Un Amore in Ginocchio

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UN AMORE IN GINOCCHIO www.0111edizioni.com www.ilgiralibro.com UN AMORE IN GINOCCHIO 2008 Zerounoundici Edizioni Copyright © 2008 Lara Repetto ISBN 978-88-6307-081-1 In copertina: Immagine Shutterstock Finito di stampare nel mese di Giugno 2008 da Meloprint – Il Melograno Cassina Nuova - Milano

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UN AMOREIN GINOCCHIO

www.0111edizioni.comwww.ilgiralibro.com

 

 

UN AMORE IN GINOCCHIO2008 Zerounoundici Edizioni

Copyright © 2008 Lara RepettoISBN 978-88-6307-081-1

In copertina: Immagine Shutterstock

 

Finito di stampare nel mese di Giugno 2008 da

Meloprint – Il MelogranoCassina Nuova - Milano

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A mio marito Marco che mi ha sempre sostenuto

con ironia non facendomi prendere troppo sul serio.

 

A mio figlio Andrea perché, se non lo avessi aspettato,

non avrei mai scritto questo libro.

 

 

 

 

 

 

Un ringraziamento speciale:

ai miei genitori che mi hanno regalato e continuano a regalarmi chicche di vita che fanno sorridere anche chi non li conosce.

a tutti gli amici, i parenti e le persone che hanno involontariamente ispirato alcune figure di questa storia.

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Premessa

 

 

 

 

 

 

Desidero scrivere un libro da quando andavo al liceo ma ho sempre pensato che, almeno il primo della vita, lo si debba scrivere di getto, senza intervalli obbligati e senza compromessi con la quotidianità che ti ingloba. Ho sempre creduto che lo si debba scrivere con la mano guidata dall’emozione. E l’emozione, si sa, ha regole e tempi diversi dalla ragione e dal buonsenso. L’emozione non ha regole e non ha tempi, non conosce gli impegni, non conosce i bisogni, a volte nemmeno quelli essenziali come il sonno e la fame.

Così per tutti questi anni, i libri, ho preferito solo leggerli e sono quasi sempre riuscita a respirarli tutti di un fiato per non perdere il filo della suggestione emotiva.

 

C’è un detto cinese secondo cui per avere una vita piena un uomo deve fare almeno tre cose: piantare un albero, scrivere un libro ed educare un figlio.

Il destino ha voluto che io riuscissi a fare una di queste tre cose proprio grazie al germoglio di una delle altre due: a giugno 2007 è nato il mio primo bambino e una forzata maternità anticipata mi ha “regalato” inaspettati mesi di inattività. Ed è così che ho scritto il mio primo romanzo, con l’urgenza di chi scrive scoprendo giorno dopo giorno, notte dopo notte, la storia che racconta, con i soli tempi e le sole regole della nuova vita che mi sta crescendo dentro.

Solo che, contro qualsiasi logica dell’istintività, non ho raccontato del miracolo di questo esserino che mi ha fatto stare male per quattro mesi e poi mi ha tenuto compagnia con i suoi colpetti leggeri, con il suo singhiozzo, con le sue giravolte discrete. Ho raccontato una storia che non mi appartiene, ho raccontato la storia di due persone che non potranno mai vivere questo miracolo, ho raccontato l’amore di due ragazzi omosessuali, ho raccontato la loro adorazione che non conosce limiti. E mentre la raccontavo scoprivo che, se anche questa storia non faceva parte della mia vita, faceva parte dei miei sogni e forse dei sogni di tutti. Il sogno di vivere un amore ideale, un amore per cui vivi e che vive per te ma anche un amore per cui saresti disposto a vivere senza ricevere nulla in cambio. Ed è così che è nato “Un amore in ginocchio”.

 

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Francesco e Matteo si conoscono nella Milano di oggi. La Milano dei ragazzi ricchi e dei ragazzi benestanti, dei ragazzi che studiano fino a tardi, dei ragazzi che non se ne vanno di casa, dei ragazzi che a ventisei anni guadagnano ancora stipendi con tre cifre ma che hanno alle spalle la mamma e il papà. E’ una società in cui tutto è difficile, trovare un lavoro gratificante e remunerativo, comprare una casa, fare scelte definitive. Tutto è difficile ma basta avere le spalle coperte.

Peccato che, se non sei come gli altri, spesso nessuno è più disposto a coprirtele. E proprio per la loro diversità Francesco e Matteo rimarranno scoperti alle spalle. La loro è una passione irruente, irresistibile, quasi prepotente che per mesi viene compressa, addirittura schiacciata in un’amicizia discreta. Il loro è un amore viscerale, un’adorazione che accetta qualsiasi compromesso, qualsiasi frustrazione, qualsiasi rischio, qualsiasi rinuncia. Ed è un amore che esplode per non implodere.

Per Francesco arriva dopo un’adolescenza di lotte interiori per accettare le sue diverse inclinazioni, lotte che adesso lo hanno reso capace di sorridere di sé e di far ridere spesso chi legge di lui. Ma arriva anche dopo anni di incontri squallidi in cui la diversità autorizza qualsiasi forma di perversione. Per Matteo arriva dopo anni di silenzi, di inganni di sé e degli altri, di incapacità di ammettere la verità anche con se stesso. E sarà proprio l’impeto irrefrenabile di questa passione a dargli la forza di uscire allo scoperto e di gridare al mondo la sua natura e il suo amore incondizionato.

Ma se i caratteristici ed a volte esilaranti genitori di Francesco si limiteranno a non difenderlo, i milionari e conservatori genitori di Matteo lo attaccheranno con ogni arma in loro possesso. E soprattutto cercheranno di colpirlo nel suo unico, vero tallone di Achille. Gli toccheranno la sua ragione di vita, il suo ossigeno. Proveranno con ogni mezzo a far cadere Francesco sotto i colpi delle umiliazioni, delle offese e degli oltraggi. Ma Francesco e Matteo non cadranno. Non cadranno perché sorretti dalla forza della vita, la vita che si sono presi l’uno dall’altro e che si continuano a dare.

A fare da contrappeso alle distanze incolmabili con i rispettivi genitori, ci sono i legami sinceri con le sorelle minori. Elena, la sorella di Francesco, che a soli diciotto anni decide di portare avanti una gravidanza indesiderata ed Elisabetta, la sorella di Matteo, che lotta per costruirsi una vita che si adatti perfettamente alle regole ed ai parametri della società, senza però che questo le impedisca di abbracciare senza remore chiunque queste regole e questi parametri non voglia o non possa accettarli.

Anch’io, come la sorella di Matteo, ho protetto senza condizioni l’amore di questi due ragazzi. Mentre scrivevo sono riuscita a soffrire per loro, a sperare per loro, a palpitare per loro, a gioire per loro. E ho raccontato di loro attraverso gli occhi di Francesco e all’animo di quegli occhi ho regalato le sensazioni della mia vita, l’amore per la bellezza incoerente e disomogenea della mia città, la solitudine infinita e la comunione con il mondo, l’infelicità che schiaccia e la gioia che stordisce, l’apnea della paura e lo smarrimento del sollievo.

Un giorno mio marito mi ha chiesto perché avessi scelto una storia così distante da me, perché non avessi raccontato di noi, del nostro di amore che mi ha emozionato e continua ad emozionarmi. Ho risposto: “Perché il nostro è un amore bellissimo che mi sorprende ogni giorno ma che fino ad oggi è stato un amore facile, un amore senza ostacoli, un amore senza difficoltà. E io ho avuto bisogno di raccontare di chi, a differenza nostra, ha dovuto difendere il suo amore con le unghie.”

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A giugno 2007 è nato Andrea e dicono che un figlio si cominci ad educarlo da subito. O a diseducarlo, questo dipende dai punti di vista e dai genitori! In ogni caso per i cinesi ho perlomeno iniziato due delle cose che riempiono la vita. Adesso mi sono ripromessa di fare anche l’ultima delle tre. Ma ho deciso che per il momento pianterò un albero solo se realizzerò il sogno di vedere pubblicata la storia che ho scritto. Solo se potrò vedere il titolo “L’amore in ginocchio” su quella carta di libro nuovo che tante volte ho odorato, su quella carta di libro nuovo che sa di buono.

 

Lara Repetto

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1.

 

 

 

 

 

 

Si svegliò troppo presto per essere domenica. Tutta colpa di un raggio di sole: entrava da un buco della tapparella mal chiusa e lo colpiva dritto in un occhio. Aveva sempre preferito le persiane… niente buio totale e la mattina una luce soffusa filtra appena e non ti indispone. Al massimo ti sottrae delicatamente al sonno profondo della notte lasciandoti in un dormiveglia che rende ancora più oziosamente delizioso un giorno di festa.

Cercò di non muoversi per lasciar dormire Matteo. Respirò il suo odore facendo attenzione a non fare rumore. Se fosse dipeso da lui nemmeno avrebbe respirato. Guardò la finestra e supplicò in silenzio il raggio di sole di non abbassarsi troppo.

 

Si erano incontrati un anno prima alla festa di compleanno di Elisabetta, la sorella di Matteo.

Allora Francesco ed Elisabetta lavoravano insieme da poco meno di un anno in un’agenzia pubblicitaria in zona Brera: all’inizio si erano studiati guardandosi con scetticismo per alcuni mesi fino a quando avevano tacitamente deciso di concedersi reciprocamente un po’ di fiducia. Era stata la prima collega a cui Francesco, allora non ancora ventiquattrenne, aveva confidato la sua attrazione per gli uomini. Non che facesse nulla per nasconderlo ma, insomma, lo ammetteva solo quando raggiungeva un certo grado di confidenza. Avevano iniziato a frequentarsi anche se forse la nuova amica avrebbe decisamente preferito che i suoi gusti fossero orientati alle donne e, perché no, a lei.

La sera, uscendo tardi dall’ufficio, camminavano senza fretta per le strade della Milano notturna, attraversavano via Solferino, un piccolo tratto di via Brera, giravano in Fiori Chiari e spesso si fermavano in qualche locale per un happy hour che, lo sapevano, avrebbe tolto ad entrambi definitivamente la voglia di cenare.

Sbollita la tensione dei ritmi frenetici del mondo della pubblicità che li faceva sentire un po’ vittime un po’ eroi, Elisabetta iniziava a parlare dei suoi uomini. Spesso, quasi senza accorgersene nominava tutti quelli che c’erano stati nei suoi ventitrè anni di vita. Era come se volesse rassicurare se stessa della indubbia precarietà della sua eventuale momentanea

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condizione di single. Francesco ascoltava in silenzio quel fiume di parole e solo ogni tanto riusciva a fare qualche commento, quando la prolungata apnea obbligava l’amica a prendere fiato.

Il loro rapporto era diventato sempre più profondo, anche se il ritmo veniva fortemente scandito dagli amori di Elisabetta. Nella fase nascente di una storia lo tempestava di telefonate e gli faceva analizzare una serie infinita di ipotesi: se il ragazzo di turno avesse chiamato subito il giorno dopo il primo incontro, due giorni dopo o avesse avuto la pessima idea di lasciare passare più di tre giorni. Poi, durante i primi mesi in cui la storia andava consolidandosi, le uscite e le telefonate si diradavano. Ma riprendevano con maggiore intensità quando, purtroppo o per fortuna - questo Francesco non lo aveva ancora deciso - l’amore di turno si esauriva, come quei fuochi d’artificio che continuano a scoppiettare ancora un po’ ma senza più nessuna convinzione.

Quella sera di aprile Elisabetta lo aveva invitato alla sua festa di compleanno. L’avrebbe tenuta a casa sua, complice l’assenza dei genitori che avevano così appropriatamente deciso di concedersi un lungo fine settimana a Barcellona.

Francesco non conosceva quasi nessuno degli invitati, ad eccezione di un paio di colleghi comuni. Il giorno prima aveva gironzolato tutta la pausa pranzo alla ricerca di una folgorante idea regalo per poi ripiegare immancabilmente sul solito scontatissimo profumo che però non tradisce mai… o quasi.

Non sapeva assolutamente cosa Elisabetta avesse detto di lui né se tutti o alcuni dei suoi amici fossero a conoscenza delle sue inclinazioni sessuali.

Indossò il suo paio di jeans preferiti, una camicia bianca adatta a tutte le occasioni, si profumò senza esagerare, si guardò allo specchio e si disse abbastanza soddisfatto. Non si era mai considerato bello anche se spesso si era sentito indesiderati occhi femminili addosso. Attribuiva il suo fascino al suo aspetto da bimbo sperduto ma non troppo, dovuto alla statura non degna di nota ed ai lineamenti delicati, interrotti da due fessure verde intenso in cui spesso finiva qualche ricciolo nero un po’ troppo cresciuto.

 

La collega abitava in un palazzo d’epoca in via Podgora, proprio ad uguale distanza dal Tribunale e dalla rotonda della Besana. La facciata era finemente affrescata. L’armonia d’insieme, però, era interrotta da alcuni tocchi di modernità, come la scelta di sostituire le persiane, sicuramente previste dal progetto iniziale, con le fredde anche se funzionali tapparelle. Probabilmente il cambiamento risaliva a diversi anni prima, quando i controlli e i vincoli sulla ristrutturazione delle case erano molto meno rigidi.

Venne ad aprirgli Elisabetta. Un vestitino nero aderente fasciava la sua piccola figura snella: era molto carina anche se ti rimaneva il dubbio se considerarla una donna a tutti gli effetti o una bimba che giocava a fare la donna. Ma, a giudicare dal numero di fidanzati che si alternavano nella sua vita, gli uomini dovevano considerarla poco bambina o dovevano pensare che il gioco di fare la donna le riuscisse molto bene.

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«Ciao, Fra. Benvenuto. Ci sono già quasi tutti. Come stai? Hai trovato parcheggio? Ci hai messo molto a venire? Ora ti presento Luca così finalmente lo conosci. Mi raccomando non fare nessun commento su tutte le mie paure iniziali. Fai finta di sapere che esista ma non far capire che conosci alcune cose della sua vita.» Alcune cose della sua vita? Probabilmente Francesco sapeva più particolari sulla vita di Luca che sulla propria, o, perlomeno, era a conoscenza di alcuni dettagli che ignorava perfino di se stesso, come il fondamentale ascendente zodiacale o il numero di nei che aveva sulla spalla sinistra.

Entrò nell’enorme salotto in cui lo stile moderno si adattava perfettamente ad alcuni tocchi di arte povera e cercò con lo sguardo qualche viso noto mentre Elisabetta gli presentava un invitato via l’altro. Si sforzò di concentrarsi sui nomi che aveva sentito e si rese conto di non ricordarne nemmeno uno o, comunque, di non essere in grado di fare nessuna associazione nome-faccia. Andarono in cucina alla ricerca dell’introvabile Luca.

Fu lì che vide Matteo per la prima volta.

Era di profilo e parlava con una ragazza. Un po' più alto di lui, capelli castani lisci lasciati un po’ lunghi in un taglio volutamente disordinato, profilo deciso ma dolce, occhi azzurri chiarissimi, quasi trasparenti. Sentì come in lontananza Elisabetta che cinguettava «Fra, ti presento mio fratello Matteo e la sua fidanzata Gloria. Lui è Francesco, il mio adorato collega.» e fece uno sforzo per biascicare nel modo più naturale possibile «Piacere, Francesco.». Matteo era bellissimo. Francesco cercò senza successo di ricordare quando gli fosse capitato di incontrare così da vicino un ragazzo tanto bello. Si chiese se fosse a conoscenza della sua omosessualità anche se dava per scontato che Elisabetta, tra i mille pensieri che esprimeva in un minuto, non avesse mancato di comunicargli anche questo particolare.

Scambiarono poche frasi di circostanza sui rispettivi lavori. I due fidanzati avevano entrambi venticinque anni. Gloria lavorava all’ufficio marketing di una multinazionale americana. Era molto carina, piuttosto alta e formosa, con una massa di capelli castani perfettamente addomesticati dalla fresca piega di un parrucchiere. Matteo disse di avere da poco iniziato a scrivere per un giornale locale che usciva una volta alla settimana. Aveva preso la laurea in legge solo per assecondare il padre che lo avrebbe voluto accanto nell’avviata attività di famiglia. E non si poteva di certo dargli torto considerato che il suo studio notarile, oltre ad essere uno dei più prestigiosi di Milano, si occupava di tutti gli atti e le transazioni ecclesiastiche nel nord Italia.

Per il resto della serata non ebbe più occasione di parlare direttamente con lui. Al momento dei saluti baciò Gloria e strinse la mano al fidanzato facendo attenzione a non trattenergliela un secondo di troppo. Ebbe come l’impressione che fosse Matteo a lasciarla lì qualche attimo in più ma fu sicuro che la sua immaginazione, stordita da tanta bellezza, gli giocasse alcuni scherzi.

Il giorno dopo Elisabetta parlò senza sosta per tutta la pausa pranzo commentando gli invitati della festa. Francesco cercava di seguirla facendo uno sforzo enorme per associare i commenti alle facce e alle frasi che avevano detto.

«Beh, cosa mi dici di mio fratello?...» gli chiese ad un certo punto l’amica quasi sorvolando. «… non male, eh? Anche Gloria è molto carina, sembra che ce l’abbia solo lei ma è molto bella.»

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Francesco si augurò che Elisabetta fosse talmente presa dall’acidità della sentenza appena emessa da non rendersi conto del suo imbarazzo rivelato dal solito lieve rossore traditore.

«Stanno insieme da molto tempo?» balbettò simulando un fin troppo totale disinteresse.

«Quasi un anno mi sembra. Pensa che non sono ancora riuscita ad inquadrare il loro rapporto. Sai, a mio fratello non scuci un parola sulla sua vita privata nemmeno a morire e lei, quando viene in casa, se ne sta sempre lì appiccicata a lui. E’ come se le desse fastidio fare due chiacchiere con gli altri membri della famiglia!»

«Mi sono sembrati molto uniti.» buttò lì quasi volendo essere smentito.

«Ma, se lo dici tu… Io ho un’altra idea dell’essere molto uniti!» E iniziò a divulgare i più spaiati particolari sulla sua storia d’amore in corso.

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2.

 

 

 

 

 

 

Era solo l’inizio di giugno ma, contrariamente a quanto gli esperti avevano previsto durante tutta la stagione invernale, la temperatura aveva già abbondantemente superato i trenta gradi. Erano le sette di sera e Francesco camminava veloce: sperava di arrivare alla sua macchina, parcheggiata in piazza San Marco, prima di soccombere.

Lungo il breve tragitto aveva incrociato gli sguardi provati di altri lavoratori. Come lui vedevano al pari di un’oasi irraggiungibile la propria auto o la fermata della metropolitana. Si erano scambiati occhiate disidratate e, in un secondo, erano riusciti a manifestarsi quella solidarietà fra sconosciuti che scaturisce solo dalle calamità naturali, come le grandi nevicate o il caldo torrido. In fondo l’afa estenuante ti toglieva qualsiasi energia ma aveva un merito. Se non altro riusciva a far sentire gli uomini parte di un tutto, un po’ come la vigilia di Natale o la vittoria dei mondiali. Salì in macchina e si augurò che la canicola non avesse messo fuori uso anche la reattività degli automobilisti.

Come aveva temuto ci mise quasi un’ora a raggiungere piazzale Loreto. Lidia, un’amica del mondo della moda, lo aspettava davanti all’entrata della festa a cui lo aveva invitato.

«Ciao, Fra. Finalmente sei arrivato. Mi stavo squagliando. Se non bevo qualcosa entro trenta secondi, muoio prosciugata!»

Il locale traboccava di gente ma l’aria condizionata rendeva sopportabile l’inevitabile stretto contatto con le altre persone. Dopo neanche venti minuti Lidia era già sparita, risucchiata dalla folla mentre tentava di raggiungere un gruppo di amici.

Francesco stava girovagando alla ricerca della toilette, quando si sentì due occhi puntati addosso.

«Cerchi il bagno degli uomini?» Biondino, piuttosto bello e con qualche accennata lentiggine sul naso che rendeva più dolce il viso leggermente imperfetto. Lo fissava cercando nello sguardo di Francesco la conferma alla sua supposizione circa i suoi gusti.

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«Sì, ma non sono mai stato qui e non riesco ad orientarmi.» rispose contraccambiando lo sguardo. L’intenzione era di non manifestare un immediato interesse ma di dissipare nello stesso tempo qualsiasi dubbio dell’altro sulle sue inclinazioni.

Il ragazzo gli indicò la strada e quando uscì dalla toilette era fuori che lo aspettava. Sorseggiava un cocktail: alla luce soffusa del locale non lo identificò con certezza ma molto probabilmente doveva trattarsi di un Negroni.

«Ciao, sono Carlo.»

«Piacere, Francesco.»

«Allora è la prima volta che vieni qui?»

«Sì, mi ha portato un’amica. Però adesso l’ho persa di vista da circa mezz’ora.»

Carlo gli fece segno di seguirlo al banco per ordinare qualcosa da bere anche perché la musica fortissima impediva un dialogo al di là di qualche convenevole. Francesco prese una birra per cercare, almeno per il momento, di rimanere il più sobrio possibile. Chiacchierarono del più e del meno per circa un quarto d’ora. Da quello che riuscì ad afferrare nei rari istanti in cui la musica si faceva meno assordante, Carlo aveva ventinove anni e lavorava all’ufficio accessori di una casa di moda di Milano non molto nota. Ad un certo punto, senza troppi formalismi, aiutato forse da qualche Negroni di troppo, propose di continuare a parlare nel silenzio di casa sua.

Francesco si guardò in giro alla ricerca di Lidia, un po’ per non precipitarsi a dire di sì, un po’ perché in ogni caso doveva pur sempre avvisarla.

Non aveva nessuna intenzione di rifiutare anche se non era ancora riuscito ad abituarsi a quella facile disinvoltura con cui gli uomini dopo pochi minuti di conoscenza gli facevano chiaramente capire le loro intenzioni. Ma ancor più lo lasciava ogni volta perplesso la sicurezza con cui gli si rivolgevano: sembrava che non dubitassero nemmeno per un istante del suo immediato consenso.

Sapeva che era un’usanza molto diffusa nel suo mondo, lo aveva sentito spesso anche dai racconti degli altri che, senza alcun pudore, vantavano conquiste istantanee nei bagni pubblici in cui i due - o a volte anche i tre - di turno si erano guardati e calati le mutande in meno di cinque minuti. Niente a che fare con i racconti dei suoi amici e colleghi eterosessuali che descrivevano strategie sofisticatissime, a volte persino standardizzate, per conquistare la tipa di turno e cercare di farla acconsentire alle loro audaci proposte. Proposte che, comunque, di norma non avvenivano mai prima del terzo appuntamento. E in genere erano precedute da costosissime cene romantiche e cinema soporiferi ma molto utili per iniziare a sondare il terreno ed abbattere la percentuale di probabilità di un rifiuto.

Come sempre, anche questa volta disse di sì.

Dopo tutto perlomeno Carlo gli aveva proposto casa sua. Era sempre meglio della macchina e decisamente meglio della toilette pubblica.

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Lidia ballava circondata da un nugolo di persone che lui non aveva mai visto. Le diede un veloce bacio sulla guancia.

«Ciao, Lidia. Io vado.» cercò di urlarle per farsi sentire. «Ti lascio le chiavi della macchina. Vengo a riprendermela domani a casa tua.»

L’amica lo fissò perplessa.

«E tu come fai?»

«Vado via adesso. Mi riaccompagna un amico.» rispose tentando di sembrare disinvolto.

 

Carlo abitava sul Corso Lodi, all’interno di un complesso di torri. Agli occhi di un turista inesperto sarebbe potuto sembrare il plastico di uno scorcio di New York.

Durante il viaggio avevano parlato pochissimo.

«Vivi da solo da molto tempo?» aveva buttato lì Francesco. Era giusto per rompere il ghiaccio e cercare di non limitare così spudoratamente l’interesse del loro incontro alla sola scopata che presumibilmente sarebbe seguita di lì a breve.

«Da quando mia madre stava servendo il gelato con le pere per festeggiare il ritorno dalle vacanze studio di mio fratello.»

«Cosa?»

«Non sto scherzando. Ho guardato lei che arrivava con il vassoio, poi mi sono girato verso mio padre e ho detto semplicemente “volevo farvi sapere che mi piacciono gli uomini”».

«Cazzo… che fegato! E loro?»

«Mio padre è asmatico. Ovviamente lo aveva sempre sospettato ma sentirselo sparare così a bruciapelo… Sai com’è?... Beh, ha avuto una piccola crisi respiratoria. La crisi si è risolta subito. Io mi sono sentito una merda ma perlomeno per trenta minuti buoni nessuno si è occupato della mia dichiarazione.»

«E poi? Come hanno realizzato ti hanno buttato fuori di casa?»

«No… sì… beh insomma me ne sono andato io perché la convivenza era diventata impossibile. E tu? I tuoi lo sanno?»

«Diciamo di sì»

«Cioè, lo sanno o no?»

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«Lo sanno ma non se ne parla. Come di qualcuno che è morto suicida. Tutti lo sanno ma al massimo si dice “quando ha fatto quel gesto”.»

«Vivi con loro?»

«Sì, più che altro non avrei alternative. Mi sono laureato un anno fa e ho appena finito uno stage. Adesso mi hanno fatto uno di quei fantastici contratti a progetto ma con quello che mi danno faccio fatica a pagarmi le birre!»

Erano arrivati. Carlo gli fece strada sull’ascensore stretto omologato per quattro. Probabilmente chi omologava gli ascensori negli anni settanta prendeva come punto di riferimento la figlioletta di dieci anni.

La casa era un piccolo monolocale senza pretese. L’ordine solo apparente faceva presupporre armadi in cui erano stati infilati a caso oggetti e indumenti prima di uscire. Un tentativo mal riuscito di rendere presentabile l’ambiente nell’auspicata eventualità che fosse servito.

Carlo gli offrì da bere un’altra birra e si accese una sigaretta.

«Vuoi?»

«No, grazie.» Francesco si era sempre vantato di aver saputo resistere al vizio del fumo anche se, in situazioni come quelle, forse una sigaretta fumata insieme avrebbe reso tutto più facile.

Tanto per temporeggiare andò alla finestra a guardare il traffico del Corso Lodi, sostenuto nonostante l’ora tarda. Le macchine che passavano erano tantissime, il rumore amplificato dai sobbalzi sul pavet.

Carlo gli si accostò da dietro, si appoggiò alla sua spalla e iniziò a baciargli il collo. Ebbe un piccolo brivido, non sapeva dire se di piacere o di titubanza. Si convinse della prima ipotesi e girò il viso cercando la bocca di lui.

Lo fecero lì sul pavimento, senza spogliarsi del tutto. Francesco semi inginocchiato sulla ceramica fredda e Carlo aggrappato alle gambe dell’unico tavolo della stanza.

 

«Vuoi dormire qui?» gli chiese mentre si rialzavano cercando di sistemarsi i pochi vestiti che avevano ancora addosso.

«Ma non saprei… dovrei avvisare i miei genitori ma è molto tardi…»

«Beh, fai come vuoi. Lo dicevo perché magari si poteva rifarlo un po’ meno di fretta.»

Francesco prese il cellulare appoggiato sul divano letto e mandò un sms alla madre che di sicuro lo avrebbe letto al mattino “ho fatto tardi, mi fermo a dormire fuori.” Sapeva che non sarebbe

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stato così semplice. Sicuramente la sera, dopo il lavoro, i suoi non gli avrebbero rivolto la parola in una muta ostilità che presupponeva comportamenti non condivisi di cui non volevano sapere nulla. Disapprovavano ma non volevano parlarne. Come se il solo discuterne potesse dare una parvenza di normalità alle scelte del figlio.

La mattina, con gli occhi gonfi e i vestiti della sera prima, prese la metropolitana gialla alla stazione di Lodi T.V.B.B. Si era sempre chiesto cosa significasse e a cosa servisse quella sigla. Tanto più che quella era l’unica fermata del metrò che si chiamasse “Lodi”.

Ripensò alla notte appena passata. La seconda scopata era stata decisamente meglio. Un po’ più di complicità, qualche sguardo in più e persino qualche gesto di affetto che l’istinto primordiale della prima volta aveva reso impossibile. Carlo non era male. Era stato fino alle tre appoggiato alla sua spalla, chiacchierando di cose futili ma con quella confidenza che solo il sesso ti autorizza ad avere. Al mattino si erano salutati velocemente, colpa anche del tempo tiranno che li richiamava al loro dovere quotidiano, e si erano scambiati al volo i numeri di cellulare.

Francesco si sentiva bene. Da qualche mese non usciva con nessuno e iniziava ad accusare il colpo. Questo incontro ci voleva proprio.

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3.

 

 

 

 

 

 

Sentì squillare il telefono di casa e non se ne curò. Di solito lo chiamavano tutti sul cellulare. A casa telefonavano gli amici dei genitori o al massimo qualche squattrinato compagno di liceo della sorella che ancora cercava di sfruttare la linea telefonica di mamma e papà.

Contro ogni previsione sentì la voce della madre che gridava:

«Checco, è per te. Mi sembra di aver capito Elisabetta.»

Si alzò per prenderle il cordless dalle mani e vide nello sguardo di lei riaccendersi la solita speranza disillusa e straziante: le illuminava il viso ogni volta che una voce di donna chiedeva di interagire con lui. Probabilmente sua madre non sapeva nulla di Elisabetta, come di tutte le altre amiche del figlio, perché lui non raccontava granchè o al massimo si limitava a nominarle raggruppandole in un generico “un’amica o una collega”.

«Sì??»

«Ciao, Fra. Sono la Eli. Scusa se ti chiamo a casa ma non ho più soldi sul cell.»

«Ciao. Non c’è problema. Tutto a posto?»

«Sì, diciamo di sì… Luca è il solito cazzone. Prima mi dice “ci vediamo stasera”, poi mi richiama e biascica qualcosa tipo “mi sono dimenticato che devo mangiare a casa perché è il compleanno di mio padre”. La prossima volta giuro che lo mollo. Così vediamo se sono più importante io o i sessant’anni del papà. Tutti così… se ne fregano, poi quando li pianti se ne stanno lì con la faccia da Fido sconsolato come se non capissero il perché!»

«Mi spiace… Lo sai che fa così ma ti vuole bene.» cercò di tranquillizzarla senza troppa convinzione. Quel Luca non gli era mai squadrato molto. Troppo pieno di sé. Troppe partite di calcetto ed inderogabili impegni familiari.

«Mi vuole bene un cazzo, Fra.»

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Francesco pensò a Carlo. Fino alla fine non sapeva mai se fosse libero o meno. Comunque quella sera era fuori discussione che lo avrebbe chiamato all’ultimo momento per uscire: gli aveva già detto che erano sotto sfilata e avrebbe lavorato fino a notte fonda. Meglio non farsi troppe domande.

«Non ho niente da fare. Vuoi bere qualcosa, Eli?»

«Veramente stasera io e Luca saremmo dovuti uscire a cena con mio fratello e Gloria e non mi va di dargli buca. Ti va di venire con noi, almeno non mi sento la terza incomoda?»

Sentì una vampata di calore infuocargli il viso e ringraziò in silenzio di non avere il video telefono. Trattenne il respiro per un secondo e raccolse le poche idee rimaste.

«Uhm… se gli hai già detto di sì… ti accompagno io.» biascicò.

«Grazie Fra… sei un tesoro. L’ho sempre detto che i tuoi gusti sono un vero e proprio spreco della natura. Ci vediamo da me verso le otto. Ok?»

«Preciso.»

 

Non vedeva Matteo da quella sera di aprile. Erano passati sei mesi. Aveva ripensato a lui diverse volte. In momenti insospettabili si ritrovava davanti la sua immagine. Lui che sorrideva alla fidanzata, lui che lo salutava stringendogli la mano… stringendola un po’ troppo o per un po’ troppo. Spesso, quando Carlo lo lasciava solo per diverse sere, si era consolato nella solitudine della sua stanza e aveva pensato a Matteo. Ad un Matteo irreale, molto diverso da quello che aveva incontrato. Di solito era completamente nudo, o perlomeno nudo al punto giusto, e gli riservava attenzioni che, sapeva, sarebbero rimasti solo audaci sogni ad occhi aperti. Si sentiva persino un po’ in colpa per quelle fantasie. Non in colpa verso Carlo… ma verso Matteo. Quasi che, solo l’immaginarlo in una situazione che non avrebbe per niente gradito, fosse una specie di violenza subliminale.

Fissò a lungo il suo discreto guardaroba e, alla fine, come al solito, optò per un paio di jeans e camicia. Se ne era comprate alcune piuttosto aderenti da quando aveva ripreso la palestra ed era riuscito di nuovo a tirare fuori gli addominali.

Elisabetta scese da sola. Matteo li avrebbe raggiunti direttamente perché era passato a prendere Gloria.

Cenarono in un ristorante pizzeria in Città Studi. Piuttosto carino, tutto in stile marinaresco. Doveva dare l’impressione di essere su una nave e, per farti meglio immedesimare nell’atmosfera, le cameriere erano vestite tutte da marinarette con minigonne blu e cappellini bianchi.

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Matteo e Gloria arrivarono qualche minuto dopo di loro. Si salutarono velocemente come se si vedessero con una cadenza settimanale. Matteo gli sorrise e buttò lì un «Ciao, tutto a posto?» che presupponeva una veloce risposta affermativa.

Gloria sedette vicino al fidanzato, mentre Elisabetta le si accomodò di fronte così che lui, senza volerlo, si ritrovò seduto davanti a Matteo. Se possibile era ancora più bello dell’ultima volta. La barba di un paio di giorni evidenziava ancora di più gli occhi chiari e i denti bianchissimi. Era vestito sportivo con un paio di pantaloni di tela verdi multitasche e una t-shirt bianca leggermente aderente. Francesco si impose di guardarlo il meno possibile e fu molto grato ad Elisabetta quando iniziò a raccontare dell’ultimo imperdonabile affronto di Luca. Fissava l’amica captando solo qualche parola. Pensava a quanti affronti come quello e molto più gravi lui avesse ricevuto da Carlo e da tutti gli uomini che lo avevano preceduto. Qualche giorno prima l’amante lo aveva invitato a cena. Francesco si era preparato, aveva afferrato una bottiglia di Nero D’Avola e si era presentato a casa sua all’ora concordata. Carlo gli aveva aperto tutto allegro, già un po’ ubriaco, e aveva biascicato che purtroppo inaspettatamente lo era venuto a trovare un amico che non vedeva da un po’ di tempo. Ma se si fosse voluto fermare con loro non ci sarebbe stato problema. Francesco aveva pensato alle possibili conseguenze di quella forzata serata a tre e all’ultima volta che aveva accettato da Carlo una proposta del genere: si era ritrovato in ginocchio a cercare di far felici con la bocca gli altri due che nel frattempo, seduti sul divanetto, si baciavano languidamente. Alla fine aveva detto di no. In fondo era un po' stanco. Aveva messo in mano a Carlo la bottiglia di vino ed era sceso mestamente per le scale, temendo che nel minuscolo ascensore si sarebbe sentito soffocare ancora di più.

Matteo guardava Elisabetta che continuava a inveire contro l’assente Luca. Aveva un’espressione sinceramente dispiaciuta non si capiva se per Luca o per sua sorella.

«Piccolina, non preoccuparti…» le sussurrò sorridendole e approfittando di una delle rarissime quanto inaspettate pause di lei «un giorno lo troverai… quello giusto intendo… quello che… amerai lo stesso anche se ti darà buca all’ultimo momento.»

Francesco sentì un brivido attraversargli la schiena e Gloria fece quello che gli sembrò un sorriso superficiale, quasi di circostanza. Elisabetta smise di parlare e fissò il fratello con aria imbambolata, probabilmente per il tono dolcissimo che lui aveva usato.

«Dovrei trovare un uomo come te, Teo. Ma ho paura che il tuo stampo sia un’esclusiva di mamma e papà!»

Chissà se l’amica, sempre molto concentrata sulle sue esigenze inderogabili, aveva compreso fino in fondo le parole del fratello! Di sicuro, se pur inconsciamente, aveva dato la risposta più giusta che Francesco riuscisse a immaginare.

Fu una serata molto piacevole. I due fratelli scimmiottarono in modo divertente alcuni personaggi della loro famiglia che Gloria conosceva e che a lui sembrò di conoscere. Poi fu la volta di capi e colleghi dell’agenzia pubblicitaria.

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«Dai, Fra, fammi la madama quando ci fa lo shampoo perché la dead line del brief dei cioccolatini ha tempi inaccettabili!!!» lo esortò la collega pregustando la scena a cui aveva assistito già centinaia di volte.

Francesco, un po’ imbarazzato, imitò la madama, ovvero il direttore creativo dell’agenzia: inveiva senza inibizioni contro loro due, vittime sacrificali del momento e colpevoli solo di aver accettato una richiesta del cliente che pretendeva giustamente di uscire con la campagna tv dei cioccolatini almeno venti giorni prima di Natale! Matteo rise di gusto mentre Gloria sorrideva emettendo ogni tanto a caso qualche gridolino di partecipazione.

I due fidanzati erano gentili fra loro. Soprattutto Matteo era molto premuroso verso Gloria, le versava da bere, le faceva assaggiare il suo dolce, cercava di coinvolgerla sempre nelle sue conversazioni. Ma c’era qualcosa che stonava. Francesco non vedeva nessuna scintilla negli occhi di lui, nessun rapimento, nessuna traccia di quella complicità a volte dolce a volte pungente che ci deve essere tra due amanti. O forse era lui che non voleva vederla.

Si salutarono appena fuori dal ristorante: come la prima volta baciò Gloria e strinse la mano al fidanzato. Matteo gli si avvicinò dandogli una piccola pacca sulla spalla.

«Mi raccomando, prenditi cura della mia sorellina.» disse solo ma Francesco fu sicuro di aver visto un lampo di sorriso involontario nel suo sguardo. E gli sembrò che quel sorriso andasse al di là delle parole di un fratello affettuoso. Gli sembrò che fosse… che fosse solo per lui.

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4.

