Un centenario indimenticabile Fratelli d’Italia con d’Annunzio a … · 2019. 6. 26. ·...

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Aualità, storia e cultura esoterica Marzo 2019 Un centenario indimencabile Fratelli d’Italia con d’Annunzio a Fiume (1919 - 1920) di ALDO A. MOLA Grafica, impaginazione, eding a cura di Franco Ardito

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  • Attualità, storia e cultura esotericaMarzo 2019

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    Un centenario indimenticabileFratelli d’Italia con d’Annunzio a Fiume (1919 - 1920)

    di ALDO A. MOLA

    Grafica, impaginazione, editing a cura di Franco Ardito

  • Storia della massoneria

    Un centenario indimenticabileFratelli d’Italia

    con d’Annunzio a Fiume(1919 - 1920)

    Aristide Luca Ceccanti

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  • D’Annunzio a Fiume

    Storia della massoneria

    F

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    u il torinese Gia-como Treves, ebreo e massone (1882-1947), l’ar-

    tefice segreto della “marcia di Ronchi” capitanata da Gabriele d’Annunzio nella notte del 12 settembre 1919 per affermare l’italianità di Fiume. Dall’origine l’“im-presa” è al centro di giudizi controversi. “Festa della ri-voluzione” secondo Claudia Salaris; “una delle più buffo-nesche italianate della nostra Storia” per Indro Monta-nelli, che però (confessò) se avesse avuto vent’anni forse vi si sarebbe precipita-to. Già, perché Fiume fu... un fiume in piena, Verbo che si fa Carne, con volonta-ri, legionari, ammiratori, spregiatori, morti e feriti. E soprattutto tanti delusi. Come era sta-ta la Repubbli-ca romana del 1849, morta proprio quando la sua Assem-blea ne approvò la costituzione. A Fiume il Ver-bo si fece anche carnascialesco. “Severità e go-liardia, gioco e guerra, amore e violenza”, diven-ne un’icona in un Paese dalla memoria labile. Lo scrive Gior-

    dano Bruno Guerri in “Di-sobbedisco. Fiume 1919-1920” (Mondadori) sulla scorta dell’imponente Archivio della Fondazione del Vit-toriale degli Italiani da lui diretto (Gardone Riviera, www.vittoriale.it).D’Annunzio ebbe il torto di morire nel 1938, quan-do Benito Mussolini sterzò verso l’alleanza con la Ger-mania di Hitler, dal Vate sprezzantemente liquidato quale “Attila imbianchino”, “ridicolo Nibelungo truccato alla Charlot”. Quell’anno Mussolini puntò a isolare Vittorio Emanuele III per abbattere la monarchia. Dopo funerali solenni, d’Annunzio venne relegato nei ricordi del tempo che fu, osannato dai suoi pochi cultori ma ormai incompa-

    tibile col “regime”. L’11 feb-braio 1929 Mussolini aveva firmato il Concordato con la Santa Sede e spazzato via tutti i Guido da Vero-na d’Italia. D’Annunzio ri-mase un’icona in un Paese dalla memoria a corrente alternata, corriva al giubilo e al crucifige. Nel decennio seguente (tra “Patto di Accia-io” e vittoria di De Gasperi Alcide contro il Fronte po-polare) dai semplificatori analfapreti il Vate fu liqui-dato come colluso col fasci-smo. Anche quanti avevano letto l’edizione nazionale delle sue opere e si erano inebriati recitandone i versi o intere pagine di romanzi e di “orazioni” ormai lo de-testavano. Si vergognavano di averlo “amato”. Mancò l’“esame di coscienza”.

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    D’Annunzio con Giacomo Treves (a destra)

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    NiNo Valeri storico, masso-Ne, daNNuNziaNo occultoI primi due storici a fare i conti con il d’Annunzio vero, ricorda Guerri, furo-no Paolo Alatri, anni prima costretto a pubblicare opere finissime con pseudonimo

    p e r c h é ebreo, poi

    comunista, in realtà illumi-nista, e Nino Valeri. Di fa-miglia coltissima, Valeri af-fondò il bisturi nella piaga.

