospitò la scuola di volo Chiribiri, intitolata al veneziano Antonio Chiribiri

geniale progettista di aerei ed automobili, presso la quale si diplomò Francesco Baracca,

famoso asso della Grande Guerra e noto ai più per aver dipinto sulla carlinga del suo aereo, il

famoso biplano SPAD S.VIII, un cavallo rampante, quello stesso cavallo che venne consegnato

dalla madre del pilota, la contessa Paolina Biancoli, ad Enzo Ferrari, fondatore prima della

celebre scuderia da corsa che gareggiava con vetture Alfa Romeo e poi della più nota casa

automobilistica di vetture sportive, con le parole: “Ferrari, metta sulle sue macchine il cavallino

rampante del mio figliolo. Le porterà fortuna!”. Lo stesso cavallino che oggi campeggia

impetuoso sul muso delle Ferrari, circondato dallo sfondo giallo simbolo della città di Modena.

Baracca, abilissimo pilota di caccia, uno degli ultimi cavalieri del cielo che vedeva nel duello

aereo un torneo cavalleresco in cui due eroi si affrontavano in “singolar tenzone” per

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dimostrare il proprio valore e la propria abilità; sono note e ricordate, infatti, le sue gesta dopo

il duello, quando, dopo aver seguito il velivolo abbattuto fino al suo atterraggio, atterrava lui

stesso in prossimità del vinto per accertarsi delle sue condizioni e per congratularsi per il

combattimento, come fanno oggi i tennisti dopo una partita, poiché era solito dire che “è

all’apparecchio che io miro, non all’uomo!”.

La 500 si ricordava ancora di quella domenica pomeriggio in cui Thomas e di un suo amico,

intenti a commentare un gran premio di Formula Uno, si erano messi a discutere sull’origine

del simbolo del famoso asso. Thomas sosteneva la tesi che il cavallo rampante era stato

mutuato direttamente dallo stemma del suo reggimento di provenienza, il II Reggimento

“Piemonte Reale Cavalleria”, in cui, però, al colore argento del cavallo sostituì il rosso che, a

seguito dell’abbattimento del suo asso, i compagni sostituirono con un triste nero in ricordo

dell’amico scomparso. Invece, il suo amico, Alpino di professione, membro cioè di quello

storico Corpo militare costituito nel lontano 1872 per difendere i confini montani e che dal 1910

indossa il cappello con la lunga piuma nera (presa ad un corvo, ad un pavone o ad un

tacchino), diventata simbolo dell’intero Corpo, sosteneva la tesi che voleva che il cavallo

arrivasse dalla lontana città di Stoccarda, città di origine del quinto pilota abbattuto in duello

da Baracca, abbattimento che, come stabilito dalle regole allora in vigore, fece diventare il

nostro aviatore un “asso”. Nonostante la lunga diatriba che ricordava i duelli dotti dei filosofi

medioevali, alla fine ognuno dei due contendenti rimase fermo sulla propria teoria.

E’ difficile immaginare oggi che questo parco collocato tra un fiume ed una miriade di palazzi

una volta era un aeroporto! In realtà lo diventò suo malgrado; fu usato come aerodromo

improvvisato per le giornate aviatorie che si svolsero nel novembre del 1910, mentre l’anno

successivo, per celebrare i 50 anni dell’unità d’Italia, fu oggetto di importanti lavori necessari

per ospitare il primo campo volo della città su di una superficie di circa 30 ettari. Fino agli

Anno Trenta, però, fu usato solo come scuola di volo e come aeroporto militare, ma con

l’avvento dei primi voli commerciali, il campo fu completato con la costruzione di

un’aerostazione per passeggeri e merci. Fu scelto come aeroporto della città poiché, come

riportato in una relazione del Comune di Torino, “gli autoveicoli trovano attraverso la Via

Sacchi e Corso Stupinigi strade ampie ed a traffico veloce, una più corta e più celere arteria di

comunicazione con il campo”; con il traffico odierno, sorrideva la 500, avrebbero sicuramente

scelto un’altra collocazione! I primi voli ufficiali presero l’avvio il 10 settembre 1936 con due

voli che collegavano Torino con Milano e con Roma utilizzando velivoli FIAT APR2 e G.18,

bimotore ad ala bassa completamente metallico progettato dal famoso Gabrieli appositamente

per la Avio Linee Italiane di proprietà del Gruppo FIAT e costruito in soli nove esemplari, un

velivolo lodato addirittura dalla stampa specializzata inglese che nel 1935 scriveva che “Ultra

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modern in conception, the new Fiat G.18 monoplane is an excellent example of the highly

creditabile commercial machine being constructed in Italy to-day” (All’avanguardia come

concezione, il nuovo Fiat G.18 monoplano è un eccellente esempio di velivolo per l’aviazione

commerciale realizzato in Italia), che consentivano ai passeggeri di raggiungere Roma in meno

di due ore e Milano in meno di un’ora!

Dopo l’ultima guerra e le pesanti distruzioni fu abbandonato a favore della pista di Corso

Marche precedentemente utilizzata dalla FIAT per collaudare i suoi aerei e dall’Abarth per

testare le sue vetture sportive e da record. Questa pista fu a sua volta abbandonata in favore di

Caselle che dal 1948 divenne ufficialmente l’aeroporto di Torino. Come premio per il lavoro

svolto nel passato, l’intera area è stata restituita alla città e ai suoi primitivi abitanti che

attualmente lo utilizzano ancora come campo volo per le giovani e numerose schiere di

aviatori piumati che qui iniziano le loro prime impacciate esperienze di volo!

Ma la nostra 500, ben piantata al suolo, procedeva spedita alla volta della collina, quando

all’ultimo incrocio, dove svoltando sulla destra avrebbe potuto rapidamente raggiungere il suo

adorato garage, fu obbligata dall’autorevole mano di un vigile a proseguire dritto.

Incuriosita ed anche infastidita da quella improvvisa deviazione, nell’attraversare l’incrocio

“gettò un faretto” verso il corso e notò un grande pullman arancione, di quelli snodati, fermo in

mezzo al corso con il cofano motore aperto ed una grande quantità di acqua fumante

precipitare a terra quasi fosse una cascata. Intorno al malato erano raccolti meccanici in

divisa blu che parlottavano tra di loro come tanti medici intenti a visitare un malato, mentre un

minaccioso Iveco zavorrato, con la sua inconfondibile sagoma ed il suo rassicurante colore

bianco si stava posizionando per rimorchiare lo sfortunato verso il deposito più vicino.

La 500 rabbrividì un poco al pensiero che il giorno prima aveva subito lo stesso destino, ma

adesso il peggio era passato, poteva guardare serenamente al futuro, che però, come Ulisse, si

inventava mille impedimenti per non farla tornare alla sua adorata “Itaca” sulla meravigliosa

collina di Torino.

Bianca, visto che un viaggio di circa mezz’ora si stava tramutando in una traversata oceanica,

sorpassando alcune vetture svoltò svelta in direzione della Stazione Lingotto per poi seguire

una scorciatoia che tante volte aveva utilizzato in caso di traffico per arrivare puntuale agli

appuntamenti. Costeggiò rapida la stazione, dove alcuni Minuetto nella loro filante ed elegante

carrozzeria disegnata da Giugiaro e verniciata, con quasi due tonnellate di vernice ad acqua,

di un rassicurante colore bianco-blu ed un ALe 644, fiero della sua livrea arancione che però

ne tradiva l’età, sostavano pazientemente sui binari tronchi, mentre una veloce E464,

“utilitaria” della rete ferroviaria italiana, trainava allegramente una decina di vagoni alla volta

della Liguria.

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Raggiunta l’ennesima rotonda la 500 si avviò veloce alla volta del centro città sfruttando un

lungo rettilineo che costeggiava il trincerone della ferrovia. Superato l’ultimo palazzo, la 500 si

esibì in un duello “corpo a corpo” con un’esuberante Minuetto che come una gazzella stava

correndo alla volta della Stazione di Porta Nuova; la 500 ne ammirava la filante linea che lo

rendeva unico e subito riconoscile anche da lontano. Ma Bianca richiamò all’ordine la 500 con

un leggero colpetto di freni … anche se la strada era dritta e deserta era necessario rispettare i

limiti di velocità! Una multa l’aveva appena pagata, non aveva intenzione di prenderne un’altra!

Sorpassati i binari in cui erano mestamente parcheggiate stanche carrozze ed un impaziente

Frecciarossa, che non faceva nulla per nascondere la sua voglia di sgranchirsi i carrelli sulle

lunghe distanze che lo separavano da Roma, la 500 passò sotto la lunga passerella olimpica

sorretta dallo svettante e massiccio Arco Olimpico, simbolo delle Olimpiadi Invernali del 2006

che con le sue 460 tonnellate di peso e dall’alto dei suoi 69 metri dominava il panorama della

città osservando critico lo scorrere del tempo e i movimenti dei sempre indaffarati e scontrosi

Torinesi! La 500 era affascinata da questo nuovo simbolo di Torino che lei riusciva a vedere

dal suo giardino; la Mole rappresentava la storia e la maturità della città, mentre il rosso arco

incarnava le aspettative e la volontà di modernità della cittadinanza. Era affascinante

osservare dall’alto Torino; con lo sguardo si poteva racchiudere la storia della millenaria città;

ogni monumento, ogni palazzo rappresentava un momento chiave della sua vita. Palazzo

Madama ricordava la sua nascita, la cupola della Cappella della Sindone la maturità, il

Lingotto la sua svolta industriale e Mirafiori il suo benessere. L’Arco Olimpico e l’Oval, invece,

rappresentavano la volontà della città di aprirsi al mondo, ,mentre la nuova centrale elettrica

sanciva la volontà di conciliare il progresso con il rispetto dell’ambiente. Gli aerei che si

dirigevano verso l’aeroporto di Caselle, invece, erano il simbolo della nostalgia che i Torinesi

covano quando sono lontani dalla loro preziosa “bomboniera barocca”, nostalgia che

inevitabilmente li riporta sempre, come un guinzaglio fatato, alla loro città.

Dall’alto, però, questo imponente arco le ricordava la grande ruota di una bicicletta; il rosso

arco rappresentava il cerchione, i 32 lunghi cavi d’acciaio i raggi cromati, mentre la lunga

passerella ne rappresentava il perno.

Giunta al fondo del lungo rettilineo, interrotto provvidenzialmente da due severe rotonde

create con lo scopo di rallentare “le corse di decollo” delle automobili di passaggio, la 500 si

apprestava a percorrere il cavalcavia che finalmente l’avvicinava al Po che scorreva placido

lungo le sue rive lieto di godersi il panorama racchiuso tra la verde collina alla sua destra ed i

filari di alberi profumati alla sua sinistra e da cui ogni tanto faceva capolino la guglia della

Mole.

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A quell’ora il traffico era scarso e quindi la 500 riuscì a gustarsi il colpo d’occhio creato dalle

decine di glicini azzurro-violetti che si inerpicavano tortuosi attorno ai loro supporti,

vegliando come fieri soldati il passaggio dei veicoli sul ponte; dai finestrini aperti, entrava

l’intenso profumo sprigionato dalle piante che ben si sposavano con le note che uscivano dagli

altoparlanti della 500. Tra un glicine e l’altro, la 500 poteva scorgere le sagome di alcuni

Minuetto in sosta al loro deposito e più avanti il Deposito Nizza, il più piccolo deposito di

mezzi pubblici di Torino, dove pazienti tram e autobus attendevano l’ordine per entrare in

servizio.

Il glicine, pianta tanto cara ai giardini di quasi tutti i condomini e ville di Torino, fiore arrivato

in Europa da pochissimi secoli, era il prediletto del giardiniere che curava il giardino della

villa dove la 500 bramava di arrivare al più presto; si era arrampicato sia sul muretto che

racchiudeva il giardino che sul muro che proteggeva il garage dove si riparava la 500 e da

ultimo stava cercando di invadere l’unico muro privo di finestre della rimessa dve il giardiniere

custodiva gli attrezzi. Il glicine fu la pianta da giardino più desiderata dagli Europei. Si

racconta infatti che nel 1816 il capitano inglese Welbank, invitato a cena da un ricco

commerciante cinese della città di Guangzhou, fosse rimasto così impressionato dal pergolato,

realizzato con dei fiori che i cinesi chiamavano Zi Teng cioè “Vite blu”, sotto cui desinava, che

alla fine della cena il commerciante lo omaggiò con alcune piantine di questa specie che

l’Inglese piantò nel suo giardino in Inghilterra. La pianta riscosse così tanto successo, che in

meno di vent’anni si diffuse in tutta Europa diventando l’ospite principale di moltissimi giardini

europei.

Oltrepassata la grande rotonda incompiuta di Piazza Carducci e lasciate alle spalle le

“Molinette”, la 500 svoltò finalmente in Corso Massimo D’Azeglio, famoso pittore, scrittore e

politico piemontese, celebre per aver detto dopo l’unificazione italiana “Abbiamo fatto l'Italia

ora dobbiamo fare gli Italiani”, ma soprannominato dalle Dame della Corte Sabauda

“sporcaciun" per le sue avventure galanti ed il suo modo gaudente di godersi la vita.

Alla sua destra scorrevano velocemente le strutture di Torino Esposizioni, edificio realizzato

per il Palazzo della Moda nel 1949 su progetto di Ettore Sottsass con la collaborazione di Pier

Luigi Nervi, utilizzato poi come sede per il famoso Salone dell’Automobile di Torino, che aveva

visto il debutto di tantissime vetture famose come la FIAT 500 e molte altre, subito seguito dal

verde del Parco del Valentino, “ël Valentin” come lo chiamano affettuosamente i Torinesi, il

parco per eccellenza di Torino, le cui origini affondano nel lontano Medio Evo quando

quest’area boschiva proteggeva il primitivo Castello del Valentino. Sviluppato in senso

“artistico” ad inizio Seicento dal Castellamonte, è solo con Napoleone che il parco diventa

proprietà dei Torinesi che lo eleggono a luogo di svago in cui è possibile perdersi tra viali,

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boschetti, vallette artificiali che guidano l’ospite verso la Fontana dei Dodici Mesi, una grande

vasca in stile Rococò circondata dalle statue che rappresentano simbolicamente i Dodici mesi

dell’anno e le quattro stagioni eche secondo le leggende locali, che chiamano a testimone

addirittura Eusebio da Cesarea, sarebbe stata costruita nel punto in cui Fetonte, figlio del dio

sole Elio e della ninfa Climene, cadde sulla terra. Il mito racconta che Fetonte, per far vedere

ad Epafo che Elio era veramente suo padre, lo supplicò di fargli guidare il suo carro, il Carro

del Sole, ma a causa della sua inesperienza perse il controllo dei cavalli che quindi si

imbizzarrirono e corsero all’impazzata per la volta celeste. Salirono in alto, ma bruciarono un

tratto della volta celeste, da cui si originò la Via Lattea, poi scesero velocemente sulla terra

dove devastarono la Libia che si trasformò in un grande deserto, o “scatolone di sabbia” come

lo definiva Giolitti. Gli abitanti della terra, esasperati, invocarono l’intervento di Zeus che fermò

con un fulmine la corsa impazzita del carro. Ma Fetonte venne sbalzato dal carro e precipitò

sulla terra, presso le foci del fiume Eridano, odierno Po; le sue sorelle, le Eliadi, sconvolte

dalla perdita dell’amato fratello, piansero abbondanti lacrime e vennero tramutate in bianchi

pioppi, mentre le loro lacrime si trasformarono in ambra. Ancora oggi, a distanza di secoli, i

miti dei nostri antenati ben si adattano alla frenesia della vita moderna dove tutto è

competizione, tutto è ricerca del “tutto e subito” … Ben pochi, considerati dai più come esseri

anormali, ingessati anacronismi moderni, sanno godersi il tempo, la bellezza delle cose che la

Natura ci offre su di un piatto d’argento, sanno riconoscere quali sono le cose veramente

importanti nella vita, quelle per cui è giusto vivere e lottare!

Improvvisamente dal verde del parco fece capolino una bianca costruzione a ferro di cavallo

ornata con eleganti e ripidi tetti blu; una ferrea cancellata separava la grande villa, oggi

“fabbrica” di speranzosi Architetti, da un verde prato decorato con cespugli di fiori

multicolori.

La nostra 500 era sempre rimasta affascinata dallo spettacolo di questo castello immerso nel

verde e circondato dalla città che le era cresciuta intorno. Le moderne costruzioni ben si

amalgamavano con il suo stile classico che ricorda tempi passati e luoghi immersi nella

natura. L’attuale castello era sorto sui resti del precedente edificio, citato già in un documento

del 1275 con il nome di “Valentinium”; l’origine del suo nome è avvolto nella leggenda. Alcuni

sostengono che derivi dal nome della moglie del primo proprietario, Renato Birago, che si

chiamava Valentina Balbiano di Chieri, mentre altri lo fanno risalire ad un’antica festa galante

che i Torinesi praticavano il 14 di febbraio in cui le dame chiamavano “valentino” il loro

cavaliere. Un’altra, di origine religiosa, vuole che il castello si chiamasse “del Valentino” in

onore della reliquia di San Valentino che custodiva al suo interno, reliquia oggi conservata

nella chiesa di San Vito; già proprio quel San Valentino, il Santo patrono degli innamorati a cui

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è stato in seguito dedicato il giorno del 14 febbraio. La tradizione vuole che San Valentino

avesse la facoltà di far riappacificare gli innamorati. Si racconta che un giorno il vescovo

durante un passeggiata notò una giovane coppia intenta a litigare; andò loro in contro con una

rosa che poi porse loro dicendo di tenerla stretta tra le loro mani. I due giovani se ne

andarono rappacificati. Un’altra versione sostituisce alla rosa uno stormo di passerotti che

chiamati dal vescovo volteggiarono intorno ai due giovani che quindi fecero pace.

Comunque sia, il castello venne acquistato ad inizio del Cinquecento dal Duca Emanuele

Filiberto di Savoia, meglio conosciuto come “Bioca ‘d fer”, cioè “Testa di ferro” (sia per la sua

testardaggine a non piegarsi al destino o alla ragione del più forte, sia perché in battaglia non

si cingeva il capo con l’elmo), su suggerimento del Palladio, il celebre architetto delle

famosissime ville venete, in pratica le “seconde case” della nobiltà di Venezia, celebrato

addirittura da Goethe che di lui scrisse: “V’è alcunché di divino nei suoi progetti, […] che dalla

verità e dalla finzione trae una terza realtà, affascinante nella sua fittizia esistenza”, ma morto

povero e dimenticato da tutti!

Ma fu con Maria Cristina di Francia, figlia della regina Caterina de’ Medici, conosciuta dai

Torinesi come “Madama Reale”, donna indipendente, autoritaria, che il castello subì una prima

profonda trasformazione rendendo quindi la residenza una dimora consacrata al piacere a cui

lei era particolarmente devota, stando alle cronache del tempo! In realtà, la bistrattata Madama

voleva ricreare a Torino, sua città d’adozione, le architetture e le atmosfere dei castelli della

Loira che le ricordavano la sua amata patria, a cui fu sempre legata pur non dimenticando mai

i suoi doveri di Reggente dei territori dei Savoia, terra che abbandonò all’età di tredici anni per

andare in sposa al futuro duca Vittorio Amedeo I che per lei nutrì sempre una profonda

passione.

Giunta al fondo di Corso Massimo, come affettuosamente lo chiamano i Torinesi, Bianca svoltò

sulla destra per imboccare Corso Vittorio, lungo viale alberato dedicato al primo re d’Italia; la

500 saltellò allegramente sui binari del tram, ma in fretta si allineò alla corsia di destra

procedendo spedita verso il fiume. Passò velocemente davanti al Monumento all’Artigliere, con

la sua forma che richiama un arco di trionfo, che incornicia la statua di Santa Barbara,

patrona degli Artiglieri, ma anche dei Vigili del Fuoco, dei Minatori, dei Geologi e di tutti quelli

che hanno a che fare con gli esplosivi (infatti il luogo in cui si conservano gli esplosivi si

chiama “santabarbara”), e corse rapida sul lungo ponte Umberto I, ponte che ad inizio

Novecento sostituì il vecchio ponte Maria Teresa realizzato in ferro con un’unica campata,

ponte criticato aspramente dai Torinesi alla sua inaugurazione poiché troppo semplice e

spoglio e dai canottieri perchè realizzato con tre campate che restringevano il loro percorso

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lungo il fiume, ma oggi orgoglioso delle sue quattro statue (raffiguranti la Pietà, il Valore,

l’Arte e l’Industria) che da cent’anni lo rendono uno dei ponti monumentali della città.

Ma la 500 voleva correre verso la sua meta e quindi rapidamente iniziò la salita lungo Corso

Fiume, girò svelta attorno al Monumento dedicato ai Caduti in Crimea, ma poi fu costretta ad

accodarsi ad una lenta Panda che stava faticosamente affrontando le pendici del Monte dei

Cappuccini. Avrebbe voluto sorpassarla subito, far valere la sua freschezza e grinta, ma poi si

ricordò della vecchia Panda rossa che le aveva tenuto compagnia la sera prima e che le aveva

raccontato la sua storia; quindi rallentò e diligentemente si accodò alla vecchietta e quasi

come una scorta d’onore l’accompagnò fino al successivo incrocio. Svoltò nuovamente a

destra e proseguì in direzione dei Cappuccini, nome legato alla presenza di una chiesetta

affidata ai Frati Cappuccini, così chiamati non perché amanti del “cappuccino”, ma per la loro

divisa, una tunica con un cappuccio mutuata da quella dei Monaci Camaldolesi che avevano

accolto i primi di loro dopo che si erano allontanati dai conventi dei Frati Francescani poiché

ritenevano che il messaggio innovatore di San Francesco non fosse più seguito. Anche se,

però, la leggenda, che Thomas aveva raccontato a Bianca ed a Lorenzo, il botanico, durante la

lunga discussione sul caffè e sulla sua origine, vuole che il cappuccino sia stato inventato da

un frate cappuccino, un certo Marco d’Aviano, che partecipò alla battaglia di Vienna nel 1683,

battaglia che segnò l’arresto della marcia dei Turchi in Europa e che, stando alla storiografia

ufficiale, preservò l’identità cristiana dell’intera Europa! Si racconta che il frate fosse entrato

nella bottega di Georg Michaelowitz per farsi preparare un caffè con il sacco contenente i

preziosi chicchi ricevuto come premio per aver partecipato alla battaglia; siccome lo trovò

molto amaro, decise di allungarlo con del latte, dando così origine alla famosa bevanda! Ma

Thomas, da ingegnere razionale qual’è, concludeva il racconto sostenendo che forse il nome

della bevanda era legato ai Frati Cappuccini poiché il cappuccino ricorda come colore il saio

dei frati, mentre il contrasto tra la schiuma bianca che si raccoglie al centro della tazza e lo

scuro caffè che rimane ai bordi richiama alla mente la tonsura dei frati!

Il tranquillo rifugio della 500 era situato nelle vicinanze della chiesetta che domina il Monte dei

Cappuccini dall’alto dei suoi duecento metri, costruzione realizzata in sostituzione di una

vecchia fortezza, conosciuta come “Motta di Torino”, che fino alla fine del Quattrocento

vegliava sul guado che consentiva di attraversare il Po e di raggiungere la città, e che oggi, a

distanza di secoli, come la precedente “Motta” vegliava i viandanti, protegge i sospiri degli

innamorati che la sera scrutano il tramonto abbracciati.

Fu fatta costruire da Carlo Emanuele I che la affidò ai Cappuccini; una chiesa come tante a

Torino, ma che conquistò il cuore dei Torinesi durante l’assedio della città durante la “Guerra

dei Cognati” che contrapponeva la Madama Reale, Maria Cristina affiancata e sostenuta dal

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Conte Filippo d’Agliè, ai cognati Maurizio e Tommaso per il controllo del Ducato. Si racconta

che durante l’assedio di Torino i soldati Francesi agli ordini del Conte d’Harcourt presero il

colle tenuto dai Principisti, cioè i partigiani fedeli ai due principi e cognati della Madama

Reale, e si introdussero nella chiesa ove si era rifugiata la popolazione; un soldato con la

baionetta cercò di forzare il tabernacolo che conteneva una pisside in argento con le ostie

consacrate. A seguito del suo gesto una fiammata lo avvolse costringendo il profanatore e tutti

i suoi commilitoni a scappare terrorizzati! La gente presente gridò al miracolo e da quel

momento l’umile chiesetta entrò nel cuore e nella devozione dei Torinesi.

Ma come raccontava sempre Bianca nei suoi incontri con i giovani studenti, che vedevano

nell’Arte solo noia e vecchiume, una materia stantia che rubava tempo ed energie a materie più

“moderne”, il Monte dei Cappuccini svela agli innamorati che vivono il loro amore sullo sfondo

di in bel roseo tramonto, un fantasma poeta che vaga alla ricerca della sua amata che viene

generalmente identificato con il Conte Filippo di Agliè, sepolto nel giardino accanto alla

chiesa, che fu in vita un colto poeta, un musicista, uno sceneggiatore e coreografo di corte che

dedicò la sua esistenza, la sua arte e la sua passione alla sua amata Maria Cristina che servì e

difese anche nei momenti più bui della storia del Ducato.

Ma ormai il viaggio della 500 stava terminando. Giunta all’ultimo semaforo che la separava dal

sudato traguardo, cercò con i suoi faretti il famigliare cancello in ferro battuto che avrebbe

riaperto alla 500 le porte del suo ameno giardino. Con sollievo e con emozione varcò la soglia

e si ritrovò nel meraviglioso palco da cui poteva scorgere la città in basso e le fiere montagne

sullo sfondo. Finalmente Bianca la parcheggiò sotto i grandi alberi del giardino proprio

accanto ad un cespuglio di tulipani dai vari colori.

La 500 poteva godersi il meritato riposo, ma non poteva immaginare la sorpresa che da lì a

poco avrebbe definitivamente cambiato la sua vita e quella di Bianca!

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Una morbida sorpresa

La 500 si stava godendo l’aria e l’atmosfera del suo amato giardino quando all’improvviso

comparve Bianca, vestita con una tuta rosa ed i biondi capelli legati in una lunga coda che

oscillava ad ogni suo passo. Ai piedi aveva due stivali in gomma nera ed in mano aveva un

secchio di plastica blu.

La 500 capì subito il suo destino … la minaccia di farle una doccia, quella minaccia velatamente

sussurrata nel piazzale dove tristemente stava sonnecchiando al mattino, si stava

concretizzando!

Bianca si avviò quindi alla fontanella in ghisa ricavata in una nicchia al fondo del giardino e

coronata con un edera rampicante ed inserì il lungo tubo in gomma nelle fauci leonine del

rubinetto gocciolante. Aperto il rubinetto, dal tubo iniziò a fluire l’acqua cristallina, dapprima

singhiozzando e poi con un getto potente e regolare che Bianca indirizzò subito sulle

polverose lamiere della 500. L’acqua era fresca, ma piacevole e la 500 si sottopose al bagnetto

docile docile. Era divertente sentir scorrere la spugna sulla liscia superficie ed era buffo

vedere la schiuma che si formava al suo passaggio. Terminata l’insaponatura ecco il

risciacquo finale dove tenacemente la bianca e vaporosa schiuma si opponeva alla sua

cacciata! A lavoro finito la 500, bagnata e gocciolante, ritornava fiera della sua elegante,

lucida e sinuosa carrozzeria. Dopo l’operazione di asciugatura con l’immancabile panno di

daino, la 500 sembrava appena uscita dalla fabbrica, mentre Bianca sembrava appena uscita

dal mare tanto bagnata era la tuta! Elegante come era arrivata, rientrò in casa.

Dopo un po’ dalla finestra aperta della cucina, la 500 sentì il rumore delle pentole che

venivano posate sul fornello; Bianca si era quindi dedicata alla cucina. La 500 non si era

accorta del tempo trascorso da quando era stata liberata dalla sua detenzione a quando era

ritornata a casa! Ma le campane della chiesa dei Cappuccini con il loro rintocchi ricordavano

alla 500 ed ai fortunati abitanti della verde collina di Torino che era già mezzogiorno.

La 500 era un po’ delusa, sperava che Bianca avesse delle commissioni o degli appuntamenti

per poter galoppare per le vie della città, ma il tempo passava e lei rimaneva immobile nel suo

giardino. Si sentiva come una principessa rinchiusa in una torre in attesa che il principe

azzurro la salvasse e portasse via!

Verso metà pomeriggio finalmente Bianca ritornò in cortile; vestita con degli eleganti pantaloni

neri su cui svolazzava una bianca camicetta a maniche corte, teneva nella mano sinistra un

voluminoso libro con una copertina blu su cui campeggiava una scritta dorata, mentre nella

mano destra stringeva una fumante tazza mug su cui campeggiava il simbolo della sua

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squadra del cuore, il Torino. La 500 conosceva bene la situazione; Bianca avrebbe passato

tutto il pomeriggio intenta nel suo lavoro e consolata dalla tazza di tè che andava sempre a

comprare in un’erboristeria in centro città che a Bianca piaceva perché era arredata con

mobili in legno di fine Ottocento zeppi di recipienti e contenitori in bianca ceramica che

racchiudevano profumi e sapori di terre lontane! Lei però acquistava sempre il tè che beveva

suo nonno, che scoprì durante uno dei suoi innumerevoli viaggi nella lontana India. Il nonno

era innamorato di quello che gli Inglesi chiamano “lo champagne dei tè”, cioè il tè della varietà

Darjeering, prodotto nell’omonima regione indiana e considerato dagli esperti il più pregiato

tra i tè neri per il suo colore chiaro e per il suo sapore floreale che richiama al palato il gusto

dell’uva moscata. Questa varietà, originaria della Cina, venne introdotta nella zona collinosa

del Darjeering a metà Ottocento dal dottor Campbell, un medico dell’esercito inglese, ed in

breve tempo divenne talmente pregiata che per superare la sua limitata produzione, alcuni

commercianti di tè decisero di “falsificarlo” creando le prime truffe alimentari della storia

recente!

La cultura del tè nasce in Cina per poi diffondersi in Giappone da dove, per opera della

Compagnia delle Indie Orientali, arriva nelle Corti Europee del Cinquecento e poi nei caffè

diventando quindi la bevanda più bevuta al mondo dopo l’acqua; era talmente ricercato

nell’Inghilterra cinquecentesca che il suo commercio fu regolato dalla stessa regina, la famosa

Elisabetta I. Ma il tè fu anche un protagonista involontario della storia degli Stati Uniti

d’America; infatti ebbe l’onore di partecipare suo malgrado al famoso Boston Tea Party dove i

coloni americani che si erano riuniti per protestare contro l’aumento dei dazi sull’importazione

imposti dall’Inghilterra, loro madrepatria, gettarono in mare in segno di sfida le casse piene di

tè dando così inizio all’avventura della Rivoluzione Americana che porterà loro

l’indipendenza.

Bianca, però, quando sorseggiava da sola il suo tè diventava un po’ malinconica perché le

ritornavano alla memoria le storie ed i racconti che suo nonno le raccontava durante le loro

interminabili merende. Un giorno le aveva raccontato la leggenda dell’origine dell’usanza tutta

inglese del tè delle cinque. La storia racconta che questa tipica usanza inglese, che come recita

un proverbio “il the delle cinque, insieme alla Regina ed al Big Ben, è una delle tradizioni

storiche dell’Inghilterra”, sia stata introdotta da una cameriera della regina Vittoria, la

duchessa di Bedford Anna Maria Stanhope, che a causa del frettoloso pranzo che era

costretta a consumare per gli innumerevoli impegni giornalieri della regina, verso metà

pomeriggio accusava sempre un “leggero languorino”, come affermava una nota pubblicità di

cioccolatini! La poveretta, per soddisfare il suo appetito chiese alle sue cameriere di rubare

della cucine di palazzo una teiera con del pane o dei biscotti; visto il buon esito

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dell’operazione, fece ripetere “il furto” tutti i giorni per poi invitare le sue amiche a partecipare

al banchetto che in breve si trasformò in una vera e propria cerimonia di metà pomeriggio!

Arrivata al solito tavolino, appoggiò delicatamente la tazza facendo attenzione a non

rovesciare nemmeno una goccia del prezioso nettare e prese posto su una delle sedie in ferro

battuto rivestite con un morbido cuscino rosso che ben si intonava al tavolo in marmo.

Quindi aprì il voluminoso libro che teneva in mano ed iniziò al leggere, tenendo nella mano

destra una matita. Bianca stava leggendo la tesi di un futuro architetto che le aveva chiesto un

parere prima di presentarla al suo relatore e che riguardava una sconosciuta villa di Torino

oggi fagocitata dai palazzi di Corso Francia, vero gioiello sfortunato del Barocco

settecentesco, conosciuta come “La Tesoriera” dal nome della carica pubblica del suo primo

proprietario. Fu infatti edificata dal Consigliere di Stato e Tesoriere Generale dello Stato

Sabaudo, Aymo Ferrero di Cocconato, su progetto di Jacopo Maggi che si ispirò

all’architettura matematica del Guarini, autore fra l’altro della stravagante e misteriosa

Cappella della Sindone. Una villa che attirò le invidie di molti per la sua bellezza tant’è che i

contemporanei affermavano che La Tesoriera “è il più bel palazzo che vi sia lungo lo stradone

di Rivoli”. Ma l’elegante villa non portò fortuna al suo edificatore che morì pochi anni dopo né

ai suoi proprietari che la dovettero vendere per risanare le proprie finanze. Venduta più volte,

fu oggetto di modifiche volute da ogni nuovo proprietario per renderla moderna ed al passo

con la moda dei tempi. Oggi, invece, è la villa è una tranquilla biblioteca pubblica dedicata al

musicologo Andrea Della Corte di cui conserva la biblioteca e l’archivio personale ricco di

libretti d’opera e vari manoscritti.

L’elegante villa è inserita all’interno di un parco di circa sette ettari che crea un’oasi di verde in

mezzo ad un deserto di cemento in cui riposa, oltre ad una bellissima fontana in cui si

materializzano ben sessanta getti di fresca acqua, il più vecchio albero della città, un platano

monumentale alto ben ventidue metri e con ben 297 anni di storia sulle spalle!

Il parco è noto ai Torinesi che lo conoscono come “Giardin dël diav”, il Giardino del Diavolo,

perché le leggende metropolitane sostengono che alla sera appaia un gentile e bonario

cavaliere, avvolto in un nero mantello bordato di rosso, che silenziosamente, per non far

rumore, cavalca per il parco su di un fiero destriero nero come il suo mantello; alcuni

sostengono che si tratti del primo sfortunato proprietario, mentre i più romantici sostengono

che si tratti della sua seconda moglie, la ventitreenne Clara Teresa.

Il tempo passava e Bianca era sempre impegnata nella sua lettura, mentre la 500 guardava a

destra ed a sinistra con i suoi faretti per trovare qualcosa di curioso che potesse distrarla da

quella noia che stava rendendo lungo lo scorrere del tempo.

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Ad un tratto la lucciola posta sopra il muretto che reggeva il cancello in ferro battuto iniziò a

lampeggiare ed in breve dal cancello aperto entrò la Strada di Thomas che, rispetto alla

mattinata appena trascorsa, mostrava sgraziati spruzzi di fango, segno evidente del suo

passaggio in cantiere. La Strada si fermò vicino alla 500; come stonava la sua carrozzeria

infangata rispetto a quella lucida e splendente della nostra 500!

Ma la nostra bella protagonista non se ne curò, poiché dopo pochi istanti dal posto guida

scese un raggiante Thomas che rispetto a quando l’aveva visto per l’ultima volta al mattino

aveva solo gli scarponi infangati, segno che era stato in cantiere per controllare l’andamento

dei lavori. Però qualche cosa doveva essere accaduta perché la 500 non aveva mai visto

Thomas così raggiante ed allegro!

Thomas, sceso dall’auto, invece di dirigersi verso casa si diresse dalla parte opposta ed aprì la

portiera del passeggero; Bianca, immersa nella lettura della tesi, non si era accorta del nuovo

arrivo. La 500 notò Thomas armeggiare con una specie di scatola appoggiata al sedile; poi

estrasse un qualcosa che sembrava dotato di vita propria, ma la 500 non riusciva proprio a

capire che cosa fosse. Estrattolo dall’abitacolo, la 500 riuscì finalmente ad osservare l’oggetto

della sua curiosità: era un cagnolino, piccolo piccolo ed anche un po’ spaventato. Thomas,

sollevandolo, gli sussurrò qualcosa nelle orecchie, poi lo posò delicatamente a terra.

Alla 500 vennero i brividi; Bianca l’aveva appena lavata per cancellare ogni traccia dei

“ricordi” di Bobi che la storia già sembrava ripetersi!

Il cagnolino titubante si guardò intorno; lo spazio racchiuso dalle mura del giardino era

grande e la bestiola si trovava a disagio. Sembrava un naufrago appena approdato su di

un’isola deserta e sperduta. Ma Thomas lo accarezzò sulla piccola testolina per infondergli

fiducia; allora la bestiola si mosse ed avanzò fino al muso della Strada. Adesso la 500 riusciva

a vederlo!

Era un cane di taglia media, con gambette corte e lunghe e soffici orecchie che cadevano

morbidamente dietro la testolina bianca con macchie marroni, dal pelo corto e molto fitto.

La 500 era sicura che fosse un Beagle, cane da sempre ammirato da Bianca per le sue tenere

orecchie! Era un cane dalle origini antiche poiché le prime descrizioni di questa razza si

ritrovano addirittura nei poemi del XIII secolo; inoltre era il cane preferito della Regina

Elisabetta I d’Inghilterra che ne favorì l’allevamento come cane da caccia e da compagnia!

Visto che non sembravano esserci pericoli, il cagnolino acquistò fiducia ed iniziò a

trotterellare scodinzolando anche attorno alla 500 che con sorpresa notò che la bestiola non

aveva intenzione di seguire il rito della demarcazione del territorio. Girovagò anche tra i

tulipani scomparendo tra i gambi, ma la 500 poteva seguirne i movimenti osservando

l’oscillazione dei calici colorati che dondolavano al suo passaggio!

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Stranamente Bianca continuava a non accorgersi dello strano movimento che si stava

svolgendo nel giardino, o almeno così sembrava alla 500.

Ad un certo punto, Thomas spinse il nuovo ospite in direzione di Bianca; la bestiola sembrava

poco convinta, ma un sorriso di Thomas lo convinse ed il piccolo batuffolo tutto pelo,

scodinzolando, si avvicinò al tavolo a cui era seduta Bianca. Con il suo piccolo ed umido

tartufo nero iniziò ad annusare i pantaloni di Bianca che presa alla sprovvista lanciò un urlo

che squarciò la quiete del giardino e fece scappare come un razzo lo spaventato cagnolino che

fermatosi a debita distanza ed avendo visto le buone intenzioni della “vittima” tornò indietro e

si avvicinò nuovamente al tavolo.

- E tu chi sei? E che cosa ci fai qui? – chiese Bianca alla bestiola.

Il cagnolino presa subito confidenza, saltò sulle zampe posteriori ed appoggiò le anteriori

sulle gambe di Bianca. Allora Bianca iniziò ad accarezzarlo sulla morbida testolina e poi

presolo in braccio lo posò delicatamente sulle ginocchia. La bestiola, contenta e rassicurata,

iniziò a scodinzolare con ancor più energia, mentre Bianca gli solleticava le grandi e morbide

orecchiette. Nel frattempo la raggiunse anche Thomas ridendo ancora per la reazione di

Bianca di qualche attimo prima.

Vistolo arrivare, Bianca esclamò:

- Cretino! Potevi anche avvisarmi! A momenti mi prendeva un colpo!

- Pensavo che lo avessi visto! - si giustificò Thomas adesso preoccupato.

Fu Bianca, quindi, che sorrise e poi ribattè:

- Vedi che ho ragione? Pensavi veramente che non mi fossi accorta dello strano

trambusto che regnava nel cortile? E credi che basti così poco per farmi arrabbiare?

Ma dimmi, come si chiama e da dove viene questo bel cagnolino?

- L’ho acquistato questa mattina così d’impulso, senza pensarci! Dopo averti

accompagnato all’autorimessa e dopo aver giocato con quel grosso cane, ho dato

seguito ad un desiderio che non avevo il coraggio di soddisfare, cioè di prendere un

cagnolino che mi facesse compagnia. L’avevo già notato un giorno che ero andato a

pranzo con dei colleghi nelle vicinanze del cantiere e mi aveva subito colpito con quei

suoi occhietti dolci. Quindi stamattina sono tornato al negozio dove l’avevo visto e l’ho

acquistato. Dopo il lavoro sono passato a prenderlo.

