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91 a prima osser- vazione che ti viene (quasi con sgomento) pensan- do ai prodotti tipici bresciani è: sono tanti, tantissimi, di certo un numero che non t’aspetti. La seconda, subito a ruota, è che noi bresciani, soprattutto noi bresciani di città, sappiamo poco o nulla delle prelibatezze che ci può offrire la nostra terra. Tutti conoscono le lenticchie di Castelluccio (anche perché il terremoto ce le ha ricordate), ma se ci si mette a parlare del Farro di San Paolo o del Monococco di Cigole è facile che l’interlocutore straluni gli occhi. Che Brescia, un tempo patria del tondino ancora oggi fortemente impregnata di meccanica e di siderurgia, non abbia consapevolez- za dei tesori della sua terra è, storicamente, facile da spiegare. Da certo piatto hanno una storicità accertata. Qualcuno ha fatto un ottimo lavoro (e così abbiamo anche delle preziose pubblicazioni) altri sono andati avanti un po’ a spanne. Per parlare dei prodotti tipici bresciani si deve fare innanzi tutto riferimento ai prodotti Dop che godono della protezione europea (ma non nell’America di Trump). Sarà questo il nostro primo capitolo ricordando che sono formaggi Dop che si possono produrre anche nel Bresciano: il Grana Padano, il Gorgonzola, il Salva cremasco, il noi non vi è mai stata una corte nobile come quelle dei Medici a Firenze, dei Gonzaga a Mantova o degli Estensi a Ferrara con tanto di cuochi che poi diffondevano il sapere e celebravano i loro piatti. Da noi la nobiltà si è sempre nutrita in modo semplice, preferendo i prodotti della caccia. Per trovare cibi tradizionali si deve frugare nei quadernetti delle nonne, vergati a mano e ancor più spesso in dialetto o ancora nella tradizione orale delle famiglie. L’operazione di recupero dei sapori del passato è abbastanza recente, ma si può dire compiuta. Non è più sfuggito nulla alla ricerca golosa degli storici, talvolta modesti storici locali che non hanno fama da vantare, ma sono puntigliosi e precisi nel consultare le fonti. Da ultimo ci si sono messi i Comuni che sono andati alla ricerca delle prove che un certo prodotto o un Un mare di prodotti tipici tra Farro di San Paolo e Monococco di Cigole Una Brescia che non t’aspetti ed in gran parte ancora sconosciuta Brescia D.O.C., D.O.P., De.Co, Pat.... L di Gianmichele Portieri

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a prima osser-vazione che tiviene (quasi consgomento) pensan-do ai prodotti tipici

bresciani è: sono tanti, tantissimi, di

certo un numero che non t’aspetti. La seconda, subito a ruota, è che noi bresciani, soprattutto noi bresciani di città, sappiamo poco o nulla delle prelibatezze che ci può offrire la nostra terra.Tutti conoscono le lenticchie di Castelluccio (anche perché il terremoto ce le ha ricordate), ma se ci si mette a parlare del Farro di San Paolo o del Monococco di Cigole è facile che l’interlocutore straluni gli occhi.Che Brescia, un tempo patria del tondino ancora oggi fortemente impregnata di meccanica e di siderurgia, non abbia consapevolez-za dei tesori della sua terra è, storicamente, facile da spiegare. Da

certo piatto hanno una storicità accertata. Qualcuno ha fatto un ottimo lavoro (e così abbiamo anche delle preziose pubblicazioni) altri sono andati avanti un po’ a spanne.Per parlare dei prodotti tipici bresciani si deve fare innanzi tutto riferimento ai prodotti Dop che godono della protezione europea (ma non nell’America di Trump). Sarà questo il nostro primo capitolo ricordando che sono formaggi Dop che si possono produrre anche nel Bresciano: il Grana Padano, il Gorgonzola, il Salva cremasco, il

noi non vi è mai stata una corte nobile come quelle dei Medici a Firenze, dei Gonzaga a Mantova o degli Estensi a Ferrara con tanto di cuochi che poi diffondevano il sapere e celebravano i loro piatti. Da noi la nobiltà si è sempre nutrita in modo semplice, preferendo i prodotti della caccia. Per trovare cibi tradizionali si deve frugare nei quadernetti delle nonne, vergati a mano e ancor più spesso in dialetto o ancora nella tradizione orale delle famiglie. L’operazione di recupero dei sapori del passato è abbastanza recente, ma si può dire compiuta. Non è più sfuggito nulla alla ricerca golosa degli storici, talvolta modesti storici locali che non hanno fama da vantare, ma sono puntigliosi e precisi nel consultare le fonti. Da ultimo ci si sono messi i Comuni che sono andati alla ricerca delle prove che un certo prodotto o un

Un mare di prodotti tipicitra Farro di San Paoloe Monococco di Cigole

Una Brescia che non t’aspetti ed in gran parte ancora sconosciuta

Brescia D.O.C.,D.O.P., De.Co, Pat....

L di Gianmichele Portieri

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Quartirolo lombardo, il Provolone Valpadana e il Taleggio.Sono viceversa formaggi Dop che si possono produrre solo nel Bresciano il Nostrano Valtrompia e il Silter Camuno Sebino. Noi qui ci occuperemo di questi.È a marchio Dop anche l’olio del Garda e quello del Sebino. Nel primo caso l’olio bresciano divide la Dop con veronesi e trentini, nel secondo caso la Dop è condivisa con la provincia di Bergamo e quella di Como.Allo stesso livello di protezione sono anche i vini che, malgrado una decisione dell’Europa che li voleva far diventare Dop, sono rimasti nella classificazione già nota e cioè Docg, Doc e Igt. Docg è il Franciacorta, Doc sono il Lugana, il Riviera del Garda Classico, il Botticino, il Cellatica e il Capriano del Colle. Poi c’è un Igt che è il vino della Valle Camonica. Ma c’è anche un vino protetto dalla Denominazione Comunale ed è vino della collina di Castenedolo prodotto dalla azienda Peri Bigogno.

Del vino non ci occuperemo in questa edizione.C’è poi un altro livello importante di protezione che è il Presìdio Slow Food. La Fondazione Slow Food iscrive in un apposito registro le specialità rare o a rischio di estinzione. Slow Food controlla l’osservanza delle antiche usanze e nomina un responsabile. Così è normale che solo una piccola parte dei produttori aderisca al Presidio, ma su quelli si può stare tranquilli.I Presìdi Slow Food bresciani sono quattro e li esamineremo insieme tutti. Anche in questo caso c’è un Presìdio che ci riguarda, ma non è tutto bresciano ed è il miele di alta montagna che si produce anche nella parte alta delle nostre valli.Dal 2001 i Comuni si sono scatenati per tutelare alcune tipicità locali. Le delibere bresciane che proclamano la tutela della Denominazione Comunale sono molte decine, ma solo alcune sono davvero tutelate

dalla iscrizione del marchio. La De.co. è una fonte inesauribile di specialità a rischio di venire dimenticate ed in fondo è un vaso di pandora della cultura materiale delle nostre genti. Senza svalutare l’entusiasmo che ha condotto a proclamare la De.co. per prodotti privi di storia certa o persino di disciplinare, noi qui ci atterremo all’elenco delle De.co. che hanno valore legale come ce le ha indicate Riccardo Lagorio, il bresciano che le De.co. italiane le ha inventate.Ma non è finita!C’è un registro nazionale che raccoglie la descrizione dei prodotti agroalimentari tradizionali (Pat).Si tratta di una descrizione, con oltre 5 mila schede, dell’Italia minore. L’inserimento nell’elenco dei Pat non ha valore legale, ma una funzione pratica ce l’ha. I formaggi Pat godono di alcune deroghe a norme, in campo sanitario, che sarebbero davvero difficili da rispettare in malga. Descriviamo alcuni dei nostri, tra i tantissimi.

Jacopo Chimenti detto“l’Empoli”Dispensa con pesce, carne, salumi, uova sode e fiasca di vinoOlio su tela - collezione Molinari Pradelli

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Le sigle europee

Le dimensioni sempre più ampie ed internazionali dei mercati

imposero alla Comunità Europea prima e all’UE poi, di intervenire con provvedimenti legislativi all’interno del settore agroalimentare come già era stato fatto dagli Stati membri. L’obiettivo era di preservare alcune produzioni tipiche fissando standard qualitativi, stabilendo il rispetto delle tradizioni e degli usi, e imponendo il collegamento con il territorio a garanzia del consumatore e dello sviluppo socio-economico del territorio stesso. Con i Regolamenti C.E. n. 2081e 2082 del 1992, sostituiti dai Regolamenti C.E. n. 509-510 del 2006 e a loro volta dal Regolamento U.E. 1151/2012, ultimo in ordine di tempo, si riconoscono Denominazione di Origine Protetta D.O.P. Indicazione Geografica Protetta I.G.P. Specialità Tradizionali Garantite S.T.G.Nei prodotti D.O.P. il legame con il territorio è molto stretto perché le loro caratteristiche derivano dall’ambiente e tutte le fasi di produzione devono essere svolte nella zona geograficamente determinata. Nei prodotti I.G.P. il legame con il territorio è meno forte, il prodotto può essere attribuito alla zona geografica quando almeno una fase della sua produzione è avvenuta nella zona indicata.Nel caso di S.T.G. il prodotto non ha riferimento con la zona geografica di produzione, la denominazione indica la sua qualità e specificità che lo differenziano da prodotti analoghi della stessa categoria, esempio: mozzarella S.T.G.