    D’Annunzio è il campione del “disprezzo per gli ordini costituiti, di disinteresse per il passato e per l’avvenire, di irri-dente spregio per la virtù e per il risparmio, per la famiglia, per gli avi, per la religione, per la monarchia e per la repubbli-ca: di nichilistica aspirazione, in fondo, di finirla in bellez-za questa inutile stupida vita, in una specie di orgia eroica”. Sono sentimenti, aggiunse Valeri, “che giacciono anche

    nel remoto sottofondo di mol-ti benpensanti, ma normal-mente repressi e condannati in nome della rispettabilità”. D’Annunzio evidenziò le contraddizioni profonde e perpetue del farisaismo italico, del perbenismo, dei “sepolcri imbiancati”. I “cinquecento giorni di rivolu-zione” (sottotitolo dell’im-portante Opera di Guerri) confermarono che l’Italia è una terra di cospirazio-ni, sommosse, moti incom-posti, guerre “di” o “per” bande, di delitti e persino di guerriglie eterodirette (sanfedisti contro giacobi-ni, il “grande brigantaggio” del 1860-1867, evocato da opportunisti e plaudito da “neo-barbonici” odierni, la cosiddetta guerra civile del 1943-1945, con la sua stuc-chevole “conta dei morti”) ma geneticamente incapace di rivoluzioni. Socio dell’Accademia delle Scienze di Torino, direttore della splendida collana di biografie “La vita sociale della Nuova Italia” per la Utet e di classici come La lotta politica in Italia, Valeri scrisse capo-lavori su d’Annunzio. Aveva le sue motivazioni occulte. Prima che storico era stato un artista. Anche sul suo capo era scesa la fiammel-la dello Spirito, forse men-tre volava nei cieli quando morirne era altamente pro-babile. Era stato al seguito

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    Cartolina della Repubblica del Carnaro

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    del Comandante. Non solo. Nino Valeri venne iniziato massone nella stessa loggia del figlio del Vate, Gabrielli-no d’Annunzio, un cammeo della Serenissima Gran Log-gia d’Italia. Futuro storico di inarrivabile classe, all’e-poca Valeri faceva l’agen-te cinematografico. Fiume gli rimase nel sangue. Non potendo scrivere subito del “suo” Reggente del Carnaro (all’epoca era “politicamente scorretto”), narrò le vicende di Facino Cane e di altri Si-gnori sino a quando l’Italia crollò sotto le dominazioni straniere. Faceva l’occhioli-no al lettore. Finì con la bio-grafia di Giovanni Giolitti, l’anti-d’Annunzio, ma, al tempo stesso, il più dannun-ziano degli statisti perché capì la politica estera me-glio dei diplomatici. L’Italia

    è alternanza di saviezza e di follia. Chi governa deve te-nerne conto per reggerne le briglie. Giolitti lo fece: mite con i deboli (gli scioperanti per motivi economici), duro con gli arroganti come gli industriali torinesi che nel settembre 1920 gli chiesero di liberare le fabbriche ma misero la coda tra le gambe quando egli si disse pronto a farle bombardare.

    il disastro perpetuo della politica estera italiaNaGuerri ha il merito di aver acceso i fari sulla poliedrici-tà della genesi dell’impresa di Fiume. Essa ebbe moltisi-mi padri nella sua fase api-cale e gloriosa. Presto, però, iniziarono i “distinguo” e le defezioni. Infine il Coman-dante si trovò pressoché solo alla guida di pochi di-

    sperati, guardati come aves-sero la peste sia dalla popo-lazione (da tempo alla fame e alle prese con i bombarda-menti e sempre atterrita dal ritorno degli slavi: quanto non solo a Fiume accad-de nel 1943 e dopo il 1945) sia dall’Esercito italiano schierato attorno alla città come cordone sanitario per impedire il contagio rivolu-zionario, e infine dal vasto arco di governativi e antigo-vernativi. Se per pocbi gior-ni nel settembre del 1919 il Vate era riuscito nel miraco-lo di mettere d’accordo qua-si tutti gli italiani a sostegno dell’italianità di Fiume, un anno dopo ottenne il risul-tato esattamente opposto: gli italiani non ne poteva-no più. Bisognava chiudere quel capitolo, a qualunque costo, compresa, se necessa-