- Ok, ma come l’hai chiamato?

- Non lo so, non ho ancora scelto il nome da dargli; che ne pensi se lo scegliamo

insieme?

- Va bene; tu cosa proponi?

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- Pensavo Tartufo, perché prima quando gironzolava tra i tulipani mi ricordava un cane

da tartufo.

- Beh, allora potremmo chiamarlo Fiuto; infatti guarda come muove il suo nasino per

cogliere l’aroma che esce dalla tazza del tè!

- Che ne pensi di Segugio? E’ un po’ la sintesi dei due nomi!

- Allora, ciao Segugio, ben arrivato nel giardino e nella nostra vita!

A questo punto Bianca si alzò dal tavolo e si incamminò verso il garage della 500 che

curiosa la seguì con i suoi faretti fin quando non scomparve al suo interno. Seguirono

rumori di scatole spostate ed aperte, di oggetti rovistati; dopo un po’ uscì con una gialla

pallina da tennis che lanciò subito alla volta di Segugio che si fiondò immediatamente al

suo inseguimento. Ed il noioso pomeriggio della 500 terminò con le innumerevoli corse di

Segugio dietro alla pallina lanciata a turno da Bianca e da Thomas.

Scesa la sera, la 500 era ancora parcheggiata nel giardino.

- Allora ci toccherà passare la nottata fuori all’aperto! – disse la 500 alla Strada

- Sembrerebbe di sì, rispose la Strada, ma almeno la serata è serena e possiamo

ammirare lo spettacolo del cielo stellato!

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Un comico addestramento

La 500 e la Strada avevano passato la nottata sotto un calmo cielo stellato solcato ogni

tanto da qualche aereo di passaggio o in avvicinamento all’aeroporto di Caselle.

Le due vetture non avevano mai avuto modo di scambiare quattro chiacchiere, ma quella

sera la 500, memore dei bei momenti passati in compagnia di tante vetture, decise di

chiacchierare con la nuova arrivata. Le raccontò la sua avventura appena passata e poi

chiese alla nuova amica informazioni sulla sua recente storia.

La Strada le raccontò che era stata costruita in Brasile e che aveva raggiunto l’Italia dopo

un lungo viaggio per mare. Era stata acquistata da Thomas che stava cercando un mezzo

robusto e che potesse caricare le sue pesanti attrezzature, ma poco ingombrante e con

costi di gestione contenuti. La vita della Strada era difficile e noiosa; difficile perché doveva

percorrere strade sterrate, dissestate, ricche di buche e di chiodi che gli operai in cantiere

“seminavano” con disinvoltura e noiosa perché passava intere giornate ad aspettare il suo

ritorno. Le sue uniche distrazioni erano rappresentate dalle alte e possenti gru che

spostavano con apparente semplicità carichi molto pesanti prelevati dai pianali dei grandi

e polverosi camion e portati in alto fino alla loro destinazione. Le raccontò di quella fredda

mattinata invernale, quando assistette emozionata alla realizzazione dell’alto camino della

centrale. Una gialla e potente gru sollevava in alto pesanti cilindri metallici che venivano

collocati uno sull’altro come un grande “Lego” e saldati da coraggiosi operai che legati

con funi metalliche giostravano nel vuoto. Era bastata una sola giornata per realizzare i

sessanta metri del camino sotto gli occhi tesi dei presenti che alla fine sciolsero la tensione

in un grande applauso!

Insieme avevano visto il sorgere del sole che aveva colorato di un pallido rosa il grande

spicchio di orizzonte racchiuso tra le mura del giardino.

Ma la mattinata si sarebbe sicuramente presentata divertente; infatti, il campanile della

chiesa dei Cappuccini non aveva ancora finito di suonare le 8,30 che Thomas usciva di

casa in compagnia di Segugio. In mano teneva un lungo guinzaglio in cuoio di colore verde

che la 500 trovava poco consono al colore della povera bestiola (si vedeva che mancava

una mano femminile che aiutasse Thomas nelle scelte cromatiche!). Thomas indossava una

tuta azzurra e nei piedi aveva un paio di scarpe da ginnastica bianche con due grandi e

vistose strisce grigie. Segugio, appena giunto in cortile, cominciò a correre avanti ed

indietro godendosi in tutta libertà il grande spazio a sua disposizione. Ad un tratto corse

verso il tronco di un grande noce tranquillamente addormentato in un angolo del giardino.

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Preso da una strana frenesia, Segugio cominciò a saltare verso i lontani rami dell’albero.

Thomas lo raggiunse per controllare cosa stesse succedendo; poi scoppiò in una

fragorosa risata. Segugio stava cercando di raggiungere un grigio scoiattolino che aveva

precedentemente attraversato il cortile per poi scappare sull’albero appena resosi conto

della presenza del piccolo cagnolino.

Anche la 500 sorrise sotto i suoi faretti!

Allora Thomas agganciò il guinzaglio al collare di Segugio per abituarlo a quel nuovo

strumento, ma il cagnolino per protesta si sedette sulle zampe posteriori e testardamente

come un mulo si rifiutò di muoversi. Thomas cercò in tutti i modi di farlo alzare, ma senza

successo; poi, improvvisamente, Segugio balzò in piedi e strattonando Thomas come un

grosso pesce preso all’amo, si diresse verso casa da cui stava uscendo Bianca con un

vassoio argenteo tra le mani che inondava lo spazio con lampi di luce solare che veniva

riflessa dalla liscia superficie. Bianca si avvicinò al tavolo in ferro battuto, posò

delicatamente il vassoio e poi si chinò per salutare Segugio che nel frattempo si era

liberato dalla presa di Thomas.

- Vedo che riesci a farti ubbidire dal tuo cucciolo! – disse Bianca sorridendo.

- Lascia stare, non ne vuole sapere del guinzaglio e delle regole! – rispose esasperato

Thomas.

- Vorrei vedere te costretto a seguire un guinzaglio che ti impedisce di correre

liberamente dove vuoi! Dai siediti qui e prenditi una bella tazza di tè, almeno di

addolcisci la giornata!

Bianca porse la tazza di tè a Thomas e gli avvicinò anche un piattino pieno zeppo di

biscotti con una strana forma a freccia.

- Ma tu mangi sempre questi biscotti con la punta? – chiese Thomas.

- Certo, in ricordo di mia nonna che sapeva che mi piacevano e me li comprava sempre! –

rispose Bianca. E poi sono biscotti tipici piemontesi, sono i “Krumiri”!

- Perché dici che sono tipici piemontesi? A me non sembrano tanto piemontesi! – rispose

Thomas.

- Ebbene si, disse Bianca. Devi sapere che la tradizione li fa nascere a Casale Monferrato

alla fine dell’Ottocento per merito di un certo Domenico Rossi. Questi era un pasticciere

che era solito passare le serate in compagnia degli amici al Caffè della Concordia

sorseggiando un bicchiere del famoso liquore Krumiro. Si racconta che una sera, dopo

l’ennesima bisboccia, propose ai suoi amici di concludere la serata mangiando

qualcosa di dolce che avrebbe preparato velocemente nel suo laboratorio artigianale.

Da quel qualcosa di dolce nacquero i primi krumiri che ebbero talmente successo da

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venire immediatamente copiati dagli altri laboratori cittadini dove vennero completati o

con l’aggiunta di vaniglia o con l’inserimento dello stemma della città di Casale. La

cosa, si dice, fece talmente arrabbiare il signor Rossi che questi comperò una pagina

della Gazzetta per rivendicarne la paternità e l’unicità. La disputa venne definitivamente

chiusa nel 1890 grazie all’intervento del Sindaco che conferì a Rossi una patente di

autenticità ed univocità riconoscendone quindi l’invenzione. Nella loro forma

originaria, però, i krumiri erano dritti; la “curvatura” fu introdotta solo nel 1878, anno

della morte del primo Re d’Italia, per richiamare alla mente i suoi famosi “Baffi a

manubrio” che tanto avevano scandalizzato la Regina Vittoria e la Corte Inglese,

almeno così ricorda la tradizione e le confidenze lasciate sui diari dai Cortigiani

dell’epoca.

Ma Segugio assisteva disinteressato alla lezione di storia culinaria; ogni volta che o

Bianca o Thomas allungavano la mano verso il piattino per prendere un biscotto “coi baffi”,

la bestiola si alzava sulle zampe posteriori cercando di intercettarne uno!

Allora Bianca si alzò, prese un krumiro con la mano sinistra ed il guinzaglio con la destra.

Poi usando il krumiro come esca fece passeggiare Segugio al guinzaglio per tutto il

giardino tra lo sguardo divertito di Thomas ed ammirato della 500. Fece quindi

passeggiare Segugio tutt’attorno alla 500 diffidandolo dall’innaffiarne le ruote e poi,

liberatolo dalla verde corda che ne limitava la libertà gli allungò il biscotto che la bestiola

afferrò avidamente scappando immediatamente sotto la 500 per poterselo gustare il pace.

- Ti sei fatto un nuovo amico! – disse in tono scherzoso la Strada alla 500.

- Mi sa che il cagnolino apprezza le eleganti principesse come me! – rispose complice la

500.

Bianca e Thomas finirono insieme la colazione; poi Bianca riordinò le tazze ed il piattino

sul vassoio e si avviò verso casa, mentre Thomas infruttuosamente continuava nell’impresa

di addestramento del suo Segugio sotto gli occhi divertiti delle due vetture diventate ormai

amiche inseparabili!

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Una galoppata verso il Medio Evo

Era una calda mattinata di fine primavera quando Bianca di buonora aprì i due battenti del

garage dove stava riposando tranquillamente la 500.

Svegliata di soprassalto, guardò nei suoi specchietti e vide Bianca vestita con un tailleur blu

sotto cui risaltava una camicetta color perla che lasciava intravedere una delicata catenina

d’oro da cui pendeva un ciondolo dorato a forma di bilancia, suo segno zodiacale. In mano

stringeva un’elegante ventiquattrore nera, mentre dalla spalla destra scendeva una grande

borsa di pelle sempre nera.

Bianca aprì il cofano della 500 e ripose delicatamente la ventiquattrore e poi entrò

nell’abitacolo. Avviato il motore, accese la radio che era già sintonizzata sulla sua stazione

preferita dove i soliti quattro personaggi, due uomini e due donne, si ingegnavano per

intrattenere gli ancora assonnati automobilisti con le loro gag e le loro storditaggini! Pian

pianino in retromarcia, la 500 guadagnò l’uscita facendo attenzione a non investire Segugio

che era uscito dall’alloggio di Thomas per ricevere un po’ di coccole da Bianca.

Quindi scese per chiudere il garage, ma Segugio riuscì ad infilarsi tra i due battenti, facendo

infuriare Bianca che, pensò la 500, doveva essere terribilmente in ritardo dal momento che non

alzava mai la voce con alcuno!

Bianca lo rincorse nel garage cercando di convincerlo ad uscire, ma non avuto successo

giocò il tutto per tutto uscendo di scatto e chiudendo immediatamente le porte del box.

Segugio, al buio e confinato in uno spazio ancora inesplorato, cominciò a guaire; allora

Bianca aprì un po’ il portone e dal piccolo spazio a sua disposizione uscì veloce come un

proiettile. Si avvicinò quindi a Bianca che lo sgridò dandogli del birichino e poi andò a zonzo

per il giardino fino a fermarsi al fianco del giardiniere intento a potare una siepe. Bianca

risalita in macchina attraversò velocemente il cancello, attese che si chiudesse alle sue spalle

per verificare che il monello non cercasse di uscire dal cortile e poi lanciò la 500 giù per la

ripida discesa che costeggia il Monte dei Cappuccini.

Percorso Corso Moncalieri ed attraversato il ponte Umberto I con le sue statue, la 500 sgusciò

come un felino nel controviale di Corso Vittorio per poi svoltare nuovamente in Corso

Massimo. Lasciato alla sua sinistra il Castello del Valentino e sulla destra l’Istituto

Elettrotecnico Italiano Galileo Ferraris, con le sue strane colonne che conferiscono all’edificio,

che sincronizza tutti gli orologi in Italia, un’aria misteriosa, la 500 svoltò verso Torino

Esposizioni per poi proseguire lungo la strada che costeggia il parco. Trovato un parcheggio

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libero, Bianca, con una perfetta manovra, sistemò la 500 tra il marciapiede e la striscia blu che

delimitava lo stallo; poi scese e sparì dalla vista della 500.

- Speriamo che questa volta Bianca non mi tiri brutti scherzi, pensò la 500, non ho

proprio voglia di farmi un altro giro sul carro attrezzi!

Ma dopo un po’ la bionda fanciulla tornò con un rettangolo di carta in mano che sistemò

accuratamente sul cruscotto della 500. Poi, presa dal cofano la ventiquattrore sparì in

direzione del Castello del Valentino.

La 500 si godette il dolce profumo che olmi, aceri, tigli, querce ed altri alberi regalavano ai

presenti accompagnando le passeggiate dei turisti e le fatiche di ciclisti e podisti che si

cimentavano con ardore nello loro attività.

Ad un tratto la 500 sentì un rombo salire; pensando all’arrivo imprevisto di un temporale alzò i

faretti al cielo, ma tra il fogliame degli alberi vide un bel sole splendente. Allora guardò negli

specchietti e vide arrivare una lunga fila di auto rombanti; evidentemente si trattava di qualche

manifestazione o rievocazione che di prassi veniva organizzata nelle vicinanze del parco più

celebre di Torino. La fila era aperta da una Lancia Fulvia HF, chiamata affettuosamente

“fanalona” per via dei due grandi fari rotondi collocati davanti al lungo cofano motore,

orgogliosa delle sue squadrate linee e del suo lungo cofano nero. Seguiva una Stratos, vettura

prototipo sviluppata da Bertone, fortemente voluta da Cesare Fiorio per le competizioni nei

rally, vettura temuta dai suoi piloti perché docile sull’asfalto, ma un vero toro infuriato sullo

sterrato, accompagnata da una Fiat 131 Rally e da una Lancia 037, protagoniste di epici duelli

sulle strade del mondo. Rappresentavano due concezioni diverse di automobile: la prima era

un’auto da famiglia adattata alle corse, mentre la seconda era stata sviluppata appositamente

per le competizioni. Dietro di loro arrivò una bianca Lancia Delta S4, una vettura di Formula 1

progettata per i rally, e poi un nugolo di Delta 4WD, e Deltone, vetture che per quasi un

decennio hanno esaltato il mondo delle corse vincendo titoli su titoli. La lunga colonna era

chiusa da una snella vettura rossa con grandi parafanghi separati dalla carrozzeria che

coprivano le sottilissime ruote nere impreziosite da eleganti ruote a raggi. Due fari rotondi

contornavano il lungo muso che terminava con una griglia su cui campeggiava la scritta Alfa

Romeo. Non aveva un parabrezza, che era sostituito da due piccoli vetri posti davanti ai sedili.

Alla 500 sembrava che le vetture appena passate fossero soltanto delle ancelle che

precedevano la vera regina della sfilata che solennemente e fragorosamente procedeva

accompagnata dai flash delle macchine fotografiche e dagli applausi dei pochi spettatori

presenti. Nel passare accanto alla 500, che guardava il rosso e rombante galletto con i faretti

spalancati, l’arzillo vecchietto socchiuse delicatamente un fanale. La 500 arrossì, ma fu lieta

che quel giovanotto dei tempi passati le avesse dedicato un gesto tanto sfacciato!

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- Beh, pensò la 500, anche se ha una certa età sa ancora riconoscere una vera bellezza!

Tornato il silenzio, la 500 si fermò a guardare due allegri merli che cinguettavano su di un alto

ramo. Il tempo trascorreva lento e sereno quando finalmente con i suoi faretti scorse Bianca

che stava arrivando attorniata da un giovane ragazzo e dai suoi amici. La 500 riconobbe il

tesista che Bianca aveva pazientemente aiutato durante la stesura della tesi relativa allo studio

della sovrapposizione degli stili architettonici della villa “La tesoriera”. Dalla sua faccia

raggiante la 500 intuì che finalmente aveva completato il suo corso di studi e che quindi

adesso era libero di solcare i mari della sua nuova vita professionale e non solo.

- Povera la mia 500, chissà quanto ti sarai annoiata! – esclamò Bianca mentre saliva in

auto.

Ma la 500 ridacchiava sotto i suoi baffetti cromati; lei di certo non si era annoiata e poi aveva

avuto un prezioso ammiratore che l’aveva corteggiata per qualche istante!

Avviato il motore la 500 ritornò sui suoi passi. Raggiunto nuovamente Corso Massimo, svoltò

a sinistra in modo da evitare gli immancabili ingorghi dell’ora di pranzo. Arrivata all’imbocco

del sottopasso, la 500 girò a sinistra in Corso Dante, lungo viale alberato che racchiude un

secolo di storia automobilistica. Qui, infatti, gli edifici in stile Liberty, conosciuto in Italia anche

con il nome di Stile Floreale ed in Francia come Art Nouveau, corrente artistica che rimetteva

al centro della realizzazione artistica l’artigiano e la sua manualità, un movimento artistico che

quindi si contrapponeva alla nascente industria ed alla realizzazione seriale dei prodotti

anche artistici, avevano ospitato il primo nucleo della futura FIAT. Alla sinistra la 500 poteva

vedere le strutture del primo stabilimento, realizzato nel 1900 su progetto dell’Ingegner

Marchesi, che in circa 9.000 metri quadri aveva accolto i primi 150 operai, mentre alla sua

destra sorgeva l’edificio oggi occupato dal Centro Storico Fiat, realizzato nel 1907 su progetto

dell’architetto Premoli, come ampliamento del primo che in meno di dieci anni si era rivelato

troppo piccolo per le esigenze della più grande industria automobilistica italiana. Il Centro

custodisce gelosamente alcune vetture simbolo della Casa, come la 3 ½ HP, prima vettura

prodotta, l’autocarro 18 BL che ebbe il compito di motorizzare l’Esercito Italiano e che

accompagnò tanti giovani al loro destino sulle Dolomiti, ma conserva anche il telaio di una

“Littorina”, un autobus su rotaia realizzato negli Anni Trenta per il trasporto delle persone

sulle linee ferroviarie secondarie ed un velivolo G91, celebre caccia progettato da Gabrieli,

l’artefice dell’avventura italiana nei cieli d’Italia e del mondo, che per le sue eccezionali doti è

stato utilizzato da varie aeronautiche in Europa, e conserva l’ufficio che fu usato per decenni

in Fiat da Dante Giocosa, papà di famosissime vetture come la 500, la 600, la Topolino e le

utilitarie degli Anni Settanta (127, 128, A112, …).

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Oltrepassata la culla della storia industriale italiana, la 500 proseguì spedita per il corso che

terminava sul ponte Isabella, considerato il più bel ponte di Torino. Fu realizzato a fine

Ottocento su progetto del Ghiotti ed ebbe il merito di essere il secondo ponte in muratura di

Torino poiché il primo venne realizzato ad inizio Ottocento in sostituzione del ponte chiamato

“Ponte di pietra” realizzato ad inizio Quattrocento e che collegava l’antica Bastia di Torino

(oggi Monte dei Cappuccini) con l’attuale Piazza Vittorio. La sua inconfondibile sagoma,

formata da ben cinque arcate, ad inizio Novecento segnalava la zona di atterraggio degli

idrovolanti Cant 10 che collegavano Torino con Trieste seguendo il corso del Po e che diedero

il via all’aviazione commerciale italiana. Le operazioni di decollo e di atterraggio erano

segnalate dal suono di una potente sirena che obbligava gli utenti del fiume, barcaioli e

pescatori, a dirigersi rapidamente verso riva in modo da liberare il percorso fluviale per

consentire ai goffi uccelli metallici di esibirsi nelle loro spericolate acrobazie. Le cronache del

tempo ricordano che i pochi fortunati che potevano permettersi il volo, il cui costo era pari

all’intero stipendio mensile di un impiegato, venivano alloggiati all’interno delle rudimentali

carlinghe metalliche che offrivano poche comodità, ma regalavano generosamente spifferi e

rumore tanto che nel costo del biglietto era inclusa la fornitura di una coperta e di una borsa

di acqua calda per scaldarsi e batuffoli di ovatta per proteggere i timpani dal frastuono dei

potenti motori! Ma questi pionieri del volo riuscivano a catalizzare l’entusiasmo e la curiosità

di migliaia di persone; la cronaca dell’epoca ricorda che il volo inaugurale, avvenuto

nell’aprile del 1926, fu seguito da due ali di folla assiepata sulle rive del fiume, entusiaste nel

seguire quel pesante uccello meccanico staccarsi dall’acqua per scomparire in cielo e un po’

deluse nel vedere che i primi passeggeri erano vestiti con i soliti vestiti e non con pesanti

scafandri!

La cosa curiosa, però, è che sotto il ponte Isabella è “parcheggiato” anche un sommergibile, o

meglio, una sua sezione. Si tratta del sommergibile Provana che arrivò a Torino nel 1928 in

coincidenza con la costruzione del ponte e per celebrare il quarto centenario della nascita di

Emanuele Filiberto, il famoso “Testa di ferro”. Fu realizzato nel 1918 presso i cantieri navali

Fiat di La Spezia, ma venne impiegato solo come addestratore di equipaggi. Venne radiato,

cioè tolto dal servizio, nel 1928 a seguito di un’esplosione del motore termico che lo danneggiò

irreparabilmente. Si conservò solo la sezione centrale, quella dotata di torretta, che venne

quindi mandata a Torino per partecipare alle celebrazioni e, visto che si trovò particolarmente

bene in città, decise di restarci!

Superati i 24 metri del ponte, la 500 svoltò a sinistra verso la sua destinazione e verso il suo

nuovo amico che probabilmente stava trotterellando per il giardino.

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La 500 correva veloce lungo Corso Moncalieri, corso racchiuso tra il fiume e la collina di

Torino, sempre trafficato, ma che regala viste e scorci spettacolari della città.

Sulla sponda opposta del Po, la 500 poteva finalmente scorgere tra un platano e l’altro un

pezzo dell’antica storia di Torino, o almeno così credeva. Poteva immaginare atmosfere

antiche e leggendarie, esaltate dal CD che Bianca stava ascoltando, quel galeotto CD che le

aveva regalato tempo prima Thomas quando l’aveva accompagnata a salvare la sua preziosa

macchinina; le ritornavano in mente i racconti delle storie e leggende medioevali che Bianca

raccontava ai suoi due nipotini. La sua centralina era ingolfata dalle immagini di Re Artù e dei

Cavalieri della Tavola Rotonda, dalle magie di Merlino, dalle immagini di draghi che tenevano

prigioniere città e principesse …

La sua fantasia era esaltata dal fiero e solido castello che si specchiava orgoglioso nelle

placide acque del fiume. Alla 500 piaceva un sacco osservare l’alta torre rotonda che tramite

un camminamento impreziosito dai merli la collegava con l’imponente torre quadrata posta a

protezione del piccolo borgo, prezioso scrigno dei tempi che furono, custodito da una

seconda fila di merli che convergevano nell’antico accesso realizzato con un ponte levatoio

che in caso di pericolo poteva essere alzato per impedirne l’accesso e proteggere i suoi

abitanti. Ma a differenza di quanto dice il suo nome, il Borgo Medioevale di Torino, non è

originario del Medio Evo. Infatti, di Medio Evo a Torino è rimasto ben poco, spazzato via dalla

furia costruttrice del Seicento che trasformò definitivamente il volto di Torino rendendola il

“salotto d’Europa”. Oggi di quei tempi lontani rimangono solo più tre edifici; la Casa del

Pingone con la sua seminascosta torre, così chiamata perché nel XVI secolo visse il celebre

erudito Emanuele Filiberto Pingone che fu il primo che scrisse la storia di Torino, la Casa del

Senato con le sue finestre ogivali e le decorazioni in cotto, conosciuta anche con il nome di

“Palazzo Longobardo” poiché ospitò i Duchi Longobardi che ressero la città alla caduta

dell’Impero Romano, e la Casa dei Romagnano con le sue mura in pietra collocate a “lisca di

pesce” completate con alcune file di mattoni.

Il Borgo Medioevale fu realizzato solo nel 1884 in occasione dell’Esposizione Internazionale

per ospitare il padiglione dedicato all’Italia. Il progetto si deve all’architetto D’Andrade,

specializzato nel recupero e restauro di castelli medioevali, che disegnò un immaginario

villaggio sovrastato da un castello in cui fuse elementi tipici dei castelli piemontesi e

valdostani. Secondo le intenzioni del committente, alla fine dell’esposizione il borgo doveva

esser abbattuto, lasciando in piedi solo il castello, ma il successo della particolare costruzione

fu tale che il Comune di Torino decise di acquistarlo conservandolo quindi per le generazioni

future.

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La tradizione cittadina vuole che l’idea di presentare al pubblico che avrebbe partecipato

all’esposizione qualcosa di particolare nacque quasi per caso nel maggio del 1882 durante una

chiacchierata tra amici, quali De Amicis, Camerana, Giacosa, Arnulfi, Teja e D’Ovidio,

personaggi di spicco della cultura torinese, ritrovatisi a sorseggiare del vino al tavolo di un

locale del centro città.

La Rocca è costituita da ben quattro piani; il seminterrato nasconde le prigioni, mentre al

piano terra si trova l’atrio, il cortile, ripreso dal castello di Fenis, che ospita la Fontana del

Melograno, copiata dal castello di Issogne, il camerone dei soldati, le cucine e la sala da

pranzo ispirata a quella presente nel castello di Strambino. Al primo piano, invece, troviamo la

camera del guardiano, incaricato di controllare l’accesso al ponte levatoio, la sala baronale,

ripresa dal castello della Manta con i suoi cicli di affreschi, e la camera da letto del re, copiata

dal castello di Challant e che riproduce il misterioso motto dei Savoia, “FERT”, l’oratorio, la

stanza della Damigella e la cappella.

Bianca tante volte si era soffermata a discutere con i suoi colleghi sul significato di questo

misterioso motto; misterioso perché nessun membro della storica Casata ha lasciato degli

scritti da cui trarre spunto per la sua decifrazione.

FERT è il motto inciso sul Collare dell’Annunziata, simbolo di riconoscimento degli

appartenenti all’Ordine del Collare, massima onorificenza di Casa Savoia, fondato dal duca

Amedeo VI in occasione del matrimonio della sorella Bianca con Galeazzo II Visconti nel 1362

con l’obiettivo di “indurre unione e fraternità tra i potenti sicché si evitassero le guerre

private”. Il collare aveva quindi lo scopo di unire in un unico vincolo di fedeltà e dominio (si

diventava parenti del Duca a cui ci si poteva rivolgere dando del tu) l’appartenente all’ordine

come rappresentato dai “nodi Sabaudi”, conosciuti anche come “nodi del Signore”, “Lacci di

Sansone” o “nodi d’amore” perché, così riportano le cronache rosa del tempo, Amedeo VI,

noto anche come Conte Verde per via del colore dei suoi vestiti, ricevette in regalo da una

misteriosa dame un bracciale formato da una ciocca di capelli intrecciata che ripropose nel

collare.

Già, ma cosa significa “FERT”?

Esistono varie scuole di pensiero che via via hanno alimentato ambiguità e mistero

contribuendo ad ingarbugliare ancora di più il nodo della questione!

Alcuni sostengono che FERT significhi “Fortitudo Eius Rhodum Tenuit”, cioè “la sua forza

preservò Rodi”, riferendosi al falso storico che il duca Amedeo V si recò a Rodi, occupata dai

Turchi, per liberarla, cosa che avvenne veramente, ma che la storia ufficiale attribuisce ad altri!

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Un’altra scuola di pensiero ritiene che FERT derivi dal verbo latino “fero, fers, ferre” che

significa “portare”; dunque sostengono che la traduzione “Portare” o “Sopportare” sia un

invito ai membri dell’Ordine ad affrontare con “sopportazione” le vicende di Casa Savoia.

Alcuni linguisti, invece, ritengono che FERT sia un’abbreviazione di un’arcaica parola

francese, “fertè” che significa “Fortezza”.

Ma le malelingue dei secoli scorsi, al pari di Pasquino, celebre statua parlante romana, hanno

fornito un’interpretazione originale al motto. Secondo le statue parlanti torinesi, FERT

significherebbe “Foemina Erit Ruina Tua”, cioè “la donna sarà la tua rovina” riferendosi ai vizi

ed alla focosità di molti appartenenti all’antica Casata!

Assorta in questi storici pensieri, la 500 non si era accorta di essere già arrivata ai piedi del

Monte dei Cappuccini.

Aveva svoltato sulla destra in Viale Lanza, strada “sali-scendi” che la 500 odiava perché era

costretta a saltare sopra dei fastidiosissimi dossi in pietra.

Oltrepassata l’odiata strada, la 500 proseguì verso casa lasciandosi sulla destra un piccolo

giardinetto dove alcuni bambini stavano bevendo da un’esile fontanella verde con una piccola

testa di toro dalla cui bocca usciva un sottile getto di acqua che brillava sotto i caldi raggi del

sole. Era un “torèt”, cioè “torello” in torinese, fontana simbolo di Torino, amata dai Torinesi

che ne possono trovare ben settecento sparse lungo i dritti ed ordinati viali e nei verdi parchi e

giardini che dagli Anni Trenta accompagnano le corse dei bimbi, le passeggiate dei cani e

ristorano i podisti!

Ma ormai la meta era raggiunta; la 500 mordeva il freno perché il cancello del giardino si stava

aprendo troppo lentamente e lei voleva entrare!

Giunta a destinazione, sia lei che Bianca vennero immediatamente raggiunte da Segugio che

iniziò a fare dei piccoli balzi dalla parte di Bianca per attirarne l’attenzione. Una volta uscita

dall’auto, il cagnolino le saltò sul vestito per ricevere la sua dose di coccole e per ricordare a

Bianca che era ormai ora di pappa …

Alla 500 non rimase quindi che rilassarsi e contemplare serenamente il panorama a lei tanto

caro.

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Candeline sul presente e sul passato

Era una quieta mattinata domenicale e la 500 era tranquilla nel suo garage quando Bianca la

svegliò facendola uscire dalla sua comoda sistemazione.

Segugio era intento ad annusare fiori in giro per il giardino ed a tossire quando aspirava oltre

al loro profumo anche del polline e sembrava disinteressato al trambusto che lo circondava.

Oltrepassato il cancello, la 500 ripercorse nuovamente le strade di collina da cui poteva

ammirare l’ancora assonnata città. Lasciata Villa della Regina alla sua destra ed affrontata in

velocità la successiva rotonda, proseguì in direzione della Gran Madre per poi fermarsi, in

doppia fila, di fronte ad una pasticceria con le vetrine zeppe di torte e dolci che facevano

venire l’acquolina solo a guardarli!

La 500 era preoccupata; ma come, la multa e la rimozione non le erano servite di lezione?

Con lo sguardo pensoso seguiva il cammino di Bianca fino a quando non scomparve dentro il

negozio da cui proveniva una sinfonia di aromi inebrianti che tanto piacevano alla 500.

Dopo qualche minuto, con suo grande sollievo, vide Bianca ricomparire. Appoggiata

delicatamente la torta sul sedile del passeggero, Bianca si avviò nuovamente verso casa, ma

ad andatura moderata per non rovesciare la torta sul sedile!

Rientrati in giardino, abbandonò la 500 sotto il grande noce e poi con la torta in mano, ed

eludendo tutti i salti che Segugio eseguiva scompostamente pur di raggiungere l’oggetto

profumato che teneva in alto, entrò in casa e salì velocemente le scale che conducevano al suo

appartamento. Alla 500 non piaceva stare sotto il noce, anche se Lorenzo lo elogiava sempre,

quando veniva a trovarla, per le sue dimensioni e bellezza. Infatti, la Jovis plans, cioè la

“ghianda di Giove” come soleva chiamarlo, era alto quasi quanto la casa e mostrava

orgoglioso i suoi lunghi rami da cui partivano verdi foglie lunghe anche cinquanta centimetri.

Ma alla 500 proprio non piaceva perché durante la stagione autunnale la grande e dispettosa

pianta si divertiva a far cadere sulla povera vettura grossi frutti legnosi, che nel Medio Evo si

pensava potessero curare le malattie del cervello poiché la forma del loro guscio richiamava la

forma del cervello umano, che oltre a fare un gran rumore quando la colpivano, rischiavano

pure di rovinare la sua bella ed elegante carrozzeria.

Inoltre, la grande e maestosa pianta, come veniva definita dagli inquilini della casa, si trovava

nell’unica zona del giardino da cui non era possibile abbandonare lo sguardo su Torino e sul

suo anfiteatro roccioso.

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La mattinata della 500 trascorreva lenta e noiosa; le uniche distrazioni erano rappresentate

dalle corse di Segugio dietro agli scoiattoli o i suoi appostamenti per cercare di prendere un

passerotto che incautamente si era posato tra i ciuffi di erba del prato. Ma la 500 ridacchiava

sotto i suoi argentei baffi; doveva ancora farne di strada Segugio se voleva diventare un cane

da caccia!

Al dodicesimo rintocco del campanile della chiesa dei Cappuccini, che abitualmente apriva il

coro delle campane dei campanili sparsi sulla collina, Thomas uscì in giardino con una grande

ciotola metallica seguito da Segugio che scodinzolava contento. Posata la ciotola vicino alla

sua bella cuccia in legno con il tetto spiovente rosso, rientrò veloce in casa, mentre il cucciolo,

credendo che anche al 500 mirasse alla sua pappa, mangiò il contenuto in un lampo.

Quindi si diresse veloce verso l’appartamento di Thomas, ma fu costretto a desistere perché

tutte le porte erano ben chiuse.

- Mi spiace Segugio, ma la fortezza è inviolabile! – pensò la 500.

Finito il siparietto di Segugio, la 500 sprofondò nuovamente nella noia apprestandosi a

sopportare, fedele al misterioso motto sabaudo FERT, un altro monotono pomeriggio; strano,

pensò, che Bianca avesse deciso di passare l’intera giornata chiusa in casa!

Poi, verso metà pomeriggio, il giardino si animò; Bianca preparò il tavolo in marmo e ferro

battuto con un’allegra tovaglia, decorata con strani mostri e bambini che orgogliosi

mostravano un grande orologio verde, su cui ordinò bicchieri e piatti di carta coloratissimi.

Poi sistemò come soldati in una parata varie bottiglie contenenti liquidi colorati ed ornò i rami

degli alberi vicini al tavolo con tanti palloncini colorati che Thomas, che era sceso in giardino

per aiutare la sua bella vicina, aveva gonfiato a pieni polmoni.

Avevano appena terminato le operazioni di allestimento del giardino quando il cancello si aprì

ed una specie di scatolone di lamiera su quattro ruote munito di un basso muso che ricordava

il becco di un’anatra entrò in giardino. La 500 riconobbe subito quella sagoma che nel 1999

ebbe il privilegio di essere esposta al MOMA, il Museo di Arte Moderna di New York, ma che

riuscì anche ad entrare nel novero delle cento vetture più brutte della storia condividendo il

podio con la Pontiac Aztek, prima in classifica, e la Ssangyong Rodius, che nelle intenzioni del

suo progettista doveva richiamare alla mente le forme di uno yacht di lusso … che naufragò

miseramente una volta presentato al pubblico!

Era la Fiat Multipla di Cristina, la sorella di Bianca con i suoi due cuccioli, Niccolò, il più

grande, ed il piccolo Christian.

La 500 indirizzò i suoi faretti dentro l’abitacolo della nuova arrivata. Accanto ad Aurora coi

suoi grandi ricci castani che le contornavano il volto su cui brillavano i grandi occhi verdi, era

seduto fiero il piccolo Chry-Chry nascosto dietro ai suoi occhiali da sole grigi con le

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affusolate lenti nere; scrutava l’orizzonte alla ricerca della sua zietta preferita. Dietro,

appollaiato tra i sedili spuntava la testa di Niki, relegato in quella posizione insieme al papà

dal più piccolo di casa. Era comico vederli salire in auto. La 500 li vedeva uscire di corsa dal

portone in direzione della Multipla. Niki, correndo più veloce, apriva la portiere del posto

guida e si fiondava sul sedile del passeggero, ma poi arrivava con una corsa goffa ed un po’

incerta anche la piccola peste bionda che come uno scalatore si arrampicava faticosamente,

ma testardamente, sul sedile di guida e poi o si fermava a guidare tenendo saldamente il

volante nelle mani e facendo “brum brum” con la boccuccia, oppure cominciava a muovere su

e giù le levette ed i pomelli sparsi sulla plancia. La 500 rideva di gusto a vedere Aurora

richiamare all’ordine la vettura una volta avviato il motore; spegni le luci, arresta il

tergicristallo che stride sul vetro asciutto del parabrezza, abbassa il volume della radio che

sembra di essere in discoteca, metti a posto gli specchietti laterali che hanno deciso di

prendersi un momento di libertà volgendo il loro sguardo lontano dagli spigoli della vettura …

Alle volte Cristina ricordava un pilota di un aereo intento a seguire la “check list”, cioè una

serie di controlli ed istruzioni da seguire con attenzione, prima di prepararsi per il prossimo

decollo.

La mamma non aveva ancora spento il motore della Multipla che Niki si era già liberato della

cintura di sicurezza, che lo teneva ancorato al sedile. Poi aveva aperto la porta e si era avviato

verso Bianca. Ma il piccolo Chry-Chry che non riusciva a liberarsi dalla morsa della cintura,

iniziò a strillare come un’aquila fino a quando Cristina lo liberò dalla sua salda presa e lo

posò per terra. Vestito con pantaloni di velluto nero, con una camicetta bianca che gli

conferiva un’aria seria, correva verso Bianca con in mano uno strano pupazzo violetto con

una specie di antenna triangolare sulla testa; era Tinky Winky, uno dei personaggi della serie

televisiva Teletubbies, il più grande dei quattro e che va sempre in giro con una grande

borsetta.

Libero di correre, si avviò in direzione della zia che lo stava aspettando in ginocchio e a

braccia aperte, ma durante la corsa il piccolo biondino vide spuntare dal portone di casa la

sagoma di Segugio e quindi deviò verso la nuova attrazione. Il cagnolino, vedendo il piccolo,

corse nella sua direzione scodinzolando ed abbaiando; anche Niki che stava parlando con la

zia, visto il nuovo ospite, si avviò nella sua direzione. Segugio, raggiunto Chry cominciò ad

annusarlo e a leccarlo;il piccolino si schernì dall’affettuosa presa ed incominciò dapprima ad

accarezzarlo sulla schiena e poi ad afferrargli la coda scodinzolante.

Fu la volta di Niki che lo accarezzò a sua volta sulla morbida testolina e poi lo invitò ad

allungarli la zampina. Nel frattempo Cristina stava aiutando suo marito Gabriele a prendere dal

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cofano dell’auto una miriade di sacchetti colorati e l’immancabile borsa nera del cambio

pannolini!

Alla fine l’allegra brigata si ritrovò tutta attorno al tavolo dove iniziarono le presentazioni di

rito, poiché Thomas non aveva mai partecipato a queste riunioni di famiglia.

Ma i due bimbi preferivano continuare a giocare con il cagnolino, mentre il buffo pupazzo

veniva malinconicamente abbandonato sull’erba del prato.

Finalmente la 500 poteva uscire dal suo stato di noia e monotonia e godere dell’allegria del

momento.

Riportato a fatica l’ordine, i bimbi con il loro papà e Thomas si sedettero attorno al tavolo,

mentre Bianca e la sorella sparirono dentro casa. Segugio, invece, prese posto sotto il tavolo.

Dopo qualche minuto arrivarono le due sorelle con una grande torta da cui trasbordavano

decorazioni di bianca panna completati da decori di cioccolato. Sulla parte superiore, invece,

era stato inserito un fumetto con un grande cane marrone con macchie nere che scappava

inseguito da un fantasma. Era il famoso Scooby-Doo, protagonista del cartone animato con il

maggior numero di episodi realizzati, di cui entrambi i cuccioli erano appassionati.

Sulla torta erano state collocate ben sei candeline per festeggiare il compleanno del cucciolo

più grande.

La tradizione di festeggiare i compleanni e di illuminarli con le candeline è molto antica;

addirittura la si fa risalire all’epoca degli antichi Egizi che erano soliti celebrare il compleanno

del faraone con banchetti stracolmi di prelibatezze. L’introduzione della torta di compleanno,

invece, si deve ai Persiani, abilissimi pasticceri dell’antichità, mentre l’usanza di collocare

sulla torta le candeline si deve ai Greci che erano soliti festeggiare il compleanno della dea

Artemide, dea della Luna e della caccia, con una torta di forma rotonda realizzata con miele e

farina.

