un volto tra la folla

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stephen king

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Il libro

Dopo la morte della moglie Ellie, Dan

Evers ha deciso di trascorrere gli anni

della pensione in Florida, dove passa le

sue giornate tra tv e cibi riscaldati. Una

sera, mentre sta guardando, come

sempre, la partita di baseball, gli sembra

di scorgere un volto famigliare tra la folla

che gremisce la tribuna dello stadio. È il

suo vecchio dentista, che Dan era

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convinto fosse morto da tempo.

Probabilmente si è sbagliato. Il giorno

dopo, un altro volto compare sullo

schermo, e questa volta Dan sa che è

quello di un defunto, il suo ex socio

dell’agenzia di noleggio camion. Un sosia?

Un’allucinazione causata dai sedativi che

prende per dormire? Ma quando a

comparire tra i tifosi è sua moglie Ellie,

Dan decide che è venuto il momento di

verificare di persona, andando

direttamente allo stadio di St.

Petersburg...

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L’autore

Stephen King, acclamato

genio della letteratura

internazionale, vive e lavora

nel Maine con la moglie

Tabitha, a sua volta scrittrice. Le sue

storie sono clamorosi bestseller che

hanno venduto 400 milioni di copie in

tutto il mondo e hanno ispirato registi

famosi come Stanley Kubrick, Brian De

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Palma, Rob Reiner e Frank Darabont.

Nel 2003 gli è stata assegnata la

National Book Foundation Medal per il

contributo alla letteratura americana e

nel 2007 l’associazione Mystery Writers

of America gli ha conferito il Grand

Master Award. Le sue opere sono

pubblicate in Italia da Sperling & Kupfer.

www.stephenking.com

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L’autore

Stewart O’Nan, nato nel 1961 a

Pittsburgh, Pennsylvania, è autore di

racconti e romanzi, per i quali ha

ricevuto numerosi riconoscimenti, e nel

1996 è stato nominato da Granta

come uno degli America’s Best Young

Novelists. Con Stephen King condivide

la passione per il baseball ed entrambi

sono tifosi accaniti dei Red Sox.

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STEPHEN KING & STEWART O’NAN

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Un volto tra lafolla

Traduzione di Giovanni Arduino

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L’estate dopo la morte dellamoglie, Dean Evers cominciò adappassionarsi al baseball. Alla paridi altri pensionati del New England,era un tifoso dei Red Sox che avevaabbandonato le bufere del nordestper la costa della Florida, adottandogenerosamente come sua seconda

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squadra i Devil Rays, ai tempi ilfanalino di coda del campionato.Anche se aveva allenato un gruppodella Little League, non andavapazzo per il gioco, a differenza delfiglio; però, di sera in sera, mentreil tramonto colorava l’occidente ditinte sgargianti, si era ritrovato asintonizzarsi sulle partite dei Raysper riempire il vuoto dell’alloggiocondominiale.

Sapeva che era solo un modo perammazzare il tempo. Lui ed Ellieerano stati sposati per quarantaseianni, nella buona e nella cattivasorte, anche se non c’era piùnessuno a ricordarlo. Era stata la

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moglie a insistere di trasferirsi a St.Petersburg, per beccarsi un ictuscinque anni scarsi dopo il trasloco.Particolare tremendo, all’epoca erain ottima forma. Avevano appenaconcluso una tonificante partita ditennis al centro sportivo. Lei l’avevasconfitto di nuovo e come daaccordi Dean le aveva offerto dabere. Erano seduti sotto unombrellone a gustarsi un paio di gintonic ghiacciati, quando Ellie avevaabbozzato una smorfia, premendosiuna mano sull’occhio.

«Emicrania da gelo?» le avevadomandato.

Lei non si era mossa, incollata

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alla sedia, l’altro occhio fisso nelvuoto.

«El», aveva continuato lui,sfiorandole la spalla scoperta. Solopiù tardi, anche se il medico loriteneva impossibile, si sarebbericordato che la pelle della moglieera fredda.

La donna si era accasciata afaccia in giù sul tavolo, rovesciandoi bicchieri, facendo accorrere icamerieri e il direttore e il bagninodella piscina. Questi le avevaappoggiato delicatamente la testasu un telo di spugna piegato inquattro e le si era inginocchiatoaccanto, controllandole il polso fino

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all’arrivo dell’ambulanza. Ellie avevaperso l’uso della parte destra delcorpo ma era viva, quello eral’importante; peccato che, aneanche un mese dalla fine dellafisioterapia e dopo essere tornata acasa dal periodo di rieducazionemotoria, avesse improvvisamentesofferto un secondo, fatale ictusmentre lui le stava facendo ladoccia. La scena aveva cominciatoa tornargli in mente con talefrequenza da costringerlo atrasferirsi laggiù, in un grattacielolungo la baia dove non conoscevanessuno e qualsiasi passatempo erail benvenuto.

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Evers mangiava guardando lapartita. Si preparava la cena dasolo, ormai stanco dei ristoranti e diordinazioni a domicilio inutilmentecostose. Stava ancora muovendo iprimi passi. Sapeva bollire la pasta,grigliarsi una bistecca, sminuzzareun peperone rosso per guarnireun’insalata in busta. Non era uncuoco raffinato, restava troppospesso deluso e sconsolato dairisultati. Quella sera toccava a unabraciola di maiale con aromi cheaveva comprato al supermercato. Inteoria bastava sbatterla sul fuocoed era pronta, ma non riusciva maiad azzeccare il punto giusto di

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cottura. Mentre la carne sfrigolava,preparò alla svelta un’insalata,apparecchiando il tavolino davantial televisore. Il grasso sul fondodella padella cominciò ad annerirsi.Toccò la carne con un dito, neldubbio che fosse ancora cruda. Latagliò con un coltello e ne sgorgòun rivolo di sangue. Pulire queltegame sarebbe stato unlavoraccio.

E poi, quando si sedette emasticò il primo boccone, scoprì chela braciola era dura. «Che schifo»,si disse con una risatinaautoironica. «Sicuramente non sonoGordon Ramsay.»

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I Rays sfidavano i Mariners e glispalti erano deserti. Il TropicanaField era pieno come un uovo soloquando i Red Sox o gli Yankeeserano in città. Poteva avere avutoun senso nei giorni delle passatesfortune, ma ormai la squadra eraun avversario di tutto rispetto.Mentre David Price eliminava ibattitori a uno a uno, Dean notòcon disappunto che parecchi tifosisulle poltroncine imbottite dietro ilpiatto stavano chiacchierando alcellulare. Inevitabilmente, unragazzo prese ad agitare la manocome un naufrago, di sicurorivolgendosi all’interlocutore che lo

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seguiva da casa.«Guardatemi. Sono in tivù,

dunque esisto», si lamentò Evers.Il ragazzo proseguì a lungo. Si

trovava giusto alle spalledell’arbitro e quando Price lanciòuna palla curva che raggiunse ilbordo esterno del piatto, durante ilreplay una zoomata sulla zona distrike ingrandì il ghignodell’imbecille mentre salutava alrallentatore. Due file dietro di lui,seduto in disparte con il camiceimmacolato e i capelli radiimbrillantinati all’indietro, massiccioe impassibile come una statuadell’isola di Pasqua, il vecchio

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dentista di Evers a Shrewsbury, ildottor Young.

Il Giovane dottor Young, come lochiamava scherzosamente la madredi Dean, perché era già vecchioquando lui aveva pochi anni. Erastato un marine nel Pacifico,tornato da Tarawa con le suecertezze intatte ma parte di unagamba in meno. Aveva passato ilresto della vita vendicandosi nonsui giapponesi ma sui bambini diShrewsbury, cercando punti debolinello smalto dei denti con la puntaimpietosa dello specillo di acciaioinossidabile e conficcando aghinelle gengive.

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Evers smise di masticare,curvandosi in avanti per esseresicuro di non sbagliarsi. La chiomaimbrillantinata all’indietro e lafronte ampia da scultura del monteRushmore, le lenti bifocali a fondodi bottiglia e le labbra sottili che sisbiancavano quando si accaniva conil trapano: sì, era lui, esattamentecome Evers l’aveva visto l’ultimavolta, oltre mezzo secolo prima.

Che assurdità. Avrebbe dovutoavere almeno novant’anni. Ma laFlorida straripava di uomini dellastessa età, molti dei quali benconservati grazie al clima da serra,quasi mummificati sotto le camicie

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abbondanti di cotone e lo strato diabbronzatura.

No, pensò Dean. Young fumava.Un’altra odiosa caratteristica chericordava di lui era il puzzo rancidodell’alito e dei vestiti mentreincombeva minaccioso, cercando diavere la meglio. Il pacchetto rossogli stava alla perfezione nella tascadel camice: Lucky Strike, senzafiltro, veri e propri chiodi da bara.Uno dei vecchi slogan delle Luckyera: «È tabacco tostato!» Magariquesto era suo fratello minore o unfiglio, addirittura più giovane delGiovane dottor Young.

Price spiazzò il battitore con una

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palla veloce per finire l’inning e lostacco pubblicitario riportò Evers alpresente. La braciola di maiale eradura come un guanto da ricevitore.La gettò nella spazzatura, mentre siprendeva una birra. Il primo sorsogli schiarì le idee. Era impossibileche fosse il medico, con le manitremanti per i postumi della sbronzae un sentore di gin sotto il puzzo disigarette. Nel nuovo millennio il suoproblema sarebbe stato definitodisturbo post-traumatico da stress,ma che cosa poteva importare a unbambino alla mercé dei suoistrumenti di tortura? Evers l’avevasempre detestato, fino a

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desiderarlo morto o almeno sparitoda qualche parte.

Quando toccò battere ai Rays, ilragazzo ricominciò a sbracciarsi, male file alle sue spalle erano vuote.Dean rimase incollato allo schermo,aspettandosi che il dentistatornasse con una birra e un hotdog, ma con il passare degli inninge il crescere degli strikeout di Price,il posto rimase libero. Accanto, unadonna con un top scintillante salutògli amici a casa.