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    ria, l’eliminazione fisica del Comandante: sapeva tanto, troppo anzi; e quindi era or-mai scomodissimo per tutti. In pochi gli rimasero fedeli oltre il crollo della Reggen-za e la sconfitta del suo di-segno politico.Per comprenderlo occorre vedere il ventaglio politi-co mondiale entro il quale l’impresa nacque e quello, del tutto diverso, dei mesi nei quali essa si avvolse nel sudario di morte, tra il set-tembre e il dicembre 1920.In estrema sintesi, nel 1919 l’Italia ricevette due batoste in pochi mesi: il Congresso

    di pace di Versailles

    negò seccamente la richie-sta di Roma di aggiungere Fiume al “bottino” previsto dall’accordo di Londra del

    26 aprile 1915. L’Italia lo ave-va onorato a scartamento ri-dotto. Ora le sue aspirazioni cozzarono contro tre avver-sari: anzitutto l’espansioni-smo francese nell’ex impero austro-ungarico, in gara di velocità con gli italiani, a loro volta impegnati a pro-cacciarsi il massimo di van-taggi. Lo documenta Anto-nino Zarcone nella corposa biografia di Roberto Segre pubblicata dall’Ufficio Sto-rico dello Stato Maggio-re dell’Esercito. Malgrado

    le premesse e promesse a l l ’ a m i c i -zia con l’I-talia, Parigi anteponeva quella con lo stato ser-bo-croato-slo-veno, fonda-mentale per l ’e s p a n s io -ne francese n e l l ’ E u r o -pa orientale dopo il tracol-lo dello zar. Il governo ave-va pieno ap-

    poggio del Grande Oriente e della Gran Loggia di Francia, il cui gran maestro, generale Paul Peigné, scrisse la pre-fazione alle Rivendicazioni di Belgrado, che chiedeva il confine all’Isonzo e ad ovest di Trieste. Per gli jugosla-vi 680.000 morti e 1.200.000 feri-t i

    italia-ni erano un affare interno di chi aveva dichiarato guerra all’Au-

    Foto in alto:D’Annunzio parla ai legionari.

    Foto a destra:Corriera Alfa Romeo 85A “Freccia del Carnaro”, in servizio sulla linea Trieste - Fiume

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    stria. Per loro l’italianità di Fiume non era neppu-re sull’orizzonte. Perciò vi mandarono un piccolo con-tingente. Per gli inglesi, che in duecento anni avevano gettato il cavo d’acciaio del-la loro talassocrazia da Gi-bilterra a Malta, da Suez a Cipro, il “Mare Nostrum” era solo un lago dalla Mani-ca verso l’Oceano Indiano. Non consideravano affat-to l’Italia come partner nel dominio sull Mediterraneo Orientale. Anche gli Stati Uniti d’America di Woo-drow Wilson erano filosla-vi. Il passaggio dal governo Orlando-Sonni-no a

    q u e l l o p r e s i e d u t o

    da Francesco Save-rio Nitti col giolittiano

    Tommaso Tittoni agli Este-ri (23 giugno 1919: cinque

    giorni prima della procla-mazione della “pace” con la Germania) non migliorò il quadro diplomatico. Il 10 settembre venne firmata la pace di Saint-Germanin tra Italia e Austria. Fiume rimase “corpus separatum” in attesa delle paci seguen-ti, in specie con l’Ungheria, l’altro “erede” della “dupli-ce monarchia” asburgica. A quel punto bisognava agi-re o rinunciare per sempre.

    “marciare, NoN marcire”: tra mussoliNi e il Vate Come egli stesso ha narra-to in un analitico memoria-le denso di documenti, pro-

    p r i o Giacomo Treves

    impresse l’accelerazione alla trama imbastita da quasi un anno. Il 18 dicem-bre 1918 lui e altri otto mas-soni di varie logge italiane dettero vita in Trieste a una nuova “officina” del Rito

    Simbolico Italiano, all’obbe-dienza del Grande Oriente d’Italia. “Riconosciuta l’ur-gente necessità di costituire un primo nucleo massonico” Odoardo Pesaro (eletto ve-nerabile), Edoardo Viterbo, Eugenio Bianchi d’Espino-sa, Giulio Regis, Camillo Sclavo, Angelo Scocchi, Enrico Liebmann e Adol-fo Ciampolini alzarono le colonne della loggia “Gu-glielmo Oberdan”, sacra alla memoria di chi nel 1882 (in risposta al Trattato Ro-ma-Vienna-Berlino) aveva attentato alla vita di Fran-cesco Giuseppe, l’“impera-tore degli impioccati”, ed era stato puntualmente con-

    dannato a morte e supplizia-

    to. Tre-ves fu

    elet to 1° Sorve-

    gliante. La de-cisione di riattivare in Trie-ste l’officina che per anni vi aveva operato segretamen-te ignorò l ’ i n v i t o del gran maestro del Grande Oriente, Ernesto Nathan, a soprassedere perché (a sua detta) nella città tergestina