I prodotti PatLe regioni Italiane, producono alcune centinaia di prodotto tipici molti dei quali non hanno alcun riconoscimento europeo di quali-tà nonostante abbiano un collega-mento con il territorio, osservino gli usi locali e le tradizioni. Per dare risposte ai produttori, ai territori e garanzia ai consumatori, il legislato-re nazionale, con D.Lgs. 173/98 art. 8 e D.M. 350/99, ha fissato le norme per l’individuazione dei prodot-ti agroindustriali tradizionali. Non solo formaggi, ma anche bevande alcoliche e analcoliche, carni, con-dimenti, grassi, prodotti vegetali, paste fresche, biscotti, pasticceria. I P.A.T. sono alimenti caratterizzati da metodi di lavorazione, conser-vazione e stagionatura consolidati in un dato territorio da almeno 25 anni. Le Circolari ministeriali del 21/12/1999 n.10 e del 24/01/2000 n. 2 stabiliscono i criteri e le modalità per la richiesta di riconoscimento P.A.T. del prodotto. È istituito un elenco dei prodotti agroalimentari tradizionali da parte del Ministero delle politiche Agricole Alimentari e Forestali che annualmente viene aggiornato. I formaggi presenti in questi elenchi regionali sono spes-so prodotti in deroga alle norme igienico sanitarie vigenti. Infatti è consentito l’utilizzo di latte crudo anche in formaggi con maturazione brevissima, di attrezzature in legno, di locali difficilmente sanitizzabili (come le malghe), onde consenti-re di mantenere le caratteristiche specifiche del prodotto legate alla tradizione locale.

I Presìdi Slow FoodI Presìdi sono progetti di Slow Food attivati dal 1999 e volti ad aiutare i produttori che trovano difficoltà di mercato per i loro prodotti, normalmente di nicchia, fabbricati con pratiche tradizionali, ed in particolare a rischio di estinzione. Lo scopo principale della Fondazione Slow Food è di salvare questi prodotti dalla estinzione.

La De.co.La Denominazione Comunale (De.co.) non certifica la qualità di un prodotto, di un formaggio, di un vino, di una pasta, dei salumi, ma attesta la sua “nascita”, il suo “sviluppo” e la sua “appartenenza” ad un luogo di origine: il Comune. Il Sindaco, con delibera comunale, definisce i parametri di riferimento affinché il prodotto possa assumere la Deco. Il fenomeno delle De.Co. nasce a seguito della legge dell’8 giugno 1990 n. 142 che consente ai Comuni la facoltà di disciplinare, nell’ambito dei principi sul decentramento amministrativo, in materia di valorizzazione delle attività agro-alimentari tradizionali che risultano presenti nelle diverse realtà territoriali. Ma la vera data di nascita delle De.co. è da riferire alla legge Costituzionale n. 3 pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale il 18 ottobre 2001, che delega ai Comuni la potestà di emettere regole in campo agricolo. Da qui, o meglio da quella data, si segnala il proliferare di Comuni, che deliberano una o più Denominazioni Comunali.

Una ridda di sigle tra cui orientarsie le normative di riferimento

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Le sorprendenti scelte di Luigi Veronellicon tanti prodotti già dimenticati

Alfianello Il burro; il formaggio montano; il cotechino Anfo Il Bagòss di Monte BaremoneAngolo Terme I mirtilli del colle VarenoBagolino I funghi porcini; i funghi gallinacci; la cicoria d’alta montagna; i fagioli di Pian d’Oneda; la formaggella di capra; il Bagòss di Val Dorizzo e di Passo Croce DominiBarghe Le pere tardive dette curàcc; le meleBienno Il salame nostrano da cotturaBovezzo Il torroneBreno Le trote; le lumache; le rane; il salame; la soppressa; la salsiccia di castratoBrescia Il bussolàCapo di Ponte I tartufi neri; il salame allevato negli ultimi 15 giorni a castagne e siero di latteCapriolo L’olio d’oliva di frantoioCarpenedolo I fagiolini; i piselli; le meleCastelmella Lo stracchino grasso bresciano; il salame; il prosciutto; il cotechinoCellatica L’olio d’oliva di frantoio; le castagneCerveno Il pane di segaleCevo Le castagne; i funghi; il maioch (cru nelle frazioni Andrista e Fresine); la mascherpina (ricotta) di capra; le carni di manzoCividate Camuno Le pere; le meleConcesio Le pesche di San VigilioCorteno Golgi Il pane di segale; le patate di Pontera; la segale di Doverio; il latte; il burro di località Culvegla, Casazza e Sonno; il formaggio di Val Brandet; le carni di castratoDesenzano Il brodo di giuggiole; il liquore AcquaEdolo Il pane di segale; la salsiccia di castrato; l’amaro Flormont; l’amaro Noreas; l’acquavite di ginepro; l’acquavite di genziana dell’AdamelloErbusco L’olio d’oliva di frantoio

Luigi Veronelli è stato un grande sostenitore della cultura del territorio tanto da proporre le Denominazioni Comunali. A dimostrazione della grande varietà di prodotti esistenti nel nostro bel Paese, dedicò un numero speciale della sua rivista “Ex Vinis” (febbraio 1999)

all’elencazione di quelli che lui chiamava giacimenti gastronomici. Naturalmente Veronelli aveva idee assolutamente personali ed origi-nali. Quello che proponiamo è un elenco dimenticato (e di cose dimenticate) che ci piace far rivivere. Vi lascerà a bocca aperta e non siete obbligati a condividerlo. Vediamo cosa ha segnalato per la provincia bresciana.

Gardone V/T La soppressaGargnano Le olive; l’olio d’oliva di frantoioGavardo I funghi porcini; i funghi ovuli; i funghi porcinelli; la valerianaGussago Le pescheIncudine Il pane di segale; i funghi porcini; i funghi gallinacci; le spugnole; le lingue di bue; i funghi chiodiniIseo Lo stracchinoLimone s/G L’olio d’oliva di frantoioMairano Le radici amareMalegno La salsiccia di castrato della ValcamonicaMoniga d/G L’olio d’oliva di frantoioMonno Le castagne; il formaggio grasso; il salame all’aglioMonte Isola: Le olive; le noci; le castagne; il pesce (aole) essiccato, sott’olio o sotto saleMonticelli Brusati L’olio d’oliva di frantoioMuscoline Il cotechinoOrzinuovi Le trote; i temoli; l’anesoneOssimo Le patate; il latte; il burroPadenghe s/G Le sardine del lago fresche e salatePassirano L’olio d’oliva di frantoioPisogne Le castagne; i funghi; la soppressaPolpenazze d/G L’olio d’oliva di frantoioPonte di Legno Il pane di segalePuegnago d/G L’olio d’oliva di frantoioRovato L’olio d’oliva di frantoio; il quartirolo; le carni bovine (manzo e vitello)Rudiano Le trote; le carni di vitello da latteSalò L’olio d’oliva di frantoio; i limoni; i cedri; l’anesoneSan Felice d/B L’olio d’oliva di frantoioSirmione L’olio d’oliva di frantoio; i limoniSònico Il pane di segale; le patate; le castagne; i funghiSulzano L’olio d’oliva di frantoioTemù I mirtilli del Monte CalvoTonale Paradiso Il burro; i formaggi freschi e stagionati; la bergnaVerolanuova I piselli; il radicchio rosso; i cachi; le formaggelle

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vacche in mungitura. Gli altri pro-ducono un formaggio di montagna

di ottima fattura, ma che non ha il marchio europeo. Di

traverso alla crescita delle adesioni sono

due fattori: il prezzo e le regole. Chi ha promosso la Dop ha voluto che il formaggio aves-se precisi caratteri

distintivi (tanto più che è confinante con

il più noto Bagoss).

La prima con-siderazione

che viene alla mente assag-giando un Silter, il tipi-co formag-gio camuno ora Dop, è quanto diversi, modesti, gom-mosetti e amaro-gnoli, erano i Silter degli inizi. Quasi da non credere che da quella accozzaglia un po’ ruspante di formaggelle di mon-te, che aspirava alla Dop europea, potessero nascere questi capolavori caseari. Capolavori caseari che, tra l’altro, conservano una loro spiccata tipicità. Nessun esperto li potreb-be scambiare per un Bagoss o per un Nostrano Valtrompia e non solo perché nel Silter non è previsto lo zafferano che spruzza d’oro gli altri due formaggi.