 

 

 

 

 

 

Uscì dall’ufficio molto tardi. Elisabetta aveva chiesto mezza giornata di permesso per una visita medica. Il giorno dopo avrebbero avuto un’estenuante riunione con uno dei clienti più prestigiosi dell’agenzia e lui aveva passato tutto il pomeriggio a cercare di convincere i creativi ad apportare alcune modifiche alle proposte da presentare. A volte gli sembrava che account e art director viaggiassero su binari paralleli. E non era nemmeno sicuro che i treni andassero nella stessa direzione. Era come se i colleghi artisti - o presunti tali - mossi da un’innata ed a volte irrazionale attrazione verso il bello, perdessero di vista l’obiettivo del loro lavoro. Un obiettivo molto distante dall’aulica ricerca della bellezza e dall’esplorazione di emozioni sottese alle corde più nascoste dell’animo umano. Un obiettivo più terreno, concreto, molto più legato all’opportunistico e squallido mondo del denaro che a quello sublime e viscerale dell’arte: lanciare un messaggio semplice, essenziale, subliminale sì, ma diretto agli strati più superficiali dell’irrazionalità umana, un messaggio che spingesse il destinatario a comprare il prodotto e, soprattutto, a scegliere quel prodotto rispetto a milioni di altri pressoché identici.

Per tutto il pomeriggio aveva rimpianto la presenza di Elisabetta. Perlomeno lo avrebbe supportato in quella lotta impari. Gli avevano rivolto insulti di ogni genere a tal punto che si era a sua volta quasi convinto dell’assenza totale di sensibilità artistica nel suo animo sterile e asettico.

Alla fine era riuscito ad ottenere una decine di proposte che, se non altro, forse, il giorno dopo gli avrebbero risparmiato altre ingiurie di diversa natura ma non meno pesanti da parte del cliente.

Restava solo, si fa per dire, da sottoporre il tutto al direttore generale. Erano già le sette e mezzo di sera: si fece il segno della croce anche se non era mai stato un cattolico convinto e bussò alla porta del suo ufficio. Sentì una voce annoiata che diceva «prego.» e si fece coraggio. Era, ovviamente, l’ufficio più bello e spazioso dell’agenzia, completamente arredato con mobili in legno dalle linee morbide e calde. Niente a che fare con la sua banale scrivania bianca talmente vicina a quella identica di Elisabetta che, senza sporgersi, poteva sentire il profumo dello shampoo di lei. Magari un giorno anche lui avrebbe avuto un ufficio così grande e luminoso.

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Il direttore generale, a differenza della sua postazione e del ruolo che ricopriva, era un uomo insignificante, incapace di gestire e coordinare un team di persone già di per sé molto scardinate. Aveva idee a volte interessanti ma era dotato di una personalità talmente debole da non riuscire né a imporle né addirittura a proporle. In realtà era completamente succube del direttore creativo il cui parere e le cui illuminazioni diventavano automaticamente ora colato non appena uscivano dalla sua bocca. Fece accomodare Francesco, diede un’occhiata alle proposte ed una all’orologio con molto più interesse per quest’ultimo, si grattò la testa con un gesto tipico che lo faceva assomigliare moltissimo ad un scimpanzè e gli chiese se la “madama” avesse già approvato i progetti. Era la domanda che Francesco stava pregando di sentirsi fare. Pronunciò un sì liberatorio e con immenso sollievo ascoltò la voce del capo che cercava di dare una sembianza di competenza alla sua opinione.

«Per me sono delle buone campagne. Mi raccomando domani non fatevi mettere i piedi in testa e cercate di tornare a casa con una delle proposte praticamente approvata. Non ci sono i tempi tecnici per rifare tutto da capo.»

Francesco ringraziò, promise di fare del suo meglio e cercò di defilarsi in fretta, prima che qualcosa facesse cambiare idea o, peggio, facesse venire un’inaspettata illuminazione al suo interlocutore.

Per fortuna la mattina aveva optato per la metropolitana, dato che non avrebbe avuto riunioni e non gli sarebbe servita la macchina. Raggiungere la fermata di Montenapoleone a piedi lo ritemprava delle fatiche della giornata. A volte, quando aveva proprio bisogno di scaricare una tensione ancora maggiore, camminava fino a casa. Passava per via Manzoni, attraversava piazza della Scala, la Galleria, Piazza del Duomo, Piazza Diaz e sbucava in Corso di Porta Romana fino a quando, perso nei pensieri che man mano si allontanavano sempre di più dalle fatiche del lavoro, si ritrovava davanti al portone della sua palazzina di Via Crema.

Amava Milano. Forse perché ci era nato, forse perché riusciva ad apprezzare il suo fascino più nascosto che l’occhio di un turista giornaliero non avrebbe potuto cogliere. Di sicuro la sua città era ben lontana dalla bellezza indiscussa, omogenea e compatta di Roma, Firenze, Bologna, Perugia e una serie infinita di province italiane dal fascino molto più schietto. Eppure a lui Milano piaceva moltissimo. Gli piaceva perdersi per le vie del centro, dei Navigli, della zona di San Lorenzo. Certo non avrebbe avuto problemi a spostarsi in un’altra regione d’Italia, a patto però di continuare a vivere in una città. Aveva bisogno di spazi definiti e non della natura sconfinata, voleva vedere intorno i palazzi imponenti, il bello creato dall’uomo, la storia della grandezza degli antenati. La natura incontaminata, le strade deserte senza traffico, ma anche senza negozi e presenze umane per chilometri, lo disorientavano, erano incapaci di contenere le sue angosce e le sue paure. Aveva bisogno di camminare in mezzo ad altre centinaia di persone che tornavano a casa come lui, che avevano avuto giornate pesanti come la sua. Non importa se non le conosceva, se non sapeva niente di loro. Le sentiva vicine lo stesso. Lo facevano sentire parte del mondo e non un’isola in mezzo al mare.

Appena varcò la soglia del suo appartamento sentì subito qualcosa di strano nell’aria.

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Tanto per iniziare erano le otto e venti e la televisione non era accesa sul solito, obbligatorio, imperdibile telegiornale.

I suoi genitori e sua sorella, riuniti intorno al tavolo della cucina non ancora apparecchiato, smisero di parlare non appena lo sentirono entrare.

Si affacciò alla porta della stanza con un punto interrogativo dipinto in faccia e il sollievo, se non altro, di vederli tutti e tre vivi e anche piuttosto interi.

«Francesco, puoi sederti con noi? C’è una cosa che devi sapere.» disse suo padre. La voce controllata tradiva un nervosismo e una tensione che difficilmente gli aveva sentito.

Sua madre, seduta sul bordo della sedia, fumava con una smania che faceva pensare potesse ingoiare la sigaretta da un momento all’altro.

Sua sorella Elena, con le mani incrociate e lo sguardo basso, arrotolava un fazzolettino di carta in tanti pallini che disseminava sul pavimento. Lo faceva solo quando era molto preoccupata, cosa che si verificava di rado e soltanto per motivi quantomeno abbastanza seri.

Frequentava l’ultimo anno del Liceo Classico Berchet ma dimostrava molti meno anni della sua età. Come lui aveva un visino angelico e non era molto alta. Capelli neri leggermente ondulati le incorniciavano il viso regolare facendo risaltare gli occhi grigio-verdi. Le lentiggine, sparse un po’ ovunque, camuffavano il colore quasi trasparente dell’incarnato. Era decisamente carina anche se ultimamente si truccava un po’ troppo. Forse era mossa dal desiderio di dimostrare qualche anno in più e di non rimanere ancora più indietro rispetto alle procaci compagne di classe che un occhio poco attento avrebbe potuto scambiare per venticinquenni. Si vestiva in modo abbastanza appariscente, con minigonne molto corte e magliettine che spesso e volentieri lasciavano scoperta la pancia piatta. Nonostante la disinvoltura dell’abbigliamento, il fisico da bambina praticamente senza forme le impediva di risultare volgare.

Francesco si ricordava ancora i pianti dei primi anni dell’adolescenza. Elena non riusciva ad accettare che le sue amiche prosperassero di seni sempre più desiderabili mentre lei doveva accontentarsi dei suoi mandarini che riempivano a malapena una prima taglia di reggiseno. Erano gli stessi anni in cui lui combatteva le ultime battaglie con se stesso per accettare la sua diversità, il suo disinteresse per le donne e la sua naturale e irresistibile attrazione per gli uomini. E, con tutto il bene che voleva a sua sorella, il seno piccolo gli era sembrato un problema decisamente irrilevante. Tanto più che non capiva minimante l’attrazione maniacale dei suoi amici per le ragazze formose.

Guardò meglio Elena: era stravolta.

Si sedette sul divano della cucina e attese. Dopo un tempo che gli parve interminabile sentì la voce solenne di sua madre farsi largo tra una boccata di fumo e l’altra.

«Questa cretina di tua sorella si è fatta mettere incinta e, come se non bastasse, da un imbecille con cui non esce nemmeno da due mesi.»

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Francesco restò senza parole e senza fiato. La testa gli scoppiava. Non sapeva se essere più dispiaciuto per la sua sorellina che, a soli diciotto anni, si trovava davanti ad un problema così serio o per i suoi genitori che nel giro di pochi anni si erano trovati davanti ad un figlio gay e ad una figlia liceale incinta di un semi sconosciuto.

Guardò i genitori. Poi guardò la sorella.

«E cosa pensate di fare?» chiese cercando di fingere un’apparente calma serafica.

Elena non abbozzò nemmeno il tentativo di una risposta, quasi che la decisione non le spettasse minimamente. Lo fece il padre per lei.

«Cosa vuoi che si faccia, Checco? C’è poco da scervellarsi. Tua sorella ha diciotto anni. Quest’anno ha la maturità. L’imbecille di turno ne ha diciannove e l’unica proposta che è stato capace di farle è stata quella di accompagnarla in ospedale per sistemare tutto prima che noi poveri genitori deficienti ci accorgessimo di qualcosa. Vedi delle alternative? Forse l’imbecille, al di là della dinamica, ha detto l’unica cosa plausibile per uscire da questo casino con le ossa il meno rotte possibile.»

Sua madre fumava sempre più nervosamente mentre Elena fissava il fazzolettino di carta con le lacrime che le scendevano tra le lentiggini. Avrebbe voluto alzarsi e abbracciarla forte. Dirle che una soluzione si sarebbe trovata. Che non era la fine del mondo. Ma temeva di irritare ancora di più gli animi dei genitori. Guardò la sorella con tutta la dolcezza di cui fu capace sperando che lei, nonostante la disperazione, riuscisse a coglierla.

«Quanto tempo hai per decidere?» le chiese.

«Non lo so. Non ho fatto i conti. Credo ancora un paio di mesi ma mi hanno detto che è meglio farlo subito.»

L’argomento sembrava esaurito e, se non altro, sviscerarlo ulteriormente quella sera non sarebbe servito a niente.

Elena si chiuse in camera sua mentre sua madre disse che non aveva fame e andò in sala ad iniziare un nuovo pacchetto di sigarette.

Suo padre mise in tavola ogni sorta di cibo già pronto contenuto in frigorifero e cominciò a mangiare con il solito finto distacco che, in realtà, camuffava un’ingordigia quasi malata. Francesco non ricordava un evento, per quanto catastrofico o improvviso, che gli avesse tolto l’appetito. Nemmeno la morte dei suoi genitori, i nonni di Francesco. Figuriamoci se poteva riuscirci l’inaspettata gravidanza della figlia! Rimase a fare compagnia al padre piluccando qualcosa più per ingannare il tempo che per fame. Non appena finito si spostò in camera sua con l’intento di radunare le idee ascoltano un cd di Vasco. Mandò un messaggio a Carlo dicendo che per quella sera non sarebbe potuto passare da lui. Non sapeva nemmeno se lo pseudo-fidanzato glielo avrebbe chiesto ma non aveva voglia di dover inventare delle eventuali scuse al telefono.

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Era immerso nelle parole di “Sally” che ogni volta riuscivano a fargli provare “un brivido che vola via, un equilibrio sopra la follia”, quando vide sulla porta la figurina scalza di sua sorella con addosso solo il pigiama.

Gli sembrò più tenera e indifesa che mai.

«Vieni, stavo ascoltando Vasco…”Sally”…»

«Uhm… non male dato il momento. Mi sento un po’ come lei nella prima parte. Anche se forse sarebbe stata più indicata alla circostanza “Laura aspetta un figlio”.»

Francesco sorrise. Aveva ragione Elena. Tanto valeva sdrammatizzare. In qualche modo si sarebbe fatto. Non era né il primo né l’ultimo figlio indesiderato ad essere concepito.

Si alzò, le si avvicinò e la strinse forte a sé.

«Non ti preoccupare… Una soluzione la troviamo….» le disse nel modo più rassicurante possibile cercando nel contempo di convincere anche se stesso di quelle parole. Poi continuò:

«Elena, scusa se sono indiscreto ma, posso chiederti, perché non avete usato nessuna precauzione?»

«Fabio mi ha detto che ci pensava lui, che era abituato, che si controllava benissimo e che non aveva mai sbagliato».

«Mai fino a questa volta…» Ma proprio con sua sorella doveva sbagliare questo sbarbato arrogante di diciannove anni? Francesco sentì l’impulso di chiedere ad Elena l’indirizzo dell’imbecille e di andare a spaccargli la faccia. Poi pensò che, a dispetto dell’apparente disinteresse e sfacciataggine, anche lui doveva essersi sentito perduto e abbandonò i propositi di vendetta.

Sollevò il viso della sorella e le sorrise.

«Elena… solo una cosa…» le sussurrò. «decidi tu… E’ la prima cosa veramente tua della tua vita. Io sarò qui qualunque scelta tu faccia. Anche la più difficile. E, nonostante le apparenze, ci saranno anche mamma e papà. Perché… ti vogliono bene. Ti vogliamo bene.»

Elena lo fissò sconsolata.

«Grazie, Checco. Ci rifletterò ma non vedo molte possibilità di scelta.»

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5.

 

 

 

 

 

 

Era in camera, sdraiato sul letto e stava decidendo se continuare ad ascoltare De Gregori in uno stato a metà fra l’inerzia e la forma vegetativa o darsi una botta di vita e navigare su internet a caccia di libri interessanti da comprare. Fu provvidenziale la musichetta del cellulare che, se da un lato lo obbligò ad uscire almeno parzialmente dal suo torpore, dall’altro gli risparmiò una scelta che si stava rivelando più ardua del previsto.

Sul display lampeggiò il nome di Carlo. Cercò di rispondere nel modo più naturale possibile.

«Ciao… come va? Ti è arrivato il mio messaggio di ieri?»

«Ciao. Sì, l’ho ricevuto. Non ti ho risposto perché sono uscito tardissimo. Quello stronzo mi ha fatto modificare tre cinture all’ultimo momento.»

«Mi spiace…»

«No, beh, ormai ci sono abituato. E tu, tutto a posto? Mi sembri un po’ giù?»

«No, tutto ok. Quando ci vediamo ti spiego. Diciamo che ho un… problemino in famiglia.»

«Niente di grave, spero?»

«No. Insomma non è morto nessuno e nessuno ha una malattia incurabile.»

«Ti va di venire da me?»

«Va bene. Arrivo tra una ventina di minuti.»

Si fece una doccia veloce, infilò un paio di jeans e una camicia a righine blu e andò a bere un bicchiere d’acqua.

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Suo padre, come ogni sera, doveva essere chiuso in sala con la tv accesa e il telecomando a portata di mano per cambiare canale con un’intermittenza che difficilmente superava i dieci minuti. Nessuno poteva pensare di guardare un programma con lui senza farsi venire una crisi di nervi.

Sua sorella e sua madre erano sedute sul divanetto della cucina e fissavano le immagini del reality show del momento. Apparentemente sembrava non fosse successo niente. Come se quella della sera prima fosse stata una semplice, accesa discussione per aver scoperto che Elena non si era presentata a scuola senza che i genitori ne sapessero nulla. L’unico segnale erano i pallini sul pavimento appartenenti al fazzolettino di carta che sua sorella non smetteva di maltrattare. Sua madre fumava come sempre.

«Mamma, non dovresti fumare… per Elena intendo…» disse, quasi per assicurarsi che la sua sorellina fosse davvero incinta e, soprattutto, che lo fosse ancora.

Lo guardarono con un’espressione interrogativa negli occhi, come se dubitassero della sua totale lucidità mentale. Solo allora si rese conto dell’assurdità dolorosa della sua frase. A cosa serviva che sua madre non fumasse vicino ad Elena se tanto comunque lei avrebbe abortito? E, per la prima volta, realizzò il significato inesorabile di quelle parole.

Abbassò lo sguardo.

«Io esco.» balbettò.

«Torni tardi?» gli chiese la madre più per abitudine che per vero interesse.

«Non so.»

Guidò piano lungo il breve tragitto che separa Via Crema da Corso Lodi. Si augurò che Carlo avesse deciso di stare in casa. Non aveva voglia di andare in uno dei soliti locali per gay dove irrimediabilmente avrebbero conosciuto qualcuno e lui sarebbe stato costretto a prestarsi ai giochetti che tanto piacevano all’amante.

Pensò a Carlo. Non si era mai chiesto cosa sentisse per lui veramente. Si frequentavano da alcuni mesi ma di sicuro non provava un sentimento che andasse al di là dell’affetto. Forse, se Carlo si fosse comportato differentemente, se avesse dimostrato di volergli bene, se avesse dato almeno una parvenza di esclusività al loro rapporto… E invece nemmeno lui era stato diverso da quelli prima. Niente unicità, niente tenerezze gratuite, niente attenzioni che facessero sobbalzare il cuore. E lui, così, non riusciva ad innamorarsi. Ma forse semplicemente Carlo non era la persona giusta perchè se davvero ami qualcuno, lo ami anche se non ti da’ niente, anche se ti umilia, anche se ti costringe ad assecondarlo in giochi che eviteresti volentieri.

Si era innamorato di un solo uomo nella sua vita, quando aveva diciannove anni. Una sua compagna di corso gli aveva presentato un amico di sei anni più grande di loro. Con lui aveva fatto l’amore per la prima volta, con lui aveva sentito per la prima volta la musica di due cuori che sembrano battere insieme. Ma sempre con lui, per la prima volta, aveva anche toccato il

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fondo. All’inizio Giacomo era stato molto dolce, lo riempiva di attenzioni, lo trattava come un fratello maggiore che cerca di farti conoscere le bellezze segrete della vita. Poi, giorno dopo giorno, aveva iniziato a mostrargli tutti i lati più oscuri di quel mondo. Gli incontri squallidi, la ricerca sfrenata di ogni forma di perversione, quasi che una diversa inclinazione giustificasse qualsiasi altro istinto animalesco. Giacomo era stato uno dei suoi pochi amanti che voleva che i loro ruoli si alternassero. E non amava solo lo scambio dei ruoli! In quello stesso periodo anche i suoi amici erano alle prese con le prime, o al massimo con le seconde, esperienze sessuali. Gli raccontavano di romantiche gite a coppie nella casa in montagna di qualche ragazzo del gruppo. Delle coccole sbandierate con orgoglio davanti al caminetto in attesa di ritirarsi in camera, ognuno con la sua fidanzatina, e concedersi finalmente quello che per tutta la sera si era tanto sospirato. Ad un certo punto Giacomo aveva smesso di chiamarlo ed aveva iniziato a rispondere in modo sempre più vago alle sue telefonate. Francesco aveva capito, aveva anche pianto nel silenzio della sua stanza e non lo aveva più cercato.

Arrivò sotto casa di Carlo. Salì e lo trovò in accappatoio, con qualche goccia di acqua ancora sulla pelle e un’espressione che gli tolse qualsiasi dubbio sull’imminente pericolo di un’uscita.

Gli disse di sua sorella e l’amante lo ascoltò con l’atteggiamento di educata circostanza di chi si rende conto della gravità della situazione ma, nello stesso tempo, non vede l’ora di accantonare l’argomento. Fecero l’amore e non riuscì a non pensare ad Elena. Al piccolo viso indifeso e lentigginoso. Chissà cosa le aveva fatto l’imbecille? Chissà se era stato dolce con lei? Chissà se anche la sua sorellina si era sentita fare proposte che non avrebbe mai voluto ascoltare? Provò di nuovo l’impulso di andare da quel… come aveva detto che si chiamava? Fabio?... da quel Fabio e spaccargli la faccia. Poco importava se molto più probabilmente si sarebbe ritrovato lui con il setto nasale spappolato e qualche costola rotta. Avrebbe vendicato la sua sorellina…. e anche un po’ se stesso.

Tornò a casa presto. Aveva bisogno di stare da solo.

Tolse il cellulare dalla tasca e si accorse che la busta dei messaggi lampeggiava. Era Elisabetta. L’sms diceva solamente: “Ciao Fra. Domani sera, se puoi, tieniti libero. Mio fratello deve fare un articolo sulla pubblicità. Mi ha chiesto aiuto. Ho bisogno di te. Grazie. Eli.” Francesco si sentì il cuore in gola. Capì che avrebbe rivisto Matteo.

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6.

 

 

 

 

 

 

Era arrivato presto in ufficio. Stava tentando di rileggere un brief. Non era chiaro nemmeno per lui che lo aveva scritto, figuriamoci cosa avrebbero capito i creativi che non erano presenti alla riunione del cliente. La voce squillante di Elisabetta lo risvegliò da un incubo: la madama lo appendeva al muro e iniziava a giocare a freccette direttamente con la sua faccia, senza nemmeno far finta di voler usare la sua foto.

«Ciao, Fra. Come va?»

«Bene… a parte che non capisco più nemmeno io quello che scrivo.»

«Dai, se mi offri un caffè dopo ti do una mano. Sai com’è? Due incapaci… sempre meglio di uno da solo…. allora, cosa mi dici per stasera? Riesci a tenere a bada i tuoi tanti amanti?»

«Guarda che qui quello che cambia fidanzato ogni due mesi non sono certo io!»

«Su, scherzavo… Beh, sei libero o no?»

«Sì, sai che non ti direi mai di no.» disse con la maggior disinvoltura possibile.

«Va bene, allora ci vediamo dopo cena. Non so, verso le nove? Così finalmente ti presento i miei. Sono due personaggi un po’ all’antica ma non mordono.»

«Cercherò di essere preparato a tutto.»

«Fra, sicuro che vada tutto bene? Mi sembri strano?» Ad Elisabetta non si poteva nascondere niente. Parlava solo e lei e sembrava vivesse interamente concentrata su se stessa ma non le sfuggiva una virgola. Se nel discorso lasciavi cadere lì, per caso, un particolare, se lo ricordava anche dopo mesi. A volte si ricordava cose di te che persino tu ti eri dimenticato. Se poi per assurdo la curva del tuo umore subiva anche solo un’impercettibile variazione, lei se ne accorgeva ancora prima che tu realizzassi il cambiamento.

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Decise di non mentire, tanto sarebbe stata una battaglia persa perché, oltre che acuta, era anche insistente come il canto del gallo la mattina in campagna.

«C’è un problema in casa mia… Non sta male nessuno… Fisicamente, intendo… Ma…?»

«Crisi fra i tuoi?»

«No, magari, ormai ci sono abituato. Non ci farei nemmeno più caso. Come il monsone in India. Sanno che arriva, che distrugge tutto ma sanno che, per quanto devastante, sicuramente passerà.»

I suoi genitori entravano ciclicamente in crisi. Ed altrettanto ciclicamente le superavano. Ogni volta dichiaravano inesorabilmente che si sarebbero lasciati e che avevano già parlato con un avvocato, salvo poi, dopo qualche settimana, annunciare con la stessa naturalezza che partivano per un viaggetto per stare un po’ da soli. E, se qualcuno aveva la malaugurata idea di chiedere cosa ne fosse della causa di divorzio, lo guardavano come se fosse pazzo. Divorziare loro? Ma no, era stata una semplice litigata! A chi non capita mai in un matrimonio? Da piccolo Francesco ci credeva e ci soffriva ogni volta. Fino a quando si era abituato ai continui ed insensati capovolgimenti di fronte ed aveva iniziato ad aspettarseli da un momento all’altro, come la stagione calda dopo quella fredda e viceversa: ci può mettere un po’ di più, ma prima poi arriva.

«Beh, allora, cosa è successo?» chiese Elisabetta con un’espressione preoccupata.

«Mia sorella è incinta.»

«O cazzo…»

«E’ il commento più appropriato che abbia sentito fino ad oggi.»

«Lui chi è?»

«Mah, un imbecille di diciannove anni che le ha detto non usiamo niente tanto io non sbaglio mai. E invece, a quanto pare… o ha gli spermatozoi con il costume da superman o tanto infallibile non è. Come se poi nessuno le avesse spiegato che, anche se non rimani incinta, ti puoi prendere di tutto e di più.»

«E adesso cosa pensa di fare?»

«Beh, lui non penso che ne voglia sapere qualcosa e per i miei l’unica decisione possibile è quella drastica. Mia sorella non sa più nemmeno come si chiama. Sembra quei cagnolini che fino a un secondo prima i padroni fanno giocare e che un secondo dopo abbandonano sull’autostrada.»

«Povera… E tu? Cosa credi che sia meglio?»

«Non so. E’ mia sorella. Non riesco ad essere obiettivo. Cerco di non influenzarla, almeno io, ma lo sai come la penso? Lo so che sembra assurdo date le mie scelte di vita ma… l’aborto mi fa una

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paura tremenda. Forse perché so che io non avrò mai un figlio. Forse perché questo qui sarebbe mio nipote. Mah, vedremo… speriamo solo che Elena prenda la decisione giusta per lei.»

«Cerca di starle vicino almeno tu ma non farti investire troppo. Dai, frana, fammi vedere questo brief incomprensibile.»

 

Quando tornò a casa, nonostante fosse quasi ora di cena, i suoi genitori non c’erano e sua sorella era in camera sua. Fissava una versione di latino come se fosse scritta in sanscrito.

«Ciao Ele… come stai? La mamma e il papà?»

«Hanno chiamato dicendo che fanno tardi. E’ nato il bambino del figlio dei Casiraghi e sono andati a trovarlo in ospedale.»

Francesco pensò a quanto la vita a volte potesse essere beffarda. I suoi genitori erano là e facevano necessariamente i complimenti ad un batuffolo di un giorno, amato, vezzeggiato, desiderato con tutto il cuore. E, a casa, la loro bambina cresciuta ne aspettava un altro che, per ora, aveva portato solo lacrime e non di gioia.

«Beh, io ingurgito qualcosa al volo perché devo uscire. Vuoi che faccia un toast anche per te?»

«No, grazie Checco. Non ho fame.»

«Ele, non è che adesso puoi non mangiare più. Ormai quello che è successo, è successo. Deciderai cosa fare. Nel frattempo metti qualcosa in pancia sennò la tua sarà una scelta obbligata.»

«E’ già una scelta obbligata. E poi non mi va niente. Ho una nausea pazzesca.»

«L’hai più sentito quel Fabio?»

«Mi ha telefonato ieri. Si è incazzato perché l’ho detto a mamma e papà. Ha detto che, se chiamano i suoi e lo mettono nei casini, guai a me.»

Francesco scosse la testa sconfortato.

«Ma con tutta la gente che c’è in giro proprio da uno stronzo-bastardo dovevi farti mettere incinta?»

«Non era così…»

«Sarà… Hai bisogno con la versione?»

«Non ho tradotto nemmeno la prima riga.»

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Si sedette vicino a lei, fece appello a tutte le sue conoscenze sopite di latino e cercò di aiutarla a tradurre quel quarto di pagina con un significato il più somigliante possibile a quello che effettivamente Livio aveva voluto dire più di duemila anni prima. Per fortuna era Livio e non Tacito.

Quando finì erano già le nove meno venti. Era in ritardassimo. Meglio, almeno non avrebbe avuto modo di passare un’ora a decidere cosa mettere. Per esempio, qualcosa che sembrasse preso a caso dall’armadio ma che, guarda a caso, era il paio di pantaloni che gli stava meglio in assoluto.

Tutto per cosa e per chi? Per uno a cui gli uomini, comunque fossero vestiti, facevano lo stesso effetto di un quadro di Mirò a chi odia l’arte astratta!

Si fece una doccia veloce, diede un bacio sulla testa alla sorella e si precipitò a casa Neri. Gli aprì la porta un maggiordomo. Lo fece accomodare e disse che la signorina Elisabetta lo stava aspettando in salotto. Quando entrò nella stanza enorme che ricordava benissimo, la sua amica stava parlando con i genitori. Matteo non c’era.

La collega si alzò per baciarlo sulla guancia.

«Ciao, Fra. Mamma, papà, lui è Francesco. Se non ci fosse lui al lavoro probabilmente avrei già lasciato quel posto di pazzi.»

Francesco si presentò ad entrambi e sentì che, per quanto si sforzassero di sembrare il più naturali possibile, lo studiavano, quasi per scoprire un segnale di quella diversità di cui la figlia li aveva di sicuro messi al corrente. Era abituato a questa reazione di chi lo incontrava per la prima volta avendo sentito parlare di lui.

Rebecca Neri era una donna piuttosto alta. Il fisico asciutto, nonostante l’età, lasciava presupporre che da giovane avesse avuto un corpo perfetto. Il viso era regolare e, soprattutto l’espressione della bocca, gli ricordava Elisabetta. Era vestita in modo sobrio ma impeccabile con una massa di capelli curatissima. Erano di una tonalità che Francesco, in base alla cartella colori dell’agenzia, avrebbe definito castoro ma probabilmente, trattandosi di capelli, un parrucchiere avrebbe usato una delle cento sfumature del castano che solo le donne conoscono. Castoro però gli sembrava di non averla mai sentita.

Il marito Enrico era un uomo alto poco più di sua moglie, magrissimo, con pochi capelli e un paio di occhialini che, su quel viso, non sarebbero proprio potuti mancare.

I figli assomigliavano decisamente alla madre.

Rebecca si mostrò molto gentile e, come era ovvio, fece solo domande generiche.

«Allora, Francesco, come fai a sopportare la Betty per quasi dieci ore ogni giorno?»

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«Se si riferisce al fiume di parole sempre in piena…. beh mi sono abituato. Comunque sul lavoro siamo molto in sintonia.»

«Abiti qui vicino?»

«Sì, abbastanza. In una via dietro a Porta Romana.»

«E vivi ancora con i tuoi genitori?»

«Sì, ancora per molto, credo, dato il misero stipendio che ci danno.»

E finalmente entrò Matteo. Francesco si alzò dal divano e gli andò incontro per dargli la mano come al solito. Era talmente bello che si sentì cedere le ginocchia. Un po’ abbronzato, con i capelli leggermente più corti e una polo azzurra dello stesso colore degli occhi… ebbe paura di non farcela.

«Ciao, Francesco. Grazie per aver raccolto il mio S.O.S.. Non so proprio da che parte incominciare e la Betty mi ha detto che, fra i due, lo scrittore sei tu.»

«Figurati. Speriamo di riuscire a darti una mano perché, sai, tua sorella mi idealizza un po’. O forse le fa piuttosto comodo idealizzarmi!» scherzò per camuffare l’imbarazzo.

Elisabetta gli lanciò un’occhiataccia e a bassa voce gli fece arrivare uno “scemo” che tutto sommato si era meritato.

Salirono tutti e tre in camera di Matteo. Era almeno il doppio della sua, arredata con stile moderno. I mobili di legno chiaro la facevano sembrare ancora più grande. Anche il letto era ad una piazza e mezzo, molto più comodo e spazioso dei soliti letti delle camere dei ragazzi. Francesco non riuscì ad impedirsi di pensare a Matteo mentre si rotolava sul materasso con Gloria e con qualche ragazza che l’aveva preceduta. E il pensiero gli fece male. I particolari erano piuttosto essenziali. Qualche coppa vinta ad un torneo di tennis per giovani promesse. Qualche foto di lui da piccolo. Una di lui che teneva in braccio una bimba che con ogni probabilità doveva essere Elisabetta. Un paio di lui e Gloria al mare. Più che altro c’erano libri ovunque. Sulle mensole, sul comodino, sulla scrivania. Perfino qualcuno per terra.

L’argomento dell’articolo consisteva in un’analisi critica di una statistica da poco effettuata da una prestigiosa società. Era risultato che il messaggio subliminale delle pubblicità andava a colpire maggiormente i ceti medio-alti e più acculturati rispetto a quelli meno abbienti e meno istruiti. E questo contro ogni previsione di mercato. In realtà c’erano anche dei dubbi sull’attendibilità di questo risultato ma la redazione aveva chiesto a Matteo di parlarne lo stesso mettendo in luce le possibili spiegazioni del fenomeno.

Francesco non aveva la più pallida idea di cosa scrivere. Si sedette alla scrivania davanti al computer, cercò di isolarsi da tutto quello che lo circondava - il che, considerato che Matteo era seduto sul letto e due metri da lui, non era per niente facile - e si lasciò trasportare dalla penna. Anche al liceo faceva così. Quando la professoressa dettava il titolo del tema, le sue funzioni

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cerebrali sembravano azzerate. Nessuna illuminazione, nessun pensiero al di là di considerazioni banali e scontatissime. Poi si rintanava in un mondo tutto suo, abitato solo da lui, dal foglio, dalla matita e dalla gomma e le idee venivano da sole. Gli sembrava impossibile che sgorgassero dalle pieghe nascoste della sua mente. Non ricordava di aver pensato nulla del genere prima. Eppure la sua mano scriveva, scriveva senza riuscire a fermarsi e il pensiero successivo si accavallava a quello che stava ancora elaborando.

Sperò che anche questa volta andasse nello stesso modo. Sperò di riuscire ad aiutare Matteo. Sperò di fare bella figura con lui.

Dopo mezz’ora aveva scritto un pezzo pieno di teorie, diversificazione dei target in base al prodotto, distribuzione degli spazi a seconda dei veicoli media e analisi psicologiche della mente umana. Sembravano talmente veritiere che lui stesso aveva finito per crederci. Lui che aveva sempre pensato che il bersaglio più facile da colpire con il messaggio pubblicitario fossero gli animi semplici e poco istruiti.

Lanciò la stampa, passò il foglio a Matteo e aspettò il verdetto mentre Elisabetta, impaziente, cercava di sbirciare da sopra la spalla del fratello.

«Cazzo, Francesco. Ma sei un genio. Per caso era l’argomento della tua tesi?» chiese Matteo sbigottito.

Mentre Elisabetta leggeva e annuiva soddisfatta, Francesco cercò di minimizzare la sua impresa.

«No, no. Nessuna tesi. Ma è il nostro lavoro. Anche se in realtà ho sempre creduto il contrario di quello che ho cercato di dimostrare questa sera.»

«Sì, peccato che è anche il mio di lavoro ma non sapevo da che parte iniziare.» polemizzò con sarcasmo Elisabetta che nel frattempo aveva ultimato la lettura.

«Ovviamente il mio stile non è per niente giornalistico per cui, Matteo, dovrai modificarlo molto, credo.»

«No, magari dopo cerco di cambiarlo qua e là, non per altro, ma perché intravedano qualcosa del mio “modus scrivendi”, per dirla con le parole del mio capo: “Ogni buon giornalista ha una rintracciabilità nel modus scrivendi dei suoi articoli.”»

«Va beh, Teo. Tanto il più è fatto. Andiamo in tinello a berci una birra?» propose Elisabetta. «Fra, sei di fretta o ti fermi ancora un po'?»

«Una birra volentieri. Il messaggio subliminale non mi ha prosciugato solo le idee!»

Scesero in tinello e chiacchierarono a lungo del più e del meno. Francesco, nel modo più disinvolto possibile, domandò a Matteo di Gloria. Lui rispose velocemente, quasi volesse glissare l’argomento. Lei stava bene. Lavoravano tutti e due moltissimo e non riuscivano a vedersi spesso.

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Matteo gli chiese di lui, se uscisse con qualcuno e se per “loro” fosse molto più difficile conoscersi. Il suo tono tradiva un certo imbarazzo ma le sue domande erano trasparenti, i suoi occhi non esprimevano nessun giudizio, nessuna distanza, nessuna soddisfazione per la propria normalità. Era il modo più dolce e disinteressato in cui qualcuno gli avesse fatto delle domande sulla sua vita privata diversa. Francesco lo avrebbe ascoltato per ore, lo avrebbe guardato per ore, avrebbe respirato per ore l’odore della sua pelle che si mischiava ad un profumo da uomo molto discreto.

All’una si alzò per andare. I fratelli lo accompagnarono alla porta. Elisabetta lo baciò sulla guancia e Matteo come al solito gli diede la mano. Solo che non gli porse la destra in gesto formale ma gli si avvicinò e, con la sua destra, afferrò la sinistra di lui.

«Grazie, Fra.» disse quasi sottovoce. «Non so come avrei fatto senza di te.» E gli sorrise.

Era la prima volta che lo chiamava con il suo diminutivo. E il sorriso era lo stesso dell’ultima volta. Solo per lui. Francesco sentì un ronzio nelle orecchie. Salutò velocemente e uscì a prendere una boccata d’aria.

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7.

 

 

 

 

 

 

Nei giorni seguenti i suoi pensieri si alternavano tra l’angoscia per la forzata gravidanza di Elena e la dolcezza inebriante dello sguardo trasparente di Matteo, delle sue parole delicate, della sua mano che stringeva le sue dita. E più ripensava sognante a quei particolari, più si sentiva in colpa. In colpa verso Elisabetta che lo aveva coinvolto con totale buona fede, in colpa verso Matteo che probabilmente era lontano anni luce dall’idea di suscitare queste emozioni in un uomo e in colpa verso sua sorella che soffriva mentre lui aveva il cattivo gusto di fantasticare su un amore impossibile.

Un giorno, durante la pausa, l’amica gli chiese se potevano prendere un panino al volo e fare due passi nel parco Sempione. Aveva bisogno di parlare un po’ con lui.

«Scusa, Fra, se mi sfogo con te. Hai già tante preoccupazioni! E’ che sei… sì, sei il mio più caro amico.»

Francesco sapeva che non lo diceva per opportunismo. Si erano legati molto, soprattutto negli ultimi mesi. Avevano imparato a conoscersi, a capirsi al di là delle parole e delle apparenze. Lui aveva carpito le debolezze della personalità vulcanica di Elisabetta, le tenere fragilità del suo animo nonostante il tentativo di ostentare sicurezza, la sincerità dei suoi affetti e la sua schietta disponibilità. E aveva capito di volerle bene, molto bene. Un bene più profondo e più vero di quello che provava per le tante amiche che facevano parte della sua vita.