Ma ai bimbi ed a Segugio, che alla vista della torta era sbucato fuori dalla sua tana per

sistemarsi accanto a Thomas, tutto questo non interessava; volevano solo mangiarla!

Prima, però, furono costretti a sottoporsi alle fotografie di rito che il papà scattava “a nastro”

e che non risparmiarono né la torta, né le decorazioni del giardino e nemmeno Segugio!

Poi fu la volta del filmato dello spegnimento delle candele da parte di Niccolò e poi, viste le

vigorose proteste dei presenti, si procedette al taglio della torta.

I primi ad essere serviti furono i due bimbi che finirono la loro porzione ben prima che Bianca

finisse di servirla a tutti i partecipanti alla festa.

L’unico, oltre alla 500, che rimase a bocca asciutta fu Segugio, che però venne premiato con

dei biscotti.

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Fu poi la volta dei regali che furono quasi tutti scartati da Chry che si divertiva un mondo a

strappare la carta colorata ed i fiocchetti e stelline che li decoravano.

Alla fine, mentre i grandi continuavano tranquillamente a chiacchierare, tutti i cuccioli presenti

iniziarono a correre su e giù per il giardino.

Verso sera Thomas si congedò dal gruppo e si diresse verso il pergolato con il suo portatile

perché doveva finire alcuni lavori per il giorno dopo. Il porticato era proprio accanto alla 500

che con i suoi faretti seguiva sempre i giochi dei tre cuccioli. Era una struttura in legno con

robusti sostegni e sottili travi di legno. La copertura era realizzata con delle rose tanto care

alla nonna di Bianca; erano delle rose “banksiae alba plena” che rallegravano il giardino con i

suoi mille fiori bianchi che sembravano tanti fuochi d’artificio in mezzo al verde del fogliame.

Erano state usate come copertura perché, a dispetto di altre rose, non avevano spine e quindi i

fortunati che potevano godere della sua frescura non correvano il rischio di graffiarsi o ferirsi.

Il botanico amico di Bianca stravedeva per questo pergolato e per questa specie di rose che

venivano coltivate in Cina già dal Cinquecento, ma che raggiunsero l’Europa solo alla fine del

Settecento. Il nome di questa specie, raccontava Lorenzo, si deve ad un gesto di cavalleria di

Sir Joseph Banks, fondatore della Royal Horticultural Society, nei confronti della moglie Lady

Banks; infatti questa specie porta il nome della moglie!

Thomas pensava di essere in un luogo tranquillo dove poter dedicarsi alle sue faccende, ma

all’improvviso sbucò Niki che gli chiese se poteva fargli vedere dei filmati dei treni, essendo lui

un grande appassionato.

Thomas, che in realtà non aveva alcuna voglia di dedicarsi al lavoro, acconsentì

immediatamente; inserì la chiavetta nel portatile ed accese il computer.

Sul monitor apparve la foto di una buffa vettura rossa, con un alto muso e sottili ruote. Niki,

osservando la vettura, rimase un po’ perplesso e chiese che cosa fosse quella strana

macchina.

- Devi sapere, disse Thomas, che quella che vedi è una rarità. E’ una FIAT SB$ Eldridge,

meglio nota come “Mefistofele”, realizzata nel 1924 da Ernest Eldridge per la conquista

del record di velocità.

- Record di velocità? – chiese perplesso il bimbo.

- Si, a quei tempi, ma ancora oggi, i piloti si sfidano su lunghi rettilinei per dimostrare chi

è in grado di raggiungere le velocità più elevate. Si sfidano gli atleti sui 100 metri, dove i

migliori riescono a raggiungere i 37 km/h, nel cielo, dove il Lockheed SR-71 Blackbird

raggiunse nel 1976 i 3.530 km/h, sulle rotaie dove il record appartiene dal 2007 al TGV

V150 con ben 574 km/h e sulla strada dove la più elevata velocità è stata raggiunta nel

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1997 da una specie di aereo su ruote, il Thrust SSC, che infatti era pilotato da un pilota

da caccia della RAF, l’aviazione militare inglese.

- Ma quella specie di giocattolo non può raggiungere queste velocità! – osservò Niki.

- Hai ragione; infatti tra mille difficoltà riuscì a raggiungere, ma siamo nel 1924, i 234 km/h

che per quei tempi era una velocità impensabile visto che molte vetture non riuscivano

nemmeno a raggiungere i 100 km/h.

- Però è brutta, osservò Niki. Papà mi ha portato a vedere tante macchine vecchie, ma

quelle che ho visto erano più belle e soprattutto avevano sempre due fari ai lati del

motore.

Di fronte a questo commento, Thomas rise.

- Hai proprio ragione! – disse Thomas. Ma devi sapere che questa vettura è un incrocio

tra una macchina, un aereo ed un autobus?

- Un autobus? – esclamò meravigliato Niki.

- Certo. Eldridge acquistò l’auto dal pilota John Duff nel 1922 dopo che alla vettura, una

FIAT SB4 di serie, durante una gara sul circuito di Brookland, scoppiò il motore

rendendola quindi irreparabile. Eldridge acquistò quindi il rottame per poterla

modificare secondo le sue intenzioni in vista del record che voleva battere. Decise

quindi di installare sul telaio della vettura un motore aeronautico, cioè destinato

all’impiego sugli aerei, un Fiat A.12, in grado di sprigionare una potenza di ben 320 HP,

cioè quella che puoi trovare su vetture come Ferrari e Porsche. Ma siccome il motore

era troppo lungo, il pioniere dovette allungare il telaio della macchina usando i rottami

di un autobus londinese. Quindi il muso della vettura divenne imponente, mentre il resto

della carrozzeria risultava filante ed elegante come la vettura di origine. La cosa

curiosa è che nonostante l’elevata potenza il suo ideatore non pensò di potenziare i

freni che quindi rimasero quelli di serie e che frenavano solo le ruote posteriori

rendendo delicato e molto problematico l’arresto della vettura una volta lanciata ad alta

velocità. Il soprannome dato a questo “mostro”, cioè Mefistofele, fu inventato dal

pubblico francese che si era radunato ad Arpajon per assistere al record di velocità a

causa del rumore infernale del motore.

- Ma le navi non fanno le competizioni? – domandò Niki.

- Beh, diciamo che anche sul mare si avevano delle vere e proprie competizioni che più

che sportive erano economiche. Si iniziò con la “regata del tè”, cioè una gara tra

imbarcazioni veloci a vela, i clipper, che partendo dalla Cina portavano in Inghilterra le

foglioline di tè raccolte in primavera. Questo raccolto era considerato il migliore

dell’anno e veniva pagato molto di più dei successivi e quindi i produttori spingevano

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per ottenerlo al più presto in modo da massimizzare i guadagni. Come premio al

capitano che per primo giungeva a Londra, venivano date ben 100 sterline, cifra

considerevole per quei tempi. Il più famoso partecipante alla “regata del tè” fu il Cutty

Sark, cioè “corta camiciola”, un elegante e snello clipper, molto veloce, ma anche

difficile da condurre. Fu costruito su progetto dell’architetto Hercules Linton e fu

varato nel 1869, stupendo tutti per la sua forma elegante e l’elevato numero di vele, ma il

destino non gli sorrise, perché non riuscì mai a battere il suo rivale, il clipper

Thermopylae. Si riscattò con il trasporto di lana dall’Australia dove divenne imbattibile

sulle traversate veloci. La regata del thè era talmente sentita e seguita dal pubblico

inglese che le cronache ricordano che due velieri, l’Ariel e il Taeping, partiti dal porto

cinese di Fuchou contemporaneamente, raggiunsero Londra con soli dieci minuti di

differenza.

Ma ben più noto è sicuramente un altro confronto tra navi, ma questa volta a vapore: è il

famoso “Nastro azzurro”. L’origine della competizione, che assegnava il trofeo alla

nave che attraversava l’Oceano Atlantico dall’Europa all’America settentrionale nel

minor tempo possibile, è ignota; alcuni storici la fanno risalire al “Blue ribbon” inglese

che veniva assegnato al cavallo che vinceva il Derby. Sicuramente la gara venne resa

ufficiale solo nel 1935 quando venne redatto il regolamento per la partecipazione e

l’assegnazione del trofeo che fu conquistato dalle più grandi navi dell’epoca che erano

anche il vanto delle principali Marine europee e degli Stati Uniti.

il primo vincitore fu la nave a vapore inglese Great Western che nel 1838 attraversò

l’Atlantico in circa quindici giorni. Poi fu la volta della tedesca Kaiser Wilhelm der

Grosse nel 1898 il cui record venne infranto da una serie di grandi navi inglesi come il

Mauritania, il Lusitania che poi persero il primato a favore del Bremen, dell’Europa e

del Rex, unico transatlantico italiano a vincere la competizione. Dopo tre anni, il record

del Rex venne infranto dal Normadie che fu tra l’altro la più grande nave passeggeri del

suo tempo. Pensa che la conquista del Nastro Azzurro da parte del Rex sembra quasi

un romanzo. Il Rex era il vanto della nostra marina; fu realizzato nei cantieri navali

Ansaldo di Sestri Ponente. Era lungo ben 249 metri e largo 29 con una stazza di 51.000

tonnellate. Fu varato nel 1931 e poteva trasportare circa 2000 passeggeri in quattro

classi distribuiti su nove ponti oltre a circa 1000 uomini di equipaggio. Era stato

definito dalla stampa dell’epoca un “albergo di lusso viaggiante” oppure il “levriero

degli oceani” per la sua linea armoniosa ed elegante e per la sua velocità che, a detta

dell’Armatore, cioè del suo proprietario, era di circa 27 nodi, velocità ben inferiore alle

sue potenzialità. Ma l’Armatore, che mirava a vincere il trofeo, non voleva svelare in

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anticipo i suoi piani dando troppe informazioni ai concorrenti. Il transatlantico effettuò

ben undici traversate a velocità moderata per studiare tempi, rotte e consumi di nafta

nella marcia “a tutta forza”, aspettando il momento propizio per tentare l’impresa.

Era il 10 agosto del 1933 quando il Rex lasciò il porto di Genova per compiere quello

che a tutti sembrava un normale viaggio verso gli Stati Uniti. La prima sosta fu

Gibilterra dove il comandante del Rex, Tarabotta, vedendo il mare calmo ed

apprendendo dai bollettini meteorologici in suo possesso che era previsto bel tempo,

convocò i suoi ufficiali dicendo loro “Signori, credo che si possa tentare. Dio ci

assista”. Lasciata Gibilterra, la grande nave procedette “a tutta forza” verso il porto di

New York; ma per volontà del comandante non vennero avvisati i passeggeri che quindi

credettero di assistere ad una normale traversata. Non si accorsero nemmeno

dell’assenza del comandante nella sala da pranzo, tradizione che venne rispettata dal

suo secondo. Il comandante, infatti, si era sistemato in plancia per controllare la

situazione e calcolare la rotta. Al terzo giorno di navigazione il Rex raggiunse una

velocità di 30 nodi facendo ben sperare l’equipaggio sulla riuscita dell’impresa. Ma il

giorno seguente il Rex entrò nella nebbia; la navigazione a quella velocità diventò

quindi rischiosa. Il ricordo della tragedia del Titanic, avvenuta circa vent’anni prima,

era ancora viva nelle menti. Il comandante dovette prendere una decisione; rallentare

avrebbe significato rinunciare all’impresa. Dopo alcuni minuti di indecisione in cui la

mente del comandante soppesò i pro ed i contro di ogni possibile decisione, decise di

continuare. Per evitare incidenti e collisioni con altre navi presenti nella nebbia diede

ordine di far suonare ad intervalli regolari la potente sirena della nave, sirena che

poteva essere udita anche a tre miglia di distanza, più che sufficiente al transatlantico

per tentare manovre per evitare eventuali collisioni. Il Rex navigò nella nebbia per circa

dieci ore, tempo in cui in plancia si poteva tagliare con un coltello non solo la nebbia,

ma anche la tensione degli ufficiali presenti. Superato senza ostacoli ed intoppi il velo

biancastro che si era opposto inutilmente al coronamento dell’impresa, la nave si trovò

a meno di 500 miglia da New York. Fu a questo punto che il comandante comunicò ai

passeggeri abituali del transatlantico che “arriveremo un po’ prima a destinazione!”. Il

Rex raggiunse la baia di New York l’alba del 16 agosto con ben 27 ore di anticipo

sull’orario previsto dopo soli 4 giorni e 13 ore di navigazione ad una media di 28 nodi e

strappando il primato al Bremen per 2 ore e 17 minuti.

Il Rex sfilò quindi davanti alla Statua della Libertà, chiamata ufficialmente “La libertà

che illumina il mondo”, monumento simbolo della città di New York e degli Stati Uniti

d’America e realizzata da Bartholdi per “rendere gloria alla libertà ed alla Repubblica,

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nella speranza che questi valori non muoiano”, accompagnato dal suono delle sirene

delle navi ormeggiate nel porto. Il comandante, che non aveva abbandonato il suo posto

in plancia, concluse l’impresa con circa 5 chili in meno sulle gambe tanto era stata la

sua tensione e la sua concentrazione durante l’impresa.

Il Rex conserverà il primato fino al 1935 quando lo cederà al Normandie che a sua volta

lo lascerà alla Queen Mary. Finirà la sua gloriosa carriera in fondo al mare nel 1944

bombardato dagli aerei inglesi.

- Ma quindi il Rex era grande come il Titanic? – chiese Niki.

A quella domanda Thomas rimase sorpreso; come faceva un bimbo di quell’età a conoscere

le dimensioni del più famoso transatlantico della storia?

- Non stupirti, disse Bianca che li aveva raggiunti con il piccolo Chry che teneva in mano

un annaffiatoio di plastica color rosso vivo: Niki si era appassionato al caso di quella

nave affondata all’isola del Giglio a quasi cent’anni dall’affondamento del Titanic

quando ha poi scoperto l’altra nave …

- Mi sa che farà l’ingegnere navale! - disse in tono scherzoso Cristina. Ero venuta a

cercarvi perché siete tutti scomparsi!

- No, ero andata con Chry a bagnare le mie piantine di basilico, menta, salvia e

rosmarino, o meglio, a farle affogare, perché il biondino con l’annaffiatoio, per paura

che morissero di sete, ha provveduto ad approvvigionarle per almeno una settimana!

- E Niki è andato a disturbare Thomas, suppongo! – lo rimproverò bonariamente la

mamma.

- No, figurati! – rispose Thomas. L’intenzione era quella di lavorare un po’, ma non ne

avevo tanta voglia e Niki è stata un’ottima scusa per non farlo!

Nel frattempo era arrivato anche Gabriele, il papà, che messo al corrente dell’argomento della

conversazione con Niki, lo invitò ad approfittare di Thomas per farsi chiarire tutti i dubbi che

aveva sul Titanic.

Allora Thomas prese Niki sulle ginocchia e lo sedette davanti al portatile, tra le proteste

rumorose di Chry che voleva soffiargli il posto! Ma la protesta durò poco; infatti Bianca e

Cristina convinsero il piccolino ad andare a giocare un po’ a palla con Segugio.

- Per rispondere alla tua domanda, Niki, il Titanic era grande quanto il Rex, ma aveva una

stazza minore. Ovviamente tra le due navi c’erano moltissime differenze perché dopo il

suo affondamento i vari Stati obbligarono sia i costruttori che gli armatori a seguire

norme e regolamenti più rigidi per evitare il ripetersi di simili disastri, come ad esempio

l’installazione di un numero sufficiente di scialuppe per consentire l’evacuazione di tutti

i passeggeri, l’obbligo di tenere il telegrafo, la radio di allora, sempre acceso con il

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personale in ascolto, e di ridurre la velocità in caso di presenza di ghiacci che

sarebbero stati pattugliati con la creazione di un’apposita squadra navale. Inoltre

erano cambiate anche le tecniche costruttive poiché le lamiere, che prima erano unite

con rivetti, ora si iniziavano a collegare con saldature.

- Ma non era stata definita “inaffondabile” dai suoi costruttori? – chiese curioso Gabriele.

- No, rispose Thomas. In realtà né il costruttore né l’armatore, la White Star, avevano mai

fatto simili affermazioni. Furono i giornalisti a chiamarla così per la sua costruzione

all’avanguardia per i tempi e rispetto alle tecnologie utilizzate per realizzare le navi fino

ad allora costruite. Infatti, era stata realizzata con uno scafo a doppia carena e con ben

sedici compartimenti stagni che potevano essere sigillati da pesanti porte azionate

elettricamente dalla plancia di comando in meno di venticinque secondi, oppure tramite

dei sensori in grado di rilevare la presenza di acqua di sentina.

- Però è affondata lo stesso! – continuò il papà.

- E’ vero, ma in realtà la nave era stata progettata in modo che andando ad urtare a “tutta

forza” frontalmente contro un ostacolo, questa poteva rimanere a galla anche con

quattro compartimenti stagni allagati. Ma nella gelida notte primaverile, l’impatto con …

- Lo so io! – esclamò Niki. Quando l’ufficiale Murdoch ha visto l’iceberg ha detto“iceberg

dritto a prua!”. Poi ha detto di girare tutto a sinistra, però la nave non ha girato in

tempo e quindi ha preso il ghiaccio di lato facendo tanti buchi sul fianco da cui è

entrata l’acqua fredda che ha allagato cinque compartimenti stagni. Quindi si è piegata

di lato e poi è affondata con tante persone a bordo perché le barche non erano tante da

contenere le persone a bordo che erano più di 2000!

- Bravissimo, ma come fai a sapere tutte queste cose! – chiese stupefatto Thomas.

- Perché ho visto il film e papà mi ha letto il libro sul Titanic che mi ha regalato mamma e

poi oltre ai filmati dei treni e dei tram guardo anche i filmati del Titanic sul computer di

papà! – rispose serio Niki.

- Ma tu, chiese Niki, sai cosa sono i compartimenti stagni?

- Vedi, rispose Thomas, per permettere ad una nave di galleggiare anche in caso di

incidenti o collisioni, la sua struttura è divisa in vari “compartimenti stagni”, nel senso

che l’acqua del mare non può entrare od uscire da queste “stanze” se non in modo

controllato. Inoltre opportune pompe possono provvedere allo svuotamento dell’acqua

infiltrata. Questo per consentire alla nave o di raggiungere il porto più vicino o per

consnetire alle persone di abbandonare in sicurezza la nave. Nel caso del Titanic, per

motivi “estetici”, cioè per consentire la realizzazione dei due grandi scaloni di accesso

alla prima classe, e per motivi “logistici”, cioè per favorire il transito delle persone e del

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personale all’interno della grande nave, questi compartimenti stagni non erano

sufficientemente alti e non avevano un soffitto che li chiudesse e quindi, una volta che

l’acqua avesse raggiunto la loro sommità si sarebbe inevitabilmente riversata in quelli

limitrofi aumentando quindi il numero di compartimenti allagati, cosa che puntualmente

avvenne. E’ un po’ come avere un lavandino con due vasche. Una volta riempita

completamente la prima, l’acqua si riversa nella seconda e poi, dopo aver riempito

anche la seconda inevitabilmente si riversa per terra!

- E poi, continuò trionfante Niki, contento di poter raccontare la “sua storia” al papà ed

all’amico di Bianca, il capitano “Smif” (Smith) diede ordine di far andare le donne ed i

bambini nelle barche che però erano poche ed infatti si salvarono solo poche persone,

quelle della prima classe, mentre quelle della terza affogarono con la nave perché i

cancelli erano chiusi e non hanno potuto raggiungere i ponti dove c’erano le barche.

Poi la prua si riempie di acqua e la nave affonda con la punta, mentre la poppa, cioè la

parte dietro della nave, va in alto dove poi le persone cadono in acqua come fa vedere il

film. Quindi le caldaie con il carbone si staccano e corrono verso la prua rompendo

tutte le pareti della nave. Il peso dell’acqua piega quindi la nave che poi si spezza in

due. La prua affonda subito, mentre la poppa rimane a galla fino a quando non si

riempie di acqua e poi affonda anche lei, ma lontano dalla prua! – e con le sue manine

mimava, come aveva già fatto per far capire a Thomas la dinamica dell’urto del Titanic

con l’iceberg, il momento in cui la nave si era divisa in due tronconi e poi era affondata.

Thomas ascoltava stupito il racconto. Nonostante fosse così giovane e non avesse alcuna

conoscenza tecnica e con l’innocenza di un bambino che non riusciva a rendersi conto

dell’immane tragedia che stava descrivendo con vite speranzose spezzate nelle gelide

acque dell’oceano, Niccolò riusciva a dare un’interpretazione corretta della dinamica

dell’incidente. Era incredibile come la curiosità dei bambini, unita alle possibilità di

informazione attuali desse dei risultati così straordinari e sicuramente incoraggianti per il

futuro!

- Poi, proseguì Niki, la nave Carpathia che aveva sentito il messaggio di soccorso

mandato dal Titanic prima di affondare andò a “tutta forza” verso le barche salvando le

persone che erano riuscite a salire, mentre il Titanic rimaneva sul fondo dove adesso è

ancora lì tutto arrugginito con tanti pesci che lo stanno mangiando, mentre con dei

robot sono stati recuperati dei piatti ed i vestiti e le scarpe delle persone sono rimaste lì

sul fondo.

- Complimenti! – esclamò stupefatto Thomas.

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- Ma le varie inchieste hanno poi svelato i motivi del disastro ed individuati i

responsabili? – chiese quindi Gabriele.

- Dopo il naufragio, rispose Thomas, furono aperte due inchieste ufficiali, una Americana

ed una Inglese il cui intento oltre ad accertare eventuali responsabili è stato quello di

sensibilizzare il mondo tecnico e politico per la creazione di norme di costruzione e di

sicurezza al passo con i tempi e con la realizzazione di queste grosse navi in grado di

trasportare migliaia di persone. La conclusione a cui giunsero le due inchieste è che la

causa scatenante del disastro fu la non percezione del pericolo di ghiacci da parte del

capitano dovuta sia al fatto che era un “lupo di mare”, cioè aveva una grandissima

esperienza di navigazione e quindi accettava eventuali rischi confidando nella sua

esperienza per evitarli, sia al fatto che sulla nave era presente come passeggero anche

l’amministratore delegato della White Star che quindi, volontariamente od

involontariamente, “influenzò” le sue decisioni. La sottovalutazione del pericolo di

ghiacci fu dimostrata considerando che il Titanic aveva ricevuto almeno una decina di

messaggi di altre navi in cui veniva segnalata accuratamente la presenza di ghiacci e di

iceberg, ma il comandante Smith pensava di essere al sicuro in quanto aveva fatto

seguire alla nave una rotta molto più meridionale rispetto a quella abitualmente

percorsa dai ghiacci in scioglimento nel mare. Quindi, grazie a questa falsa sicurezza,

non fece ridurre la velocità della nave, molto elevata se si pensa che quello era il suo

primo viaggio e che le macchine dovevano essere prima “rodate”, cioè sottoposte ad un

periodo di utilizzo “sotto regime” per consentire alle varie parti di “accordarsi” tra di

loro in modo da evitare rotture premature dei componenti, e non ordinò di aumentare il

servizio di sorveglianza. Inoltre, nessun messaggio relativo alla presenza di iceberg fu

consegnato all’ufficiale di rotta che quindi rimase quasi all’oscuro dell’inevitabile

destino a cui stava mandando la nave! Inoltre, ma questo è un mio personale punto di

vista, la colpa fu dei due telegrafisti, che non essendo marinai, ma dipendenti di un’altra

società che si occupava esclusivamente di telegrafi, non compresero l’importanza degli

avvertimenti ricevuti dalle altre navi e non informarono immediatamente il capitano

Smith. A tutto si aggiunsero i difetti di progettazione influenzati dalla forte

competizione della White Star, proprietaria del Titanic, con la Cunard Line, detentrice

del prestigioso nastro azzurro. Le due compagnie si contendevano infatti i passeggeri

sulla rotta atlantica tra le due sponde dell’oceano; la Cunard puntava su navi più

piccole, ma più veloci, mentre la White Star per primeggiare nella competizione puntò

sul lusso e le comodità offerte ai passeggeri, in particolare quelli della prima classe.

Quindi progettò arredamenti sfarzosi per le stanze della prima classe, sull’installazione

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di palestre, sauna e, novità assoluta per i tempi, di una piscina coperta con acqua di

mare. Per manifestare la sua opulenza, i progettisti sacrificarono l’altezza dei

compartimenti stagni per lasciare spazio sufficiente alla realizzazione dei due scaloni

di accesso alla prima classe, ed installarono solo venti scialuppe di cui quattro

pieghevoli per non intralciare il passeggio sul ponte dei passeggeri di prima e seconda

classe, mentre in realtà il suo progettista aveva proposto l’installazione di ben 64

scialuppe! La riduzione del numero di scialuppe fu approvato durante i collaudi della

nave perché le normative di allora stabilivano il numero minimo di scialuppe da

installare non in funzione del numero di passeggeri trasportabili, ma in funzione della

stazza della nave.

- E le commissioni non dissero nulla in merito alla sua costruzione? – domandò Gabriele.

- A dire il vero, durante le audizioni furono presentate delle ipotesi relative a difetti dei

materiali utilizzati per la sua costruzione, ma essendo la nave adagiata su di un fondale

molto profondo e non essendo tecnicamente fattibile riportarla in superficie, non risultò

possibile analizzare i materiali impiegati. Fu solo grazie alle esplorazioni marine di fine

Novecento che i tecnici riuscirono finalmente a chiarire sia la dinamica dell’impatto e

del successivo affondamento ed a dimostrare l’inadeguatezza dei materiali e delle

tecniche impiegate per la sua costruzione. Si scoprì ad esempio che la falla aperta nello

scafo dall’iceberg non era lunga 90 metri come ipotizzato durante le varie inchieste, ma,

come ipotizzato già allora dall’ingegnere navale Edward Wilding, era costituita da circa

sei piccole aperture che tutte insieme non raggiungevano i due metri quadrati di

superficie e quindi non sufficienti a causarne l’affondamento. L’allagamento dello scafo

fu causato dal cedimento dei rivetti che tenevano unite le lamiere dello scafo, molto

deboli a causa dello scadente materiale utilizzato per realizzarli, a causa delle elevate

deformazioni provocate sulle lamiere stesse dall’iceberg. Inoltre, gli esami eseguiti su

alcuni pezzi di lamiera prelevata dallo scafo evidenziarono che l’acciaio utilizzato

presentava caratteristiche meccaniche scadenti a bassa temperatura, come nel caso

della sera dell’affondamento quando la temperatura dell’acqua era di circa 0°C.

- Fu anche chiarito perché le persone di terza classe erano state segregate con dei

cancelli impedendogli quindi di salvarsi? – chiese ancora il papà.

- Beh, allora il Mondo era ancora influenzato dall’Epoca Vittoriana in cui la società era

divisa in classi, in ceti di appartenenza, in cui l’apice della piramide sociale

comprendeva l’aristocrazia, i grandi industriali e tutti quelli che avevano “fatto fortuna”

dal punto di vista finanziario, mentre un gradino più in basso si collocava il ceto medio,

quello che con il lavoro ed i sacrifici era riuscito a crearsi una posizione finanziaria

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abbastanza solida. Da ultima, la terza classe che comprendeva tutti quelli che

lavoravano per mangiare e quei disperati che cercavano nel nuovo mondo, cioè

l’America, una possibilità di riscatto e di realizzazione. Quindi, dovendo condividere i

ristretti spazi di una nave che solcava i deserti mari, si cercava di evitare che le varie

classi interferissero tra di loro anche perché ogni classe aveva le sue abitudini. Ad

esempio, in prima classe si poteva danzare solo fino a mezzanotte, rispettando la

tradizione vittoriana dell’epoca, mentre la terza classe poteva continuare anche tutta la

notte. La segregazione con cancelli della terza classe, però, era una richiesta delle

leggi sanitarie degli Stati Uniti. Infatti, le norme americane stabilivano che prima di

sbarcare in America le persone in arrivo dovessero sottoporsi ad un periodo di

quarantena, cioè di isolamento forzato di 40 giorni per evitare la diffusione di eventuali

malattie. Questa prassi era stata introdotta in Europa già nel XIV per evitare la

diffusione della peste nera che dall’Oriente sbarcava in Europa con i passeggeri delle

navi. Questo periodo, infatti, rappresentava il tempo necessario alla malattia per

manifestare i suoi sintomi, consentendo quindi alle Autorità di prendere i

provvedimenti del caso per evitare contaminazioni e contagi. Siccome allora non

esistevano aerei in grado di attraversare l’Oceano Atlantico, anche perché i primi

traballanti uccelli meccanici stavano timidamente iniziando a solcare i cieli, gli uomini

d’affari dovevano prendere la nave per recarsi in America dall’Europa e non era

pensabile farli sostare forzatamente per 40 giorni con danni irreparabili per i loro

affari. Inoltre, secondo la mentalità dell’epoca, si riteneva che molte malattie fossero

una caratteristiche dei membri della terza classe che quindi erano quelli su cui si

accanivano i controlli sanitari all’arrivo in America. Per poter usufruire di questo

trattamento di favore, le navi erano obbligate a separare fisicamente la terza classe dal

resto della nave e questo veniva realizzato con cancelli sempre chiusi ed un servizio di

sorveglianza sempre attivo per tutta la durata del viaggio. Inoltre i ponti su cui

sgranchirsi le gambe erano separati così come le sale da pranzo e da ballo.

- Ma quando riuscì il primo aereo ad attraversare il mare? – chiese curioso Niki.

- Il primo pilota che riuscì nell’impresa di attraversare in volo e senza scalo l’Oceano

Atlantico fu Charles Lindbergh nel 1927. Questi, partito da un piccolo aeroporto vicino

alla città di New York alle 7,52 del 20 maggio, raggiunse Champs de Le Bourget, nei

pressi di Parigi, alle ore 22,00 del giorno seguente dopo 33 ore e 23 minuti di volo in

solitaria a bordo del Ryan Spirit of Saint Louis, un aereo monorotore monoplano,

dimostrando quindi al mondo che era possibile volare su lunghe distanze, senza la

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sicurezza di un campo dove atterrare in caso di difficoltà, confermando quindi agli

scettici che gli aerei dell’epoca avevano raggiunto una buona affidabilità meccanica.

Ma ormai il sole stava lentamente nascondendosi dietro l’arco alpino inondando di rosa la

punta piramidale del Monviso, conosciuto anche come “Re di pietra” perché è la montagna più

alta della Alpi Cozie con i suoi 2062 metri. La montagna deve il suo nome la fatto che la sua

forma piramidale è ben visibile da lontano e soprattutto sovrasta nettamente le altre creste

alpine diventando quindi un sicuro punto di riferimento per i viaggiatori. E’ inoltre citato sui

libri di storia perché la tradizione vuole che Annibale lo abbia attraversato con i suoi elefanti

per scendere in Italia per combattere contro l’esercito romano.

Arrivarono quindi Bianca e Cristina con il piccolo Chry che stava tenendo al guinzaglio

Segugio che docilmente seguiva il terzetto.

- Vedi, disse Bianca rivolta verso Thomas, che persino Chry riesce a farsi ubbidire dal

tuo cucciolo!

- Perché? – chiese curiosa Cristina.

- Perché con me, rispose Thomas, Segugio non fa un passo se lo attacco al guinzaglio!

Preferisce seguirmi libero di rincorrere un merlo o uno scoiattolo o di nascondersi tra i

tulipani del giardino!

- Bene, bimbi, disse Cristina, salutate Bianca e ringraziate Thomas che è stato così

gentile a darvi retta che dobbiamo tornare a cosuccia che è già tardi!

Chry portò quindi Segugio da Thomas e lo salutò muovendo la sua bianca manina. Diede un

bacio alla zia ed accompagnato da Cristina salì sulla Multipla. Niki ringraziò Thomas per le

spiegazioni ricevute, si fece dare la zampina da Segugio, diede un grosso bacio alla zia Bianca

e con il papà, che finalmente riprendeva possesso del posto di guida, salì in auto rubando a

Chry il posto del passeggero. Bianca, Thomas e Segugio erano allineati e con lo sguardo

seguivano l’auto che velocemente usciva dal cancello. Thomas sembrava dispiaciuto, ma

Bianca lo rassicurò dicendo che sarebbero tornati presto. Poi gli propose di accompagnarla,

un giorno della settimana seguente, fino al paesino di Buronzo perché doveva scrivere un

articolo sui “castelli condominiali” per una rivista di architettura, ma aveva prima bisogno di

respirare l’atmosfera dei luoghi che doveva descrivere e sentire le storie che quelle pietre

ricche di storia avevano da raccontare.

- Certo, disse Thomas,che ti accompagno! Almeno così posso mantenere la promessa di

portarti a mangiare la polenta concia ad Oropa che non è poi molto distante dal tuo

paesino!

La 500 esultò a quelle parole; avrebbe finalmente ricalcato le celebri strade percorse dal Conte

Felice Trossi!

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Gita tra castelli e ricordi

Era una tranquilla mattinata infrasettimanale quando Bianca fece uscire la 500 dal suo

confortevole ricovero posteggiandola nel giardino dove Segugio si stava dedicando ad

annusare fiori e ciuffi di erba verde.

Bianca stava caricando la sua ventiquattrore e la borsa con la sua macchina fotografica

quando arrivò Thomas vestito con un paio di pantaloni neri, una camicia bianca decorata con

grandi fiori multicolori ed un giubbotto di pelle appoggiato sul braccio. Il telefonino era

riposto nella sua custodia e saldamente appeso alla cintura, mentre in una mano teneva la sua

macchina fotografica digitale comprata in Giappone durante un suo viaggio di lavoro.

- Allora andiamo con la tua? – Chiese Thomas.

- Certo, non potrei mai tradirla con la tua Strada! – rispose Bianca.

Salutato Segugio i due, saliti in auto, uscirono dal cancello e rapidi si diressero verso la

periferia della città. La 500 seguì ripide strade collinari, attraversò incroci e rotonde per poi

giungere al semaforo posto davanti alla chiesa dell’Annunziata, nota ai Torinesi come

Madonna del pilone. La tradizione locale racconta che nell’aprile 1644 la signora Mollar,

moglie del Provveditore della Casa Ducale, si era recata con la figlioletta al mulino per far

macinare un sacco di grano. Per distrazione, il mugnaio aveva dimenticato aperta una porta

che immetteva nella stanza degli ingranaggi del mulino; il rumore incuriosì la piccola che entrò

nella stanza, ma inavvertitamente scivolò tra gli ingranaggi e finì nel Po. La madre, disperata

ed impossibilitata ad intervenire per trarla in salvo, corse immediatamente verso un’antica

immagine della Madonna custodita all’interno di un pilone sito nei pressi del mulino per

chiedere il suo intervento. Improvvisamente comparve sul fiume una bianca signora che afferrò

la bimba e la consegnò ai pescatori che erano accorsi con le barche per soccorrerla. Venuta a

conoscenza dell’accaduto, Maria Cristina di Francia, la famosa Madama Reale, fece costruire

una chiesa dedicata all’Annunziata, che però i Torinesi ribattezzarono da subito “Madonna

del pilone”.

La 500 proseguì rapida lungo Corso Casale che a quell’ora era ancora trafficato. Giunse in

Corso Belgio e proseguì, costeggiando il fiume, in direzione del ponte diga che conduceva alla

famosa “curva delle 100 lire”, curva temuta dalla 500 perché dopo il lungo rettilineo da cui si

arrivava abbastanza veloci ci si immetteva in una curva in discesa che faceva compiere ai

veicoli un angolo di quasi 270°; ma la curva, purtroppo, non aveva un unico raggio di

curvatura, poiché questo, dispettosamente, variava a più riprese rendendo la curva molto

insidiosa.

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Il new jersey che divideva le due carreggiate, infatti, era costellato dai segni lasciati da incauti

automobilisti che si erano avventati sulla curva senza le necessarie cautele. Ma la 500,

condotta dalle abili mani di Bianca, la percorse senza troppi problemi, giusto con un leggero

sottosterzo a metà che Bianca contrastò giocando con il volante e l’acceleratore, mentre

Thomas stava osservando incuriosito la diga.

Proseguì dritto lungo la sponde dello Stura, uno dei tanti fiumi di Torino, fino alla grande

rotonda dove si affacciava uno strano camion arancione che mestamente osservava lo

scorrere del traffico. Era un Iveco ANW 330.30 a sei ruote motrici utilizzato per il progetto

Overland che dal 1995 percorre le strade accidentate del nostro pianeta esplorandone gli

angoli più remoti con camion appositamente attrezzati. La 500 notò nei grandi fari rettangolari

del muscoloso camion arancione la nostalgia dei luoghi lontani che aveva avuto modo di

vedere nel corso delle spedizioni. La 500 avrebbe voluto fermarsi per sentire i suoi racconti,

condividerne paure ed emozioni, ma, fagocitata dal traffico, era già in vista dell’imbocco della

tangenziale.

Ebbe il tempo di veder scomparire nella lunga galleria un tram della serie 6000, quella

preferita da Niccolò, e poi si trovò faccia a faccia con una sfinge. Già, una sfinge a Torino, che

ricordava ai distratti passanti che la città ospita il secondo più importante museo di antichità

egizie al mondo dopo quello del Cairo. Infatti, lo stesso Champollion, noto per aver decifrato la

stele di Rosetta e quindi aperto agli studiosi la conoscenza dei geroglifici egizi, era solito

affermare che “la strada per Melfi e Tebe passa da Torino”. La collezione venne acquistata dal

Re Carlo Felice nel 1824 da Bernardino Drovetti, piemontese e Console generale di Francia

durante l’occupazione d’Egitto, ricca di circa 8000 pezzi tra statue, sarcofagi, mummie e papiri,

amuleti e monili vari e collocata all’interno del Palazzo dell’Accademia della Scienze, edificio

realizzato su progetto del Guarini nel 1679 ed inizialmente destinato ad ospitare il Collegio dei

Nobili, cioè un collegio per i giovani rampolli dell’aristocrazia piemontese fino al 1784 quando

per volere del re Vittorio Amedeo III divenne sede ufficiale dell’Accademia.

La collezione venne arricchita successivamente con i circa 30000 reperti riportati alla luce da

Ernesto Schiaparelli, direttore del museo a fine Ottocento, durante i suoi scavi in Egitto. Tra i

più noti si possono citare la tomba di Kha e Merit, il “Canone reale” noto anche come “papiro

di Torino”, importante per gli storici perché è una delle principali fonti relative alla sequenza

dei faraoni egizi. La 500 guardò perplessa la sfinge, statua raffigurante il corpo di un leone

con una testa umana, che per gli Egizi era simbolo di protezione, mentre per i Greci era la

personificazione del castigo che la dea Era inviò sulla terra per punire la città di Tebe.

Secondo la mitologia greca, infatti, la sfinge, che una volta arrivata sulla terra si era sistemata

su di una rupe del monte Citerone, proponeva un indovinello a tutti i passanti che la

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incrociavano e se questi non fossero statiin grado di risolverlo venivano mangiati in un solo

boccone. L’indovinello consisteva nell’individuare l’animale che “al mattino cammina a quattro

zampe, a mezzogiorno su due ed alla sera su tre”. La soluzione fu trovata da Edipo che

individuò nell’uomo l’animale dell’indovinello. Infatti, l’uomo, appena nato, gattona su quattro

zampe, mentre in età adulta cammina su due gambe. Nella vecchiaia, invece, cammina

aiutandosi con un bastone e quindi viaggia su tre zampe! Sconfitta, la sfinge si gettò giù dal

dirupo. Con grande sollievo, la 500 lasciò la sfinge alle spalle e si lanciò veloce in autostrada

dove superò una lunga fila di lenti e pesanti camion.

La 500 viaggiava tranquilla lungo la carreggiata che si apriva tra case e capannoni; ad un

tratto vide nei suoi specchietti due lampi di luce che contornavano un lungo e spiovente muso

rosso ed affusolato. In pochi secondi il rosso maratoneta raggiunse ed affiancò la 500. Era un

elegante “Frecciarossa”, treno progettato per viaggiare a 300 km/h e che collega in meno di un

ora Torino con Milano. La 500 si incantò vedendo la sua linea filante, creata dalla sapiente

matita di Pininfarina, che ben nascondeva il suo peso; viaggiavano appaiati ad una velocità di

circa 120 km/h. In discesa la 500 riusciva a distanziarlo un po’, ma poi in rettilineo il lungo

treno la riacciuffava immediatamente!