A far fare il sal-to definitivo

verso una qualità dif-fusa ci ha pensato la Denomi-n a z i o n e

di Origine Protetta eu-

ropea attesa ormai da anni

e che è finalmente arrivata. Ne sono con-

vinti i produttori, ne è convinto il presidente del Consorzio Andrea Bezzi che ha la malga alle Case di Viso sopra Ponte di Legno.Ci si è arrivati in tre modi. Il primo è il rispetto rigido del disciplinare di produzione che pone stretti vincoli all’impiego dei mangimi che devo-no essere in maggioranza composti da erba o fieno della valle. L’altro passo in avanti è la possibilità di marchiare le forme nate in alpeggio

con il nome della malga. In questo caso le regole sono ancora più strin-genti (almeno 90% di erba di pasco-lo nella razione), ma sarà il primo formaggio bresciano che distinguerà in questo modo il prodotto d’alpeg-gio da quello invernale prodotto in stalla. Per ora l’unico Silter dichia-rato d’alpeggio è il Bré, prodotto di punta di un pugno di malghe di Breno che si sono messe insieme per promuovere una eccellenza.L’altra strada è l’ulteriore svilup-po della ricerca scientifica sull’in-nesto autoctono già selezionato. L’uso di un innesto autoctono ha due pregi: conservare la tipicità del prodotto (che con gli innesti commerciali va persa) ed evitare alcuni problemi in stagionatura.Il Silter viene prodotto tutto l’anno impiegando 12 milioni di litri di latte (circa un terzo di quello munto in val-le) ed esiste quindi anche la versione invernale che è anzi la più abbondan-te. Va detto che i formaggi prodotti

I l Nostrano Valtrompia, il primo formaggio solo bresciano ad ot-

tenere la Dop europea, sa essere un grande formaggio. A distanza di 12 mesi (il minimo di stagionatura del disciplinare), ma ancora a 18 mesi e persino dopo due anni interi a matu-rare sulle scalere, il Nostrano della valle più ferrigna del Bresciano, sa regalare ancora sentori freschi di lat-te e profumi di erba del pascolo. Se poi ci metti una perfetta stagionatu-ra, nessuna gommosità, assenza tota-le del finalino amaro che spesso ca-ratterizza i formaggi “ruspanti” non puoi che propendere per il 10 e lode.

La produzione di Nostrano mar-chiato ed in regola con tutti i controlli non supera le 3 mila forme e solo 10% è f o r m a g g i o estivo pro-dotto sui pascoli. I produtto-ri, che ini-zialmente erano una quindicina, sono scesi a sei con circa 200 Nostrano Valtrompia

D.O.P Silter, un gran formaggioora benedetto dall’U.E.

Silter

D.O.P Nostrano Valtrompia, entusiasmama nasce in pochissime forme

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Conosciamo tutti abbastanza poco l’olio e ancora meno quel-

lo di elevata qualità. Quello bre-sciano forse ancora meno. Ma non sentiamoci troppo colpevoli. L’olio bresciano di alta qualità è una novi-tà. La svolta (rapidissima come tan-te cose bresciane) è iniziata attorno al 2000 con la diffusione dei frantoi aziendali e il rinnovo degli impianti di quelli esistenti. Nel frattempo si è ripreso a piantare olivi, soprattutto nella zona del lago d’Iseo e persino lungo la Valle Camonica, ma ci sono olivi che non t’aspetti anche a Cella-tica e in Franciacorta.Così c’è già chi sa distinguere un Casaliva del Garda, o un delicato Leccino del Sebino.Non che prima non ci fosse qualche produttore che puntava a fare le cose al meglio, ma si scontrava con i costi e quindi con il prezzo. Abituati a com-perare l’olio al supermercato, molti non si capacitavano di dover pagare l’olio almeno 18-20 euro il litro. Del resto i nostri vecchi, ed anche i più

anziani di noi, sono cresciuti nella cucina del burro che era caratteristi-ca della valle padana. Ma gli olivi sulle rive dei nostri laghi c’erano da migliaia d’anni. Poi è cambiata la dieta, è aumentata l’attenzione alla salute, si è affinato il gusto e l’olio è diventato importate. Ci si è accorti che un olio buono cambia il gusto del piatto e non è solo un anonimo condimento.Per molti la qualità dell’olio si iden-tifica ancora con la dicitura Olio Extavergine di oliva, una dicitura di legge più che cinquantenne. Vo-leva identificare l’olio fatto solo con le olive ed è stata, a suo tempo, una conquista. Oggi tutto è extravergine, ma non per questo è di qualità. Nel 1999 si sono istituite anche in Italia le Dop (Denominazione di origine protetta) anche per l’olio, come già per molti formaggi. L’olio Dop è l’olio che garantisce di essere stato prodotto in una certa zona rispet-tando un rigido disciplinare di pro-duzione. Nel Bresciano ci sono due

Dop, quella del Garda che compren-de anche l’olio del Veronese e del Trentino, e quella dei Laghi Lom-bardi che interessa il Sebino, anche bergamasco, insieme al Lario.La Dop è una buona garanzia, an-che se riguarda pochisimo prodotto. L’olio Dop è il 10% circa di quello del Garda e solo il 3% dei quello del lago d’Iseo. I produttori dicono che certificare è un costo e molti preferi-scono far leva sulla fiducia nel nome del produttore o del frantoio. L’olio lo producono in tanti (almeno 2.500 microaziende nel Bresciano) ma moltissimi lo producono per hobby e se lo tengono stretto. La disponibi-lità di olio bresciano tra i 5 e i 6 mila quintali l’anno, come dicono le sta-tistiche, è quindi piuttosto virtuale.Determinante, a questo punto, è il problema del prezzo. Quello dell’o-lio Dop di qualità è certamente mol-to più alto di quello dell’olio del supermercato. Produrre olio, come accade sulle sponde dei nostri laghi, costa. Ma l’olio di bassa qualità ha caratteristiche di fruttato e sapore molto inferiori rispetto ad un olio di maggiore qualità con più gusto, frut-tato ed alto potere condente. In altre parole l’olio di elevata qualità, ricco di intensità e di profumi, si usa con molta parsimonia e quindi in quanti-tà molto minore rispetto ad un olio del supermercato.Il gusto è, insomma, meno nemico del portafoglio di quanto si pensi.

D.O.P L’olio bresciano di alta qualitàè una novità

nella stalla in fondovalle (ma con fie-no camuno) non sfigurano affatto: profumano di latte fresco e di fieno.Va poi detto che il Silter non è per definizione un formaggio stagiona-to. Il disciplinare della Dop prescri-ve almeno 100 giorni di stagiona-tura. Ne esce un formaggio molto

più tenero, ma non per questo meno saporito. Vero che formaggio fresco è ancora quello che si vende meglio, ma gli esperti ritengono che il Silter ideale deve avere almeno sei mesi ed è al meglio a due anni. L’ultima nota è dedicata a chi tiene alla linea. Il Silter Camuno Sebino è il formag-

gio più magro delle nostre valli. La regola prescrive che tutto il latte sia privato della panna per affioramen-to. Bagoss, Nostrano Valtrompia e del resto anche il Grana Padano pre-vedono che la panna si tolga al latte di una sola munta (quella della sera prima).

Olio del Garda

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La storia è tutta al contrario. All’inizio si trattava di un ripie-

go per conservare un poco di latte di capra che non si riusciva a consu-mare subito. Di venderlo non c’era neppure l’intenzione. Lo si metteva sul camino a prendere fumo, buono per dare un po’ di sapore forte e acre ai cibi poveri di una volta. Ai mer-cati si portava la formaggella della Valsaviore fatta con latte di vacca e ad oggi praticamente scomparsa. Lui invece, il Fatulì, formaggio di capra, sta tornando ed anzi aumenta piano piano la sua minuscola produ-zione. Si è anche un po’ imborghe-sito diventando

più morbido e meno acre di fumo, meno scontroso, ma promette di vi-vere. Il fatto è che da un lato è di-ventato, dalla fine del 2007, uno dei 195 presidi italiani di Slow Food con un bell’impegno del Parco Re-gionale dell’Adamello e dall’altro ha trovato sette aziende che si sono impegnate a fare davvero sul serio e trovano interessante la remunera-zione del loro lavoro. Già perché se i motivi per salvare il Fatulì sono tan-ti, alla fine è l’economia (il vitupe-rato mercato) a dire l’ultima parola.Il Fatulì è un formaggio di latte di capra Bionda dell’Adamello. Così vuole la disciplina accettata dai pro-duttori di vero Fatulì e così garanti-

sce ora Slow Food. Ne esce un formaggio di piccola taglia,

dalla pasta compatta, mor-bido dopo breve invec-chiamento, da grattugia quando è più stagionato. La sua tipicità è l’affu-micatura che gli rega-la il gusto caratteristico.