«Allora, cosa succede? Dimmi tutto perché io non sono bravo come te ad intuire cosa ti fa soffrire. C’entra Luca?»

«Sì… beh, insomma, ci siamo lasciati. Questa volta è definitivo.»

Era stato uno dei suoi amori più lunghi. Tra una lasciata e l’altra si erano frequentati per più di sei mesi. Certo non era mai stato uno di quei rapporti idilliaci da romanzo rosa ma a volte gli era sembrato che avessero trovato un loro equilibrio.

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Francesco, con il tempo e soprattutto con la quotidiana esperienza di guerra e pace dei suoi genitori, aveva finito con il convincersi che non ci fosse un modo universale di stare insieme e nemmeno un modo universale di stare bene insieme. Ognuno se la viveva con le dinamiche più disparate: c’era chi non discuteva mai e poi un giorno scopriva di non amarsi più e chi litigava tutti i giorni e poi scopriva di amarsi ancora.

Lui, forse aiutato dai suoi venticinque anni, non aveva smesso di sognare di amare e di essere amato incondizionatamente, di non essere capace di litigare e di scoprire lo stesso ogni giorno di amare di più.

«Eli, mi spiace… ma era un po’ che non funzionava più, no?» disse per cercare di guadagnare tempo ed escogitare qualcosa di più convincente e meno banale per risollevare l’umore dell’amica.

«Sì, lo so ma mi ero abituata al fatto che ci fosse. Non importa se entravamo in crisi, intanto lui c’era. Ti sembrerà una cazzata ma… se guardavo l’oroscopo avevo qualcuno per cui leggere le previsioni degli astri.»

Francesco la guardò perplesso. Aveva avuto molteplici prove dell’indiscussa intelligenza di Elisabetta ma, a volte, lei faceva di tutto per fargli cadere qualsiasi certezza in merito.

«Eli, cosa dici? Non hai più quindici anni!»

«Tu, non capisci quello che voglio dire… E’ molto meno superficiale di quello che sembra.» Scoppiò a piangere e Francesco la prese tra le braccia. Singhiozzò per cinque minuti buoni sulla sua spalla mentre lui le accarezzava i capelli e cercava di capire cosa ci fosse di profondo nel consultare l’oroscopo di qualcuno.

«E’ che da sola mi sento… mi sento come se tutti mi guardassero perché mi manca qualcosa. Come se fosse una forma di handicap…»

Nonostante l’assurdità di queste parole Francesco capì. Era come se, senza un fidanzato, si sentisse diversa, quasi discriminata. Poco importava se ne avesse avuti a decine e non avrebbe avuto nessun problema a trovare il successivo. Durante quei periodi in cui rimaneva da sola era come se la società non le si adattasse più ma dovesse trovare lei un modo per adattarsi. E lei non si adattava. A ventiquattro anni una ragazza per essere felice doveva avere una famiglia il più normale possibile, un lavoro il meno ingrato possibile, degli amici e soprattutto un fidanzato. Sempre. Se una di queste pedine veniva a mancare non riusciva più a gustarsi nemmeno le altre. Anche se in cuor suo sapeva che si trattava di un’assenza solo temporanea, magari di qualche mese, magari di qualche giorno.

«Eli, ti sembrerà strano ma ho capito cosa vuoi dire. Non puoi viverla così… E’ assurdo…»

«Lo so che è assurdo. Ci ho provato in tutti i modi a cambiare. Mi spaccherei la testa contro il muro. Ma è più forte di me. Faccio milioni di buoni propositi ma poi, ogni volta quando succede, mi sento persa. Anche se decido io. Anche se non ero innamorata.»

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«Hai mai provato a parlarne con qualcuno di più competente di me?»

«Intendi dire se sono andata da uno psicologo? Sì, ci sono andata durante il liceo. Ma non è servito a niente. E’ un conto se io non avessi capito perché mi succede. Lo psicologo mi porterebbe a realizzarlo. Ma io lo so già qual è il mio problema. Lo so già che sono fatta male ma non riesco ad esercitare nessun potere su me stessa per cambiare.»

«E’ qui che sbagli, Eli. Non sei fatta male. E’ la tua visione della realtà perfetta che è sbagliata. Non ci sono dei canoni prestabiliti. Ognuno deve crearsi le sue certezze e i suoi punti fermi a secondo della contingenza, del momento che sta vivendo, del suo stato d’animo e, soprattutto, delle esperienze e delle persone che capitano sul suo percorso. L’importante è che i desideri non siano standardizzati, allineati con i criteri che decretano una persona “felice”. Devono essere istintivi, sempre in movimento, quasi irrazionali. Non importa se non si rientra negli schemi, quello che importa è riuscire a sentire le emozioni, giuste o sbagliate che siano, lecite o illecite. E vale anche per l’amore. Io penso che l’amore ideale non sia quello che vive per te ma quello per cui tu riesci a vivere.»

«E’ la stessa teoria di mio fratello nonostante io nutra dei seri dubbi sul fatto che lui viva per Gloria!»

«Magari anche lui non ha ancora trovato l’ideale.» disse e avvertì un brivido di soddisfazione immotivata per la considerazione dell’amica.

«Non so. Ad ogni modo io non credo che sarei mai capace di vivere per qualcuno che non vivesse per me.»

Francesco non rispose ma pensò che lui sì, lui ne sarebbe stato capace.

Era in camera sua e rileggeva “Narciso e Boccadoro” di Hesse. Quel libro era come una droga. Lo aveva scoperto per la prima volta l’ultimo anno di liceo perché la sua insegnante lo aveva inserito fra le letture obbligatorie in vista dell’esame di maturità. Lo aveva iniziato senza nessuna aspettativa, non tanto perché la trama non lo convincesse, quanto perché aveva appena terminato “Siddharta” di cui tutti si dicevano entusiasti ma che a lui non aveva suscitato le emozioni sperate. Ma la poesia di “Narciso e Boccadoro” non aveva nulla a che fare con la spiritualità astratta di “Siddharta”. Lo avevo adorato dalla prima pagina, aveva amato i protagonisti, se li era visti davanti così reali da credere che interagissero con lui e aveva centellinato i capitoli per restare il più possibile in loro compagnia. E quando aveva letto l’ultima pagina, aveva sentito un vuoto, come se avesse abbandonato una parte della sua vita. Lo provava quando i libri lo coinvolgevano oltre misura: mentre li leggeva era come se la vita del libro si affiancasse alla sua e lui le vivesse tutte e due insieme, parallelamente. E, quando il romanzo finiva, gli rimaneva il vuoto di una delle due vite.

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Sentì i passetti di sua sorella che si avvicinavano alla porta. Appoggiò il libro, si girò e la vide lì sulla soglia, a piedi nudi, con il pigiama un po’ grande e gli occhi lucidi di chi ha appena smesso di piangere ma potrebbe ricominciare da un momento all’altro.

«Ele, cosa c’è? Vieni qui.»

Elena si sedette accanto a lui sul letto e, come Francesco aveva previsto, iniziarono a scenderle le lacrime.

«Abbiamo preso appuntamento per giovedì mattina.»

«Allora, hai deciso?»

«La mamma dice che è l’unica soluzione.»

«Sì, lo so cosa pensa la mamma, ma tu, tu cosa pensi?»

«Non lo so. Mi sento così disperata.»

«Hai paura?»

«Tanta.»

«E’ una scelta definitiva, Ele. Lo so che è più facile far decidere gli altri per te ma… non puoi lasciarti trascinare come se non ti riguardasse.»

«Tu cosa avresti fatto?»

Francesco scosse la testa.

«So che ti sembrerà strano ma non riesco a mettermi nei tuoi panni. Al massimo posso immaginarmi al posto di quel Fabio e l’unica cosa che riesco a pensare è che, anche a diciannove anni, non mi sarei comportato così da stronzo, imbecille come lui!»

«E avresti fatto un figlio con una persona per cui provavi solo un po’ di attrazione fisica?»

«Non lo so cosa avrei fatto. Non so nemmeno cosa sia giusto. Forse è giusto quello che uno si sente di fare quando ci si ritrova dentro. L’importante è che sia quello che ti senti di fare tu e non quello che ti dicono di fare la mamma, il papà e Fabio l’imbecille.»

Elena gli buttò le braccia al collo singhiozzando ancora più forte.

«Checco, ti prego, non mi abbandonare.»

«Non ti abbandono, Ele. Te l’ho detto, sono con te qualunque cosa tu voglia fare.»

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«Ho paura… non del male… Ho paura di continuare a pensarci per sempre.»

«Vuoi aspettare qualche giorno? Vuoi che ne parli io con mamma e papà?»

«Ma se decido di tenerlo… come faccio da sola, senza un lavoro, con la scuola da finire?»

«E’ difficile ma non saresti da sola.»

«Io non so cosa sia meglio, ma so che mi spaventa di più l’idea di… di quel gesto che la prospettiva di farlo nascere, anche se sono da sola.»

«Vuoi pensarci ancora un po’?»

«Sono dieci giorni che ci penso. E’ l’unico pensiero di ogni momento. Ho sempre saputo cosa volevo davvero ma mi sembrava più grande di me.»

Francesco le accarezzò i capelli e le baciò la fronte. Lei lo abbracciò ancora più forte, si aggrappò alla sua maglietta cercando di calmare i singulti.

«Come faccio a dirlo alla mamma?»

«Domani mattina chiedo un permesso al lavoro così resto a casa mentre tu sei a scuola e provo a cercare di farle capire cosa provi. Anche se penso che lei lo sappia già ma le faccia troppo male.»

 

Convincere i suoi genitori che Elena non se la sentiva di abortire e preferiva tenersi un figlio a soli diciotto anni, senza uno straccio di fidanzato, senza un lavoro, con l’esame di maturità che, facendo due conti, sarebbe stato un mese dopo il parto, fu un’impresa forse più ardua di quando aveva deciso di ammettere la sua omosessualità.

Sua madre non voleva sentire ragioni: Elena era troppo piccola, non sarebbe stata in grado di affrontare da sola una responsabilità così grande, una scelta così le avrebbe condizionato la vita per sempre e altre mille validissime motivazioni per cui la gravidanza non si poteva assolutamente portare a termine.

Francesco disse che capiva la loro paura, il loro desiderio di proteggere la figlia, di non volerla vedere crescere per forza troppo in fretta. Ma aveva parlato con la sorella e aveva cercato di farle tirare fuori quello che davvero le suggerivano il suo istinto e il suo cuore.

Per fortuna ad un certo punto lo aveva aiutato suo padre.

«Angela, cosa vuoi fare? E’ lei che deve decidere, non tu. Tu, invece di parlarle sempre di cazzate, la scuola, i voti, la linea, avresti dovuto spiegarle come non farlo succedere… Adesso, non puoi più fare niente, solo metterti dentro mani e piedi e cercare di darle una mano.»

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La moglie lo fissò con un’espressione sbalordita e truce al tempo stesso.

«Guarda che lo sapeva benissimo come funzionavano le cose. Non penserai davvero che non le abbia mai detto di usare il preservativo e non solo per non rimanere incinta? Ma se un giorno li ho comprati e li ho messi nell’armadietto del bagno dicendo a tutti di usarli che quando finivano ne avrei presi degli altri?»

«Va beh, vuol dire che non ti sarai spiegata così bene o che tua figlia non capisce un cazzo!»

«Non è solo figlia mia… e quell’altro che deve nascere non è solo mio nipote. Quindi preparati perché non è solo la mia vita che cambia!»

In fondo sarebbe potuta andare peggio. Che finisse con un rimpallo di responsabilità tra i suoi “pacatissimi” genitori era sicuramente la più indolore tra le mille conclusioni che Francesco si fosse prospettato.

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8.

 

 

 

 

 

 

Elisabetta iniziò a invitarlo sempre più spesso a casa loro la sera. Qualche volta gli chiedeva di andare direttamente dopo l’ufficio, a cena. Si limitava ad avvisare sua madre che a sua volta si limitava ad avvisare Maria, la domestica, che sarebbero stati in cinque invece di quattro.

Niente a che fare con le abitudini di casa sua. Invitare qualcuno a cena o a pranzo era sempre stato un problema insormontabile, anche se con giorni di anticipo. Sua madre di primo acchito andava in iperventilazione e iniziava a sbraitare sbandierando una serie infinita di difficoltà insuperabili. Non sapeva cosa cucinare, quel tale giorno non aveva assolutamente tempo, la tal persona era talmente complicata che, con tutto l’impegno del mondo, non avrebbe potuto escogitare qualcosa che andasse bene sia all’ospite, sia al padre. A nulla valevano i tentativi dei figli e del marito di convincerla a non farsi problemi, a limitarsi al classico e sempre apprezzato piatto di pasta. Lei si indispettiva, si rovinava la giornata, diceva che non ne voleva sapere, chiedeva di trovare un’altra soluzione fino a quando il padre non dava fuori di matto e gridava più forte di lei.

«Basta, Angela…» decideva. «Non voglio più sentire una parola. Ci penso io. Faccio gli spaghetti al pesto che piacciono a tutti. Tanto la gente è felice lo stesso anche senza tutte le stronzate che cucini tu!»

Di solito Angela, dopo aver biascicato tra i denti un «va bene, Mario, ma guarda di non chiedermi niente», non rivolgeva più la parola a nessuno per i due giorni successivi. Poi metabolizzava e, quando arrivava il momento del famoso invito, cucinava per una giornata intera. Con il risultato che di solito, quando l’ospite andava via, si scatenava la seconda parte della litigata tra i genitori: il padre si faceva venire un attacco isterico al pensiero di tutto il cibo che era avanzato e della sola possibilità che non si facesse in tempo a godere qualcosa. Inutile dire che i due fratelli cercavano in ogni modo di limitare gli inviti a pranzo o cena a quelli strettamente indispensabili.

Inviti a parte, dai Neri si respirava un’atmosfera molto diversa da quella di casa sua.

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Francesco era disorientato. Era abituato al fermento della sua cucina e si sentiva a disagio nel loro tinello pacato dove persino i movimenti erano cauti e raffinati. I suoi genitori prendevano qualsiasi spunto per battibeccare, da una notizia del telegiornale ad un comportamento dei figli, dalla pasta scotta alla bolletta del telefono. Lui ed Elena intervenivano senza alcuna soggezione dando di volta in volta ragione all’uno o all’altra. Addirittura non sempre cenavano tutti insieme. Spesso arrivavano in cucina alla spicciolata, ognuno in base ai suoi tempi, ai suoi impegni e alla sua fame. E soprattutto, una volta finito, ognuno era immediatamente libero di andare per la sua strada.

Rebecca ed Enrico, invece, parlavano ma non discutevano. I discorsi erano composti, non trascendevano mai e restavano sempre piuttosto superficiali. Né i genitori né i figli si sbilanciavano in commenti se non su fatti di cronaca molto generici che presupponevano un’opinione generale omogenea. Solo Elisabetta rompeva un po’ gli schemi ma di solito Rebecca la riprendeva prontamente.

«Betty, lo sai che non mi piace se usi questo tono in presenza di tuo padre.» Anche se a Francesco restava sempre il dubbio che forse Enrico nemmeno avesse sentito le parole della figlia.

Ad ogni modo nessuno si alzava da tavola prima che tutti avessero terminato di mangiare.

I fratelli Neri, in presenza dei genitori, erano irriconoscibili. Mai una parolaccia, mai una risposta azzardata, mai un fatto di vita personale che potesse irritare la suscettibilità di Rebecca o di Enrico. Persino Elisabetta raccontava pochissimo di sé.

Di solito dopo cena, appena possibile, loro tre si defilavano in camera di Matteo o in quella di Elisabetta. Gloria non c’era quasi mai. E, soprattutto, quando non c’era, nessuno la nominava. In genere Matteo la sentiva verso le dieci di sera. Si metteva leggermente in disparte anche se, durante i consueti cinque minuti di telefonata, parlava quasi sempre solo lei per cui, se anche non si fosse spostato, gli altri due non avrebbero notato la differenza. Le poche frasi che pronunciava Matteo erano sempre gentili ma senza mai uno scambio di tenerezza, mai un’inflessione diversa nella voce, mai un vezzeggiativo, mai una sfumatura ammiccante. Eppure sembrava che stessero bene insieme. Matteo non si lamentava, non esternava un dubbio, un momento di incertezza, un desiderio di cambiamento. Non aveva nulla a che fare con la volubile insoddisfazione della sorella.

Anche Francesco parlava pochissimo della sua vita sentimentale. Carlo era una presenza di cui gli altri due erano a conoscenza ma che difficilmente faceva parte dei loro discorsi. Francesco preferiva non aprirsi, non raccontare nulla delle sue speranze deluse, delle sue umiliazioni, delle sue inutili attese. E, quasi per un tacito accordo, nessuno gli faceva domande.

Nonostante la reciproca riservatezza, Francesco e Matteo avevano legato molto. Avevano stretto una specie di tacita e innocente coalizione ai danni della povera Elisabetta che, essendo l’unica a scoprire le sue debolezze, veniva tartassata da entrambi in un clima di innocuo sarcasmo. Da parte sua la ragazza si prestava volentieri alle loro beffe continue, forte della sicurezza che le trasmetteva l’affetto indiscusso del fratello e dell’amico.

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Molte volte, quando Carlo lavorava, Gloria era stanca e nessun uomo degno di nota invitava Elisabetta, uscivano loro tre da soli. Erano delle serate bellissime, ricche di spunti per riflettere, di considerazioni profonde, di sogni rivelati. Ma erano anche serate piene di complicità, di affinità nelle corde dell’umorismo, di battute piccanti ma non troppo, di risate inarrestabili. Una volta li avevano praticamente cacciati da un ristorante piuttosto chic sui Navigli: Elisabetta stava ridendo talmente tanto che le era uscito il caffè dal naso suscitando lo schifo e le conseguenti lamentele degli altri clienti.

Poi, con il tempo, Francesco iniziò a frequentare anche Matteo da solo, senza la tassativa ed inderogabile presenza della sorella. Era coinciso con la comparsa di un nuovo fidanzato nella vita di lei. Il poveretto si chiamava Marco così, come ogni ragazza di oggi che si rispetti, anche Elisabetta avrebbe avuto un Marco nella sua vita amorosa. Marco era il più comune, il più inflazionato, il più diffuso nome da giovane fidanzato. Era il nome del ragazzino innamorato che faceva lievitare le bollette telefoniche nelle pubblicità dei gestori, dello studente costretto ad abbondare il suo primo amore nelle canzoni dei giovani talenti di San Remo, del vicino di casa che si presentava alla porta con un mazzo di rose per la figlia adolescente di ogni sit comedy. E, sfidando qualsiasi legge dei grandi numeri, fra i numerosi amori di Elisabetta, a Francesco non sembrava di ricordare nessun Marco. Per cui, se non altro, questo nuovo arrivato avrebbe ridato credibilità alla teoria probabilistica.

Fu Matteo a proporre per la prima volta di uscire lo stesso nonostante la sorella avesse programmato una romantica gita al mare con il fidanzato. Andarono a giocare a tennis. Francesco non toccava una racchetta da almeno due anni. Ma l’idea di un pomeriggio da solo con l’amico era talmente allettante che la prospettiva di una probabile figuraccia passò decisamente in secondo piano.

Matteo lo stracciò: era davvero bravo, bravo al di là di qualsiasi previsione anche se Francesco giocò meglio di quanto non si aspettasse da se stesso. Senza considerare le notevoli difficoltà incontrate nel mantenere la concentrazione avendo davanti per due ore l’oggetto dei suoi desideri. Quanti sogni ad occhi aperti su quella maglietta sudata che ogni tanto l’amico sollevava innocentemente per asciugarsi la fronte! E quanti pensieri proibiti su quei pantaloncini corti un po’ larghi in vita che si abbassavano leggermente quando gli dava la schiena e si chinava a raccogliere le palline…

Uscirono sempre più spesso e sempre più spesso da soli. Andavano a cena nei ristoranti più strani, al cinema, a teatro, allo stadio, ai concerti, in piscina. Francesco iniziò a frequentare casa Neri anche senza Elisabetta. Imparò a sentirsi meno a disagio in presenza di Rebecca ed Enrico e a controllare le sue reazioni e i suoi impulsi davanti ad un Matteo che ai suoi occhi diventava ogni giorno più bello.

Si affiatavano sempre di più, erano in sintonia su tutto, avevano gli stessi gusti - o quasi… - gli stessi tempi, gli stessi interessi, le stesse passioni. Francesco non parlava mai di Carlo, delle sue uscite nei locali gay, dei suoi incontri occasionali più o meno desiderati e Matteo continuava a non raccontargli niente di Gloria o di qualsiasi altra ragazza con cui forse ingannava i lunghi periodi in cui non vedeva la fidanzata. Era un’amicizia fatta di intese perfette anche se nessuno

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dei due sentiva il bisogno di aprirsi sulla propria vita privata, di confidare all’altro le proprie emozioni. O forse nessuno dei due ne aveva il coraggio.

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9.

 

 

 

 

 

 

«Checco è per te… un certo Carlo.» Sua madre gli portò il cordless e richiuse la porta della sua stanza.

«Pronto?»

«Ciao. Sono Carlo. Ho chiamato a casa perché hai il telefonino spento. Come stai?»

«Bene. Tu?»

«Diciamo bene. Sono stato incasinatissimo. E’ un po’ che non ci vediamo. Perché non passi da me stasera?»

«Sono dieci giorni che non ci vediamo.» gli rispose senza nessuna inflessione della voce.

«Te l’ho detto… è un periodo allucinante… sono tutti pazzi… non so più dove girarmi e voltarmi.»

Francesco lo lasciò finire e aspettò qualche secondo.

«Ieri sono andato da “William” a bere una birra.» disse. «Ho incontrato Giorgio. Mi ha detto che martedì sera eri lì anche tu.»

«Cazzo, Fra… non fare il difficile. Ero stravolto e dopo il lavoro sono passato a bere qualcosa. Non ti ho detto niente perché ho deciso all’ultimo.»

Francesco rimase in silenzio. La sua parte saggia, quella che conservava ancora un po’ di dignità, gli diceva di rifiutare, di inventare una scusa e riattaccare. Ma in fondo Carlo un po’ gli mancava. E poi aveva sempre creduto che l’orgoglio fosse nemico della felicità.

«Allora, cosa fai?»

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«Va bene per le nove?»

«Ti aspetto.»

 

Salì le scale a piedi pur di non prendere quel trabiccolo claustrofobico e suonò alla porta.

Già da fuori sentiva un rumore assordante, come di tante voci che si mescolavano alla musica altissima. Gli aprì un ragazzo alto, trasandato, con i capelli biondi, mossi, leggermente lunghi. Fumava una canna, disse di chiamarsi Nick e precisò che Carlo era un attimo in bagno. Alle spalle di Nick intravide altri tre individui dello stesso genere. Si presentarono con nomi strani che Francesco non riuscì a trattenere.

Ebbe l’istinto di andarsene, di precipitarsi giù dalle scale senza dare nessuna spiegazione ma una forza inconscia lo tenne lì sul divanetto, che gli era ormai familiare, incapace di muoversi.

Quello che aveva detto di chiamarsi Nick gli passò la canna e lui fece qualche tiro nella speranza di trovare il coraggio per abbandonare quella casa.

Carlo uscì dal bagno.

«Ciao, Fra. Ben arrivato. Hai già conosciuto tutti?»

Francesco fece una smorfia che poteva assomigliare ad un sì e non si mosse.

L’amante gli si avvicinò e lo afferrò scherzosamente in mezzo alle gambe.

«Allora, sei pronto?» chiese ammiccante.

Francesco guardò Carlo e i quattro sconosciti ed ebbe voglia di vomitare.

 

Se ne andò alle quattro di notte con la certezza che non avrebbe mai più messo piede in quella casa.

Guidò fino alla palazzina di Via Crema cercando di non farsi sopraffare dalla nausea.

Si buttò sul letto vestito e l’unico pensiero superstite nel vuoto apatico della sua mente fu che, perlomeno, il giorno dopo era sabato e non sarebbe dovuto andare al lavoro. Poi sentì il bisogno impellente di farsi una doccia: gli facevano schifo gli abiti che aveva addosso, gli faceva schifo l’odore che emanava misto a quello dell’alcool e del fumo. Si faceva schifo da solo.

Dormì malissimo e si svegliò con un cerchio pulsante alla testa e un senso di oppressione. Sentì squillare il suo cellulare come se il suono provenisse da un’altra stanza. Invece era lì sul suo

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comodino. Lo afferrò e rispose senza accendere la luce e senza riuscire a vedere il nome sul display.

«Sì?» biascicò con un tono da cui nemmeno sua madre avrebbe potuto riconoscerlo.

«Fra? Sono Teo. Ti disturbo? Scusa… sono le undici e mezzo. Pensavo che fossi già sveglio.»

«Ciao. Sono sveglio solo che sono tornato tardissimo e mi sento completamente rincoglionito.» rispose cercando di strascicare le parole il meno possibile.

«Seratona? Niente… io in realtà volevo chiederti se ti andava un giro in bici ma… mi sa che non è la giornata giusta.»

Probabilmente non sarebbe stato in equilibrio nemmeno su un triciclo ma il bisogno di vedere Matteo, di incontrare il suo sguardo pulito e trasparente prevalse sul desiderio di preservare la sua incolumità fisica.

«No… cosa dici… vengo volentieri. Mi faccio una doccia, bevo un caffè e sono come nuovo.»

«Passo io. Va bene tra un’ora?»

«Ti aspetto.»

Matteo arrivò puntuale. Caricarono la bicicletta di Francesco sulla macchina per raggiungere una delle tante entrate del Parco delle Groane a nord di Milano. Era un posto splendido per andare in bicicletta. C’erano percorsi ciclabili di ogni lunghezza che, attraverso i boschi, collegavano i paesini della Bassa Brianza. Gli alberi fitti filtravano il sole e la temperatura rimaneva mite anche d’estate. I boschi erano molto curati pur conservando la spontaneità che rende bella la natura. C’erano uccelli di ogni tipo e, di tanto in tanto, qualche leprotto impaurito attraversava la pista per poi nascondersi subito nel cespuglio più vicino. Era difficile credere di essere così vicini a Milano.

Durante il percorso in macchina ascoltarono l’ultimo cd di Vasco praticamente senza parlare. Di sicuro, se al posto del fratello ci fosse stata Elisabetta, lo avrebbe tartassato di domande. E invece Matteo non gli chiese nulla. Alzò il volume della radio e guidò in silenzio fino al parco. Francesco si chiese cosa pensasse di lui, del suo evidente malumore, della sua faccia sconvolta.

Pedalarono per più di un’ora poi Matteo, forse per pietà, propose di prendere qualcosa da bere al chiosco e di stendersi un po’ sull’erba. Francesco lo aspettò sotto un albero per non lasciare le biciclette incustodite. Tornò con due succhi d’arancia e un sacchetto di popcorn. Si sedette di fianco a lui, gli passò la bottiglietta di vetro e lo fissò con aria preoccupata.

«Fra… se non ti va di parlare non c’è problema ma… se vuoi… insomma… so che non sono bravo come la Betty, però…»

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Gli sorrise ed ebbe l’impulso irrefrenabile di abbracciarlo. Non si mosse ma, come se Matteo avesse tolto un tappo, iniziò a raccontargli della sera prima.

Parlava a ruota libera e ascoltava sorpreso le sue parole. Sentiva incredulo la sua voce che non risparmiava i particolari, anche quelli più squallidi, quelli che, persino a distanza di ore, gli facevano venire voglia di vomitare. E lo raccontava a Matteo, all’amico a cui non aveva mai confidato niente.

Gli disse di Carlo, dei quattro sconosciuti che si era trovato davanti, di come fossero ubriachi e fumati già alle nove di sera. Di quanto avessero fatto bere e fumare anche lui. Della naturalezza con cui lo avevano fatto spogliare completamente, l’avevano fatto inginocchiare sul pavimento, gli si erano avvicinati a turno, o due alla volta, pretendendo che li accontentasse tutti, con le mani, con la bocca, con tutto se stesso. Di come lo avessero convinto a permettere loro di usare qualsiasi oggetto sul suo corpo. Del suo tentativo di rifiutare reso vano dal loro sarcasmo asciutto e dal loro scherno sulla sua incapacità di divertirsi e di provare qualcosa di diverso. Gli raccontò il senso di umiliazione, la nausea continua, la frustrazione che aveva provato. Gli disse del vuoto che si era sentito dentro, dello schifo che aveva avvertito più per se stesso che per loro.

Parlò tutto di un fiato, senza pause, quasi senza respirare continuando a fissare la bottiglietta del succo di frutta, senza il coraggio di guardare Matteo. E quando finì, sempre tenendo gli occhi bassi, iniziò a sfregarsi un ginocchio con la mano mentre le lacrime presero a scendere senza che potesse fermarle. Matteo gli diede un fazzoletto di carta. Lui lo ringraziò abbozzando un sorriso. Per la prima volta da quando aveva iniziato a parlare incontrò la trasparenza dei suoi occhi e si accorse che erano lucidi. L’amico non disse nulla, non fece un commento, non espresse giudizi. Posò solo la sua mano su quella con cui lui si stava tormentando il ginocchio, come per fermarla. Aspettò qualche minuto che si calmasse. E Francesco pensò che quel gesto lo ripagasse di tutta la mortificazione della sera prima.

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10.

 

 

 

 

 

 

Era seduto su un prato fiorito e un ragazzo bellissimo gli si avvicinava sorridendo. Il sorriso non lasciava dubbi sulle sue intenzioni. E a Francesco quelle intenzioni piacevano moltissimo. C’era un sole molto caldo. Strano perché gli sembrava di ricordare che fosse solo marzo. A guardarlo meglio il ragazzo bellissimo era Matteo. Probabilmente il prato fiorito doveva essere l’Eden. Quindi forse era morto e non se ne era accorto. Beh, se il “dopo” si presentava sotto queste spoglie, tutto sommato non era per niente male… Poi ad un certo punto la magia fu interrotta da un rumore molesto, come se qualcuno avesse deciso di tagliare l’erba del prato fiorito. Francesco si stupì che in Paradiso l’erba non crescesse spontaneamente fino al punto giusto. Di sicuro, se proprio fosse stato necessario tagliarla, l’angelo di turno avrebbe potuto scegliere un momento più opportuno. Ma, come se avesse carpito i suoi pensieri e volesse fargli un dispetto, l’angelo con la macchina infernale si avvicinava sempre di più a lui. Sempre di più, sempre di più fino a quando… non lo svegliò. Solo allora realizzò di essere vivo e vegeto, nel suo letto e da solo. E, giusto perché le delusioni non vengono mai da sole, l’angelo aveva le fattezze di sua madre. Non stava assolutamente tagliando il prato. Aveva in mano un aggeggio altrettanto infernale: l’aspirapolvere. E per di più la stava passando in camera sua alle nove della domenica mattina.

Tra tutti i modi molesti di essere svegliato questo era sicuramente il primo in classifica.

Appurato di essere ancora nel mondo dei vivi, cercò di fare in modo che Angela non se ne accorgesse. Solo così poteva sperare di ricadere fra le braccia di Morfeo non appena lei fosse passata ad aspirare un’altra stanza. In caso contrario, se cioè avesse commesso l’errore di dare anche un piccolo segno di vita, lei avrebbe spalancato le persiane e, nella peggiore delle ipotesi, anche le finestre dicendo «Checco, va che sono già le dieci.» - e di solito era almeno un’ora più presto ma probabilmente sua madre era stata progettata con l’ora legale incorporata in modo permanente - «… non vorrai passare tutta la domenica a letto?!»

Invece quella mattina, nonostante lui fosse sicuro di non aver mosso nessun arto e di non aver respirato in modo sospetto, ad un certo punto Angela spense l’aspirapolvere e si accostò al suo letto scuotendolo leggermente.

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«Checco, alzati. Io e papà vorremmo parlare un attimo con te.» gli disse con voce pacata ma seria.

Francesco si sentì male. L’ultima volta che i suoi genitori si erano rivolti a lui con quel tono era stato per informarlo che c’era in arrivo suo nipote ma che nessuno ne era contento. Subito gli vennero in mente una serie infinita di possibili disgrazie che avrebbe appreso di lì a breve. Ma altrettanto velocemente si tranquillizzò perchè, davanti ad una catastrofe, forse suo padre avrebbe mangiato ma sua madre non avrebbe passato l’aspirapolvere.

In ogni caso il tono della madre era serio ma non irritato per cui si sentì anche di escludere possibili prediche sulle sue uscite notturne o sulla sua “ormai consolidata abitudine di prendere la casa come un albergo”. Quest’ultima era la più inflazionata espressione di disappunto rivolta dai genitori ai figli: se il primo ad usarla lo avesse anche solo immaginato, di sicuro si sarebbe premunito di chiederne i diritti.

Si alzò a fatica, andò in bagno a sciacquarsi la faccia e raggiunse il padre in salotto.

«Ciao, pà. La mamma mi ha detto che devi parlarmi.»

Mario sollevò la testa da uno dei quattro quotidiani che leggeva la domenica mattina.

«Angela, potresti finire dopo di pulire sul pulito e venire qui in salotto?» gridò.

Una volta che ci furono tutti e tre, il padre iniziò.

«Checco, tu sai che tua sorella partorisce a giugno?»

«Papà, ti sembrerà strano ma questo punto mi è chiarissimo.»

«Bene, poi a luglio ha l’esame di maturità…»

Al che Angela intervenne piuttosto spazientita.

«Mario, cerca di farla breve… guarda che tuo figlio non è come te che non si ricorda dal naso alla bocca!»

Mario continuò come se nemmeno l’avesse sentita.

«… tu sai che io tra un mese vado in pensione. Sì, continuerò a lavorare ma solo come produttore assicurativo e…»

Francesco non capiva proprio dove volesse arrivare.

«… e per farlo non sono costretto a vivere a Milano…»

Francesco iniziò a intuire qualcosa.

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«…beh, io e tua madre avremmo pensato di comprare una casa al mare, in Liguria, sulla riviera di ponente e di trasferirci là con tua sorella e nipote al seguito il prima possibile. Crediamo che sia per Elena sia per il bambino possa essere una buona soluzione. Tua sorella si ricostruirebbe una vita lontano da qui, senza dover affrontare ogni giorno il confronto con le amiche di sempre e soprattutto eviteremmo qualsiasi contatto con Fabio l’imbecille. Ovviamente per comprare una casa là dobbiamo fare un mutuo e, quindi, almeno per il momento, affittare questo appartamento.»

Contrariamente alle previsioni, le disgrazie potevano essere annunciate anche se precedute dall’aspirapolvere! Francesco s’immaginò senza una casa, senza nessuno che si occupasse di lui. Ma soprattutto si vide davanti la sua busta paga e pensò che l’ultimo numerino di tre cifre in basso fosse assolutamente inadeguato al pagamento di un affitto, anche solo di una piccola stanza.

Suo padre, forse mosso a compassione dalla sua espressione da condannato a morte, aggiunse:

«Checco, lo so che questo vuol dire che tu dovrai cercarti un’altra sistemazione…» e questo gli era già abbastanza chiaro, a meno che i suoi genitori non volessero affittare la casa “all inclusive”, dove “all” in realtà era la traduzione inglese di Francesco Ghezzi, «… magari potresti condividere la casa con qualcuno, magari, già che ci sei, con qualcuno che ti riporti sulla retta via…» beh, la frecciatina sulle sue inclinazioni non poteva levargliela niente e nessuno, nemmeno la sua recente condizione di senzatetto, «… comunque all’inizio, fino a quando non si decidono a pagarti due lire di più, noi possiamo darti una mano. Tieni presente che io al momento ne devo già mantenere quattro.»

Francesco cercò di rimanere calmo.

«Bene… bella domenica. Sì, sicuramente per Elena è una buona soluzione. Quanto a me… credo che andrò a fare un giro per cercare un secondo lavoro….»

Sua madre lo guardò con tenerezza.

«Checco, capisco che non fossi preparato ma, tutto sommato, hai quasi venticinque anni… un tempo la gente alla tua età era già sposata e manteneva dei figli…»

E come frase consolatoria non era certo un capolavoro, soprattutto se rivolta ad uno che una famiglia non se la sarebbe mai fatta.

Aveva bisogno di rimanere da solo e di riflettere sul da farsi, per cui non appena gli fu possibile si defilò per tornare in camera sua. Eppure era sicuro che, sotto quella decisione e l’innegabile desiderio di rendere la vita di Elena più semplice, si nascondesse l’incapacità dei suoi genitori di accettare la realtà continuando a vivere nello stesso quartiere di sempre. Non erano mai stati dei tradizionalisti convinti ma forse ritrovarsi in casa una ragazza madre, un nipote senza padre e un figlio omosessuale era un po’ troppo anche per due persone piuttosto aperte. E in questo modo almeno si sarebbero liberati di uno dei tre: forse di quello che aveva meno bisogno, ma forse anche di quello di cui si vergognavano di più. I suoi genitori avevano appreso la sua diversità

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senza nessuna crisi di nervi o altra reazione inconsulta. Ma forse lui avrebbe preferito un’esternazione di rabbia all’espressione di rassegnata sofferenza che aveva visto loro in faccia quando si era deciso ad ammettere le sue inclinazioni. Da allora avevano evitato l’argomento e si erano rifiutati di conoscere qualsiasi particolare della vita privata del figlio. E soprattutto suo padre si era vergognato di lui anche se non lo aveva mai ammesso.

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11.

 

 

 

 

 

 

La mattina si svegliò all’alba, anche se svegliarsi non era di certo il verbo giusto per uno che si era rigirato nel letto tutta la notte senza mai dormire veramente.