A Dean sarebbe piaciutoraccontarlo a Ellie o telefonare allamadre per chiederle che fine avessefatto il Giovane dottor Young;

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invece non fu in grado dicondividerlo con nessuno, comeormai gli capitava con la maggiorparte delle esperienze quotidiane.Probabilmente, quel tipo era soloun altro vecchietto con l’abitudine disprecare le poche serate che glirimanevano godendosi il baseball,ma allo stadio e non in unappartamento.

Più tardi, verso le tre delmattino, Dean capì perfettamenteperché la pena più temuta daicarcerati fosse l’isolamento forzato.Oltre un certo punto, le botte nonfacevano più male, ma un pensierorischiava di continuare in eterno,

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alimentando l’insonnia che a suavolta lo rafforzava. Perché proprio ildottor Young, che non gli eratornato più in mente da secoli? Eraun segno? Un presagio? O stavaimpazzendo, come gli era quasisuccesso quando gli avevanocomunicato la morte di Ellie?

Per allontanare quei dubbi,trascorse il giorno successivo asbrigare varie faccende in città,parlando con l’impiegato dell’ufficiopostale e l’addetta ai prestiti dellabiblioteca: giusto un paio dichiacchiere, ma pur sempre unpunto di partenza, un timidoapproccio. Come ogni estate, Pat

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aveva raggiunto con la famiglia igenitori di Sue a Cape Cod. Lui lichiamò lo stesso, lasciando unmessaggio sulla segreteriatelefonica. Non sarebbe stato malevedersi al suo ritorno. Gli sarebbepiaciuto invitarli fuori a cena, in unposto di loro scelta, o magari a unapartita di baseball.

La sera si preparò da mangiarecome se niente fosse, anche seteneva d’occhio l’ora e grigliò ilpollo alla svelta per non perdersi ilprimo lancio. Di nuovo Rays controMariners e di nuovo poco pubblico;gli spalti in alto erano un mare disedili blu vuoti. Evers si preparò alla

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partita, senza preoccuparsi di dovefosse finita la palla maconcentrandosi sulla terza fila allasinistra dell’arbitro. Quasi arispondergli con una pernacchiagalattica, Raymond, la mascotte deiRays con un pelo blu daextraterrestre, ballonzolò di postoin posto, dimenando i pugni allespalle di Ichiro Suzuki.

«Ti sta partendo la cocuzza», sidisse Evers. «Rassegnati.»

Il campione dei Mariners, FelixHernandez, era al lancio e ci davadentro. La partita era veloce.Quando Dean aprì l’immancabilebirra della serata, si era già al sesto

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inning e gli M erano in vantaggio diun paio di punti. In quel precisoistante, mentre Ben Zobrist subiva ilterzo strike da parte di King Felixsenza nemmeno muovere la mazza,Evers notò tre file più in fondo,nello stesso completo gessato con ilquale era stato sepolto, il suovecchio socio in affari LeonardWheeler.

Wheeler (sempre Leonard, maiLennie) stava divorando un hot dog,accompagnandolo con quella che gliintelligentoni dei programmi sportividell’ESPN amavano definire «unabevanda da adulti». Troppostupefatto per essere incredulo, al

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solo pensiero del socio Evers reagìd’istinto con un insulto. «Dispoticofiglio di puttana!» urlò, lasciandosisfuggire la bevanda da adultiproprio mentre se la portava allelabbra. La lattina piombò sulvassoio appoggiato in grembo,ribaltandolo a terra tra i piedi diDean; il pollo, il purè di patateistantaneo e i fagiolini surgelati(pure quelli di un coloreextraterrestre) finirono sul tappetoin una pozza di birra schiumosa.

Evers non ci badò, lo sguardofisso sul nuovo televisore, cosìultramoderno che a volte glisembrava possibile entrare dentro

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lo schermo, sollevando una gambae abbassando la testa per nonsbatterla contro la cornice esterna.Era Wheeler, senza dubbio: glistessi occhiali cerchiati d’oro, lastessa mascella sporgente, lestesse labbra stranamente carnose,la stessa chioma candida e vistosache lo faceva assomigliare allastella di una soap opera, all’anzianoattore protagonista che interpretaun dottore caritatevole o unmiliardario cornificato dalla mogliesporcacciona che gli amici gliinvidiano. Impossibile confonderel’enorme spilla con la bandieraamericana sul risvolto della giacca.

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Era sempre andato fiero di quellaschifezza da parlamentare corrotto.Una volta Ellie aveva dettoscherzando che probabilmenteLennie (tra loro due nonmancavano mai di chiamarlo così)se l’infilava sotto il cuscino prima diaddormentarsi.

Seguì il momento dell’incredulità,che arrivò in un lampo a cancellarela sorpresa, come i globuli bianchiche sciamano in una ferita aperta.Evers chiuse gli occhi, contò fino acinque e poi li spalancò, certo cheavrebbe visto semplicementequalcuno che sembrava Wheeler o(forse peggio) proprio nessuno.

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L’inquadratura era cambiata. Latelecamera non era puntata sulnuovo battitore, ma sull’esternosinistro dei Mariners, impegnato inun curioso balletto.

«Mai assistito a niente delgenere», ammise uno degliannunciatori. «Dewayne, chediavolo combina Wells?»

«Pare stia sculettando»,improvvisò Dewayne Staats, edentrambi scoppiarono a ridere.

Basta con gli scambi di battutespumeggianti, pensò Evers. Feceper drizzarsi in piedi, calpestando ilpetto di pollo inzuppato di birra.Tornate a riprendere il piatto.

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Come se il regista delprogramma l’avesse sentito dalfurgone ipertecnologico delladiretta, l’inquadratura cambiò perun secondo. Luke Scott spiazzò conuna cannonata il difensore diseconda base dei Mariners e in unbatter d’occhio il Tropicana sparì,sostituito dalla pubblicità di unacompagnia assicurativa con unapapera che tappava le falle di unabarca a remi.

Evers si alzò per metà ma glicedettero le ginocchia e crollò dinuovo sulla sedia. Il cuscino silamentò esausto. Lui inspirò afondo, espirò e si sentì leggermente

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meglio. Riuscì a sollevarsi in piedi ea trascinarsi in cucina. Prese losmacchiatore da sotto il lavabo,leggendo le istruzioni. Ellie non neavrebbe avuto bisogno. Si sarebbelimitata a un commento tra ildivertito e l’irritato («Puoi vestire afesta un buzzurro, ma buzzurrorimane» era uno dei suoi preferiti) eavrebbe fatto sparire il disastro aforza di olio di gomito.

«Non era Lennie Wheeler»,annunciò Evers in mezzo alsoggiorno deserto non appena vifece ritorno. «Manco per sogno.»

La papera era scomparsa,rimpiazzata da un uomo e una

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donna che si sbaciucchiavano suuna terrazza. Presto sarebbero salitiin camera da letto, facendosi unascopata garantita al Viagra, perchési viveva in un’era dove esistevasempre un modo per cavarsela.Dean, che in materia era uncampione (in fondo aveva letto leistruzioni sulla bomboletta), siinginocchiò, raccogliendo sulvassoio i resti mollicci della cenacon una serie di plop, e poi spruzzòuna nuvoletta sul sudiciumerimasto, consapevole che in ognicaso la macchia non sarebbesparita.

«Lennie Wheeler è più morto di

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Jacob Marley del Canto di Natale.Sono andato al suo funerale.»

Era vero, e anche se avevamantenuto fino alla fine la giustaespressione, seria e contrita, sel’era goduta parecchio. Una sanarisata poteva essere la miglioremedicina al mondo, ma Dean Eversera convinto che non esistessevendetta più raffinata delsopravvivere ai propri nemici.

Lui e il socio si erano conosciutialla scuola di amministrazioneaziendale e avevano varato con duesoldi la Speedy Truck dopo cheLennie aveva scoperto «unavoragine larga quanto il Sumner

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Tunnel» (per usare le sue stesseparole) nell’economia di mercatodel New England. All’inizio, Eversaveva tollerato l’atteggiamentoautoritario di Wheeler,perfettamente sintetizzato da unatarga sulla parete dell’ufficio delsocio: QUANDO VORRÒ LA MIA OPINIONE,

TE LO DIRÒ. A quei tempi, prima ditrovare la propria strada, una similementalità era quello di cui Deanaveva bisogno. Talvolta gli eracapitato di pensare che Lenniefosse il pugno di ferro nel suoguanto di velluto. Ma i giovanicrescono e sviluppano ideeindipendenti.

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Nel giro di vent’anni, la Speedyera diventata la maggiore agenziadi noleggio furgoni del NewEngland, una delle poche a nonessere finita nel mirino del fisco odel crimine organizzato. Fu allorache Leonard Wheeler decise diespandersi nell’intera nazione (perEvers e la moglie era sempreLennie, ma solo quando erano alsicuro sotto le coperte,sghignazzando peggio di dueragazzini). Una volta tanto, Deanpuntò i piedi e si oppose. Nongentilmente, come nei dissaporiprecedenti, ma con fermezza. Aviva voce. Era certo che l’intero

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personale dell’ufficio li avessesentiti, anche con la porta chiusa.

La partita ricominciò mentre luiaspettava che lo smacchiatorefacesse effetto. Hellicksoncontinuava a lanciare per i Rays, eaveva occhio, ma non quantoHernandez, e in qualsiasi altraoccasione Evers lo avrebbeincoraggiato mandandogli dellevibrazioni positive. Ma quella sera silimitò ad accovacciarsi davanti allasedia, le ginocchia ossuteappoggiate ai lati della chiazza chestava cercando di eliminare,fissando i posti dietro il piatto.

Wheeler era ancora lì, una birra

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in una mano e il cellulare nell’altra.Bastò quello spettacolo a riempirlodi sdegno. Non in quanto i telefoniniavrebbero dovuto essere vietatinegli stadi di baseball alla pari delfumo, ma perché il socio eraschiattato d’infarto ben prima chequegli aggeggi fossero di usocomune. Non aveva il diritto disfoggiarne uno!

«Oh-oh, che fuoooori campo!»starnazzava Dwayne Staats. «JustinSmoak l’ha proprio castigato!»