Il presidio offre visibilità al prodotto, ma di conver-

so si prefigge di contribuire

alla salvaguardia della capra Bionda dell’Adamello e di una economia agricola che stava scivolando nella marginalità e nell’abbandono. La Bionda dell’Adamello è un capra piuttosto alta, dal mantello chiaro con macchie bianche, rustica, adatta alla montagna e che è stata riselezio-nata in purezza dopo che si era mi-schiata con altre razze. Il suo pregio, ai nostri fini, è che di latte ne fa poco, ma profumatissimo. L’impegno è ad usare latte assolutamente crudo, a non impiegare sieroinnesto o caglio chimici, a procedere ad un'affumica-tura naturale. Proprio l’affumicatura è il tratto caratteristico del Fatulì. Era nata per conservare il prodotto e farlo asciugare rapidamente (persi-no troppo, un tempo). Si doveva fare con rami di ginepro, cosa ovvia dal momento che il ginepro era un infe-stante dei pascoli. Vietata comunque l’affumicatura chimica.La dimensione delle forme è minu-scola. Secondo le aziende si va da 300 a 500 grammi, ma ci si è persino dovuti accordare sulla forma (oggi rotonda) perché qualcuno lo produ-ceva quadrato.

Fatulì, l’affumicato di latte di capra Bionda

Fatulì

L’oro di Bagolino il Bagoss

Nove mila forme l’anno, 3 mila di estivo prodotto nelle malghe

con il latte munto da vacche che bru-cano solo le erbe profumante (che le bovine scelgono con cura usando la lingua) dei monti che fanno da co-rona alla piana del Gaver e seimila forme, ottime ma meno costose e meno pregiate prodotte a Bagolino dalle stesse vacche alimentate a fie-no. Come quantità il Bagoss è dav-vero una piccola cosa (per confronto si consideri che di Grana Padano se

ne producono 4,5 milioni di forme, un milione solo nel Bresciano). Sembrerebbe facile dire che un’au-ra di mito il Bagoss se l’è procurata perché è poco, introvabile, compe-rato addirittura prima che sia pronto al consumo (si è parlato di future) per assicurarselo dopo uno o due anni. Ma così si rischia di mettere in secondo piano che si tratta di un formaggio dalle qualità eccezionali che ha pochi uguali tra i formaggi di montagna.

La caratteristica più affascinante del Bagoss è il giallo oro della pasta. Questo deriva da una piccola ag-giunta di zafferano che si fa al mo-mento dell’immissione del caglio. Si tratta di una operazione che ha radici storiche antiche. Il formaggio color oro piaceva ai Dogi di Venezia e il carattere distintivo è rimasto.Ma il profumo del Bagoss non di-pende da quella pittoresca aggiunta, ma dal fatto che è lavorato con quel latte lì, di quelle vacche lì e persi-

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Conosciuta localmente come “sardina” è in realtà un agone,

ma è chiamata sardina per la sua particolare forma, simile a quella del noto pesce marino. Purché non sia davvero una sardina importata dalla Liguria per rimpinguare il ma-gro pescato.La pesca si pratica tutto l’anno, tranne nei mesi primaverili della ri-produzione, ma raggiunge il culmi-ne da novembre a marzo. Il pesce è subito eviscerato. Successivamente le sardine sono lavate in acqua cor-rente e lasciate per almeno 48 ore sotto sale.Dopo questo breve perio-do di salatura le sar-dine sono poste a essiccare al sole e all’aria del lago per circa tren-ta o quaran-ta giorni. Per essiccare gli agoni si utiliz-zavano in passa-to rami di frassino o carpino, piegati ad arco e tenuti in posizione da fili tesi legati alle estremità:

le sardine si infilavano, una ad una, in questi fili. Si chiamavano archèc in dialetto locale. Questa operazio-ne era fatta solo nel periodo inver-nale, per evitare il caldo, che avreb-be deteriorato il pesce, e anche per scongiurare l’attacco degli insetti, soprattutto delle mosche. Dopo l’es-siccazione sono disposte in modo concentrico in contenitori di accia-io, oppure in legno, come era in pas-sato, e sono pressate con un peso, o torchiate, per far uscire il grasso, che viene subito eliminato. Dopo questa

operazione si ricoprono le sardine con olio di oliva. Questo metodo di conservazione è stato messo a pun-to nel tempo dai pescatori del lago d’Iseo per conservare a lungo le sar-dine che, in alcuni periodi dell’an-no, erano pescate in grandi quantità. Secondo la tradizione orale, questa tecnica risalirebbe ad almeno mille anni fa, quando i pescatori della pi-scaria di Iseo ogni anno dovevano consegnare una precisa quantità di pesce essiccato al monastero di San-ta Giulia di Brescia.I pesci si conservano per alcuni mesi, ma durano anche fino a due anni,

avendo cura di cambiare l’olio dopo 9 o 10 mesi. Dopo

qualche mese di matu-razione le sardine di-ventano dorate e si possono mangiare dopo averle cotte, per pochi minuti, sulla brace ardente.

Sono quindi condite con olio, prezzemolo

e aglio e servite con polenta: il piatto più tra-

dizionale del lago, dal sapore intenso e particolare.

La sardina essiccata al soleuna leccornia di Montisola

no con la microflora che c’è nelle malghe. La lavorazione avviene con il latte di due mungiture fatto ripo-sare a lungo per estrarre la panna. Il Bagoss è un formaggio magrissimo perché, dicono i malghesi, più è ma-gro più dura. Nella lavorazione con-ta molto la temperatura molto bassa a cui si effettua la cagliata: 38°, più o meno la temperatura del latte appena munto. E poi il segreto è l’avarizia nel caglio che però comporta lunghi tempi di maturazione. Il bravo casaro spurga senza fretta il formaggio ap-pena nato. Se non lo facesse, dopo tre

anni sarebbe amaro. Risultato finale: una forma di Bagoss nasce in almeno quattro ore che unite alle sei ore delle due mungiture fanno dieci ore mini-mo di lavoro per il malghese.Il Bagoss è un tipico formaggio da fine pasto che è già importante a 14 mesi di stagionatura, ma diven-ta un tripudio di profumi a due anni (la stagionatura che ci sentiamo di consigliare). A tre anni diventa Su-perbagoss ed è un formaggio da as-saporare da solo con un bicchiere di vino rosso anche molto strutturato e invecchiato. Bagoss

Sardine di Montisola

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Carpione, un delizioso pesce da salvare

Il carpione è un salmonide che vive solo nel lago di Garda e ap-

partiene alla numerosa famiglia dei salmoni, delle trote e dei salmerini. O per meglio dire, viveva in grandi quantità fino agli anni Settanta nelle acque più profonde del lago, a 200 metri addirittura. Da questi abissi lacustri risaliva in alcuni periodi dell’anno, per la frega, cioè per la riproduzione: in luglio, agosto e in dicembre, gennaio. Ricercava le zone del lago più adatte (le freghe, appunto) dove i fondali erano puliti e ghiaiosi, con rilievi utili alle femmine per sfregarsi e quindi per spargere le uova, che poi i ma-schi ricoprivano con il loro seme e fecondavano. Oggi il pesca-to di un giorno si recupera, in-vece, quando va bene nell’arco di un anno. I vecchi pescato-ri affermano che i carpioni non si vedranno mai più nel Gar-

da negli anni passati (il coregone, la trota, il carassio, la carpa, il pesce gatto, il persico, e la pericolosa bot-tatrice, che si nutre delle uova del carpione): questi pesci sottraggono cibo al carpione; ma non solo, se-condo i ricercatori i pescatori han-no pescato troppo senza lasciare ai carpioni il tempo per la riproduzio-ne. In effetti il carpione raggiunge la maturità sessuale a tre anni nel maschio e a quattro nella femmi-na, nel corso dei quali si nutrono, si muovono nel lago, benchè a grandi

profondità, e rischiano quindi la cattura senza avere avuto il

tempo di riprodursi.In cucina ha una sto-

ria antica. I Gor-zaga (ma anche i Dogi) ne erano ghiotti e se lo facevano porta-

re (mancando i camion frigo) “in

carpione”. Donde il nome di una fortunata

preparazione culinaria che si chiama ancora così.Carpione

da, perché a causa dei cambiamenti climatici l’acqua è più fredda di un tempo. Ma anche perché la strada che costeggia il lago, la gardesa-na, non frana più nel lago come un tempo, e quindi non si formano più i canaloni che “ripulivano” le pareti del lago formando habitat utili per la frega. I ricercatori hanno un altro punto di vista. Il responsabile della scompar-sa del carpione secondo loro sono le specie alloctone introdotte nel Gar-

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L’entusiasmo per le De.Co. bresciane sembrava svanito, eppure ne spuntano sempre di nuove

Quando ero sindaco del mio Paese, spinto dall’entusiasmo

dei miei concittadini, la delibera l’ho fatta. Doveva proteggere il no-stro salame che era anche piuttosto buono. Ora non lo produce più nes-suno. Ma la delibera resta, chissà che i macellai del paese non ci ri-pensino”. Così dice l’ex primo citta-dino di un Comune gardesano che ci ha raccontato un fatto tutt’altro che raro. La delibera era quella che asse-gnava la Denominazione Comunale (De.co.) al profumato salume loca-le. Quando è ben fatta, la delibera vara un dettagliato disciplinare di produzione definendo le materie pri-me che devono essere (ovviamente) rigorosamente locali. Nel caso del salame vanno definiti peso, razza e dieta dei suini. Ci si addentra poi nei dettagli della lavorazione che deve essere del tutto rispettosa delle tra-dizioni locali. Restando nel mondo dei salumi c’è chi sala molto e chi poco, chi mette l’aglio e chi non lo usa per niente.I municipi più diligenti redigono anche un albo dei pro-

duttori abi-litati che si

impegnano a rispetta-re le regole

della tra-dizione.