Decise di andare a lavorare a piedi: magari sulla strada avrebbe trovato, esposto sulla vetrina di un bar o di un ristorante, un invitante annuncio come “cercasi giovane cameriere anche inesperto per le ore serali e per il week-end”. Tutto sommato non sarebbe stato male. Si sarebbe potuto fermare direttamente dopo l’ufficio, senza nemmeno fare una deviazione rispetto alla strada verso casa. Ma subito si ricordò del motivo per cui stava cercando un secondo lavoro che avrebbe ridotto a zero le sue ore libere: i suoi genitori si sarebbero trasferiti in un’altra regione e quindi quella non sarebbe stata più la sua strada verso casa! Il che lo riportò al problema principale da affrontare, ovvero trovare un buco con un letto dove passare le poche ore che gli sarebbero rimaste finito il primo e il secondo lavoro.

Quando arrivò in agenzia, dopo un’ora di camminata, l’aria fresca non gli aveva assolutamente schiarito le idee, né tanto meno gli aveva fatto vedere la sua nuova condizione sotto un profilo migliore.

Elisabetta era già seduta alla scrivania con in mano l’immancabile bicchierino del caffè: a volte, ad un occhio poco attento, sarebbe potuto sembrare un prolungamento del suo braccio destro.

Decise che avrebbe parlato subito con l’amica dell’imminente catastrofe della sua vita. Perlomeno si sarebbe risparmiato la fatica di subire il suo interrogatorio per mano del quale tanto sarebbe necessariamente capitolato.

«Ciao, Fra… dormito poco?» chiese la collega sollevando un occhio dal computer, giusto per chiarire subito che il suo radar funzionava ancora meglio del solito.

«Ciao, Eli… mi offri un caffè che ti racconto l’ultima novità di casa Ghezzi? Cioè, più che una novità è una vera propria tragedia per il sottoscritto…»

Si spostarono nella stanza che ospitava la “gettonatissima” macchinetta.

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«Allora… cosa succede? Non mi dire che hai messo incinta una anche tu?»

«Forse sarei meno preoccupato… o diciamo preoccupato uguale. Insomma i miei tra qualche mese vanno a vivere in Liguria.»

«Perché?»

«Perché mio padre va in pensione, mia sorella partorisce e hanno pensato che vivere al mare sia meglio per tutti. Oltretutto così sarebbero meno a rischio di ripensamenti da parte di quell’imbecille che era convinto di non sbagliare mai.»

«Si ma… tu?»

«Ecco… appunto… qui inizia la tragedia. La casa in Liguria non esiste. Bisogna comprarla. Per comprarla serve un mutuo. Per pagare il mutuo bisogna affittare l’appartamento di Milano. Per affittare l’appartamento io me ne devo andare. Una volta che me ne vado devo trovare un altro posto per dormire. Il posto per dormire devo pagarlo. E per pagarlo e per mantenermi non basta certo il mio stipendio da fame.»

«Bel casino…»

«I tuoi commenti alle mie disgrazie sono sempre molto appropriati!»

«Scusa… solo che, con quello che costa un monolocale in affitto a Milano, ti vedo proprio messo male!»

«Grazie… ma mi sa che “messo male” è un eufemismo. Comunque di un monolocale non se ne parla neanche. Al massimo posso sperare di condividere un appartamento con qualcuno o di farmi affittare una stanza. Solo che… solo che non sarà per niente facile.»

«Pensi di non starci dentro lo stesso con le spese?»

«Beh, questo è indiscusso… di sicuro mi devo trovare un secondo lavoro. Ma il punto è un altro. Di solito si dividono gli appartamenti con qualcuno del tuo stesso sesso. E mi dici quale ragazzo sano di mente eterosessuale vorrebbe vivere con me? Di certo non posso mettere un annuncio come “25enne gay cerca amico per dividere l’affitto” perché sembrerebbe tutto tranne che un’inserzione per cercare una casa.»

«No… decisamente non mi sembra una buona idea… a meno che tu non voglia “prendere due piccioni con una fava!”»

Il proverbio era talmente calzante che Francesco scoppiò a ridere dimenticando per dieci secondi la disperazione della sua nuova condizione.

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«Beh, diciamo che non sarebbe una cattiva idea ma non è nel mio stile.» disse sempre cercando di sdrammatizzare. «In linea di massima, quindi, il mio futuro coinquilino scoprirebbe i miei gusti solo al primo appuntamento. Quando mi farà vedere la stanza, intendo.»

«E perché dovrebbe scoprirlo? Hai intenzione di saltargli addosso lì, seduta stante?»

«Eli, cosa dici? Magari non sarebbe nemmeno il mio tipo. Ma, in tutti i casi, non posso nascondere un particolare così essenziale ad uno che dovrà vivere con me! Non mi sembra per niente corretto.»

«Forse hai ragione…«

«Senza forse. Glielo devo dire e basta. E, a questo punto, ci sono svariate possibilità:

Prima: il mio locatore è gay, è single, si innamora subito di me e mi affitta la camera gratis. Probabilità intorno allo zero per mille.

Seconda: il mio locatore è gay, ha un fidanzato ma sono una coppia aperta per cui si fa pagare l’affitto in altro modo.

Probabilità intorno all’uno per mille ma in ogni caso non accetterei. Non sono ancora così disperato.

Terza: il mio locatore è gay, ha un fidanzato geloso e non può affittarmi la camera.

Probabilità intorno all’uno per mille.

Quarta e ultima: il mio locatore è eterosessuale e non vuole saperne di avere uno come me per casa.

Probabilità intorno al novantotto per mille.

Risultato: è praticamente impossibile che qualcuno mi affitti una stanza.

L’alternativa potrebbe essere una donna ma, ovviamente, per accettare un uomo come coinquilino, dovrebbe sapere che sono gay. Il che ci riporta al primo punto: non posso di certo scriverlo nell’inserzione!»

«Beh, potresti sempre rispondere all’annuncio di una ragazza e, quando la chiami, chiarire subito che con te non corre alcun pericolo.»

«Sì, forse è l’unica… ma adesso ci conviene andare perché se non finiamo di controllare quei testi mi sa che mi ritrovo anche senza quel poco di stipendio che mi danno!»

 

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La sera finì di lavorare molto tardi. Quando tornò a casa, erano già tutti a tavola e commentavano le notizie del telegiornale come se niente fosse. Francesco si lavò le mani e si sedette al suo solito posto o perlomeno a quello che generalmente rimaneva libero perché dava le spalle alla televisione. Di certo la disposizione non era tassativa ed inderogabile come a casa Neri: lì non si poteva sgarrare e, se per caso qualcuno della famiglia in un momento di follia si fosse dimenticato dove doveva sedersi, c’era sempre il suo portatovagliolo con tanto di iniziali a ricordarglielo. Quanto agli ospiti, se era uno solo, il suo posto era per esclusione quello senza portatovagliolo. Ma se, come spesso succedeva, erano più di uno, Rebecca, con un tono disinvolto ma insindacabile, dava disposizioni ai commensali indicando loro dove “potevano accomodarsi”. E questo non solo in occasioni ufficiali ma anche durante cene e pranzi di tutti i giorni.

Francesco parlò pochissimo cercando più che altro di concentrarsi sulle notizie del giorno. Dopo un quarto d’ora di violenze sui disabili riprese e messe su internet, vicini di casa che ne ammazzano altri perché stanchi dei rumori molesti, neonati abbandonati nei bagni pubblici e altre cronache del genere, si convinse che tutto sommato ci fosse chi stava molto peggio di lui.

I suoi genitori non toccarono praticamente l’argomento “trasferimento in Liguria”. Sua madre accennò solo brevemente ad un agente immobiliare che sarebbe venuto nei giorni seguenti a dare un’occhiata all’appartamento. Certo un casa di tale metratura, con tre camere da letto, uno studio, una sala, una cucina e per di più con un solo bagno, non era così facile da affittare. Forse, però, poteva essere interessante per una famiglia costretta a spostarsi spesso per il lavoro del padre.

Stava mettendo in bocca l’ultimo spicchio di un mandarino quando sentì la musichetta del suo cellulare dentro l’armadio dell’ingresso: come al solito aveva dimenticato il telefonino nella tasca del giaccone.

Si alzò per andare a rispondere. Era Elisabetta.

«Ciao Eli...»

«Ciao, Fra. Disturbo? Eri ancora a tavola?»

«Sì ma avevo finito. Ero alla frutta e non solo nel senso letterale del termine.»

«Novità? E’ successo qualcos’altro?»

«No, grazie al cielo, sembra che non si siano inventati nient’altro per sconvolgere la mia vita ulteriormente.»

«Ma i tuoi tra quanto pensano di trasferirsi?»

«Dunque, se dovessero agire in base ad una logica, cosa di cui dubito fortemente, non prima della fine della scuola di mia sorella. Diciamo tra tre o quattro mesi. Ma mio padre è imprevedibile e quindi tutto può essere.»

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«Senti, Fra… ne ho parlato con Teo…» Solo a sentire il suo nome, ad immaginare la faccia dell’amico che si dispiaceva per lui, “povero figlio abbandonato, senza una casa”, il suo cuore iniziò a battere più forte.

«… bene… Teo dice che, almeno all’inizio, potresti accontentarti e venire a stare da noi.»

Il cuore di Francesco smise di battere o almeno a lui sembrò che non fosse più in grado di farlo.

In realtà le tragedie preannunciate dall’aspirapolvere spesso nascondevano dei regali dolcissimi. Accontentarsi? E vivere in un attico enorme, in pieno centro a Milano, a due passi dal suo ufficio, con la sua migliore amica e, soprattutto, con la possibilità di abitare sotto lo stesso tetto di Matteo… lei lo chiamava accontentarsi? La sua immaginazione subito produsse rappresentazioni di scampoli di vita quotidiana in cui l’amico girava per casa in accappatoio dopo la doccia, oppure faceva colazione in boxer elasticizzati e magliettina intima o, perché no, se ne stava sdraiato sul divano a vedere la televisione con i piedi che sfioravano inavvertitamente le sue gambe come succedeva a sua sorella. Poi si ricordò che le abitudini di casa Neri non prevedevano niente del genere. Matteo si sarebbe fatto la doccia nel bagno della sua camera e sarebbe uscito già perfettamente vestito per la cena, la colazione si faceva rigorosamente abbigliati per affrontare la giornata e sul divano si stava seduti composti, senza che nessuno toccasse per sbaglio nessun altro.

Ma la sola prospettiva del sorriso di Matteo, la mattina appena sveglio e la sera prima di andare a letto, gli avrebbe fatto considerare la proposta di Elisabetta come un miracolo. Anche se i Neri lo avessero fatto sistemare in cantina e gli avessero chiesto tutto il suo stipendio come affitto.

Cercò di riprendere un minimo di autocontrollo e di parlare con la minor balbuzie possibile.

«Eli… non so cosa dire? Non mi sembra il caso di dare un disturbo del genere ai tuoi. Va bene che pagherei le spese di vitto e alloggio ma loro non hanno certo bisogno dei soldi del mio affitto. Di sicuro preferiscono non rinunciare all’intimità della loro famiglia.»

«

Ma che stronzate stai dicendo, Fra? Secondo te ti propongo di venire da me per un periodo, in attesa che la tua situazione finanziaria decolli o, perlomeno, non tracolli, e penso che tu mi debba pagare le spese? Ovviamente saresti nostro ospite… ci mancherebbe. Quanto ai miei… Matteo gliene ha già parlato.»

Francesco avrebbe voluto chiedere quale fosse stata la loro reazione. Ma il pensiero dell’amico che perorava la sua casa, l’immagine di quegli occhi trasparenti che fissavano l’algida Rebecca cercando di convincerla, gli tolse qualsiasi capacità di emettere suoni articolati.

«Fra… tutto bene?» continuò Elisabetta che non avrebbe mai potuto sopportare un vuoto di qualche secondo in una conversazione. «Era solo un’idea. Non sei obbligato. Puoi pensarci su. Mi rendo conto che per te vivere in una casa formale e austera come la mia non sia il massimo…

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ma si tratterebbe solo di qualche cena e qualche pranzo. Per il resto potremmo starcene noi tre come quando vieni a trovarci.»

Francesco riacquistò il dono della parola.

«Eli, ma va… non è per quello… non ho nessun problema ad adattarmi alle usanze dei tuoi. Magari all’inizio potrei fare degli errori, sbagliare le posate come Julia Roberts in Pretty Woman, non riuscire a controllare perfettamente il lessico, ma comunque dopo un po’ ci farei l’abitudine. Piuttosto loro cosa hanno detto?»

«Conosci i miei genitori. Mio padre non so nemmeno se si è reso conto che Matteo stesse parlando. E mia madre, lo sai... non si scompone mai. Ha chiesto in modo molto distaccato perché ti saresti ritrovato in mezzo a una strada dato che le risultava avessi una famiglia. Teo le ha spiegato a grandi linea la situazione e lei non ha più mosso obiezioni. E’ perfettamente nel loro stile. Non avrebbero mai detto di no. Non sarebbe stato per niente chic.»

Poi, forse intuendo che le sue parole erano state tutt’altro che persuasive, aggiunse:

«Davvero, sono sicura che non avrebbero nessun problema. Il più delle volte il week-end non ci sono, mia madre non muove un dito perché fanno tutto Maria e Daniel, la casa è grande da perdercisi…»

Lo aveva convinto. Non che fosse stato difficile.

«Eli… non me lo aspettavo…» disse. «sei un tesoro… è ovvio che per me sarebbe una soluzione miracolosa. Se sei sicura che per i tuoi va bene… io accetterei. Beh, di sicuro voglio pagare qualcosa per sentirmi più a posto.»

«Va beh, poi vediamo. Allora siamo d’accordo? Se ti va, domani sera puoi venire a cena qui così ti facciamo vedere la stanza. Te lo dico subito non è grande come le nostre. Anzi, diciamo che è piuttosto piccola e triste. Ma anche tu avrai comunque il tuo bagno personale.»

«Ti giuro che sarebbe andato bene anche un letto nel sottoscala…»

«Allora ci vediamo domani mattina.»

Francesco stava per riattaccare ma si fece coraggio.

«Dì anche a Matteo che non so come ringraziarlo…»

«Figurati… se possibile era anche più entusiasta di me all’idea. Forse crede che gli farai tutti i suoi articoli…» scherzò Elisabetta.

E Francesco pensò che non ci sarebbe stato niente di più bello che passare le serate con lui anche se avesse dovuto aiutarlo a scrivere due, tre, dieci pezzi per volta.

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12.

 

 

 

 

 

 

La mattina quando si alzò i suoi genitori erano già svegli. Non capitava quasi mai. Di solito la prima ad alzarsi era Elena. Spesso ripassava per un’interrogazione, poi passava una mezz’oretta davanti alla tazza del latte intingendo biscotti e, ovviamente, come ogni sorella che si rispetti, un’altra mezz’oretta in bagno. Di solito Francesco cercava di far coincidere, con la colazione di lei, i cinque minuti in cui lui si lavava i denti, si faceva la doccia e la barba e cercava di dare una parvenza di umanità ai suoi riccioli. Sì perché, se per caso calcolava male i tempi e non riusciva ad infilare la porta del bagno prima che ci si chiudesse sua sorella, era spacciato. Le alternative erano solo due: andare al lavoro senza lavarsi o arrivarci con trenta minuti di ritardo.

Suo padre in genere apriva gli occhi quando i figli erano già usciti di casa mentre sua madre al massimo li intravedeva quando stavano per andarsene. E chissà se si rendeva conto della loro presenza perché, prima di bere il caffè, le capacità ricettive di Angela erano pressoché pari a quelle di un bradipo che dorme.

Comunque quella mattina erano tutti alzati, al gran completo. Pregò in silenzio che non dovessero parlargli di niente, visti i calibri delle ultime conversazioni.

«Ah, già svegli? Come mai?» chiese nel modo più naturale possibile.

La madre lo guardò perplessa mentre si accendeva una sigaretta che con ogni probabilità non doveva essere neanche la prima.

«Mi sono alzata dalla disperazione perché tuo padre non ha fatto altro che russare tutta la notte. E lui, quando ormai mi ero rassegnata e mi ero fatta il caffè, ha deciso che non aveva più sonno. Sempre così…»

Francesco tirò un sospiro di sollievo. Non sembrava che ci fossero altri uragani in arrivo. Si chiese se sarebbe stato giusto parlare subito con i genitori della proposta di Elisabetta. Forse il fatto che fossero già svegli era un segno del destino. Significava che avrebbe dovuto comunicare loro dove con molta probabilità sarebbe andato a vivere. Alla fine si convinse che il fato non si sarebbe sprecato a lanciare messaggi tanto irrilevanti e decise di rimandare il tutto al giorno

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dopo. Così nel frattempo la sera avrebbe anche avuto modo di constatare di persona l’atteggiamento di Rebecca ed Enrico in merito.

Ingurgitò il quotidiano succo di frutta, ingoiò senza masticare i soliti due biscotti, tutto senza sedersi e mentre si allacciava la giacca, accarezzò l’ancora piccola pancia della sorella e uscì di casa, correndo come sempre. Quando era da solo era incapace di camminare piano e di muoversi lentamente. Era più forte di lui. Anche quando non aveva fretta, anche quando voleva rilassarsi.

 

La sera uscì presto dall’ufficio: voleva passare da casa per farsi una doccia e cambiarsi prima di andare a cena a casa Neri. Sulla strada si fermò da un fiorista ambulante e comprò un mazzo di lilium per Rebecca. Arrivò puntuale. Elisabetta gli venne incontro precedendo Daniel.

«Ciao, Fra… che bei fiori… sei matto?!»

«Beh, sono per tua madre…»

«Vieni, vieni… magari ci facciamo un aperitivo in salotto. Mio fratello non è ancora arrivato. Sembra che abbia avuto un inconveniente al giornale ma sarà qui a minuti. Ah, mi dimenticavo… Fra, è un problema se dopo cena vi lascio da soli? In realtà mi è venuto in mente solo dieci minuti fa che avevo promesso a Marco di andare al cinema con una coppia di suoi amici. Mi dispiacerebbe dirgli che non posso più… a meno che non vogliate venire anche voi. Non ho idea di quale film abbia scelto ma, considerati i gusti del mio fidanzato, non so se vi convenga…»

«Non preoccuparti non c’è problema.» rispose non riuscendo a reprimere un sorriso all’idea dell’eventualità di un’inaspettata serata da solo con l’amico. «Poi chiediamo a Matteo cosa preferisce fare. Per me va bene tutto.»

Salutò Rebecca. La signora Neri lo ringraziò dei lilium precisando che non avrebbe dovuto. Enrico era chiuso nel suo studio come al solito. Poi lui e l’amica si spostarono in salotto. Elisabetta gli porse una birra senza nemmeno chiedergli cosa preferisse. Ormai erano quasi due anni che prendeva aperitivi con lui e difficilmente Francesco aveva scelto una bibita diversa.

Era seduto di fronte a lei, apparentemente immerso nel suo fitto chiacchiericcio, ma in realtà con l’orecchio teso nella speranza di sentire suonare alla porta. Non si sarebbe mai abituato al momento in cui doveva rivedere Matteo. Anche se ormai si frequentavano molto, anche se spesso lo aveva incontrato solo il giorno prima. Non c’era niente da fare, ogni volta che sapeva che di lì a breve se lo sarebbe trovato davanti, il suo cuore iniziava a battere aritmicamente. Forse prima di trasferirsi a casa Neri avrebbe fatto meglio a procurarsi un defibrillatore portatile.

E finalmente Daniel andò ad aprire la porta. Sentì la voce profonda dell’amico che chiedeva al maggiordomo:

«Francesco è già arrivato?»

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E quella di Daniel che rispondeva:

«Sì. Credo che sia in salotto con sua sorella.»

E lo vide entrare. Bello da non credere. Più spettinato del solito, chiaro segnale di una giornata difficile. Con un angolo della camicia che usciva dai pantaloni di tela blu e i primi bottoni slacciati. Sorrideva. Come sempre.

«Ciao… scusate ma è successo di tutto. Appena sono riuscito a defilarmi sono corso a casa. E’ tanto che sei arrivato, Fra?»

Francesco si chiese perché si giustificasse tanto. Ma era nel carattere di Matteo. Lui si scusava in continuazione. Aveva sempre paura di mancare di rispetto a qualcuno.

Gli sorrise a sua volta.

«Ciao, Teo. Sono appena arrivato. Stavo chiacchierando con tua sorella. Siccome dieci ore al lavoro non sono sufficienti…» scherzò e poi aggiunse:

«Ah, ma ha detto che stasera ci lascia perché deve andare al cinema con Marco. Almeno questa è la scusa ufficiale!»

Elisabetta si mise a ridere.

«Scemo… sei il solito malizioso.» precisò subito. «Ma se ti ho chiesto se volete venire anche voi!»

Francesco guardò Matteo.

«Teo, tu cosa preferisci fare?»

«Decidi tu, Fra. Per me va bene tutto.» rispose l’amico nonostante fosse l’incarnazione perfetta dell’uomo stravolto da una giornata di lavoro.

Era sempre così fra loro due: nessuno voleva mai scegliere per l’altro. Francesco guardò il viso stanchissimo di Matteo e si convinse che restare a casa fosse l’idea migliore. E soprattutto cercò di far credere a se stesso di farlo per l’amico e non per il piacere che provava nel restare da solo con lui.

«Forse, considerata la faccia di Teo, il cinema non mi sembra l’ideale…»

 

All’inizio a cena si parlò del più e del meno come al solito. Poi, come era ovvio, Rebecca iniziò con le domande volte a capire le motivazioni alla base della scelta dei suoi genitori.

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«Così la tua famiglia, Francesco, ha deciso di andare a vivere in Liguria?»

Francesco fece un silenzioso ma profondo respiro e si preparò a rispondere all’inevitabile interrogatorio. Si augurò solo che la madre fosse un po’ più clemente della figlia.

«Sì, pare che ormai non cambieranno più idea anche se con i miei genitori non si finisce mai di stupirsi.»

«E tu sei figlio unico?»

Lui comprese che i due fratelli non le avevano detto niente. Nemmeno Elisabetta che avrebbe potuto finire sul libro dei guinness per il numero di parole pronunciate in un minuto! Lui sarebbe andato a vivere a casa loro tra pochi mesi e Rebecca non sapeva il motivo per cui i suoi genitori avessero deciso di trasferirsi in Liguria! Era sbigottito. A questo punto non era più certo nemmeno che lei e il marito fossero a conoscenza della sua omosessualità. Si chiese se i figli non le avessero detto niente di Elena solo per discrezione o perché per i loro impeccabili genitori non fosse tollerabile rimanere incinta a diciotto anni e per di più di uno che non voleva saperne niente. Ebbe un attimo di incertezza ma alla fine decise di essere sincero.

«No, non sono figlio unico. Ho una sorella più piccola. E’ all’ultimo anno di liceo.»

Rebecca sembrava sorpresa.

«Ah, capisco. E tua sorella come farà?»

«Andrà ad abitare con loro. E’ per lei che hanno deciso di spostarsi.» rispose tutto di un fiato.

«Perché, non sta bene?»

«No, sta benissimo solo che è incinta. Ha deciso di portare avanti la gravidanza e i miei pensano che sia meglio che… che imposti di nuovo la sua vita lontano dal suo ambiente di sempre e, soprattutto, dal padre del bambino.»

Ecco, adesso sapevano tutto. Era dispiaciuto per sua sorella ma era orgoglioso della sua scelta e del suo coraggio. E non aveva problemi ad ammetterlo, nemmeno davanti ad una coppia di bacchettoni come i Neri.

Per la prima volta dall’inizio della cena Enrico mostrò un segno di interesse per la conversazione. Come sempre non intervenne ma, se non altro, guardò Francesco con un’espressione che lasciava sperare avesse ascoltato le sue risposte.

Rebecca lo fissò incredula.

«Capisco… perché il padre del bambino non…?» chiese con un tono di circostanza

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Francesco rimase senza parole. La domanda era assolutamente superflua. Non capiva se Rebecca gliela avesse posta per metterlo in difficoltà o perché aveva bisogno di sentire qualcosa di diverso dai soliti discorsi perbenisti delle loro cene. Rivolse un’occhiata di sfuggita a Matteo ed Elisabetta. Entrambi avevano gli occhi bassi e sembravano imbarazzati. Poi Matteo intervenne.

«Mamma, scusa, ma cosa c’entra…?»

Ma Francesco lo interruppe.

«Teo, non c’è problema.»

«Sì, signora Neri.» rispose calmo. «Il padre del bambino non ne vuole sapere. Ma mia sorella è molto forte e sono sicuro che non si pentirà mai della sua decisione.»

Rebecca non si scompose.

«Bene. Lo spero per lei. Non sono scelte facili. Comunque potrai stare da noi tutto il tempo che ti serve. Senza problemi.»

Lui per la prima volta ebbe il dubbio che forse non sarebbe riuscito a vivere in quella casa così convenzionale, così poco vera. Stava per rispondere che le era molto grato ma che avrebbe cercato un’altra soluzione, per evitare di creare disturbo. Prima di parlare però guardò Matteo. I suoi occhi trasparenti lo fissavano. E lui non aveva mai visto niente di più vero. Capì che, per poter vedere quegl’occhi tutti i giorni, avrebbe potuto fare qualunque sacrificio e accettare qualsiasi compromesso.

«La ringrazio molto, signora.» disse . «E’ davvero generoso da parte vostra.»

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13.

 

 

 

 

 

 

«Ragazzi, io vado. Voi due mi sembra di capire che non abbiate nessuna voglia di uscire. Teo, ti affido Francesco. Gli fai vedere tu la sua futura stanza?» disse Elisabetta finito di cenare, una volta che si furono alzati da tavola.

«Sì, Betty… non ti preoccupare. Buon film, sempre che tu vada al cinema…» scherzò il fratello.

Lei fece spallucce e uscì di casa.

Matteo guardò Francesco.

«Allora vuoi prendere visione della tua suite?»

«Non vedo l’ora!»

La camera si trovava al piano di sopra come tutte le altre stanze da letto. Era in fondo ad un corridoio, dopo quella di Elisabetta. Effettivamente, rispetto ai “monolocali” dei due fratelli, era molto più piccola e arredata più semplicemente. E soprattutto, essendo destinata agli ospiti occasionali, era priva di personalità. In realtà non si poteva dire che le mancasse niente. Come in camera di Matteo, i mobili erano in legno chiaro ma, già da una prima occhiata, questi sembravano di una fattura decisamente meno pregiata. Si confondevano quasi con le pareti pitturate di bianco a cui, forse nel tentativo di dare un tocco di colore, erano state appese, qua e là, delle stampe astratte. Nell’insieme la stanza era piuttosto gradevole anche se, di certo, non era nemmeno stata sfiorata dalla mano dell’architetto che si era occupato del resto dell’appartamento.

In ogni caso per Francesco sarebbe andata benissimo, tanto più che per la prima volta nella sua vita avrebbe avuto un bagno personale. L’unica piccola delusione era rappresentata dal letto: ingenuamente aveva sperato che anche questa camera ne avesse uno ad una piazza e mezzo ma, appena entrato, aveva dovuto realizzare che gli sarebbe toccato continuare a dormire in un lettino singolo.

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Matteo gli lasciò qualche secondo per guardarsi in giro. Poi lo fissò mestamente.

«Fra, mi spiace. Lo so che non è il massimo. Oltretutto ogni tanto l’acqua calda della doccia non funziona. Comunque almeno questo problema dovrebbero sistemarlo a breve. Per dire la verità abbiamo un’altra camera per gli ospiti ma è matrimoniale e mia madre preferisce lasciarla libera.»

Certo, con Matteo che dormiva due stanze più in là della sua, qualche doccia fredda non gli avrebbe fatto male!

«Teo, sei matto? Va benissimo. Davvero. Non avrei mai nemmeno osato sperare in una soluzione migliore di questa.»

L’amico gli sorrise ma non sembrava per nulla convinto. Continuò quasi non lo avesse sentito.

«Stavo pensando che tu sai apprezzare il bello molto più di me. Io sono un superficiale. Non noto i particolari. Mi basta un materasso per sdraiarmi e un pezzo di legno dove mettere i vestiti. Potremmo fare cambio. Ti do la mia camera e mi trasferisco in questa qui. Vorrà dire che al massimo dovrò lasciarti in eredità qualche libro perché credo che qui le mensole non bastino.»

Francesco lo guardò allibito. Non credeva alle sue orecchie. E poi con che motivazione gli faceva una proposta del genere? Perché lui sapeva apprezzare di più il bello? Non gli sembrava affatto vero, a meno che non si volesse prendere in considerazione che Matteo fosse attratto da Gloria e lui, Francesco, fosse attratto da Matteo. Che era decisamente più bello di Gloria!

«Teo, non se ne parla nemmeno. Cosa stai dicendo?» balbettò a fatica arrossendo violentemente.

«Davvero, Fra. Lo faccio volentieri…» e poi, con uno dei suoi sorrisi, di quelli che gli facevano cedere le gambe e rimpiangere di non aver comprato il defibrillatore, aggiunse:

«… sono così felice che tu venga a vivere qui…»

Francesco ebbe paura di svenire e, per darlo a notare il meno possibile, si sedette sul letto.

«Anch’io sono felice, Teo.» mormorò. «E questa stanza è perfetta.» E pensare che due giorni prima gli era stata preannunciata una catastrofe. Adesso quella stessa catastrofe si era trasformata nel regalo più bello e inaspettato della sua vita.

Come se non bastasse Matteo gli si sedette accanto e, quasi senza accorgersene, posò una mano sul dorso della sua che stringeva ancora leggermente il bordo del letto.

«Perché non ti trasferisci subito da noi?» disse. «Forse anche i tuoi genitori, sapendo che hai già trovato una sistemazione, sarebbero più tranquilli. E dopotutto vedresti come ti trovi intanto che loro sono ancora qui. Almeno, se proprio non ci sopporti, sei ancora in tempo a tornare a casa e a cercarti un’altra soluzione!»

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Francesco, in una trasposizione della sua anima rispetto al corpo, vide il cuore che, da solo, se ne schizzava fuori dal petto. Cercò di pensare a qualcosa di triste per riportare i battiti entro limiti accettabili.

«Non so cosa dire…» biascicò. Matteo lo guardava e negli occhi trasparenti Francesco lesse una preghiera silenziosa. Non se ne rese nemmeno conto e si sentì mentre diceva:

«Va bene, Teo. Domani ne parlo con i miei. Ma credo che non avranno problemi. E i tuoi genitori cosa diranno?»

«Non preoccuparti. Ci penso io.»

Poi Francesco fu attraversato da un dubbio che lo aveva assillato durante tutta la cena ma che la vicinanza di Matteo gli aveva fatto dimenticare. Non sapeva come affrontare l’argomento ma non poteva rimanere con questo sospetto.

«Teo, ma tua madre e tuo padre sanno che io sono…?» chiese titubante.

L’amico lo guardò con dolcezza, la mano era sempre appoggiata sulla sua, la strinse un po’ più forte, poi abbassò gli occhi.

«Sì, Fra. La Betty glielo ha detto la prima volta che sei venuto da noi. Non che volesse sbandierare a tutti la tua vita privata ma… sai com’è Rebecca… e forse Enrico è anche peggio… sono un po’ bigotti… Lo ha fatto solo per evitare situazioni spiacevoli per tutti…»

Poi sollevò lo sguardo su di lui e continuò:

«Non te la sei presa, vero? Credimi mia sorella non sta zitta un attimo ma ai miei dice solo l’indispensabile!» E su questo non c’erano dubbi dato che non aveva detto loro nemmeno di Elena.

«Me ne sono accorto. Comunque è molto meglio così. Avevo paura che avessero accettato di ospitarmi senza saperlo. E questo mi avrebbe messo in difficoltà.»

«No, lo sanno, lo sanno!» lo tranquillizzò subito l’amico. Poi lo fissò amareggiato.

«… mi spiace per come sono fatti i miei genitori… Anche prima a tavola… mia madre… quando ti chiedeva di tua sorella… l’avrei ammazzata. Solo che io e la Betty non siamo abituati a discutere. Di solito facciamo finta di niente. Abbiamo le nostre idee… ma ce le teniamo per noi. Scusa se non sono riuscito a fermarla…»

«Non dirlo neanche. Non serviva assolutamente che la interrompessi.» lo rassicurò Francesco. «Non ho nessun problema a raccontare di Elena. Sono orgoglioso di lei.»

«Lo so, lo so, Fra. Ciò non toglie che non siano fatti di mia madre.» Poi Matteo abbassò lo sguardo.

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«Comunque anch’io sarei orgoglioso di lei.» disse timidamente. «E sono orgoglioso di te che sei orgoglioso di lei.»

Francesco avvertì una voglia irrefrenabile di appoggiare la testa sulla sua spalla, le labbra sul suo collo e iniziare a baciarlo. Invece gli sorrise e mormorò solo un “grazie”. Ma pensò che nessuno mai come Matteo fosse riuscito a dirgli in ogni momento proprio quello che lui aveva bisogno di sentirsi dire.

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14.

 

 

 

 

 

 

Era seduto sulla metropolitana e tentava di leggere la recensione dei film su uno di quei giornali che distribuiscono gratuitamente alle fermate. In realtà non riusciva ad avanzare oltre la seconda riga. Il pensiero continuava a tornare alla sera prima. Alla voce di Matteo che gli offriva la sua stanza, che si dispiaceva per il comportamento di sua madre, che gli chiedeva di trasferirsi subito a casa loro.

Con i suoi genitori avrebbe parlato la sera stessa. E nel giro di qualche giorno sarebbe andato ad abitare a casa Neri. Si domandava come avrebbero reagito i suoi ma era talmente felice da non riuscire a preoccuparsene più di tanto. Guardava gli altri passeggeri e si chiedeva se la sua euforia trasparisse a tal punto da arrivare fino a loro. Gli piaceva osservare la gente sconosciuta, immaginarsi i loro pensieri, le loro vite, le loro difficoltà. Spesso si era perso nei loro discorsi, nelle loro telefonate, nei loro racconti. Gli era capitato di prendere i mezzi pubblici anche durante i periodi bui della sua esistenza. E tutti quelli che erano capitati sulla sua strada gli erano sembrati più fortunati, più spensierati, più capaci di vivere di lui. Si era fatto rapire dai particolari che rivelavano spaccati delle loro vite e le aveva giudicate molto più serene e fortunate della sua. E, anche se può sembrare strano, si era sentito un po’ meglio. Sì, perché, persino nei momenti di maggiore sgomento, quando gli era sembrato impossibile raggiungere la fermata successiva senza soffocare, non aveva mai provato invidia per l’apparente armonia altrui. Anzi, incontrare persone in pace con se stesse gli aveva ogni volta ridato fiducia e speranza, se non nella sua vita, se non altro nella vita in generale. Si era sempre considerato parte dell’umanità ed era stato in grado di sentire dentro di sé una comunione e una vicinanza anche con gli uomini e le donne che aveva visto per la prima volta e con i quali magari aveva scambiato solo poche parole. Ogni volta gli era sembrato di gioire e soffrire per loro, anche se per pochi secondi, indipendentemente dalla disposizione del suo animo. E molti di loro gli avevano lasciato qualcosa, un ricordo, una sensazione, un’immagine a cui la sua mente ogni tanto era ritornata.

Abbandonata la speranza di riuscire a finire la lettura del trafiletto sul cinema, si lasciò andare alle fantasie scaturite dal suo stato di ebbrezza. In realtà in alcuni momenti di lucidità riusciva anche a domandarsi il perché di tanta felicità. Certo sarebbe andato a vivere a casa di Matteo. E Matteo era adorabile con lui più di quanto lo fosse mai stato chiunque altro. Ma Matteo lo vedeva come un amico e lui invece avrebbe voluto ben altro di un’amicizia. Eppure questa

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considerazione, che avrebbe dovuto avvolgerlo in una tristezza ineluttabile, non riusciva ad intaccare il suo entusiasmo. Non se lo sapeva spiegare nemmeno lui ma sentiva che era così.

Arrivò in ufficio dopo aver rischiato di dimenticarsi di scendere alla fermata giusta. Elisabetta lo attendeva ansiosa.

«Buongiorno… è venti minuti che ti aspetto. Ho provato anche a chiamarti sul telefonino ma non prendeva.»

«Ciao. Si vede che ero in metropolitana…» E mentre lo diceva gli venne il dubbio che l’agitazione della collega fosse dovuta ad una riunione di cui si era completamente dimenticato.

«… non ho preso la macchina.» aggiunse subito. «Oggi non avevamo riunioni, vero?»

«No, tranquillo. Respira. Non è per questo che non vedevo l’ora che arrivassi. Ieri sono tornata a casa tardissimo, era già l’una passata. E mio fratello mi aspettava in piedi per darmi la notizia.»

Francesco cercò di rispondere nel modo più disinvolto possibile, senza lasciar trasparire l’euforia che gli circolava al posto del sangue.

«Sì, abbiamo deciso ieri, dopo che te ne eri andata. Lui dice che forse è meglio provare subito.»

«Lo hai già detto ai tuoi?»

«No. In realtà non li ho ancora visti. Gliene parlo stasera a cena.»

«E quando pensi di trasferirti?»

«Ma… non ci ho ancora pensato…» e sapeva di mentire spudoratamente perché non aveva fatto altro che pensarci.

«… se per voi va bene, magari potrei portare lì qualcosa nel week-end.»

«Mi sembra perfetto. Ti aiutiamo noi. Veniamo da te con un’altra macchina e carichiamo un po’ di roba sulla nostra.»

«Eli, non ce n’è bisogno. Ti ringrazio ma non sei tu che devi cambiare casa. In questo caso non sarebbe bastato un camper! Sono io che mi trasferisco. E i vestiti che per adesso mi porto ci stanno giusto in una valigia. E la valigia ci sta tranquillamente nel bagagliaio della mia macchinetta.»

«Va bene, va bene. Come vuoi… comunque sono molto felice che tu venga a stare con noi. Da sola con te e mio fratello ho passato alcuni dei momenti più belli e spensierati della mia vita.»

Francesco le sorrise, le diede un bacio in fronte e non riuscì a non sentirsi un po’ in colpa per tutte le volte in cui era stato contento di rimanere da solo con Matteo, senza di lei.

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La sera, quando rientrò, la madre venne ad aprirgli la porta vestita di tutto punto, inequivocabilmente pronta per uscire.