La telecamera seguì la palla tragli spalti quasi vuoti, soffermandosisu due ragazzi che se necontendevano il possesso. Il

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vincitore salutò il pubblico a casa,dimenando i fianchi avanti eindietro in modo incredibilmentevolgare.

«Vaffanculo!» gli gridò Evers.«Sei in tivù, e allora?»

Non usava quasi mai unlinguaggio simile, ma non era forsericorso alla stessa espressione neiconfronti del socio quando gli avevaproposto di espandersi? Sì. E non siera fermato a un semplicevaffanculo, azzardando unvaffanculo, Lennie.

«E ti sei meritato quello che ti hofatto.» Con suo enorme sconcerto,scoprì che stava per scoppiare a

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piangere. «Non volevi mollare lapresa, Leonard. Mi ci hai costretto.»

La telecamera tornò a riprendereil campo, dove Smoak eraimpegnato nel solito giro delle basi,puntando l’indice verso il cielo (be’,verso la cupola) mentreraggiungeva il piatto, acclamatosenza troppa foga dalla ventina ditifosi dei Mariners presenti nellostadio.

Arrivò il turno di Kyle Seager.Dietro di lui, in terza fila, il posto untempo occupato da Wheeler eravuoto.

Non era Lennie, rifletté Evers,strofinando la macchia (la salsa

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barbecue non sarebbe mai venutav i a ) . Solo qualcuno che glisomigliava.

Un ragionamento che già nonaveva funzionato con il Giovanedottor Young. In quel caso capitò lostesso.

Dean spense la televisione,decidendo di andare a letto presto.

Inutile. Non si addormentò néalle dieci né a mezzanotte. Alle dueprese uno degli Zolpidem di Ellie,sperando di non finirci secco: ilsonnifero era scaduto da un anno emezzo. Non gli successe manemmeno si assopì. Ne ingollòun’altra mezza pastiglia, restando

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disteso e pensando a una targa nelsuo vecchio ufficio. Sopra c’erascritto DATEMI UNA LEVA E VI SOLLEVERÒ IL

MONDO. Meno arrogante di quella diWheeler e forse più efficace.

Non appena Leonard si rifiutò disciogliere il contratto che li legava,da lui firmato quando era giovane eingenuo, a Evers sarebbe servitaquella famosa leva per smuovere ilsocio. Fortunatamente ne avevauna. A Wheeler andavano a genio iragazzini. Oh, non proprio ini-ini,non minorenni, ma da poco entratial college. Martha, la segretariaprivata di Leonard, gli avevaconfidato nel corso di una serata a

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base di rum durante una conventiona Denver che il principale preferivaquelli muscolosi, tipo bagnini. Dopo,sobria e pentita, lo aveva supplicatodi non raccontarlo ad anima viva.Wheeler era un buon capo, avevaprecisato, anche se inflessibile, e lamoglie una delizia. Lo stesso valevaper i due figli, un maschio e unafemmina.

Evers tenne il becco chiuso, nonrivelando una simile chicca neppurea Ellie. Se le avesse confessato cheintendeva usare un’informazionecosì imbarazzante per romperel’accordo societario, ne sarebberimasta disgustata. Di sicuro non è

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necessario abbassarsi a tanto,avrebbe commentato conrisolutezza. El credeva di capire ilproblema del vincolo contrattuale,ma si sbagliava. Soprattutto non sirendeva conto che la faccendariguardava l’intera famiglia: lui, lei eil piccolo Patrick. Se la Speedy sifosse estesa su scala nazionale, icolossi degli autonoleggil’avrebbero schiacciata entro unanno. Due al massimo. Evers ne eraconvinto e aveva le cifre perdimostrarlo. Tutto il loro lavorosarebbe andato distrutto e lui nonaveva intenzione di colare a piccoper colpa della sfrenata ambizione

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di Wheeler. Era inaccettabile.Non era partito subito con

vaffanculo, Lennie. Prima avevatentato di farlo ragionare,perorando la propria causa conl’aiuto degli ultimi tabulati. La loroquota di mercato nel New Englanddipendeva da due fattori: i clientipotevano restituire il furgone dovevolevano e la tariffa oraria erainferiore a quella dei concorrenti piùgrandi. L’area di loro competenzanon era enorme e riuscivano adavere sempre veicoli a disposizione,mentre i colossi dell’autonoleggioerano spesso costretti a esigere unsovrapprezzo per il servizio offerto.

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Il primo settembre, giorno ditrasloco per gli studenti, la Speedytrionfava a Boston. Se avesseroassottigliato il parco macchine percoprire gli altri Stati, si sarebberoritrovati con gli stessi grattacapidella U-Haul o della Penske: dueaziende pachidermiche che avevanosempre evitato di prendere amodello. Non esisteva un validomotivo per imitare i rivali, cheavevano pure sconfitto. ForseWheeler non se ne era accorto, mala Penske e la Thrifty avevanoappena presentato istanza difallimento.

«Per l’appunto», aveva ribattuto

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Leonard. «Con i colossi fuori dallescatole, questo è il momentoadatto. Noi non cercheremo diassomigliare a loro, Dean, madivideremo gli Stati Uniti in regionie ci comporteremo come al solito.»

«Ma funzionerà nel nordovest? Onel sudovest? O al centro? QuestoPaese è gigantesco.»

«Magari sulle prime non sarà cosìredditizio, ma non ci impiegheremomolto a ingranare. Conosci laconcorrenza. Tempo un anno emezzo, due al massimo, e l’avremoridotta a pezzi.»

«Ci siamo già allargati troppo etu vuoi farci indebitare ancora di

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più.»Avevano continuato a discutere,

con Evers saldo sulle proprieposizioni. Anche per una societàquotata in borsa, i problemi dellacapitalizzazione e del flusso dicassa erano insormontabili:un’opinione che si sarebbe rivelatadisastrosamente azzeccatavent’anni dopo, in piena recessione.Però Lennie Wheeler non eraabituato ad arrendersi e nessundiscorso di Evers era servito adissuaderlo. Il socio aveva giàparlato con parecchi investitoriprivati e stampato un elegantepieghevole. Era intenzionato a

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sottoporre direttamente la suaproposta agli azionisti; nonostantele ritrosie di Evers, se necessario.

«Non credo che tu voglia farlo»,aveva dichiarato Dean.

«E perché no?»Aveva cercato, davvero cercato

di risolvere la questione in mododignitoso, rispettabile. E comunqueil tempo gli avrebbe dato ragione.Alla fine della fiera, negli affaricontava solo la sopravvivenza.Evers non aveva mai avuto dubbi inproposito: era stato costretto asalvare la società. Ecco spiegato ilricorso all’arma segreta.

«Non credo che tu voglia farlo

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perché non penso che ti piacerebbeche cosa porterei alla riunione congli azionisti. O meglio, chi.»

Wheeler aveva riso controvoglia,fissando Evers quasi gli avessepuntato una pistola alla tempia.«Chi?»

«Lo sappiamo entrambi.»Il socio si era lentamente

strofinato il lato della faccia con lamano. «Mi stavo giusto chiedendoperché fossi entrato qui come seavessi già vinto.»

«Non si tratta di vincere, ma dievitare uno sbaglio che ci farebbeperdere tutto. Mi dispiace esserearrivato a tanto. Se solo mi avessi

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dato retta...»«Vaffanculo, Dean. Non scusarti

per un ricatto. È da idioti. Detto tranoi, perché non arrotoli per benequei tabulati, te li ficchi su per ilculo da verginello e ammetti laverità: sei un vigliacco. Lo seisempre stato.»

Nel giro di un anno, Evers rilevòl’intera società. La scissione fucostosa e, con il senno di poi, unaffare più vantaggioso di quantoWheeler si sarebbe meritato.Lennie lasciò il New England, poi lamoglie e alla fine, in un prontosoccorso di Palm Springs, questamesta valle di lacrime. Come forma

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di rispetto, Evers arrivò in volo per ilfunerale; naturalmente, non eranopresenti ragazzi con muscoli dabagnino, ma solo la figlia, che confreddezza lo ringraziò per esserevenuto. Lui si astenne dalrisponderle con la prima frase chegli era passata per la testa: ilsarcasmo non si addice alleciccione, mia cara. Qualche annopiù tardi, dopo un controllometicoloso dei conti e un nuovoafflusso di capitali privati, la Speedysi estese su scala nazionale, graziea una versione semplificata delvecchio progetto di divisione perregioni. Purtroppo, ma non gli

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sembrò una grande rivincita, Eversci aveva visto giusto, e la societàpresentò istanza di fallimento allapari dei rivali che aveva sbaragliato.Lui se ne uscì con un gruzzoloconsiderevole e finita lì.

Il lato divertente era chescavando nemmeno troppo a fondo,facendo un paio di domandedisinvolte alla segretaria escrutando la sua espressionepreoccupata, Wheeler stesso sisarebbe potuto garantire unapolizza assicurativa a prova dibomba. Non appena Evers se nerese conto, mollò subito Martha; unvero sollievo, considerando che

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entrambi avevano una coscienza.La piacevole avventura tra i due eraterminata ma, invece di licenziarla,lui se la tenne stretta,promuovendola a sua assistentepersonale e raddoppiandole lostipendio, lavorandole a fiancogiorno e notte, finché alla fine leinon accettò un generoso accordo diprepensionamento. Alla festad’addio, Dean tenne un discorsoaccorato, le diede una Honda GoldWing e un bacino sulla guancia,mentre la platea brindava eapplaudiva commossa. La cerimoniaterminò con una proiezione didiapositive, dove Martha cavalcava

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la sua vecchia Harley Tri-Glide,mentre George Thorogood cantavaRide on Josephine.

Fu una rarità per Evers: unaseparazione felice. Al di là della lorosciocca scappatella, gli era semprepiaciuta Martha, che aveva unarisata impertinente e mugolavamentre batteva a macchina, unamatita infilata dietro un orecchio.Quando nel suo discorso l’avevadefinita non solo un’ottimacollaboratrice ma un’amica fidata,non aveva mentito. Anche se non lasentiva da secoli, era l’unicapersona con la quale aveva lavoratoche gli mancasse davvero.