L’elegante auto si ricordava ancora di quel viaggio con Niccolò; il bimbo aveva la faccia

appoggiata al finestrino e lo sguardo fisso sui binari alla ricerca di quell’oggetto rosso che era

in cima ai suoi pensieri. E che grida di stupore quando il piccolo lo vedeva arrivare da lontano

e con faccino triste lo salutava mentre velocissimo si allontanava. Cosa che stava succedendo

adesso; il Frecciarossa accelerò lungo i suoi binari distanziando in un attimo la 500 che riuscì

a vedere solo i due fanali rossi del locomotore di coda allontanarsi sempre più in fretta. La

gara era terminata con una schiacciante vittoria del lungo serpente metallico!

Già, ma perché l’ultima carrozze dei treni ha sempre due fanali rossi accesi?

La risposta alla curiosità di Niki era stata data da suo papà Gabriele; agli albori della storia

ferroviaria non era raro che un treno, per varie ragioni, perdesse dei vagoni lungo il tragitto.

Ovviamente era solo il macchinista che conosceva il numero di vagoni che trainava la sua

potente locomotiva, ma questo non poteva scendere ad ogni stazione a controllare se tutti i

vagoni erano arrivati a destinazione. Allora per facilitare il compito ai capi stazione ed agli

altri addetti, si era deciso di installare sull’ultimo vagone del lungo convoglio due lanterne

rosse; una loro assenza sarebbe stata subito notata e quindi gli addetti al controllo avrebbero

potuto immediatamente capire che il convoglio era arrivato incompleto alla stazione facendo

scattare immediatamente i soccorsi per recuperare i “pezzi” mancanti.

La 500 raggiunta la barriera di Rondissone scivolò svelta sulla sinistra dove come un felino

attraversò lo stretto passaggio dedicato alle auto dotate di telepass, un sistema di pagamento

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automatico del pedaggio. Superato l’ostacolo, diede sfogo al suo gentil furore e ritornò a

trotterellare allegramente lungo le monotone corsie autostradali. Superata un’affollata area di

servizio alla sua destra, si palesò davanti a i suoi fari un imponente ponte ad archi tutto

verniciato con un blu brillante sotto cui scorreva placida la Dora. Questo ponte, a detta di

Thomas, era il ponte ad archi più lungo d’Europa con i suoi 150 metri. Ma la 500, dopo aver

dato una rapida occhiata all’imponente manufatto, si concentrò sulla salita che l’aspettava,

mentre dai suoi specchietti vedeva la sua sagoma rimpicciolirsi fino a scomparire dalla sua

vista. Continuando nella sua galoppata, la 500 osservava alla sua sinistra il lungo ed

imponente balcone verde che divideva la pianura dalle pendice delle alpi che si stagliavano

lontane sullo sfondo del paesaggio. Era la “serra d’Ivrea”, la più grande formazione morenica

d’Europa con i suoi 25 chilometri di lunghezza che collegano la zona del Canavese con il

Biellese. E’ formata da un cumulo di pietre e materiali vari portati in pianura dai ghiacciai che

nel Pleistocene, periodo storico in cui sulla terra erano presenti gli homo habilis ed erectus,

antenati degli attuali uomini moderni, si estendevano dalla Val d’Aosta fino alla pianura

piemontese. Una volta sciolti i ghiacci, sul terreno rimasero solo più i detriti che originarono

quindi questo terrazzamento. Ma la Serra custodisce anche un luogo “magico”, le celebri “terre

ballerine”. Queste terre si trovano in prossimità del bosco del lago Pistono e devono il loro

nome al fatto che il terreno è così elastico che facendo un piccolo balzo si rimbalza come se si

stesse saltando su di un materasso. Il fenomeno, però, non ha origini fantastiche o spiegazioni

improbabili; il bosco, infatti, sorge su di una torbiera, cioè un ambiente naturale caratterizzato

da una grande abbondanza di acqua in movimento lento ed a bassa temperatura in cui si

sviluppano piante erbacee tipiche dei climi umidi e muschi in gran quantità. Nel corso del

tempo grandi quantità di vegetazione e di materiale organico sono finiti in acqua

decomponendosi e dando origine alla torba, un materiale simile al carbone, ma di scarso

valore commerciale. A fine Ottocento, un industriale della zona, Francoise Mongenet, scavò il

terreno per prelevare la torba necessaria per alimentare i forni dei suoi impianti siderurgici; gli

spazi lasciati vuoti furono quindi riempiti dall’acqua piovana che quindi si sistemò sotto lo

strato di terreno rendendolo estremamente elastico e dando origine a questo “strano”

fenomeno naturale.

Adesso la 500 viaggiava tra due ali dorate; erano campi di riso che orgogliosi mostravano il

loro prezioso prodotto che stava maturando al caldo sole estivo.

Ad un tratto, davanti a sé, la 500 vide delle grandi nuvole giallastre; guardò a destra ed a

sinistra con i suoi faretti, ma vide solo un grande trattore blu che stava percorrendo una

polverosa strada di campagna ai lati dell’autostrada. Quindi, credendo che la polvere fosse

causata dal passaggio del trattore, non se ne curò e proseguì tranquilla lungo la sua corsia.

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Ma poi alla sua destra vide un grosso camion rosso che trasportava ghiaia bloccare le sue

grandi ruote; un sottile fumo bianco, seguito da un forte stridio, usciva dalla sue nere e

polverose ruote. Istintivamente Bianca frenò, mentre la 500 teneva ben aperti i suoi fari per

cercare di capire cosa stesse succedendo. Vide sparsi sulla carreggiata pezzi e pezzettini di

plastica e vetro e grandi segni neri lasciati sul grigio asfalto; con perizia Bianca riuscì ad

evitare tutti i pezzi sparsi a caso sulla strada, mentre la 500 controllava dai suoi specchietti la

situazione alle sue spalle per assicurarsi che nessun altro veicolo potesse piombare in

velocità sulla sua elegante carrozzeria. Bianca si spostò quindi sulla corsia di destra dove le

nuvole di fumo si stavano diradando svelando quindi la causa di tutto quel trambusto. In

mezzo alla carreggiata la 500 vide una vettura sportiva con il frontale completamente distrutto

dall’impatto contro il guard-rail mentre nell’abitacolo un signore, bianco come la neve, si stava

riprendendo dallo spavento e stava cercando di capire come uscire da quella bruttissima

situazione. Per sua fortuna già alcune auto si erano fermate ed i guidatori si stavano

organizzando per correre in suo aiuto. Bianca e Thomas, verificato che non ci fossero altri

feriti, decisero di proseguire per la loro strada seguiti dagli altri automobilisti che erano via

via arrivati.

- Certo che in tanti anni che viaggio su quest’autostrada non mi era mai capitato di

assistere ad un incidente quasi in diretta! – disse un po’ perplesso Thomas.

- Allora dovevi venire proprio con me per provare nuove emozioni! – rispose sorridente

Bianca.

Dopo circa un quarto d’ora, la 500 finalmente arrivò al ponte che attraversa il torrente Cervo,

corso d’acqua che nasce nella Valle Cervo, passa vicino al Santuario d’Oropa e dopo aver

percorso ben 65 chilometri si getta nel fiume Sesia. Il torrente è apprezzato dai pescatori per la

numerosa presenza di cavedani, alborelle e trote fario, ma è forse più noto per i suoi “canyon

di sabbia”, depositi di sabbia rossastra molto compatta che il torrente piano piano scava

dando loro la forma dei più famosi canyon americani.

Ma Thomas , mentre dava queste brevi spiegazioni a Bianca, si ricordava della estati passate

dai nonni quando in bicicletta ed in compagnia degli amici si recava sulle sue sponde alberate

per vederlo scorrere tranquillo e luccicante!

Subito dopo il ponte, Bianca rallentò e seguì il lungo raccordo che tramite un alto ponte

verniciato di blu, condusse la 500 fino al casello, o barriera autostradale come la definisce il

Codice della Strada, di Balocco. Pagato il pedaggio, la 500 seguì la strada che l’avrebbe

portata a Buronzo, meta iniziale della gita.

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Di fronte ai suoi faretti curiosi, nascosto tra i verdi alberi, si palesò il castello di Balocco con il

suo alto maschio, che sembrava volesse giocare a nascondino, palesandosi e nascondendosi

aritmicamente tra le fruscianti fronde verdi!

Bianca svoltò al primo incrocio e fermò la 500 a lato della strada con due ruote sull’erba e non

troppo distanti dal bordo di un piccolo fossato dove stava scorrendo rumorosamente della

fresca e limpida acqua. La 500 era un po’ perplessa; poteva anche parcheggiarla un po’ più in

mezzo …

Poi entrambi scesero e Bianca recuperò dal baule la sua macchina fotografica con cui iniziò

ad immortalare l’antico maniero. Mentre scattava fotografie a ripetizione, chiese a Thomas,

visto che era di quelle parti, di raccontargli qualcosa di questo castello.

- Devi sapere, disse Thomas, che questo piccolo paesino sperduto nella campagna

vercellese e noto agli appassionati di motori solo perché un po’ più avanti si trova la

storica pista di collaudo dell’Alfa Romeo, era noto già in antichità. Infatti è citato nei

documenti del X secolo per la presenza della chiesa di San Michele di cui puoi vedere il

campanile che sbuca tra le torri del castello e dove ho fatto il chierichetto varie volte, e

anche perché fu teatro anche di violenti e sanguinosi scontri.

- Tu hai fatto il chierichetto? – chiese con stupore Bianca.

- Certo, ed ho anche servito messa al Vescovo di Vercelli!

- Non l’avrei mai detto!

- Ebbene sì, sono un uomo dai mille segreti! – disse ridendo Thomas.

- Bando alle ciancie! – esclamò Bianca che, nonostante la faccia stupita di Thomas,

proseguì nella sua descrizione. Il castello, quello originario, fu costruito nel XII secolo

dalla famiglia dei Gonfalonieri, così chiamati perché a Milano ricoprivano la carica di

Gonfaloniere della Chiesa, cioè avevano il compito di precedere con il gonfalone

l’Arcivescovo di Milano nella cerimonia in cui questo prendeva possesso della sua

diocesi. Come avevi giustamente detto, il paese fu al centro dei sanguinosi scontri che

contrapponevano i Savoia ai Visconti ed al Marchesi del Monferrato; infatti, nel 1401 il

castello originario fu distrutto dalle truppe del famoso condottiero Facino Cane, così

chiamato dalla contrazione del suo vero nome, Bonifacio. Questo condottiero era sia al

soldo dei Visconti che del Marchese del Monferrato che poi lo licenziò a causa della

sua ben nota crudeltà, tant’è che i suoi contemporanei lo chiamavano “Il terribile” o

“uomo sbalestrato di cervello”. Era però amato dai suoi che lo seguivano in ogni sua

impresa certi di ricevere la paga promessa. Il castello che vedi, fu ricostruito sulle

ceneri del precedente circa dieci anni dopo la sua distruzione dalla famiglia dei

Rovasenda che erano subentrati ai precedenti proprietari. Rispetto al precedente, però,

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il castello fu realizzato sul modello dei castelli di pianura, cioè con pianta quadrata con

quattro torri angolari ed un alto mastio al suo interno che doveva servire come estrema

difesa in caso le mura e le torri esterne avessero ceduto.

- Complimenti, vedo che hai studiato! – esclamò Thomas posandogli una mano sulla

spalla!

Risaliti in auto, Thomas propose a Bianca di seguire un altro itinerario per raggiungere

Buronzo.

- Ti faccio seguire l’itinerario che facevo sempre nei miei giri in bicicletta, evitando le

strade sterrate per non rovinare e soprattutto sporcare la tua “grigina”!

- Grigina? Ma vuoi offendere la mia bellissima macchina! – rispose in tono scherzoso

Bianca.

- Guarda che se lo ridici un’altra volta schiaccio questo pulsante e ti catapulto fuori

come la macchina KITT , la Shelby Mustang protagonista della serie televisiva

“Supercar”!

- Perché, tu guardavi Supercar? – chiese meravigliato Thomas.

- Certo, e guardavo anche Hazzard! Mi piaceva tanto il Generale Lee, la Dodge Charger

arancione con i suoi due enormi numeri 01 dipinti sulle fiancate e con la bandiera degli

Stati Confederati d’America disegnata sul tetto!

- Vedo che anche tu sei una donna dalle mille sorprese! – osservò Thomas.

La 500 era stupita del comportamento dei due; fino ad ora non avevano mai scherzato così

e la 500, con un po’ di gelosia, notava un certo feeling tra Bianca e Thomas.

Ma la gelosia si dissipò subito; una specie di bianco uovo su quattro ruote l’aveva superata

nella serie di curve che portavano alla Frazione di Bastia. La 500 era interdetta; l’aveva

vista arrivare dai sui specchietti e a prima vista le sembrava una 500 come lei, ma poi,

osservandola di lato notò la presenza di una porta in più e di una coda simile a quella della

Multipla di Cristina. Pensò di trovarsi di fronte ad un ibrido marziano o ad una vettura

camuffata da provare in pista; chissà la sua espressione se avesse saputo che quella

specie di marziano era in realtà un nuovo modello che sarebbe entrato in produzione da lì

a poco!

- Ma come mai si chiama Bastia questa frazione? – chiese curiosa Bianca.

- Perché al centro del piccolo paese è presente una “bastia”, cioè una casa fortificata

costruita probabilmente nel XIV secolo sui resti di una precedente fortificazione

provvisoria in legno. Pensa che questo ignoto centro agricolo ha dato i natali a Carlo

Buscaglia, calciatore centrocampista famoso ad inizio Novecento per esser stato uno

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dei primi giocatori non partenopei del Napoli e che concluse la sua carriera giocando

con la Juventus!

- Effettivamente non l’avrei mai immaginato, anche perché non sono una tifosa delle due

squadre!

Oltrepassato il bivio che conduceva alla frazione, la 500 proseguì in direzione della pista di

prova, ma Thomas chiese a Bianca di fermarsi in una sterrata strada sulla sinistra, proprio

a lato della recinzione della pista.

Poi chiese a Bianca di accompagnarlo a piedi lungo la strada. Scesero entrambi e si

avviarono lungo la stradina sconnessa e dissestata che potevano percorrere solo robusti

trattori. La 500 li osservava e grazie alla leggera brezza riusciva anche a cogliere le parole

dei loro discorsi.

- Ti ho fatta fermare qui, disse Thomas, perché volevo fare un viaggio nei miei ricordi.

Pensa che questa stradina l’ho percorsa tante volte in bicicletta con gli amici. Adesso si

ferma laggiù, mentre una volta proseguiva e si connetteva ad altre stradine che

circondavano la vecchia pista di prova dell’Alfa. Io da gagno andavo sempre vicino alle

reti per vedere le macchine che correvano lungo la pista, mentre mia nonna non mi

accompagnava e credo di non esser mai riuscito a farla avvicinare.

- E come mai? – domandò Bianca.

- Perché, almeno così mi aveva raccontato, un giorno stava lavorando in una risaia qui

vicino con della altre “mondine”, conosciute anche come “mondariso”, cioè lavoratrici

stagionali che arrivavano dall’Emilia e dal Veneto per lavorare nelle risaie, mentre dalla

pista arrivava il suono di una macchina che stava percorrendo veloce le curve asfaltate

del circuito di prova. Spinte dalla curiosità le mondine, tra cui mia nonna, si

avvicinarono alla recinzione quando, improvvisamente, la vettura in prova sbandò e tra

nuvole di fumo e lo stridio delle ruote sull’asfalto si fermò nell’erba ai lati del nastro di

asfalto. Il collaudatore, quindi, ritornò in pista e continuò il suo lavoro,mentre il gruppo

di signore scappò terrorizzato!

- Sai che non ti immagino proprio da bambino? – disse affettuosamente Bianca che nel

frattempo si era avvicinata a Thomas.

- Ero un bimbo normale che però si divertiva ad andare in bici con gli amici in mezzo al

fango. Pensa che un giorno, con Claudio, un ragazzo di Bastia, avevamo deciso di

andare in giro per queste stradine che erano piene di pozze di fango perché fino al

giorno prima era piovuto. Pedalavamo veloci ed entravamo allegri e decisi nelle pozze

facendo a gara a chi alzava più schizzi. Dopo due ore di “sano divertimento”, siamo

ritornati a casa. Mia nonna, vedendoci infangati fino alla punta dei capelli ci spedì alla

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fontanina che c’era al centro del cortile della sua casa e ci fece lavare le biciclette e

soprattutto noi in modo da renderci riconoscibili! Sembravano i mostri di fango che

ogni tanto si vedono nei cartoni animati dei bimbi! Salutato Claudio fui spedito

direttamente nella vasca da bagno per un lavaggio “forte” che cancellasse ogni traccia

dei nostri misfatti!

- Tu tutto infangato? Non ci credo nemmeno se ti vedessi in fotografia! – rise Bianca.

- Per fortuna non esistono prove! Comunque è un fatto storico realmente accaduto ed

esistono anche testimoni che lo possono confermare! – disse Thomas.

Poi presa Bianca per mano disse:

- Vieni con me che ti faccio fare il giro che facevo sempre con i miei nonni per controllare

lo stato degli argini delle risaie.

Bianca acconsentì, ma chiese il suo aiuto per scavalcare il fossato che separava la

stradina dalla risaia. Thomas strinse delicatamente le sue mani sui suoi fianchi e l’aiutò a

superare l’ostacolo. Giunti entrambi sulla riva si trovarono faccia a faccia ed i loro occhi si

incrociarono per un attimo che alla 500 sembrò lunghissimo.

- E come mai controllavate gli argini? – chiese Bianca che però non staccò gli occhi da

quelli di Thomas.

- Come sai, il riso cresce nell’acqua che è trattenuta nella risaia da questi piccoli argini di

terra su cui stiamo camminando. Questi cumuli di terra, però, sono anche il luogo

ideale per i topi e le talpe dove costruire i loro nidi. Quindi può capitare che qualche

argine, minato dalle tane di questi animali, ceda facendo uscire l’acqua presente e

lasciando all’asciutto la risaia. In questo caso i miei nonni, se il buco era piccolo, lo

riempivano con della terra prelevata in un punto dove l’argine era molto spesso,

altrimenti se il buco era molto esteso, riempivano dei sacchi con la terra, portata

preventivamente con una piccola ruspetta attaccata al trattore, che venivano poi calati

nel buco per chiuderlo. In ogni caso era un lavoraccio soprattutto se fatto sotto il sole

dei mesi estivi!

- Quindi se gli argini erano intatti si rientrava a casa? – chiese Bianca.

- No, poi bisognava controllare le paratie dei fossi che portano l’acqua alla risaia. Ogni

campo ha bisogno di una certa quantità di acqua che deve essere sempre garantita. Ma

nei periodi in cui c’è poca acqua, i contadini tendono a contendersela andando a

regolare abusivamente anche le serrande altrui! Quindi bisognava controllare che tutto

fosse in ordine oppure procedere a delle regolazioni, anche perché lo scopo è quello di

tenere umida la risaia e non di allagarla!

- Ma da dove arriva tutta quest’acqua? – chiese pensosa Bianca.

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- Dalle montagne. Pensa che l’intera rete di irrigazione del solo vercellese si estende per

circa 12000 chilometri come censito a metà Ottocento dalla commissione creata allo

scopo da Camillo Benso di Cavour in qualità di Ministro dell’Agricoltura per mappare

tutti i canali e le rogge della zona. Le prime fonti che parlano di canalizzazione della

zona risalgono addirittura al VI secolo quando il vescovo di Vercelli, Emiliano, per

ordine del re dei Goti Teodorico fece costruire il canale “Vercellina”, così chiamato

perché portava l’acqua del torrente Elvo fino alla città di Vercelli. Ma il vero sviluppo

dei canali si ebbe nel XIV secolo con la realizzazione della roggia marchionale di

Gattinara che prelevava l’acqua dal fiume Sesia e della roggia di Lenta. Pensa che i

canali di questa zona furono realizzatati nel 1333 con autorizzazione dell’imperatore

Corrado che consentì ai feudatari di Buronzo di deviare l’acqua del torrente Elvo per

rifornire le terre comprese tra i paesi di Balocco e di Villarboit. Un secolo più tardi

Amedeo VIII di Savoia, famoso antipapa con il nome di Felice V e fondatore

dell’Università di Torino, iniziò la costruzione di un canale navigabile che doveva

collegare Vercelli con Ivrea; il progetto fu interrotto e modificato più volte riducendo

l’ambizioso progetto ad un semplice canale di irrigazione.

- Ed il Canale Cavour a quando risale? – chiese Bianca.

- E’ molto più recente! Fu realizzato tra il 1863 ed il 1866 e fu intitolato ad uno dei suoi più

accesi sostenitori. Il canale inizia a Chivasso dove riceve le acque del Po e poi più ad

Est quelle della Dora Baltea, attraversa tutta la pianura vercellese e novarese per poi

gettarsi nel fiume Ticino nei pressi di Galliate e nel suo percorso passa sotto 101 ponti e

62 ponti-canale. Pensa che fu interamente realizzato in mattoni e pietra naturale

rendendolo di fatto un fiore all’occhiello dell’ingegneria idraulica italiana di quel

periodo!

Passeggiando sugli stretti argini con Thomas, che nei passaggi più impegnativi aiutava

Bianca a superarli, arrivarono fino ad un grande albero dove si fermarono.

- Vedi quel ponte laggiù? – domandò Thomas a Bianca.

- Si, sembra un cavalcavia autostradale.

- In realtà è un cavalcavia della pista “Alta velocità” del circuito sperimentale della FIAT.

Pensa che io l’ho visto costruire. Era il luglio di ventuno anni fa ed io ero qui per tenere

compagnia a mia nonna che era rimasta vedova. La sera ci trovavamo nella piazza del

paese con le nostre biciclette e poi tutti insieme andavamo a curiosare lo stato di

avanzamento dei lavori. Mi ricordo ancora l’avventura di una sera. Eravamo andati fino

a quel ponte che in realtà non c’era ancora. Eravamo scesi dalle biciclette e stavamo

guardando i colossali lavori di sbancamento. Pensa che l’anello dell’alta velocità si

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estende da qui fino al comune di Buronzo per una lunghezza totale di quasi 8

chilometri! Ad un certo punto vediamo spuntare nelle luci del tramonto due fari in

avvicinamento; erano i guardiani che stavano facendo il loro giro di controllo. Mi

ricordo che ci siamo guardati e poi alcuni sono scesi con le biciclette sulla spalla per

quelle pareti oblique che vedi laggiù! Però, dopo i primi passi, essendo la parete

abbastanza ripida, i temerari lasciarono rotolare giù le biciclette, mentre loro pian

pianino cercavano di raggiungere la strada sottostante. Io ed altri, invece, abbiamo

pedalato a più non posso in direzione delle luci prendendo poi in velocità un sentiero

laterale sparendo nell’oscurità! Pensa che pedalavamo così veloci da stare dietro al

motorino di un nostro amico che con il suo faro illuminava la strada!

Dal suo parcheggio provvisorio, la 500 poteva sentire le risate divertite di Bianca che la

brezza portava lontano.

- Quei due devono proprio divertirsi! – sentenziò gelosa la 500.

Finalmente i due “esploratori” tornarono indietro con grande sollievo della 500 che

scrutava nervosamente le loro scarpe per verificare che non ci fossero tracce di fango che

avrebbero potuto macchiare i suoi immacolati tappetini.

Fu a questo punto che successe una cosa incredibile, a cui la 500 non avrebbe mai

pensato; Bianca, arrivata vicino al tenero muso della sua compagna di avventura cedette le

chiavi a Thomas dicendo:

- Visto che tu conosci meglio di me la zona, guida tu la mia macchina, ma mi raccomando,

trattala bene!

Thomas si sedette al posto di giuda, regolò gli specchietti e si allacciò la cintura di

sicurezza seguita da Bianca. Poi mise il piede destro sull’acceleratore ed il sinistro sul

freno. Stava per avviare la vettura quando Bianca gli ricordò che la sua 500 era una vettura

con il cambio automatico e quindi priva del pedale della frizione. Solo allora Thomas si

accorse dell’errore e con un leggero imbarazzo disse a Bianca che non aveva mai guidato

una vettura con il cambio automatico. Si fece coraggio, appoggiò il piede sinistro sul

passaruota ec on il destro premette il pedale del freno; quindi avviò il motore tra lo

sconcerto della 500 che temeva per la sua incolumità. Thomas inserì la retromarcia e

goffamente riuscì a far raggiungere l’asfalto alla 500; selezionato la marcia D schiacciò con

delicatezza il pedale dell’acceleratore, ma Bianca notò che inconsciamente Thomas stava

alzando anche il piede sinistro dal passaruota, manovra abituale quando si guida una

vettura con il cambio manuale, ma non disse nulla per non mettere ancora più in difficoltà il

suo “provetto” autista!

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La 500 stava procedendo lungo una strada in discesa che costeggiava la recinzione della

pista; con i suoi faretti stava tenendo d’occhio la striscia di asfalto posta aòl di là della

recinzione per vedere se per caso ci fossero delle vetture impegnate nei collaudi, ma le sue

aspettative vennero presto deluse. Arrivò quindi ad un piccolo ponticello che immetteva

nella salita; di fronte a lei si aprì l’ingresso della pista; accanto alla guardiania erano

posteggiate alcune vetture, tra cui un’ambulanza ed un’Alfa rossa che sul cofano

posteriore aveva una strana appendice di plastica nera; la 500 non aveva mai visto una

vettura simile circolare per le strade. Pensò che si trattasse di un prototipo o di una vettura

sperimentale di qualche anno prima, visto che la carrozzeria era squadrata ed il muso non

rispecchiava gli standard stilistici attuali. Non immaginava lontanamente che quella che

stava osservando era l’ultima Alfa Romeo a trazione posteriore mai realizzata in grande

serie; era infatti un’Alfa 75 adibita al soccorso in pista. Superata la breve, ma ripida salita

la 500 vide sulla destra un grande piazzale asfaltato occupato quasi interamente da grandi

camion neri con lunghi rimorchi grigi su cui campeggiava la scritta IVECO. Di fronte allo

stupore di Bianca, Thomas le spiegò che questa pista che occupa una superficie di

5.500.00 di metri quadrati con varie piste di prova che si estendono per circa 70 chilometri

non era dedicata al collaudo delle sole autovetture, ma era stata sviluppata anche per il

collaudo dei camion e dei fuoristrada, mentre all’interno dell’area era stata mantenuta la

vecchia pista di collaudo dell’Alfa Romeo, lunga circa 5 chilometri, e realizzata in modo

tale da riproporre le curve più famose dei circuiti di Formula Uno. Con l’avvento della

nuova Proprietà, erano state realizzate l’anello ad alta velocità caratterizzato da curve

sopraelevate con pendenza del 30% ed il percorso “Alta Langa”, che estendendosi per 21

chilometri propone una strada pianeggiante ed un percorso collinare con salite anche del

14% che Thomas poteva osservare comodamente dalle finestre del bagno della casa delle

nonna.

- Pensa che questa pista è stata utilizzata anche per il collaudo delle Ferrari di Formula 1

e di innumerevoli vetture da corsa. Guarda laggiù dove c’è quel salice piangente; un

giorno mi ero fermato con la mia bicicletta arancione fosforescente nella stradina che

parte proprio di fronte al salice per guardare un’Alfa 155 DTM che stava girando in

pista quando ad un certo punto ho iniziato a prendere i tempi con il mio orologio. Dopo

qualche minuto, non so da dove, sono sbucate due Alfa nere che si sono fermate

davanti a me per vedere cosa stavo combinando. Accertato che ero innocuo,

proseguirono verso l’ingresso della pista, ma la 155 non ha più corso per un bel po’ di

tempo. Certo che già da piccolo ero un “teppistello”!

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Ma a quelle parole la 500 sussultò ed il suo motore cominciò a girare forte forte; avrebbe

tanto voluto provare l’emozione di solcare quelle piste dove vennero sviluppate vetture

leggendarie come le Alfa 33 Competizione, Montreal ed SZ.

Thomas, che ormai aveva preso confidenza con la vettura affrontò sicuro la lunga curva

che portava verso il comune di Buronzo. La percorse tutta a velocità costante e senza

muovere il volante sicuro che la 500 avrebbe seguito fedelmente la traiettoria impostata.

- Sai che un giorno che passavo di qui in bicicletta ho rischiato di cadere a causa di una

minilepre che mi ha attraversato la strada? Per fortuna sono riuscito a frenare ed a

schivarla!

- Minilepre? Cos’è, una lepre sportiva appositamente sviluppata per correre in pista? –

chiese con tono ironico Bianca.

- In realtà, il “Silvilago orientale”, come viene tecnicamente chiamato, è una specie di

coniglio dalla coda di cotone (silvilago) originario del Nord America ed introdotto in

Italia e Francia per fini venatori. Rispetto alle normali lepri ha occhi più grandi ed

orecchie più lunghe per consentirli una rapida individuazione dei pericoli. Inoltre, per

sfuggire ai predatori può correre ad una velocità di oltre 20 chilometri orari e compiere

balzi anche di 3 o 4 metri! Siccome predilige le aree ricche di cespugli si è diffuso

velocemente in queste zone ed ogni tanto si diverte ad attraversare all’improvviso la

strada!

Mancavano ormai solo poche centinaia di metri all’incrocio che immetteva sulla strada

principale quando la 500 scorse con i suoi fanali uno strano animale, con un corpo

slanciato, un breve collo ed una piccola testa, con ali corte ed arcuate ed una lunghissima

coda. Era un fagiano con i suoi piccoli pulcini che stavano attardandosi in mezzo alla

strada. Passeggiavano adagio e con circospezione lungo il tratto di strada che la 500 stava

raggiungendo velocemente; Thomas, intuito che non sarebbe riuscito a fermarsi in tempo

per evitare la famigliola, si posizionò in mezzo alla strada a cavallo della striscia bianca.

La fagiana visto il pericolo sollevò la coda, ritrasse il collo e si mise a correre verso i

campi circostanti abbandonando i suoi piccoli che impauriti si avvicinarono l’un l’altro e si

fermarono in mezzo alla strada. Thomas, con fare sicuro, guidò la 500 sopra di loro e poi

frenò per controllare se avessero subito danni. Con grande sollievo di Bianca e stupore

della 500, tutti i pulcini erano sani e salvi.

- Ma come hai fatto? – chiese Bianca a Thomas.

- Ho sfruttato le serate passate a guardare “Superquark” in televisione! – rispose serio

Thomas.

- Cosa vuoi dire? – chiese Bianca.

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- Ho intuito che i pulcini erano spaventati e quindi ho immaginato che si sarebbero stretti

l’un l’altro appiattendosi sull’asfalto come per nascondesi. Quindi sono passato loro

sopra senza frenare in modo da non ferirli con le parti basse del muso della 500.

Oramai sono abituato a queste manovre, perché le ho già messe in pratica tante volte e

solo una volta ho sbagliato, ma era un fagiano maschio che mi era sbucato davanti

all’improvviso!

Giunti all’incrocio, segnalato oltre che da un imperioso cartello che intimava ai viaggiatori

di fare uno “Stop”, dal rumore dell’acqua che stava scorrendo in una roggia lì vicino,

Thomas svoltò a sinistra per dirigersi verso il paese di Buronzo.

Dopo alcuni chilometri percorsi in compagnia delle leggere e flessibili piantine di riso e di

sporadici papaveri fieri del loro colore rosso vivo, finalmente giunsero nel paese. Thomas

rallentò e poi prese una via sconnessa sulla destra. La 500 traballava nel passare su quella

strada realizzata con ciottoli e si domandava come mai Thomas la stesse sottoponendo a

quella tortura e Bianca non intervenisse per soccorrerla, ma poi, svoltato a sinistra vide il

famoso “castello condominiale” e capì il perché di quella deviazione. Thomas girò attorno

ad un monumento trasandato sormontato da un’aquila in procinto di spiccare il volo e poi

si fermò proprio vicino al muro del castello.

Spento il motore i due scesero ed iniziarono a guardarsi intorno; non c’era anima viva a

parte i numerosi colombi che dall’alto dei loro nidi osservavano incuriositi i due visitatori

venuti da lontano. I due proseguirono a piedi lungo la strada in pietra in direzione della

chiesa dedicata a Sant’Abbondio. Fortunatamente avevano indossato entrambi comode

scarpe da ginnastica e quindi i loro piedi non soffrivano per la dura prova a cui erano

sottoposti. Osservarono il caseggiato alla loro sinistra e poi Bianca si fermò per scattare

alcune fotografie al balcone di legno abbellito con generosi vasi di gerani rossi, pianta

originaria dell’Asia Minore che deve il suo nome alla somiglianza della capsula del suo

seme al becco delle gru, uccelli caratterizzati dal lungo e sinuoso collo e dal lungo ed

appuntito becco. Una leggenda sull’origine di questa pianta racconta che una sera, al

termine di una faticosa giornata, il profeta Maometto avesse lavato il suo abito e l’avesse

messo ad asciugare su di una pianta di malva. I fiori, orgogliosi del privilegio a loro

concesso, arrossirono e da quel giorno non persero più il loro bel colore rosso.

Avanzarono ed alla loro destra si aprì un portone da cui osservarono la struttura interna

del complesso. Il portone era sormontato da tre eleganti merli, interrotti dal massiccio

edificio in mattoni rossi che terminava con una serie di finestre. Questo complesso sorge

su di una piccola altura sita nella piana dell’alto Vercellese proprio al centro della

Baraggia, territorio pianeggiante oggi riserva naturale. La particolarità del complesso

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risiede nel fatto che è un castello consortile, o ricetto signorile, formato da una serie di

fortificazioni e caseforti edificate dai vari rami della famiglia signorile dei Buronzo. Il

castello era già presente all’inizio del XI secolo ed apparteneva alla famiglia dei Guala di

Casalvolone, famiglia aristocratica che nel XII secolo si divise in tre rami dei quali i Signori

di Buronzo presero il sopravvento sugli altri due. Questa famiglia nel secolo successivo si

divise ulteriormente in sette colonnati corrispondenti ai diversi ceppi famigliari i quali,

però, decisero, in accordo al celebre motto “l’unione fa la forza”, di convivere nel castello

stabilendo regole di convivenza e di organizzazione volte ad evitare la divisione del loro

patrimonio. Tra il XIV ed il XV secolo il paese, e quindi il castello, fu travolto dai feroci e

sanguinosi scontri che videro contrapposti i Savoia ai Visconti di Milano ed al Marchese

del Monferrato; la pace arrivò solo a fine Quattrocento con il passaggio del Vercellese

sotto i Savoia. Deposte le armi, i Buronzo si dedicarono all’abbellimento del complesso

seguendo le correnti artistiche del Rinascimento prima e del Barocco poi. La

trasformazione da complesso difensivo a residenza di campagna si ebbe nel XVII secolo

con la realizzazione di importanti saloni decorati con eleganti e raffinati soffitti a

cassettoni e con la costruzione della chiesa di Sant’Abbondio che fu abbellita con una pala

realizzata dal Giovenone e nota come “Pala di Buronzo”, oggi inserita nella collezione

della Galleria Sabauda.

I due proseguirono poi verso la chiesa decorata con la sua semplice facciata scomparendo

dalla vista della 500 che era più preoccupata della presenza di innumerevoli colombi

appollaiati sui davanzali delle varie finestre che dall’assenza della sua adorata Bianca.

Bianca e Thomas iniziarono a scendere la lunga scalinata che portava alla piazza del

mercato; mentre percorrevano affiancati i gradini in pietra osservando la campagna

circostante che si perdeva all’orizzonte, Thomas raccontò a Bianca alcune leggende locali.

- Pensa, disse, che da queste parti, ma non so bene dove, scorre un fosso, oggi noto

come “Fos Alman”, chiamato dai locali anche “Fossatum Malum”, a cui le leggende

locali attribuiscono sinistre maledizioni poiché, così raccontano, durante la sua

realizzazione furono rinvenute delle tombe di epoca romana con ricchi tesori che però

portarono molta sfortuna e disgrazie ai loro possessori!

- Importanti tesori da queste parti? – chiese interessata Bianca.

- Ebbene si! Devi sapere che Buronzo vanta origini antiche che risalgono addirittura a

prima delle invasioni barbariche. Inoltre il territorio fu soggetto alla dominazione dei

Longobardi essendo Vercelli un loro ducato. L’origine del nome del paese, addirittura,

si perde nelle pieghe della memoria. Alcuni sostengono che si nato dalla fusione di due

parole, una di origine “barbarica”, il termine “blue” che significa appunto “villaggio”, ed

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una di origine latina “runchus” che significa “silvestre, boscoso”; quindi il paese si

chiamerebbe “Villaggio boscoso”. Altri studiosi, invece, pensano che derivi dalla parola

valdostana, “bourogne”, che indica un luogo boscoso.

- Sicuramente questa doveva essere una zona ricca di boschi, visto che i locali

insistevano su questa caratteristica! – osservò Bianca.

- Probabilmente! - le fece eco Thomas. In ogni caso, questo sperduto paesino di

campagna ha avuto l’onore di assistere alle imprese di personaggi come Federico

Barbarossa che percorse questi luoghi per contrastare le varie leghe dei Comuni che si

opponevano alla sua politica e di Fra’ Dolcino, personaggio citato addirittura da Dante

nella sua Commedia insieme a Maometto.

- Fra’ Dolcino? Chi era costui? – chiese Bianca prendendo a prestito una frase del Don

Abbondio di Manzoni.

- Era un frate che venne accusato di eresia per la sua feroce critica alla politica del papa

di allora, Bonifacio VIII, odiato da Dante per aver sostituito papa Celestino V reo a sua

volte, secondo il poeta, di aver fatto “per viltade il gran rifiuto”, che secondo il frate

utilizzava la sua posizione ed il suo potere per favorire ed arricchire la sua Famiglia. In

fuga da chi lo voleva catturare insieme alla compagna, Margherita Boninsegna, che i

contemporanei descrivono come una donna bellissima, una specie di “Femme fatal”, si

nascose da queste parti con i suoi seguaci. Predicava la povertà assoluta sostenendo

che “Gesù e gli Apostoli non avevano mai posseduto nulla” e predicava l’imminente

arrivo della fine del Mondo. Contro di lui ed i suoi seguaci nel 1306 il vescovo di

Vercelli Raniero degli Avogadro, con l’approvazione del nuovo Papa, credo fosse

Clemente V, indisse una vera e propria crociata. Alla fine, i seguaci del frate

asserragliati nelle loro fortificazioni sul monte Ribello furono sconfitti militarmente e

catturati. Ormai nelle mani del Vescovo, fu sottoposto con la compagna ad un processo

per eresia in cui entrambi vennero condannati al rogo. L’odio verso il frate era tale che

lo si obbligò ad assistere all’esecuzione della compagna; la tradizione racconta che il

frate consolò con parole dolcissime e piene di amore nei suoi confronti la sventurata

donna. In suo ricordo un isolotto di sabbia sul greto del torrente Cervo, che la

tradizione vuole sia il luogo dell’esecuzione porta ancora il suo nome. Il frate, invece, fu

giustiziato alcuni gironi dopo tra feroci torture che precedettero l’esecuzione pubblica

vera e propria.

- Una storia terribile! – osservò Bianca. E noi oggi non ci rendiamo conto della fortuna

che abbiamo! Possiamo esprimere una qualsiasi opinione, professare la nostra fede

senza paura!

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- Hai ragione, siamo stati fortunati a nascere oggi e non a quei tempi. Però è anche

grazie ai loro sacrifici che l’Umanità ha capito l’importanza del “diverso” perché

ognuno nel suo piccolo può portare il suo contributo per il miglioramento della

Società. Il vero male del Mondo e dei tempi attuali è la paura dello ”straniero” che nasce

dalla nostra pigrizia nel voler capire e conoscere anche gli altri o le altre culture e

tradizioni! Speriamo che i nostri figli siano in grado di abbattere questa barriera

mentale che già Federico II nella sua cara Sicilia era riuscito a ridurre tra il biasimo dei

benpensanti dell’epoca!

Dopo un momento di silenzio e di riflessione, Bianca chiese a Thomas altre notizie relative

al castello; in fin dei conti era lì, almeno ufficialmente, per scrivere un articolo sul castello,

anche se in realtà sapeva, in cuor suo, che era lì per passare un po’ di tempo con Thomas,

una persona che nascondeva in una corazza di freddo e duro ghiaccio un cuore ardente di

sentimenti e di dolcezza!

- Strano, osservò, che questo castello, come ogni castello che si rispetti, non abbia alcun

fantasma che si diverta a fare scherzi o a spaventare le persone!

- Che cosa vuoi dire? – chiese Thomas.