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    Manoscritto di d’Annunzio su carta dell’Unione Spirituale Dannunziana

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    v’erano fratelli sufficienti per creare due logge. Roma annaspava. Trieste faceva. Il 20 dicembre la “Oberdan” uscì allo scoperto con un manifesto, cofirmato dal-la consorella “Alpi Giulie”. A Nathan non rimase che approvare, promettere aiuti per la costruzione del nuo-vo tempio e inviare statuti e rituali. Lo stesso 20 dicem-bre la “Oberdan” organizzò la rievocazione del martire con un oratore d’eccezione: Benito Mussolini. Nell’in-vito ai cittadini il manife-sto ammonì: “Nessuno deve mancare”. Il futuro duce era all’epoca espressione dell’in-terventistmo intervenuto. Come ha sintetizzato Ren-zo De Felice era l’“uomo in cerca”. Non aveva ancora individuato il proprio cam-mino. Dall’adunata nel cir-colo industre-commercia-le di piazza San Sepolcro, messogli a disposizione il 23 marzo 1919 dal massone ed ebreo Cesare Goldman, non scaturì un “manifesto”. Il “racconto” dell’adunata (lo documentò Chiurco nel-la “Storia della Rivoluzione fa-scista”) si limitò a elencare i partecipanti e i vari temi toc-cati. Solo molto tempo dopo

    i fasci di c o m b a t -

    timento si dettero un pro-gramma sommario, di tono accesamente repubblicano, socialisteggiante e aspra-

    mente anticlericale. Esso stava nell’ideario mas-sonico come il meno sta nel più. All’epoca, infatti, il Grande Oriente stava ela-borando un progetto di ri-forma sociale ispirato alla “democrazia del lavoro”: mol-te idee, parecchio confuse

    e di impossibile immediata realizzazione, come è tipi-co dei “partiti d’azione”. Nel volgere di pochi mesi i suoi capisaldi si riassunse-ro in: lotta al capitalismo e al bolscevismo, cooperazio-ne dei “produttori” e sosti-tuzione del regime vigente

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    Manoscritto di d’Annunzio su carta dell’Unione Spirituale Dannunziana

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    con un altro (cioè la repub-blica al posto della monar-chia: quanto bastava per non esser presi sul serio da Londra ove dalla sua nasci-ta massoneria fa rima con monarchia). A elaborare lo Stato Nuovo sarebbe stata una Costituente.

    Dall’estate del 1919 Mus-solini si mise in proprio, in vista del rinnovo della Camera dei deputati. Per la circoscrizione di Mila-no formò una lista com-prendente, fra altri, Filippo Tommaso Marinetti, auto-re del Manifesto dei futuristi,

    Arturo Troscanini, già ce-lebre direttore d’orchestra, Ugo Podrecca, ex direttore dell’“Asino”, il settimana-le satirico più mangiapreti d’Italia. Il futuro “duce” non era disponibile per pro-getti altrui. Perciò Treves e altri “fratelli” individuaro-no in d’Annunzio il vessil-lifero del colpo di mano: la “marcia su Fiume”.

    d’aNNuNzio a treVes: per Fiume italiaNa, alalàPreso contatti diretti con il Vate il 7 settembre, grazie a ufficiali iniziati in loggia e a una rete di massoni ope-ranti nei servizi ferrovia-ri, telefonici, telegrafici e postali, vennero gettate le premesse dell’azione. Ben-ché febbricitante, d’Annun-zio accettò. Il 9 settembre mandò a Treves una cassa di bottiglie di spumante con il cartiglio: “Bevete coi compagni questo fervido vino italiano alla salvezza di Fiume che è oggi l’eroina della libertà del mondo folle e vile. Per Fiu-me italiana. Alalà”. Tramite fra i massoni di Trieste, Padova, Milano, To-rino, Bologna e la città erano gli inziati alla loggia “Syrius” (tutta da documentare: ma le carte non man-cano), a cominciare dal sin-daco di Fiume, Antonio Vio. Anche parecchi tra gli uffi-ciali al seguito del Vate erano