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Sonnecchiando per effetto delloZolpidem, si chiese intontito sefosse ancora viva o se, il giornoseguente, l’avrebbe notata dietro lacasa base dopo essersi sintonizzatosulla partita, con addosso quelprendisole smanicato con lemargherite che lui adorava.

Si alzò alle otto, un’ora dopo ilsolito, e si chinò a raccogliere ilgiornale dallo stuoino. Lesse lapagina dello sport, scoprendo che iRays non avrebbero giocato quellasera. Pazienza; c’era sempre CSI -Scena del crimine. Evers si fece ladoccia, mangiò una salutarecolazione a base di germi di grano e

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poi si sedette a cercare il Giovanedottor Young sul computer. Quandoquella meraviglia del ventunesimosecolo non sputò fuori nessunresponso (o magari era colpa sua;era sempre stata Ellie lasmanettona di casa), ricorse altelefono. Secondo l’ufficio necrologidell’Herald-Crier di Shrewsbury, ilbabau armato di trapano della suainfanzia era schiattato nel 1978.Incredibilmente, aveva solocinquantanove anni, quasi diecimeno di lui. Dean ponderòl’imponderabile: il colpo decisivoera arrivato dalla guerra, dalleLucky Strike, dall’odontoiatria o da

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tutte e tre?L’annuncio mortuario non

conteneva niente di eccezionale,giusto il solito elenco di parenti inlutto e il recapito dell’agenzia dipompe funebri. Lui non avevaniente a che fare con la dipartitadel vecchio carnefice ubriaco; almassimo, era stato sfortunato aesserne la vittima. Scagionato daquella terribile colpa, la sera stessabrindò ripetutamente alla salute delmedico. Ordinò la cena a domicilio,ma arrivò dopo un’eternità, quandoormai era sbronzo. Scoprì di averegià visto la puntata di CSI e tutte lesit-com erano davvero idiote.

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Dov’era un comico del livello di BobNewhart quando ne avevi bisogno?Evers si lavò i denti, prese due degliZolpidem di Ellie e poi si fermòbarcollante davanti allo specchiodel bagno con gli occhi cerchiati dirosso. «Datemi un fegato inperfette condizioni e vi solleveròquesto cazzo di mondo», biascicò.

Dormì di nuovo fino a tardi,riprendendosi a forza di caffèistantaneo e fiocchi d’avena, e lessecon piacere che i Sox stavanoarrivando in città per una serie dipartite durante il fine settimana.Festeggiò la prima con una bellabistecca, programmando il

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videoregistratore digitale perchéimmortalasse eventuali spiritimaligni smaniosi di emergere dalsuo passato. In quella circostanza,non si sarebbe lasciato cogliereimpreparato.

E qualcosa si verificò, al settimoinning del pareggio, mentre il giocochiave aveva luogo sul piatto. Nonse ne sarebbe accorto se fosseandato a lavare le stoviglie, maormai era già seduto in cima aldivano, concentrato sulla partita esu ogni singolo lancio. Longoriapiazzò una doppia nel varco tral’esterno sinistro e l’esterno centro,e Upton cercò di fare punto

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partendo dalla prima. Il passaggiolo anticipò ma fu impreciso. Mentreil ricevitore dei Sox Kelly Shoppachsi lanciava a raccogliere la palla conuna spazzata, direttamente dietrolo schermo un bambino magro elentigginoso di non più di nove annisi alzò dal proprio posto.

Aveva un taglio da paggetto o ascodella, come lo definivano ascuola con cattiveria. «Ehi,Scoody!» urlavano braccandolo inpalestra, prendendolo a pugni,coinvolgendolo in violenti giochi diacchiapparella. «Ehi, Scoody,Scoody, Scoody!»

Si chiamava Lester Embree e

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all’ombra del Tropicana avevaindosso la stessa T-shirt consumataa strisce rossoblu e gli stessi jeanssbiaditi con le ginocchia rattoppatedi una lontana primavera del 1954.Era bianco ma abitava nel quartierenero dietro la zona fieristica. Eraorfano di padre e, a dare retta aipettegolezzi più benevoli, la madrelavorava nella lavanderia del St.Joe’s, l’ospedale cittadino. A metàdell’anno scolastico era arrivato aShrewsbury da un paesino dibuzzurri del Tennessee, una mossaazzardata e un affrontoinaccettabile per Evers e il suogruppetto di amici. Si divertivano a

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imitarne la parlata strascicata,trasformando le risposte esitantiche dava a lezione in monologhialla Garlo Gallo, il pennuto deicartoni animati. «Eeeh, sì, signorinaPritchett, signorina, le diiico, eeeh,sì, questi miei calzoni, glielo giuro,mi hanno reso un gran belservizio...»

Sullo schermo della tivù, Uptonbalzò in piedi, voltandosi aguardare il ricevitore sdraiato aterra e segnalando di essere salvo,proprio mentre l’arbitro dimenava ilpugno serrato chiamando out.Un’altra telecamera seguì con unazoomata Joe Maddon che si

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precipitava inviperito dallapanchina. La folla da tutto esauritoimpazzì.

Durante il replay, ancora primache Evers schiacciasse il tasto dellapausa e tornasse indietro con iltelecomando, Lester Embree spuntòcon il suo taglio a scodella dasfigato appena sopra la pubblicitàdella FOX 13 sull’imbottitura bludelle pareti. E poi, mentre Uptonevitava chiaramente la toccata conun’abile scivolata a uncino, ilbambino taciturno che Dean e gliamici avevano visto ripescare dalMarsden’s Pond raggrinzito e senzadita, si drizzò e puntò un

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moncherino mangiato dai pesci nonverso la partita ma in direzione diEvers, quasi riuscisse a scorgerlonell’appartamento in penombra egelido di aria condizionata.Muoveva le labbra, ma nonsembrava che stesse dicendo amorte l’arbitro.

«Ma per favore!» sbottò Evers,quasi stesse reagendo all’ingiustiziasul campo. «Cristo, ero solo unbamboccio.»

Si ritornò al caos della diretta.Joe Maddon e l’arbitro di casa basesi fronteggiavano a muso duro.Discutevano animatamente, e nonbisognava essere un indovino per

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azzardare che Maddon sarebbepresto finito a seguire il gioco dallospogliatoio della squadra. A Eversnon interessava godersi l’espulsionedell’allenatore dei Rays. Armeggiòcon il telecomando per tornare alpunto in cui era comparso LesterEmbree.

Magari non ci sarà. Forse ifantasmi non possono esserevideoregistrati, come i vampiri nonsi riflettono negli specchi.

Peccato che il bambino sitrovasse proprio sugli spalti,addirittura in uno dei posti piùcostosi, e Dean si ricordòimprovvisamente di quando il buon

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vecchio Scoody era rimasto adaspettarlo davanti all’armadiettodelle elementari Fairlawn. Nonappena l’aveva adocchiato, Eversera stato tentato di volargli addossoe mollargli un cazzotto. Dopo tutto,lo stronzetto stava oltrepassando ilsegno. Eeeh, sì, se glielo chiedi tu,Kaz e gli altri la pianteranno, avevabofonchiato con quel suo accentoda campagnolo.

Si riferiva a Chuckie Kazmierski,che però nessuno aveva maichiamato Chuckie. Evers potevaconfermarlo, perché Kaz era l’unicoamico d’infanzia rimastogli. Abitavaa Punta Gorda e ogni tanto si

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incontravano per una partitella agolf. Erano due allegri pensionati,uno divorziato e l’altro vedovo. Siabbandonavano spesso ai ricordi (ilprincipale passatempo di qualsiasivecchietto) ma da anni nonavevano più menzionato ScoodyEmbree. Evers si sentì costretto achiedersene il motivo. C’entrava lavergogna? Il senso di colpa? Forseper lui, ma non per Kaz. Il minore disei fratelli e il più piccolo di quellarognosa cucciolata, l’amico avevalottato per conquistarsi ogni briciolodi rispetto. Si era guadagnato laqualifica di capo branco tra milledifficoltà, con le unghie e con i

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denti, e considerava l’inettitudine diLester alla pari di un’offesapersonale. Nessuno gli aveva mairegalato nulla; perché quello zoticopiagnucoloso avrebbe dovutopassarsela liscia? «Al mondo nonesiste niente di gratuito», amavaripetere Kaz, scuotendo la testacome se fosse una triste verità. «Daqualche parte, in qualche modo,qualcuno la pagherà sempre.»

Magari Kaz se l’è persinodimenticato, ragionò Evers. Lostesso valeva per me fino a stasera.Ma ormai era sopraffatto dai ricordi.A ritornargli in mente, soprattuttogli occhi imploranti del bambino

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davanti all’armadietto. Grandi,acquosi, azzurri. E quel tonomelenso da mangiapannocchie,mentre lo supplicava, quasi Deanavesse qualche voce in capitolo.

Sì, Kaz e gli altri ti danno retta.Smettete di prendervela con me.Eeeh, sì, ti darò dei soldi. Dueverdoni alla settimana, tutta la miapaghetta, te lo giuro. Eeeh, sì, tidiiico, voglio solo andare d’accordocon voi.

Anche se ne avrebbe fattovolentieri a meno, Evers non si erascordato la propria reazione. Eeeh,sì, se vuoi solo andare d’accordocon noi, aveva risposto,

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prendendolo in giro per il suo mododi esprimersi, alza subito i tacchi,Scoody. Eeeh, sì, ti diiico, non miservono i soldi, secondo me sonoimpestati dai tuoi germi da frocetto,te lo giuro.