- Voglio dire che ogni castello, almeno a detta della gente del posto, ha sempre una

presenza, un fantasma che per vari motivi lo frequenta! Ad esempio, anche il castello di

Agliè, che è stato oggetto della mia tesi di laurea, ha un suo fantasma, anzi una sua

fantasma!

- Sarà mica Elisa di Rivombrosa? – osservò ironico Thomas.

- Ti piacerebbe vero? – rispose Bianca facendo riferimento alla bella attrice protagonista

della serie televisiva girata nel castello anni addietro.

- Ebbene no, mi spiace deluderti! - proseguì Bianca. E’ anzi una signora molto in carne.

A detta dei locali è lo spirito della principessa Vittoria di Savoia Soisson, moglie del

Duca di Hildburgausen che sposò contro il volere della Casa Savoia perché lo sposo

aveva circa vent’anni in meno della sposa!

- Dunque aveva un bel caratterino questa principessa! – esclamò Thomas.

- Beh, osservò Bianca, apparteneva allo stesso Casato del famoso condottiero Eugenio

di Savoia, generale dell’Esercito Asburgico che fu tra gli artefici della liberazione di

Torino dal suo assedio ad opera dell’esercito francese di Luigi XIV. Pensa che a

vent’anni scappò dalla corte di Luigi perché non aveva voluto inserirlo nel suo esercito;

nonostante un invito perentorio del sovrano a rientrare a Parigi, “invito” a cui non si

poteva rispondere di no senza incorrere in feroci castighi, Eugenio offrì i suoi servigi

all’Imperatore Austriaco che conoscendo l’abilità nell’arte militare dei Savoia lo

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accolse nelle file del suo esercito in cui prestò servizio praticamente fino alla fine della

sua vita. Infatti la sua ultima battaglia la combattè all’età di 72 anni! Fu criticato e messo

in cattiva luce da molti, ma per tutti era il “Der edle ritter”, cioè “il nobile cavaliere”

oppure il “Roi des honneste gens”, ossia “il re degli onesti” per la sua serietà e

correttezza di comportamento. La principessa, inoltre, era imparentata anche con il

famoso Cardinale Mazzarino, succeduto all’altrettanto famoso Cardinale Richelieu nella

carica di Principale Ministro del Re di Francia Luigi XIII e poi di Luigi XIV.

- I famosi Cardinali che si opponevano ai leali moschettieri del re, almeno stando ai

racconti di Dumas che mi hanno accompagnato nella gioventù! – disse Thomas.

- Non mi dire che da ragazzino leggevi romanzi! – osservò divertita Bianca!

- Certo, io adoro Dumas! All’inizio avevo in odio i due Cardinali, ma poi crescendo e

leggendo anche saggi di storia che riguardavano quel periodo ho rivisto le mie

opinioni. Pensa che addirittura Mazzarino mi era diventato simpatico!

- E come mai? – chiese Bianca.

- Perché, non so dove, avevo letto un curioso aneddoto che lo riguardava. Raccontava

che Luigi XIV, ancora giovane e non interessato alla politica ed al governo della

Francia, fosse dedito a tradire la sua sposa con un numero impressionante di amanti

ufficiali, alcuni dicono addirittura cinquanta! Ovviamente Mazzarino non poteva

accettare una situazione simile, anche perché la sposa era l’infanta Maria Teresa di

Spagna e quindi bisognava evitare attriti con il potente suocero. Allora richiamò

all’ordine il giovane esuberante che fece finta di pentirsi. Anzi, invitò a pranzo il

Cardinale facendo cucinare per l’ospite il suo piatto preferito, delle pernici ripiene,

piccoli uccelli simili ai piccioni. Il Cardinale fu invitato anche nei giorni seguenti ed il re

presentò all’ospite sempre lo stesso piatto fino a quando il Cardinale esausto sbottò

dicendo che stava iniziando ad odiare questo piatto! Il re, ironico rispose “Cardinal,

vous avez tujours perdrix et moi tujours reine” che potrebbe suonare come « Cardinale

voi avete tutti i giorni pernici ed io la regina”.

- E come andò a finire? – chiese Bianca.

- Il libro non lo diceva, rispose Thomas, ma credo che Luigi tornò a dedicarsi

tranquillamente al suo precedente passatempo! Ma senti, com’era la tua principessa di

Agliè?

- Diciamo che i contemporanei la descrivevano come piccola, grassottella, occhietti neri,

vestita da vecchia francese della borghesia, con abiti molto semplici ed all’antica! La

cosa curiosa è che non soggiornò mai nel castello, anche se nella Sala della Musica si

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conserva un suo busto in cera che è talmente ben realizzato che viene spesso inviato in

giro per l’Italia come ospite in varie mostre.

- Ma scusa, osservò Thomas, se non è mai stata ad Agliè perché è conservato un suo

busto?

- Perché ebbe la fortuna di ereditare i beni di Eugenio di Savoia che morì senza

discendenti diretti. Però molti dei suoi beni li perse con la separazione dal marito ed

alla sua morte, non avendo discendenti diretti, i beni rimasti furono ereditati dal Duca

del Chiablese, proprietario del castello, che per riconoscenza fece eseguire il busto.

- Non sembra così terribile però il tuo fantasma!

- Non direi proprio! Si racconta che nelle notti senza luna lo spirito di questa

principessa, che non si riprese più dalla separazione dal marito, si aggiri per i vari

saloni del castello emettendo macabri sospiri ed inquietanti fruscii. Inoltre viene

ritenuta responsabile delle frequenti rotture dei vetri di alcune stanze del torrione

destro del castello.

- Beh, vorrà dire che eviterò di vistare il castello nelle notti senza luna! – sentenziò

Thomas.

- Quindi mi lasceresti da sola nelle vuote stanze del castello in balia della principessa? –

chiese Bianca con fare indagatorio, osservando la sua reazione con le mani appoggiate

ai fianchi.

- Giammai, esclamò Thomas colpito dai fianchi di Bianca che venivano evidenziati dai

birichini raggi solari che la illuminavano dalle spalle! Sono un cavaliere ed ho il dovere

di difendere le giovani ed indifese fate, pardon, principesse!

Bianca rise e tirò una forte pacca sulla spalla di Thomas.

- Caro il mio cavaliere impavido, indifeso sarai tu! – rispose.

- Ma senti, non mi hai ancora detto se il tuo castello ha un fantasma oppure, essendo

condominiale, se ne ha molti che si ritrovano almeno una volta all’anno per partecipare

all’assemblea condominiale!

- Non oso immaginare un’assemblea condominiale di fantasmi! Comunque l’unica cosa

che so è che le voci di paese parlano di voragini, caditoie e pozzi nascosti da finti

pavimenti presenti nei sotterranei del castello dove venivano fatti precipitare i nemici

che poi venivano lasciati morire di fame e di sete. Chissà, magari gli spiriti di questi

sfortunati vagano di notte come Shaggy e Scooby Doo alla ricerca di fornitissime

cucine o di tavole imbandite con succulenti piatti!

- Però non è carino scherzare su queste cose! – osservò Bianca.

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- Hai ragione, ma non mi risulta che siano mai stati trovati corpi o scheletri nei

sotterranei del castello. Mi sa che sono tutte storie inventate per rendere speciale il

castello. L’unico fatto certo, perché citato nei documenti del tempo, è l’assassinio

avvenuto nel 1622 della moglie di un membro della famiglia da parte del marito per poter

convivere con la giovane cameriera. I due amanti, scoperti, furono condannati e non

poterono trascorrere il resto della loro vita come avevano programmato.

Adesso i due erano giunti ai piedi della scalinata: Thomas fece avanzare Bianca fino al

centro della piazza del mercato e poi la invitò a voltarsi per vedere quella che Thomas

riteneva la più bella prospettiva del castello. Davanti ai loro occhi, appollaiati sull’altura, si

ergevano fieri i due corpi laterali in mattoni collegati tra loro da un terzo massiccio corpo

ingentilito da varie finestre e da un colonnato che cela al suo interno un porticato.

Sicuramente la parte più elegante, a detta di Bianca, era l’avancorpo di destra con la sua

antica finestra ad arco evidenziata da vivaci mattoni rossi e con un delicato ricamo di

mattoni a metà altezza.

Bianca immortalò gli scorci interessanti del castello, ma senza farsi notare scattò varie

fotografie anche a Thomas che senza darlo a vedere sentiva la malinconia dei ricordi dei

bei momenti passati in quei luoghi dove la preoccupazione più grande era

un’interrogazione o un compito in classe!

Terminato il servizio fotografico di Bianca, Thomas le propose di fare una passeggiata per

scoprire il paese; si avviarono lungo la trafficata strada dove trattori polverosi si

mescolavano a biciclette appoggiate al muro. Thomas si avvicinò quindi ad una anonima

fontana per bere la lucente acqua che usciva impetuosa dal piccolo rubinetto

perennemente aperto. Anche Bianca si avvicinò alla fontana per gustare la fresca bevanda,

ma dopo il primo sorso si allontanò disgustata.

- Ma che gustaccio ha quest’acqua! Sa di zolfo! – esclamò.

- Infatti, è una fonte di acqua sulfurea, considerata un vero toccasana per le sue

proprietà benefiche per il fegato, la pressione sanguigna ed altre patologie!

- Si, va bene, però è acqua da “intenditori”, non da normali bevitori assetati!

Ripresero quindi il cammino dirigendosi verso il centro del paese, ma passando molto

vicini ai muri delle case per evitare di essere travolti dall’intenso traffico di veicoli che

Bianca trovò esagerato per un paesino così piccolo.

- Vedi questo negozio? – chiese Thomas. Qui veniva mio nonno a farsi tagliare i capelli,

mentre laggiù accompagnavo mia nonna dalla parrucchiera. Là, invece, andavamo a

prendere le sementi per l’orto.

- Perché, avevate anche un orto? – chiese Bianca

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- Pensa che mia nonna a novant’anni suonati aveva piantato più di cento piantine di

pomodoro nell’orto. Aveva anche fragole, lamponi, zucche, insalata ed altre verdure,

mentre mio padre aveva piantato non so quante viti di uva bianca ed americana, e poi

piante di fichi, susine, cachi,

- Uva americana? Non l’ho mai sentita. – disse Bianca

- Perché forse la conosci come “uva Fragola”. Viene chiamata anche Americana perché il

vitigno è originario del Nord America. Fu introdotta in Italia all’inizio dell’Ottocento

perché le viti originarie erano state attaccate da un parassita, a cui la vite americana

era immune, e che piano piano li faceva seccare. Dalle sue uve si produce il Fragolino,

un vino rosso frizzante, noto in Francia come Framboisier o Cassis ed in Inghilterra

come Foxi, così chiamato perché il suo gusto richiama il sapore di fragola.

Passarono quindi di fronte ad un bar dove alcuni vecchietti dalle mani grosse e rugose e

dalle facce che evidenziavano anni ed anni di lavoro sotto l’implacabile sole estivo

osservavano con un misto di diffidenza e di curiosità la coppia di stranieri passeggiare,

accompagnando i loro passi con brevi sorsi di bianchetto che tenevano avidamente in

mano. Chissà, magari li invidiavano perché ricordavano loro i tempi e gli amori ormai

passati; ma così và la vita, quest’eterna ruota che gira in modo sempre più frenetico, che

porta via anni ed emozioni e che non si sogna nemmeno di restituire ai legittimi proprietari.

Già nel Medio Evo si cercava una soluzione all’inevitabile avanzamento della vecchiaia

ricercando la fonte dell’eterna giovinezza, leggendaria sorgente che è simbolo di eterna

gioventù che si credeva scaturisse addirittura dal Giardino dell’Eden da dove erano stati

cacciati Eva ed Adamo a causa della disubbidienza a Dio. Ma ad oggi non risulta che

alcuno sia riuscito a trovare questa mistica fonte!

Proseguirono per la strada acciottolata che risaliva verso il castello passando dietro alla

chiesa di Sant’Abbondio dove incrociarono una simpatica vecchietta che calzava stivali di

plastica verdi, con un vestito che evidenziava apertamente i suoi anni e con un simpatico

grembiule legato in vita ed un foulard colorato sulla testa. In mano teneva un cestino in

vimini pieno di verdure; al vedere gli sconosciuti visitatori fece un grande sorriso e

pronunciò un gentile “Buondì”, a cui fecero eco Bianca e Thomas.

La 500 che si stava godendo l’ombra del castello fu felice di veder rientrare i due

esploratori.

La coppia salì in auto, con Thomas sempre alla guida, e, visto che ormai era si stava

avvicinando l’ora di pranzo, si diressero rapidi verso Oropa.

Thomas, anche se erano anni che non frequentava più quelle zone poiché da dopo la morte

della nonna sentiva un terribile vuoto quando passava per quelle zone, condusse sicuro la

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500 per i lunghi rettilinei che dalla pianura salivano verso Biella. In prossimità della città, il

paesaggio, prima dominato da estesi campi di riso, mutò ed ai campi si sostituirono

capannoni e poi negozi che terminavano nella grande rotonda che segnalava l’arrivo nella

città della Lana, come veniva abitualmente chiamata Biella per il gran numero di lanifici che

ospitava. Thomas percorse il lungo viale alberato che portava alla stazione di Biella dove

sostavano annoiati alcuni trenini a gasolio in attesa dei pochi passeggeri che

percorrevano la linea ferroviaria Biella – Vercelli, e poi proseguì lungo una strada

realizzata in cubetti di porfido che facevano il solletico alle ruote della 500. Arrivati nel

centro di Biella, la 500, mentre aspettava di attraversare un’ennesima rotonda, si fermò ad

osservare alcuni bimbi che giocavano nel verde prato che ricordava un’oasi vegetale in

mezzo ad un deserto di grigi palazzi.

Thomas svoltò a sinistra ed al semaforo prese una via in salita sulla destra fermandosi

solo poco prima di un dosso rialzato per far passare una giovane mamma che spingeva

con una mano un passeggino su cui era seduta una bionda bimba e con l’altra stringeva la

manina di un bimbo che come un vigile faceva segno alle auto di fermarsi.

La 500 si guardò intorno con i suoi faretti quando vide alla sua sinistra uno strano trenino

che si arrampicava faticosamente lungo un ripido pendio. Era una vettura della storica

funicolare di Biella, impianto realizzato nel 1885 per collegare Biella con il quartiere del

Piazzo lungo un percorso di 175 metri ed un dislivello di sessanta. La cosa curiosa è che in

origine, prima dell’elettrificazione della linea, le vetture utilizzate per trasportare le persone

“funzionavano ad acqua” grazie ad un complesso meccanismo di contrappesi. In parole

semplici, la linea era formata da due vetture collegate tramite una fune metallica; quando

una vettura era alla stazione di valle, cioè a Biella, l’altra si trovava alla stazione di monte,

cioè a Piazzo. Ogni vettura aveva dei serbatoi che potevano contenere dell’acqua. Per far

funzionare il sistema, la stazione di Piazzo era dotata di una cisterna piena di acqua che

veniva usata per riempire i serbatoi della vettura che si trovava nella stazione di monte. Il

suo peso, dato dall’acqua contenuta nei serbatoi più il peso delle persone che trasportava,

facevano scendere la vettura verso Biella, mentre l’altra veniva trascinata, tramite la fune

metallica, verso la stazione di Piazzo. Una volta che la vettura che stava scendendo

raggiungeva la stazione di valle, veniva liberata del peso dell’acqua per ricominciare un

nuovo giro.

Tornata libera la strada, Thomas accelerò portando la 500 verso la sua meta; percorse una

ripida strada asfaltata ricca di curve ,da cui era possibile ammirare Biella dall’alto, fino ad

un incrocio che rappresentava per i pellegrini, l’inizio del loro percorso di fede. Questo

punto di partenza del cammino spirituale del pellegrino era segnalato da una simpatica

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fontana in pietra che raffigurava una piccola botte da cui sgorgava un argenteo rivolo di

fresca acqua.

La 500 voleva finalmente raggiungere la storica strada che aveva visto le gesta di famosi

piloti e storiche vetture, ma Bianca chiese a Thomas di fermarsi perché voleva scattare

alcune fotografie alla simpatica fontana. Risalita in auto, Thomas ripartì per affrontare i

circa quindici chilometri che li separavano dal santuario. La 500 era emozionata sapendo

di ripercorrere le strade solcate da potenti ed invidiate vetture che negli Anni Trenta si

erano date battaglia lungo questo serpentone di curve, tornanti e rettilinei nella corsa in

salita più famosa del tempo, la “Biella - Oropa”. Su queste strade corsero vetture come

Diatto, Fast, Ansaldo, Alfa Romeo, Lancia, Maserati, vetture che si erano contese la vittoria

in varie edizioni grazie ai loro intrepidi piloti che sfidavano muretti in pietra, alberi e

burroni come cavalieri durante un torneo. Basti pensare che nel 1921 vinse la competizione

una Diatto 3000 alla velocità media di circa 56 km/h, mentre già nel 1932 il Conte Trossi

vinse con una media di 72 km/h!

Ma Thomas procedeva con un’andatura tranquilla e rilassata, pennellando curve e tornanti

come un pittore che sta dando i suoi ultimi ritocchi ad un capolavoro, perché voleva che

Bianca si godesse lo spettacolo e potesse ammirare le varie cappelle che si affacciavano

sulla strada.

Dopo una ventina di minuti arrivarono a destinazione. La 500, raggiunta la cima dell’ultima

salita si ritrovò immersa in un anfiteatro di verdi alberi che circondavano un grande prato

verde in mezzo al quale era parcheggiata una bianca vettura tranviaria che si godeva i

caldi raggi di sole e respirava la leggera e fresca arietta montana. La vettura era l’ultimo

baluardo della memoria della famosa linea tranviaria “Biella – Oropa”, la linea più ardita

d’Italia.

Poi la 500 scorse una grande costruzione su cui campeggiava uno scenico portale con

colonne di pietra grigia sormontato, per un curioso gioco di prospettiva, dalla grande

cupola della Basilica Nuova.

Thomas parcheggiò la 500 nel lungo parcheggio alberato, proprio di fronte al santuario.

Spento il motore, i due passeggeri scesero per dirigersi verso il santuario; Bianca fece

alcuni passi e poi si fermò per contemplare il verde paesaggio impreziosito dal delicato

canto di vivaci uccellini che cinguettavano senza sosta nascosti nei verdi rami. Thomas,

invece, si avviò a passi svelti verso un’auto sportiva, verniciata di uno sgargiante blu

elettrico ed impreziosita con eleganti ed aggressivi cerchi il lega. La 500 con i suoi faretti

curiosi seguiva i movimenti di Thomas; osservò il paraurti della vettura che era occupato

da ben quattro fari rettangolari incorniciati tra due indicatori di direzione arancioni. Notò

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l’assenza dei fari che in realtà erano nascosti all’interno del cofano motore protetti da due

sportelli in lamiera. La linea tradiva l’età non più giovane della vettura, ma nell’insieme la

500 la trovava elegante; apprezzava, infatti, le auto che sapevano nascondere la loro

irruenza dentro linee eleganti e raffinate.

Bianca, convinta che Thomas fosse accanto a lei, espresse la sua ammirazione per il

paesaggio che la circondava. Non avendo ottenuto risposta, si voltò scoprendo solo allora

che Thomas era ad una decina di passi da lei intento ad esaminare quella vettura blu.

Allora lo raggiunse.

- Io stavo contemplando la natura e tu, invece, in questo ameno posto ti soffermi a

guardare un veicolo che avrà almeno vent’anni sulle spalle!

- Scusa, ma non ho saputo resistere. Hai proprio ragione, questa vettura è stata

realizzata all’inizio degli Anni Novanta, ma da ragazzo “ci sbavavo dietro”!

- Ma che auto è? Io non l’ho mai vista prima? – esclamò Bianca.

- E’ un’Alpine A610, costruita da una Casa francese, l’Alpine, famosa per le sue vetture

sportive che fu poi rilevata dalla Renault agli inizi degli Anni Settanta. Questa bellezza è

però nota solo ai pochi appassionati, mentre la maggioranza, forse, conosce solo la

A110, la più famosa tra le versioni realizzate, perché vinse alcuni Rally di Montecarlo ed

il titolo mondiale nel 1973 battendo vetture come Lancia, Porsche e Ford. Questa

versione, purtroppo, fu l’ultima prodotta. Infatti, la Renault viste le scarse vendite, solo

818 vetture, decise di chiudere la produzione relegando di fatto la Casa ad un Marchio

sportivo di elaborazione delle sue vetture di serie. Per me, comunque, rimane una

vettura bella ed elegante anche adesso, ad anni di distanza!

- Ma oltre che ad essere bella, è anche sportiva? – chiese Bianca.

La 500 rimase un po’ sorpresa dalla domanda di Bianca e cominciava ad essere gelosa

della sua rivale, anche se era molto più vecchia di lei!

- Monta un motore a sei cilindri a V con un angolo tra le bancate di 90°, una soluzione in

voga a quei tempi. Ha una potenza di circa 250 CV, che oggi sembrano pochi, ma che a

quei tempi potevano vantare solo vetture veramente sportive, in grado di farle

raggiungere una velocità di 265 km/h, un vero gioiellino in grado di farla competere con

le Porsche di quei tempi.

- Strano, ti appassioni di una vettura sportiva e poi compri una vettura rustica come la

tua Strada! – osservò Bianca

- Beh, non direi! Visto il lavoro che faccio, non la potrei sicuramente utilizzare; ti

immagini questa bomboniera percorrere strade sterrate, dissestate e piene zeppe di

chiodi ed altri detriti? Si rovinerebbe immediatamente e forse anche irreparabilmente!

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- Hai ragione, rispose. E poi alla tua età non saresti capace di uscire dal suo basso

abitacolo!

- Ma come sei simpatica!

Detto questo, Thomas corse in direzione di Bianca che scappò verso il santuario; ma

Thomas la raggiunse e la abbracciò esclamando:

- Presa! Allora sono così vecchio?

In quel momento le campane della Basilica Nuova batterono dodici rintocchi.

- Mi sa che ci conviene andare a fare pappa, o come dice Cristina ai bimbi “famotta”! –

disse Bianca.

- Credo proprio di si! Pensa che mia nonna diceva sempre, quando sentiva le campane

del paese suonare mezzodì, “beata cùl’ura che la raspa lavura!”

- E cioè? – chiese Bianca.

- Tradotta alla buona suona come “Beata quell’ora in cui la grattugia del formaggio

lavora” facendo riferimento al fatto che i buoni Piemontesi alle 12 in punto pranzano e

quindi al rintocco delle campane la brava massaia grattugia il parmigiano sulla pasta

fumante dei suoi affamati commensali!

- E già, i Piemontesi “sabaudi”, come diceva una nostra docente di Architettura! Pensa

che ci faceva sempre notare che solo i “sabaudi DOC” mettono avanti di cinque minuti le

lancette dell’orologio per non arrivare tardi agli appuntamenti, ovviamente per mettere

in soggezione i soliti ritardatari che entravano in aula per la lezione dopo l’orario

stabilito!

I due, ridendo, si avviarono quindi verso il portale che consentiva l’ingresso al complesso

alla ricerca di un ristorante dove assaggiare le specialità culinarie locali, lasciando

nuovamente solo la 500.

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Scontrino galeotto

Superato il cancello di ingresso, i due si ritrovarono nel grande cortile in salita, chiamato

anche atrio, caratterizzato dai suoi portici che nascondono negozietti e locali dove

sorseggiare in compagnia una fresca birra Menabrea.

Raggiunsero quindi la grande e scenografica scala in pietra opera dello Juvarra che

conduce alla “Porta Regia”, realizzata interamente in pietra scolpita grazie ai finanziamenti

del Cardinale Maurizio di Savoia, che immette nel grande colonnato dove i due visitatori si

fermarono per contemplare il panorama che si apriva ai loro occhi. Come era piccola la

500 vista da lassù!

Alla sinistra cartelli neri con scritte bianche indicavano la direzione per accedere al

Padiglione Reale, cioè agli alloggi dedicati ai membri di Casa Savoia che si recavano in

pellegrinaggio al santuario, mentre dalla parte opposta si trovano le stanzette dedicate alla

gente comune dove tante volte aveva alloggiato la nonna di Thomas in fuga dalla calura

estiva che soggiogava la piana vercellese.

Proseguirono poi in direzione della “Chiesa vecchia” come famigliarmente viene chiamata

la chiesa che conserva la statua della Madonna Nera; costeggiarono quindi la fontana del

“Burnell” da cui ciondolavano ingialliti mestoli utilizzati nel corso del tempo dai pellegrini

per dissetarsi. Bianca si fermò per scattare alcune fotografie e poi chiese a Thomas di bere

da una dei mestoli , immortalando la scena nella memoria digitale della sua macchina

fotografica. Quindi fu la volta di Thomas che propose a Bianca di assaggiare l’acqua che

sgorgava dalla fontana rassicurandola che non si trattava di acqua sulfurea. Mentre

scattava foto su foto rimase incantato dai riflessi dorati dei suoi capelli che sovrastavano

gli argentei lampi di luce che veniva riflessa dei rigagnoli di acqua che uscivano dalla

fontana. Il corpo elegante e sinuoso ricordava a Thomas una dea appena scesa

dall’Olimpo; sembrava la dea Artemide intenta a dissetarsi dopo una passeggiata

attraverso i boschi a lei cari.

Arrivarono quindi al cuore sacro del complesso, la Chiesa Antica, ma non poterono

accedervi poiché le porte erano già state chiuse. Continuarono quindi la salita per poi

entrare in un anonimo porticato in mattoni che conduceva il visitatore ad una nuova

scalinata in pietra che consentiva l’accesso al piazzale della Basilica Nuova che con il suo

aspetto severo e maestoso osservava i pochi visitatori e pellegrini che camminavano sul

grande piazzale.

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La coppia attraversò il piazzale in direzione di un edificio protetto da un pergolato verde;

aprirono una vecchia e un po’ malandata porta in legno ed entrarono un piccolo locale

quasi interamente occupato dal lungo bancone del bar. Chiesero di pranzare ed una gentile

cameriera dai lunghi e ricci capelli neri che scendevano sulla camicia bianca su cui era

stato ricamato il nome del locale. Premurosamnete li accompagnò nella sala da pranzo le

cui pareti erano interamente rivestite in caldo legno di ciliegio. Si avvicinarono quindi ad

un tavolo quadrato vicino ad una grande finestra e si sedettero su massicce sedie in legno

con la seduta in paglia. La cameriera liberò il tavolo dei coperti in più e posò sul tavolo

due menù e la lista vini. Il menù proposto comprendeva la famosa polenta concia oppure la

polenta con cinghiale, mentre come secondo si potevano scegliere vari tipi di selvaggina,

dal cinghiale al capriolo, al cervo oppure brasati ed arrosti. Il menù si concludeva con i

tipici dolci piemontesi.

Thomas, letto il menù, diede una rapida occhiata alla carta dei vini e poi propose a Bianca

di prendere una bottiglia di Ghemme, vino rosso dal profumo di violetta e di liquirizia, dal

gusto tannico e corposo, particolarmente adatto ai piatti a base di selvaggina o di formaggi

stagionati, prodotto nelle vicina provincia di Novara tra le località di Ghemme e di

Romagnano Sesia dalla combinazione dei vitigni di Nebbiolo e di Vespolina, uva così

chiamata perché a causa del suo elevato contenuto zuccherino attira facilmente le vespe.

Anche se poco noto, questo vino era già conosciuto al tempo dei Romani; infatti viene

menzionato su di una lapide scolpita al tempo dell’imperatore Tiberio e scoperta nei pressi

di Ghemme e viene descritto addirittura da Plinio il Vecchio che nei suoi scritti parla di un

vitigno “spionia” che aveva la caratteristica di maturare alle prime nebbie autunnali, come

il Nebbiolo.

Bianca ordinò un piatto di polenta concia, mentre Thomas chiese un piatto di brasato al

Barolo, cioè uno stufato di carne bovina di razza piemontese fatto cuocere per 8 – 10 ore

per rendere morbida una carne altrimenti poco tenera con l’aggiunta di spezie e di vino

Barolo.

Come dolce presero entrambi un “bonèt”, tipico dolce della cucina piemontese a base di

uova, zucchero, latte, amaretti sbriciolati ed un goccio di liquore, generalmente rum, ma,

come sottolineato con una punta di orgoglio dalla cameriera, nel loro caso al rum si

preferiva del cognac, un distillato di quattro uve bianche della zona francese del Cognac

prodotto a partire dal XVII secolo ad opera di alcuni commercianti di vino Olandesi.

Thomas lo chiese al cioccolato, mentre Bianca preferì quello tradizionale, chiamato “alla

Monferrina”. L’origine del nome di questo dolce è curiosa; “bonèt” in piemontese indica un

cappello o berretto tondeggiante di forma tronco-conica che richiama lo stampo utilizzato

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per realizzarlo e che i cuochi locali chiamano “bonèt ëd cusin”, cioè “cappello da cucina” o

“berretto del cuoco”.

A conclusione del lauto pasto, chiesero due caffè per onorare il celebre motto del nonno di

Bianca: “caldo come l’inferno, nero come l’inchiostro, dolce come l’amore”!

Insieme al caffè la cameriera portò anche il conto; Bianca e Thomas allungarono

contemporaneamente le loro mani sul galeotto scontrino. La sottile e delicata mano di

Bianca arrivò per prima, ma Thomas appoggiò delicatamente la sua su quella di Bianca. Un

brivido percorse il braccio di entrambi che si guardarono l’un l’altro perdendo il loro

sguardo negli occhi dell’altro.

Poi Thomas propose a Bianca di pagare lui il conto perché era sua ospite; Bianca si

sarebbe poi sdebitata con un successivo pranzo.

Pagato il dovuto uscirono dalla trattoria e per sgranchirsi le gambe e per smaltire l’enorme

quantità di calorie assunte decisero di tornare alla Chiesa Antica per andare a vedere la

famosa Madonna Nera. Trovarono le porte aperte ed entrarono nella piccola ed un po’ buia

chiesa che però offriva una dolce frescura. Dopo aver visitato l’antico sacello e recitato,

ognuno nel proprio raccoglimento, le personali preghiere e confidato alla tenera Madre

dell’Umanità i propri sogni e le proprie preoccupazioni, uscirono nuovamente nel cortile.

- Hai proprio ragione, disse Bianca a Thomas; in qualsiasi punto della chiesa ti trovi hai

sempre l’impressione che la statua della Madonna ti guardi con uno sguardo severo,

ma con sul viso il tenero sorriso di una mamma che si preoccupa dei suoi figli!

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Avventura ad alta quota

Visto che era ancora presto, Thomas propose a Bianca di fare una passeggiata sulle rive

del Lago del Mucrone utilizzando la funivia che dalla stazione posta proprio dietro la

Basilica Nuova porta in meno di dieci minuti nei pressi del lago a circa 1900 metri di quota

da dove è possibile ammirare l’arco alpino riflettersi nelle sue fresche e limpide acque.

Poco lontano da questo lago di origine glaciale è stata realizzata la Fontana del

Bersagliere dedicata al generare Alessandro Lamarmora, il fondatore del corpo con il

cappello piumato. L’idea di creare un corpo militare che potesse svolgere compiti di

esplorazione, primo contatto con l’avversario e di fiancheggiamento della Fanteria di prima

linea gli venne già nel 1831, ma fu solo nel 1835 che re Carlo Alberto ne approvò la

costituzione. Si racconta che il generale fece schierare l’unico battaglione autorizzato dal

re nel cortile di Palazzo Reale per salutare il sovrano che partiva per il castello di

Moncalieri. Partito il re con la sua carrozza, Lamarmora diede ordine ai suoi di correre

fino al castello di Moncalieri dove si rischierarono per salutare l’arrivo del sovrano. Il re,

vedendo un secondo battaglione schierato, si lamentò con Lamarmora dicendo che aveva

autorizzato la costituzione di un solo battaglione e non di due. Il generale, senza perdersi

d’animo, fece notare al re che quelli schierati erano gli stessi uomini che l’avevano salutato

a Torino, ottenendo così l’approvazione del sovrano.

Come per gli Alpini la piuma nera è il segno distintivo del Corpo, così per i Bersaglieri il

simbolo distintivo è il grande e rotondo cappello piumato che viene indossato di traverso

sul capo. La tradizione del Corpo racconta che Lamarmora presentò la divisa del corpo, da

lui stesso disegnata, al re facendola indossare al primo membro dei Bersaglieri, il sergente

dei Granatieri Giuseppe Varia. Questi si presentò davanti al sovrano vestito con la divisa,

ma senza cappello. Allora Lamarmola lò lanciò in sua direzione, ma il povero sergente,

avendo la mani occupate e non potendo posare quello che stava tenendo in mano, non potè

far altro che bloccarlo con il capo. Il cappello cadde sulla sua testa, ma piegato sulla

destra; Vaira cercò di raddrizzarlo, ma Lamarmola lo fermò dicendogli di lasciarlo in

quella posizione perché conferiva all’uniforme un’aria più sbarazzina. Da quel momento il

cappello, che prese il nome di vaira, rimase in quella posizione. La piume che lo ornano,

invece, hanno il duplice scopo di evidenziare la corsa del bersagliere incutendo timore

all’avversario e di disorientare il tiro nemico perché a causa dell’ondeggiare delle piume

non riesce a prendere un punto di riferimento sicuro a cui mirare.

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Si recarono quindi alla biglietteria dove acquistarono i biglietti e poi salirono sulla rossa

cabina; non c’erano posti per sedersi e Thomas fece sistemare Bianca nella parte

posteriore della cabina, quella che guardava contro il muro della stazione.

- Ma cosa ho fatto che mi metti in castigo? – chiese sorridendo Bianca.

- Fidati, rispose Thomas, perché da questa posizione, una volta partiti, si gode di

un’ottima panoramica!

Dopo qualche minuto l’addetto chiuse la porta della cabina che si mosse veloce e sicura

verso la sua destinazione. Videro quindi la cupola della Basilica Nuova diventare sempre

più piccola ed il santuario apparire sempre più lontano. La 500, sempre ferma nel suo

parcheggio, era ormai solo più un puntino lontano. Raggiunto lo sperone di roccia su cui

era abbarbicato un metallico pilone che come un novello Atlante reggeva le funi su cui

viaggiava la cabina, la cabina ondeggiò un po’. Bianca non prevedendo quell’oscillazione

si agitò, ma le grandi mani di Thomas si appoggiarono sulle sue ed immediatamente superò

la paura. La cabina proseguì la sua corsa sorvolando verdi prati dove tranquille mucche

stavano pascolando disinteressandosi di quello che stava accadendo intorno a loro.

Arrivati a destinazione, uscirono dalla stazione di monte e si incamminarono alla volta del

lago e della fontana. Percorsero le rive del lago dove alcuni pescatori si stavano sfidando

in una gara di pesca ed assonnati turisti stavano godendosi i caldi raggi solari sdraiati

sulla tenera erba, mentre alcuni bimbi stavano giocando con i loro cagnolini.

Quindi si avviarono in direzione della fontana del bersagliere; raggiuntala, Bianca rimase

in silenzio. Si aspettava un qualcosa di completamente differente da quella specie di

edicola che ricordava più una cappella di famiglia di un cimitero che una fontana!

Ritornarono quindi indietro seguendo la riva opposta del lago e raggiunsero la stazione di

partenza della cestinovia che a differenza delle seggiovie dove i passeggeri possono stare

seduti, in questo caso i viaggiatori devono restare in piedi all’interno di un cestello

metallico che ricorda le piattaforme utilizzate dai muratori per raggiungere i cornicioni dei

palazzi. Qui l’addetto ricordò loro che l’ultima corsa si effettuava alle ore 17,00; poi si

doveva scendere a piedi per stretti sentieri di montagna!

Si sistemarono nel cestino e Bianca osservò che, a parte il colore, ricordavano i vecchi

cestini metallici colorati in verde che da bambina vedeva quando andava a giocare nel

parco di Piazza d’Armi a Torino.

Il viaggio fu abbastanza scomodo poiché i cestini procedevano a scossoni; si avanzava un

po’ e poi ci si fermava. Thomas spiegò a Bianca che questo avanzamento a strattoni era

dovuto alla necessità di consentire alle persone di salire e scendere dai cestini in

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sicurezza. Sorvolarono lentamente piccoli prati erbosi e zone ricche di grigie e minacciose

guglie rocciose che sembravano voler afferrare i temerari viaggiatori.

Visto che il percorso passava sotto grandi pareti rocciose dove il sole non riusciva a

penetrare, i due decisero di rinfrancarsi, una volta raggiunta la destinazione, con una bella

tazza di calda cioccolata fumante, bevanda ottenuta, tramite raffinate e delicate lavorazioni,

dai semi della pianta del cacao, pianta che i Maya definivano “kakaw uhnal”, cioè “cibo

degli dei”.

Mentre si avviavano in direzione del bar, Bianca raccontò a Thomas una romantica

leggenda che riguardava la nascita della pianta di cacao.

- Pensa, disse, che una leggenda Azteca racconta che molto tempo fa una principessa

venne lasciata dal suo sposo, partito per la guerra, a guardia di un immenso e favoloso

tesoro. Quando arrivarono i nemici, la principessa, fedele alla promessa fatta al suo

giovane sposo, si rifiutò di svelar loro il luogo in cui era stato nascosto e per questo fu

uccisa. Ma dalle gocce del suo sangue nacquero tante piante di cacao i cui semi sono

amari come la sofferenza, ma anche forti ed eccitanti per ricordare il carattere e le virtù

di quella eroica principessa.

Thomas ascoltava attentamente il racconto di Bianca; la immaginò vestita come le

principesse Azteche, combattiva e dolce allo stesso tempo …

Poi fu risvegliato dal suo sogno da Bianca che lo invitava a sedersi ad un tavolino da cui

potevano osservare bianchi nuvoloni che stavano iniziando ad avvolgere le cime più alte

dei monti.

- Mi sa che ci conviene bere in fretta la cioccolata calda e poi tornare presto a valle per

evitare di fare una doccia fuori programma! – osservò Thomas.

- Concordo con te! Anche perché penso che il ritorno sarà lungo come l’andata …

I due stavano assaporando l’agognata tazza di cioccolata calda godendosi il calore dei

raggi solari che caparbiamente bucavano i minacciosi nuvoloni quando la loro attenzione

fu attirata da un buffo personaggio che stava discutendo di politica con il suo gruppo e,

forse a causa dei bicchieri di birra presenti sul tavolo, la discussione si stava scaldando.

- Peccato, osservò Bianca, che la pace e la tranquillità di questo posto sia rotta dai soliti

e banali discorsi di persone che non sanno apprezzare questo strabiliante spettacolo

naturale!

- E’ vero; però quel vecchietto mi fa venire in mente un simpatico personaggio che

frequentava le aule del Politecnico di Torino quando studiavo, tanti anni fa, ormai!

- Ma era uno studente che si era attardato, o meglio, perso sui libri? – chiese ironica

Bianca.

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- No, probabilmente era solo un po’ matto! Girava per i corridoi del Poli, come lo

chiamavamo famigliarmente, con una toga da avvocato posata sul braccio ed una

valigetta nera. Cercava un’aula dove non ci fossero lezioni in corso e poi prendeva

posto alla cattedra. Indossava la sua toga ed iniziava a parlare facendo discorsi

incomprensibili, senza capo né coda. All’arrivo del docente, interrompeva la sua

lezione, si sfilava la toga, salutava il docente e gli studenti presenti e poi usciva.

- Ed i docenti non dicevano nulla?

- No, perché non dava alcun fastidio. Anzi, alcuni lo salutavano pure o si fermavano a

chiacchierare un po’ con lui!

- E tu cosa facevi?

- O lo ascoltavo distrattamente o continuavo a chiacchierare con i compagni di corso.

Però era il mio portafortuna!

- Portafortuna? Ma gli ingegneri sono superstiziosi?

- Diciamo che io preferisco seguire ancora oggi i due motti che hanno guidato i miei

studi; uno è di Appio Claudio Cieco, famoso politico e letterato romano e costruttore

della famosa Via Appia, che secondo la leggenda divenne cieco, come indicato dal suo

soprannome, a causa dell’ira degli dei per la sua idea di unificare gli dei greci e romani

con quelli celtici e germanici e che era solito affermare che “fabrum esse suae quemque

fortunae”, cioè “ognuno è artefice del proprio destino”, mentre l’altro è di D’Annunzio

che interpretò la sigla MAS, che indicava una tipologia di motoscafi siluranti o

antisommergibile, come “Memento Audere Sempre”, cioè “Ricordati di osare sempre”. In

ogni caso, sarà come sarà, ma ogni volta che prima di sostenere un esame lo

incrociavo per i corridoi del Poli o assistevo ad un suo comizio in aula avevo la fortuna

non solo di superare l’esame, ma addirittura di prendere un votone!