«Ciao, Checco. Sei tornato? Io e papà andiamo al cinema. Ho fatto le cotolette con le patate al forno. Sono solo da scaldare nel microonde. Magari ci pensi tu? Elena sta ancora studiando!»

Capitava molto di rado che i suoi genitori uscissero durante la settimana e, ovviamente, quando avevano scelto di farlo? Proprio quella sera in cui lui avrebbe voluto parlare tranquillamente a tavola della sua scelta. Considerato che era già mercoledì e avrebbe dovuto trasferirsi tra venerdì e sabato, forse sarebbe stato meglio accennare qualcosa lo stesso, anche a costo di farlo lì sulla porta.

«Sì, mamma. Non c’è problema. Delle cotolette mi occupo io. Ma prima che usciate vorrei dirvi una cosa. Papà dov’è?»

«Nello studio. Sta sistemando i suoi conti. Checco, guarda che siamo già in ritardo!»

«Sì, ho capito. Ci metto un attimo.»

Nel frattempo suo padre, forse avendo sentito il figlio che parlava, li raggiunse in anticamera.

«Allora, Checco. Cosa c’è?» chiese impaziente.

«Niente. Solo che ho trovato un posto dove andare ad abitare.»

Angela lo guardò dubbiosa.

«Ah, vedo che non hai fatto fatica! Eri tanto preoccupato. E dove andresti?»

«A casa della mia collega Elisabetta. Vive con i suoi ma hanno un appartamento enorme. Mi danno uno stanza con bagno.»

«E quanto dovresti dare al mese?« chiese subito Mario.

«Ma… in realtà lei mi ha detto che non vogliono niente. Credo che mi metterò d’accordo per pagare almeno una cifra simbolica. Se non altro per sentirmi più a posto dato che spesso mi capiterà di cenare con loro.»

«Sì, Checco. Anche se insistono per ospitarti gratis, tu non farti compatire. Nella vita è sempre meglio non essere in debito.» si affrettò a suggerire il padre.

Poi Angela fece la domanda cruciale.

«Quindi andresti da loro appena noi ci trasferiamo in Liguria?»

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«Veramente… avrei pensato di andare ad abitare là… da subito!» rispose Francesco imbarazzato, forse perché si rendeva conto che non c’era nessuna motivazione concreta dietro quella scelta.

Sua madre lo guardò sorpresa.

«E che bisogno c’è? Fino a quando noi siamo qui hai casa tua.»

Sentì l’impulso fortissimo di dire “perché qui ci siete voi ma là c’è Matteo. E se lo vedo io sto bene!” .

«Credo che sia meglio che io provi adesso…» si limitò a rispondere. «Così vedo come mi trovo intanto che ho un’alternativa e posso ancora tornare qui. Sai, è una famiglia “stramilionaria”, molto formale, con tanto di maggiordomo e domestica fissa. Non sono sicuro di riuscire ad adattarmi alle loro abitudini.»

La madre non sembrava per niente persuasa.

«Sarà… comunque avresti potuto benissimo fare gli esperimenti da giugno e, se proprio non fossi riuscito ad abituarti a vivere con i ricchi… potevi cercarti un’altra sistemazione continuando nel frattempo a stare da loro… Io non ti capisco!»

Francesco si disse che tutto sommato si era ritrovato in questa situazione per colpa dei suoi genitori. Sì, perchè loro avevano deciso di trasferirsi senza minimamente preoccuparsi di cosa lui ne pensasse. Ed ebbe un attimo di risentimento verso la madre che, oltretutto, si permetteva di giudicare i tempi delle sue scelte.

«Se è per questo ci sono varie cose che io non capisco ma mi sembra di non aver mosso nessuna obiezione.» rispose seccamente, con l’intenzione di mettere fine a quella discussione.

«Peccato che tu sia il figlio e noi abbiamo il diritto di esprimere, perlomeno, delle opinioni sulle tue decisioni! Il diritto, capito?»

Veramente avrebbero avuto anche il dovere di non lasciarlo in mezzo a una strada. Ma in fondo Francesco era così contento per l’evoluzione della scelta un po’ egoistica dei suoi genitori che decise di lasciare perdere.

«Sì, ho capito, mamma, ma ti ho spiegato. Io mi sento più tranquillo così. Non voglio rischiare di trasferirmi all’ultimo per poi, magari, essere costretto ad abitare lì in attesa di un’altra soluzione.»

E finalmente intervenne Mario cercando di mettere tutti d’accordo.

«Ma, sì Angela, ognuno nella vita fa un po’ quello che vuole… basta che lasci in pace gli altri. Ha chiesto niente a te? No. E allora fallo decidere da solo. »

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E uscirono per andare al cinema.

Preso dalla foga della discussione non si era accorto che sua sorella si era affacciata alla porta della cameretta e aveva ascoltato tutto. Gli si avvicinò appoggiando la testa sulla scapola di lui.

«E’ per me che hanno deciso di andare in Liguria… mi spiace tanto che non vivremo più insieme.» mormorò.

Francesco le accarezzò i capelli.

«Anche a me dispiace… ma non credo che abbiano fatto questa scelta solo per te.»

E lo pensava davvero. Elena e il nipotino erano solo una scusa o forse una motivazione in più. Ma la vera ragione di quel cambiamento era lui. Lui e la sua diversità.

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15.

 

 

 

 

 

 

Finalmente arrivò venerdì. La madre era stata sulla difensiva per una giornata intera. In realtà quasi di sicuro era più risentita per essere stata contraddetta dal marito che per il tono seccato del figlio. Poi, come succedeva sempre, si era ammorbidita. Aveva chiesto a Francesco di fare una lista dei vestiti che, per il momento, intendeva portare con sé e venerdì sera glieli aveva fatti trovare belli lavati, stirati e piegati sul letto. Pronti per essere messi in valigia. In più sulla scrivania aveva raggruppato tutti gli effetti personali indispensabili che lui sicuramente avrebbe dimenticato, come per esempio le sue pastiglie per i bruciori di stomaco, gli occhiali da sole senza cui non poteva stare cinque minuti esposto alla luce troppo forte, le scarpe del calcetto, il gel per domare i riccioli e così via.

Sarebbe arrivato a casa Neri subito dopo cena. Finì di preparare la borsa e poi andò in bagno a darsi una rinfrescata. Fino a quel momento l’entusiasmo per il cambiamento aveva prevalso su tutte le altre emozioni. Ma adesso, mentre apriva l’acqua della doccia, si sentì assalire da un’ondata di malinconia. E per la prima volta realizzò che, molto probabilmente, quella sarebbe stata l’ultima doccia in quel bagno tanto conteso. Si rese conto che la notte prima era stata l’ultima trascorsa nel suo letto appoggiato al muro. E capì che il risveglio della mattina era stato l’ultimo in quella casa così familiare. Era un’emozione che non riusciva ad identificare, gli sembrava dolce e nostalgica al tempo stesso. Si sentiva come da piccolo l’ultimo giorno al mare. Era felice perché avrebbe ritrovato gli amici di tutti i giorni, i giochi di casa, i compagni di classe, i suoi canarini, il porcellino d’india. Ma sentiva un nodo alla gola al pensiero di lasciare i nuovi amici del mare, i ritmi delle giornate scandite dalla spiaggia, dall’orario della cena in albergo, dalle partite a squadre del pomeriggio, dalla sala giochi della sera. E la morsa allo stomaco non era dovuta solo al dispiacere di dover abbandonare le persone appena conosciute e la spensieratezza di quelle settimane. Il vero motivo era la consapevolezza dell’inevitabile cambiamento. Perché dal giorno dopo, nella sua quotidianità, quelle persone e quelle abitudini non ci sarebbero state più. Sarebbero appartenute solo al passato, anche se fino a quel momento si erano sovrapposte agli amici e ai ritmi della sua vera vita e l’avevano fatta sembrare quasi un ricordo. Adesso, mentre l’acqua calda della doccia gli scorreva addosso, avvertiva una sensazione molto simile a quella della fine di ogni villeggiatura dell’infanzia, che poi era la stessa emozione che aveva provato al termine di ogni vacanza studio dell’adolescenza, così come l’ultimo giorno di ogni viaggio di gruppo degli anni più recenti. Solo che questa volta non

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doveva lasciare una vita nata in poche settimane, ma i suoi spazi, le sue abitudini, i suoi ritmi, la sua casa di sempre. E finalmente riuscì a dare un nome alla malinconia che lo stava invadendo. Capì che, nonostante la gioia per quello che lo aspettava, si sentiva sradicato.

A cena suo padre si comportava come se niente fosse ed era così forzatamente naturale da non risultare per niente credibile. Sua sorella era immersa in un silenzio molto più eloquente di cento parole. In compenso sua madre pronunciava ogni minuto, oltre alle sue, anche le cento parole della figlia, dilungandosi in raccomandazioni inutili solo per nascondere il dispiacere e la tristezza.

«Checco, sei sicuro che hai preso tutto? Ti sei ricordato i documenti della macchina?»

«Mamma, i documenti della macchina sono in macchina da quando l’ho comprata. Non sono papà che li lascia a casa per paura che glieli rubino e poi, per non farsi dare la multa, si precipita a prenderli lasciando in ostaggio ai vigili la moglie!»

Era successo tre o quattro anni prima. I suoi genitori stavano andando in pizzeria. Come al solito Mario era senza il libretto di circolazione e per di più non aveva con sé nemmeno la patente. Capitava spesso perchè tenere il portafoglio in tasca lo infastidiva. Solo che quel giorno la vigilanza stradale aveva intimato loro di bloccarsi per un regolare controllo. Suo padre era sceso dalla macchina con le mani in alto come se fosse uno dei peggiori criminali ricercati. I vigili, contrariamente a quanto avrebbe potuto pensare un passante ignaro di tutto, non avevano alcuna intenzione di sparare e si erano limitati al classico «Favorisca i documenti.».

Al che Mario si era agitato e, facendo lo gnorri, aveva esibito il tagliandino e il certificato di assicurazione.

Quelli, sentendosi presi in giro, lo avevano incalzato con modi più insistenti e spazientiti.

«Senta, non so se è la prima volta che le capita ma con “documenti” intendiamo patente e libretto!»

Suo padre aveva iniziato a sudare freddo.

«Scusi, guardi… li ho dimenticati a casa…» aveva ammesso con tono convulso e sempre più colpevole. «ma abito a cinque minuti da qui. Vado a prenderli e glieli porto immediatamente. Nel frattempo… le lascio mia moglie.»

Il vigile aveva acconsentito, forse sbalordito dal baratto che sicuramente in anni di onorata carriera non si era mai sentito proporre. Suo padre era andato a recuperare i documenti, sua madre aveva fatto la sua bella esperienza da ostaggio ed erano riusciti a non farsi dare la multa. Comunque da allora, giusto per smentire il famoso proverbio “l’esperienza insegna”, Mario aveva continuato a circolare senza patente e senza libretto, convinto che fosse meglio pagare un’eventuale ammenda piuttosto che rifare tutti i documenti in caso di furto della macchina.

Al ricordo di quell’episodio tutti sorrisero. E la cappa di malinconia divenne ancora più fitta.

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«Porca miseria… non si capisce più niente. La Fiat stava fallendo e adesso ha un bilancio in utile dell’undici per cento. E’ proprio vero che l’economia in Italia sta diventando un gran casino!» commentò suo padre per alleggerire la tensione.

Nessuno gli rispose. E la considerazione cadde nel vuoto.

Poi Francesco si alzò da tavola.

«Bene, io vado. Non mi va di arrivare da loro troppo tardi.» disse per non prolungare ulteriormente quel momento ancora più difficile perché tutti lo volevano far sembrare facile.

Sua madre si alzò premurosamente.

«Non sono ancora le nove. Sei sicuro che non hai dimenticato niente?»

«No, mamma, comunque vado a vivere a qualche chilometro da qui, non in Nuova Zelanda!»

Suo padre gli diede una pacca sulla spalla e si limitò al solito:

«Ciao, Checco. Mi raccomando… in gamba…» che non voleva dire niente ma che in realtà voleva dire tutto. Fatti valere, ti vogliamo bene, mi dispiace che non sarai più con noi e… mi dispiace che non abbiamo saputo accettarti completamente. Ma forse quest’ultimo sottinteso era Francesco a volerlo leggerlo.

Sua sorella piangeva, aiutata dalla spontaneità dei diciotto anni che ti rende incapace di nascondere le emozioni. La abbracciò forte per quanto permesso dalla pancina che stava crescendo a vista d’occhio. Poi, sentendo i singhiozzi di lei diventare sempre più forti, la rassicurò.

«Ele, guarda che non muoio… che tu lo voglia o meno, rimango tuo fratello per tutta la vita… e anche lo zio di quello nuovo.»

Infine baciò i genitori anche se in modo più distaccato. Con loro non era abituato a gesti espansivi.

Ma con la sorella aveva da sempre un rapporto molto affettuoso, se l’era coccolata ogni volta che ne aveva avuto l’occasione. Forse perché l’aveva sempre vista piccola e indifesa dato che aveva sei anni meno di lui. O forse perché l’aveva sempre sentita dalla sua parte, incondizionatamente. Sì, erano sempre stati l’una dalla parte dell’altro, tutta la vita. E, mentre scendeva le scale di casa, sperò con tutto se stesso che, portandola in Liguria, non riuscissero a portargliela via.

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La mattina, nonostante fosse sabato, si svegliò molto presto e impiegò qualche secondo per capire dove si trovasse. La luce filtrava dalla tapparella e illuminava le stampe astratte appese alle pareti bianche. Allora si ricordò di essere a casa Neri. Immediatamente realizzò che Matteo dormiva due stanze più in là della sua e sentì una vampata di calore salirgli su per il corpo. Lo immaginò rigirarsi nel letto, infastidito dal chiarore del giorno che iniziava a diffondersi prepotentemente. Lo vide mentre cercava di coprirsi il viso con il cuscino. Fantasticò sulla sua maglietta che si sollevava nel movimento lasciando scoperti gli addominali disegnati. E il calore diventò più forte, quasi un bruciore. Decise che una doccia gelata era quello che ci voleva. Si stropicciò per bene e andò ad alzare la tapparella, cercando di fare suo quel gesto inusuale dato che per venticinque anni aveva sempre aperto le persiane.

Stava per entrare in bagno quando avvertì dei passi avvicinarsi alla sua camera. Aspettò qualche secondo e poi, da dietro la porta, sentì la voce che più di tutte avrebbe voluto sentire.

«Fra, sono Teo. Sei sveglio? Posso entrare?»

Francesco si diede un’occhiata veloce dal basso verso l’alto. Non sarebbe stata certo un’idea felice accogliere l’amico in mutande, viste e considerate le reazioni che Matteo gli suscitava. Afferrò al volo l’accappatoio e si precipitò ad aprirgli.

«Buongiorno. Vieni, vieni. Mi sono svegliato prestissimo. Sai, quando si dorme in un posto nuovo… Tu, come mai sei già in piedi?»

Matteo appena alzato era anche più bello del solito. A differenza di lui, non aveva ritenuto opportuno aggiungere nulla alla tenuta della notte che poi, come Francesco si era immaginato, consisteva in un paio di boxer elasticizzati e in una maglietta intima. Lo ringraziò in silenzio per questa scelta, benedicendo contemporaneamente se stesso per la lungimiranza dimostrata con la decisione di mettersi addosso l’accappatoio. E lo sentì rispondere:

«Non so perchè mi sono svegliato così presto. E’ che non ho dormito molto bene stanotte….» Poi Matteo lo guardò meglio e aggiunse:

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«…vedo che hai già fatto la doccia. Mi spiace. Eppure sono stato attento per sentire quando ti alzavi. Volevo dirti di venire a farla da me perché, lo sai, qui l’acqua calda c’è un po’ sì e un po’ no. Comunque mi sembra che l’idraulico debba venire lunedì.»

Nessuno aveva mai avuto tante premure nei suoi confronti. Mentre Francesco se lo immaginava in una lotta estenuante con il cuscino, Matteo se ne stava lì con l’orecchio teso per risparmiargli una doccia non abbastanza calda! Era senza parole. Poi si ricordò che in realtà lui doveva ancora lavarsi ma non trovò nessuna giustificazione plausibile per spiegare il suo abbigliamento in quel momento. Decise di far finta di niente.

«Mi sono dato solo una sciacquata veloce. L’acqua andava benissimo. Grazie lo stesso.»

«Va bene, allora ci vediamo giù per la colazione. Se dio vuole, è l’unico pasto della giornata privo di orario tassativo ed inderogabile! Ognuno la fa quando si alza.»

Dopo un po’ scese in tinello ed erano già tutti lì tranne Enrico. Francesco pronunciò un “buongiorno” collettivo rivolgendo un sorriso a Rebecca. Elisabetta lo accolse frizzante e perfettamente operativa come al solito. E Francesco realizzò che i tempi di ripresa dell’amica al mattino dovevano essere istantanei. Sprizzava energia fin dalla prima ora di lavoro e lui aveva sempre pensato che riuscisse a incamerarla durante il tragitto, per quanto breve. Ma, vedendola adesso, alle otto e mezzo di un sabato, si rese conto che probabilmente lei era così fin dal momento in cui metteva uno dei due piedi giù dal letto. Immaginò l’uomo che avrebbe scelto per viverle accanto tutta la vita e provò un po’ di pena per i suoi risvegli. A meno che il poveretto non fosse stato così bravo da riuscire a farle spendere tutta quella vitalità in un modo molto piacevole per lui!

«Buongiorno, Fra. Dormito bene?»

«Sì, grazie Eli. Tu?»

«Benissimo ma per me non era la prima notte in un letto nuovo…» poi aggiunse:

«… stavo pensando stamattina ad un altro vantaggio di questo trasferimento che avevo sottovalutato.»

«Cioè?»

«Da lunedì andremo insieme al lavoro. E potrò sfruttare i tuoi passaggi in macchina, quando decidi di usarla. Io, per adesso, sono sempre andata a piedi. Non so come fai a trovare parcheggio in quella zona!»

«E’ solo questione di abitudine. Anche se ogni tanto preferisco fare due passi o prendere il metrò, non tanto per il parcheggio, ma per perché mi aiuta a scaricare la tensione e a pensare un po’.»

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«Beh, da adesso in poi dubito che, con quel vulcano di mia sorella di fianco, tu riuscirai a rilassarti né tanto meno a formulare dei pensieri.» intervenne Matteo con tono scherzoso.

Francesco scoppiò a ridere. Rebecca fece un sorriso di circostanza che gli ricordò molto quelli di Gloria. Forse era proprio vero che gli uomini cercano nella fidanzata alcune caratteristiche della madre.

«Teo, mi sa che hai ragione.» disse. Poi si rivolse ad Elisabetta.

«Quindi Eli, dato che, grazie a te, non sussiste più alcun motivo per andare a piedi, potrai scegliere sempre tu se vuoi usare la macchina o meno!»

Lei sorrise fingendosi stizzita e fece scorrere lo sguardo dall’amico al fratello.

«Io, voi due insieme, non vi sopporto.»

Finita la colazione, i tre ragazzi uscirono in terrazza.

«Visto che io sono buona e perdono tutte le cattiverie che mi dite…» disse Elisabetta con fare da vittima. «volevo chiedervi se stasera vi va di venire a cena con me e Marco in un posto molto carino sui Navigli. Si mangia spagnolo meglio che da qualsiasi altra parte a Milano. Non siamo solo noi. Credo ci sia anche una coppia di amici di Marco e un’altra ragazza. Teo, dillo anche a Gloria. E tu, Fra, non sono molto aggiornata sui tuoi amanti recenti perché non mi confidi più niente, ma, se vuoi portare qualcuno, ovviamente non c’è problema.»

In realtà non le raccontava più niente per il semplice fatto che non c’era niente da raccontare. Unica eccezione era l’incontro che Lidia da un mese stava tentando di organizzargli con un suo amico stilista. E comunque, nonostante gli indubbi sforzi di lei, non erano ancora riusciti a combinare un giorno, un po’ per gli impegni di lavoro dell’amico di Lidia, un po’ perché Matteo ed Elisabetta proponevano a Francesco di uscire quasi tutte le sere. E lui, per la prima volta nella sua vita, sceglieva delle serate che indubbiamente non sarebbero evolute nel modo sperato, rispetto ad un’uscita combinata che quasi sicuramente avrebbe prodotto i suoi frutti.

Matteo lo guardò.

«Fra, tu cosa vuoi fare? Magari non hai voglia di uscire. In ogni caso se preferisci restare a casa per sistemarti un attimo, non c’è problema, io ti faccio compagnia volentieri. A meno che tu non abbia già un altro impegno…»

L’amico non aveva minimamente accennato a Gloria e non sembrava nemmeno che fossero d’accordo per vedersi la sera, nonostante fosse sabato. In compenso aveva subito precisato che avrebbe assecondato la scelta di Francesco e sarebbe andato alla cena solo se ci fosse andato anche lui. Salvo che lui avesse già preso un altro appuntamento.

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«No, no, Teo. Non ho organizzato niente.» si affrettò a chiarire. «Quanto al trasloco, in realtà ho portato giusto due vestiti e li ho già messi tutti a posto. Quindi, se ti fa piacere, possiamo andare con la Eli. Così proviamo la paella più buona d’Italia…»

«Ho detto di Milano, scemo… perché mi prendi in giro qualunque cosa dica?» replicò subito Elisabetta.

«Lo sai che è il mio sport preferito.»

«Va, beh, lasciamo perdere. Io vado a vedere un po’ di vetrine. Allora ci vediamo stasera?»

Matteo guardò Francesco come per assicurarsi che non avesse cambiato idea nel frattempo.

«Va bene, Betty…» rispose. «così finalmente conosco anche questo Marco… speriamo che sia quello buono.»

Poi, appena rimasero soli, si rivolse a Francesco.

«Tu lo hai mai visto?»

«Solo un paio di volte di sfuggita. E’ venuto a prenderla al lavoro. In ogni caso mi è sembrato molto meglio di quelli prima.»

«Ah, voglio sperare. Poi, se consideri l’ultimo ufficiale. Quello prima di questo intendo. Com’è che si chiamava?»

«Luca. Mi sa che suo padre festeggiava il compleanno due o tre volte all’anno! O perlomeno ogni volta che lui doveva uscire con tua sorella ma si era dimenticato di aver preso un altro impegno!»

Matteo rise. Poi divenne serio.

«Senti, Fra, mi spiace tanto ma io dovrei fare un salto al giornale perché ho lasciato delle cose in sospeso. Purtroppo non posso finirle lunedì perché martedì andiamo in stampa e prima devono fare la cianografica. Se sei libero, quando torno nel tardo pomeriggio possiamo andare a fare due tiri a tennis.»

«Va bene. Anche se penso che mi ammazzerai dato che alle due ho una partita di calcetto.»

«Tranquillo. Avrò pietà di te.» Sorrise come sapeva sorridere solo lui. Socchiudendo un po’ gli occhi. E Francesco si chiese se, quei sorrisi, li dispensasse a tutti.

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Dopo la partita di tennis tornarono nell’appartamento di Via Podgora. Si erano fatti una doccia veloce negli spogliatoi ma l’intenzione era di darsi un’ulteriore rinfrescata a casa in vista dell’uscita serale.

Come previsto Matteo aveva stravinto anche se Francesco aveva avuto l’impressione che avesse fatto di tutto per non infierire. Appena salirono al piano di sopra per andare ognuno nella sua stanza, l’amico lo fermò.

«Fra, dove vai? Lavati da me. Hai sudato come un cammello. Se ti fai la doccia fredda, ti prendi un coccolone!»

Francesco non mosse obiezioni. Andò nel suo bagno a recuperare l’accappatoio e una biancheria di cambio e si presentò in camera di Matteo. L’amico lo aspettava seduto sul letto. Francesco gli sorrise e si guardò intorno. E quasi per caso notò che la foto di lui e Gloria al mare non era più sul comodino.

«Hai visto? L’ho tolta. E ho messo via anche le altre che erano su quella mensola.» disse Matteo forse interpretando i suoi pensieri.

Francesco si girò verso il pensile indicato, si sedette sul letto di fianco a lui e non disse niente. Il suo desiderio, la sua attrazione per l’amico erano continui e violentissimi. Ma l’amore e il bene che aveva imparato a volergli erano più forti di qualsiasi altro sentimento e di qualunque istinto. In quel momento riusciva solo a soffrire per lui.

«Ci siamo lasciati.» disse Matteo serio.

«Da molto?» si limitò a chiedere Francesco.

«No. In realtà ce lo siamo detti giovedì ma erano mesi che non funzionava più.»

«Hai deciso tu o ha deciso lei?»

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«Diciamo che aspettavo che lei decidesse. Non ci vedevamo quasi più. Ogni scusa era buona per lasciare perdere. Lei lavorava sempre. O almeno mi diceva così. Solo che non ho mai voluto andare a fondo perché tutto sommato non mi mancava. Stavo bene anche da solo…» Poi lo guardò. Per la prima volta da quando aveva iniziato a parlare di Gloria sorrise e aggiunse:

«… stavo bene anche da solo e stavo meglio con voi. Con la Betty e… e con te.»

A Francesco sembrò che le tempie gli scoppiassero di piacere ma subito si sentì in colpa. Comunque fosse finita, di certo l’amico doveva soffrirne. Si ricordò di come Matteo avesse saputo consolarlo quando Carlo lo aveva umiliato in quel modo. Non sarebbe mai stato in grado di dargli lo stesso conforto. Rimase in silenzio per permettergli di sfogarsi liberamente. E Matteo continuò:

«Lo avrai provato anche tu. Sai che deve succedere. In un certo senso vuoi che succeda. Ma poi quando succede ti senti strano.»

Sì, lo aveva provato anche lui. Ogni volta è come se morisse una piccola parte di te. Indipendentemente dal tipo di sentimenti che provavi. Anche se non erano più né di amore né di passione, anche se forse non lo erano mai stati. Ma comunque una persona con cui sei stato per due anni fa parte della tua vita, delle tue abitudini, dei tuoi punti di riferimento. Fino al giorno prima la sentivi tutti i giorni, anche se lo facevi per routine. Da adesso in poi non la chiamerai più. Forse non saprai nemmeno se le succederà qualcosa, a meno che non sia una cosa molto grave. O magari le telefonerai una volta ogni tanto, per sapere se va tutto bene, per gli auguri di Natale e del compleanno. E nessuno dei due riuscirà mai a nascondere quella forma di imbarazzo che provano solo due persone che sono state molto intime, che si sono svelate le parti più nascoste del corpo e dell’anima e che, solo dopo, sono diventate quasi due estranei. Ognuna con la sua vita, spesso ognuna con un altro amore, a volte più intenso e più completo, ma comunque incapace di cancellare completamente le emozioni di quello prima.

Francesco lo guardò con tenerezza.

«Come stai? Veramente… intendo…»

Matteo lo fissò con i suoi occhi trasparenti, poi li abbassò.

«Bene… bene se ci sei tu.» mormorò.

A Francesco sembrò che la camera iniziasse a girare, fu attraversato da una vertigine e ringraziò di essere seduto. Poi si sentì assalire dagli impulsi. Gli gridavano di baciarlo, di spingerlo su quel letto, di spogliarlo e fargli tutto quello che sognava da un anno. Ma, tra le voci degli istinti che lo stordivano, una vocina sottile-sottile ma acuta al tempo stesso cercava disperatamente di farsi largo tra le altre. Era quasi un sussurro ma gli perforava il timpano, ricordandogli quello che lui sapeva benissimo. A Matteo non piacevano gli uomini, sicuramente gli era affezionato ma, adesso che si era lasciato con Gloria, avrebbe trovato un’altra ragazza. Del resto quante amiche, in piena crisi d’amore, gli avevano detto “tu mi fai stare bene”? Con uno sforzo inaudito decise che quella era la voce giusta, fece un respiro profondo e mise a tacere gli istinti. Poi si girò verso

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di lui e si concesse lo stesso un gesto che non aveva mai osato fare: lo abbracciò. Se lo strinse forte, senza malizia, solo come avrebbe stretto un fratello o una persona a cui voleva bene. Un bene infinito. Matteo si lasciò abbracciare e, dopo pochi secondi, sollevò le braccia e lo strinse a sua volta.

 

Alle otto erano pronti tutti e tre per uscire. Sarebbe passato a prenderli Marco che conosceva la strada per raggiungere il ristorante. Prima di scendere Matteo si era premunito di avvisare Francesco che la sorella non sapeva niente della fine della sua storia con Gloria. Disse che avrebbe preferito parlargliene lui personalmente, magari l’indomani. Come se con Elisabetta si potesse aspettare molto.

E, come Francesco aveva supposto, la prima domanda dell’amica appena li vide fu:

«Gloria non viene?»

Ci fu un momento di imbarazzo. Francesco stava per dire che aveva dimenticato la patente in camera. Che preferiva portarla sempre dietro per scrupolo. Ma Matteo rispose prima che lui riuscisse a defilarsi.

«No, aveva già un altro impegno.»

Elisabetta lo guardò, poi guardò Francesco che aveva uno sguardo fisso a metà tra lei e il marmo del pavimento. Ma, anche visti di traverso, gli occhi dell’amica erano più che eloquenti e lasciavano intendere chiaramente che avesse capito tutto. E, non solo, era palese che lei lo sapesse già, ancora prima di Matteo e forse anche prima di Gloria. Per non parlare di Francesco che arrivava sempre molto dopo di lei, quando ormai anche un bambino avrebbe capito.

Arrivò Marco. Baciò Elisabetta. Salutò Francesco amichevolmente con una stretta di mano. E si presentò a Matteo. Dopo i soliti convenevoli del tipo “vado io dietro”, “no, davvero ci vado io che tu sei più alto”, decisero che Elisabetta si sarebbe seduta di fianco al fidanzato. E Francesco non riuscì a non gioire per quell’inaspettata vicinanza con Matteo di cui avrebbe goduto per tutto il viaggio.

Ad attraversare Milano a quell’ora di sabato ci misero una vita. Il ristorante era in fondo al Naviglio Grande, dove i locali e i negozi diventano più radi, sulla strada verso Vigevano. Lontano dalla zona più caratteristica, ricca di luci, bancarelle, artisti di strada, ristoranti sull’acqua, bar e pub che rimangono aperti fino a notte fonda. Non era molto grande e l’ambiente trasmetteva subito una sensazione di calore e familiarità. Tutto sapeva di Spagna, dall’abbigliamento dei camerieri, ai quadri alle pareti. Dopo le inevitabili presentazioni, la compagnia prese posto al tavolo assegnato. Marco si sedette capotavola, Elisabetta si accomodò di fianco a lui, Francesco di fronte all’amica, Matteo di fianco a Francesco, la coppia di amici di Marco - Simona e Paolo - dopo Elisabetta e la ragazza da sola -Vanessa - di fianco a Matteo.

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Elisabetta, fasciata in un paio di jeans strettissimi e in un top che lasciava vedere più di quanto coprisse, era euforica e, se possibile, più frizzante del solito.

Marco era molto affettuoso con lei, la baciava in continuazione e le parlava in modo un po’ dolce e un po’ ironico. Era molto più alto di Francesco ma anche di Matteo, con un fisico asciutto ed uno sguardo accattivante. Vestiva in modo casual ma decisamente alla moda e sembrava molto sicuro di sé. Ma era una di quelle persone che, anche se l’hai incontrata cinque minuti prima, ti sembra di conoscerla da sempre. Ti metteva a tuo agio, ti ascoltava quando parlavi, interveniva senza interromperti, era spiritoso, brillante ma mai eccessivo. E aveva una di quelle qualità molto rare: sapeva fare battute anche partendo dai racconti degli altri, senza per forza dover parlare di sé. E con questa dote riusciva a dare ancora un pizzico di ironia in più agli aneddoti di vita che, al contrario, la sua attuale fidanzata sentiva il bisogno irrefrenabile di divulgare. Francesco non poteva crederci ma la sua amica e Marco erano in perfetta sintonia. Elisabetta era raggiante, sempre effervescente ma senza più la solita ansia negli occhi che ti faceva pensare le stesse sempre sfuggendo qualcosa. Il fidanzato, molto più rilassato di lei, sembrava riuscisse a contenere anche le sue angosce e le sue insicurezze. Dopo mezz’ora che li osservava, Francesco pensò alla leggenda di Platone. Narrava che l’uomo e la donna un tempo erano stati un’unica cosa. Ma gli dei, temendo la loro potenza, li avevano divisi. Da allora tutti vagano cercando senza tregua la metà perfettamente compatibile, perché solo così potranno trovare pace. Elisabetta e Marco gli sembrarono quelle due metà. Per quanto felice per l’amica non riuscì a non pensare che, se davvero la leggenda avesse avuto un fondo di verità, lui sarebbe stato destinato a vagare tutta la vita senza pace. Poi gli venne in mente che, quando al liceo il professore di filosofia aveva spiegato questa discriminante teoria platonica, era riuscito a convincersi che forse gli dei avessero diviso qua e là anche qualche coppia di uomini. E se ne era fatto una ragione.

Nell’insieme la serata fu molto positiva. La paella buonissima e le conversazioni leggere e divertenti. Elisabetta raccontò come aveva conosciuto l’attuale fidanzato: li aveva presentati un amico in comune e più precisamente il figlio dell’avvocato presso cui Marco faceva pratica. A quanto pareva lui aveva organizzato autonomamente una cena di gruppo per conoscerla pur non avendola mai vista, fidandosi del solo parere dell’amico. Ma allo stato attuale dei fatti l’amico comune sembrava averci visto giusto.

Simona e Paolo erano una coppia piacevole. Lei dava l’impressione di essere amica di Marco da molto tempo. Insieme rievocarono episodi divertenti della loro infanzia e del periodo della scuola. Ne avevano combinate di tutti i colori, rubato domande di compiti in classe dalla borsa dei professori, assunto sembianze di piante e portabiti per non farsi riconoscere dagli insegnati nel bar dove si erano nascosti per saltare scuola, corretto in sei i quattro delle schede di valutazione prima della firma dei genitori e poi ricorretto il sei in quattro prima della riconsegna.

L’unico neo della serata fu Vanessa. Era la classica donna che, se annusa la presenza di un uomo nel raggio di un chilometro, non sa più quello che fa. Da quello che si era capito, oltre alle due coppie, la ragazza si aspettava che venisse solo Matteo ma con Gloria. E quindi, dato che ignorava la presenza di Francesco, molto probabilmente non era nemmeno a conoscenza della sua totale indifferenza per il genere femminile. Dopo cinque minuti che la osservava senza farsi notare, Francesco pensò a come dovessero essere impazziti gli ormoni di una così, quando,

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invece della terza coppia, si era vista arrivare non uno, ma due uomini da soli e per di più uno dei due bello da impazzire come solo Matteo sapeva essere. Vanessa era piuttosto attraente. Piccolina ma sufficientemente formosa. Con un taglio di capelli volutamente disordinato ed una magliettina che ogni cinque secondi cadeva da una spalla all’altra lasciando scoperte a turno le spalline del reggiseno, rigorosamente di pizzo nero. Inutile dire che civettò in maniera vergognosa con entrambi i ragazzi per quasi metà serata. Poi, verso la fine, iniziò a concentrarsi solo su Matteo. Forse perché informata in bagno da Elisabetta sulle inclinazioni di Francesco o, più probabilmente, perché, dato che la serata volgeva al termine ed era arrivato il tempo di scegliere una preda, aveva optato per quella più gustosa. E Francesco non poteva certo darle torto. Dal canto suo Matteo fu gentile come al solito ma mostrò un palese disinteresse per le continue prove di seduzione a cui era sottoposto. Addirittura non diede segni di reazione nemmeno quando Vanessa, in un ultimo disperato tentativo, salì sulla tavola e, proprio davanti a lui, improvvisò una danza del ventre dicendo che aveva da poco iniziato un corso.

Più tardi, quando tornarono a casa, Elisabetta guardò il fratello incredula.

«Senti, Teo, non so cosa sia successo tra te e Gloria, o diciamo che non me l’hai ancora detto esplicitamente. Ma qualunque crisi ci sia in atto, cosa c’è di meglio di una che te “la mette davanti” per tutta la sera? Oh, morire se le avessi dato una chance!»

Matteo sorrise.

«Lo sai che quelle così non sono il mio tipo…» si limitò a rispondere.

Effettivamente Vanessa e Gloria non avevano molto in comune ma Francesco pensò che lui in periodi di crisi non aveva guardato molto per il sottile. E di sicuro, se il giorno dopo la fine di una storia, gli fosse capitata una situazione analoga ma adatta ai suoi gusti, non se la sarebbe lasciata scappare.

Elisabetta scosse il capo.

«Certo che sei difficile… molto difficile.» disse con affetto.

Matteo la guardò, poi guardò Francesco.

«Molto di più di quanto immagini.» rispose serio.

E nessuno capì cosa volesse dire.

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La mattina dopo si svegliarono tardissimo e il pomeriggio oziarono a lungo tutti e tre. Commentarono la cena del giorno prima e guardarono un paio di film americani molto poco impegnativi, di quelli che potresti seguire leggendo contemporaneamente un libro e senza perderti nessuna fase essenziale. Verso sera Elisabetta propose di andare alle colonne di San Lorenzo a bere un aperitivo. Li raggiunse Marco che si unì a loro. Poi Elisabetta e il fidanzato andarono a trovare Simona e Paolo mentre l’amico e il fratello decisero di tornare a casa.

Dopo cena Francesco seguì Matteo in camera sua per aiutarlo con un articolo che sabato non era riuscito a finire.

«Grazie Fra, sei un amico. Mi bastano due o tre dei tuoi consigli e poi vado avanti da solo. Non voglio far fare notte anche a te.»

Francesco gli sorrise pensando a quanto sarebbe stato felice di farla.

«Figurati, lo sai che mi piace scrivere e… mi piace aiutarti.»

Si sedette alla scrivania e iniziò ad analizzare con attenzione le idee che Matteo aveva già “buttato giù” sotto forma di elenco.