Da fedele secondo in comando (enon il capintesta, nonostante leconvinzioni di Lester Embree), Deanne discusse subito con Kaz,calcando la mano e ridendo dellapropria imitazione. Più tardi,all’ombra del pennone dellabandiera, incitò l’amico dal nervosogruppetto radunato intorno allarissa; sempre a volerla definire tale,perché Scoody non oppose

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resistenza. Si piegò in due nonappena raggiunto dal primo colpo,raggomitolandosi a terra mentreveniva tempestato di cazzotti ecalci. Alla fine, quasi si fossestufato, Kaz gli montò sopra acavalcioni, serrandogli i polsi ebloccandogli le braccia sopra latesta. Scoody piangeva e unaschiuma sanguinolenta gli colavadal labbro spaccato a metà. Nelcorso della zuffa, la T-shirt a striscerossoblu si era lacerata, il pettobiancastro a spuntare da un bucogrande come un pugno. Lester nonprovò a difendersi quandol’avversario gli mollò i polsi,

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afferrando lo strappo con entrambele mani e allargandolo. Il collettonon si ruppe e Kaz gli sfilò lamaglietta dalla testa con tre fortistrattoni, per poi drizzarsi in piedi eroteare i brandelli sopra il capocome un lazo prima di gettarliaddosso a Scoody e andarsene. Asorprendere Evers, oltreall’inaspettata violenza dell’amico eal modo in cui aveva massacrato ilrivale, fu la rapidità dell’accaduto.Non erano passati più di un paio diminuti. Gli insegnanti non eranoneppure riusciti ad accorrere fuori.

Quando Scoody scomparve unasettimana dopo, Evers e i compagni

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immaginarono che fosse scappatodi casa. La madre del bambino lapensava diversamente. A suo dire,gli piaceva passeggiare nellanatura. Aveva sempre la testa nellenuvole e forse si era smarrito. Iboschi dei dintorni furono perlustratida cima a fondo, tra l’abbaiare deisegugi fatti venire da Boston. Everse gli amici parteciparono in qualitàdi boy scout. Sentirono il trambustovicino al Marsden’s Pond,accorrendo sul posto. Poco dopo sene pentirono, non appena scorseroquella figura dalle orbite vuoteemergere gocciolante dallosfioratore della diga.

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Però, grazie a chissà qualemiracolo, ecco Lester Embree alTropicana Field, in piedi con altritifosi a guardare la calca intorno alpiatto. Non aveva quasi più le dita,a parte i pollici. E neanche gli occhio uno spicchio del naso. Lester lostava fissando attraverso loschermo, come la strega cattiva diB iancaneve . Specchio, specchiodelle mie brame...

Il moncherino di Scoody aindicarlo. Le labbra a muoversi. Perdire che cosa? A Evers bastòrivedere la scena due volte diseguito per capirlo: Mi hai ucciso.

«Non è vero!» gridò al bambino

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con la maglietta a strisce rossoblu.«Non è vero! Sei caduto dentro ilMarsden’s Pond! Ci sei caduto! Cisei caduto e la colpa è solo tua,maledizione!»

Spense la tivù, andando a letto.Rimase sotto le lenzuola teso comeuna corda di violino, poi si alzò aprendere due Zolpidem, tirandoligiù con una robusta sorsata discotch. Se non altro lacombinazione di sonnifero e alcol localmò, ma restò ugualmente ascrutare il buio con gli occhispalancati tipo due fanali. Alle tregirò la radiosveglia contro la parete.Alle cinque, mentre le prime luci

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dell’alba facevano capolino dietro letende, finalmente arrivò unpensiero a confortarlo. Gli sarebbepiaciuto spartirlo con LesterEmbree, ma era impossibile, e siaccontentò di pronunciarlo ad altavoce.

«Scoody, vecchio mio, seesistesse una macchina per tornareindietro nel tempo e cambiare leidiozie che alcuni di noi hannocombinato alle elementari o allemedie, sarebbe prenotata fino alventitreesimo secolo.»

Exactamente. Non si poteva darela colpa a un branco di marmocchi.In genere gli adulti si dimostravano

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più giudiziosi, ma i ragazzini eranostupidi per natura. O persino cattivi.Gli sembrò di ricordare la storia diuna ragazzina della Nuova Zelandache aveva ucciso a mattonate lamadre della migliore amica. Avevacolpito la povera donna oltre unacinquantina di volte, e quandovenne giudicata colpevole, fusbattuta in carcere per... quanto?Sette anni? Cinque? Ancora meno?Non appena uscita, si trasferì inInghilterra, diventandoun’assistente di volo e poi unafamosissima autrice di gialli. Chigliel’aveva raccontato? Ellie,naturalmente. La moglie divorava

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quel genere di romanzi, cercandosempre di scoprire il colpevole, espesso riuscendoci.

«Scoody, non puoi accusarmi diniente», dichiarò Evers nel silenziodella camera sfiorata dall’aurora.«Mi dichiaro incapace di intendere edi volere.»

Un altro pensiero giunse arasserenarlo, quasi stesse soloaspettando il momento giusto.Stasera non devo guardare lapartita. Niente mi obbliga a farlo.

E tanto bastò a spedirlo nelmondo dei sogni. Dean si svegliòappena dopo mezzogiorno, nonricordando una dormita simile fin

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dai tempi del college. In cucina,diede una rapida occhiata ai fiocchid’avena e poi si preparò tre uova alburro. Se l’avesse avuta, ci avrebbeaggiunto della pancetta. Si limitò asegnarla sulla lista della spesa,attaccata al frigo con una calamitaa forma di cetriolo.

«Stasera, niente partita»,affermò tra sé e sé nel vuotodell’appartamento. «Eeeh, sì, tidiiico...»

Si accorse del suo modo diparlare, bloccandosi stupefatto.Forse non soffriva di demenzasenile o di una forma precoce diAlzheimer, ma di un normalissimo,

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comunissimo, banalissimoesaurimento nervoso. Sembravauna spiegazione assolutamenteragionevole per gli ultimiavvenimenti, ma sapere è potere,giusto? Se ti rendevi conto di quelloche ti stava accadendo, eri anche ingrado di fermarlo.

«Sì, forse andrò al cinema»,dichiarò con la sua voce di sempre.Tranquillo. Sensato. «Ecco che cosavolevo dire.»

Alla fine ci rinunciò. Nei dintornic’erano una ventina di sale, ma innessuna programmavano niente diinteressante. Invece raggiunse ilsupermercato, dove fece scorta di

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prelibatezze, compreso mezzo chilodell’ottima pancetta al pepetagliata spessa che Ellie adorava.Puntò verso la cassa veloce, notòche l’impiegata indossava unamaglietta dei Rays con dietro ilnumero 20 di Matt Joyce, e cambiòsubito direzione. Ci impiegò di piùma cercò di convincersi che nongliene fregava nulla, e che non gliimportava neppure di chi stessecantando l’inno nazionale alTropicana. Aveva comprato il nuovotascabile di Harlan Coben, un po’ dicibo per la mente da consumarecon il resto delle provviste. Loavrebbe letto quella sera stessa. Il

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baseball non era in grado dirivaleggiare con i classici thrillersuburbani dello scrittore, anche setra poco si sarebbero sfidati JohnLester e Matt Moore. E comunque,come si era lasciato coinvolgere daun gioco così lento e noioso?

Dopo avere riposto la spesa, sisistemò sul divano. Il romanzo diCoben era fantastico e Deans’immerse tra le sue pagine. Eratalmente preso che nemmeno siaccorse di avere agguantato iltelecomando; se lo ritrovò in manoquando alla fine del sesto capitolodecise di fare una pausa perassaggiare una fettina di torta

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preconfezionata al limone.Non sarebbe male controllare il

punteggio, pensò. Un’occhiata disfuggita e tanti saluti.

All’ottavo inning, i Raysconducevano per uno a zero, eDewayne Staats era talmenteemozionato da balbettare. «Non miva di azzardare commenti su MattMoore, gente, in fondo sono un tipoall’antica e non facileall’entusiasmo, ma di sicuro nonsembra concedere niente ai Sox.»

Un no-hitter, si disse Evers.Moore sta realizzando un fottutono-hitter e ho rischiato diperdermelo.

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Primo piano del lanciatore, chesudava anche con i ventidue gradicostanti dello stadio. Mentrecominciava a prepararsi, si passò aun’inquadratura della zona delpiatto; dietro, in terza fila, ladefunta moglie di Dean Evers con lestesse scarpe da tennis che calzavail giorno dell’ictus numero uno. Luine avrebbe riconosciuto ovunque ladecorazione blu.

Ellie era abbronzatissima, unacostante in quel periodo dell’estate.Come spesso accadeva allo stadio,ignorava completamente la partita,occupata a trafficare con il suoiPhone. In un attimo di confusione,

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Evers si chiese a chi stesse inviandoun SMS: a qualcuno ancora in vita oa un amico dell’aldilà? Poi gli vibrò ilcellulare nella tasca dei pantaloni.

Lei alzò il telefonino versol’orecchio, salutando il marito conun leggero cenno della mano.Rispondi, mimò con le labbraindicando l’apparecchio.

Dean scosse lentamente il capo.Il suo cellulare vibrò di nuovo: un

piccolo elettrochoc alla coscia.«No!» esclamò rivolto alla tivù e

pensando quasi razionalmente: Puòsempre lasciare un messaggio.

Ellie gli sventolò davanti losmartphone.

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«C’è qualcosa che non va»,affermò Evers. Perché la moglie nonera come Scoody Embree o LennieWheeler o il Giovane dottor Young.Si amavano, ne era sicuro.Quarantasei anni di matrimonio nonerano una bazzecola, specialmentedi quei tempi.

La scrutò in volto. Sembravasorridere e, anche se non si erapreparato un discorsetto, glisarebbe piaciuto dirle quanto glimancava, e come passava le suegiornate, e che avrebbe desideratovedere più spesso Pat, Sue e inipoti; perché, sinceramente, nonaveva altri con cui parlare.

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Si sfilò di tasca il cellulare. Anchese la scheda della moglie era statadisattivata da mesi, il numero erasempre quello.

In televisione, Moore camminavasu e giù dietro il monte di lancio,facendosi rimbalzare il sacchetto diresina sul dorso della mano.

E all’improvviso eccola lì, mentresollevava l’iPhone alle spalle diDavid Ortiz.

Evers schiacciò il tasto dirisposta. «Pronto?»

«Alla buon’ora. Perché ci haimesso tanto?»

«Non ne ho idea. Non ti sembrastrano?»

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«Che cosa sarebbe strano?»«Non ne ho idea. Che tu non sia

più qui, per esempio.»«Morta. Intendi dire morta.»«Già.»«E quindi non vuoi parlarmi

perché sono morta.»«No. Mi è sempre piaciuto

parlare con te.» Evers sorrise, oalmeno così gli sembrò. Avrebbedovuto guardarsi allo specchio peresserne certo, perché si sentiva lafaccia paralizzata. «Continuo adesiderarti, amore, viva o morta.»