Una cosa seria, insomma. Ma non è sempre così. Nella anarchia delle De.co., figlie talvolta più dell’entu-siasmo che di rigorosi studi storici, c’è di tutto. Si trova così anche la de-libera municipale che proclama che un formaggio, un miele, un tortelli-no o un biscotto è De.co., ma non detta le regole per produrlo. Talvolta l’albo dei produttori non serve pro-prio perché il produttore è uno solo, talvolta con grandi meriti e qualità elevata, altre volte con il solo merito di essere un politico locale.Brescia non fa eccezione a questo quadro. Va osservato per esempio che non esiste un albo delle De.co. nostrane. Non l’ha la Provincia. Esiste un elenco presso la Camera di Commercio che conferirebbe, se-condo alcuni, un certo valore legale alla tutela decisa dal Sindaco, ma raccoglie ben pochi prodotti nostra-ni. Ci si può rivolgere ai Comuni, ma accanto a comuni, come quello di Lonato che ha di recente pro-clamato di voler pro-t e g g e r e il suo “os de stomec”, un salume, o a quello di Pozzo lengo

che tiene al massimo al suo zaffe-rano sulla scia del successo del suo salame morenico, ci sono municipi che hanno persino fatto scompari-re la delibera dal sito del Comune. Così anche le De.co. bresciane sono una continua scoperta (dopo la ca-postipite farina di Castegnato, oggi le farine da polenta con Denomina-zione Comunale sono almeno una decina). Nella maggioranza dei casi però si tratta di formaggi o salumi (siamo pur sempre la provincia regina del latte e dei suini), ma sono decine le qualità di miele, farine di ogni tipo e molti (forse i più sconosciuti) pro-dotti da forno dalle Esse di Palazzo-lo alla Spongada di Breno.Di certo imbarazza il cronista il do-ver ammettere di non conoscere il numero esatto delle De.co. brescia-ne (dovrebbero essere una cinquan-tina tra vive e vitali e dimenticate), ma in un mondo fitto di regole, un

pizzico di anarchia offre il destro anche ad una divertente ricerca personale. Con alcuni estremi. Nel Cuneese sono arrivati a ri-conoscere la tipicità dei biscot-

ti di una singola frazione, come se il Comune non fosse abbastanza

piccolo per delimitare il territorio dove nasce la specialità gastro-

nomica. Normalmente però basta recintare idealmente un Comune per essere

sicuri che quella roba lì è proprio quella che è stata creata dai vec-chi di quella contra-da.

Per le specialità del Sindaco sono ad un tem-

po tempi duri e tempi di riscossa. Tempi

“Le specialità del Sindaco tra nascite e oblio

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duri perché l’Europa vuol decidere a Bruxelles cosa tutelare con la Dop. Ma l’Europa è disposta a tutelare marchi che hanno una certa consi-stenza territoriale e quantitativa, non fosse altro che per le spese di giudi-zio da affrontare per difenderli. Un conto è difendere il salame cotto di Quinzano o il Grana Padano Dop il cui consorzio ha avvocati in tutto il mondo. Per i piccoli, i piccolissimi, ci sono due strade: quella di registra-re un marchio privato (come Bagoss in Valsabbia) o affidarsi al Sindaco con la De.co. che però dovrà essere registrata.Quando è nata la De.co., da una in-tuizione del grande Luigi Veronelli, era guardata con sospetto: si è gri-dato alla illegalità, ad una invasione di campo da parte del campanile in materie che non gli competono, allo sgambetto all’autorità dell’Europa in tema di prodotti da tutelare. Oggi il clima è cambiato anche perché è assodato che le specialità del sinda-co, piccole come sono, non turbano il mercato. Anche la giurisprudenza della Corte di Giustizia Europea di Lussemburgo dà ora una mano. Ci sono sentenze favorevoli alla difesa dello spagnolo torrone di Alicate e della tedesca birra di Wasteiner che fanno giurisprudenza a favore dei sindaci e danno coraggio. Spiega Ric-cardo Lagorio, presidente di AssoDe.co. e consulente di decine di Comuni in questo campo, che se il Comune adotta un dettagliato disciplinare di produzione e lo deposita alla Came-ra di Commercio, la Denominazione Comunale vale come un marchio col-lettivo di proprietà del Sindaco che è anche azionabile in giudizio. E poi va detto che i Sindaci De.co. hanno capito che la tutela delle ti-picità locali, se non è frammista ad una promozione turistica del territo-rio, serve a poco o niente. Se un pro-dotto (salume, miele, o formaggio che sia) te lo devi andare a gustare sul posto, l’imitazione “industria-

le” ha poco o punto senso. Se ne è già accennato, ma va ricordato che in Italia i prodotti a Denominazine Comunale sono ben oltre 300, ma è anche vero che quelli che hanno perfezionato l’iter fino al deposi-to del disciplinare alla Camera di Commercio sono a stento una qua-rantina. Lo stesso Lagorio, quanto ai bresciani, si dice davvero sicuro che siano depositati i disciplinari di po-chi prodotti proclamati De.co.Seguiremo quindi le indicazioni del bresciano Riccardo Lagorio anche se esistono altri elenchi ed altre inter-pretazioni delle De.co. Comunale.Barbariga: Casoncello, farina gialla, Bariloca. Il casoncello si contrad-distingue per il particolare ripieno.

Berzo Demo: Fatulì, Stael, violino di capra, biscotti di castagne. Breno: Salsiccia di castrato, Spongada. Sal-siccia di castrato è prodotto davvero unico nel panorama della salumeria italiana. Calvisano: Torta di rose. Capriolo: Ret. Interessante l’utiliz-zo di erbe officinali nel trito della carne del salume. Castegnato: Mais Belgrano, la prima De.co. bresciana. Gussago: Spiedo. Lozio: Gnoc de cola, lampone. Magasa: Formaggio Tombea. Marone: Rosetta. La lingua del suino utilizzata nell'impasto è un unicum. Ponte di Legno:Formaggio Case di Viso, Gnoc de la cua. Quin-zano d’Oglio: Salame da pento-la, miele di tiglio. Rovato: Manzo all’olio. Serle: Spiedo.

Riccardo Lagorio: è bresciano l’inventoredella Denominazione Comunale

Tutto è cominciato quando, dopo una

assidua frequenta-zione del grande Luigi Veronelli (che lo ha defini-to “il mio primo missionario”), il bresciano Ric-cardo Lagorio, ha indotto nel 2002 la Giunta Comunale di Ca-stegnato a procla-mare la De.co. di una farina da polenta tipica del luogo e frutto di una speri-mentazione particolare: il mais Belgra-no, ancora oggi De.co. di Castegnato. Oggi Lagorio presta la sua opera per la redazione delle delibere e dei disci-plinari De.co. per il Comuni di mezza Italia e scrive guide sul suo argomento preferito.Lagorio, massimo esperto italiano in fatto di De.co., grande conoscitore di prodotti tradizionali locali è solito sotto-lineare come la De.co possa essere uno strumento per valorizzare i prodotti lo-cali, non solo alimentari, che racchiudo-no una cultura e una varietà di esperien-ze uniche, irripetibili ed inesportabili.

Lagorio da quindici anni si occupa di ricercare, scoprire e portare agli onori della cronaca le ri-sorse agroalimen-tari di un’Italia che sta scomparendo.

Oggi Lagorio inten-de rimarcare che il

Comune è proprietario di un marchio (come per

tutti i marchi) se e solo se ha completato la procedura di depo-

sito presso il Ministero dell’Industria e questo ha risposto positivamente. Le buone intenzioni e le enunciazioni di buoni propositi inseriti nelle delibere che i Comuni spesso adottano non ser-vono a nulla, se non a creare confusione nel consumatore. Quindi non esiste una Denominazione Comunale se questa è un mero atto deliberativo: si devono compiere atti (ahimè) burocratici per fare sì che quel marchio, e di conse-guenza il prodotto, godano di una ef-fettiva tutela. Inoltre, ciascun prodotto deve essere corredato da un disciplinare di prodotto.