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    stati o ancora rimanevano in logge pullulanti da un capo all’altro del Paese. Era il caso di Eugenio Coselschi (di altri diremo). Circa la loro vitalità basti ricordare che nel 1919 i nuovi iniziati furono circa 4.000 e che l’anno seguente crebbero a quasi 5.000. N e l l ’ i m -possibilità di seguire passo passo la vicenda, per coglie-re la cen-tralità del ruolo da lui svolto ba-sti dire che Treves ven-ne munito del permes-so speciale di entrare e uscire dalla città a suo piacimen-to. Porta-va denari, armi, quan-to serviva alla “rivoluzione”. Membro di un Comitato se-greto, il 26 ottobre 1919 con Angelo Scocchi ed Ercole Miani approntò il proget-to di una “Marcia da Fiume

    su Roma” passando

    per Trieste. Ma a Trieste ar-rivò il nuovo gran maestro, Domizio Torrigiani. Al ter-mine di una lunga dramma-

    tica seduta, il Grande Oriente recise i ponti con il program-ma del Vate. Alla vigilia delle elezioni, una “marcia” verso l’Italia avrebbe susci-tato l’insurrezione dei socia-listi e la risposta delle Forze Armate: un nuovo governo

    militare, dopo quelli di Me-nabrea (1867-1869) e di Lu-igi Pelloux (1898-1900), l’e-clissi delle libertà. Come si sarebbero schierati i neonati “popolari” di don Sturzo?

    il crepuscolo di uN daNNuNziaNoNel marzo 1920 Treves la-sciò Trieste. La sua trama svaporò. Rimase nell’azio-

    ne del’Unione spiritualista dannunziana, di un parti-to socialita dmocratico (da lui abbozzato sin dal 1923), di squadre dannunziane contrapposte a quelle mus-soliniane e a quelle nazio-naliste di Luigi Federzoni

    e Alfredo Rocco, il m i c r o c o -smo cleri-co-reazio-nario con il quale Treves non volle mai avere nulla da spartire.Nel l’es ta-te del 1920 Treves pro-mosse la raccolta di fondi su ca-nali diversi da qualli fagoc itat i da Musso-lini. Anche il vecchio P ie monte

    vi concorse con aristocrati-ci, borghesi e popolani, per-ché Fiume continuava a es-sere emblema della Grande Guerra. Lo rimase anche dopo la cacciata di d’An-nunzio dalla città martire, pacatamente cannoneggia-ta dalla “Andrea Doria” su disposizione del presiden-te del Consiglio, Giovanni Giolitti. Il “Natale di sangue”

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    caso d’Annunzio, ricevuti brevetto e insegne di grado 33 della Gran Loggia d’Italia, frequentò anche il venerabile della “XXX ottobre” Attilio Prodam: una vicenda che meriterà di essere ampiamen-te documentata.Alla morte, nel 1947, Giacomo Treves, iniziato nella loggia “Ausonia” di Torino (matricola 42.904) fu commemorato nella rivista “Lumen Vitae”. Rimane in attesa di una biogra-fia. Ne emergereb-be “La Fenice” della Terza Italia, che era ed è europea, anzi

    “mondiale”, anche grazie al Poeta.

    1920 chiuse la cronaca. Ri-mase l’epopea. Merito del corposo volume di Guerri è di aver riproposto al centro dell’attenzione quell’Italia di passione: niente miope sovranismo ma universa-lismo. Utopia per i tempi, come si evince dalla Carta del Carnaro, stesa dall’anar-co-sindacalista Alceste De Ambris e perfezionata dal Vate, comprendente, tra al-tro, il divorzio, che in Italia vigeva dall’antica Roma, e tante altre forme di libertà che ancor oggi sono privile-gio di minoranze pensanti. A quell’epoca, con quegli uomini, l’Italia era crogiuo-lo di Grande Storia. Anche le due Comunità masso-niche lo erano. Non per

  • via San Nicola de’ Cesarini, 3 - 00186 Roma

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