Era un articolo davvero complesso, una spiegazione il più neutrale possibile su “l’altra teoria della strage delle Torri Gemelle”, ovvero l’opinione sconvolgente di alcuni esperti in base alla quale l’atto terroristico sarebbe stato in qualche modo pilotato dal governo degli Stati Uniti per giustificare le ritorsioni e gli attacchi che ne seguirono. La difficoltà non consisteva nella trasmissione lineare e comprensibile a tutti delle prove tecniche, più o meno convincenti, che venivano addotte a supporto di questa tesi. Il vero scoglio da superare era il rischio di non mantenersi imparziali, di far trapelare un’inclinazione e una solidarietà per una delle due parti che un giornale apolitico come quello di Matteo non avrebbe mai permesso.

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Francesco cercò di raccogliere tutta la concentrazione possibile per aiutare l’amico. Metteva molto più impegno nel sistemare i suoi articoli che nelle proposte di body line che ogni tanto la madama, a corto di colleghi copy-writer, gli chiedeva di partorire.

Sentì Matteo uscire dal bagno e avvicinarsi a lui da dietro. Poi avvertì la sua mano sulla spalla e il solito brivido di ogni volta che per qualsiasi motivo entrava in contatto con lui. Si girò e abbozzò un sorriso.

«Cazzo, Teo, sto’ articolo è un casino!»

«Grazie Fra…»

«Figurati.»

«Non per l’articolo.»

«Per cosa?»

«Perché ci sei.»

Matteo lo guardava come se dell’articolo non gli interessasse nulla. Lo fissava con gli occhi trasparenti, come non l’aveva mai fissato. O forse era la prima volta che Francesco fu sicuro di non aver frainteso. Restò immobile, come ipnotizzato da quello sguardo tutto suo, mentre l’amico si chinava su di lui. E gli accostava il viso sfiorandogli gli occhi con le labbra. E scendeva lungo la curva del naso. Poi successe. Sentì le labbra di Matteo sulle sue. Schiuse la bocca senza accorgersene e assaporò le loro lingue languidamente intrecciate. Un brivido, quasi una fitta dolorosa, lo attraversò dalla schiena allo stomaco. Un ronzio nelle orecchie. Si alzò e iniziò a baciarlo con impeto, ovunque, sul mento, sul collo, sugli occhi, sul naso mentre con le mani tentava di slacciargli la camicia. Cercò con tutta la forza che gli rimaneva di fare attenzione, ma fu quasi sicuro che qualche bottone fosse saltato. Matteo lo ostacolava involontariamente sfilandogli la maglietta. Continuava ad annaspare con la lingua sul suo collo, sul suo petto, sulle sue braccia, sui suoi capezzoli. Francesco lo girò premendosi contro la sua schiena. Avvertì i loro busti nudi, forti, a contatto. Gli slacciò i jeans accarezzandolo ovunque mentre gli abbassava l’elastico dei boxer. Sentì le mani di Matteo che, da dietro, risalivano le sue gambe, sfioravano l’inguine e iniziavano a toccarlo attraverso i pantaloni di tela. Non capì più niente. Le guance in fiamme. Le orecchie che scottavano. Lo spinse per terra mentre con una mano finiva di sfilarsi i pantaloni e con l’altra cercava disperatamente un preservativo.

Gli si inginocchiò da dietro e, per quanto gli permettesse la fretta impulsiva che lo pervadeva, cercò con la lingua di rendere il meno dolorosa possibile quella che per l’amico doveva essere la prima volta. E finalmente entrò dentro di lui.

Gli sembrò che ansimasse sempre più affannosamente. Sentì i loro respiri che correvano insieme. Sentì le loro mani sul sesso di Matteo che si muovevano velocemente insieme. E sentì i loro ultimi gemiti liberatori finire insieme.

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Fu l’unica volta che lo scopò senza sentirsi in colpa per il piacere che provava. Strinse con tutta la sua forza quel corpo che aveva tanto desiderato e pianse. Le lacrime gli scendevano sulle guance, lungo il collo, bagnavano la schiena di Matteo.

«Scusa… Teo.» mormorò confuso.

Matteo si girò, gli occhi pieni di lacrime.

«Scusa tu, Fra.»

«Di cosa?»

«Di averti tolto tutto questo per un anno.»

Francesco iniziò a baciarlo ovunque, a bere le loro lacrime che si univano, a cercare ancora la sua bocca. Fecero di nuovo l’amore. Leccò il suo corpo, a lungo, ma al momento decisivo sentì quel senso di colpa che non lo avrebbe più lasciato.

Continuò a baciarlo per dargli piacere.

Matteo lo fissò senza capire.

«Cosa fai? Ti supplico, Fra. Come prima…»

Se lo appoggiò sulle gambe e lo accontentò con tutta la dolcezza di cui fu capace. Gli baciava le mani, il collo, il viso. Gli accarezzava il petto, le spalle, le cosce. Cercava di pensare solo a lui. Dimenticando se stesso. Ma non riusciva a non sentirsi sbagliato. Possederlo per lui era lo stesso molto di più di quanto credeva di meritarsi.

E invece Matteo lo guardò a fondo.

«Lo sai, Fra?» gli disse con gli occhi pieni di riconoscenza. «L’ho sognato tante volte, la notte. Ed era proprio così. Sempre.»

Francesco gli baciò la fronte. Lui era un anno che lo sognava, tutte le notti, tutte le mattine, tutte le sere, ma così dolorosamente bello non avrebbe potuto immaginarselo.

Poi si alzò e andò alla scrivania.

L’amico si avvicinò.

«Cosa fai?» gli chiese.

«Finisco il tuo articolo sennò domani cosa dici al tuo capo?»

Matteo si sedette per terra, tra le sue gambe e iniziò ad accarezzargli le ginocchia.

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«Gli dico che ho scopato con te… tutta la notte… e che dell’articolo non me ne frega un cazzo.»

Si addormentarono tardissimo l’uno sull’altro. La mattina Francesco aprì gli occhi all’alba. Lo vide. Respirò il suo odore. Provò una fitta di felicità.

«Teo, vado in camera mia prima che arrivi qualcuno.» sussurrò baciandogli il viso.

L’amico lo trattenne nel sonno, lo implorò con lo sguardo di restare, poi, vedendolo deciso, lo liberò lasciandosi ricadere all’indietro. Francesco sentì una fitta dolorosa, quella fitta dolorosa che avrebbe imparato a prevedere ogni volta che, per qualsiasi motivo, il suo corpo sarebbe stato costretto a staccarsi da quello di Matteo.

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Entrò nella sua cameretta, andò in bagno, si sciacquò il viso e si guardò nel piccolo specchio sopra il lavandino. Cercò di vedersi dall’esterno e di capire se gli si leggesse in faccia quello che gli era appena successo. Non avrebbe mai voluto che i genitori di Matteo se ne accorgessero. Voleva proteggerlo da qualsiasi difficoltà, da qualsiasi inevitabile sofferenza che avrebbe necessariamente provato se mai qualcuno avesse scoperto quel segreto appena nato.

Ogni volta che ripensava ad uno dei tanti momenti di quella notte si sentiva avvampare. Capì a fondo cosa volesse dire l’espressione “tuffo al cuore” usata così spesso impropriamente. E’ la stessa sensazione che si prova quando la navicella delle montagne russe sale, sale: tu sai che poi scenderà in picchiata, eppure, quando succede, ti coglie sempre un po’ di sorpresa. E’ come se il cuore dolorante ti schizzasse fuori e ti sembra che, solo comprimendoti il petto, tu possa trattenerlo.

Quella mattina e per molti giorni Francesco si sentì così, come se fosse sempre sulle montagne russe. I ricordi di qualche frase, di qualche gesto che non avrebbe mai pensato di ricevere lo coglievano all’improvviso stordendolo e impedendogli qualsiasi forma di concentrazione, fosse anche solo il piccolo impegno di guardare un telegiornale.

Si vestì in qualche modo, scese le scale e si presentò in tinello con gli occhi pieni di sonno.

Maria lo guardò perplessa mentre portava in tavola il pane appena tostato.

Rebecca stava discutendo con Enrico sull’opportunità di partecipare o meno ad una cena dei Lions che, gli sembrò di intuire, si sarebbe tenuta sabato sera.

Elisabetta era insolitamente silenziosa, impegnata a spalmare una fetta di pane con burro e marmellata. Francesco la ringraziò in cuor suo perché probabilmente in quel momento avrebbe avuto delle difficoltà a seguire la sua consueta mitragliata di parole.

«Sonno? C’hai una faccia…» chiese solo, guardandolo distrattamente.

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Lui non rispose, abbozzò un sorriso impacciato e iniziò a giocherellare con un biscotto senza decidersi a mangiarlo.

Matteo, il suo Teo, non era ancora arrivato. Entrò in tinello qualche secondo dopo con un viso, se possibile, più stravolto del suo.

A Francesco sembrò facilissimo per chiunque fare una semplice associazione di idee tra le loro due facce distrutte, nonostante la sera prima non si fossero mossi nemmeno di casa. Ma gli altri molto probabilmente erano più che distanti da un’idea del genere. Matteo biascicò un “buongiorno a tutti” che più che altro si intuiva data l’ora della giornata. Si sedette al suo solito posto tra la madre e la sorella e lo fissò con uno sguardo che gli sembrò inequivocabile per chiunque lo vedesse. Poi, senza alcuna paura e incurante di tutti gli altri membri della famiglia, gli sorrise con gli occhi pieni di gratitudine. Francesco, nonostante i buoni propositi fatti poco prima davanti allo specchio, sentì la faccia prendergli fuoco. Abbassò lo sguardo, appoggiò il biscotto non ancora addentato e, con tutto l’amore di cui era capace, versò il caffè a Matteo. L’amico, quando la tazza fu quasi piena, lo fermò appoggiando per qualche secondo la sua mano su quella di lui. A Francesco sembrò di non farcela più. Avrebbe voluto abbracciarlo, baciarlo come la sera prima.

Invece gli sorrise soltanto e si alzò.

«Eli, vado un po’ prima.» disse «Ti spiace? Ho mille cose da fare. Ti lascio la macchina. Prendo il tram. Ci vediamo là. Se hai problemi per il parcheggio, chiamami.»

«Tutto bene? Hai bisogno di aiuto? Vuoi che venga prima anch’io?» chiese l’amica premurosa.

«No, grazie lo stesso. E’ solo che venerdì non ho finito di scrivere il brief del radio e volevo averlo pronto per il progress. Buona giornata a tutti.»

Poi, con la maggior naturalezza possibile, aggiunse:

«Ciao, Teo. Spero che l’articolo delle Torri vada bene.»

Matteo lo guardò confuso e mormorò un “grazie” che non si capiva se fosse per l’articolo o per tutto il resto.

Quando Francesco era già sulla porta di casa, lo raggiunse nell’ingresso.

«Scusa, Fra, solo un attimo.» disse forte come se fosse la cosa più normale del mondo. Poi gli si avvicinò, si voltò per assicurarsi che nessuno lo avesse seguito e gli prese le mani.

«Tutto bene? Ho fatto qualcosa che non va? Se.. se ho sbagliato qualcosa, ti chiedo scusa.» sussurrò.

Francesco non trovò nessuna spiegazione logica a quelle domande senza senso.

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«Cosa dici?» Lo guardò con una dolcezza infinita. Abbassò lo sguardo, sollevò le mani di lui, se le premette contro il viso e le baciò lasciando le labbra appoggiate per qualche secondo.

«Teo, l’articolo l’ho finito davvero. Ho cercato di usare il tuo stile.»

«Ma quando lo hai finito? Mi sembrava di averti interrotto.» E nella sua voce c’era una sfumatura di malizia.

«Quando sono andato in bagno, stanotte.»

Una volta fuori si sentì avvolgere dal fresco tepore di aprile e capì che era iniziata la stagione dei fiori. Di quasi tutte le primavere della sua vita ricordava il giorno in cui inaspettatamente ne aveva realizzato l’inizio. Era sempre stata una sensazione deliziosa e malinconica al tempo stesso. Un’emozione che lo coglieva di sorpresa e che si ripeteva ogni anno uguale, indipendentemente dal suo stato d’animo nei diversi periodi della sua esistenza. Una volta, molti anni prima, durante il liceo, aveva trascorso le vacanze di Pasqua chiuso in casa. Si era trascinato per tutti i sette giorni dal divano al letto e viceversa con un’espressione apatica e le potenzialità motorie/intellettive ridotte al solo atto di rivolgere lo sguardo al soffitto. Si sentiva triste, quasi impotente, con un senso di oppressione come se la gabbia toracica premesse forte contro il cuore. Non sapeva bene nemmeno lui spiegarsi la causa scatenante di un’angoscia così profonda. C’erano tanti motivi. Si sentiva solo. Quasi tutti i suoi compagni di classe erano fidanzati con le alunne delle altre sezioni. Facevano le prime esperienze dell’amore, mentre lui lottava giorno dopo giorno con la difficile accettazione della sua attrazione per gli uomini e per quegli stessi compagni che gli raccontavano i loro primi baci di passione. Erano gli anni in cui lottava per farsi accettare da se stesso. Ed era stata la lotta più estenuante. Al settimo giorno era uscito sul balconcino della sala di casa sua e si era sentito investire dalla primavera. L’emozione era stata la stessa anche quella volta. Forte, inaspettata, dolcissima. Nonostante l’angoscia profonda di quella settimana. Nonostante la quotidiana battaglia per non soccombere sotto il peso della sua diversità.

Pensò a Matteo, alla sua lotta molto più recente, una lotta di cui non sapeva nulla.

Pensò a come anche lui dovesse essersi sentito solo e impotente e soffrì per lui più di quanto avesse mai sofferto per se stesso.

Raggiunse la Rotonda della Besana, percorse via Pace e alcune stradine collegate e si ritrovò in via della Commenda davanti ad una delle numerose entrate del Policlinico. Da quella porta si accedeva per fare gli esami del sangue. Entrò, percorse i lunghi corridoi, seguì le indicazioni e si presentò all’accettazione.

«Buongiorno, vorrei fare il test dell’AIDS.» disse tutto di un fiato all’impiegata che lo fissava in attesa.

«Sì, certo. Ha con sé il tesserino sanitario elettronico e l’impegnativa del medico?»

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Francesco prese il mazzetto di schede che teneva alla rinfusa nel portafoglio e iniziò a sfogliarlo come un giocatore che cerca i jolly di un mazzo di carte. Le mani gli tremavano ma dopo qualche secondo trovò il rettangolino giallo plastificato. Poi spiegò un fogliettino bianco e rosso. Lo portava con sé da chissà quanto tempo ed era talmente sgualcito da risultare quasi illeggibile. Lo consegnò alla signora della reception senza guardarla negli occhi.

«Bene. Può accomodarsi nella sala d’aspetto a destra. Tra poco le faranno il prelievo. Prima il medico le porrà alcune domande. I risultati saranno pronti tra circa una settimana.»

Si sedette nella saletta d’attesa e cercò senza successo di dare un’occhiata ad un giornale. Non si era mai deciso a fare quel benedetto test. Tante volte se lo era ripromesso ma poi c’era sempre stato un validissimo motivo per rimandare. Si era sempre ripetuto che in fondo non aveva mai rischiato e che, nonostante le tante situazioni assurde in cui si era trovato, aveva sempre cercato di essere prudente. Ma adesso era tutto diverso. Adesso c’era Matteo. Matteo non c’entrava nulla con gli squallidi incontri di prima in cui il piacere e la frustrazione si alternavano in un testa a testa senza vincitori. Matteo meritava solo amore. Pregò con tutto se stesso di essere sano, non per paura di morire, ma per il dolore attanagliante che avrebbe provato nel dover rinunciare a lui se si fosse scoperto malato.

Poi sentì la voce del medico.

«Signor Ghezzi Francesco? Prego si accomodi. Mi scusi ma sono costretto a farle alcune domande, diciamo, personali.»

«Non c’è problema.» mormorò Francesco senza riuscire a guardarlo in faccia.

«Innanzitutto mi dovrebbe dire se abitualmente ha rapporti occasionali non protetti.»

Francesco annaspò, poi si fece coraggio e guardò il dottore.

«Fino ad oggi ho avuto abitualmente rapporti occasionali.» disse. «Diciamo sempre protetti nel limite del possibile.»

«E’ venuto a conoscenza di malattie che abbiano interessato qualcuna delle compagne occasionali e non con cui è entrato in contatto?»

«No. Ma non sarei in grado di escluderlo. Soprattutto perché non si tratta di compagne ma di compagni.»

Il medico, impassibile, finì di scrivere e chiamò l’infermiera per il prelievo.

«Bene, signor Ghezzi,» gli spiegò prima di liquidarlo. «come le ha detto l’impiegata, per gli esiti ci vuole circa una settimana. Considerata la sua specifica esperienza mi sentirei di consigliare di ripetere i tre richiami del test anche in caso di esito negativo del primo. Se ha qualsiasi domanda, mi dica pure.»

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«No, grazie. E’ tutto chiaro. Buona giornata.» Francesco strinse la mano al dottore e uscì dalla stanza.

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20.

 

 

 

 

 

 

«Fra, tutto bene? Sei fra noi?» La voce di Elisabetta lo riportò alla realtà.

Da circa tre ore stavano tentando di analizzare le proposte di una campagna stampa da sottopporre al cliente. Francesco le fissava senza riuscire assolutamente ad estrapolare il messaggio trasmesso dai fogli che la collega gli metteva davanti al naso. Sentiva la voce di lei ma, malgrado ce la mettesse tutta, non era in grado di trattenere nessuno dei concetti che Elisabetta esprimeva con la solita enfasi.

«Scusa, Eli. Oggi ti ho fatto lavorare da sola. Non ci sono con la testa. E’ tutto a posto ma se non ti spiace preferirei finire di valutare questa roba domani mattina.»

«Sicuro che sia tutto ok? C’è qualcosa che non so?»

«No, davvero.» disse nel modo più convincente possibile. Probabilmente sarebbe risultato più credibile un bambino che nega di aver mangiato la marmellata mentre con il dorso della mano si pulisce la bocca completamente imbrattata.

«Va beh, lasciamo perdere… Posso offrirti un aperitivo?»

«Grazie, Eli. Sono stravolto. Ho proprio bisogno di tornare a casa. Ti spiace?»

«No, no, ho capito. Devi uscire…»

Uscire? Magari fosse stato così facile…. Doveva vedere Matteo. Sentiva di non farcela più. La sua riserva di autonomia si stava esaurendo. Doveva ricaricarsi in fretta.

Guidò veloce per tutto il tragitto. Schiacciò l’acceleratore con l’urgenza dell’amore. Rischiò un paio di volte di passare con il rosso. Lui che non aveva mai preso una multa in quasi otto anni di onorata carriera automobilistica. Elisabetta, seduta al suo fianco, ebbe la pietà di non fargli altre domande.

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Non sapeva se Matteo fosse già tornato. Una parte di lui pregava con tutto il cuore che fosse già lì ad aspettarlo mentre l’altra sperava di essere il primo a rientrare. Sì, perché non era giusto che il suo Teo lo aspettasse!

Ad un certo punto un dubbio gli tolse il fiato, gli fece quasi perdere il controllo della macchina: e se Matteo avesse fatto finta di niente? Se avesse deciso di considerare la notte prima come un episodio? Magari solo un’esperienza da fare per dire di aver provato tutto dalla vita… Si sentì morire… gli sembrò che la macchina perdesse aderenza con il suolo e che lui perdesse aderenza con la macchina… Poi si ricordò dei suoi occhi trasparenti che lo guardavano pieni di desiderio. Se anche fosse stata l’unica volta e non fosse successo mai più… sarebbe valsa la pena di vivere tutta la vita solo per quel momento.

Varcarono la soglia di casa. Come sempre Daniel, il maggiordomo, andò loro premurosamente incontro per farsi consegnare le giacche. Come sempre Elisabetta gli diede la sua con l’educazione disinvolta di chi è abituato a ricevere certe attenzioni. E lui, come sempre, con il consueto imbarazzo, fece un cenno per lasciar intendere che preferiva fare da solo. Era cresciuto in un ambiente molto più modesto per quanto i suoi fossero piuttosto benestanti e non gli avessero mai fatto mancare nulla di fondamentale. Di sicuro, però, quando rincasava nessun cameriere lo attendeva sulla porta. Anzi di solito, dopo al massimo dieci minuti, si sentiva la voce della madre che gli gridava: «Checco, è possibile che come arrivi devi sempre seminare le tue cose per tutta la casa? Passo tutto il giorno a cercare di mettere ordine. Appendi almeno la tua giacca, invece di piantarla dove capita. Non sono la tua cameriera, sono tua madre!» Ma una cosa era lasciarla in giro dove capitava, un’altra era farsela appendere da qualcuno. Proprio non ce la faceva, gli sembrava di mancargli di rispetto, di trattarlo come un maggiordomo. E così, dopo il solito gesto impacciato che metteva a disagio sia lui sia il povero Daniel, si infilava nel guardaroba di fianco all’ingresso. Era una piccola stanza, piccola rispetto alle dimensioni degli altri vani dell’attico ma in realtà grande come lo studiolo fatto ricavare da suo padre nel loro appartamento di Milano. Aveva le pareti foderate di velluto rosso e dei faretti alogeni disposti lungo tutto il perimetro del soffitto. Dopo mesi che frequentava quella casa non era ancora riuscito ad abituarsi all’idea che venisse utilizzata solo come deposito di soprabiti e cappotti.

Salutò tutti velocemente ma lui non c’era. Salì in camera sua per darsi una rinfrescata. Nel breve tragitto riuscì a voltarsi indietro e a guardare l’orologio almeno dieci volte.

Poi aprì la porta. Matteo era lì, seduto sul suo letto, più bello di come lo aveva lasciato.

Gli si inginocchiò davanti, gli appoggiò la testa sulle gambe e lo strinse forte.

«Scusa… è tanto che mi aspetti?»

«Ciao… mi sei mancato… non ce la facevo più… Oggi mi sembrava di impazzire… Ho avuto paura che decidessi di fermarti fuori con mia sorella….»

«Mi spiace… piccolo mio…. Mi spiace tanto… Mi perdoni?» E lo guardò per leggere nei suoi occhi l’effetto di quel vezzeggiativo che tante volte avrebbe voluto usare.

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«Sì, ti perdono… se me lo ridici…»

«Se ti ridico cosa?»

«Come mi hai chiamato?»

«Vieni qui, piccolino…» E iniziò a coprirgli il viso di baci.

Matteo gli sfiorò le labbra con la lingua e cominciò ad accarezzarlo ovunque.

«Buono, Teo… Adesso tua madre ci chiama per la cena….»

«Non ho fame…» disse senza smettere neanche un secondo.

«Nemmeno io ma non possiamo non presentarci a tavola tutti e due.»

«Perché non possiamo?… Ho un articolo molto difficile da scrivere…» sussurrò languidamente.

Poi la voce di Rebecca che pronunciava i loro nomi da sotto le scale li riportò alla realtà e scesero in tinello.

Mangiarono tutti e due pochissimo e parlarono ancora meno.

«A che ora devi uscire, Fra, questa sera?» gli domandò Elisabetta tra una patata al forno e l’altra.

«Non esco, Eli. Se la tua è ancora dal carrozziere, puoi prendere la mia macchina.»

L’amica lo fissò incredula.

«Ma…. veramente avevo capito…»

«No…. ti ho detto che ero stravolto.»

Matteo gli rivolse un sorriso di riconoscenza così esplicito che gli sembrava impossibile che nessun altro, ad accezione di lui, ne avesse colto il significato. Francesco avvampò e, per nascondere l’imbarazzo, cercò di fissare il piatto con lo stesso interesse con cui si viene rapiti da un quadro di Van Gogh. Non sapeva se ringraziare in cuor suo l’amica per quella domanda che gli aveva involontariamente regalato quel sorriso o se avercela con lei per aver fatto credere al suo Teo, anche se solo per un secondo, che lui potesse essere stato così insensibile da prendere un impegno proprio quella sera. Pensò a come si sarebbe sentito lui al posto dell’amico, pensò alla navicella delle montagne russe che quasi si staccava dal circuito e decise che avrebbe con tutto il cuore preferito che Elisabetta si risparmiasse un’uscita così infelice. Povera Elisabetta, lei non poteva certo sapere!

«Ragazzi, sabato sera abbiamo deciso di organizzare qui da noi l’incontro dei Lions.» La voce di Rebecca rivolta ai figli lo fece riemergere dai suoi quesiti d’amore. «Un piccolo rinfresco, niente

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di impegnativo. Dovreste essere così gentili da non prendere impegni o da disdire quelli che avete già, perché mi farebbe piacere che foste presenti anche voi. Io e vostro padre pensiamo che sia una buona occasione per far conoscere a tutti la nostra famiglia unita.»

Chissà, forse era orgogliosa della sua famiglia e voleva farla vedere a tutti. O forse “una famiglia unita” era una specie di “conditio sine qua non” per far parte dei Lions.

Poi si rivolse a lui nel modo più disinvolto possibile.

«Francesco, se non hai preso impegni e vuoi unirti a noi….»

E chissà, forse gli stava chiedendo di restare per dare un’immagine ancor più caritatevole della sua famiglia tanto ospitale verso un amico dei figli. O forse temeva che qualcuno potesse intuire le sue inclinazioni e pregava in cuor suo che Francesco avesse già preso un impegno o avesse il buon gusto di inventarne uno.

Francesco abbozzò solo un “grazie” che lasciava spazio a qualsiasi decisione. Voleva parlarne con Matteo e far decidere lui. Avrebbe voluto che d’ora in avanti l’amico decidesse tutta la sua vita. Avrebbe voluto chiedergli il permesso per tutto. Per uscire, per restare, per mangiare, per addormentarsi la notte.

Non appena fu possibile, sgattaiolarono via con la solita insospettabile scusa dell’articolo ostico da finire. Andarono in camera di Matteo. Iniziarono a baciarsi sulle scale rischiando di essere visti e fecero l’amore sul pavimento, di fianco alla porta, incapaci di aspettare fino al letto. Poi si sdraiarono senza smettere di sfiorarsi con le mani, quasi per avere continue conferme della realtà.

Matteo accarezzò il cerotto sul braccio sinistro di Francesco. Non disse nulla. Francesco abbassò lo sguardo senza il coraggio di incontrare i suoi occhi e fissò involontariamente le braccia dell’amico. Anche lui aveva lo stesso, inequivocabile cerotto.

Si guardarono senza parlare, cercando di trasmettersi tutta la paura e tutto l’amore che si nascondeva sotto quel piccolo segno.

«Teo… io...» farfugliò Francesco dopo alcuni secondi.

Matteo lo zittì appoggiando le labbra sulle sue.

«Schh… Fra, non m’importa… io ti amo.»

A Francesco sembrò che la navicella delle montagne russe facesse il giro della morte per poi rimetterlo dritto e completamente scombussolato. Lo fissò con la stessa incredula felicità di un bambino che vede entrare Babbo Natale dalla porta.

«Anch’io ti amo.»

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Come la notte precedente e come molte a seguire, si fermò a dormire lì fino all’alba. Non appena la luce iniziava a rischiarare la stanza, si sfilava dal letto e da Matteo che ogni volta cercava di trattenerlo. Poi andava in camera sua a sdraiarsi ancora qualche minuto e a farsi la doccia.

Facevano l’amore in qualsiasi momento. Bastava un movimento impercettibile ed involontario di uno dei due sul corpo dell’altro per farli incendiare. Il resto della notte parlavano senza smettere di accarezzarsi i capelli, il viso, il corpo. Come se in un mese dovessero recuperare un anno di attenzioni negate.

«Fra…. per la cena di sabato… insomma… facciamo quello che vuoi tu. Forse preferisci che usciamo solo noi due…» gli sussurrò Matteo una di quelle notti tra una carezza e l’altra.

Francesco lo guardò perplesso.

«Veramente pensavo che tu partecipassi di sicuro. Aspettavo solo che decidessi cosa dovevo fare io.»

«Cosa dici? Quello che fai tu faccio anch’io!» Poi abbassò il capo.

«A meno che tu non preferisca uscire da solo…. » continuò timidamente. «Se è così… beh non c’è problema. Quando torni sarò qui che ti aspetto.»

«Uscivo solo se preferivi che non mi fermassi. Sai, magari i tuoi si vergognano di avere un gay che gira per casa…»

Lo fissò attonito.

«Stai scherzando? Se è solo per questo…. Ti prego, rimani»

Francesco annuì. Lo avrebbe fatto per Matteo. Sarebbe rimasto anche se fosse stato sicuro di essere ricoperto di insulti per tutta la sera. Non gli avrebbero mai fatto male come deludere quegli occhi che amava con tutto se stesso.

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21.

 

 

 

 

 

 

Entrò in casa e salì le scale di corsa anche se la partita di calcetto, finita mezz’ora prima, gli aveva prosciugato tutte le energie. Matteo era andato al giornale nonostante fosse sabato ma c’erano buone probabilità che fosse già arrivato. E Francesco non voleva farlo aspettare nemmeno un minuto. Tanto più che la sera ci sarebbe stato il ricevimento dei Lions e non sarebbero potuti stare da soli. Elisabetta uscì dalla sua stanza con addosso un vestitino turchese.

«Ciao, Fra. Dove vai così di corsa? Sono solo le cinque. Gli ospiti inizieranno ad arrivare alle sette.»

Francesco si fermò imbarazzato.

«Ah, ciao Eli. No è che… devo fare ancora la doccia. E non so nemmeno come vestirmi.»

«E come vuoi vestirti? Un pantalone e una giacca. Non è che voi uomini avete molte alternative. A proposito, come sto?» e fece una giravolta su stessa continuando a guardarlo con la coda dell’occhio.

«Stai benissimo. Quando ti vede Marco dà fuori di matto.»

L’amica lo fissò perplessa.

«Alla fine ho deciso di non invitarlo. Troppo presto per farlo conoscere a tutti ufficialmente.»

«Non so, devi vedere tu. Comunque volevo dirti che.. lui mi piace.»

Elisabetta lo guardò con un’espressione scherzosamente corrucciata, alludendo ai loro gusti comuni.

«No… cosa pensi? Intendevo dire che mi piace insieme a te.» precisò subito Francesco. «e… ovviamente la scelta di invitarlo stasera o meno è solo tua. Ma sono certo che, quando glielo presenterai, avrà la benedizione anche dei coniugi Neri.»

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«Speriamo, Fra.» sospirò lei e rientrò nella sua stanza.

Lui spinse piano la porta della camera di Matteo e diede un’occhiata in giro. L’amico non era ancora arrivato. Decise di aspettarlo nella sua cameretta, intanto avrebbe scelto il vestito per la sera. Ma quando entrò, lo trovò lì, sdraiato sul suo letto. Si era addormentato così profondamente che nemmeno lo sentì aprire la porta. E non c’era da stupirsi visto che entrambi avevano un’intera settimana di sonno arretrato. Avevano dormito pochissime ore per notte. Quasi che dormire fosse una perdita di tempo. Tutto tempo sottratto alle coccole e all’amore. E quindi assolutamente sprecato. Ma adesso Matteo, nonostante i probabili buoni propositi di sommergerlo di baci non appena fosse entrato, non era riuscito a mettere a tacere i suoi bisogni primari.

Era bellissimo mentre dormiva. Lo coprì con un lenzuolo di ricambio che Maria aveva lasciato nel suo armadio su istruzioni di Rebecca. «Nel caso le servisse per qualsiasi motivo.» aveva detto e Francesco si era chiesto a cosa mai sarebbe potuto servirgli, dato che una volta alla settimana la domestica provvedeva a cambiare la biancheria di tutte le stanze. Adesso, mentre lo adagiava con dolcezza su quel corpo adorato, addormentato su un fianco, pensò che quello fosse un validissimo motivo per avere un lenzuolo in più nel suo armadio.

Poi prese una sedia e si sedette di fianco all’amico. Gli piaceva guardarlo mentre lui non lo sapeva. Tante volte in quell’anno sarebbe voluto entrare nella sua camera di notte solo per osservarlo mentre dormiva.

Dopo poco Matteo si svegliò. Aprì gli occhi e, per qualche secondo, rimase sconcertato.

«Fra, sei arrivato? Non ti ho sentito entrare. Perché non mi hai svegliato?»

«Perché adoro guardarti mentre non mi vedi.» e mise una mano nei suoi capelli spettinati.

Matteo si sollevò sui gomiti per baciarlo.

«Come mai mi aspettavi qui?» gli chiese Francesco.

L’amico sorrise.

«Spesso, in questi giorni, quando non c’eri e nessuno mi vedeva sono venuto in camera tua. L’ho fatto perché, quando la mattina presto te ne vai per tornare qui, io mi sento morire ma, perlomeno, il mio letto è tutto impregnato del tuo profumo. E pensavo che anche tu volessi sentire il mio.»

Più volte durante quella settimana gli era sembrato di respirare l’odore dell’amico sul suo cuscino, tra le sue lenzuola. Ma aveva creduto che fosse lui, talmente imbevuto e avvolto da quell’essenza irresistibile, a sentirla ovunque.

Lo guardò commosso per quella premura così piccola e così grande e iniziò a riempirlo di baci.

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«Lo hai fatto perché sai che il tuo odore mi fa impazzire, vero?»

«No. L’ho fatto perché il tuo mi fa venire i brividi e… non solo quelli.» mormorò Matteo ansimando sul suo petto e cercando già di sfilargli impaziente la maglietta.

Ormai il buon senso non li avrebbe più fatti fermare, nonostante fossero le cinque del pomeriggio e chiunque potesse entrare in quella stanza da un momento all’altro. Francesco prese Matteo per mano e lo trascinò in bagno chiudendo la porta a chiave.

 

Erano lì, completamente nudi e seduti sul pavimento freddo. Matteo era appoggiato alla parete nel poco spazio tra il lavandino e la doccia. Accarezzava i suoi riccioli mentre lui se ne stava semisdraiato tra le sue gambe.

«Da stanotte vorrei che stessimo qui da te.» gli disse piano l’amico nell’orecchio.

Francesco si girò e lo guardò perplesso.

«Ma, Teo, il mio è un letto singolo!»

«Lo so. Ma tanto fino ad ora del mio non ne abbiamo mai usato più di metà. Non voglio più che sia tu a doverti alzare così presto per tornare qui. Preferisco farlo io.»

«Perché?»

«Perché ti amo.»

«Anch’io ti amo e quindi, dato che tu oltretutto hai una camera e un letto più comodi, continuiamo a dormire da te.»

«Veramente dormire non mi sembra la parola più adatta…» precisò Matteo sorridendo e girandogli il viso per baciarlo.

«Va bene, allora diciamo che continuiamo a scopare da te. Va meglio?»

«Molto meglio.»

 

Verso le sette iniziò a sentire il piano di sotto popolarsi di gente e decise di scendere. Si erano separati tardissimo e lui aveva deciso al volo cosa mettere. Aveva scelto un vestito fresco lana sulle tonalità del grigio, lo aveva abbinato ad una camicia rosino pallido e ad una cravatta in tinta. Si era dato un’occhiata allo specchio ed era rimasto piuttosto soddisfatto.

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Entrò in salotto. Matteo era già lì e parlava insieme a sua madre con una coppia di mezza età. Indossava un completo blu scuro ed era davvero elegante. Lo aveva quasi sempre visto vestito casual perché anche per andare al giornale era sempre piuttosto sportivo. Ebbe voglia di abbracciarlo da dietro, buttandogli le braccia sulle spalle e iniziando a baciargli il collo. Poi si ricordò che per tutta la sera sarebbe dovuto stare attentissimo a non tradirsi in nessun modo. L’amico si girò, lo vide e gli fece cenno di avvicinarsi. E sentì Rebecca che diceva:

«Patrizia, Edoardo, lasciate che vi presenti Francesco. E’ un collega di Elisabetta che si è trasferito da noi per un periodo. Francesco, l’avvocato Vignali e sua moglie.»

Francesco strinse la mano ad entrambi e scambiò qualche frase di rito prima che la signora Vignali chiedesse al marito di accompagnarla al buffet. Rebecca fece loro strada e lui e Matteo rimasero soli, al centro del salotto pieno di gente. L’amico gli si avvicinò con disinvoltura.

«Sei bellissimo.» gli sussurrò in un orecchio.

Lui sorrise temendo che qualcuno si potesse accorgere del suo imbarazzo.

«Anche tu. A che ora se ne andrà tutta questa gente?»

«Purtroppo non penso prima di mezzanotte.»

«Non credo che riuscirò ad aspettare così tanto. Non è che magari più tardi ci chiudiamo in camera tua con una scusa?»

«Ma sei insaziabile!» disse Matteo fingendosi sconsolato.

«No, sei tu che non mi basti mai.»

Poi li raggiunse Elisabetta. Il suo abitino turchese le stava d’incanto.

«Ecco qui amico e fratellino, tutti infighettati. Allora, vi piaccio?»

Matteo la guardò ammirato.

«Stai molto bene. Peccato che tu non abbia invitato Marco.»

«Magari la prossima volta. Anche se sinceramente spero che abbiano il buon gusto di non organizzare spesso queste seccature. Andiamo a prendere qualcosa da bere? Magari il tutto ci diventa un pochino più sopportabile.»

Più della metà della serata trascorse tediosamente tra una chiacchiera di circostanza e l’altra. Gli invitati erano quasi tutti della stessa età di Rebecca ed Enrico o più anziani. Francesco si chiese come i genitori di Matteo potessero trascorrere in modo tanto noioso un buon numero dei loro sabati, o almeno di quelli in cui rimanevano a Milano.

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Grazie al cielo Elisabetta lo seguì come un’ombra per tutta la sera. Approfittò per aggiornarlo sugli ultimi messaggini d’amore di Marco, senza dimenticare di specificare per ogni sms di lui la risposta scritta da lei. Ad un certo punto una coppia di amici dei suoi genitori si avvicinò per salutarla: sembrava la conoscessero da molto tempo.

Lei era una signora magrissima, con i capelli color miele raccolti in un’acconciatura molto ricercata. Indossava un tailleur color corallo. I lineamenti del viso erano irregolari e spigolosi ma la pettinatura e l’abbigliamento erano talmente sofisticati che a primo acchito sarebbe potuta sembrare una bella donna.

Il marito portava un gessato blu con la disinvoltura di chi veste così tutti i giorni. Era un uomo distinto, piuttosto alto, che parlava senza mai guadarti negli occhi.