«Sei un grande bugiardo. L’hosempre detestato. E non mi piacevaneppure che ti scopassi Martha.

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Nemmeno un po’.»Che cosa ribatterle? Niente.

Dean preferì restare zitto.«Credevi che non lo sapessi?

Ecco un’altra tua caratteristica cheodiavo: la convinzione che non miaccorgessi mai di nulla. Eratalmente ovvio. Un paio di volte seitornato a casa puzzando del suoprofumo. Juicy Couture. Un aromaabbastanza sgradevole. Faceva ilpaio con te.»

«Mi manchi, El.»«Sì, d’accordo, anche tu. Ma non

è questo il punto.»«Ti amo.»«Piantala di sfruttare le mie

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debolezze. È qualcosa che mi sentoin dovere di fare. Prima non ho maipiantato scenate perché c’eranouna famiglia da tenere insieme euna casa da mandare avanti. Iosono così. O comunque lo ero. Matu mi hai ferita. Mi hai spezzato ilcuore.»

«Mi dispia...»«Per favore, Dean. Mi restano

appena un paio di minuti; una voltatanto, tappati la bocca e ascoltami.Mi hai ferita, e non soltanto per lafaccenda con Martha. Sonoabbastanza sicura che tu sia andatoa letto esclusivamente con lei...»

Un colpo basso. «Ci puoi scom...»

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«...ma non aspettarti unamedaglia al merito. Non hai avutooccasione di tradirmi con qualcunaal di fuori dell’azienda perché eri làin pianta stabile. Lo eri anchequando ti trovavi a casa. Sono statacomprensiva, e forse ho sbagliato anon far valere le mie ragioni, manei confronti di Patrick è stata unavera ingiustizia. Poi ti chiedi perchénon lo vedi mai: ci sei mai stato perlui? Eri sempre a Denver o a Seattleo a una riunione commerciale oroba del genere. S’impara in frettaa essere egoisti.»

Era una critica che Evers avevagià sentito in mille circostanze e

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modi diversi. Cominciò a distrarsi.Papi stava per subire il terzo strikeda Moore. Non sembra concedereniente ai Sox, aveva commentatoStaats. Matt Moore era davvero sulpunto di realizzare una partitaperfetta?

«Eri sempre preoccupato per illavoro, mai per noi. Immaginavi chebastasse garantirci una vita agiatae non mettere su troppa pancetta.»

L’ho comprata , quasi gli sfuggì dibocca. L’ho comprata stasera percena.

«Dean? Mi senti? Capisci checosa ti sto dicendo?»

«Sì», rispose lui, proprio mentre

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il lancio di Moore raggiungeval’angolo esterno e l’arbitrochiamava lo strikeout su Ortiz. «Sì!»

«Riconosco quel tono! Accidenti,stai guardando questa stupidapartita?»

«Ci puoi giurare.» Anche se sulloschermo c’era la pubblicità di unpick-up. Un tizio con il voltoattraversato da un ghigno, chesicuramente sapeva cavarsela inogni situazione, stava guidando nelfango a una velocità suicida.

«Chissà perché ho deciso dichiamarti. Sei un caso disperato.»

«Non è vero. E mi manchi.»«Cristo, non vale neanche la

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pena di proseguire. Lascia perdere.Addio.»

«No!» esclamò lui.«Mi sono sforzata di essere

gentile; come sempre, d’altronde.Mi sono sforzata e guarda i risultati.La gente del tuo stampo si mangiale persone gentili a colazione.Addio, Dean.»

«Ti amo», ribadì Evers, ma lamoglie era già scomparsa, equando si ritornò alla partita, ladonna con il top scintillante eraseduta al posto di Ellie. Sembravauna spettatrice abituale. A secondadei giorni, il top era blu o verde, mascintillava sempre. Forse lo

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indossava perché i parenti da casariuscissero a notarla. Quasi gliavesse letto nel pensiero, la donnaagitò la manina. Lui ricambiò ilsaluto. «Sì, troia, ti vedo. Sei intivù, troia, che cazzo di trionfo.»

Si alzò a versarsi uno scotch.Al nono inning, Ellsbury si

aggiudicò una battuta valida conuna palla ben calibrata e la folla silevò in piedi ad applaudire Mooreper il suo impegno. Evers spense iltelevisore e si sedette davanti alloschermo buio, rimuginando suldiscorso di Ellie.

A differenza dell’accusa di ScoodyEmbree, quella della moglie era

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vera. «Quasi completamente»,soggiunse, per poi azzardare un«parzialmente». Lei lo conoscevameglio di chiunque al mondo(quello o un altro) ma non avevamai voluto riconoscere i suoi meriti.Insomma, era stato lui a rifornire ilfrigorifero di provviste tutti queglianni, senza fare mancare nulla.Anzi, aveva persino acquistatol’elettrodomestico, il migliormodello di Sub-Zero, grazie tante.Le aveva pagato l’Audi. El’abbonamento al centro sportivo. Ele sedute di massaggio. E la robache lei ordinava sui cataloghi divendita per corrispondenza. Ehi,

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non scordiamoci la retta del collegedi Patrick! Evers si era laureatograzie a un’arrischiatacombinazione di borse di studio,pacchetti di prestito e lavorettiestivi di merda, mentre Pat erastato foraggiato dal suo vecchio. Lostesso vecchio che ultimamente eratroppo impegnato per chiamare.

Lei ritorna in vita, e perché? Perlamentarsi. Usando per giunta ilmaledetto iPhone che le hocomprato io.

Gli ritornò in mente un vecchiodetto che non sarebbe stato malecitare a Ellie, quando ne avevaavuta l’occasione: «La ricchezza non

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dà la felicità, ma fa sopportaremeglio l’infelicità».

Forse così lei avrebbe chiuso ilbecco.

Più ripensava al loro matrimonio(come sembrava normale dopoavere parlato alla defunta moglieseduta in poltrona d’onore), più siripeteva che forse non era statoperfetto, ma che non aveva nulla darimproverarsi. Aveva amato lei ePatrick, cercando in ogni occasionedi trattarli bene. Aveva sgobbatosodo, senza pentirsene, perchépotessero disporre di quello che luinon aveva mai avuto. Se non erabastato, pazienza. E riguardo

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all’avventura con Martha... certetrombate non significavano nulla.Gli uomini, tra i qualiindubbiamente Kaz, lo capivano, ledonne no.

A letto, mentre sprofondava inun meraviglioso oblio di tre parti diZolpidem e due di scotch, si accorseche la ramanzina di Ellie aveva unche di liberatorio. Chiunque fosseroi responsabili di quell’incubo, chiavrebbero mandato a tormentarlo?Chi sarebbe riuscito a farlo sentirepeggio? La madre? Il padre? Avevavoluto bene a entrambi, ma noncome alla moglie. La signorinaPritchett? Lo zio Elmer che aveva la

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pessima abitudine di fargli ilsolletico spingendolo a pisciarsiaddosso?

Raggomitolandosi sotto lescoperte, Evers si sorprese aridacchiarci sopra. No, il peggio erapassato. E anche se la serasuccessiva ci sarebbe stato un altrogrande incontro al Tropicana (unfaccia a faccia tra Josh Beckett eJames Shields), nessuno l’avrebbeobbligato a guardarlo. Appenaprima di addormentarsi, si disse cheda quel momento in poi avrebbeavuto più tempo per leggere. Forsepersino quei romanzi di Lee Childche l’avevano sempre attirato.

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Ma la precedenza spettava adHarlan Coben. Trascorse ilpomeriggio di domenica nelverdeggiante, spietato hinterlandamericano. Mentre il soletramontava su St. Pete, decretandola fine della giornata, stavaprocedendo a razzo e glirimanevano soltanto le ultimecinquanta pagine. In quel precisoistante gli vibrò il cellulare. Lo presecon circospezione, quasi fosse unatrappola per topi sul punto discattare, e fissò il display, provandoun notevole sollievo. Era il suovecchio amico Kaz, e a meno chenon avesse avuto un infarto (non da

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escludersi: era sovrappeso di unaquindicina di chili), lo stavachiamando da Punta Gorda e nondall’aldilà.

Comunque, Dean si dimostròestremamente guardingo;considerate le recenti esperienze,aveva ogni ragione di esserlo. «Kaz,sei tu?»

«E chi diavolo dovrebbe essere?»tuonò Kaz. Evers allontanò iltelefonino dall’orecchio con unasmorfia. «Quel coglione di BarackObama?»

Lui abbozzò una risatina. «No, èche...»

«Dean! Dino Martino, figlio di

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puttana! Bell’amico che sei! Ticapitano dei posti in prima fila enemmeno mi avverti?»

Da molto, molto lontano, Evers sisentì rispondere: «Avevo un solobiglietto». Diede un’occhiataall’orologio. Le otto e venti. Dovevaessere già iniziato il secondoinning... a meno che quella dei Rayscontro i Sox non fosse la partitadomenicale delle otto sull’ESPN.

Agguantò il telecomando.Nel mentre, Kaz rideva. Proprio

come aveva fatto quel giorno nelcortile della scuola. Il tono era lostesso, forse meno acuto. Purel’amico non era cambiato. Una

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considerazione deprimente. «Sì, sì,ti stavo solo prendendo per ifondelli. Bella la vista da lassù?»

«Magnifica», rispose Evers,premendo il tasto dell’accensione.Su Fox 13 trasmettevano un vecchiofilm con Bruce Willlis pieno diesplosioni. Schiacciò il 29,sintonizzandosi sull’ESPN. Shieldsstava lanciando contro DustinPedroia, il seconda base dellaformazione dei Sox. Il gioco eraappena cominciato.

Sono condannato al baseball, sidisse Evers.

«Dino? Terra a Dino Martino! Cisei ancora?»

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«Eccomi qui», rispose lui,alzando il volume. Pedroia sisbracciò, mancando la palla. Ilpubblico esplose in un boato; queifastidiosi campanacci adorati daitifosi dei Rays riecheggiarono conuna furia maniacale. «Pedie èappena stato eliminato.»