Riccardo Lagorio

De.Co. Denominazione Comunale

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Anche il manzo all’olio di Rovatoè una ricetta antica ed ora codificata

Risale alla seconda metà del XVI° secolo la più antica ricet-

ta rovatese del manzo che si cono-sca, inserita nel diario di Veronica Porcellaga, nobildonna del paese vissuta tra il 1554 e il 1593. Ora il piatto viene riproposto con infini-

te variabili, di solito tese a rendere il piatto più leggero e “moderno”, operazione riuscita solo in parte. In realtà l’unico modo per gustare il manzo all’olio senza appesantirsi è prenderne una porzione ridotta. Prima però che le varianti tradissero

la tradizione, il Municipio di Rovato ha volu-

to codificarne la ricetta tutelandola con la Denominazione Comunale. Piatto invernale, il manzo all’olio viene proposto da tutti i ristoran-ti del Paese nel mese di novembre, accompagnato dalla immancabile polenta e da un vino ricco di corpo e struttura. Di certo il taglio di carne da preferite è il “cappello del prete” che è un taglio del quarto anteriore

De.Co. Denominazione Comunale

Se però volete rispettare la tradizione ecco la ricetta di Donna Veronica Porcellaga nel 1500 che è un po’ più pesantuccia.Ingredienti: Carne bovina (scamone o cappello del prete) da un kg, un bicchiere d’olio d’oliva, due bicchieri di vino bianco, uno spicchio d’aglio, prezzemolo tritato, rosmarino tritato, pepe e sale.Preparazione: La preparazione deve avvenire il giorno precedente a quello in cui s’intende consumare il piatto. In una pentola alta si mettono l’olio e la carne, si lasciano insaporire appena con i profumi sopra elencati, quindi si aggiungono sale e pepe, si versa il vino e lo si lascia un poco evaporare a fuoco vivace. Si aggiunge un bicchiere d’acqua e si copre il tutto.La carne deve cuocere a fuoco moderato per due ore abbondanti, quindi la si taglia a fette e le si fa riprendere la cottura per almeno un’ora. Delicatamente le fette vengo-no poi accomodate in un piatto ovale profondo e lasciate riposare coperte con il loro sugo.Siccome il sugo rimasto è, di solito, abbondante è pos-sibile utilizzarlo il giorno dopo per cuocervi delle patate a spicchi.

del bovino, quindi un taglio meno costoso che, nella ri-cetta tradizionale, acquista molta nobiltà.Per capire cosa è il manzo all’olio è forse più facile

darne la ricetta.

Nel nostro caso è quella dello stellato ristorante Due colombe.

Ingredienti: un cappello di prete di manzo da due kg, cinque litri di acqua calda, quattro spicchi d’aglio, quattro acciughe dissalate, una cipolla piccola, 200 cc di olio extravergine, cinquanta grammi di pane secco grattugiato finemente, cinquanta grammi di burro.Procedimento: In una pentola capiente preparate un soffritto con il burro, le acciughe, l’aglio e la cipolla tritata finemente. Aggiungete la carne, rosolate ogni parte fino a che non si sarà ottenuta una sottile crosta, versate l’acqua e portate a ebollizione. Togliete le impurità che verranno a galla per i primi cinque minuti e continuate la cottura a fuoco medio per tre ore e mezza circa. Aggiungete l’olio, il pane a pioggia (o la maizena diluita in poca acqua) e cuocete ancora per 10 minuti, muovendo la carne con frequenza e estrema delicatezza per non farla attaccare. Togliete quindi la carne dal sugo di cottura, aggiustate even-tualmente la densità dell’intingolo. Servite il manzo a fette di 4-5 cm di spessore ricoperto dal sugo di cot-tura e accompagnato con polenta o crostoni di pane

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nato a grana più grossa, viene con-sumato più fresco e più morbido, non si fa spaventare dall’aglio e da una bella manciata di spezie. Asso-miglia insomma più al prodotto cre-monese.Salvare la ricetta del salame locale è sembrata a lungo una ovvietà, poi molti Comuni ci hanno ripensato ed hanno messo il salame tra le delizie del loro territorio.In realtà sono due i salami che han-no più storicità: quello di Montisola reso tipico dal taglio a coltello del-le carni e dalla presenza del lardo a cubetti, e quello di Pozzolengo. Il

Comune gardesano è quello che si è impegnato di più a pro-

vare la storicità del suo salame.Grazie a documen-ti fotografici, reperti storici ed alle testi-monianze tramandate

da generazioni di abili norcini, cresciuti nelle

famiglie contadine del terri-

torio, a fine degli anni ᾽80 si è ripre-sa la produzione di quel salume che oggi è conosciuto come il Salame Morenico di Pozzolengo che gode del riconoscimento De.co.Il Salame Morenico di Pozzolengo si distingue da quello bresciano, ve-ronese e mantovano (dove impera l’aglio), in quanto particolarmente legato al territorio d’origine e nel quale vengono riproposti i gesti ri-tuali e i procedimenti antichi. Si presenta con una consistenza asciutta grazie ad una stagionatu-ra di 55-60 giorni. Non è grasso e nemmeno eccessivamente speziato. Al taglio è evidente una netta distin-zione tra il colore rosso vivo della carne magra e il bianco del grasso. Quando è stagionatissimo, al taglio libera una suggestiva lacrima ed in bocca un assaggio imperioso, inat-teso, sorprende nella compattezza e intensità. Non sa di aglio (anche se un poco se ne mette nel vino che en-trerà nell’impasto) ed è privo anche di glutine e lattosio. È prodotto dalle macellerie del luogo.

Luccisione, ai primi freddi, del maiale e la fabbricazione del

salame fa parte (e una parte impor-tante) delle tradizioni gastronomi-che della nostra terra.In realtà il salame bresciano si può considerare estinto. Era a grana me-dia, con grasso ben distribuito, non troppo speziato e poco (o per niente) profumato di aglio. Soprattutto era molto stagionato e compatto tanto che affettarlo a mano era un’impre-sa. Del resto doveva durare l’intero inverno, cosa che non è più necessa-ria. Il salame tipico delle n o s t r e terre è oggi maci-

Il salame più carico di storiaè quello di Pozzolengo

De.Co. Denominazione Comunale

De.Co. Denominazione Comunale

Spiedo: Serle e Gussagohanno legiferato

Le carni sono le stesse, l’assorti-mento è identico, eppure si sen-

te la mano diversa. Qui c’è più sale, là meno, qui c’è più croccantezza l’altro si scioglie in bocca. Il più tra-dizionale e popolano dei piatti della tradizione può alimentare discussio-ni per una serata intera quasi si trat-tasse della nazionale di calcio. Poi ci sono le varianti locali, ma un paio di sindaci, quello di Serle ed a ruota quello di Gussago, hanno deliberato di proteggere con la Denominazione Comunale (De.Co.) il loro spiedo

tradizionale e guai ai falsi.Ma servirà un passo indietro. All’i-nizio erano tutti e soltanto uccellini e a dirla tutta (limitandoci all’a-spetto gastronomico e con tutto il rispetto per le opinioni di tutti) un po’ di nostalgia per quegli spiedi che erano in larghissima parte composti da uccellini di piccola taglia, croc-canti e amarognoli, ci è rimasta. Poi è scattata la stagione dei divieti, del-la caccia al ristorante con uccellini proibiti, della borsa nera ed infine di qualche deroga. Ovvio che lo spiedo

non sia più quello di un tempo.Lo spiedo si cucina infilando, secon-do criteri precisi, dei pezzi di carne in uno spiedo per poi arrostirli di fronte alle braci di legna che vanno prepa-rate rigorosamente a parte. Già sulla scelta della legna ci sarebbe da dire (il castagno è sconsigliato, la vite è il massimo). La regola che vale per tut-ti è che i pezzi di carne vanno alter-nati in modo che la carne più asciutta sia affiancata a quella più grassa per garantire morbidezza al tutto. Una foglia di salvia terrà separati i pezzi.

Salame di Pozzolengo

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Nel Bresciano si chiamano, pre-valentemente, casoncelli, ma

qualcuno li chiama ravioli e altri tor-telli. Sono le paste ripiene e panciute dei bresciani, da mangiare asciutte e condite, di solito con burro e for-maggio di grana. È una storia che ci accomuna con le province vicine come Cremona e Mantova le quali, a loro volta, sono influenzate dalle terre emiliane. Una ridda di paste ripiene corre per l’Italia, uniche al mondo e straordinarie. I casoncelli antichi erano ripieni solo con un po’ di pane e formaggio (“poc o nient”) e cosi si facevano a Orzinuovi, ma non è detto che non si facessero in questo modo anche a Longhena, Barbariga. Oggi solo Barbariga ha adottato la De.Co re-gistrando il marchio, ma una delibe-ra che proclama la denominazione comunale è stata assunta anche ad Azzano Mella, Brandico, Corzano, Dello, Longhena e Mairano.Oggi possiamo dire che le varietà

sono molte e si differenziano, so-stanzialmente nel ripieno, alcune “pescano” nella tradizione come i casoncelli e i ravioli camuni, altre sono recenti come i casoncelli di Longhena a base di carne.Gli ingredienti più usati sono: pane e formaggio grattugiati, prezzemo-lo e aglio. Questa è la versione più semplice e povera. Nelle varie ricette sono utilizzate spesso verdure a fo-glia come: verze (soprattutto nelle versioni più antiche), bietole, spina-ci, erba di San Pietro, di solito questi ortaggi sono aggiunti lessati, tritati e saltati in padella con soffritto di burro o lardo, cipolla, aglio. Le carni utilizzate possono essere di diversa specie: pollo, vitello, manzo, maiale, arrostite, bollite o in umido (da ciò si evince il riutilizzo di avanzi di ar-rosti, brasati, bolliti) e poi macinate.Ingredienti aggiunti, per ammorbi-dire e legare il ripieno sono: uova o tuorli, pane ammollato nel latte, patata lessa (soprattutto nelle ricette

della Val Camonica). Nei casoncelli di magro la farcia ha di solito come ingrediente di base la ricotta (spesso di pecora) ed erbe di campo come borragine, erbette, Buon Enrico, erba di San Pietro. Quasi sempre il condimento è burro fuso aromatiz-zato con le foglie di salvia e il grana grattugiato.Ma proviamo a fare un viaggio in questo mondo variegato.I casoncelli si possono fare con car-ne di manzo, patate e spinaci o più semplicemente con manzo e salsic-cia. Quelli della Bassa sono fedeli alla ricetta antica: solo pangrattato e formaggio Grana. Quelli di Longhe-na, oggi molto diffusi, contengono carne lessa, erbette, poco amaretto, burro e salvia anche nel ripieno. Quelli di Barbariga optano invece per il prosciutto cotto (senza polifo-sfati, s’intende).Ma in Alta Valle Camonica so-pravvivono quelli con le pere e gli amaretti.