- Che strano, la gente vi descrive come monotoni e “fatti con lo stampino”!

- Non direi proprio. Certo, alcuni rispecchiano fedelmente l’idea della gente, ma la

maggioranza no. Ti posso dire che alle volte le lezioni erano frequentate da tipi

alternativi che decidevano di sostituire alle noiose lezioni teoriche parentesi di comiche

esercitazioni pratiche.

- Cosa vuoi dire?

- Che soprattutto i primi anni le persone tendono ad affrontare con disinvoltura le

lezioni; solo con l’esperienza si rendono conto che anche in Facoltà vale il secondo

principio della Meccanica, quello che ti ricorda che ad ogni azione corrisponde una

reazione …

- Perché, cosa succedeva?

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- Alcuni spiritosoni si divertivano a testare durante le lezioni i loro prototipi di aerei di

carta; il docente osservava severo le loro esibizioni e poi sospendeva la lezione dando

per fatto il programma della giornata. Ovviamente la reazione si scopriva all’esame!

- Tu ovviamente non hai mai partecipato a questi “Air show”, vero?

- Non durante le lezioni. Un pomeriggio che avevo seguito delle noiose lezioni di non so

più che corso con un gruppo di aeronautici, che avevo precedentemente preso in giro

dicendo che solo i meccanici sapevano costruire aerei, fui invitato a dare

dimostrazione delle mie abilità progettuali. Presi quindi un loro modellino che aveva

dato risultati mediocri, lo rivoluzionai appesantendo la punta e verificando il suo

equilibrio; creai quindi delle piccole appendici sull’uscita delle ali e lo lanciai verso la

cattedra. Il piccolo aereo cartaceo percorse tutta l’aula ed andò a posarsi sulla cattedra

del docente, che era già uscito dall’aula, tra lo stupore del gruppo di amici che

pensavano di “prendermi in castagna”! Diciamo che ho avuto la fortuna di avere dalla

mia San Guglielmo!

- San Guglielmo?

- Certo, il patrono degli Ingegneri che ha voluto evitarmi una figuraccia!

- E qual è il patrono di noi poveri architetti? – chiese Bianca ironica.

- Credo sia …

- Non lo sai?

- Eh, dovrebbe essere … bah! Penso, … si, dovrebbe essere San …, San, …

A questo punto Bianca rise di gusto.

- Non è un san, ma una santa; Santa Barbara, la stessa dei pompieri e degli artiglieri!

Certo però, che voi vi divertivate solo con passatempi “tecnologici”!

- Ma anche fantascientifici! – esclamò Thomas che nel ricordare i suoi trascorsi da

studente era tornato ragazzino.

- Fantascientifici? Addirittura!

- Ti ricordi i film della serie “Guerre stellari” dove i cavalieri jedi, futuristici cavalieri

medioevali, combattevano i loro duelli con le spade laser? Ebbene, ad un esame che noi

chiamavano “cancelli automatici”, ma che in realtà si chiamava “controlli automatici”, il

docente utilizzava una penna laser per indicare le formule proiettate sullo schermo;

qualche novello cavaliere si era portato da casa un’altra penna laser e poi durante la

lezione ingaggiava un duello virtuale a cui il docente si sottrasse seccato

abbandonando l’aula … peccato però, che poi la vendetta degli jedi la pagarono anche i

normali e terrestri studenti!

- Anche tu?

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- No, perché quell’esame l’ho poi sostenuto anni dopo quando ormai era tornata la pace

nella galassia lontana!

Visto che si stavano avvicinando le cinque del pomeriggio, i due finirono di bere la scura e

densa bevanda e, pagato il conto, si avviarono verso la cestinovia.

Thomas chiese quindi a Bianca se anche le sue lezioni erano state così divertenti; ma

Bianca non aveva mai avuto modo di assistere a queste lezioni interattive! Gli episodi più

comici, in compenso, li aveva osservati grazie ai suoi due amati nipotini.

- Mi ricordo ancora di quel pomeriggio che ero a casa di mia sorella Cristina. Ero in

cucina con Niki, mentre mia sorella si stava preparando in camera da letto con il

piccolo Chry che le teneva compagnia. Io stavo chiacchierando con Niki quando ad un

tratto Chry ci raggiunge correndo ed urlando “Mamma rotta, mamma rotta!”. Un po’

preoccupata sono corsa in camera dove ho trovato Cristina intenta ad infilarsi degli

orecchini nei lobi delle orecchie. Chiesi subito a mia sorella cosa fosse successo e lei,

ridendo, mi disse che Chry aveva scambiato il suo beautycase con la scatola degli

attrezzi di Gabriele!

- E quindi credeva che la mamma si stesse riparando, anziché preparare per uscire!

- Ma la scena più comica l’ho vissuta con Niki. Come avrai notato alla sua festa di

compleanno, è un grande appassionato del Titanic e del suo naufragio. Non so quante

volte ha visto il film diretto da Cameron. Un giorno, guardando insieme un film in

televisione, ha riconosciuto l’attore che interpretava una delle due vedette che videro

troppo tardi l’iceberg. E subito ha iniziato a dire che non poteva essere, perché era

morto nel naufragio. Ho provato a spiegargli che quello che interpretava la vedetta e

che era affondato con il Titanic era un attore e che quindi, terminate le riprese del film,

aveva interpretato un nuovo personaggio in un nuovo film, esattamente come gli altri

attori. Non convinto, ho provato a spiegargli che gli attori non sono affondati veramente

e che le scene del naufragio erano state riprodotte in uno studio cinematografico.

- Ed alla fine ha capito?

- Macchè, mi ha gelato con un ragionamento a cui non puoi controbattere.

- E che cosa ti ha detto di così logico da non poter essere confutato?

- Mi ha detto: “Ma scusa, zia, se la vedetta era morta affondando con il Titanic e poi ha

fatto un altro film, allora vuol dire che è resuscitata come Gesù, ma Don Mario ci ha

sempre detto che solo Gesù lo poteva fare perché era figlio di Dio!”.

- Effettivamente di fronte ad un ragionamento di questo tipo!

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- Però la soluzione al problema l’ha trovata lui; ha concluso che l’unica cosa possibile è

che quell’attore assomigliava alla vedetta!

- Terribili i bambini! Riescono a trovare soluzioni semplici a cose che a noi sembrano

tanto contorte o complicate!

I due si erano fermati a parlare e non si erano resi conto che il tempo scorreva inesorabile;

furono quindi chiamati dall’addetto alla cestinovia che gli intimò di sbrigarsi se non

volevano scendere a piedi. Con passi lunghi e veloci si avviarono alla stazione e si

accomodarono nel loro cestino.

Iniziarono il loro viaggio di ritorno, ma dopo pochi istanti si trovarono fermi nel vuoto.

- Si vede che dovrà salire qualcun altro, sentenziò Thomas.

Bianca si voltò verso la stazione, ma non vide nessuno. Osservò però l’addetto che

telefonava avvisando il collega che stavano scendendo altre due persone.

Dopo qualche secondo la cestinovia si rimise in moto. I loro volti erano accarezzati da un

freddo venticello che ricordava loro che erano in quota e che i caldi raggi solari stavano

cedendo il campo ai tenui e freddi raggi lunari.

Sorvolarono un verde prato che stava diventando scuro a causa del tramonto quando il

cestino si fermò a mezz’aria ed iniziò ad oscillare. Bianca guardò preoccupata Thomas che

fece coraggio alla sua compagna, ma in cuor suo stava iniziando a pensare ad un

problema tecnico che stava affliggendo la linea. I due oscillavano nel vuoto come una

pendola.

- Cosa facciamo se rimaniamo appesi quassù?

- Niente. Siccome sono stati avvisati che stiamo rientrando, al massimo ci vengono a

recuperare.

- E come facciamo a scendere da questo cestino?

- Non lo so, perché non mi è mai capitato. Magari ci fanno scendere con delle scale o

delle funi.

Ma la linea si rimise nuovamente in moto per fermarsi definitivamente una cinquantina di

metri più avanti. I due si trovavano ai piedi di un costone roccioso che li nascondeva con la

sua ombra. Bianca iniziò a battere i piedi, perché non aveva addosso una giacca o un

maglione. Allora Thomas si sfilò il suo giubbotto in pelle e glielo appoggiò delicatamente

sulle spalle.

- Grazie, ma tu adesso hai freddo!

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- Stai tranquilla. Sono abituato al freddo ed all’umidità perché in cantiere passo molto

tempo all’aperto arrampicandomi su scale e ponteggi sotto la pioggia ed alle volte

anche la neve.

- E non patisci mai il freddo?

- Generalmente no; solo una volta, in un cantiere su in montagna, durante una nevicata,

credo fosse Febbraio, ho rinunciato ad accompagnare dei fornitori a vedere un lavoro

che dovevano eseguire perché avevo i piedi congelati ed il freddo mi era entrato dentro

le ossa. Ho detto loro di proseguire, mentre io li avrei aspettati al calduccio nella

baracca. Li ho tranquillizzati dicendo loro che se non fossero arrivati alla baracca

entro un’ora, sarei uscito per cercarli!

Visto che Bianca sentiva ancora freddo, la strinse tra le sue braccia rassicurandola che il

guasto sarebbe stato riparato in fretta, anche perché non potevano lasciarli lì tutta la notte

perché avrebbero dovuto offrir loro anche la cena!

Per non pensare al freddo ed al fatto che si trovavano all’interno di un cestino appeso ad

una fune metallica a circa dieci metri di altezza dondolante per le leggere raffiche di vento,

Bianca propose a Thomas di mandare un “mayday” alla stazione per ricordar loro che

c’erano ancora delle persone lungo la linea.

- Non credo che lo accetterebbero, un messaggio di questo tipo, ironizzò Thomas.

- E perché non dovrebbero accettarlo?

- Perché il “mayday” è l’equivalente del più noto SOS telegrafico ed indica una pressante

richiesta di soccorso poiché il mezzo ed i suoi occupanti sono in pericolo di vita. Nel

nostro caso siamo ancora lontani dal pericolo di congelamento e quindi lo

declasserebbero d’ufficio a quello che in aeronautica viene definito “PAN”, termine che

indica un problema tecnico che richiede un intervento urgente e rapido, ma non implica

rischi né per le persone a bordo né per il mezzo.

- Ma chi ha stabilito l’uso di questi termini? – chiese Bianca cercando di non pensare alla

situazione.

- In realtà la scelta non è nata a tavolino, ma a seguito della necessità degli addetti al

controllo della nascente aviazione di utilizzare frasi o termini semplici che però

definissero con precisione una situazione di pericolo o di difficoltà. L’uso di questi due

messaggi che definiscono due situazioni problematiche, ma con rischi differenti e con

procedure da seguire ben definite, fu introdotta nel 1923 nell’aeroporto londinese di

Croydon; siccome le rotte principali del nascente traffico aereo collegavano Parigi e

Londra, gli addetti al controllo dell’aeroporto inglese cercarono di sintetizzare alcune

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espressioni francesi “inglesizzandole”. In questo modo inventarono due termini nuovi

riconosciuti a livello mondiale. Infatti, il termine “mayday” è una sintesi dell’espressione

francese “venez m’aider”, cioè “venite ad aiutarmi”, mentre il termine “pan” è la

contrazione della parola francese “panne” che indica un’avaria meccanica che però

non richiede un soccorso urgente.

- Come fa un pilota a definire quale termine usare e che cosa cambia, come procedura,

quando un pilota usa i due termini?

- Pensa che questa domanda l’ho fatta ad un pilota fuori servizio che era seduto accanto

a me durante un mio viaggio di lavoro in Germania. Il nostro aereo era allineato alla

pista di decollo; come di consueto i motori vennero portati al massimo e l’aereo dopo

una leggera incertezza iniziò a muoversi acquistando velocità e correndo sempre più

veloce lungo la pista. Sinceramente odio questa fase del volo perché non mi piace

essere schiacciato contro i sedili; però trovo che il decollo sia la fase più interessante

di un volo perché mi piace “indovinare” il momento in cui l’aereo si stacca dal suolo.

Dalla mia esperienza di passeggero, infatti, ho notato che questo momento è preceduto

dall’irrigidimento delle ali; dura un attimo, ma lo scoprirlo e poi sentire

improvvisamente il tuo corpo schiacciato sulla seduta del sedile mentre l’aereo perde

ogni sicuro contatto con il suolo, mi da una certa adrenalina! Ma in quell’occasione

oltre al solito irrigidimento delle ali io ed altri passeggeri abbiamo sentito una gran

botta che ha fatto sussultare il velivolo e poi qualcuno ha avvertito che il motore dalla

parte opposta a dove ero seduto emetteva delle scintille. Il pilota accanto a me deve

aver intuito la mia preoccupazione dall’espressione del mio viso; allora mi ha

tranquillizzato dicendomi che era un pilota e che la botta che avevamo sentito

probabilmente era stata causata dalla rottura del motore di sinistra. Questa situazione

era una di quelle situazioni che i piloti provano ad ogni sessione di prove sul

simulatore di volo e quindi non c’era alcuna necessità di preoccuparsi. Abusando della

sua disponibilità, gli domandai allora che procedura seguivano i piloti in questo caso;

mi rispose che molto probabilmente i suoi colleghi avevano verificato il funzionamento

dei motori monitorando e confrontando i parametri indicati dai vari strumenti e poi

avrebbero iniziato la procedura di spegnimento eventualmente scaricando epr

sicurezza una o due bottiglie di schiumogeno in modo da arrestare ogni possibile

principio di incendio del motore. A questo punto avrebbero potuto dichiarare “pan,

pan, pan” in modo da consentire alla torre di controllo di bloccare ulteriori decolli o

atterraggi e dare priorità al rientro del nostro aereo. Situazioni di questo tipo sono

molto comuni e possono succedere anche più volte al giorno. Mi raccontò, infatti, che

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un giorno era quasi arrivato alla pista dove doveva atterrare quando gli fu ordinato un

“go around”, cioè una riattaccata per consentire ad un aereo in difficoltà di atterrare in

tranquillità e con i suoi tempi. “Credo, mi disse, che quell’aereo avesse il sospetto di

avere delle gomme “bucate” e quindi dichiarò sia l’emergenza che la richiesta di avere a

disposizione i mezzi di emergenza presenti in aeroporto”. Tutto, mi confidò, si concluse

serenamente e l’unica sua seccatura fu quella di dover ripetere tutte le procedure di

avvicinamento all’aeroporto.

Di fronte alla mia curiosità, mi propose un accordo ragionevole; mi avrebbe dato tutte

le spiegazioni che volevo, ma avrei dovuto offrirgli un buon boccale di birra tedesca

appena scesi dall’aereo. Probabilmente il mio pilota aveva già intuito che avremmo

dovuto sbarcare ed aspettare un aereo sostitutivo; infatti, ritornati all’aeroporto di

partenza, fummo invitati a scendere e ad attendere un nuovo aereo. La cosa,

ovviamente infastidì molti passeggeri che sicuramente avrebbero perso eventuali

coincidenze. Io, invece, ero contento perché avevo trovato un interessante passatempo

per ingannare il tempo. Ci avviammo quindi verso un bar dell’aeroporto e ci sedemmo

ad un tavolino su cui una corpulenta cameriera posò due bei boccali di dorata birra da

cui sbordavano vaporosi rivoli di bianca schiuma.

- Per fortuna siamo qui a goderci questo bel boccale! – esordì il mio vate.

- Perché? – chiesi curioso.

- Perché se i colleghi avessero dichiarato “mayday, mayday, mayday”, forse, invece di

gustarci questa fresca birra, avremmo avuto l’onore di testare delle flebo in un affollato

pronto soccorso.

- Nel senso che ci saremmo trovati in guai seri? – chiesi preoccupato.

- Certamente, avrebbe significato che il problema era talmente grave che eravamo

addirittura in pericolo di vita!

- Ma scusi, perché avrebbero dovuto ripetere il “mayday” per tre volte? Forse per la

concitazione del momento?

Il pilota, sorrise, ed affondò i suoi baffi nel boccale. Poi, guardandomi come si guarda un

bambino che, nella sua innocenza, fa domande assurde mi rispose che per regolamento

queste parole vanno ripetute tre volte seguite dal nominativo dell’aereo e da altre

informazioni ben definite.

- La concitazione del momento, continuò, non dovrebbe condizionare l’operato dei piloti;

infatti, anche l’equipaggio del Concorde che decollò da Parigi con un’ala in fiamme e

con solo due motori in funzione sui quattro installati seguì la procedura fino alla fine

senza mai farsi prendere dal panico. Noi piloti siamo addestrati per affrontare queste

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situazioni; diciamo che situazioni imbarazzanti come quelle occorse ad alcune navi da

crociera in cui l’equipaggio non sapeva cosa fare o come affrontare certe situazioni

sono eventi estremamente rari e quasi sempre imputabili a scarso addestramento.

- Ma che cosa cambia, come procedura, quando si decide di dichiarare “mayday” o

“pan”? – chiesi con avida curiosità.

- Sa qual è la cosa bella della mia professione? – mi domandò

- No, risposi.

- E’ che siamo considerati dalla gente comune degli eroi, moderni cavalieri in grado di

domare enormi e rumorosi draghi d’acciaio, di affrontare situazioni pericolose senza

timore o paura, detentori di antichi saperi e di antichi riti … Comunque, per rispondere

alla sua curiosità, le procedure nei due casi sono completamente differenti. Se un aereo

dichiara “mayday”, tutti gli aerei che stanno volando nelle sue vicinanze sono obbligati

ad interrompere immediatamente ogni comunicazione di ordinaria amministrazione con

la torre o il centro di controllo che sta cercando di aiutare l’equipaggio a risolvere i

suoi guai al fine di permettergli di concentrare tutte le sue risorse solo nella gestione

dell’emergenza. Inoltre, questi velivoli devono prepararsi ad affrontare repentine

variazioni di quota o di direzione per consentire all’aereo in difficoltà di mantenersi in

volo e di avvicinarsi velocemente al primo aeroporto disponibile saltando tutte le

normali procedure di avvicinamento.

- Quindi il “mayday” precede quasi sempre un incidente grave o uno schianto?

- Non è detto, non è così automatico. In molti casi, per fortuna, il “mayday” può regredire

in un “pan” se l’equipaggio è riuscito a risolvere l’emergenza o a riprendere il controllo

dell’aereo almeno per il tempo sufficiente a farlo atterrare. Un caso simile, non so se ne

ha mai sentito parlare, avvenne al volo British Airways 9 del 24 giugno 1982 operato

con un Boeing 747 decollato da Londra e diretto a Giacarta. Quando stava volando in

pieno Oceano Indiano a sud dell’isola di Giava ad una quota di 37000 piedi, cioè circa

11000 metri, entrò all’interno di una nube di cenere vulcanica emessa dal Monte

Galunggung, un vulcano distante circa 180 chilometri da Giacarta, in Indonesia.

All’interno della cabina passeggeri entrò subito del fumo, che era stato aspirato dai

quattro motori dell’aereo; dapprima fu scambiato per banale fumo di sigaretta, poi con

cavi elettrici che stavano bruciando. La situazione divenne critica quando il fumo

divenne denso e con un forte odore di zolfo ed i passeggeri cominciarono a

preoccuparsi. Quasi contemporaneamente uno dei quattro motori aumentò

repentinamente la sua velocità per poi spegnersi con una vistosa fiammata. I piloti

iniziarono quindi la procedura di spegnimento del motore in avaria quando in

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pochissimi secondi anche gli altri tre motori si spensero in sequenza. Ovviamente,

senza la spinta dei motori, il grosso e pesante aereo incominciò a scendere con un

rateo di discesa, come diciamo noi piloti, di 1 a 15, cioè di 1000 metri di quota ogni 15

chilometri di avanzamento; l’equipaggio dichiarò quindi “mayday” precisando che tutti

e quattro i motori erano spenti. La cosa comica, vista a posteriori, fu che il controllore

di volo, a causa delle scariche elettrostatiche presenti nella nube che ostacolavano le

comunicazioni radio, capì che solo il motore numero quattro era spento. Fu un aereo in

zona che ascoltò il messaggio che ritrasmise al controllore il contenuto esatto del

messaggio, fungendo quindi da “ponte radio”. Alla mia domanda relativa al fatto che il

pilota era contravvenuto al regolamento continuando a comunicare con la torre, il

pilota mi rispose che in realtà i regolamenti consentono ai piloti che ricevono il

messaggio di “mayday” di ritrasmetterlo alla torre di controllo con i dati dell’aereo in

difficoltà qualora la torre o l’ente di controllo avessero difficoltà a ricevere o capire il

messaggio. L’aereo quindi si trovava in pieno oceano e senza motori; i piloti decisero

quindi di raggiungere l’aeroporto dell’isola di Giava poiché era il più vicino, ma

dovevano fare attenzione alle alte montagne dell’isola. Stabilirono quindi di non

scendere durante la planata sotto gli 11500 piedi, cioè 3500 metri, per evitare di colpire

le montagne; in caso contrario sarebbero stati costretti a tentare un ammaraggio, cosa

mai avvenuta con un aereo così grande. Mentre di fatto l’aereo stava perdendo quota, i

piloti cercavano di riavviare i motori, ma ogni tentativo sembrava vano. Il capitano

Moody, non potendo continuare a tenere all’oscuro della situazione i passeggeri fece

un discorso che divenne celebre nell’ambiente aeronautico: “Signore e signori – disse -

questo è il vostro capitano che vi parla. Abbiamo un piccolo problema; tutti e quattro i

motori si sono fermati, ma stiamo facendo del nostro meglio per farli ripartire. Confido

che la situazione non sia troppo rischiosa”.

- Certo, affermai, che il capitano dimostrò un certo sangue freddo ed una certa ironia nel

non drammatizzare troppo la situazione!

- D’altra parte cosa avrebbe potuto dire? Fondamentale in queste situazioni è mantenere

calmi i passeggeri per evitare guai maggiori.

- Ma cosa pensa un pilota in queste situazioni? – domandai.

- Pensa solo ad eseguire le procedure per cui si è sempre preparato. Ad esempio, il

capitano del volo US Airways 1549, il celebre Chesley “Sully” Sullenberger, che subito

dopo il decollo dall’aeroporto La Guardia di New York incrociò uno stormo di oche

selvatiche che furono immediatamente risucchiate dai due motori dell’Airbus A320

causandone lo spegnimento e costringendolo ad ammarare nel fiume Hudson, aveva

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affermato durante un’intervista che l’unico pensiero che gli balenò in mente fu quello di

mettere in pratica tutto quello per cui si era esercitato nel corso degli anni. Alla

domanda se avesse pregato, rispose che non ne aveva avuto il tempo e che confidava

che già altre 150 persone lo stessero facendo!

- Ma alla fine, chiesi, il 747 con i motori spenti riuscì a raggiungere l’aeroporto?

- Dovette passare attraverso una serie interminabile di imprevisti. Infatti, senza i motori

in funzione, la pressurizzazione della cabina scese al di sotto dei valori minimi

consentiti causando quindi la fuoriuscita automatica delle maschere di ossigeno che

consentirono ai passeggeri di respirare in attesa che il velivolo raggiungesse una

quota di sicurezza dove le persone avrebbero potuto respirare normalmente. In cabina i

piloti indossarono le loro maschere, ma uno dei due piloti aveva il tubo della sua

maschera rotto e quindi il capitano gli cedette la sua. L’aereo fu quindi fatto scendere

velocemente alla quota di sicurezza di 13500 piedi, circa 4100 metri. A questa quota il

motore numero 4, il primo che si era spento, si riavviò seguito a breve dagli altri tre.

Quindi, come le avevo accennato, da una situazione di pericolo imminente si era passati

ad una situazione meno grave. Il capitano quindi fece riprendere quota all’aereo, che

però incappò nuovamente nella nuvola; a seguito del nuovo spegnimento di uno dei

motori, il capitano decise di scendere ad una quota inferiore e di continuare il viaggio

fino all’aeroporto di Giacarta a quella quota.

- Quindi tutto bene quel che finisce bene! – esclamai.

- Macchè. Durante l’avvicinamento all’aeroporto, i piloti si accorsero che le indicazioni di

alcuni strumenti erano inaffidabili e quindi decisero di procedere ad un atterraggio a

vista anziché strumentale. Chiesero però all’aeroporto di accendere le luci della pista

perché erano convinti che sopra la città incombesse una fitta nebbia. Solo a ridosso

della pista si accorsero che la cenere vulcanica aveva levigato il parabrezza dell’aereo

rendendolo quindi opaco. Il capitano non si perse d’animo; si accorse che il suo

finestrino laterale aveva una striscia di cinque centimetri che era stata risparmiata

dall’abrasione della polvere vulcanica e quindi decise di sfruttarla per eseguire la

manovra di atterraggio. Si sedette sul bracciolo del suo sedile ed allungando le mani

agì sulla cloche seguendo le indicazioni dei suoi copiloti che sfruttando le indicazioni

degli strumenti ancora funzionaneti crearono di fatto un perfetto sentiero di discesa

che consentì a Moody di effettuare un atterraggio da manuale. Ovviamente tutti i membri

dell’equipaggio ricevettero vari riconoscimenti tra cui la Queen’s commendation for

valuable service in the air. Pensi che il volo British Airways 9 entrò nel Guinness dei

Primati per la più lunga planata effettuata da un aereo di linea. Il primato venne infranto

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solo nell’agosto del 2001 dal volo Air Transat 236 che riuscì a far planare fino alle Isole

Azzorre un Airbus A330 dopo che nel bel mezzo dell’Oceano Atlantico era rimasto a

secco di carburante!

Bianca, che aveva ascoltato con attenzione il racconto appassionato ed emozionante di

Thomas e che si era completamente dimenticata della sua situazione precaria a dieci metri

dal suolo e con la fredda sera che stava incombendo, chiese a Thomas come aveva fatto un

aereo a rimanere senza carburante; avevano forse ignorato la spia rossa della riserva?

- Mi sa che devo barattare un’altra birra! – esclamò scherzoso.

- Se usciamo indenni da questa situazione te ne offro anche due!

- Beh, gli aerei non hanno la spia rossa della riserva come le auto, ma hanno degli

strumenti che indicano il consumo di carburante dei motori e forniscono informazioni

sui chili ancora a disposizione, perché in aeronautica si preferisce parlare di chili di

carburante anziché di litri come invece siamo abituati noi con le nostre auto. Diciamo

che i piloti non si erano accorti di avere una perdita nei serbatoi o nelle condotte dove

passava il carburante. Il volo era partito da Toronto diretto a Lisbona e trasportava

circa trecento persone ed aveva imbarcato quasi cinquanta tonnellate di cherosene,

quantità più che sufficiente per effettuare in sicurezza il volo. Ma dopo circa quattro ore

di volo i piloti ricevettero degli allarmi contrastanti relativi al funzionamento di uno dei

due motori; infatti non era possibile avere un allarme per temperatura alta dell’olio del

motore ed un allarme di bassa pressione del carburante. Quindi i due piloti pensarono

ad un’avaria di qualche sensore e comunicarono al loro centro di manutenzione di

provvedere ad un controllo della strumentazione una volta atterrati all’aeroporto di

destinazione. Mezz’ora dopo un altro allarme segnalava uno sbilanciamento della

quantità di carburante nei serbatoi alari; seguendo quindi la procedura e non

sospettando la presenza di una perdita, i due piloti iniziarono a travasare il cherosene

dal serbatoio più pieno a quello meno pieno fino ad ottenere nuovamente un corretto

bilanciamento dei serbatoi. Siccome la strumentazione di bordo continuava a fornire

allarmi contrastanti, i due piloti decisero di atterrare per precauzione nell’aeroporto

delle Isole Azzorre e come da procedura dichiararono emergenza per basso livello di

carburante. A circa 220 chilometri dall’aeroporto il motore di destra si spense; allora il

capitano spinse al massimo l’altro motore per ridurre la distanza e scese da 12000 a

10000 metri, quota operativa dell’aereo con un solo motore in funzione. Vista la

situazione critica, dichiararono “mayday” al centro di controllo; tre minuti dopo,

quando mancavano ancora 120 chilometri alla destinazione, anche il secondo motore si

spense. L’aereo a questo punto si trovava senza la possibilità di alimentare

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elettricamente i suoi sistemi vitali, ma per fortuna i moderni aerei sono dotati di un

generatore di emergenza chiamato RAM Air Turbine. In pratica è un ventilatore

collegato ad una pompa o ad un generatore che sfruttando il vento prodotto

dall’avanzamento dell’aereo nell’aria è in grado di fornire l’energia necessaria per

mantenere operativi i sistemi vitali di bordo. I piloti quindi avevano a disposizione la

strumentazione e la radio, i freni, ma non i circuiti idraulici di comando di alcune

superfici di volo, come gli spoiler ed i flap. Fecero poi il calcolo del tempo che avevano

a disposizione per la planata prima di dover tentare un ammaraggio e stabilirono che

era sufficiente per raggiungere l’aeroporto delle Isole Azzorre. Siccome però erano

ancora alti rispetto al sentiero di discesa, il capitano eseguì una serie di curve a 360°

sia per perdere quota che velocità per poi allinearsi alla pista di atterraggio. Però,

adesso, si presentava un nuovo problema; l’avvicinamento alla pista avveniva ad una

velocità molto più elevata di quella prevista. Nonostante fossero riusciti ad abbassare i

carrelli e gli slat, la velocità rimaneva troppo alta ed inoltre, non funzionando i motori,

non avrebbero nemmeno potuto utilizzare l’azione frenante dei reverse. L’aereo toccò la

pista con una velocità di circa 370 km/h, cioè ben 60 km/h più elevata di quella limite

fissata dal Costruttore dell’aereo, rimbalzò in aria per poi ricadere sulla pista. Dopo il

secondo contatto con il suolo, i piloti fecero forza sui freni riuscendo a frenare l’aereo

prima della fine della pista, ma bruciando ben otto delle dieci ruote!

- Diciamo che i piloti sono stati bravi, ma anche molto fortunati! Hanno ricevuto anche

loro dei riconoscimenti?

- No, sono stati licenziati poiché non avevano seguito le procedure che stabilivano che in

caso di sbilanciamento di carburante durante la traversata era necessario tornare

indietro verso l’aeroporto più vicino. Però il comandante dell’aereo venne premiato dai

colleghi come “miglior comandante dell’anno”!

Finalmente la cestinovia ripartì senza più fermarsi. Thomas allora tolse le braccia che

ancora stavano stringendo Bianca, quando lei gli chiese di non farlo perché aveva ancora

freddo! Thomas non se lo fece ripetere due volte; che emozione sentire i suoi capelli mossi

dal vento accarezzargli il viso. Se avesse dovuto fare il bilancio della gita, sicuramente ne

avrebbe dato un giudizio positivo! Sperava solo che Bianca la pensasse allo stesso modo!

In un baleno raggiunsero la stazione di valle dove due addetti vestiti con la loro divisa blu

si prodigarono per farli scendere da quella gabbia metallica che li aveva rapiti, ma che

Thomas ringraziava in cuor suo per avergli regalato emozioni uniche ed inaspettate. I due

addetti si scusarono con i due sfortunati viaggiatori spiegando loro che si era verificato un

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problema elettrico che aveva messo temporaneamente fuori servizio la linea. Alla domanda

di Bianca su come mai fosse possibile che un banale problema elettrico, come lo avevano

precedentemente definito i due addetti, creasse spiacevoli disguidi, i due si giustificarono

dicendo che ormai l’autorizzazione all’esercizio di questa cestinovia stava scadendo e

quindi il gestore, che non aveva alcuna intenzione di rinnovarla perché avrebbe dovuto

spendere molti soldi per ammodernarla, non faceva più fare manutenzione obbligando gli

addetti a veri e propri funambolismi per continuare a farla funzionare. Comunque

comunicarono a Bianca che se avesse voluto, avrebbe potuto presentare un reclamo alla

direzione. Ma Bianca preferì soprassedere, anche perché i due addetti non avevano alcuna

responsabilità.

- Mi sa, disse Thomas, che questo è stato il nostro ultimo viaggio in cestinovia!

- Perché dici così? – domandò preoccupata Bianca. Nonostante il disguido io mi sono

divertita un sacco!

Thomas era al settimo cielo; che meravigliosa giornata!

- Sono veramente contento che ti sia divertita. Mi riferivo al fatto che probabilmente il

gestore farà demolire la cestinovia privando i turisti di un comodo mezzo di trasporto

che permetteva di salire sul Mucrone senza disturbare gli animali e la natura

incontaminata del luogo.

Bianca e Thomas si avviarono quindi in direzione della funivia che doveva riportarli al

santuario; chissà cosa stava pensando la 500 che era parcheggiata dal mattino e che non

aveva più notizie della sua amata Bianca. In realtà la nostra 500, che inizialmente si sentiva

come un naufrago su di un’isola deserta, stava tranquillamente conversando con alcune

auto che, come lei, erano ferme nel parcheggio in attesa del ritorno dei loro proprietari.

Anzi, era talmente intenta ad ascoltare il racconto di una vecchia auto dorata che non si

era resa conto del tempo che passava. All’inizio la 500 non aveva dato peso a quella

squadrata vettura dorata parcheggiata al suo fianco; con gli specchietti aveva leggere il

suo nome, Ascona, applicato sul baule. Aveva due grandi e anonimi fari piatti delimitati da

fredde linee rette che facevano da cornice ad un’anonima mascherina in plastica nera su

cui campeggiava un cerchio argenteo attraversato da quella che alla 500 sembrava una

saetta, un fulmine. La giornata per la 500 trascorreva monotona, interrotta solo dal

passaggio di qualche veicolo o di qualche uccellino che si spostava da un ramo all’altro.

Ad un tratto la 500 notò volteggiare leggero nel limpido cielo un uccello marrone con

ampie ali arrotondate ed una corta coda su cui si congiungevano due zampe gialle. Questo

piccolo rapace volava in circolo senza battere le ali, ricordando alla 500 un argenteo

aliante, controllando dall’alto la situazione. Era la prima volta che la 500 assisteva ad un

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evento simile; in città non aveva mai avuto occasione di vedere uccelli volteggiare sicuri in

mezzo al cielo blu. Si poteva divertire solo guardando le frenetiche rondini esibirsi in virate

strette e spettacolari oppure osservare il goffo atterraggio di un pesante piccione.

Ad un certo punto, un agguerrito corvo, con il suo nero ed opaco piumaggio, raggiunse a

tutta velocità il pericoloso uccello marrone; iniziò ad inseguirlo e poi ad affiancarlo in

segno di sfida. Visto che il rapace non aveva alcune intenzione di cambiare rotta, come un

moderno caccia intercettore, il corvo cominciò a puntarlo ed ad infastidirlo via via

aumentando la velocità e progressione degli attacchi fino a quando, il bruno uccello decise

di battere le ali e di cambiare quota e rotta. Fiero dell’esito del duello, il corvo rientrò al

nido; anche per oggi i suoi piccoli erano al sicuro!

Alla 500, che aveva osservato attentamente la scena, vennero in mente le storie a fumetti

che Bianca leggeva ai suoi due nipotini; parlavano di un buffo cane bianco con una sciarpa

rossa che in cima ad una cuccia sfidava in spettacolari duelli aerei il Barone rosso,

soprannome dato al barone Manfred Von Richthofen, celebre asso tedesco accreditato di

ben 80 vittorie aeree e così chiamato dai suoi avversari perché era solito pilotare aerei

rigorosamente verniciati in rosso.

- Che strano, pensò ad alta voce la 500. Un piccolo corvo è riuscito a mettere in fuga un

bel falchetto!

- Scusa se ti contraddico, rispose l’Ascona, ma quello non era un falchetto, ma una

poiana.

- Una poiana? A me sembrava un falco!

- Fidati, rispose. Vengo sovente da queste parti perché il mio proprietario è un

appassionato di montagna e si reca da queste parti sia per fare lunghe passeggiate nei

boschi che per osservare e fotografare gli uccelli. Peccato che non abbia assistito a

questa battaglia aerea; sicuramente l’avrebbe immortalata con innumerevoli fotografie!

- Effettivamente è difficile vedere spettacoli simili! – esclamò ingenuamente la 500.

- Meno di quanto pensi, rispose l’Ascona. In realtà è molto comune osservare le poiane

attaccate dai corvi che non gradiscono la presenza di un altro cacciatore nel loro

territorio. Pensa che gli studiosi hanno definito questo atteggiamento dei corvi

“mobbing” dal verbo inglese “to mob” che significa “infastidire”.

Rotto il ghiaccio, le due vetture avevano trascorso l’intero pomeriggio raccontandosi le

reciproche esperienze.

Come era cambiata la 500 dopo la sua disavventura sul carro-attrezzi!

Nel frattempo Bianca e Thomas si erano avviati alla volta della funivia per ripreendere la

via del ritorno.

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Arrivati alla banchina dovettero aspettare l’arrivo della cabina che stava risalendo verso la

stazione di monte; Bianca entusiasta della giornata pregava in cuor suo che la funivia si

guastasse; non voleva che la sua gita finisse così presto. Ma il suo desiderio non si avverò.

Con svizzera puntualità e teutonica precisione, la cabina arrivò e si fermò proprio davanti

alla coppia. Saliti a bordo, Bianca si risistemò nella stessa posizione dell’andata per

vedere il santuario avvicinarsi nella discesa. Dopo circa cinque minuti di attesa la cabina

iniziò la sua corsa di ritorno. Sorvolarono nuovamente il prato dove adesso le mucche,

guidate da alcuni cani, stavano raggiungendo i loro recinti e poi raggiunsero l’eroico

pilone che sfidando vento e gravità consentiva alla cabina di affrontare l’ultimo tratto di

discesa. Thomas disse a Bianca di reggersi forte al mancorrente; Bianca senza domandarsi

il perché strinse forte il freddo tubo metallico. La cabina, dopo aver vibrato nel passaggio

sopra i rulli tenditori, oscillò violentemente nel vuoto prima di inclinarsi per seguire la

corsa delle funi. Siccome non si aspettava quell’oscillazione, Bianca emise un grido e si

aggrappò a Thomas che per la seconda volta la strinse forte a sé. I due raggiunsero la

stazione di valle stretti in quell’abbraccio. Arrivati scesero e si diressero in direzione del

santuario. Passarono accanto alla Basilica Nuova e poi si incamminarono verso la chiesa

vecchia.

- Peccato che la mia 500 non sia come Kitt, altrimenti l’avrei chiamata per farci venire a

prendere!

- Non mi dire che sei già stanca! – chiese con tono ironico Thomas.

- Assolutamente no, ma non ho voglia di fare tutte quelle gradinate!

- Coraggio pigrona, disse Thomas, facciamo a gara a chi arriva prima?

Bianca, improvvisamente, scattò lasciando Thomas fermo nel piazzale. Allora Thomas le

partì dietro, scesero entrambi correndo giù per le scale come ragazzini che escono da

scuola e poi Thomas l’afferrò dicendole “presa!”.

Bianca lo strinse con le sue delicate braccia ed insieme si avviarono verso valle.

Sia Bianca che Thomas, passando davanti al portone che un solerte sacerdote stava

chiudendo, ringraziarono in silenzio la Madonna per quella meravigliosa giornata che

avevano vissuto.

Arrivati al parcheggio, la 500 fu sorpresa nel vedere i due abbracciati. Chissà cosa era

successo, si chiese, per vedere Bianca abbandonata in un tenero abbraccio. Bah, forse era

solo stanca oppure non si era sentita bene ed aveva avuto bisogno di un aiuto. Raggiunta

la 500, Bianca aprì il cofano dove ripose la sua macchina fotografica, seguita a ruota da

Thomas che non avrebbe mai voluto abbandonare quel caldo abbraccio. Poi entrarono e

Bianca, che con gran sollievo della 500 si sedette al posto guida, accese il motore e si

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avviò verso Biella. La discesa fu più lunga del previsto perché la 500 dovette accodarsi più

volte dietro file interminabili di ciclisti che stavano rientrando alla base dopo la lunga e

ripida salita al santuario.

Raggiunta Biella, Bianca seguì la Trossi, strada statale che collega la città di Biella con

quella di Vercelli fino al paese di “Crocicchio”, dove alla rotonda svoltò a destra per poi

imboccare l’autostrada che collegava Torino con Milano, una delle più vecchie autostrade

italiane essendo stata inaugurata nel lontano 1932.