Elisabetta li presentò come il dottore e la dottoressa Mora ma non specificò di cosa si occupassero.

La signora Mora baciò Elisabetta e si presentò a Francesco affabilmente. Il marito fece altrettanto ma la sua espressione lasciava chiaramente intendere che avrebbe voluto essere da tutt’altra parte. Poi la dottoressa si rivolse ad Elisabetta.

«Ah, bene, Bettina. Così abbiamo conosciuto il tuo fidanzato. Rebecca mi ha accennato qualcosa l’altra sera a teatro.» disse ammiccando verso Francesco senza mancare di squadrarlo.

«No, Eleonora. Non è il mio fidanzato, è un mio collega. Attualmente abita qui da noi.»

«Oh, scusami Bettina. Ma vi ho visto insieme tutta la sera.»

Francesco pensò alla faccia di Eleonora se Elisabetta le avesse detto: “No, Eleonora, non è il mio fidanzato però è il fidanzato di mio fratello.” e gli venne da ridere.

Quasi lo avesse letto nel pensiero, Matteo li raggiunse.

Dopo i convenevoli d’obbligo dovuti all’arrivo del fratello, l’amica si sentì in dovere di specificare che effettivamente un fidanzato nella sua vita c’era.

«Comunque il mio fidanzato non è potuto venire.» disse.

La signora Mora la guardò sorpresa.

«Beh, vorrà dire che ce lo farai conoscere la prossima volta. Invece lo sai che la Paola si sposa a settembre?»

«Sì, la mamma me lo ha detto. Caspita, ha deciso di farlo presto?»

«Beh, presto… ha già ventisei anni. Io sono contenta. Ormai non si sposa più nessuno. Vanno tutti a convivere. Per fortuna mia figlia non ha di queste idee. Che poi io dico, se non volete

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sposarvi non sposatevi ma almeno non pretendete di avere gli stessi diritti di chi invece crede in certi valori! Come adesso questa farsa dei PACS e dei DICO. Non solo chi non si sposa deve essere tutelato come chi contrae regalare matrimonio, ma anche… e questa è la cosa più assurda... anche gli omosessuali. Si può? Già da dieci anni a questa parte siamo diventati un paese tollerante verso ogni perversione ma che ora dobbiamo anche metterci a legalizzarle… mi sembra davvero eccessivo!»

I tre ragazzi rimasero impietriti. Elisabetta guardò di sottecchi Francesco come per cercare di capire se l’amico stesse per dare il via ad uno scontro aperto o se optasse per una sonora ma più diplomatica replica. Ma Francesco non disse nulla, abbassò lo sguardo e rimase in silenzio. Poi Matteo inaspettatamente si rivolse ad Eleonora.

«Vedi, se tutti la pensassero come te, adesso l’adulterio sarebbe ancora considerato un reato anche nel nostro paese. Per fortuna al mondo c’è gente che si batte per tutelare i diritti di chi tutto sommato non chiede a te di cambiare le tue scelte o le tue idee, ma solo di rispettare le sue inclinazioni e le sue opinioni.»

Elisabetta e Francesco impallidirono. La signora Mora lo guardò allibita. Poi si voltò verso il marito come per assicurarsi che il mondo ruotasse sempre nella stessa direzione e cercò di minimizzare la risposta di Matteo.

«Oh, Teo. Mi sa che ha ragione tuo padre. Sarebbe meglio che iniziassi a fare la pratica nel suo studio. Mi sa che in quel giornale dove scrivi ti mettono in testa delle idee sbagliate.»

Il tono di Matteo divenne freddo e distaccato.

«Il giornale per cui scrivo è dichiaratamente apolitico. Comunque questa non è solo una mia idea. Almeno metà degli italiani la pensa in questo modo. Solo che, se uno frequenta sempre le stesse persone, si convince che certi punti di vista siano una pura invenzione dei telegiornali.»

Eleonora gli rivolse un’occhiata come per significare che per lui non ci fosse più nessuna speranza e poi si girò verso Elisabetta.

«Bettina, almeno tu, rimani fedele ai principi che ti hanno trasmesso i tuoi genitori. Sposati e fai tanti bambini.»

Elisabetta la guardò impassibile.

«Sono quasi sicura che deciderò di sposarmi ma, in ogni caso, condivido in tutto l’opinione di mio fratello.»

Calò il gelo. I Mora si allontanarono fingendo di aver visto qualcuno che conoscevano.

Loro tre rimasero lì impalati. Matteo scoppiò a ridere ed Elisabetta e Francesco lo seguirono a ruota.

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«Oh, ma ho capito bene o quel manico di scopa con tanto di saggina della figlia si sposa?» chiese Matteo.

«Sì, a settembre, mi sembra.» farfugliò la sorella senza riuscire a smettere di ridere.

«Chissà chi è lo sfigato che se la prende. Sarà anche piena di soldi ma ci vuole uno stomaco!»

Poi Elisabetta li lasciò soli dicendo che le era venuta sete.

Francesco scrutò l’amico.

«Mi sa che, se i Mora raccontano quello che è appena successo, domani i tuoi mi chiedono gentilmente di andarmene.» dichiarò solenne.

«Beh, in questo caso dovranno mandare via anche me. Senti, ma invece di dire tutte queste stronzate, non mi avevi fatto una promessa? Sono già le undici. Direi che una pausa ce la siamo più che meritata.» E si diresse verso le scale. Francesco lo seguì docilmente e, come furono fuori dalla portata degli sguardi, gli buttò le braccia al collo.

«Teo, non so se sia legale o meno, ma, mentre rispondevi per le rime a quella bacchettona retrograda, avrei voluto farti di tutto.»

«E quali sarebbero queste cose che mi avresti fatto mentre predicavo?»

«Entra in camera che te le faccio vedere. Spero solo che tu non abbia nessun problema di cuore, sennò non so se sopravvivrai.»

«Credo che rischierei anche se ce li avessi.» disse serio mentre Francesco lo spingeva nella stanza litigando con i bottoni della sua camicia.

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22.

 

 

 

 

 

 

Sentì lo scroscio dell’acqua della doccia diminuire a mano a mano fino ad arrestarsi. Il suo cuore iniziò a battere più forte. Non si era ancora abituato a quel momento. Di lì a poco Matteo sarebbe uscito dal bagno. La salvietta intorno alla vita, il corpo asciutto ancora leggermente bagnato, le gocce d’acqua che evidenziavano i muscoli discreti e definiti al tempo stesso, le braccia forti che strofinavano con un piccolo asciugamano i capelli umidi e spettinati. Era qualche settimana che assisteva a quello spettacolo ma tutte le volte temeva che il suo cuore non avrebbe retto.

Appoggiò il libro per non perdersi nemmeno un secondo di quella magia, si sollevò e si mise a sedere sul letto. Matteo uscì e gli sorrise.

«Ho fatto più veloce che ho potuto… Stavi leggendo?»

Francesco, come se non avesse sentito, lo percorse con lo sguardo.

«Dio quanto sei bello…»

Matteo si avvicinò, si sedette per terra davanti a lui, gli prese le mani e iniziò a strofinarsele sul viso, sulla bocca, sulle labbra, sulla lingua. Poi gli baciò le braccia, i gomiti, i bicipiti cercando di spostare a piccoli morsi le maniche della maglietta. Avvicinò il viso all’orecchio di lui.

«Allora… cosa vuoi che faccia?« gli sussurrò

«Lo sai cosa voglio.» gli rispose Francesco ansimando.

«No che non lo so. Voglio che me lo dica tu.»

«Voglio che mi scopi.»

«Ma non volevi andare al cinema?» lo provocò facendogli scivolare le labbra lungo il collo.

«Non eri ancora uscito dalla doccia…»

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Erano distesi sul letto, Matteo giocava con i pochi riccioli del suo petto. Francesco fissava il soffitto e si chiedeva se sarebbe sempre stato così. Se sarebbero stati incapaci di resistere l’uno all’altro per tutta la vita.

«Teo, posso chiederti una cosa?»

L’amico sollevò gli occhi trasparenti verso di lui.

«Dimmi.»

«Prima mi prometti che, se la mia domanda ti dà fastidio, non ti arrabbi?»

«Puoi chiedermi tutto quello che vuoi.»

«Quando hai capito che eri attratto dagli uomini?»

«Penso di averlo sempre saputo.»

Francesco abbassò gli occhi.

«Capisco.»

«No, non è vero che capisci. In realtà vorresti chiedermi perchè ho finto per tanti anni ma una domanda così non me la faresti mai.»

«Non te la faccio perché mi basta che tu abbia smesso di fingere adesso.»

Matteo gli accarezzò il viso e continuò:

«Lo sapevo… ma non avevo il coraggio di ammetterlo nemmeno con me stesso.»

Francesco gli sollevò una mano, se la portò alla bocca baciandogli le dita. Sentì una fitta al cuore. Si rivide qualche anno prima. Si ricordò la sofferenza e la solitudine della sua lotta. E pensò che l’avrebbe combattuta cento volte se fosse servito a risparmiarla a Matteo.

«Amore… lo so cosa hai provato. Anche per me è stato difficile.»

«Tu sei stato molto più bravo. Io ho cercato di convincermi del contrario con tutte le forze. Sentivo di piacere alle ragazze e mi di dicevo che, se io piacevo a loro, loro dovevano necessariamente piacere a me.»

«E poi?»

«Poi ti ho visto per la prima volta. Ricordi? Era il compleanno della Betty.»

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Immediatamente comparve l’immagine di lui in cucina che parlava con Gloria.

«Avrò ripensato a quel momento centinaia di volte.»

«Anch’io. E da allora non sono più riuscito a mentire a me stesso.»

«E come facevi con Gloria e con… con le altre?»

«Vuoi dire come facevo ad andare a letto con loro?»

Francesco distolse lo sguardo. Non riusciva a perdonarsi per aver osato fare tutte quelle domande.

«Scusa, Teo… non sono fatti miei.»

Matteo gli sollevò il viso fissandolo con convinzione.

«Tutta la mia vita sono fatti tuoi. Comunque, intendi prima o dopo che ti ho conosciuto?»

«Non saprei… in generale…»

«Non sono mai riuscito a comportarmi come i miei amici. Stavo con delle ragazze ma… non le cercavo mai. Non creavo mai le occasioni. Facevo sesso solo se mi trovavo in una situazione… diciamo obbligata. Poi ti ho visto ed è cambiato tutto. Restare da solo con Gloria non mi era più indifferente, mi dava fastidio. Cercavo di vederla il meno possibile e sempre in mezzo agli altri.»

«Non so come hai fatto per tutto questo tempo…»

«Intendi come ho fatto a non trovarmi più in certe situazioni per un anno? No…mi ci sono trovato e, qualche volta, sono stato anche obbligato ad assolvere ai miei doveri di fidanzato. Solo che… ho sempre e soltanto pensato a te. Ogni volta.»

Francesco si ricordò di tutte le volte che aveva fantasticato su Matteo. Di quanto si fosse sentito sleale verso l’amico che credeva molto lontano dai suoi sogni proibiti.

«Se solo lo avessi saputo…»

Matteo gli rivolse una sguardo colpevole. Poi aggiunse:

«Sai, mi sono sempre chiesto come abbia fatto Gloria ad accettare che mi comportassi così per quasi un anno.»

«Io la capisco. Stava con te. Le bastava questo. Anche a me sarebbe bastato.»

«Ah sì? E allora perché fai l’amore con me in continuazione?!» chiese Matteo malizioso iniziando a baciargli il collo.

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«Perché tu mi provochi.» gli rispose con la voce che si spezzava. Matteo smise di baciarlo e lo guardò fingendosi incredulo.

«Sei sicuro?»

Francesco lo rovesciò sul letto.

«No. Hai ragione. Perché sono pazzo di te. Ma se tu non volessi più tutto questo, mi basterebbe continuare a vederti. Lo so che non mi credi…»

«Ti credo perché sarebbe così anche per me.»

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23.

 

 

 

 

 

 

Quando aprì gli occhi la luce filtrava dalla tapparella diffondendo un chiarore molto debole. Doveva essere l’alba e, considerato che era la fine di maggio, doveva essere molto presto. Cercò di restare immobile e di trattenere il respiro per non disturbare Matteo. Dormiva sopra di lui e i suoi capelli gli solleticavano il collo.

Ogni risveglio da un mese la stessa fitta di felicità… quel corpo bellissimo sopra di lui o lui su quel corpo bellissimo… Ogni mattina…. da un mese… Poi lo sentì muoversi, vide il suo viso voltarsi e ascoltò la voce calda di Matteo.

«Buongiorno, piccolo mio, non dormi già più? Perché non hai svegliato anche me?»

Si chinò, respirò il suo profumo, gli diede un bacio sul collo e gli spettinò ancora di più i capelli. Matteo si girò iniziando a baciargli gli occhi e ad ansimare sulla sua bocca. Poi, con la lingua sempre più insistente, scese sul petto, lambì i capezzoli e giù fino a farlo gemere…

«Scopami, Fra, ti prego.»

Francesco si sollevò su un gomito, gli prese il viso tra le mani e gli leccò il collo. Se lo rigirò tra le braccia, sempre facendo scivolare le labbra sulla sua schiena, fino a sdraiarlo sul letto e a rendergli con la lingua l’omaggio che lo faceva sentire meno in colpa per quello che immancabilmente sarebbe seguito. Era sempre così, ogni volta che lo penetrava si sentiva in colpa. In colpa di godere di lui, come se il piacere dovesse solo darglielo. In colpa di essergli sopra, come se lo umiliasse. In colpa per quella posizione che Matteo amava più di qualsiasi altra. In colpa perchè così era costretto a sentirsi il più forte quando in realtà, se fosse dipeso da lui, gli sarebbe stato sempre inginocchiato davanti ai piedi. Si sentiva in colpa fino a quando non venivano insieme e si lasciava cadere sul suo amore coprendolo di baci. Anche quella mattina si sentì in colpa e ingoiò uno stupido “scusa” solo perché Matteo lo precedette con un “grazie Fra… ti amo…” e un sorriso disarmante.

Era passato un mese ma ancora non riusciva a credere che fosse successo.

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Come tutte le mattine da un mese cercò di sfilarsi dall’abbraccio dell’amico per tornare in camera sua. E come tutte le mattine da un mese si preparò allo sguardo implorante di Matteo che gli chiedeva in silenzio di restare. Poi si predispose alla fitta di dolore che immancabilmente sarebbe seguita all’inevitabile distacco.

Ma quel giorno, quando tentò di alzarsi, le braccia di Matteo lo trattennero con più energia e più convinzione del solito.

«Resta ancora un po’. E’ domenica. In casa c’è solo la Betty. I miei sono andati al mare, ricordi?»

«Teo, lo sai che tua sorella è imprevedibile. Può alzarsi a mezzogiorno come alle sette!»

«Voglio che lo sappiano tutti, Fra.» I suoi occhi lo fissavano decisi. «La Betty, mia madre, mio padre, i miei parenti, gli amici di famiglia, i bacchettoni che vengono ai ricevimenti. Già sono stato uno stronzo e per un anno mi sono privato da solo di tutto questo. E magari lo avessi tolto solo a me! Non mi perdonerò mai che per colpa mia, delle mie paure da vigliacco, tu abbia dovuto passare quello che ho passato io. Non posso pensare a te che per tutti questi mesi…»

Francesco lo abbracciò forte e lo baciò sulla fronte.

«Tranquillo. E’ tutto a posto. Adesso siamo qui io e te. Il resto non conta. Non è stata colpa tua.»

Ma Matteo scuoteva la testa desolato.

«Ti chiedo una cosa sola. Il motivo per cui non vuoi che ci scoprano riguarda te? Se è così, non mi devi dire nemmeno perchè. Basta che tu mi dica: “Teo, non voglio.” e io ti giuro che farò di tutto perché nessuno lo venga mai a sapere.»

Francesco distolse lo sguardo e non disse niente. L’amico gli prese le mani e continuò:

«E’ per me che lo fai, vero?»

Francesco continuava a tacere.

«Fra, dimmi se è per me che lo fai?»

«Sì, è per te. Ma sono sicuro che sia la scelta giusta.» rispose senza il coraggio di guardarlo in faccia.

«No che non lo è. E non lo è perché io mi sono nascosto tutta la vita ma adesso è diverso… Adesso ci sei tu… e voglio poter dire a tutti quello che provo!»

«A cosa serve, Teo? E’ a me che lo devi dire… solo a me… Gli altri non lo capirebbero… Lascia che sia un segreto. Almeno per adesso.»

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E sperò con tutto il cuore di averlo convinto. Voleva che Matteo fosse libero, libero di cambiare idea, libero di tornare sui suoi passi. E avrebbe potuto farlo solo se nessuno si fosse accorto di niente. Altrimenti sarebbe stato tutto più difficile. Alla gente sarebbe sempre rimasto il dubbio.

Matteo scostò il viso appoggiato su di lui e lo guardò con i suoi occhi trasparenti.

«Anche la Betty non vuoi che sappia?»

«Non per lei… ma sarebbe a disagio… con i tuoi intendo… le daremmo una responsabilità…»

L’amico abbassò il capo.

«Come vuoi tu, amore.»

«Adesso vado. Tanto vedrai che più tardi tua sorella va da Marco… A proposito, mi sa che questo è quello giusto. Insieme li ho trovati… belli da vedere.»

«Ah sì? E sono più belli di noi?»

Matteo iniziò a strofinare le labbra sul suo petto e a depositarvi piccoli baci umidi.

Nel giro di pochi secondi avrebbe immancabilmente ceduto alle intenzioni dell’amico. Era sempre così. Poteva fare tutti i più buoni propositi del mondo, ma bastava che Matteo cominciasse a sfiorarlo e tutta la sua forza di volontà svaniva, in un momento. Si sdraiò su di lui e rispose ai suoi baci.

«Non saprei se sono più belli di noi…» scherzò.

«Ah, non lo sai?» Matteo continuò a provocarlo diventando sempre più insistente. «…Dimmelo adesso...»

«Beh, di sicuro non sono più belli di te…»

 

Francesco aprì gli occhi e si rese conto che si erano riaddormentati. Matteo lo abbracciava da dietro ma il suo respiro non lasciava dubbi: era ripiombato in un sonno profondo. Rimase lì qualche secondo titubante, combattuto tra il dovere di lasciarlo e il dispiacere di svegliarlo. A giudicare dalla luce che filtrava dai buchi della tapparella, doveva essere già molto tardi. Accarezzò il braccio dell’amico che stringeva il suo petto. Sperò di riuscire a fargli aprire gli occhi senza che quasi se ne accorgesse. Poi sentì un rumore fuori dalla stanza. Cercò di rimanere immobile e, inconsciamente, si accucciò ancora di più dietro il corpo di Matteo e sotto il lenzuolo. Dopo pochi secondi Elisabetta bussò alla porta aprendola contemporaneamente.

«Teo, ci sei? Sei ancora a letto?»

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Matteo, si svegliò di soprassalto e si mise a sedere. Il petto nudo, i capelli sconvolti.

La sorella lo fissò perplessa, poi spostò lo sguardo di fianco a lui, dalla parte della finestra. Francesco trattenne il respiro ma lei vide la sagoma sotto le lenzuola.

«Scusa, Teo. Mi spiace… Non sapevo, non potevo immaginare che fossi con una ragazza…» balbettò.

Matteo rimase in silenzio, gli occhi bassi. Ma a quel punto lei scorse i riccioli neri che sbucavano da sotto il lenzuolo, quei riccioli che aveva visto tante volte, che aveva accarezzato tante volte e non ebbe nessun dubbio. Fece un piccolo balzo all’indietro e si portò una mano alla bocca.

«Ma… ma… non sei con una ragazza? Quello è… quello è…» disse confusa.

La voce le tremava, non riusciva a finire la frase. Allora Francesco si scoprì il viso e si sedette di fianco a Matteo. Nessuno dei due parlava e nessuno dei due aveva il coraggio di guardare Elisabetta.

Lei si avvicinò.

«Non riesco a crederci! E io che mi dispiacevo per voi! Per te che ti eri lasciato con Gloria… e per te che da mesi non uscivi con nessuno… Ecco perché stavate sempre insieme… Dove andava uno andava l’altro. E io mi dicevo dentro di me: sbagliano, se fanno così come fanno a conoscere qualcun altro? E invece stavate voi due perché… perché vi bastavate perfettamente!»

Poi si accostò ancora di più a Matteo. La bocca le si contraeva per la rabbia.

«Ora mi spiego perché allo spagnolo non degnavi nemmeno di uno sguardo quella troietta che ti ballava mezza nuda davanti! Poteva sculettare quanto voleva quella poveretta. Ci credo… chissà da quanto ti scopavi il mio migliore amico!»

Matteo continuava a tacere, lo sguardo fisso sulle cosce nude coperte dal lenzuolo, gli occhi colpevoli e mortificati.

Francesco pensò alla sera del ristorante spagnolo: lui e Matteo non si erano ancora sfiorati e lui era rimasto sorpreso quanto Elisabetta per la reazione dell’amico. Poi si convinse che fosse meglio lasciarli soli. Cercò le sue mutande facendo attenzione a non spostare troppo il lenzuolo, se le infilò con tutta la discrezione di cui fu capace e si alzò tentando di guadagnare la porta e afferrando nel contempo i suoi vestiti sparsi qua e là sul pavimento.

Elisabetta si voltò verso di lui, lo afferrò per un braccio, lo costrinse a girarsi e lo fulminò con lo sguardo.

Se l’amica non fosse stata così tanto scricciolo, la sua espressione era talmente intrisa di rabbia ed amarezza che forse ne avrebbe avuto paura.

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«Francesco…» lo aggredì e Francesco non si ricordava nemmeno l’ultima volta in cui lo aveva chiamato con il suo nome per intero.

«… dove credi di andare? Guarda che mi sento presa in giro da lui quanto da te… Io ti ho sempre detto tutto di me… ti ho raccontato le mie ansie, i miei sentimenti, le mie delusioni… E tu, tu, per tutta risposta cosa hai fatto? Hai pensato di scoparti mio fratello senza che io ne sapessi niente! Bene, benissimo, vedo che il nostro è un rapporto di fiducia reciproca!»

Nel frattempo Matteo si era alzato tentando di avvolgersi nel lenzuolo e si era avvicinato a Francesco. Elisabetta li fissò entrambi spostando lo sguardo da uno all’altro.

«Perché non mi avete detto niente?» chiese sconfortata. «Perché? E dire che non sono mia madre. Non mi sembra di aver mai dato segni di mentalità ristretta. Non solo il mio più caro amico è un gay ma ho voluto che venisse a vivere con noi. E questo nonostante purtroppo mi ritrovi i genitori più bigotti, più moralisti, più chiusi di mente che uno possa avere.»

Francesco si fece coraggio e parlò sottovoce, sempre senza guardarla in faccia.

«Eli, mi dispiace. Ti giuro che è solo colpa mia. Teo avrebbe voluto dirtelo. Sono io che l’ho convinto a nasconderlo anche a te… Credimi, davvero… Non prendertela con lui, lui non c’entra niente.»

Al che Matteo, che fino a quel momento non aveva osato dire una parola mentre la sorella gli riversava addosso tutta la sua rabbia, cercò come poteva di difendere l’amico.

«No, Betty. Non è vero. Sono io lo stronzo che si nasconde da tutta la vita. Mi dispiace, veramente, ma non riuscivo ad ammetterlo nemmeno con me stesso…»

«Beh, non credo che, mentre ti rotolavi nel letto con quest’altro, tu non ti sia accorto di quello che stava succedendo!»

Poi il suo tono divenne più serio.

«Voglio sapere da quanto va avanti. Quanto tempo è che mi fate fessa? Eh, quanto tempo è?»

Francesco e Matteo si guardarono.

«E’ successo per la prima volta il giorno dopo del ristorante spagnolo.» ammise Matteo con tono colpevole. «Quando siamo tornati a casa e tu sei andata a cena con Marco dai suoi amici. Betty, mi spiace… ma non è facile…»

Lei scosse la testa.

«Non sarà facile ma io sono tua sorella e tu lo sai che non sono come la mamma e il papà. Non ti ho mai giudicato e ti ho sempre voluto bene, a prescindere. E questo non me lo meritavo.»

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Poi si girò e uscì dalla stanza chiudendosi la porta alle spalle con violenza.

I due amici rimasero lì in silenzio, mezzi nudi. E sapevano entrambi che Elisabetta aveva detto la verità. La sua reazione ne era una prova evidente. Si era appena trovata davanti alla totalmente inaspettata omosessualità di suo fratello e l’unico sentimento che aveva espresso era stato di rabbia per essersi sentita presa in giro e tradita. Non una parola di delusione per la scoperta in sé e per sé. Non un commento di dispiacere per aver appreso che suo fratello era “diverso”.

Francesco abbracciò l’amico.

«Teo, è solo colpa mia. Tu glielo avresti detto subito. Lascia che glielo spieghi. Lei ha ragione ma è solo con me che deve avercela.»

«No, non è vero. Se io non avessi preso per il culo il mondo intero per tutta la vita, noi staremmo insieme da un anno. E lo saprebbero tutti…» poi aggiunse desolato:

«… adesso la faccio calmare un attimo e poi vado a parlarle.»

Quando scesero in tinello, Elisabetta era lì, ancora in camicia da notte, lo sguardo perso nel vuoto, la tazza davanti a lei praticamente piena, il latte probabilmente ormai freddo.

Matteo le si avvicinò e si sedette sulla sedia accanto alla sua. Lei continuava a non guardarlo.

«Betty, ti prego. Non ti chiedo di capirmi ma almeno ascoltami.»

La sorella rimase in silenzio. Francesco era rimasto qualche passo indietro e li osservava.

Matteo continuò:

«Lo so che sei delusa. E hai ragione. Però, credimi, è così difficile. Vivo in una famiglia come la nostra. La mamma e il papà pensano che essere gay sia come avere la peste. Io cosa dovevo fare? Ho lottato tutta la vita contro la verità. E mi sono anche impegnato. Poi, grazie a te, ho conosciuto Francesco. Ci ho messo un anno ma alla fine tutti i dubbi sono spariti. Te lo avremmo detto. Il tempo di renderci conto anche noi di quello che ci stava succedendo. Ti vogliamo bene, Betty. Tutti e due. E ci fidiamo di te. Ma non volevamo metterti in una situazione difficile… ti prego, guardami.»

E lei finalmente si girò verso di lui.

«Hai sofferto molto, Teo?» chiese con la voce spezzata dalle lacrime che stavano per scendere.

«Sì, ma adesso non importa più. Adesso l’importante è che tu mi capisca e che mi creda quando ti dico che Fra non c’entra niente.» rispose abbracciandola forte.

Per la prima volta Francesco assisteva ad uno manifestazione fisica dell’affetto che li legava. Matteo ed Elisabetta si stimavano, erano complici e si volevano un bene infinito ma, forse frenati

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dalla freddezza della famiglia in cui erano cresciuti, non erano abituati a scambiarsi nessun gesto di tenerezza.

Guardava l’amica commosso e contemporaneamente sorpreso.

Elisabetta ambiva con tutta se stessa ad aderire in modo totale e perfetto alla società in cui viveva e alle sue regole. Eppure con la stessa intensità riusciva ad approvare chiunque fosse del tutto incapace di fare suoi quegli stereotipi sociali. Lei lottava da tutta la vita per raggiungere quei parametri della realizzazione umana universalmente condivisi: una laurea con il massimo dei voti, un lavoro gratificante e stressante il giusto, un fidanzato perfetto con lei e perfetto per tutti che poi sarebbe inevitabilmente diventato suo marito e che, possibilmente non troppo tardi, gli avrebbe dato dei figli, almeno due. Tuttavia era come se ci fosse una parte di lei che guardava estasiata chi riusciva, o perlomeno provava, ad essere felice anche senza uniformarsi. E forse era proprio questo entusiasmo senza riserve a renderla capace di non soppesare il resto del mondo in base a quegli stessi canoni che per lei erano diventati sempre più tassativi. Non solo, ma la sua accettazione della diversità altrui era pura, sincera, incondizionata, priva di qualunque giudizio. E in quel momento Francesco ne ebbe la conferma definitiva.

Finalmente l’amica sollevò lo sguardo verso di lui che era rimasto in piedi tutto il tempo, dietro di loro.

«Ora mi spiego perché da un mese vivi su un altro pianeta! E pensare che mi sono sempre vantata di capire le situazioni al volo!»

Lui si sentì avvampare e abbassò gli occhi.

«Eli, mi spiace, davvero. E’ stata una decisione mia quella di tenerti all’oscuro di tutto. E adesso so che ne pagherò le conseguenze. Spero di riuscire con il tempo a riconquistare la tua fiducia.»

Elisabetta sorrise, si alzò e, come se fosse la cosa più naturale del mondo, lo baciò su una guancia.

«Sei un disastro… ma ho troppo bisogno di te e ti voglio troppo bene per rinunciare alla tua amicizia. Vorrà dire che da domani scriverai tu tutti i brief di tutte le campagne. Per un mese… e il periodo non è casuale…»

«Mi sembra una pena equa!» rispose Francesco ridendo.

Allora Matteo gli si avvicinò.

«Vorrà dire che, per non gravarti di troppo lavoro, per questo mese cercherò di farmi tutti gli articoli da solo!» scherzò. Poi gli prese una mano e, davanti agli occhi increduli di sua sorella, se la portò alla bocca baciandola.

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Francesco arrossì imbarazzato per quel gesto così intimo ed inequivocabile davanti ad uno spettatore. Da sopra la spalla di Matteo sbirciò la reazione dell’amica. Elisabetta li fissava e la sua espressione non tradiva alcun disagio.

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24.

 

 

 

 

 

 

Scese dalla metropolitana alla fermata di Crocetta e si diresse verso via della Commenda percorrendo via Lamarmora. Camminava veloce, più veloce del solito. Tra poco avrebbe ritirato il risultato del terzo test. Tra poco sarebbe stato certo che il suo sangue fosse negativo al virus dell’HIV. Era solo una formalità perché i primi due esami avevano già dato esito negativo ma avvertiva lo stesso un piccolo tremito nelle mani.

Ripensò a quando due mesi prima aveva compiuto lo stesso tragitto con il cuore in gola. Era andato a ritirare il risultato del primo prelievo. Allora era passata solo una settimana dalla prima volta che aveva fatto l’amore con Matteo. Per tutto il giorno aveva tentato di concentrarsi sul lavoro, aveva dovuto partecipare ad un paio di riunioni interne ed era riuscito a non pensarci con una frequenza inferiore ai cinque minuti. Ma, una volta fuori dall’ufficio, il cuore aveva iniziato a martellargli nelle tempie. Era salito sulla metropolitana e si era chiesto come il mondo potesse andare avanti, le persone parlare, i mezzi pubblici funzionare, i semafori cambiare colore, tutto come sempre nonostante nel giro di pochi minuti un medico avrebbe potuto togliere a lui qualsiasi speranza di un’esistenza normale. Ma questo non sarebbe stato niente se, in caso di esito positivo, non avesse dovuto temere per l’incolumità di Matteo. Il solo pensiero di aver potuto infettare l’amico gli aveva tolto qualsiasi forma di interesse per la sua vita. Era vero che con Matteo era sempre stato più che prudente. Ma quando ci si ama come si erano amati loro in quella settimana, senza riserve, senza risparmiarsi in niente, cercando di dare e fare all’altro tutto quello che potrebbe anche solo lontanamente desiderare, insomma quando ci si ama così è quasi impossibile non correre nessun rischio. Per tutta la settimana si era violentato per non prendere in considerazione quella possibilità. Ma quel giorno, mentre correva verso il Policlinico, si era odiato e si era maledetto cento volte per non essere stato capace di dominare gli impulsi, nemmeno per amore di una persona che adorava mille volte più di se stesso. Poi si era ritrovato davanti al banco dell’impiegata e, prima che gli consegnasse la busta con l’esito, l’aveva sentita dire: «lei è il signor Ghezzi Francesco? Bene, qui c’è il risultato del suo test. Comunque di solito se c’è qualche problema l’ospedale avvisa prima il paziente.» Il mondo aveva iniziato a girare di nuovo. E Francesco si era sentito come se improvvisamente il suo corpo non fosse pesato più niente.

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Con Matteo non ne avevano mai più parlato da quella sera che si erano scoperti i reciproci cerotti. Nelle settimane successive, con la sua stessa cadenza, aveva ritrovato i segni degli altri due prelievi sul braccio dell’amico. Avevano continuato a darsi l’uno all’altro incondizionatamente cercando solo di stare il più possibile attenti ed usando sempre e comunque il preservativo. Ma non si erano mai più fatti domande.

Erano passati due mesi. Arrivò davanti all’ingresso dell’ospedale, salì le scale e si mise in fila. Dopo dieci minuti fu il suo turno. L’impiegata gli diede la busta e non disse nulla. Francesco si scostò dal banco e la aprì mentre il tremito delle mani aumentava a dismisura. Sapeva che sarebbe stato negativo ma lo stesso aveva paura. Si sentiva come quando a scuola andava a vedere i quadri dei risultati di fine anno: di sicuro avrebbe avuto dei voti altissimi ma era lo stesso agitato per timore che qualche professore impazzito avesse cambiato idea all’ultimo momento. Solo che adesso temeva che fosse il suo sangue ad essere impazzito. Poi, finalmente, mise a fuoco la parola miracolosa tanto anelata: negativo.

Il suo primo pensiero fu per Matteo. Dopo due mesi avrebbe potuto amarlo senza dover sempre soffocare quell’angoscia. Certo rimaneva il senso di colpa di quando lo possedeva. Ma quello non glielo avrebbe mai tolto nessun medico e nessun esame. Era una conseguenza diretta ed inevitabile dell’adorazione illimitata che provava per lui.

Dell’esito negativo gliene avrebbe parlato con calma, perché, parlare del test, significava parlare anche del perché avesse deciso di farlo e dei rischi che aveva corso prima di lui. Per adesso avrebbe fatto finta di niente e avrebbe continuato ad usare tutte le precauzioni di sempre. E magari, nei prossimi giorni, quando ne avesse trovato il coraggio, gli avrebbe spiegato che non correva più nessun pericolo di trasmettergli alcuna malattia e che avrebbero potuto smettere di stare attenti. Della possibilità che fosse Matteo a contagiarlo non si era mai preoccupato. E non solo perché le probabilità che l’amico avesse contratto la malattia fossero molto più remote. Ma perché, se mai Matteo avesse avuto qualcosa, l’ultima sua preoccupazione sarebbe stata quella di non farsi infettare.

Entrò in casa e come al solito lo accolse il maggiordomo.

«Buonasera Daniel, per caso Matteo è già rientrato?» chiese cercando di nascondere l’emozione della voce.

«No, signor Ghezzi, mi sembra di non averlo ancora visto.»

«Grazie, Daniel. Ma la prego, lo faccia per me, mi chiami Francesco. Signore non mi si addice proprio.»

«Va bene, come preferisce.»

Fece una doccia al volo e andò in camera di Matteo. Decise che lo avrebbe aspettato lì: se mai fosse entrato qualcun altro, se ne sarebbe accorto per tempo e avrebbe sempre potuto farsi trovare mentre cercava un libro. Prese una fra le tante riviste di ogni genere che l’amico comprava quotidianamente e si sdraiò sul suo letto cominciando a trepidare. Dopo mezz’ora lo

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sentì salire le scale: non ebbe dubbi che fosse Matteo perché le stava facendo di corsa. Probabilmente Daniel gli aveva riferito che lui era già arrivato. Si nascose dietro la porta e, quando Matteo entrò, lo intrappolò da dietro girando contemporaneamente la chiave della camera, senza pensare a come eventualmente si sarebbero giustificati se qualcuno avesse bussato. Poi lo spinse sul letto, gli immobilizzò le braccia e iniziò a tempestarlo di baci forsennati.

«E’ stata la mezz’ora più lunga della mia vita. E io ti sono mancato?»

L’amico si lasciò baciare senza reagire.

«Mi sei mancato da morire. Ma lascia almeno che mi dia una sciacquata. Oggi faceva un caldo boia, sono sudato fradicio…» mormorò come unico tentativo di ribellione.

Francesco cominciò a spogliarlo ignorando totalmente la debole protesta di Matteo.

«Non se ne parla neanche. Mi fa impazzire se sei sudato. Per una volta che riesco a prenderti in tempo.»

L’amico si arrese definitivamente. Poi, come sempre, Francesco cercò il profilattico. Ne avevano dappertutto, nel cassetto del comodino, nelle tasche degli accappatoi, dietro ai cuscini, nell’armadio ma, quando servivano – cioè in continuazione – non li trovavano mai. Finalmente riuscì ad afferrarne uno, solo che nella ricerca aveva dovuto mollare un po' la presa su Matteo.

«No, ti prego, non usarlo.» disse l’amico fermando la sua mano proprio mentre stava aprendo la bustina di plastica.

Francesco lo guardò perplesso e allora Matteo aggiunse:

«Non serve più. Stamattina ho ritirato il risultato dell’ultimo test. E’ negativo.»

Lo assecondò senza dire nulla.

 

Erano sdraiati sul letto cercando la forza per alzarsi e smettere di coccolarsi. Francesco cospargeva l’amico di piccoli baci.

«Teo, perché non hai voluto che lo usassi? Non conosci nemmeno l’esito del mio di test!»

«Non mi interessa l’esito del tuo. Volevo solo essere sicuro di non essere io a farti del male. Se tu avessi qualcosa, sarei talmente disperato che l’ultimo mio problema sarebbe quello di non farmi contagiare.»

Lo fissò smarrito e lo strinse forte.

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«Comunque anche il mio terzo test è negativo.» disse. «Altrimenti non ti avrei mai permesso di rischiare.»

 

Dopo cena ritornarono in camera. Strano che a nessuno venisse qualche dubbio sul fatto che due ragazzi di venticinque e ventisei anni se ne stessero quasi tutte le sere in casa o al massimo uscissero di rado ma sempre e comunque insieme.