Casoncelli della tradizione,una varietà quasi infinita

Fino a pochi decenni fa la suc-cessione era di un lombolino di lonza o coppa di maiale e un uccello. Oggi è più vario. Tutto il territo-rio bresciano, salvo il Garda che tradizio-nalmente usa l’olio, usa il burro per man-tenere la morbidezza. È buona regola far cuo-cere tutto lentamente (cin-que, sei ore) e vivacizzare la brace nell’ultimo quarto d’ora.Poi cominciano le differenze. Lo spiedo De.co. di Serle prevede l’im-piego anche di carni di pollo e di coniglio. Il maiale è presente sot-to forma di costine, oltre a lonza o coppa. Ovviamente sono previsti gli

uccelli quando disponibili. I pezzi (le prese) devono pesare tra i 70 e gli 80 grammi (quelli di Gussago sono leggermente più piccoli). Il disciplinare impone di usare solo

carni nazionali ed anche il burro deve essere made in Italy. La

delicata salatura è affida-ta alla lonza ed ai gusti di chi fa lo spiedo. Le patate sono guardate con qualche riserva, considerandole una caratteristica non in-

vidiata dello spiedo della Valle Sabbia. Gus-

sago ha invece scelto una versione tutto maiale con uc-

celli più frequenti e di piccola ta-glia (ovviamente consentiti). Il ma-iale inframezza gli uccelli. Anche ai gussaghesi non piacciono le patate che vengono servite a parte. Nel complesso si tratta di uno spiedo più croccante che morbido.

De.Co. Denominazione Comunale

Lo spiedo

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A Ponte di Legno i casoncelli si chiamano calsù e sono ripieni di cotechino e patate. I Camuni però preferiscono quelli con salsiccia, mortadella e poi prezzemolo e porro nel ripieno.A Breno si cambia ancora e si man-giano i caiacc. Nella sfoglia c’è un

po’ di scuro grano saraceno e nel ri-pieno vanno le erbe cotte, l’arrosto di maiale, alcune noci e poco amaretto.Sempre restando in valle si può optare per i casoncelli di castagne riempiendoli con castagne lesse e ricotta.E nei periodi di magro? I più tra-

dizionali sono ripieni di ricotta di pecora ed erbe di campo tagliate fi-nemente. Ma c’è anche una versione antica ripiena con polpa di rane e pari quantità di pesce persico. Sono chiamati i casoncelli della Quaresi-ma e non sembrano proprio un piatto con cui si fa penitenza.

I casonsèi dè la tradisiù

La ricetta più vera e più antica

Questa è la ricetta che faceva mia nonna di Trenzano e che fa ancora adesso la Rina di Orzinuovi da brava donna di casa. Di carne una volta ce n’era poca e si usava quel che c’era, poco o niente: un po’ di pane e formaggio di

grana, dell’aglio, del prezze-molo, un pizzico di spezie, un

po’ di sale e pepe e per farlo più buono un bel pezzo di burro di quello

raccolto pian piano, man mano viene a galla, fatto con il latte della tua mucca (l’hai chiamata Carolina o Lola?)Serve una scodella di pangrattato, una di grana tri-tato anch’esso, due spicchi di aglio che farai bollire in una scodella di acqua dove metterai tre cucchiai di burro. Quando il burro è sciolto, mescola il pane e al grana, metti un cucchiaio di prezzemolo tritato, un po’ di spezie, sale e pepe e bagna con il liquido dal quale eliminerai l’aglio. Se vuoi fare una bella figura unisci della buccia di limone grattata. Con questo ripieno riempi dei quadrati di sfoglia, chiudili bene e falli cuocere in acqua bollente e salata. In primavera potrai aggiungere delle erbette del tuo orto tritate finemente e soffritte in un po’ di lardo. La tradizione li vuole conditi con del lardo tritato con un coltello caldo e poi rosolato in padella, poi versa-lo velocemente sui casoncelli con un pugno di grana. Tu hai fatto la tua parte, il resto lo farà la fame.

L ' è chèsta la risèta che fàa la mé nóna Adele dè Trensà e che fà amò adès la Rina de Jurs Növ con pasiù, da bràa fómna de cà.Dè carne na ólta ghè n’era póca e alura se fàa ègnér bù ch’èl chè gh’era, ènsóma póc e gnènt: èn pó dè pà e formài dè gràna, dè l’ai, dèl pedersèm, ‘na spisigàda de spesie, èn pó dè sal e peèr e, pèr fal bu, èn bèl ciapèl de bóter, dè ch’èl tiràt sö a belasine, menamà ch’èl vé a gàla, fat cól lat dè la tò achina giösta (l’ét ciàmàda Carulina o Lòla?).Ghè öl ‘n’a scödèla de pà sèc e tridàt, ‘n’a scödèla dè formài dè gràna tridàt a chèl, dò spighe dè ai, che tè farét bóèr ensèma a nà scödèla dè àqua, èndóe tè metèret a dèsfantàs tre cügià dè bóter. Quànd èl bóter l’è prónt, mès’cia ’nsèma èl pà cól formài, èn cügià dè pedersèm, zóntega le spesie èn pó dè sal e peèr, bagna cól tò bröt dè bóter e àqua, böta via le spighe dè ai, e, se tè vöt fà ‘nà figüra dè chèle, mètega ‘na gratadina dè scórsa dè limù. Cón ch’èst èmpiöm èmpiénés dèi quadrèc dè sfòia, sàzai sö bé e fài cösèr èn aqua che bói, salàda giösta. Èn primaéra tè pödèt zóntàga dèle erbasine dèl tò órt, taiàde sö fine e sfrizìde nèl làrd.La tradisiù la völ consài co ‘na sfrizida dè làrd fresch che tè bàteret bèl fì con dèl cortèl bèl càld, fàl desfantà nèla padilina e bötèl, piö prèst ch’èn frèsa, sùra i tò casonsèi cón dè nà bràca dè gràna. Té, tè ghét za fàt la tò pàrt, èl rèst èl la farà la fam.

(Marino Marini, La cucina bresciana)

Casoncello di Barbariga

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Pat, i prodotti tradizionali brescianinell’elenco ufficiale

Ci sono i prodotti alimentari pro-tetti (ma solo dall’Ue) e quelli

solo “fotografati” a futura memoria, che è un modo comunque di salvarli. Sono compresi in un elenco dei pro-dotti tipici e tradizionali che è nazio-nale, ma gestito dalla regioni.La piramide europea si compone, come noto di tre livelli. I prodotti Dop, IGp e SGT. Poi ci sono le deno-minazioni che tollera, come le De.co. Ma c’è un ulteriore livello di tute-la dei prodotti tradizionali che esi-ste in base ad una legge dello Stato del 1999 recepita dalle Regioni (la Lombardia lo ha fatto nel 2000). Si tratta delle specialità tipiche e tra-dizionali. A decidere il riconosci-mento di specialità tradizionale è la Regione, poi tutte le informazioni confluiscono in un albo nazionale. È necessario, come per le Dop euro-pee, che i prodotti abbiano almeno 25 anni di storia e continuino ad es-sere prodotti nei modi antichi e con i prodotti tradizionali del luogo. La Lombardia allinea più di 200 prodotti tradizionali iscritti, 28 dei quali sono riconosciuti alla tradi-zione bresciana. L’albo nazionale è un fiume di 4.472 specialità do-minate al Nord dai formaggi e a Sud dagli ortaggi.Va detto che la Lombardia è at-tenta custode dell’albo delle spe-cialità tradizionali di cui pubbli-ca l’Altante aggiornato ogni tre anni (l’ultima edizione è della fine del 2013). Va invece detto che i bresciani sono abbastanza pigri nell’iscrivere le loro specia-lità preferendo molto spesso la via delle De.co., le denominazio-ni garantite dal sindaco. Accade addirittura che alcune specialità brescianissime come il castagnac-