«Ma davvero? Come se fossicieco, Stevie Wonder. I Rays sonobelli carichi, eh?»

«Carichi da paura», replicò Deancon un tono piatto. «Grande serataper una partita.»

Era il turno di Adrian Gonzalez. Elì, seduto in prima fila appenadietro lo schermo del televisore,

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nella sua migliore imitazione di unvecchio incartapecorito chetrascorreva gli anni della pensionenello Stato del Sole, c’era DeanPatrick Evers.

Aveva la mano infilata in unassurdo ditone di gommapiuma, eanche se non riusciva a vederlobene, nemmeno in alta definizione,sapeva che sopra c’era scritto I RAYS

SONO IL N.1. L’Evers a casa fissòquello allo stadio, il cellularepremuto contro l’orecchio. L’Eversallo stadio ricambiò lo sguardo,reggendo un telefonino identico conla mano libera. Con una profondaindignazione che non venne

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soffocata neanche dall’assolutostupore, Dean si rese conto chel’altro se stesso al Tropicanaindossava una maglietta dei Rays.Mai e poi mai, pensò. Quelli sono icolori del nemico.

«Eccoti lì!» esultò Kaz. «Falloballare, amico!»

L’Evers allo stadio sollevò ilditone di gommapiuma, facendoloondeggiare con piglio deciso, tipoun tergicristallo gigante. L’Evers acasa, in automatico, abbozzò lostesso cenno con la mano che nonstringeva il cellulare.

«Stupenda scelta, Dino»,proseguì Kaz. «Scoprirti con una

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maglietta dei Rays è come vedereDoris Day con le tette al vento»,ridacchiò.

«Sono stato obbligato ametterla», rispose lui. «Il tizio chemi ha venduto il biglietto hainsistito tanto. Adesso devo andare.Ho voglia di una birra e di una...oddio oddio oddio eccola!»

Gonzo aveva sparato unacannonata secca e tesa, alta eprofonda.

«Bevine una per me!» urlò Kaz.Sul costoso televisore di Evers,

Gonzalez era impegnato nel girodelle basi. Mentre lo guardava,all’improvviso lui capì che cosa fare.

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Esisteva solo un modo per dare untaglio a quello scherzo diproporzioni cosmiche. Di domenicasera, il centro di St. Pete sarebbestato deserto. Se avesse preso untaxi, avrebbe raggiunto il Tropicanaalla fine del secondo inning. Forseaddirittura in anticipo.

«Kaz?»«Sì, amico?»«Avremmo dovuto essere più

gentili con Lester Embree o lasciarloin pace.»

Troncò la comunicazione primache l’altro potesse rispondergli.Spense la tivù. Si fiondò in camerada letto, frugò tra le camicie

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piegate nel cassettone e scovò lasua polo prediletta, quella di CurtSchilling, con davanti il calzinoinsanguinato e dietro la scrittaPERCHÉ NOI NO? Schilling era statol’Eroe per eccellenza e non avevamai avuto pura di nulla. Nonappena l’Evers con i colori dei Raysgliel’avesse vista addosso, sarebbesvanito come l’incubo che erasempre stato e quella pazziaavrebbe avuto fine.

Dean s’infilò alla svelta la polo echiamò un taxi. Nei pressi ce n’erauno che aveva appena scaricato uncliente e, come previsto, le stradeerano deserte. L’autista ascoltava la

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partita alla radio. I Sox eranoancora alla battuta a metà delsecondo inning, quando la macchinaaccostò davanti alla cancellataprincipale.

«Dovrà accontentarsi dei posti incima», affermò il taxista. «I Soxcontro i Rays sono l’incontro delsecolo.»

«Ne ho uno proprio dietro ilpiatto. Se si ferma dove hanno unativù accesa, forse mi noterà. Cerchila polo con il calzino insanguinato.»

«Ho sentito dire che la società divideogiochi di quello sfigato dimerda è fallita», proseguì l’altromentre Evers gli allungava dieci

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dollari. L’uomo si girò, scorse Deanancora sul sedile posteriore con laportiera spalancata e gli diede dimalavoglia il resto, beccandosi dimancia una specie di banconota delMonopoli tutta accartocciata.

«I tizi con un posto in prima filadovrebbero essere meno tirchi»,brontolò l’autista.

«I tizi con mezzo cervello inpappa non dovrebbero insultare ilMitico Schill. Se vogliono unamancia più generosa,naturalmente.» Evers sgusciò fuori,sbattendo la portiera eincamminandosi verso l’entrata.

«Vaffanculo, Boston!» gli gridò

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dietro il taxista.Senza voltarsi, Dean gli mostrò il

dito medio: vero, non digommapiuma.

L’atrio con le palme illuminatestile Natale alle Hawaii era quasivuoto, il rumore del pubblico dentroallo stadio simile al fragore dellarisacca. Era una partita da tuttoesaurito, come strillato ai quattroventi dalle scritte in LED rossi soprale biglietterie ormai chiuse. Ce n’erasolo una ancora aperta, in fondo,quella dei posti riservati.

Riservati per persone riservate, ameno che non ti chiamino alcellulare, pensò Evers,

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raggiungendola in automatico.«Prego, signore?» gli chiese

un’impiegata carina. Si eraspruzzata addosso del JuicyCouture? No, certamente no. Siricordò di Martha mentre gliconfessava: È il mio profumo damignotta. Lo metto solo per te. Eradisposta a fare certi numeri cheEllie manco si sognava e che glitornavano sempre in testa neimomenti meno opportuni.

«Prego, signore?»«Mi scusi. Talvolta mi comporto

da pensionato rimbambito.»L’altra sorrise come da copione.«Ha un biglietto per Evers? Dean

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Evers?»L’impiegata non esitò né si mise

a frugare in un’intera scatola dibuste: ne rimaneva soltanto una,con sopra il suo nome. Gliela passòattraverso la feritoia del vetro. «Sigoda la partita.»

«Chissà.»Evers puntò al cancello A,

aprendo l’involucro e tirando fuori ilbiglietto. Ci avevano attaccato uncartoncino con un fermaglio,appena cinque parole sotto il logodei Rays: CON I COMPLIMENTI

DELL’ORGANIZZAZIONE. Si precipitò super la rampa di accesso,consegnando il biglietto a un tipo

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dall’aria burbera che stavaguardando Elliot Johnsonfronteggiare Josh Beckett. Quelvecchio babbione doveva averealmeno mezzo secolo più dei suoidatori di lavoro. Come parecchi altridella sua età, non aveva nessunafretta. Ecco uno dei motivi per cuiEvers aveva rinunciato a guidare.

«Ottimo posto», commentòl’inserviente, inarcando lesopracciglia. «Tra i migliori dellostadio. Peccato per il ritardo.»Scosse il capo con un’ariacontrariata.

«Sarei arrivato prima, ma èmorta mia moglie.»

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Il tipo si bloccò sul punto divoltarsi, il biglietto stretto in mano.

«Fregato!» esclamò Evers,puntandogli contro l’indice a mo’ dipistola. «Ci cascano sempre tutti.»

L’inserviente non sembròdivertito. «Mi segua, signore.»

Scesero in fondo alle ripidegradinate. Il tipo era ridotto peggiodi Evers, con il collo grinzoso e ilvolto costellato da macchie difegato; tempo di arrivare alla primafila e Johnson stava ritornando inpanchina, vittima del terzo strikeconsecutivo. Il posto di Evers eral’unico vuoto, anche se nonesattamente. Appoggiato sullo

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schienale, un ditone digommapiuma blu con la scrittasacrilega I RAYS SONO IL N.1.

Il mio posto, si disse lui; mentresi sbarazzava di quell’affarevergognoso e si sedeva, quasi nonsi meravigliò di non indossare piùl’adorata polo di Schilling. A uncerto punto del tragitto dal taxi allaridicola poltroncina imbottita stilecapitano Kirk, era stata rimpiazzatada una maglietta turchese dei Rays.E anche se non riusciva a sbirciare,era sicuro di che cosa ci fossescritto dietro: MATT YOUNG.

«Il Giovane Matt Young»,scherzò; una battuta per pochi

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intimi che i suoi vicini di posto, tuttiperfetti sconosciuti, si premuraronodi ignorare. Allungò il collo,perlustrando il settore dello stadioin cerca di Ellie e Scoody Embree eLennie Wheeler, ma notò soltantoun miscuglio anonimo di tifosi deiRays e dei Sox. Non scorse neppurela donna con il top scintillante.

Tra un lancio e l’altro, mentreera voltato per scrutare il pubblicoalle spalle, il tipo alla sua destra glimollò un colpetto sul braccio,indicandogli lo schermo gigantegiusto in tempo perché osservasseuna versione grottescamenteingrandita di se stesso girarsi di

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scatto.«Te lo sei perso. Anzi, ti sei

perso», lo informò il tipo.«Non importa. Ultimamente sono

comparso fin troppo in tivù.»Prima che Beckett si decidesse

per un lancio veloce o uno curvo, ilcellulare gli vibrò in tasca.

Non posso neppure godermi lapartita in santa pace.

«Pronto?»«Con chi parlo?» Il tono di

Chuckie Kazmierski era stridulo ebellicoso, pronto alla rissa. Lui loconosceva bene e l’aveva ascoltatospesso nel corso dei lunghi annidalle elementari Fairlawn a quel

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posto al Tropicana Field, dove laluce era sempre malaticcia e non siscorgevano le stelle. «Sei tu,Dino?»

«E chi, se no? Bruce Willis?»Beckett sbagliò il lancio, troppobasso e lontano. La folla risposecon quei campanacci da cretini.

«Dino Martino, giusto?»Cristo santo, pensò Evers, manca

solo che chieda chi gioca in primabase e che io risponda chi è chi?

«Sì, Kaz, l’artista meglioconosciuto con il nome di DeanPatrick Evers. Abbiamo mangiatoinsieme interi tubetti di dentifricioin seconda elementare, ricordi?»