Durante il tragitto, Thomas su invito di Bianca, raccontò la storia della sua infanzia nei

luoghi e paesi che via via attraversavano. Poi fu la volta di Bianca. Tra un ricordo e l’altro

la 500 correva allegra sorpassando camion e lente vetture e guardando con invidia alcune

Maserati e Range Rover che in un batter d’occhio la raggiungevano, la sorpassavano e poi

sparivano veloci fino a confondersi con il nastro d’asfalto. Incrociarono poi due eleganti

Frecciarossa che stavano riportando a casa i pendolari che quotidianamente si

spostavano tra le due città per recarsi al proprio lavoro; come era fortunata Bianca che

poteva gestirsi il lavoro e non essere costretta a barcamenarsi tra rigidi ed inflessibili orari

ed impegni della vita quotidiana.

Arrivati a Torino, Bianca proseguì lungo la tangenziale; costeggiò l’alta collina verde che

stava sorgendo sui resti della vecchia discarica di Torino, superò i capannoni della zona

industriale di Venaria e poi superò la centrale in costruzione dove Thomas stava

lavorando.

- Sei contento? - chiese Bianca a Thomas.

- Perché me lo chiedi? – rispose Thomas.

- Sono passata dalla tangenziale perché almeno così puoi vedere se oggi i tuoi ragazzi

hanno lavorato oppure hanno approfittato del fatto che il gatto non c’era …

- Guarda, non ci ho nemmeno pensato. Oggi la giornata era tutta per te!

- Senti, visto che abbiamo mangiato come maialini, che ne dici se prima di tornare a casa

ci fermiamo a prendere un gelato?

Thomas non poteva credere alle sue orecchie.

- Certamente, decidi tu dove! – rispose.

Bianca proseguì in direzione di Moncalieri; affrontò il curvone di Bruiere e poi svoltò in

Corso Francia per seguire le indicazioni per Rivoli. La 500 si inserì nel traffico che

percorreva quello che una volta era chiamato lo “Stradone Reale”, un lungo rettilineo di

ben 13 chilometri che collegava le residenze sabaude con la città di Torino e che ne fa il

corso più lungo d’Europa. Fu costruito su progetto del Garove tra il 1711 ed il 1712 ed era

fiancheggiato da lunghi filari di olmi, alberi che possono raggiungere anche i 25 metri di

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altezza ed utilizzati nell’antichità per le loro proprietà medicali, come scrisse anche Plinio

il Vecchio, ma che a quel tempo erano considerati dagli Architetti europei come l’albero

ornamentale per eccellenza.

Arrivati al fondo del corso, Bianca seguì la strada in direzione di Susa; poi, dopo le

caserme, svoltò a sinistra per inerpicarsi sulla collina morenica su cui sorgeva il famoso

castello di Rivoli, che doveva rappresentare la sfida dei Savoia a Versailles, ma che per

varie vicissitudini rimase sospeso tra passata fortezza, villa di campagna e castello di

magnificenza. La 500 costeggiò l’ala del castello ornata da un porticato monumentale

incompleto che dava la sensazione di un cantiere sospeso nel tempo e poi si arrestò nella

piazza da cui era possibile vedere Torino e la Basilica di Superga che univa idealmente i

luoghi simbolo della Torino Sabauda.

Parcheggiata l’auto, la coppia scese per avviarsi verso un chiosco dove Bianca prese un

cono al limone ed alla fragola, mentre Thomas si lanciò con una coppetta al limone e

pompelmo. Si sedettero quindi sul muretto in mattoni rossi, uno accanto all’altro e si

gustarono il gelato osservando Torino; Corso Francia, idealmente, rappresentava il

sentiero che guidava i loro sguardi verso la loro città.

Terminato il gelato, Bianca si avvicinò a Thomas; i loro sguardi si incrociavano. Thomas,

allora, prese le mani di Bianca e le strinse nelle sue. Bianca, tra sé e sé rideva; si accorgeva

che Thomas era in difficoltà, non sapeva cosa fare. Però lo trovava tenero; lui, che

impartiva ordini in cantiere, che gestiva decine di persone, che modellava con l’acciaio

mostri tecnologici si trovava di fronte ad una situazione imprevista che non sapeva come

gestire.

Fu Bianca che prese l’iniziativa.

- Baciami stupido!

Thomas, avvolse Bianca con il suo braccio e poi avvicinò le sue labbra a quelle di Bianca.

Il cuore gli batteva forte forte, il respiro si faceva affannoso e le mani gli sudavano. Non

avrebbe mai pensato che lui, single non per scelta, ma per destino, finalmente aveva trovato

l’amore. Chissà, forse quel Turco di Istanbul che si spacciava come un esperto di mantica

aveva ragione!

Restarono abbracciati sul muretto fino a quando la volta celeste brillò della luce di miriadi

di stelle che sembravano essersi date appuntamento quella sera per vedere due anime

innamorate che dopo tanto tempo avevano rotto gli indugi liberando l’amore che da tanto

tempo ribolliva nei loro appassionati cuori!

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La 500 non poteva credere ai suoi faretti; da una parte era contenta di vedere che Bianca

finalmente aveva trovato la felicità, ma dall’altra era gelosa perché adesso avrebbe dovuto

dividerla non più solo con Chry e Niki, ma anche con Segugio e con Thomas.

- Guarda, disse Thomas. Sembra che anche le stelle stasera siano venute a vedere questa

bellissima luna che gioca a nascondino con la collina di Torino.

Sentirono poi un fruscio tra i fiori che adornavano il prato che si apriva sotto i loro piedi.

- Sarà il vento e qualche animaletto! – osservò Thomas.

- Secondo me, invece, rispose Bianca, è il fantasma di Villa Melano che si dice sia di una

bellissima, ma sfortunata ragazza che tutte le notti veniva quassù per incontrare il suo

giovane amore.

- Allora proporrei di lasciarli da soli per consentire anche a loro di unire i loro cuori in

un unico battono che risuona ll’unisono sotto una stupenda luna!

Insieme si alzarono e mano nella mano, scambiandosi appassionati baci, si avviarono

verso la 500.

Ripercorsero la lunga e rettilinea strada e ripresero la tangenziale. Arrivati nel cortile di

casa, Bianca fermò la 500 sotto il grande noce. Poi, senza nemmeno recuperare la

macchina fotografica che aveva lasciato nel baule entrò in casa con Thomas.

Alla 500 non rimase che guardare lo spettacolo di una città illuminata dalle luci delle

sparute vetture che attraversavano le sue deserte strade. Stanca della lunga galoppata e

coccolata dai dolci raggi lunari, la 500 chiuse i suoi faretti e si addormentò contenta della

giornata appena conclusa.

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19

Una domenica tra le aquile

Erano passate alcune settimane da quel famoso bacio nella notte torinese.

Per la 500 la vita scorreva tranquilla, scandita dai soliti ritmi di Bianca.

L’unica vera novità erano le cene in giardino di Bianca e Thomas a cui si aggregava

contento il piccolo Segugio che stava crescendo a vista d’occhio sotto lo sguardo attento

di Thomas e con le dolci e premurose coccole di Bianca.

Le romantiche cene si concludevano illuminate dalla luce calda e rosata del tramonto con il

sole che si nascondeva stanco dietro l’arco alpino con i due innamorati abbracciati che

non smettevano di coccolarsi a vicenda.

Una sera, però, Thomas ad un tratto diventò taciturno. Bianca, che se ne accorse subito, lo

coccolò più del solito e poi gli domandò la causa della sua malinconia. Thomas le spiegò il

motivo: si sarebbe dovuto assentare per una settimana per un impegno di lavoro in

Germania. Aveva provato a sottrarsi alla missione sostenendo che la sua presenza non era

necessaria poiché superflua, ma i suoi responsabili non erano dello stesso parere ed

erano irremovibili.

Propose quindi a Bianca di accompagnarlo così avrebbero potuto passare un po’ di tempo

insieme visitando posti nuovi, respirando atmosfere differenti, ma lei, a malincuore, rifiutò

perché aveva già preso degli impegni di lavoro che non poteva spostare.

- E poi una settimana passa in fretta! – le sussurrò Bianca.

- E sia! Tanto, con tutta la tecnologia che abbiamo a disposizione possiamo sentirci tutti i

giorni.

Comunque Bianca gli promise di accompagnarlo fino a Caselle per trascorrere insieme tutti

i secondi della domenica prima che un bianco uccello meccanico li separasse per ben

604.800 secondi!

La domenica arrivò veloce e certa come un tuono che insegue la saetta scoccata tra le

nuvole di un temporale.

Bianca e Thomas avevano pranzato insieme sotto il pergolato del giardino e poi l’ingegnere

si era rinchiuso nel suo alloggio per preparare le carte necessarie ai suoi impegni

lavorativi ed i vestiti che sarebbero serviti per la trasferta. Era proprio cambiato! Una volta

il trolley sarebbe stato pronto già da un bel po’ di giorni; non l’avrebbe mai preparato solo

qualche ora prima di partire! Ah l’amour!

Ma con la solita pignoleria era riuscito a far stare carte, documenti, vestiti ed il suo

portatile all’interno del piccolo trolley che poteva imbarcare sull’aereo come bagaglio a

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mano in modo da evitare la lunga attesa di fronte al nero nastro trasportatore che

consegnava i bagagli ai viaggiatori; come per dispetto, tutte le volte che era andato in

viaggio con una valigia in stiva aveva dovuto aspettare delle mezz’ore prima che la sua

dispettosa valigia decidesse di farsi ritrovare!

Mancavano ancora diverse ore alla partenza, quando inaspettatamente il campanello

dell’alloggio di Bianca trillò; era Cristina con i bimbi che avevano talmente insistito per

andare a trovare la loro zietta preferita che alla fine la mamma aveva ceduto.

Ma Bianca non sembrava contenta di ricevere quella visita; Cristina se ne accorse subito ed

approfittando del momento di libertà, poiché i due pargoli si stavano divertendo a lanciare

la palla a Segugio che la inseguiva abbaiando, chiese alla sorella se c’era qualche

problema che l’affliggeva. Alla domanda Bianca, che non voleva svelare ancora svelare il

legame che la stava unendo sempre più a Thomas, rispose che aveva promesso al suo

vicino di casa di accompagnarlo all’aeroporto per non fargli spendere un capitale di

parcheggio.

Nel momento in cui Bianca pronunciò la parola “aeroporto”, Niki che nel frattempo stava

giocando con il fratellino ed il cagnolino si fiondò dalla zia pregandola di farlo andare con

lei perchè voleva andare a vedere gli aerei. Nel frattempo era uscito in giardino anche

Thomas che si era fermato a giocare con il piccolo Chry che voleva prendere la coda

dispettosamente scodinzolante di Segugio.

- Non so se Thomas ha tempo per aspettarvi perché deve prendere un aereo per andare

in Germania – spiegò Cristina ai bimbi.

- E perché deve andare in Germania? – chiese curioso Niki.

- Per lavoro – rispose Bianca con un tono di voce che lasciava trapelare una vena di

tristezza che la sorella colse al volo.

- E cosa deve fare laggiù? – proseguì Niki.

- Devo partecipare ad una serie di noiosissime riunioni! – rispose l’interessato.

- Posso venire con te a vedere gli aerei? – chiese Niki spalancando i suoi bellissimi

occhietti blu.

- Aeri, aeri! – gli fece eco il piccolo Chry che indicava il cielo con il suo paffutello ditino.

- Se per Bianca va bene, vi porto a vedere gli aerei da vicino, che ne dite? – propose

Thomas.

All’unisono i due bimbi approvarono correndo verso la 500 che finalmente poteva

sgranchirsi le ruote!

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- Allora dobbiamo partire subito. In marcia! – esclamò Thomas che entrò in casa per

prendere i bagagli necessari alla spedizione tra cui due succhi di frutta con relativa

cannuccia.

Si erano tutti riuniti attorno alla 500 quando arrivò Bianca con le chiavi e Thomas con il

suo trolley blu che posò delicatamente nel baule della vettura.

Partirono quindi alla volta dell’aeroporto; la 500 seguì la solita strada che dai Cappuccini

scendeva alla Gran Madre costeggiando la restaurata Villa della Regina con i suoi ordinati

giardini e la vigna che seguiva il tracciato di quella originariamente voluta dal suo

protettore nel Seicento.

Seguirono il corso del Po e poi girarono a sinistra sul ponte Regina Margherita dove Niki

tutto entusiasta osservò ed indicò ai compagni di avventura un tram grigio, giallo e blu

della serie 7000, nata per sfrecciare sull’incompiuta linea tranviaria veloce, chiamata

“metropolitana leggera” o griglia di Rolando dal nome dell’Assessore ai Trasporti di

Torino che la propose, che stava transitando verso il capolinea di piazza Hermada.

La 500 proseguì lungo corso Regina Margherita galoppando veloce verso il Balon, come

nell’Ottocento veniva chiamato il mercato delle pulci di Torino alloggiato nella grande

piazza accanto alle Porte Palatine, uno dei più grandi mercati all’aperto d’Europa.

L’origine del nome della zona è curiosa; infatti deriva da una tipica espressione piemontese

“Andoma a giughè al balon”, cioè “Andiamo a scommettere sulla partita di pallone

[elastico]” abitualmente pronunciata dagli operai dell’epoca che nell’ora di pranzo erano

soliti andare a scommettere sulle partite di palla elastica, che si giocavano nello sferisterio,

un campo lungo 75 metri con una parete in muratura o in legno alta dai 10 ai 13 metri ad una

estremità del campo, che si trovava in una zona limitrofa alla piazza.

Prima di inoltrarsi nel sottopasso che attraversa sottoterra l’intricato movimento di

persone e di cose, vera anima e linfa vitale del Balon, la 500 riuscì a scorgere alla sua

sinistra la Porta Palatina che da secoli si erge ad ultimo baluardo della memoria storica

della Torino romana; era la porta Principalis Dextera che consentiva l’accesso da

settentrione al castrum di Julia Augusta Taurinorum, mentre oggi è uno dei punti in cui si

fermano i turisti per ammirare una tra le porte di epoca romana meglio conservate in

Europa. Rischiò di essere abbattuta nel Settecento per volontà del duca Vittorio Amedeo II

che stava rivoluzionando l’architettura della città per consentire a Torino di rivaleggiare

per splendore e fasto con le altre capitali europee; fu grazie all’ingegner Antonio Bertola,

Maestro delle Fortificazioni Sabaude, che venne risparmiata. Il Bertola riuscì a convincere

il duca della necessità di preservare ai posteri il ricordo delle origini romane della città per

rendere ancora più illustre Torino rispetto ad altre capitali nate soltanto molti secoli dopo

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e magari grazie alle popolazioni “barbare” che avevano impoverito e rischiato di far

scomparire la cultura e le tradizioni dell’Impero Romano.

Usciti nuovamente all’aperto, proseguirono in direzione della tangenziale nord di Torino;

giunti nei pressi dell’imbocco, Cristina, vedendo la centrale in costruzione, diede un suo

parere sul complesso che stava sorgendo in mezzo alla campagna.

- Certo che è proprio un ecomostro ‘sta cosa verde e bianca con quel grosso tubo che

finisce in quella specie di capanna con grosse pale! – esclamò.

Bianca cercò di farle capire che quello che stava bocciando senza possibilità di appello

era il progetto che stava seguendo da diversi mesi Thomas, ma Cristina, come una

pasionaria, proseguì nella sua feroce filippica. Poi domandò a Thomas un suo parere da

tecnico; Thomas, senza svelare il suo ruolo, la definì, contrariamente a quanto poteva

sembrare ad un osservatore di passaggio, una centrale da “puffi” perché tra tubi, strutture,

scale ed equipaggiamenti, la circolazione al suo interno era sconsigliata alle persone di

alta statura!

Solo allora Cristina si rese conto di aver fatto una gaffe! Cercò in tutti i modi di rimediare

all’errore, tra i sorrisi di Thomas e le risate di Bianca.

Allora Thomas, concordando con Cristina sulla scarsa bellezza architettonica del

complesso, le spiegò che grazie a quell’ecomostro, come lo definiva, sarebbe stato

possibile produrre ben 400 MW di energia elettrica e produrre acqua calda per il sistema di

teleriscaldamento che avrebbero consentito di coprire ben il 55% della volumetria totale

della città rendendo Torino la città più teleriscaldata d’Europa e risparmiando alla gente di

respirare centinaia di tonnellate all’anno di sostanze nocive che erano poi tra le cause dei

blocchi alla circolazione ed della tortura delle targhe alterne che soprattutto nei mesi

invernali tormentavano migliaia di automobilisti.

La 500, però, non dava perso alle parole di Thomas, e continuava a galoppare in direzione

di Milano; superato il nuovo stadio di Torino e la vecchia discarica che pian pianino si

stava trasformando in una bella collinetta verde, la 500 svoltò in direzione dell’aeroporto.

Dopo vari chilometri percorsi in mezzo ai campi dorati interrotti da recenti capannoni e

vecchie cascine, finalmente la 500 affrontò l’ultimo ponte e sulla sua destra apparvero le

luci dell’aeroporto dove bianchi giganti alati erano fermi sul piazzale, mentre altri erano

ordinatamente allineati alle vetrate; alla 500 ricordavano tante mucche intente a mangiare

nella mangiatoia di una stalla.

Lungo le strade che attraversavano il piazzale minuscoli mezzi vagavano veloci,

apparentemente senza meta, trainando traballanti vagoncini telonati.

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La 500 stava affrontando la discesa, quando una scura ombra preceduta da un assordante

rumore le passò sopra la capotta; era un piccolo quadrimotore che stava atterrando.

Il piccolo Chry tutto emozionato iniziò a strillare “aeo, aeo” indicandolo ai presenti con le

sue piccole manine.

La 500 stava ormai percorrendo il difficile curvone che immetteva nel complesso

aeroportuale quando il Jumbolino toccò la pista con un bianco fumo che usciva dalle ruote

dei carrelli. La 500 seguì la strada che portava all’aeroporto quando di fronte a lei,

poggiato su tre colonnine bianche, scorse un vecchio, ma simpatico bimotore ad elica; era

un Douglas DC-3 “Dakota”, che dal 1988 è di fatto diventato la mascotte dell’aeroporto di

Torino. Nonostante l’età, arrivò a Torino direttamente dagli Stati Uniti compiendo quello

che i piloti definiscono “l’ultimo volo dell’aquila” dopo un viaggio di ben 11000 chilometri

affrontato solo con i suoi rumorosi e fumeggianti motori e dopo ben 34 ore di volo.

Fu costruito nel 1944 negli stabilimenti americani della Douglas di Long Beach, in

California come veicolo militare (C-47 B) e quindi immediatamente inviato in Inghilterra per

partecipare alle cruente operazioni militari in corso nella martoriata Europa. Al termine del

conflitto, prestò servizio in vari reparti negli Stati Uniti e poi in Inghilterra fino al 1969

quando, per età, venne congedato dai militari ed utilizzato per trasporti civili. Nel 1988

venne ritrovato in Florida ed acquistato dal Gestore dell’aeroporto di Torino che voleva

che un simbolo dell’aviazione commerciale accogliesse i passeggeri in arrivo; giunse nella

sua nuova casa sotto un pesante acquazzone e fu immediatamente sottoposto ad un

restauro che gli restituì la fierezza ed eleganza di un tempo passato!

Il primo esemplare del Dakota volò trentadue anni dopo il primo timido balzo dell’aereo

dei fratelli Wright, il famoso Flyer, e da quel momento divenne il protagonista nel bene e nel

male dei viaggi aerei sia civili che militari. Fu addirittura il primo aereo ad offrire camere

da letto per gli sposi in luna di miele!

Oltrepassato il fiero vecchietto, la 500 proseguì rapida in direzione dell’aerostazione

passando di fronte alla caserma dell’Aeronautica dove un sottile “spillo”, come i piloti

erano soliti chiamare il loro F 104, mestamente osservava il traffico sfrecciare davanti al

suo appuntito naso. Triste destino quello del Lockheed F 104 Starfighter, monomotore

supersonico sviluppato negli Anni Cinquanta in piena “Guerra fredda”, che vedeva

contrapposti gli Stati Uniti all’Unione Sovietica. Fu sviluppato per contrastare i più veloci

caccia sovietici come i MIG 15; era stato pensato per correre veloce sull’obiettivo, colpirlo e

scappare oppure per intercettare eventuali aerei nemici. Poteva raggiungere velocemente

le quote più alte, ma era impossibilitato, a causa delle sue piccole ali, ad impegnarsi in

duelli aerei o in azioni a bassa quota. Era osannato dai tecnici come l’aereo caccia-

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intercettatore per eccellenza, ma non era particolarmente amato dai piloti i quali, per le sue

elevate prestazioni, ma scarse qualità di pilotaggio, dicevano che era un aereo a “cui dare

del lei e non del tu”, cioè il pilota non poteva concedersi distrazioni o leggerezze perché la

macchina avrebbe subito presentato il conto di tanta confidenza, mentre altri addirittura lo

definirono “qualcosa di più simile ad un razzo che ad un aereo”. In Italia i piloti lo

definirono, a causa dei numerosi incidenti in cui incappò, “la bara volante” o “la fabbrica di

vedove”.

Ma la 500 proseguì tranquilla lungo la sua corsia senza neanche accorgersi di quel

temibile nonnetto mestamente parcheggiato in un verde prato in mezzo a fioriere da cui

rossi gerani facevano capolino fieri dei loro sgargianti colori. Lui, fiera aquila dei cieli,

terrore dei caccia nemici, adesso era relegato a recitare lo stesso ruolo di un vecchio ed

arrugginito trattore messo come ornamento in un giardino per strappare un sorriso o un

commento ad un distratto passante.

La 500 arrivò quindi ai piedi della salita che portava al settore “Partenze” dell’aeroporto di

Caselle, l’aeroporto ufficiale di Torino, inaugurato nel 1953, in sostituzione di quello di

Mirafiori, e sorto sulle ceneri di un precedente aeroporto militare utilizzato durante l’ultimo

conflitto mondiale. Aeroporto “multiruolo”, poiché fu utilizzato non solo per decolli ed

atterraggi di aerei via via più grandi e veloci, ma anche per il collaudo di veloci bolidi da

corsa. Sulla sua lunga pista di decollo, infatti, Gianni Lancia, figlio del fondatore Vincenzo,

Vittorio Jano, geniale progettista di motori per Fiat, Lancia, Alfa Romeo e Ferrari, Ascari e

Castellotti collaudarono quella che fu l’unica Lancia di Formula Uno, la celebre Lancia D50

che rispetto alle sue più dirette concorrenti aveva la particolarità di avere un livello di

finitura sconosciuto alla altre vetture da corsa ed i serbatoi del carburante ai lati

dell’abitacolo per migliorarne l’aerodinamica, come confermato anche dalle prove di un

modello in scala testato nella Galleria del Vento del Politecnico di Torino. Questa vettura fu

fortemente voluta da Gianni Lancia che voleva dare maggior visibilità alla sua Casa e che

per realizzare il suo obiettivo scialaquò ingenti capitali mettendo in seria difficoltà

l’avvenire dell’azienda di famiglia; e pensare che suo padre, Vincenzo, l’aveva sempre

ammonito a non cimentarsi in competizioni sportive che avrebbero affondato la sua

creatura a cui dedicò un’intera vita!

La storia, infatti, racconta che a seguito dei problemi economici e della morte del loro

pilota di punta, Alberto Ascari, Gianni Lancia fu costretto a dimettersi ed abbandonò

l’azienda di famiglia che da lì a poco sarebbe stata poi venduta; per non “gettare alle

ortiche” tutto il progetto ed i materiali già costruiti, i nuovi dirigenti decisero di vendere

l’intero progetto D50. Si fece avanti la Mercedes, ma il principe Filippo Caracciolo, suocero

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di Gianni Agnelli, nipote del fondatore della Fiat, per non far cadere in mano straniera un

progetto italiano si impegnò per far confluire materiali, vetture e tecnici nell’allora nascente

Ferrari che accettò di buon grado l’offerta, anche perché la proposta includeva anche un

cospicuo finanziamento da parte della Fiat per un periodo di cinque anni. Ma questa

disastrosa avventura lascerà alla Lancia anche un simbolo che sarà ripreso anni dopo;

infatti con la D50 venne introdotto il celebre elefantino al galoppo che contraddistinse le

vetture più sportive della casa tra cui la celebre “Deltona”.

Bianca, su indicazione di Thomas seguì la direzione “Arrivi”, dribblò le auto in sosta e poi

proseguì in direzione del parcheggio dedicato agli addetti dell’aeroporto. La 500 si fermò

accanto alla rete che divideva l’Italia dal mondo. I bimbi erano entusiasti perché proprio

davanti a loro era parcheggiato un 737 che stava osservando la comitiva dal suo alto muso.

Poi Niki indicò ai presenti l’arrivo di un’autoscala che si avvicinò ad una porta aperta nel

vuoto; dopo pochi minuti un lungo serpentone di persone scendeva a terra per essere

fagocitato da un largo e basso autobus.

Thomas propose quindi a Bianca di accompagnarlo in aeroporto, mentre Cristina avrebbe

potuto prendere i comandi della 500 e portare i pargoli in testa alla pista, vicino alla

caserma dei Vigili del Fuoco per far vedere loro la pancia degli aerei in decollo.

La proposta ottenne il consenso entusiasta dei piccolini e di Bianca; di fronte al si convinto

di Bianca, Cristina ebbe la certezza che la sorella nascondeva qualcosa!

Thomas prelevò il trolley dal baule e poi accompagnato da Bianca si mosse in direzione

dell’aerostazione. Cristina prese il comando della vettura con il disappunto della 500 che

conosceva, tramite i racconti della Multipla verde, l’irruento modo di guidare della ragazza.

Cristina seguì le indicazioni di Thomas ed in breve arrivò alla testa della pista; fermò la 500

con due ruote sull’erba e fece scendere i due bimbi. Proprio in quel momento un ronzio

precedette l’arrivo di un goffo C27, discendente del più noto G222, progettato da Gabrielli,

padre anche del famoso caccia G91, impegnato nel decollo seguito dagli sguardi di Niki e

dalle grida di gioia di Chry che continuava a gridare “aeo, aeo”.

Seguirono poi una serie di atterraggi seguiti dai bimbi che nel frattempo si erano

aggrappati alla recinzione dell’aeroporto per non perdersi nemmeno un’immagine di quello

spettacolo. La gioia dei piccoli raggiunse il culmine quando da un grigio aereo con vistose

bande arancioni si aprì un finestrino della cabina di pilotaggio ed un pilota tirò fuori la

mano per salutare i giovani aquilotti.

Nel frattempo Bianca e Thomas erano giunti a destinazione; Thomas sbrigò le pratiche del

check-in e poi con la sua compagna si recò al bar dove insieme sorseggiarono un Irish

coffee cioè un caffè caldo, con zucchero e whisky irlandese, sormontato da uno strato di

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panna a completamento. Si racconta che la sua ideazione si deve al gestore del bar

dell’aeroporto della cittadina irlandese di Foynes che ideò una bevanda che potesse

riscaldare i passeggeri appena atterrati da un volo transatlantico o per prepararli al

grande balzo. Ma un’altra versione vuole che in realtà la sua realizzazione si debba al

signor Sheridan, capo dei barman dell’aeroporto di Shannon, sempre in Irlanda; la

tradizione locale racconta che in una fredda notte del 1942 arrivarono in aeroporto dei

passeggeri stanchi, infreddoliti ed arrabbiati a causa della cancellazione del loro volo. Per

rinfrancarli, il barman preparò loro un caffè molto forte a cui aggiunse zucchero e whisky

ed uno strato di panna come decorazione. I passeggeri, entusiasti gli domandarono se si

trattava di un caffè brasiliano, ma Sheridan, ironico, rispose che era un caffè irlandese,

nome che venne poi dato alla sua creazione. La sua fama mondiale si deve ad un articolo di

un giornalista del San Francisco Chronicle che atterrato a Shannon ed assaggiata la

bevanda ne fu talmente soddisfatto da citarla in un suo articolo sul giornale. Da qual

momento la bevanda divenne una presenza costante nei bar di San Francisco e da qui fu

esportata in tutto il mondo.

Stavano ancora sorseggiando il loro caffè irlandese quando dalla radio del bar uscirono le

note di “ Incomplete” dei Backstreet boys; Bianca rimase silenziosa per un po’. Thomas

allora le chiese il motivo e lei gli raccontò di quando, anni prima, aveva accompagnato

Cristina e suo marito che festeggiavano il loro primo anno di matrimonio al loro concerto a

Milano. Siccome Cristina era una fan sfegatata, il marito Gabriele aveva voluto farle una

sorpresa accompagnandola al concerto.

- Certo, raccontava, era strano stare in coda in mezzo a ragazzine isteriche, noi che

eravamo ormai ragazze cresciutelle … E’ vero che c’erano anche dei papà che

accompagnavano le ragazzine più piccole, però noi eravamo troppo giovani per

mischiarci ai genitori e troppo stagionate per fare gruppo con le ragazzine! E’ in queste

occasioni che ti accorgi di essere cresciuta!

- E poi cosa avete fatto, chiese Thomas, siete andate a scatenarvi sotto il palco?

- Assolutamente no, anche perché siamo rimaste senza parole di fronte all’isteria

collettiva che era esplosa a cinque minuti dall’apertura dei cancelli del teatro. Una

massa indefinita di adolescenti, pervase da un qualcosa simile ad un sacro furore,

iniziarono a spingere la gente già ferma in coda; ho ancora davanti l’immagine di

Gabriele e di un papà che si erano puntati sui piedi e con la schiena opponevano

resistenza alla forza della massa che spingeva. Poi, all’apertura delle porte, come se

avessero dato il via ad una competizione sportiva, vidi un esercito indefinito di esaltati

correre verso le porte del teatro scavalcando, urlando, spintonando; ad un certo punto

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gli addetti alla sicurezza dovettero intervenire per soccorrere una ragazzina che sotto

la spinta della gente era caduta facendosi male ad una gamba. Credo proprio che se

non fossero intervenuti, la poverina avrebbe rischiato di venir schiacciata. In tutta

quella bolgia, mi ha stupito il comportamento di Gabriele. Era rimasto tranquillo ad

osservare la calca camminando mano nella mano con Cristina ignorando le orde di

fanatiche che ci sorpassavano da ogni parte. Seguivamo il percorso obbligato al nostro

passo accompagnati dagli improperi di quelli che stavano correndo; alla prima curva,

mentre la calca stava iniziando a schiacciarci come una fetta di prosciutto tra due fette

di pane, Gabriele afferrò Cristina, che mi prese per mano, e ci tirò da una parte. Poi,

sempre camminando, sorpassammo tutti quelli che ci avevano anticipato e che fermi ad

osservare la distanza che li separava dall’ingresso non si erano accorti dell’ampio

corridoio libero che si era venuto a creare alla loro sinistra. Gabriele, poi, mentre

entravamo nel teatro si prese la rivincita su quelle furie giovanili dispensando la

massima della tartaruga.

- La massima della tartaruga? – chiese Thomas.

- Certo, il famoso proverbio “chi va piano va sano e lontano!”.

- Ma alla fine siete arrivati sotto il palco?

- Nemmeno per sogno; sia io che Cristina abbiamo desistito perché non volevamo

diventare come la pasta di sardine! Comunque ci siamo goduti lo spettacolo ascoltando

i nostri cantanti preferiti ed osservando i loro ritmici balletti.

- Però non mi sembri tanto convinta!

- Eh già! Ero invidiosa di mia sorella che era lì al concerto con suo marito, mentre io ero

lì, sola soletta, a far da “portacandela”!

- Ed ora?

- Ed ora sono triste perché tu mi abbandoni e mi lasci sola con Segugio!

- Ma vado via solo per alcuni giorni! – si scusò Thomas.

Bianca si avvicinò a Thomas e gli diede un lungo ed appassionato bacio sulle labbra.

- Lo so, sciocchino! Va e torna vincitore!

Si alzarono e pagato il conto si diressero verso la zona dell’imbarco. Thomas, da lontano,

scorse un negozio di fiori; con una scusa si congedò da Bianca e senza farsi vedere si

avvicinò al bancone dove acquistò cinque rose rosse, per ricordare le settimane passate

dal loro primo bacio, che la fioraia legò in un elegante mazzo profumato.

Bianca era intenta a leggere i tabelloni luminosi quando davanti ai suoi occhi comparve un

mazzo di rose. Sgranò gli occhi e poi vide la mano di Thomas; prese il mazzo di fiori e lo

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profumò, come diceva sempre Niki da piccolino. Poi abbracciò Thomas e le loro labbra

unite in un appassionato bacio sancirono di fronte ai presenti il loro amore.

Poi Thomas, non senza fatica, si congedò da Bianca e si avviò verso il metal detector per

poi entrare nella zona riservata ai soli viaggiatori. Si tolse l’orologio, svuotò le tasche e

passò sotto il portale che impietosamente suonò. Allora l’addetto utilizzando il metal

detector portatile cercò la causa dell’allarme e la trovò nella fibbia della cintura. Quindi

Thomas, su invito dell’addetto alla sicurezza, si sfilò la cintura che fece passare sotto il

tunnel per la verifica ai raggi X, così chiamati da Röntgen perché nella sua prima

descrizione dei misteriosi prodigiosi raggi non ne conosceva ancora l’origine. Passato

indenne sotto il portale, corse al fondo del tunnel per recuperare chiavi, orologio e cintura;

poi con una mano che reggeva i pantaloni e l’altra ingombra di oggetti salutò Bianca e

sparì nell’atrio delle partenze.

Bianca, con il suo rosso mazzo di fiori in mano, si avviò verso l’uscita, dove, come da

accordi avrebbe dovuto passare Cristina per recuperarla. Ma Cristina era ancora ferma

alla testa della pista da dove i bimbi non volevano allontanarsi perché volevano vedere

l’aereo di Thomas che partiva. Allora Bianca si avviò verso la discesa da dove, come da un

balcone, poteva osservare la deriva degli aerei correre veloce lungo la pista per poi

sparire dietro altre costruzione e ricomparire sospeso nell’aria. Dopo un po’ arrivarono la

500 con i suoi entusiasti passeggeri; Cristina avanzò lenta davanti all’aeroporto fino a

quando non scorse una triste principessa malinconicamente appoggiata alla ringhiera di

metallo che odorava un vistoso mazzo di rose; allora aveva ragione, il suo intuito non

l’aveva ingannata!

Bianca salì a bordo, mentre Cristina fece finta di non accorgersi del mazzo di fiori.

- Dai, tanto lo so che vuoi sapere da dove saltano fuori questi fiori, ormai ti conosco! –

esordì Bianca.

- Figurati, rispose Cristina, lo so che li hai comprati per decorare il mobile che hai nel

salotto! Ma sei sicura che il rosso si intona alle pareti della sala?

- Suvvia, un po’ di colore per rallegrare la casa! Dai, vai dove ti ha detto Thomas, che

così lo salutiamo mentre decolla!

Raggiunsero nuovamente la testa della pista giusto qualche minuto prima che un piccolo

quadrimotore bianco con la pancia grigia alzasse il suo muso verso il cielo.

- Salutate Thomas! – disse Cristina.

I bimbi iniziarono a salutare con la manina; Thomas, che era seduto accanto ad un oblò

nella fila di sinistra vide i bimbi e poi notò Bianca che con il palmo della mano gli inviò un

bacio a cui Thomas rispose a sua volta sotto lo sguardo perplesso del suo vicino di posto.

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Poi Bianca si voltò per seguire il volo del piccolo aereo fintantoché non sparì in direzione

delle montagne confondendosi con il tramonto.

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20

Fine di un’avventura o inizio di una nuova storia?

Bianca si stava dedicando anima e corpo al lavoro per non cedere alla nostalgia; quando

si svegliava, per prima cosa controllava il suo telefonino dove immancabilmente trovava un

SMS di buongiorno che Thomas le inviava appena sveglio.

E come era bello addormentarsi con i teneri messaggi che riceveva …

Poi, durante la giornata, riceveva sul suo portatile le e-mail che Thomas, nei momenti di

pausa che si ritagliava tra una riunione e l’altra, le inviava; erano e-mail piene di affetto ed

amore, ma anche spiritosi. Bianca non lo avrebbe mia immaginato prima, ma il suo Thomas

era proprio un bel pasticcione! Come un parafulmine dovrebbe attirare i lampi, così

Thomas attirava i guai che puntualmente venivano immortalati dai suoi allegri colleghi.

Si erano recati nel più noto centro economico e culturale della Baviera, Norimberga, antica

città che sorge sulle rive del fiume Pegnitz e che tra i suoi cittadini più illustri può vantare

uno degli artisti preferiti di Bianca, Albrecht Dürer, noto pittore, incisore e matematico del

Cinquecento, ma dai racconti di Thomas Bianca intuiva che più che un viaggio di lavoro, la

loro trasferta a Nümberg sembrava una gita di amici bontemponi.

Infatti il suo dolce pasticcione le inviava i resoconti di cene e passeggiate che

immancabilmente si concludevano in modo comico; a Bianca venne anche il sospetto che il

suo buffone esagerasse nel descrivere gli eventi per farla ridere e non farle pensare alla

loro lontananza.

In un’e-mail le raccontò di una cena offerta dai colleghi tedeschi in una loro tipica trattoria.

Entrati da una piccola porta in legno, Thomas ed i suoi colleghi si trovarono davanti ad un

lungo bancone in legno dove una robusta cameriera, vestita come si usa da quelle parti, li

squadrò cercando di capire chi fossero quegli strani uomini privi di baffi e di imponenti

addomi e vestiti in giacca e cravatta; poi, scoperto che erano andati lì per mangiare il piatto

tipico della città, li accompagnò verso la sala da pranzo. Attraversarono una porta che

ricordava quella dei saloon del “Far West” ed oltrepassata si ritrovarono immersi in una

nuvola di fumo che ricordava la nebbia invernale della Pianura Padana. Per non perdere di

vista la loro guida serrarono i ranghi salvo poi trovarsi tutti addosso alla cameriera

quando questa, per indicar loro il tavolo, si fermò di colpo. Scusatisi a gesti, si

accomodarono lungo una scomoda panchina in legno chiaro con intarsi appuntiti sul

sedile che immancabilmente lasciarono degli strascichi sulle schiene dei poveri avventori.

La cosa che colpì Thomas, però, fu che una volta seduti il fumo sparì, o meglio, continuò ad

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incombere nella sala, ma ad un’altezza tale da consentire alla combriccola di respirare e di

vedersi in faccia!

Dopo un po’ la cameriera tornò verso il tavolo con sei boccali pieni zeppi di birra che

teneva tutti insieme per i manici; li posò sul tavolo senza far cadere nemmeno uno spruzzo

della vaporosa schiuma e poi, almeno così intuì Thomas, chiese ai suoi concittadini cosa

volessero mangiare. L’unica cosa che capì Thomas fu “Nümberger Rostbratwurst”;

sicuramente, pensò, doveva essere un piatto tipico del posto, ma che cosa racchiudeva

quello strano suono che ricordava una formula magica pronunciata da Wotan, più noto

come Odino, lo avrebbe scoperto solo vivendo!

Dopo una decina di minuti, la solita cameriera arrivò con una serie di piatti che teneva in

equilibrio sulle mani e sulle nodose braccia dimostrando doti da vera funambola; alla fine,

quella strana formula magica aveva fatto materializzare nei loro piatti le celebri salsicce

bianche di Norimberga, prodotte con sola carne di suino, priva di tendini e cotenna, con

pancetta, maggiorana, pepe, certoglio, pianta simile al prezzemolo, ma dal sapore più

delicato, cardamomo, zenzero e limone. A detta dei loro colleghi queste salsicce avevano

origini antichissime, poiché la ricetta originale risaliva addirittura al Quattordicesimo

secolo; i nativi raccontarono agli ospiti che erano talmente apprezzate che persino Goethe,

che ne andava matto, se li faceva spedire apposta da Norimberga! Allora Thomas ribattè

che anche i Robatà, celebri grissini di Torino, erano talmente famosi che un celebre

ghiottone come Napoleone se li faceva mandare fino a Parigi! Grave errore citare

Napoleone … ma poi le sue successive comiche sventarono le avvisaglie di un nuovo

conflitto europeo!

Infatti, queste salsicce vengono servite arrostite e sistemate a gruppi di tre tra due fette di

pane insieme agli immancabili crauti ed abbondante senape; Thomas, che come scoprì più

tardi Bianca, non era capace di mangiare senza sporcarsi nemmeno i più piccoli panini che

si possono acquistare da Burger King o Mc Donalds, si avventò sul panino cercando di

strapparne un morso senza danni, ma … il dispettoso panino, che non voleva soccombere

alle fauci dello straniero, si difese emettendo un copioso getto di gialla senape che andò a

posarsi sui pantaloni neri e sull’immacolata camicia azzurra di Thomas. Solo la cravatta

riuscì ad evitare l’ingloriosa disfatta! Povero il suo Thomas, da solo, in terra straniera e

circondato da bruti che scoppiarono in una fragorosa risata che attirò gli sguardi di tutti i

presenti! E poi, come dei Giapponesi, i colleghi estrassero dalle tasche le loro macchine

fotografiche per immortalare ad imperitura memoria il famoso evento!