cio e la cotognata siano attribuite in esclusiva alla tradizione cremonese come se Andrini fosse oltre l’O-glio. Così nell’albo delle specialità tradizionali non c’è menzione, ad esempio, del Farro di San Paolo, né del Salame di Quinzano che sono De.co. importanti e tenute in gran conto dalle popolazioni locali.Va detto in compenso che tutte le specialità iscritte sono anche De.co..Nell’elenco lombardo spiccano così l’attivismo della provincia pavese (la Lomellina delle oche soprattut-to) e quello della Valtellina. A te-nere alte le sorti bresciane ci pensa soprattutto la Valcamonica.Quale è il significato dell’albo delle specialità tradizionali? Non è quello della tutela. Quando, 10 anni fa, è nata l’idea l’Europa ha avviato una procedura d’infrazione contro l’Ita-lia. Tutto si è risolto perché il nostro Governo dell’epoca ha chiarito che si trattava solo di una “fotografia”

da tramandare ai posteri delle mi-gliaia di specialità dello Stivale, senza alcuna pretesa di tutela. Un po’ come si fa con la catalogazione delle opere d’arte per tutelarle dai furti. In realtà lo scopo pratico era quello di indicare quali prodotti po-tevano meritare la deroga alle severe norme igieniche che erano entrate in vigore.I prodotti bresciani che compa-iono nella edizione aggiornata dell’Atlante lombardo sono notis-simi. Ci sono il Cuz di Corteno, la Luganega (di suino), il salame di Montisola, la salsiccia di castrato di Breno, la Soppressata bresciana, il Violino di capra e pecora, il Bagoss, il burro di montagna, il Cadolet di capra, la Casatta di Corteno, il Casolet, il Fatulì, il Fiurit, il Fontal, la Formaggella della Valsabbia, quella della Valtrompia, quella della Valcamonica e quella di Tremosine.Poi c’è naturalmente il Garda Tremo-

sine con il camuno Motelì. Più vaga è la definizione di Nostranograsso e di Nostrano dellaValsabbia. Diffusa è la ricotta artigianale o Pruina, della Bassa si ricorda la Robiola bresciana (Robiolina). Completano l’elenco de formaggi il Silter camuno, il Tombea di Magasa. Nel mondo di ortaggi e frutta si salva solo il tar-tufo nero o trifola. La Cotognata, come notato, va a Cremona. Tra le paste si salvano solo i Capunsei del Garda. Non è iscritto nessun prodotto da forno, neppure il Bossolà, mentre il Pan di Segale è specialità valtel-linese. Comuni infine ai laghi, an-che i nostri, sono le Alborelle es-siccate, il Missoltino e il Pigo che sono pesce essiccato in salamoia.

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Il Persech de Cobiat, frutto deliziosocon cento anni di storia locale

Il territorio bresciano non è mai stato troppo vocato alla produzio-ne di frutta (salvo quella del brolo familiare), con una eccezione all’i-nizio della Valtrompia nei comu-ni di Collebeato, Concesio e Villa Carcina. Qui è diventato famoso, e lo è ancora,il Persech de Cobiat. Le origini della presenza di questofrutto n e l

territorio bresciano, vengono fatte risalire agli inizi del secolo scorso e a Pietro Sorlini, abitante di Concesio che attorno al 1910 ne ha introdotto la coltivazione. Circa un trentennio dopo, siamo nel primo dopoguerra, le pesche si diffondono ai comuni circostanti, Villa Carcina e, appun-to, Collebeato. A Collebeato è il

Cav. Filippo Rovetta la figura associata all’introduzione

della peschicoltura con le varietà Mayflower, di

provenienza nordame-ricana, e Ciál. Il pro-gressivo incremento delle superfici col-tivate a pesca non più solo per uso fa-miliare, prosegue sino agli anni ’60 per poi diminuire co-

stantemente, in paral-lelo con la crescita del

boom economico sino a rimanere attività di poche

aziende agricole in grado di

applicare moderne tecniche di colti-vazione come l’irrigazione a goccia, la protezione con reti antigrandine, la lotta integrata ai parassiti.Ogni anno a inizio luglio (il periodo di massima disponibilità di pesche mature), si tiene la tradizionale sa-gra (nel 2017 sarà la 34°) che cele-bra il frutto orgoglio locale.Ma la pesche ce le ricordiamo tutto l’anno grazie ad alcune ricette, quel-la della Persicata anzitutto, che si è salvata dall’oblio ed è ancora dispo-nibile nelle pasticcerie bresciane. Troviamo invece solo nei vecchi ricettari il Persichino o Liquore di pesche: alcol, zucchero, pesche e noccioli freschi.La storia del Persech de Cobiat, per fortuna si è salvata. L’ha raccolta in un libro del 1996 lo storico Marcello Zane. Il volume è ora introvabile, ma nel 2004 la Pro Loco di Collebeato ha pubblicato uno splendido volume ancora con la collaborazione storica di Zane, quella agronomica di Ocil-do Stival e magnifiche fotografie.

bardia hanno chiarito gli effetti del cereale nella dieta, ne hanno stu-diato le possibili manipolazioni per renderlo utilizzabile, i ricercatori lo hanno messo alla prova in provetta con gli enzimi che provocano la ce-liachia (che è l’intolleranza al glu-tine), infine si sono messe a punto le tecniche di panificazione e di tra-sformazione in biscotti e grissini. Il pane di monococco è ora assai più buono e il cereale compare ormai più spesso nei menu dei ristoran-ti (c’è chi propone la zuppa e chi

Il monococco, un cereale che piacevaall’uomo del Similau

Non è più una curiosità per agronomi e scienziati, non

è più uno sfizio per chi è sempre alla ricerca di qualcosa di nuovo. Il monococco bresciano è una real-tà, piccola fin che si vuole, ma con prospettive reali di reddito, con una speranza (da prendere con cautela) in più per i celiaci e con belle pro-spettive come novità alimentare. Gli studi agronomici hanno indi-viduato le cinque varietà (non tutte panificabili) che meritano interesse, gli studiosi finanziati dalla Lom-

ci ha fatto la pasta dei casoncelli).Il cereale di cui si nutriva l’uomo del Similau è una novità interessante per le nostre campagne. L’ottima re-sistenza naturale a malattie e stress, la necessità di bassi livelli di conci-mazione ed una spiccata adattabilità ad ambienti colturali diversi rendo-no inoltre il monococco una specie molto promettente per uno sviluppo agricolo a basso impatto ambientale. Va chiarito l’accenno alla celiachia, la diffusissima malattia (ne soffre l’1% degli italiani) per la quale un

Pesche di Collebeato

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gressivo. Il Monococco si presenta come un promettente candidato

per la produzione di ali-menti ad elevato profilo

nutrizionale o per esi-genze di alimenta-zione particolari.I nutrizionisti sono entusiasti e attri-buiscono al cerea-

le proprietà antios-sidanti e i benefici

dei grassi insaturi.

panino bianco è veleno. I risultati ottenuti da analisi sul Mono-cocco mostrano una mi-nore allergenicità per persone con intol-leranze alimentari (persone celia-che intolleranti al glutine), gra-zie alla partico-lare formula del suo glutine che si presenta meno ag-

Gottolengo, una nicchia piccola piccolama di sapore vero

L acquisto all’angolo della strada è quasi l’unico modo per assicu-

rarsi un sacchetto di patate di Got-tolengo, in alternativa le trovate il venerdì al Mercato di Montichiari. Non cercatele al supermercato dove non le troverete. Gottolengo alla sua patata tiene molto ed ha appro-vato una Denominazione comunale che però ci risulta non registrata. Poco male, racconteremo le patate come Pat.Anche perchè la Sagra della Patata si è salvata (è a settembre). Malgra-do il successo la patata di Gottolen-go è una realtà davvero piccola pic-cola. Attualmente gli ettari coltivati sono solo 12. Con una produzione di poco più di cento quintali per ettaro si ottengono meno di 150 tonnella-

te di tuberi, per di più disponibili su una stagione lunga che va da marzo a luglio secondo le qualità. Siccome in Italia si producono 170 mila tonnellate di patate coltivate su 69 mila ettari, fate due conti e vi renderete conto di quanto piccola sia la nicchia. Cosa rende particolare la patata di Gottolengo? Apparente-mente ben poco se non il terreno che ha zone asciutte e sabbiose (nei ter-reni umidi la patata tende a marcire) e la perizia delle quattro aziende che ci credono e che hanno cumulato anni di esperienza. Contrariamente a quanto si sarebbe portati a crede-re la patata di Gottolengo non è un unico tipo. Il tentativo di produrre per seme una varietà autoctona si è

scontrato con i costi. Così si impie-gano sementi olandesi selezionate e ben acclimatate a Gottolengo. Se la tipicità ne soffre, il consumatore ha il vantaggio di avere ampia scelta secondo il piatto che vorrà prepa-rare. Così ci sono le patate a pasta bianca che vanno bene per gli gnoc-chi, quelle gialle che si prestano per le patatine fritte, ma soprattutto quelle a buccia rossa che sono adatte a quasi tutte le cotture.Per chi vuol saperne di più diremo che in zona si coltivano le gialle Primura e Adora, le rosse Desirée e Cleopatra, la Spunta e la Iarla a pa-sta bianca (le più gettonate) ed Her-mes e Sinora regine delle fritture.

Gianmichele PortieriGiornalista

Monococco

Patate di Gottolengo