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«Sei proprio tu!» urlò l’amico,costringendolo ad allontanare ilcellulare dall’orecchio. «L’hospiegato al poliziotto che erano unsacco di stronzate. Detective Kelly,sì, col cazzo!»

«Di che diavolo blateri?»«Di un coglione che fingeva di

essere uno sbirro. Lo sapevo cheera un contapalle. Aveva la vocetroppo impostata.»

«Ah. Un impostore impostato,ma dimmi tu.»

«’Sto tizio mi racconta che seischiattato, e io gli faccio, se è così,come mai l’ho appena sentito altelefono? E il presunto sbirro mi

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ribatte, temo che si sbagli, signore,avrà parlato con qualcun altro. E iogli rispondo, come mai l’ho appenavisto in tivù alla partita dei Rays? Eil presunto sbirro: l’ha scambiatoper qualcuno che gli somigliava oquello morto nell’appartamento èun suo sosia. Una stronzata da noncrederci.»

Beckett ne fece rimbalzare unasul piatto. Era inarrestabile. Ilpubblico se la stava spassando. «Senon era uno scherzo telefonico,probabilmente si tratta di una gravesvista.»

«Ma davvero?» L’inconfondibilerisata di Kaz, bassa e roca.

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«Soprattutto se consideriamo chesto chiacchierando con te in questofottuto istante.»

«Mi hai chiamato per accertartiche fossi ancora vivo?»

«Eh, già.» Una volta calmatosi,l’amico parve confuso.

«Aspetta un attimo: se fossimorto sul serio, mi avresti lasciatoun messaggio sulla segreteria?»

«Come? Cristo, non ne ho idea.»Kaz era più disorientato che mai,ma niente di nuovo. Lo era semprestato. Disorientato dagli eventiquotidiani, dai suoi simili,probabilmente persino dal battitodel suo cuore. Ecco perché non

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aveva mai rinunciato a esserearrabbiato, almeno in parte. Anchequando non lo era sul serio, sipreparava a esserlo.

Ho parlato di lui usando iltrapassato prossimo, si accorseEvers.

«Il presunto sbirro con cui hoparlato mi ha detto che ti hannotrovato nel tuo appartamento. Eche eri morto da parecchio.»

Il tipo accanto a Dean gli sferròun secondo colpetto. «Hai unottimo aspetto, amico.»

Sullo schermo gigante, la stanzain penombra di Evers, allucinantenella sua quieta intimità. Nel mezzo

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del lettone che aveva condiviso conEllie, quello con il materasso sofficea due piazze ormai troppo grandeper lui, Dean Patrick Evers giacevaimmobile e pallido, le palpebrecalate a mezz’asta, le labbraviolacee, la bocca bloccata in unrictus. La bava secca sul mentosomigliava a una vecchia ragnatela.

Quando Evers si voltò verso ilvicino di posto, quasi per avereconferma di quella visione, siaccorse che la poltrona di fianco eravuota, e così l’intera fila, il settore,lo stadio. Però i giocatoriproseguivano indisturbati.

«Mi ha detto che ti sei

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suicidato.»«Neanche per sogno», ribatté

Evers, per poi pensare: Queldannato Zolpidem scaduto. Forseabbinarlo allo scotch non è stataun’ideona. Quando è successo?Venerdì sera?

«Lo so che non è da te.»«Stai seguendo la partita?»«No, ho spento il televisore. Quel

coglione di sbirro mi ha messo adisagio.»

«Riaccendilo.»«D’accordo», rispose Kaz. «Un

attimo che prendo il telecomando.»«Avremmo dovuto essere più

gentili con Lester Embree.»

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«Ormai ne è passata di acquasotto la panca, vecchio mio. O sottoi ponti. O quel cazzo che è.»

«Forse no. D’ora in poi, prova adarrabbiarti di meno. Sforzati diessere più cordiale con il prossimo.Con tutti quanti. Fallo per me.»

«Ma che accidenti hai? Seipeggio di un biglietto di auguri perla Festa della mamma.»

«Forse hai ragione», ammiseEvers, anche se gli sembrava unariflessione molto triste. Sul monte dilancio, Beckett era in attesa delsegnale del ricevitore.

«Ehi, Dino! Eccoti là! Di sicuronon hai un’aria da cadavere!» Kaz si

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produsse nell’immancabile risatacatarrosa.

«No, non mi sento malaccio.»«Per un attimo mi sono

spaventato. Colpa di quel coglionee del suo scherzo telefonico. Chissàcome ha avuto il mio numero.»

«Mah.» Evers scrutò il desertodel Tropicana. In realtà lo sapevabenissimo. Dopo la morte di Ellie,Kaz era l’unico dei nove milioni diabitanti dell’area Tampa-St.Petersburg che aveva inserito tra lepersone da contattare in caso diemergenza. E quella riflessione eraancora più triste.

«Va bene, ti lascio godere il

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gioco. Che ne dici di una partita agolf la prossima settimana se nonpiove?»

«Vedremo. Non mollare, Kazzie,e...»

L’amico si unì a lui, e intonaronoinsieme l’ultima strofa, come tante,tantissime volte prima di allora.«Non farti buttare giù da quei figlidi puttana!»

D’accordo. Era finita. Evers siaccorse con la coda dell’occhio di unmovimento frenetico alle sue spalle.Si voltò, il cellulare stretto in pugno,e notò l’inserviente artritico con lemacchie di fegato cheaccompagnava giù dalle gradinate

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zio Elmer e zia June, più un sacco diragazze con cui era uscito al liceo,compresa quella che avevatrombato da semisvenuta (osvenuta del tutto, a essere sincero).Dietro di loro, la signorina Pritchettcon i capelli sciolti per l’occasione ela signora Carlisle del minimarket ei coniugi Jansen, gli anziani vicini dicui una volta aveva rubato i vuotidalla veranda sul retro. Sul latoopposto, quasi fosse stata una gitaaziendale, un secondo inservientemacilento quanto il primo riempivale file in cima con gli ex impiegatidella Speedy, parecchi dei quali indivisa blu. Lui riconobbe Don

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Blanton, che era stato interrogatonel corso di un’operazioneantipedofilia a metà dei Novanta,per poi impiccarsi nel garage dellasua casa a Malden. Evers si ricordòdi esserne rimasto sconvolto, dallatragica decisione ma anche dall’ideache qualcuno di sua conoscenzafosse invischiato nel giro dellapornografia infantile. Blanton gli erasempre piaciuto, e non avrebbevoluto licenziarlo, ma che altroavrebbe potuto fare, con quelgenere di accusa che gli pendevasul capo? La reputazione degliimpiegati era determinante per ilsuccesso di un’azienda.

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La batteria del cellulare non eracompletamente scarica. Al diavolo,si disse. Era una partita importante.Forse a Cape Cod la stavanoguardando.

Gli rispose Pat. «Ehi, papà.»«State vedendo il baseball?»«I ragazzini sì. Noi adulti

giochiamo a carte.»Accanto al primo inserviente, la

figlia di Lennie Wheeler, ancora conil vestito di crespo nero e la velettain tinta. Indicò Evers come unospettro color inchiostro. Avevaperso la ciccia di quand’era giovane,e lui si chiese se era successo primache morisse o dopo.

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«Va’ a darci un’occhiata, figliolo.»«Resta in linea», affermò Pat. Il

cigolio di una sedia. «D’accordo, cisono davanti.»

«Proprio alle spalle della casabase, in prima fila.»

«E allora?»Evers si alzò dietro la rete di

protezione, sventolando il ditone digommapiuma blu. «Mi vedi?»

«No. Dove sei?»Il Giovane dottor Young arranco

giù dalle ripide gradinate con la suagamba artificiale, reggendosi aglischienali dei sedili per non perderel’equilibrio. Sul camice, simile a unamedaglia, una chiazza tinta caffè di

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sangue secco.«Adesso mi vedi?» Dean

allontanò il cellulare dall’orecchio,agitando le braccia sopra la testaquasi stesse cercando di fermare untreno. Il ditone grottesco oscillòavanti e indietro.

«No.»E allora niente.Meglio così. Decisamente.«Fa’ il bravo, Pat», gli sussurrò.

«Ti voglio bene.»Evers troncò la comunicazione.

Tutti i settori dello stadio si stavanoaffollando. Non riuscì a scorgere chiavrebbe passato con lui l’eternitànelle ultime file o negli angolini

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sperduti a fondo campo, ma i postid’onore stavano andando via allasvelta. Ecco arrivare gli inservienticon i resti ballonzolanti e coperti distracci di Scoody Embree, e poi lamadre, smunta e tirata dopo undoppio turno, e Lennie Wheeler nelgessato del funerale e nonnoLincoln con il suo fido bastone eMartha ed Ellie e sua madre e suopadre e tutta la gente alla qualeaveva fatto un torto in vita sua.Mentre riempivano la fila daentrambe le estremità, Dean sificcò il cellulare in tasca e sirisistemò al suo posto, sfilandosi ilditone di gommapiuma e

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appoggiandolo sulla poltroncinavuota alla sua sinistra. Tenendola incaldo per Kaz. Perché era sicuro chel’amico a un certo punto li avrebberaggiunti, dopo averlo chiamato evisto in tivù. Se Evers avevavagamente capito come funzionavala faccenda, loro due non avevanoancora finito di parlarsi.

Un boato esultante e losbatacchiare dei campanacci. I Rayscontinuavano a essere alla battuta.Lungo la linea di campo destra,anche se era troppo presto, il solitocasinaro esortò la folla a iniziare laola. Come sempre quando siscordava del gioco, Evers controllò

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il tabellone segnapunti peraggiornarsi. Era appena il terzoinning e Beckett aveva giàtotalizzato sessanta lanci. A quantopareva, sarebbe stata una lungapartita.

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Traduzione di Giovanni ArduinoA Face in the CrowdCopyright © 2012 by Stephen King and Stewart O’NanPublished by agreement with the author c/o The Lotts

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Agency, Ltd.© 2014 Sperling & Kupfer Editori S.p.A.Ebook ISBN 9788820090111

COPERTINA || ART DIRECTOR:FRANCESCO MARANGON | GRAPHICDESIGNER: CARLO MASCHERONI | Foto© Alam y e Corbis Images (rielaborazione )

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