Ma Thomas, con l’ultimo briciolo di orgoglio infranto, se ne uscì dicendo:

- Obama con lo yogurt, la Merkel con la birra e Thomas con la senape!

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E la cena si concluse con l’immancabile passeggiata per smaltire le calorie ingerite.

In un’altra occasione, a cui era stata costretta ad assistere ad un’accademica conferenza

relativa alle tecniche di restauro tenutasi nella Facoltà di Architettura, Bianca si era

distratta da quelle noiose dimostrazioni di sapienza dei relatori scambiandosi e-mail con il

suo lontano amore, tra sguardi di rimprovero di una vetusta restauratrice che le ricordava

tanto il ritratto della Montessori che campeggiava sulle banconote da 1000 lire. Thomas,

intuendo che la sua Bianca voleva estraniarsi da quella orda di mummie ingessate, le

raccontò una della sue ultime avventure in terra straniera stupendo la sua lettrice che non

si aspettava che il suo eroe possedesse anche uno spiccato spirito di avventura.

Le scrisse che il giorno prima si era recato sempre con i suoi colleghi, stufi di mangiare

salsicce e crauti, in un ristorante “italiano” per fare pranzo, quando il cameriere,

ovviamente di madrelingua tedesca, propose loro il menù del giorno. Thomas fu colpito dal

piatto chiamato “Strauß”, nome che gli ricordava il celebre compositore di valzer, ma non

riuscendo a capirne il significato chiese spiegazioni al cameriere. Questo, pensando di

trovarsi di fronte ad un provetto poliglotta, lo chiamò anche “Autruche”, poi “Bunch of

flowers”, ma la sfilza di parole straniere non dipanò i dubbi di Thomas che non capiva cosa

centrassero i “flowers”, cioè i fiori, con il piatto che aveva ordinato. Pensò quindi che fosse

un’insalata di fiori o qualcosa di simile, ma il cameriere non capiva le domande di Thomas;

allora venne in suo soccorso il proprietario del locale che in uno stentato italiano cercò di

far capire al cocciuto il contenuto del piatto che voleva ordinare.

- Grosso uccello, disse, grande pappagallo!

- Pappagallo? – chiese Thomas.

- Si, grande pappagallo con le piume!

- Con le piume? – esclamò ancora più perplesso.

- Si con grandi piume! – continuò il ristoratore.

- E sia, assaggiamo ‘sto grosso pappagallo con le piume!

Il cameriere, esausto, finalmente scrisse “Strauß” sul suo taccuino e scomparve in cucina.

- Certo che hai fegato a mangiarti un pappagallo! – gli disse un collega dandogli un colpo

con il gomito.

- Si, grande uccello dal collo lungo e zampe grandi! – continuò il proprietario.

Il gruppo, perplesso, guardava Thomas chiedendosi se il temerario avrebbe veramente

mangiato quel piatto; ad un tratto, Thomas, che si era fermato a riflettere, esclamò

trionfante:

- Struzzo, struzzo! Ecco cos’è il grosso uccello con le piume! E’ uno struzzo! Lo Struthio

camelus, il più grande pennuto vivente, ma incapace di volare!

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- Già, hai ragione! – gli fece eco un collega.

- Quello stupido uccello che quando ha paura nasconde la testa sotto la sabbia come

fanno i nostri capi! – continuò un ironico collega.

- Ma guarda, ribattè Thomas, che non lo fa per stupidità, ma per difendersi!

- Nascondendo solo la testa e lasciando tutto il corpo alla mercè dell’aggressore? –

continuò il collega.

- In realtà lo struzzo non nasconde la testa sotto la sabbia! Quando scorge un pericolo, il

grosso uccello si china allungando il collo sulla terra per imitare la forma di un

cespuglio; ma se il predatore non casca nel tranello, allora lo struzzo si alza e corre via

sulle sue lunghe gambe che possono farlo arrivare anche ai 70 km/h!

- Incredibile! A parte la velocità massima, mi ricorda tanto qualche nostro capo!

E la conversazione finì in una grossa risata tra lo sguardo ebete del proprietario del locale

che non aveva capito cosa accomunasse uno struzzo ai capi.

- Ah come si diverte Thomas, mentre io sono qui ad ascoltare una noiosa conferenza

sulle tecniche di conservazione e restauro … - sospirò Bianca leggendo l’e-mail.

- Silenzio! – le fece eco la vecchia restauratrice racchiusa nel suo abito che sembrava

un’armatura e che emanava un forte odore di naftalina.

- Scusi la domanda, disse Bianca, ma lei è un’esperta di antichità egizie?

- No, ma perché me lo chiede? – ribattè impassibile la vicina.

- No, niente! Mi scusi, ma l’ho scambiata per un’assistente di Bolzon. – rispose.

- No, mi spiace, non lo conosco.

- Strano, è un noto restauratore veneto!

- Me lo può presentare? – domandò speranzosa la restauratrice che non si era resa

conto che Bianca la stava prendendo il giro.

- Però deve venire fino a Padova!

- Allora se è così gentile da lasciarmi un suo recapito telefonico lo contatterò

sicuramente.

- Sicuro, ma adesso è in Nigeria per lavoro e penso che starà via per molto tempo.

- Ah, grazie, grazie, molto gentile.

La conversazione era stata sentita anche da Giulia, l’amica di Bianca che come lei si stava

addormentando sulle morbide sedie della sala.

- Ma scusa, chi è ‘sto Bolzon? – chiede curiosa.

- Forse lo conosci come Belzoni. – rispose.

- Belzoni? Quel Belzoni famoso egittologo, l’amico di Drovetti, l’iniziatore della

collezione del Museo Egizio di Torino?

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- Si, proprio lui!

- Allora ha voglia di aspettarlo la tua amica mummia!

E le due amiche scoppiarono in una soffocata risata. La restauratrice, che si vantava di

essere un luminare nel suo campo, si era lasciata prendere in giro da due giovani architetti

ritornate per un momento bambine!

Finalmente la noiosa tortura finì e Bianca si offrì di accompagnare Giulia a casa. Si

avviarono verso la 500 che, invece, si era goduta una calda giornata tranquillamente

parcheggiata sotto i grandi alberi del Valentino. Aveva passato il suo tempo ad osservare

nugoli di bimbi che a flotte si recavano al bianco Toret per giocare con l’acqua che usciva

dalla bocca del piccolo torellino oppure per tirare il naso al pinocchio che se ne stava

tranquillo a leggere un libro con il grillo parlante a controllare che non facesse

sciocchezze.

Le due amiche si avviarono lungo il viale alberato in direzione del centro di Torino, quando

Giulia propose di andare a mangiare una pizza, visto che la presa in giro della vetusta

collega aveva risvegliato nelle menti delle due ragazze i ricordi della scuola.

Parcheggiarono l’auto nel grande parcheggio sotterraneo di Piazza Vittorio e poi si

incamminarono verso l’uscita, lasciando al 500 da sola, ma almeno in un luogo fresco.

La serata delle due amiche passò velocemente tra i ricordi della scuola, delle gite, delle

scampagnate e dei primi amori. Poi Giulia, vedendo che Bianca riceveva numerosi SMS, le

chiese notizie sul suo bel tenebroso ingegnere, rimanendo stupita del rapido progresso

compiuto dalla sua amica.

- Ma alla fine l’hai fatto cadere ai tuoi piedi! – le disse.

- E’ stata dura, ma alla fine ci sono riuscita! – replicò.

- Ma come hai fatto a far sciogliere quel blocco di ghiaccio?

- In realtà è tutt’altro che un blocco di ghiaccio; è solo molto timido!

- Davvero? Non si direbbe. Infatti tutte le volte che sono venuta da te, ho notato che aveva

una bella parlantina ed ogni occasione era buona per mettersi in mostra!

- Credimi. È tutta apparenza. In realtà è un timidone! Però è così dolce e poetico …

- Poetico? Un’ingegnere?!? Una specie di robot trapiantato in un corpo umano?

- Si. Pensa che l’altra sera mi ha scritto che era uscito sul balcone della stanza

dell’albergo a guardare la luna e mi ha chiesto di guardarla a mia volta in modo che i

nostri occhi, i nostri sguardi si incontrassero sulla nostra luna per darsi la buonanotte!

- Ma non mi dire! Come diceva sempre mia nonna, “è brutto morire perché ogni giorno se

ne impara una nuova!”.

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Continuarono a parlare di Thomas fino a quando non raggiunsero al 500 che, al fresco del

garage, stava schiacciando un pisolino.

Poi Bianca accompagnò a casa la sua amica e confidente e sulle note della canzone “Di

sole e di azzurro” di Giorgia si avviò a casa; doveva prepararsi per riabbracciare il suo

eroe che tornava vittorioso dalla nebbiosa Germania!

La notte fu per Bianca una tortura; tra il caldo, le zanzare e l’emozione di riabbracciare

Thomas, non riuscì a chiudere occhio. Anche Segugio sembrava irrequieto; scattava

abbaiando da una parte all’altra del giardino inseguendo ombre e fantasmi. Chissà, forse

aveva intuito l’imminente arrivo del suo padroncino!

Al cantar del gallo Bianca si addormentò esausta; fu svegliata dal rumore assordante di un

motorino che al limite dello sforzo era riuscito a percorrere la lunga salita verso i

Cappuccini. Ancora addormentata si voltò verso il comodino in ciliegio e prese in mano il

telefonino; vide un messaggio e l’aprì subito. Era Thomas che le comunicava di aver già

raggiunto l’aeroporto di Francoforte e che per passare il tempo in attesa del volo che

l’avrebbe riaccompagnato tra le sue braccia aveva deciso di fare due passi per la città.

Avrebbe quindi passeggiato per quella che scherzosamente i Tedeschi chiamano Bankfurt

o Mainhattan per sottolinearne la potenza finanziaria, cercando di raggiungere la famosa

Freßgass, la via dei mangioni, per assaggiare il celebre Handkäs mit Musik, formaggio di

latte di mucca che viene fatto macerare per alcuni giorni con olio, aceto, cipolla e cumino e

che viene servito con pane e burro ed accompagnato dalla tipica bevanda di Francoforte, il

Apfelwein, cioè il sidro di mele, servito nella caraffa Bembel, realizzata in ceramica dipinta

di grigio e blu.

Solo allora Bianca realizzò che era quasi l’ora di pranzo!

Come un fulmine si precipitò giù dal letto; ancora in pigiama preparò la ciotola di Segugio

e poi si fiondò in cucina per preparare un veloce pranzo. Aveva ancora tempo, perché

Thomas sarebbe arrivato solo alle 18, ma non voleva far tardi.

Aveva pensato di festeggiare il suo rientro a casa con una deliziosa cenetta in giardino

illuminata dai tenui raggi solari che lentamente si nascondevano dietro le appuntite vette

alpine, ma ormai il tempo a disposizione era scaduto. Senza perdersi d’animo, prenotò al

volo un tavolo in un locale vicino all’aeroporto.

Poi, messi i piatti e le pentole in lavastoviglie, si dedicò anima e corpo alla “toiletta”, come

veniva chiamato il rito della preparazione di una dama prima di presentarsi a corte. E

pensare che in realtà il termine “toiletta” è il diminutivo della parola francese “toile” che

significa “tela”; si usava questo termine per sottolineare l’utilizzo di strisce di lino o di altri

tessuti che venivano impiegati per avvolgere scatolette, vasetti, bottigliette, pettini e

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spazzole, ossia l’occorrente per il “trucco e parrucco”, in modo da proteggerli dalla

polvere.

Davanti al grande specchio che sormontava il lavandino con il piano in marmo di Carrara,

Bianca si sistemò i lunghi capelli dorati che decise di raccogliere in una lunga coda, poi si

truccò delicatamente gli occhi in modo da far rispendere il bel verde che li caratterizzava.

Quindi indossò degli eleganti pantaloni neri ed una svolazzante camicetta bianca che

lasciva intravedere il bel collo. Si mise i suoi orecchini di perla e poi adornò il collo con

una collana che lungo fili di grigio acciaio fissava varie perle di fiume di vari colori; strinse

l’orologio al polso e si spruzzò alcune gocce di “Roma”, il suo profumo preferito. Quindi,

indossate delle scarpe nere con un leggero tacco, scese in giardino dove fu accolta

entusiasticamente da Segugio che sperava di farle da paggio.

- Scusa, Segugio, ma stasera non lo voglio dividere con nessuno!

Segugio rimase in silenzio, ma Bianca gli accarezzò dolcemente la testa e gli fece alcune

coccole. Poi salì a bordo della 500 che felice si lanciò nel traffico.

Come la domenica precedente, seguì lo stesso percorso fino all’aerostazione. Appena

giunti, però, Bianca si avviò verso il grande garage multipiano; preso il biglietto, la sbarra

si alzò e la 500 si avviò svelta lungo la salita elicoidale che la condusse al secondo piano.

Qui Bianca la posteggiò accanto alla porta che immetteva nella zona ascensori. Poi scese e

veloce veloce e sparì dalla vista della 500.

Il tempo passava e la 500, che dal suo parcheggio non poteva che vedere auto e autobus

che sfrecciavano veloci sulla strada; sentiva rincorrersi l’eco di rombanti motori che

spingevano al massimo i velivoli lungo la pista. Le sarebbe tanto piaciuto volare per vedere

il mondo dall’alto!

Poi iniziò la processione dei velivoli in arrivo con i motori che frenavano le potenti e

pesanti aquile metalliche.

Bianca si era posizionata accanto ad una pianta finta un po’ discosta dall’uscita degli

“arrivi” perché voleva far soffrire un po’ Thomas che l’aveva “abbandonata” per così lungo

tempo mentre lui si divertiva a visitare ed assaggiare i luoghi stranieri!

Il pannello luminoso segnalava a Bianca che il suo volo era atterrato, ma Thomas non

compariva all’orizzonte. Bianca era un po’ perplessa; Thomas le aveva scritto nell’ultimo

messaggio che era riuscito a prendere il volo e quindi doveva essere arrivato a meno che …

i piloti lo avessero paracadutato giù durante il volo.

Nervosamente si guardava intorno e poi sempre più frequentemente controllava il

telefonino; ad un tratto dietro di lei sentì una voce che le chiedeva se sapeva che ora era.

Bianca guardò l’orologio e rispose che erano le 18,20.

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- Peccato, credevo che fosse l’ora di ricevere un appassionato bacio! – rispose la voce

misteriosa.

Allora Bianca si voltò di scatto e riconosciuto Thomas lo abbracciò e lo riempì di baci.

Come era bella Bianca; Thomas durante tutto il volo si immaginava la scena, ma non

avrebbe mai pensato di vivere emozioni così forti, così intense.

Mano nella mano si avviarono verso la 500 che non vedeva l’ora di uscire da quell’ozio

forzato. Thomas aprì il baule per posare il trolley e quella colorata borsa di carta che

doveva contenere qualcosa di voluminoso.

- Ma cosa c’è in quel sacchetto? – chiese curiosa Bianca.

- E’ una sorpresa! - rispose Thomas.

- Che sorpresa? – ribattè Bianca.

- Tranquilla, dopo cena ti svelerò il mistero!

Allora Bianca si avviò verso l’uscita del parcheggio e poi si diresse verso il ristorante dove

aveva prenotato la cena. Era un edificio di nuova costruzione, ma dalle grandi vetrate la

500 poteva scorgere le strutture che richiamavano alla mente quegli strani personaggi dei

fumetti che ogni tanto le due piccole pesti guardavano. Erano due amici pasticcioni che

vivevano le loro avventure nella preistoria e che usavano dinosauri alati per volare e

brontosauri come grandi gru …

La 500, ormai rassegnata, si ritrovò parcheggiata in un grande piazzale dove altre

compagne di sventura attendevano che i loro autisti appagassero i loro famelici appetiti.

Stranamente le sue vicine erano silenziose e mute; come voleva essere nel grande

capannone con la simpatica 500 che le faceva da guida e le altre vecchiette che le

raccontavano storie e leggende lontane. Avrebbe accettato anche Segugio che, crescendo,

aveva iniziato ad infastidirla con i suoi riti di demarcazione del territorio.

Per fortuna la monotonia della serata era interrotta dai fari degli aerei in atterraggio che

squarciavano le ombre della notte; la 500 seguiva il loro volo con i faretti e controllava le

loro manovre di avvicinamento alla pista con gli specchietti. Come riuscivano a rendere

semplici le evoluzioni che qualche dispettosa raffica di vento li costringeva a compiere!

Bianca e Thomas erano seduti ad un tavolo al primo piano accanto alla grande vetrata e la

500 poteva vedere i loro gesti, seguire i loro sguardi; si vedeva proprio che erano

innamorati l’uno dell’altro e un po’ li invidiava. Chissà se anche lei avrebbe trovato in

mezzo al traffico caotico di Torino il suo principe azzurro!

Quando la 500 scorse distrattamente la cameriera che posava delicatamente due tazzine

sul loro tavolo, si rese conto che la cena era praticamente finita; adesso le sarebbe toccata

una lunga corsa verso casa, almeno così credeva.

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I due uscirono abbracciati dal ristorante ed in mezzo al piazzale si fermarono a guardare il

cielo stellato; nel buio dell’universo miliardi di stelle brillavano nella notte.

Bianca allora domandò a Thomas di farle vedere la sorpresa, ma Thomas obiettò che

quello non era il posto giusto. Allora Bianca sbuffando gli diede le chiavi della 500

dicendogli di portarla nel posto giusto così almeno finiva di tenerla sulle spine!

Thomas, da provetto cavaliere, accompagnò Bianca fino alla portiera di destra, poi aprì la

porta e l’aiutò a sistemarsi sul sedile del passeggero. Quindi aprì il baule ed estrasse

qualcosa dal sacchetto; la 500 curiosa, osservò la scena con i suoi specchietti e notò che

Thomas si tolse qualcosa dalla tasca della giacca ed iniziò ad armeggiare nel suo baule.

Dopo un po’ il rumore della carta fece intendere alla 500 che quel misterioso oggetto era

stato collocato nuovamente nel suo sacchetto, ma non era riuscita, suo malgrado, a

scorgere l’oggetto misterioso. Thomas chiuse il baule e con il sacchetto in mano salì in

auto; collocò il sacchetto dietro il suo sedile e poi si avviò verso la tangenziale.

La 500 era un po’ annoiata! Sempre le stesse strade, gli stessi percorsi … che bello sarebbe

stato se anche Bianca fosse andata in Germania con Thomas! Almeno così avrebbe

percorso strade nuove! La poverina, però, non poteva immaginare che in quel caso sarebbe

stata obbligata a passare una settimana chiusa in un parcheggio … altro che allegre

galoppate lungo nuove strade!

Thomas, che ormai aveva capito come domare una vettura priva di cambio meccanico si

diresse rapido lungo la direttissima e poi lungo la tangenziale che a quell’ora era

frequentata da rari camion e da veloci vetture.

La 500 superò gli svincoli di Venaria, Pianezza, Collegno, Rivoli, Orbassano, Stupinigi,

Nichelino … ma dove la stava conducendo? Poi i cartelli iniziarono ad indicare Savona,

Genova …

Che la serata si sarebbe conclusa al mare? La 500 era preoccupata; la salsedine avrebbe

potuto rovinare la sua carrozzeria …

Ma Thomas, invece di seguire le indicazioni per il mare seguì le indicazioni per Corso Unità

d’Italia … la carrozzeria era salva, pensò felice la 500.

La vettura stava percorrendo rapida l’ultimo tratto della tangenziale quando Bianca scorse

alla sua sinistra le luci rosse del camino della centrale di Moncalieri sopra le quali

intermittenti luci bianche sembravano tenue fiammelle di una candela che danzavano al

ritmo di un dispettoso vento.

- Non mi vorrai mica portare nella centrale, vero? – domandò perplessa Bianca.

- Non so che concetto di romantico abbia un Architetto, ma la cosa non aveva sfiorato

minimamente la mia mente! – rispose divertito Thomas.

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- Ed allora dove mi conduci, mio cavaliere?

- Abbi, fede, amore, ancora pochi minuti e raggiungeremo la nostra meta!

Alla loro destra si ergeva buia e maestosa la collina torinese; solo l’apparire ciclico della

luce del Faro della Vittoria, che da quasi novant’anni illumina le notti torinesi, fendeva il

buio della collina. Imponente struttura in bronzo che raffigura la Vittoria Alata che tiene in

mano una fiaccola da cui partono i raggi di luce che colpiscono Torino e che dal 1928 per

volere del senatore Giovanni Agnelli, uno dei fondatori della FIAT, occupa un posto

d’onore sul Bric della Maddalena, la cima più alta delle colline del Po con i suoi 715 metri;

statua alta ben 18,5 metri e pesante 25 tonnellate che ha l’onore di occupare il terzo gradino

del podio delle statue in bronzo più alte al mondo.

Superate le curve sopraelevate che consentono alla tangenziale di scavalcare la linea

ferroviaria ed il Po sotto lo sguardo vigile e severo del Castello di Moncalieri che dal XII

secolo controlla il passaggio sul fiume con la sua imponente e squadrata sagoma, la 500

percorse in volata il lungo rettilineo che costeggiando il Parco delle Vallere, noto parco

fluviale che si estende per 130 ettari alla confluenza tra il Sangone ed il Po e regno

incontrastato del rospo smeraldino, termina nella congestionata e sfortunata rotonda

Maroncelli dove fino a qualche anno fa facevano bella mostra le tre colonne bianche alte 15

metri dello scultore Arnaldo Pomodoro, copia della celebre “Triade” realizzata nel 1979

dallo stesso artista, oggi sostituite da un’anonima fontana.

Oltrepassata velocemente la rotonda che a quell’ora della sera era libera dal congestionato

traffico cittadino, la 500 si lanciò lungo Corso Unità d’Italia lasciandosi sulla sinistra il

noto Palazzo del Lavoro che per nascondere i segni del tempo e della trascuratezza si

nasconde pudico dietro ad una grande bandiera tricolore.

Triste destino il suo; struttura fieristica progettata per le celebrazioni dei cent’anni

dell’Unità da Pier Luigi Nervi, poeta del cemento che era solito dire che il cemento “era il

più bel materiale che l’Umanità abbia mai inventato”, ma oggi relegata a triste simbolo di

un’epoca di spese folli e senza un perché. Moderno edificio a pianta quadrata con lati

lunghi ben 40 metri che ne facevano una delle strutture fieristiche più grandi dell’epoca;

struttura avveniristica per i tempi. Per sostenere il peso della copertura, Nervi divise la

volta in sedici moduli sorretti nel centro da un pilastro in cemento di 38 metri di diametro

ed alto 25 metri e rastremato alla sommità dalla quale partono a raggiera travi in acciaio

che al visitatore, che sembra uno gnomo rispetto alla grandiosità dell’edificio, ricordano

tanti grandi ombrelli.

Superata l’enorme bandiera tricolore, riflesse nelle placide acque del laghetto artificiale, la

500 scorse con la coda dei suoi faretti le tristi colonne in cemento che una volta

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rappresentavano il vanto tecnologico di Torino, prima città al mondo a realizzare il

trasporto dei passeggeri con una monorotaia di tipo ALWEG, dal nome del suo ideatore,

l’ingegnere svedese Axel Lennart Wenner-Gren, che aveva studiato a lungo un sistema

innovativo che consentisse alle persone di spostarsi velocemente, ma a costi relativamente

contenuti, all’interno delle città che stavano iniziando a confrontarsi con i problemi legati

alla crescente motorizzazione di massa, e che avrebbe dovuto collegare Torino con la città

di Moncalieri. I Torinesi dell’epoca la chiamavano “il treno aereo” perché i veicoli che

viaggiavano alti e fieri sulle travi di cemento su di un percorso di circa due chilometri,

richiamavano alla mente le vecchie Littorine, ma a Torino questo innovativo sistema di

trasporto ebbe vita breve; infatti, dopo solo otto mesi dalla sua inaugurazione venne

abbandonato a se stesso e successivamente smantellato, mentre in altre parti del mondo,

dopo aver osservato con interesse le potenzialità espresse a Torino durante il periodo di

celebrazioni, varie città decisero di puntare sul nuovo mezzo di trasporto dimostrandone

quindi la validità.

Ma la 500 proseguiva spedita lungo il rettifilo non curandosi di partecipare ad un ripasso

visivo della storia dell’architettura moderna di Torino e dei suoi sprechi!

Infatti, alla sua sinistra si ergeva fiero, ma malinconico, il Palazzo delle Mostre, meglio

conosciuto come Palavela o Palazzo a vela, per via della sua inconfondibile forma che

evoca delle vele spiegate. Fu realizzato insieme al Palazzo del lavoro nel 1961 su progetto

di Franco Levi ed Annibale Rigotti per ospitare il Salone dell’Abbigliamento; la sua

particolarità è che il palazzo è una struttura autoportante in cemento armato con una volta

alta ben 23 metri e con solo tre punti di appoggio. Insieme alla monorotaia fu una delle

principali attrazioni delle celebrazioni di Italia 61; oggi, invece, è utilizzato per ospitare

manifestazioni di pattinaggio artistico anche a livello internazionale.

Proseguendo veloce, Thomas costeggiò quella che una volta era la stazione di arrivo della

monorotaia per poi arrivare davanti all’edificio che ospita il Museo dell’Automobile.

L’attenzione della 500 fu però attirata da uno strano monumento in cemento armato che le

ricordava una grande ruota dentata; era il famoso monumento dell’Autiere d’Italia, cioè a

tutti quei militari che guidano gli automezzi delle varie forze armate.

Bianca, invece, osservando il Museo illuminato da potenti fari, sorrise; Thomas notò subito

il suo sorriso e le domandò il perché.

Allora Bianca le raccontò di quel giorno, dell’agosto dell’anno precedente, quando aveva

accompagnato i suoi nipotini a visitare il tempio della storia automobilistica d’Italia e del

Mondo. In realtà, quel giorno che Cristina le aveva affidato i due pargoli perché avendo un

impegno di lavoro non sapeva a chi lasciarli ed approfittando del fatto che era una

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giornata molto afosa, Bianca aveva proposto ai cuccioli di fare una passeggiata sotto i

grandi alberi che ornano i giardini che costeggiano il Po, ma non aveva minimamente

pensato di portarli al museo.

- E come mai li hai portati al museo se invece volevi portarli lungo il Po? – chiese

Thomas.

- Perché Niki mi domandò che cosa fosse quell’edificio e dopo aver saputo che

conteneva molte “macchine vecchie” mi chiese di accompagnarlo facendo seguire

l’accorata supplica dai suoi meravigliosi occhietti blu cielo!

- Allora sei facilmente corruttibile! – scherzò Thomas.

- Diciamo che le due birbe sanno come intenerirmi! Ma tu non ci provare, neh!

- Ma almeno, si sono divertiti?

- Lascia stare! All’inizio è stata una tragedia; poi non riuscivo più a portarli via!

- Perché?

- Non so se tu sei mai stato al museo. Comunque, la visita inizia all’ultimo piano dove

sono esposte le riproduzioni dei primi esperimenti di locomozione a motore. Ad

esempio, è esposta una ricostruzione del carro di Cugnot, veicolo realizzato nel 1769

dall’ingegnere francese Cugnot e che è universalmente considerato la prima automobile

a tre ruote della storia.

- Ah, sì, il famoso carro di Cugnot! In realtà più che una macchina, Cugnot voleva

realizzare un mezzo che consentisse di trainare facilmente i grossi e pesanti cannoni

usati allora dagli eserciti; era un veicolo realizzato in legno dotato di tre ruote prese da

un carro e munito di una grossa caldaia che produceva vapore e che agendo su due

cilindri poteva trasmettere il moto alla ruota anteriore che poteva anche sterzare. La

cosa curiosa è che il progettista non pensò di dotare il veicolo di freni e quindi in una

delle sue prime uscite il goffo veicolo andò a cozzare contro un muro di pietra.

- Quindi, concluse Bianca, oltre ad essere il primo veicolo a motore della storia, questo

carro ha anche il merito di essere stato il primo veicolo a causare un incidente

automobilistico!

I due scoppiarono a ridere e Thomas guardò Bianca che rideva di gusto; come era bella

quando era contenta!

Ma una vettura birichina decise di affrontare in velocità la rotonda tagliando quindi la

strada alla 500.

- Attento, altrimenti anche la mia 500 avrà l’occasione di entrare nella storia per aver

fatto il suo primo incidente! – disse preoccupata Bianca.

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Ma Thomas, con facilità, evitò l’incrocio delle traiettorie e proseguì in direzione del centro

città.

- Però non mi hai detto perché è stata una visita drammatica! Hanno forse cercato di

accendere la caldaia del carro per farsi un giro?

- No, anzi, per paura di essere sgridati dai custodi giravano ben alla larga dai modellini.

Il problema è arrivato con il passaggio alla sala successiva. Infatti per accedere alla

sala che ricostruisce un’officina di inizio secolo bisogna percorrere un lungo corridoio

buio dove era esposta proprio davanti ad un grande schermo luminoso una grossa

carrozza a vapore.

- Si, ho capito. E’ la celebre carrozza di Bordino, primo veicolo a motore realizzato in

Piemonte.

- Quindi le prime auto di Torino non sono state le Fiat? – chiese curiosa Bianca.

- Nemmeno per sogno; la Fiat è arrivata dopo le altre. Prima sono arrivate tante piccole

officine e tanti geniali inventori che poi sono stati assorbiti dalla Fiat e che all’inizio

producevano vetture su licenza per poi lanciarsi timidamente con proprie proposte.

- E cosa centra ‘sta carrozza, allora?

- In realtà è un landau a vapore, cioè una carrozza a quattro ruote e con doppia

copertura ripiegabile dove il cocchiere, cioè l’autista, trova posto davanti alla carrozza

su un apposito sedile. Generalmente era trainata da due o quattro cavalli, ma in questo

caso il moto era dato dal vapore prodotto dalla caldaia. Pensa che il termine “landò” o

“landau” come dicono i Francesi, indica la sua origine. Infatti, questo tipo di carrozza fu

inventata nella città tedesca di Landau in der Pfalz e destinata al servizio pubblico;

ebbe talmente successo che fu copiata nel resto d’Europa. Comunque, questo mostro

pesa ben tre tonnellate, cioè quanto tre 500, ed è in grado di viaggiare alla strabiliante

velocità di 8 km/h consumando solo 30 chili di carbone all’ora! Fu realizzata nel 1854

nell’Arsenale Militare di Torino dall’ufficiale del Genio Virginio Bordino, considerato

dagli storici il pioniere italiano della locomozione. Il suo valore storico risiede non

nelle scarse prestazioni del veicolo, manel fatto che è la prima realizzazione

automobilistica italiana!

La 500, che si era incuriosita sentendo la spiegazione di Thomas fece un sorriso malizioso

con i suoi baffetti cromati; ma come, un colosso di ben tremila chili non era in grado di

viaggiare a velocità superiori agli 8 km/h! Lei, piccolina e leggera era in grado di

raggiungere velocità ben più elevate! E poi, che consumo è 30 kg/h di carbone?

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- Comunque, proseguì Bianca, l’allestitore della mostra ha avuto la brillante idea di

proiettare sullo schermo le immagini di alcuni cavalli che corrono e di un cocchiere che

con la frusta li sprona alla corsa; ebbene, Niki, appena visti comparire nel buio i bianchi

cavalli e quello strano personaggio con il frustino, è scappato via; ho dovuto lasciare

Chry solo sul passeggino e corrergli dietro; correva talmente veloce che sembrava una

povera volpe inseguita da una schiera di cani da caccia!

- Ma alla fine l’hai acciuffato?

- L’ho rincorso per la sala tra lo sguardo incuriosito dei custodi e delle persone presenti

che non capivano che cosa stesse succedendo. Poi prendendolo per mano l’ho portato

fino all’imbocco della galleria dove si è piantato sui piedi rifiutandosi di continuare.

- E come l’hai convinto a proseguire?

- Gli ho stretto forte forte la mano e poi gli ho detto di chiudere gli occhi. A quel punto ho

recuperato Chry sul passeggino e faticando come Ercole, tirando Niki con una mano e

spingendo il passeggino con l’altra, alla fine sono riuscita ad uscire dal buio tunnel.

Poi, fino all’uscita è stata una passeggiata perché il piccolo Chry si è addormentato,

mentre il mio bel paurosone si è divertito a correre attorno alle vecchie auto esposte.

- Quindi non voleva più uscire?

- Beh, alla fine colto dalla fame ha accettato di ritornare a casa … che esperienza! Penso

che nemmeno uno scavo archeologico nella Valle dei Re o delle Regine sarebbe stato

più faticoso!

Nel frattempo la 500 aveva raggiunto il ponte Balbis, già ponte Vittorio Emanuele III,

realizzato nel 1928 su progetto dell’architetto Giuseppe Pogatsching, uno dei massimi

esponenti del Razionalismo Italiano, per poi percorrere velocemente la grande rotonda

alberata che vista dall’alto ricorda un volante, per poi proseguire in direzione di

Moncalieri, seguendo l’omonimo corso. Al primo semaforo Thomas svoltò a sinistra e

condusse la 500 lungo una lunga salita, ma a quel punto Bianca intuì la destinazione.

Quella era la strada che portava al borgo di Cavoretto, un piccolo gruppo di case

abbarbicate sulla cime della collina ad una quota di circa 345 metri. Il panorama della città

e dell’arco alpino, da quel punto di osservazione, era impareggiabile; lo sguardo può

spaziare, infatti, dalla pianura attorno a Moncalieri fino a Caselle ed poi oltre, verso est,

lungo la pianura che degrada nel Vercellese e sul bianco sfondo dell’arco alpino, si

possono riconoscere le inconfondibili sagome della Mole Antonelliana e degli altri

monumenti simbolo di Torino, tra cui la Torre Littoria, ribattezzata dai Torinesi “pugno

nell’occhio” o “il telefonino”, il più alto edificio residenziale della città con i suoi 87 metri

che diventano 109 con l’antenna metallica su cui sventola il tricolore e primo grattacielo

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realizzato in Italia con profilati metallici elettrosaldati come i più famosi grattacieli

americani, ed il Grattacielo Lancia con i suoi 70 metri su cui si sviluppavano ben 17 piani

completamente vetrati dedicati agli uffici della gloriosa fabbrica di auto.

E pensare che inizialmente invece dei giardini sulla sommità della collina nelle vicinanze

del borgo doveva sorgere un castello! Infatti, la zona era stata acquistata dal marchese

Carlo Ferrero d’Ormea, ministro di Vittorio Emanuele II che nel 1737 aveva fatto realizzare

nel borgo di Cavoretto una serie di terrazze su cui far sorgere la sua dimora-fortezza. I

lavori, fortunatamente, vennero interrotti per ordine del successivo re, Carlo Emanuele III,

che non voleva avere una fortezza sulla collina di Torino perché in caso di invasioni

nemiche si sarebbe potuta facilmente trasformare in un’ottima postazione di tiro per gli

invasori. Tramontato il progetto, il terreno passò di mano in mano fino al 1954 quando gli

ultimi proprietari regalarono l’area al Comune di Torino che decise di realizzare un parco

collinare affidandone la progettazione a Pietro Bertolotti, direttore del servizio giardini ed

alberate del Comune, che lo abbellì con pini silvestri, platani, cipressi, profumate magnolie,

biancospini monumentali e con estese siepi di lauroceraso.

Bianca, nel mentre la 500 affrontava con disinvoltura la ripida strada che nella salita

diventava sempre più stretta, iniziava a fantasticare; la stava portando a prendere un gelato

come fanno centinaia di famiglie torinesi oppure voleva donarle un pegno del suo amore,

rappresentato dall’anello di fidanzamento?

Sarebbe stato meraviglioso ripetere in quel meraviglioso e raccolto giardino quello che per

secoli, a partire dagli antichi Egizi, milioni di fidanzati hanno ripetuto; ricevere un anello

come simbolo della promessa di matrimonio che addirittura per i Visigoti ed i Germani

aveva valore di contratto nuziale! Fu papa Innocenzo II nel 1215 a stabilire solennemente

l’usanza di regalare un anello di fidanzamento alla propria amata per simboleggiare il

periodo di attesa precedente il matrimonio e per rendere manifesto alla collettività

l’intenzione della coppia di contrarre matrimonio, mentre si deve all’arciduca d’Austria

Massimiliano la tradizione di regalare un anello con diamante per sancire il fidanzamento

ufficiale in quanto nel 1477, per impressionare con la sua ricchezza il futuro suocero Carlo

il Calvo, l’arciduca regalò alla futura sposa, Maria di Borgogna, un anello d’oro con

incastonato un grande diamante!

Persa nelle sue fantasticheria, Bianca non si era accorta che la 500 aveva già imboccato

l’ultimo tornante che portava al parcheggio del parco; come era bella Torino illuminata,

pensava la 500 non accorgendosi minimamente delle emozioni che la giovane coppia stava

vivendo. Sembrava quasi che i loro cuori battessero forte all’unisono; Bianca desiderosa di

ricevere la proposta e Thomas speranzoso che Bianca accettasse.

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Finalmente la 500 raggiunse il parcheggio che stranamente era insolitamente vuoto.

Thomas parcheggio in un angolo da cui si poteva vedere il cielo stellato e poi spense il

motore della 500. Nessuno dei due passeggeri, però, aprì la portiera per scendere e questa

stranezza incuriosì la 500. Poi Thomas prese il sacchetto colorato che aveva sistemato

dietro il sedile e lo passò a Bianca dicendole che era un pensiero che le aveva portato

dalla lontana terra germanica. Bianca non si fece pregare ed aprì il sacchetto da cui

estrasse delusa un simpatico peluche a forma di orsacchiotto vestito con il costume tipico

della Baviera.

- E tu mi hai portato qui per darmi questo orsacchiotto! Ma sei proprio un insensibile!

- Hai ragione! – rispose Thomas con un sorrisetto furbetto sulle labbra. Però la

tradizione locale vuole che l’orsacchiotto porti sempre un regalo.

- Ma non vedo altri pacchetti! – rispose Bianca.

- E’ vero, ma se tu guardi bene, vedrai che il vestito dell’orsacchiotto ha una piccola

tasca … chissà, magari nasconde una caramella!

- Magari pure alla birra al gusto di quello strano formaggio che hai mangiato oggi a

Francoforte! – e fece seguire alla frase una linguaccia in direzione di Thomas.

Comunque infilò le dita nella tasca del vestitino e sentì un qualcosa di metallico; allora lo

estrasse e poi fu silenzio. La 500 allora osservò la scena con i suoi specchietti; Bianca era

sbiancata ed era rimasta senza parole; teneva la mano sinistra sulla bocca mentre teneva

tra le dita dell’altra mano un elegante anello in platino su cui era incastonata

un’acquamarina tagliata a trillon. Era una pietra bellissima con un colore che spaziava dal

celeste al blu.

- E’ un’acquamarina, disse Thomas, che secondo la tradizione rappresenta il simbolo di

un matrimonio duraturo e felice. L’ho notata passeggiando per le vie di Norimberga; era

esposta in una vetrina di una gioielleria in mezzo a tanti anelli con diamanti, opali,

smeraldi. Quando l’ho vista ho pensato subito a te! Mi sono detto che una bellissima

sirena come te non poteva non indossarlo!

- Sono senza parole. Ma perché mi chiami sirena?

- Perché sei bellissima e i tuoi dorati capelli ti fanno assomigliare ad una sirena e

l’acquamarina era considerata dagli antichi talmente preziosa da rappresentare il

tesoro delle sirene perché le sue sfumature azzurre rappresentavano sia il colore del

cielo, divino ed eterno, che il colore dell’acqua, fonte di vita.

Poi prese l’anello dalle mani di Bianca e con voce rotta dall’emozione chiese alla sua

amata se voleva diventare la sua fidanzata; il povero e pasticcione ingegnere non ebbe

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neanche il tempo di finire la frase che Bianca lo abbracciò. Le loro labbra si unirono in un

lungo bacio e la luna divenne testimone del nuovo legame che si era formato.

I due fidanzati scesero dalla 500 e mano nella mano di incamminarono verso il parco alla

luce di una luna insolitamente luminosa.

La 500 li vedeva allontanarsi; quella sera per lei e per i due innamorati sarebbe iniziata una

nuova avventura!