L’unica eccezione erano state le sporadiche volte in cui Francesco era andato a cena dai suoi. Era successo un paio di sere e Matteo aveva sempre trovato delle scuse convincenti per non accompagnarlo. Francesco era sicuro che lo avesse fatto per lui. Infatti i suoi genitori, consapevoli dell’inclinazione del figlio e molto più psicologi di Rebecca ed Enrico, non ci avrebbero messo molto a capire come stessero le cose. Tanto più se lui si fosse presentato a cena con Matteo e non con Elisabetta, che in realtà per Angela e Mario risultava essere la sola amica di cui era ospite. Per la verità Francesco aveva anche insistito per portarli tutti e due ma i due fratelli avevano sempre declinato l’invito gentilmente. Molto probabilmente avevano preferito non dare disturbo: erano al corrente dell’imminente trasloco della famiglia Ghezzi e forse si erano immaginati quanto fermento organizzativo comportasse cambiare casa e regione, per di più senza una domestica né un maggiordomo e con una figlia di diciotto anni che deve fare la maturità ed è quasi al nono mese di gravidanza.

Comunque, ad eccezione delle visite di Francesco alla famiglia e di qualche partita a calcetto o a tennis, per il resto i due amici trascorrevano tutto il tempo libero costantemente insieme. Ma né Rebecca né Enrico sembravano minimamente insospettiti e, con ogni probabilità, attribuivano l’atteggiamento del figlio all’inevitabile periodo di lutto dovuto alla fine della storia con Gloria.

All’inizio i due amici avevano cercato di inventare delle spiegazioni valide per giustificare l’inderogabile necessità di passare tutta la sera chiusi in camera di uno o dell’altro. Poi, con il passare delle settimane, era diventata una consuetudine ed il resto della famiglia ci si era abituata senza neanche accorgersene. Tanto più che Elisabetta la maggior parte delle volte vedeva Marco e che a casa Neri i figli, anche quando non uscivano, non erano assolutamente soliti trascorrere la serata con i genitori.

Come sempre, finito di cenare, si chiusero la porta della camera alle spalle. E come sempre Francesco iniziò a stuzzicare l’amico. Si accorse subito che Matteo si era un po’ intristito. Non che cercasse di sottrarsi o non rispondesse alle tenerezze. Ma c’era qualcosa che lo preoccupava. Gli sollevò il viso con dolcezza.

«Amore, sei stanco? Scusami ho pensato solo a me. Non siamo obbligati a fare nulla. Possiamo stare anche tutta la sera e la notte sdraiati sul letto. Tu leggi e io ti coccolo. Va bene?»

«No, Fra. E’ tutto a posto. Mi spiace se mi sono comportato in modo strano.»

Francesco lo guardò dubbioso.

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«Teo, cosa c’è? Vuoi parlarmene?»

L’amico abbassò lo sguardo e gli si rivolse con un tono di voce impercettibile.

«Fra, tu… tu sei andato a letto con tanti prima… prima di me?» chiese timidamente.

Francesco impallidì. Fissò il pavimento incapace di guardare Matteo.

«Teo, io non potevo immaginare che ti avrei incontrato. E, anche quando ti ho incontrato, non avrei mai pensato…» balbettò con tono colpevole.

«Non ti ho chiesto perché lo hai fatto. Ti ho solo chiesto se lo hai fatto. Se ci sono stati tanti uomini prima di me.»

Matteo lo fissava con un’espressione indecifrabile. Lui taceva, spiazzato e mortificato.

«Non così tanti.» mormorò. «Mi dispiace. Se solo potessi cancellarli tutti, lo farei. Ma non posso più.»

Matteo iniziò a baciarlo ma con un’ansia e una rabbia che Francesco non gli aveva mai visto. La sua lingua diventava sempre più insistente e le sue parole si fecero sempre più pressanti.

«Dimmi se con loro provavi quello che provi con me. Dimmi se quando ti baciavano sentivi quello che senti quando ti bacio io. Dimmelo, Fra!» E lo scuoteva con forza senza smettere di muovere le labbra e la lingua su di lui.

Francesco non reagiva, ansimava sotto i baci di Matteo e cercava di dirgli che «no, con nessuno era mai stato così. Nemmeno lontanamente.» Ma l’amico non sentiva quasi le sue risposte e procedeva imperterrito, senza smettere di leccarlo ovunque ma quasi come se avesse davanti un’immagine che lo faceva diventare matto.

«Dimmelo. Dimmelo, Fra. Dimmi che come scopi con me non hai mai scopato prima. Dimmi che quando ti lecco io, senti qualcosa che tutti quegli stronzi prima di me non ti hanno mai fatto sentire. Dimmi che, quando quei bastardi baciavano ogni centimetro del tuo corpo, non era come quando te lo bacio io. Dimmelo, Fra. Dimmelo anche se non è vero. Dimmelo o impazzisco!»

Francesco gli prese il viso fra le mani e fissò i suoi occhi in quelli trasparenti di Matteo.

«Nessuno ha mai baciato ogni centimetro del mio corpo. Nessuno, Teo. Te lo giuro.»

Matteo lo strinse forte e si calmò. Poi, come sempre, fecero l’amore.

Verso le tre Francesco lo sentì muoversi. Dormivano l’uno sull’altro per cui avvertivano ogni reciproco spostamento, anche impercettibile. Ma quella notte fu sicuro che Matteo fosse sveglio.

«Teo, non riesci a dormire?»

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«Scusami, ho svegliato anche te.»

Francesco accese l’abatjour sul comodino.

L’amico lo guardò avvilito.

«Perdonami. Continuo ad agitarmi. Non riesco a smettere di pensare a prima. Non so cosa mi sia preso. Forse, quando avevamo parlato del test, ti ho immaginato in certe situazioni e mi è sembrato di impazzire. Sono proprio uno stronzo.»

Francesco lo abbracciò forte.

«Tranquillo, amore, tranquillo. Non è successo niente.»

Matteo gli prese una mano e se la portò alla bocca.

«Fra, io volevo che tu sapessi che, anche se ho avuto quell’atteggiamento assurdo, io non voglio che tu rinunci a nulla per colpa mia.»

Lo guardò incredulo.

«Cosa stai dicendo?»

«Sto dicendo che, prima che io invadessi la tua vita, tu vivevi certe esperienze. Magari alcune non ti piacevano fino in fondo ma sono sicuro che altre ti siano piaciute. Ecco, voglio che tu ti senta libero di viverle ancora senza di me o… anche con me. Intendo dire che farei qualunque cosa tu mi chiedessi. Per te o per chiunque altro tu volessi. »

Francesco era sbalordito. Non riusciva nemmeno a rispondere a quelle assurdità che aveva appena sentito.

«Matteo, sei impazzito? Forse non sono capace di dimostrarti tutto l’amore che mi trasmetti tu, ma non penso di averti mai nemmeno lontanamente potuto far credere che tu non mi bastassi! Passo la metà delle mia giornate a dirti che sono solo tuo e tu cosa fai? Mi dici che, se voglio farti vivere esperienze di gruppo, sei disposto a qualsiasi cosa? Ma tu hai una pallida idea di quanto io ti ami? Non dico tanto ma un po’ ne hai idea?»

Matteo lo fissò mortificato.

«Scusa, Fra. E’ solo che mi sembra impossibile che tu possa accontentarti solo di me.» Allora Francesco fu assalito da un dubbio.

«Mi spiace, ho reagito così perché un pensiero del genere non mi ha mai nemmeno sfiorato.» disse accarezzandogli i capelli. «Forse, però, sei tu che, non avendo mai provato nulla di diverso, hai voglia di fare altre esperienze? Se è così non c’è problema. Basta che tu mi dica quello che vuoi. Basta che tu…»

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Matteo lo baciò per farlo tacere. Poi si fece serio.

«Fra, sto per dirti una cosa per cui mi odierai. Ma non riesco più a tenerla per me.»

«Non c’è niente per cui potrei odiarti.»

«Quella con te non è stata la prima volta… con un uomo.»

Era come se all’improvviso avessero preso un ferro e glielo facessero girare nel cuore, con forza, conficcandolo sempre di più fra l’atrio e il ventricolo. Francesco si sentiva in colpa per la reazione che quelle parole gli suscitavano. Amava Matteo incondizionatamente ed avrebbe accettato qualsiasi cosa da lui. Ma quella frase lo fece vacillare. Non disse nulla.

«E’ successo tre o quattro mesi fa.» continuò l’amico. «Due o tre volte. Ho pagato. Volevo avere la prova di essere veramente così.»

Francesco lo fissò sconvolto.

«Ma non potevi farlo con me per avere la prova? Lo sapevi che ti desideravo da impazzire. Poteva succedere anche solo una volta, solo perché tu potessi toglierti qualsiasi dubbio. Poi, se per caso ti fossi sbagliato, potevi dirmi tranquillamente: “Fra, mi sono preso una cantonata.” Non lo avrei mai detto a nessuno.»

Matteo sorrise.

«Non potevo provare con te. Io avevo bisogno di sapere se mi piacevano gli uomini in generale. In realtà lo avevo sempre saputo ma volevo esserne certo. Con te era ovvio che mi sarebbe piaciuto.»

Francesco si sentiva impazzire.

«E come è stato, con gli altri intendo?»

«Fra, come vuoi che sia stato? Ho capito che proprio con le donne non avrei mai avuto niente a che fare. Ma, nell’insieme, è stato uno schifo.»

Francesco si sentì invadere da una rabbia incontrollata. Prese l’amico, gli salì sopra e iniziò a baciarlo con più furore di quanto non ne avesse ricevuto poche ore prima.

«E come sono questi qui che si fanno pagare? Eh, come sono?» gli chiese mentre lo leccava con foga.

«Te l’ho detto, amore. Te l’ho detto.»

Ma Francesco continuava ad incalzarlo.

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«No, adesso mi dici che scopare con loro ti ha fatto schifo sennò smetto. Dillo o smetto.»

E gli fece scorrere la lingua dappertutto fino a quando entrò dentro di lui.

«Allora, cos’è meglio? Voglio sapere cosa è meglio sennò mi fermo.»

Matteo cercava di rispondergli tra i gemiti.

«Non smettere. Faccio quello che vuoi ma non smettere. Te l’ho già detto che mi ha fatto schifo.»

Sentì l’amico che ansimava sempre più forte fino all’ultimo inconfondibile sospiro. Lo raggiunse dopo pochi secondi e si lasciò cadere su di lui. Gli occhi gli si riempirono di lacrime. Iniziarono a scendere sul collo di Matteo. Sussultava senza riuscire a fermarsi. Matteo gli prese il viso tra le mani e lo abbracciò forte.

«Va tutto bene. Ho fatto una cazzata ma avevo bisogno di essere sicuro. Non capisci? »

«Ma perché non hai usato me? C’era bisogno di pagare qualcuno? Di vivere la prima volta in modo così squallido? Non è con te che sono arrabbiato, ma con me stesso. Perché se io avessi capito, se avessi fatto un gesto, qualsiasi cosa. E invece niente, sono stato lì ad aspettare che tu ti facessi la tua lotta da solo, che soffrissi da solo.»

Matteo lo strinse ancora più forte.

«Non è successo niente. Adesso è tutto passato. Adesso ci siamo solo noi. Per sempre.»

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25.

 

 

 

 

 

 

All’inizio di giugno, subito dopo la fine delle scuole, la famiglia Ghezzi al gran completo, o quasi, si era trasferita in Liguria, in una casetta in affitto proprio nel centro di Arenzano. Forse avrebbe avuto più senso che sua sorella partorisse a Milano e desse la maturità prima di traslocare al mare. Ma Mario non aveva voluto sentire ragioni. Il clima era più fresco ed Elena avrebbe studiato meglio. E soprattutto il bambino sarebbe nato lì, lontano dai ripensamenti e dalle crisi di paternità dell’ultimo secondo di Fabio l’imbecille.

Francesco si era anche chiesto se tutto sommato fosse la scelta giusta: dopo tutto quel Fabio sarà stato anche un imbecille ma non aveva nemmeno vent’anni. E soprattutto non si poteva non considerare che fosse, almeno biologicamente, il padre di quell’innocente che doveva nascere. Aveva tentato di parlarne con i suoi genitori. Loro avevano replicato che la decisione di trasferirsi era diventata definitiva solo dopo aver avuto modo di scambiare due parole non tanto con il ragazzino, che a quanto pareva non sapeva neanche perché fosse al mondo, ma con la famiglia di lui che si era dimostrata molto distaccata e assolutamente non intenzionata a cercare di far ragionare il figlio. Anzi, appoggiavano pienamente la sua posizione: loro sarebbero stati per l’aborto, ma dato che Elena aveva deciso diversamente, adesso lei e la sua famiglia si sarebbero dovuti accollare da soli la responsabilità del bambino. Mario aveva dato fuori di matto. Suo nipote avrebbe avuto intorno solo gente che gli voleva bene. Degli ignoranti del genere non meritavano nemmeno lontanamente di conoscerlo. E, in preda alla rabbia, aveva aggiunto che il figlio di sua figlia sarebbe diventato un genio, ricco e famoso, e di tutta quella gente lì non avrebbe voluto saperne. Poi, forse realizzando che era sì suo nipote ma anche il figlio dell’imbecille, aveva corretto genio con calciatore, il che significava lo stesso ricco e famoso. E, comunque, in ogni caso, che quelli lì poi non venissero a dire che si erano pentiti!

Era venerdì. Francesco uscì dall’ufficio con Elisabetta e si avviò verso il parcheggio. Per fortuna sembrava un’estate un po’ meno torrida di quella dell’anno prima. I due colleghi salirono in macchina. Erano in quello fase di intontimento intermedio in cui non sei ancora riuscito a scrollarti di dosso lo stress della settimana ma nello stesso tempo inizi già a percepire la gioia dei due giorni di riposo. Elisabetta stava commentando l’atteggiamento per niente garbato di una delle copy-writer.

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«Oggi l’avrei appesa al muro. Quando ha detto: “Signori, guardate che io creo, produco. Non mi limito ad andare a raccontare le favole ai clienti come voi due!” mi sarei alzata e le avrei dato in testa tutte le sue proposte di…» Per fortuna suonò il cellulare di Francesco perché se Elisabetta avesse continuato così non ci sarebbe stata nessuna speranza di riuscire ad entrare a breve nel clima week-end.

Era suo padre.

«Ciao, papà. Scusa ma sto guidando. Tutto bene?»

«Checco, Elena è entrata in sala parto. Dicono che è già dilatata di quattro centimetri. Io non so nemmeno quanto ci si debba dilatare. Comunque la mamma è dentro con lei. Potrebbero volerci un paio d’ore come dieci.»

«Come sta Elena? E’ molto agitata?»

«No, Elena no. Quella agitata è tua madre. Sembra che debba partorire lei!»

«E tu come stai, papà?»

«Come vuoi che stia, Checco? Qui ci vorrà una vita. Adesso vado a mangiarmi un toast.»

Figurarsi. Figurarsi se suo padre perdeva l’appetito. E poi solo per la nascita di suo nipote! Ma in realtà era abbastanza teso, Francesco lo sapeva, e mangiare era anche un modo per non pensarci.

«Senti, pa’. Questa è una zona piena di vigili. Ti chiamo appena arrivo a casa così mi dici come procede.»

«Va bene. Ci sentiamo dopo.»

Poi si rivolse ad Elisabetta.

«Sembra che entro domani mattina diventerò zio.»

«Oh, Fra, che bello! Sei emozionato?»

«Un po’. Più che altro al pensiero della mia sorellina. Dicono che è già dilatata di quattro centimetri. Non ho idea di come farà a far uscire un figlio. Nemmeno un metro e sessanta per quarantacinque chili.»

«Magari farà prima di quelle alte e grosse. Non è detto. Comunque che fortuna che tuo nipote nasca di venerdì, così puoi andarla a trovare e fermarti dai tuoi un paio di giorni.»

Francesco pensò a Matteo e, nonostante tutto il bene che volesse a sua sorella, si sentì morire all’idea di stare due giorni senza di lui. Poi sperò di riuscire a convincerlo ad accompagnarlo. Gli sembrava di aver capito che la casa dei suoi non fosse molto grande. C’era giusto un letto per lui

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in salotto. Sì, è vero che Elena non ci sarebbe stata e che Matteo avrebbe potuto dormire in camera di sua sorella. Ma forse farsi prenotare dai suoi una stanza in una pensioncina non sarebbe stata una cattiva idea. Così avrebbe potuto festeggiare la nascita di suo nipote con Matteo. E lo avrebbero festeggiato a modo loro!

Elisabetta come al solito lo lesse nel pensiero.

«Stai pensando che non puoi sopravvivere due giorni senza mio fratello, vero?»

Non le si poteva proprio nascondere niente. Francesco non disse nulla ma la sua espressione da cane bastonato era una risposta più che esauriente.

«Ma non vi stancate mai? Nemmeno io e Marco passiamo tutte queste ore insieme. E dire che non possiamo vivere uno senza l’altra!»

Lui sorrise senza guardarla.

«Non ci posso fare niente, Eli. Quando non c’è è come si mi mancasse il respiro.»

Ed era vero. Matteo gli era entrato dentro, anche se di solito succedeva il contrario! Matteo era arrivato dove nessun altro sarebbe mai potuto arrivare. Dove non credeva che avrebbe mai permesso a qualcuno di arrivare. Matteo gli aveva toccato il cuore, le viscere, i polmoni. Glieli aveva toccati e lui glieli aveva lasciati prendere. Erano suoi. Per questo senza di lui non riusciva a respirare.

«Beh, chiedigli di venire con te.» suggerì Elisabetta con l’immediatezza risolutiva che la contraddistingueva. «Tanto mi sa che siete messi male uguale. E non credo che lui pensi di riuscire a restare due giorni senza ossigeno!»

«Sì, avevo già pensato di chiederglielo. Magari lo vado a prendere quando esce dal giornale, sempre che faccia solo mezza giornata, e partiamo direttamente. E i tuoi cosa penseranno?»

«Cosa vuoi che pensino? Se non si sono fatti nessuna domanda fino adesso, nonostante non vi scolliate l’uno dall’altro da quasi tre mesi, cosa vuoi che intuiscano se lui ti accompagna da tua sorella che partorisce? Scusami ma è la cosa più normale che abbiate fatto fino ad ora!»

«Forse hai ragione.»

Poi lei lo fissò.

«Senti, toglimi una curiosità. La sera, dopo cena, vi chiudete in camera di Matteo. A volte anche prima che io esca. E, per non trovarmi davanti ad altre piacevolissime sorprese, quando la porta è chiusa evito accuratamente di salutarvi. Tanto ci si vuole bene lo stesso. Ma poi mi chiedo sempre, tu quando te ne torni nella tua stanzetta triste triste?»

Francesco arrossì.

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«Eli, dipende.» farfugliò imbarazzato.

«Sì, ho capito. Ma di solito, come fate?»

Accidenti a lui che ogni tanto si dimenticava che con Elisabetta le risposte evasive non funzionavano mai.

«In genere vado via la mattina presto.» rispose rassegnato. «Verso le sei, sei e mezzo. Mi sdraio un attimo ma non dormo più.»

«Se è per questo mi sa che non dormi tanto nemmeno prima. Tra tutte e due c’avete due facce distrutte!»

 

Erano arrivati a casa. Appena entrato sentì la voce di Matteo che parlava in salotto con la madre.

Lui ed Elisabetta si affacciarono alla porta per salutare.

«Allora, tutto bene al lavoro?» chiese Rebecca

«Soliti problemi.» rispose Elisabetta. «Ma c’è una notizia bellissima. Francesco sta per diventare zio. Sua sorella è già in sala parto.»

Rebecca sorrise.

«Ah, davvero? E’ già passato così tanto tempo?» commentò senza scomporsi.

«Eh, sì.» rispose Francesco. «Non sembra vero neanche a me.»

Matteo lo guardava sorridendo.

«Sono contento, Fra. E tu, come stai? Sei agitato?»

Di sicuro se fossero stati da soli, o perlomeno da soli con Elisabetta, gli avrebbe buttato le braccia al collo per fargli capire che era felice per lui.

«Quanto basta. Comunque mia madre è in sala parto con lei. Anche se questa non so se considerarla una buona o una cattiva notizia!»

Tutti risero. Dopodichè i tre ragazzi salirono al piano di sopra. Matteo seguì Francesco in camera sua.

E, come lui si era immaginato, appena furono da soli lo abbracciò.

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«Fra, sono troppo contento. Come ti senti? Non sei preoccupato, vero? Sono sicuro che andrà tutto benissimo. Speriamo solo che tuo nipote sia bello come te.»

Francesco sorrise e lo baciò.

«Speriamo che gli piacciano le donne sennò mio padre si spara.»

Matteo rise. Poi divenne serio.

«Quando pensi di andare là? Domani?» chiese timidamente.

«Penso di sì. Magari mi fermo fino a domenica. Mi accompagni?» e poi vedendolo perplesso aggiunse:

«Non mi interessa cosa penseranno i miei.»

«Sì ma come facciamo? Forse la cosa migliore è che tu vada dai tuoi e io mi prenda una stanza da qualche parte.»

«Cosa dici? In realtà due posti li avrebbero ma mi sa che chiedo a mio padre di prenotarci una camera in una pensione. Così siamo più liberi. Mi spiace solo che sicuramente ci saranno due lettini singoli.»

«Beh, cosa importa. Un lettino singolo basta e avanza. E poi non sperare di dormire. L’aria di mare mi fa dei brutti scherzi.»

«Non avevo mai pensato di dormire.» disse Francesco iniziando a strofinargli le labbra sul viso.

 

Lorenzo era nato all’una di notte. Suo padre lo aveva chiamato subito e lui aveva avvertito un po’ di commozione nella sua voce. Aveva detto: «Checco, è bellissimo. Guarda, se devo essere sincero, più bello di te e di tua sorella quando siete nati.»

La mattina Matteo lavorò solo un paio d’ore. Francesco lo andò a prendere al giornale verso mezzogiorno con la macchina dell’amico. Avevano deciso che una decappottabile sportiva era molto più indicata per una gita al mare in giugno rispetto al suo catorcio privo di aria condizionata funzionante.

«Ciao, Teo. Sei riuscito a finire tutto?» gli chiese Francesco mentre lo baciava.

«Sì, diciamo di sì. Ho lasciato dette due cose alla mia collega. Speriamo bene.»

«Vuoi guidare tu?»

«Come preferisci. Se ti va di provare la macchina, poi quando sei stanco ti do il cambio.»

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Lui gli sorrise.

«Grazie per essere venuto.»

«Grazie a te per avermelo chiesto.»

Era una giornata bellissima. Era il primo viaggio, se pur breve, che facevano insieme. Non smisero un secondo di scambiarsi tenerezze, di prendersi la mano, di accarezzarsi. Poi verso l’ora di pranzo si fermarono in autostrada per mangiare un panino. Matteo andò a fare lo scontrino mentre Francesco lo aspettava al bancone, senza perderlo di vista un attimo. E non gli sfuggì assolutamente che la ragazza alla cassa se lo stesse divorando con gli occhi. Sarebbe stato sempre così: le donne sarebbero rimaste folgorate da Matteo e lui, anche se era assurdo, ne sarebbe stato un po’ geloso. Poi l’amico lo raggiunse, sempre seguito dallo sguardo della cassiera. Si era perfino avvicinata alla collega, probabilmente per fare un commento su quel figo pazzesco che se ne era appena andato. Francesco si accostò a Matteo per parlargli piano nell’orecchio.

«Se quella lì non la smette di sbavarti dietro, ti bacio qui davanti a tutti. E non mi importa se faccio scandalizzare le vecchiette!»

Matteo sorrise come se nemmeno si fosse accorto delle occhiate che aveva ricevuto.

«Fallo.» disse. E non si capiva se fosse una sfida o una preghiera.

Francesco lo fissò qualche secondo. Poi avvicinò le labbra alle sue e gli diede un bacio brevissimo, molto discreto ma inequivocabile. Un bacio che tra un uomo e una donna nessuno avrebbe mai notato. E invece li guardarono tutti. La ragazza della cassa rimase di stucco. I clienti vicini fingevano indifferenza abbassando gli occhi non appena incontravano i loro. Qualcuno più distante li osservava commentando la scena. Poi Matteo, incurante di quello che il bacio di Francesco avesse provocato, lo baciò a sua volta sulla fronte e andò ad ordinare i panini come se niente fosse. Francesco rimase lì un po’ stordito. Lo amava così tanto che forse non ce l’avrebbe fatta a contenere tutto quell’amore.

 

Arrivarono nel primo pomeriggio e andarono direttamente in ospedale. Comprò un mazzo di girasoli e cercò la camera di sua sorella. Matteo decise di aspettarlo fuori dalla stanza almeno all’inizio. Così lo avrebbe lasciato per un po’ da solo con Elena.

Quando entrò, la sorella era lì sdraiata sul letto ma aveva già in braccio il bambino. Tentava di farlo attaccare al seno. A Francesco venne da piangere. Le diede un bacio.

«Ciao, Ele. Come stai?» chiese. Poi guardò il piccino e gli accarezzò la manina minuscola.

«Piacere, Lorenzo. Io sono lo zio Francesco. E tu sei il bimbo più bello che abbia mai visto.»

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Elena si commosse.

«Stai bene, Checco? Grazie per i fiori.»

«Io sto benissimo. Non ho partorito. E tu, piccolina, come ti senti? Hai sofferto molto?»

«Un po’ ma tutto sommato non mi posso lamentare.»

Le accarezzò la testa.

«La mamma e il papà dove sono?» si informò.

«Sono andati a mangiare qualcosa. Dovrebbero essere qui a momenti.» poi aggiunse:

«Ma il papà mi ha detto che venivi con un amico?»

«Sì, è rimasto fuori, adesso vado a chiamarlo.»

Si affacciò alla porta e fece un cenno a Matteo che entrò.

«Teo, ti presento la mia sorellina Elena e il mio nipotino Lorenzo, nuovo di pacca.»

Matteo sfiorò le dita di Elena che non riuscì nemmeno a stringergli la mano. Al suo primo giorno di mamma, non gli sembrava di poter sostenere il bambino con un braccio solo. E dire che non pesava nemmeno tre chili!

«Piacere, io sono Matteo. Francesco mi ha parlato tanto di te. Complimenti, hai fatto un bimbo bellissimo.»

Elena gli sorrise e a Francesco sembrò che, nonostante i dolori del parto e le gioie della maternità, nemmeno alla sua ingenua sorellina fosse sfuggito quanto il suo amore fosse bello.

Dopo un po’ arrivarono Mario ed Angela. Sua madre era più agitata del solito, nonostante avesse una notte insonne sulle spalle.

Francesco baciò i genitori e gli presentò Matteo. Poi Angela si avvicinò a Lorenzo e iniziò a fare quei versi che solo le nonne riescono a produrre e, davanti ai quali, i bambini molto probabilmente preferirebbero rientrare da dove sono appena usciti. Anche a costo di stare un po’ stretti.

Mario cercava di mantenere un certo contegno ma non smetteva un secondo di precisare che Lorenzo fosse il bambino più bello di tutto il reparto. E non c’era alcun dubbio in merito, lui era obiettivo, non lo diceva certo perché era suo nipote.

Verso sera l’infermiera pregò molto gentilmente l’allegra compagnia di andarsene dato che l’orario delle visite era abbondantemente terminato.

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Mario li invitò a casa per un piatto di pasta. Ma Francesco, mosso a pietà per sua madre che non dormiva da ventiquattro ore, declinò: si sarebbero mangiati una pizza fuori così magari facevano anche due passi per il paesino. Il giorno dopo sarebbero passati da loro dopo colazione così avrebbe visto la casa e poi sarebbero andati da Elena tutti insieme.

 

Alle dieci si presentarono a casa Ghezzi. Suo padre leggeva il giornale mentre sua madre finiva di prepararsi. Come arrivarono Mario fece vedere ad entrambi l’appartamento. Era al terzo ed ultimo piano di una palazzina situata in una vietta privata in pieno centro. Non era molto grande. Si entrava in un unico locale che fungeva da sala e cucina, separato con una porta dal reparto notte. La camera dei genitori era piuttosto spaziosa mentre la cameretta di Elena era abbastanza piccola, considerato che nolenti o volenti avrebbero dovuto starci in due. Avevano scelto mobili chiari e accoglienti. Nell’insieme si respirava un’atmosfera di pulito e di essenzialità ricercata che rispecchiava perfettamente la personalità di sua madre. Come nell’appartamento di Milano, non mancava niente, non c’era niente di troppo e, soprattutto, niente era al posto sbagliato.

Terminata la brevissima visita tutti si sedettero sul divano.

«E così questo ragazzo sarebbe il fratello della collega che ti ospita?» chiese Angela alludendo a Matteo.

Francesco arrossì e fu certo che sua madre se ne fosse accorta.

«Veramente sono i loro genitori che mi ospitano.» mormorò.

«Sì, certo. Ho detto così per farmi capire.» precisò Angela scrutandolo a fondo. «E tu, Matteo, cosa fai nella vita?»

«Scrivo per un giornale che non conosce nessuno. Mi sto facendo un po’ le ossa.»

Poi l’amico, come faceva sempre, si girò appena verso di lui che lo stava guardando e gli sorrise. E a sua madre bastò quel sorriso per capire tutto.

Chiacchierarono ancora un po’ del più e del meno. Alla fine Angela andò in camera a prendere la borsa per uscire e Mario fece un salto in bagno. Il figlio li sentì parlare a bassa voce. Quando tornarono nel reparto unico, suo padre osservò prima lui e poi Matteo con uno sguardo consapevole. Francesco in quello sguardo ci lesse difficoltà, imbarazzo, forse vergogna. Era la prima volta che i suoi genitori si trovavano faccia a faccia con un fidanzato del figlio. Di sicuro suo padre stava cercando di dirgli che capivano le sue esigenze ma gli sarebbero stati molto grati se avesse potuto viversele il più possibile lontano da loro. Solo che Mario non sapeva che Francesco senza Matteo non poteva vivere. E, se non fosse più venuto a trovarli con lui, sarebbe stato costretto ad incontrare i suoi genitori molto, molto raramente. Anche se in cuor suo avrebbe continuato a sperare che cambiassero idea.

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26.

 

 

 

 

 

 

Francesco, Matteo ed Elisabetta erano a casa da soli.

Rebecca ed Enrico avevano deciso di passare il week-end nella villa di Santa Margherita Ligure. Maria aveva chiesto due settimane di ferie per fare visita alla sua famiglia e Daniel era andato al mare con i Neri perché per Rebecca era inconcepibile restare senza qualcuno che la servisse anche solo per due giorni. Francesco non capiva come facesse a non sentire il bisogno di vivere uno spazio tutto suo, almeno per un fine settimana. E’ vero, magari avrebbe dovuto rassegnarsi a disfarsi la valigia senza la domestica che le appendesse i vestiti. Ma avrebbe provato l’ebbrezza di girare nuda per casa, di sdraiarsi sul divano con i piedi tra le gambe di suo marito, di farsi portare da lui per una volta nella vita la colazione a letto.

I due amici si alzarono verso le undici e scesero in cucina per sgranocchiare qualcosa. Elisabetta stava bevendo un succo di frutta e aveva comprato per tutti e tre le brioches appena sfornate. Quando erano da soli non usavano mai il tinello. Mangiavano in modo molto frugale, senza nemmeno apparecchiare la tavola, lì direttamente in cucina, sul tavolo dove di solito pranzavano Maria e Daniel. I due fratelli era come se volessero riprendersi almeno un po’ di quella libertà informale che in casa loro non avevano mai potuto vivere. E Francesco si illudeva di ritrovare, anche se solo per pochi giorni, le sue abitudini di sempre.

Ad un certo punto Elisabetta si alzò.

«Vado da Marco. Stanotte dormo da lui.» annunciò. «Ci vediamo domani mattina, sul tardi.»

Matteo la guardò. Nonostante avesse ventiquattro anni la vedeva sempre come una bambina. Con i suoi occhi di fratello percepiva solo il lato di lei innocente e un po’ immaturo. E non riusciva a scorgere quella malizia sensuale di cui gli altri sembravano accorgersi benissimo.

«Betty… fai la brava.» le disse solo.

Lei lo fissò perplessa.

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«Proprio tu mi vieni a dire di fare la brava?» rispose quasi un po’ risentita. E lanciò un’occhiata a Francesco che arrossì e prontamente abbassò lo sguardo.

Poi, forse pentita del tono sarcastico che aveva usato, baciò il fratello sulla guancia, si girò verso Francesco e diede un bacio anche a lui.

Non appena la sentirono chiudere la porta di casa, i due amici si guardarono negli occhi.

«Allora, Fra, vuoi ancora andare in piscina?» chiese Matteo con voce retorica.

Francesco gli si avvicinò, gli prese il viso fra le mani, lo spinse contro il muro della cucina e iniziò a baciarlo.

«Voglio che lo decida tu…»

 

Per tutto il giorno non misero nemmeno il naso fuori dalla porta, nonostante fosse fine giugno e la giornata fosse splendida. In tre mesi era la prima volta che rimanevano a casa completamente da soli per così tanto tempo.

Fecero l’amore ovunque, subito lì in cucina, nel tinello, sul divano della sala, sotto la doccia, sulle scale che portavano dalla zona giorno al reparto notte.

«Lo sai, Fra? Io penso che tu sia nato per scopare.»

«No, ti sbagli. Io sono nato per scopare con te.»

Francesco cucinò gli spaghetti alla carbonara. Li mangiarono nello stesso piatto, senza le posate, l’uno dalle mani dell’altro, l’uno dalla bocca dell’altro, metà ciascuno cercando di non spezzarli.

Poi, verso le nove di sera, Francesco accarezzò una guancia dell’amico.

«Che si fa? Ti è venuta voglia di uscire o non ti reggi più nemmeno in piedi?»

«Quello che vuoi fare tu per me va bene.»

«Ti prego, Teo, decidi tu.»

«Possiamo berci una birra e vederci un film qui in casa.» propose Matteo baciandogli una mano.

«Aggiudicato.»

«Solo che… siamo senza birra. Faccio un salto al bar e compro anche due patatine.»

«No, lascia. Ci vado io. Così tu intanto scegli il film.»

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Matteo sorrise e gli sistemò il colletto della camicia.

«Fai in fretta...»

 

Francesco uscì di casa e si diresse verso Viale Monte Nero dove era sicuro di trovare un locale aperto. Aveva appena attraversato la strada per costeggiare la rotonda della Besana, quando vide quattro individui dalle facce poco raccomandabili. Venivano verso di lui con aria di sfida. Cercò di ignorarli e di camminare come se non si fosse accorto della loro presenza. Nonostante la casa dei Neri fosse molto centrale, quella via era particolarmente isolata. Il gruppo lo raggiunse e gli sbarrò la strada accerchiandolo. Francesco ebbe paura. Si guardò intorno ma non c’era nessuno. Poi li riconobbe. Facevano parte di una compagnia di teppisti che girava spesso da quelle parti. Già altre volte lo avevano preso di mira offendendolo per la sua omosessualità. Non sapeva come ne fossero venuti a conoscenza. Forse lo avevano visto con qualcuno quando ancora abitava con i suoi. Pensò a Matteo che lo stava aspettando e sperò con tutto il cuore che si limitassero ad insultarlo come sempre, senza trattenerlo troppo a lungo. Non avrebbe reagito, se ne sarebbe stato lì con gli occhi bassi sentendosi rivolgere ogni tipo di ingiuria. Tutto, basta che lo lasciassero tornare da Matteo.

Invece uno dei quattro gli si avvicinò faccia a faccia.

«Senti, brutta checca che non sei altro… tu adesso fai una cosina per noi e noi non ti facciamo niente.» gli intimò sprezzante.

Francesco si sentì gelare. Sperò che volessero solo derubarlo. Guardò quello che aveva parlato.

«Cosa?» mormorò.

«Intanto ci spostiamo in quell’angolino là… così chi passa non ci vede.» e lo sospinse verso un punto buio dove un passante distratto non avrebbe notato la loro presenza.

Poi continuò:

«Tu adesso ci dici che il tuo amichetto bello e ricco, quello stronzetto del Neri Matteo, è un ricchione di merda come te e che voi due ve lo mettete in culo. Ma lo devi dire convinto perché noi lo registriamo con questo qui.» E indicò un telefonino che teneva in mano uno degli altri tre.

Pensò a Matteo, a quanto lo avrebbero deriso servendosi di quella registrazione. Pensò a Rebecca, ad Enrico, agli amici di famiglia, ai parenti che erano all’oscuro di tutto. E decise che avrebbero potuto fargli qualsiasi cosa ma lui non avrebbe aperto bocca.

«Vedi… se tu non ci aiuti, noi siamo costretti a fartelo dire con la forza.» lo incalzò un altro.

Passarono quasi dieci minuti in cui il gruppetto, dandogli delle piccole spinte in cerchio, cercò di convincerlo a pronunciare quelle parole.

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Ad un certo punto, di sorpresa, sentì un calcio fortissimo, dritto allo stomaco. Barcollò ma rimase in piedi. E subito ne arrivò un altro in faccia e un altro ancora. Fino a quando cadde a terra. Gli tapparono la bocca con un fazzoletto e continuarono a colpirlo interrompendosi ogni tanto per chiedergli se avesse cambiato idea. Il dolore diventava insopportabile ma l’amore per Matteo era sempre più forte.

E poi riconobbe una voce che in quel momento non avrebbe mai voluto riconoscere. Era la voce di Matteo che probabilmente, non vedendolo arrivare, aveva deciso di venirgli incontro, si era guardato intorno e aveva scorto i quattro individui che si accanivano contro di lui.

Francesco lo sentì dire solo «Fra?» e immaginò che fosse rimasto impietrito.

Pregò che non intervenisse, che non cercasse di difenderlo, tanto non avrebbe potuto fare nulla da solo contro quattro.

Il gruppetto si era fermato e stava fissando il nuovo arrivato.

Ma Matteo non li affrontò. In compenso fece l’unica proposta che potesse farli desistere dall’infliggere altri colpi a Francesco.

«Vi prego… lasciatelo stare… prendetevela con me.»

Era l’ultima frase che Francesco avrebbe voluto sentirgli pronunciare e lo guardò supplicandolo con gli occhi di andarsene via e di lasciarlo lì da solo. Ma quello dei quattro che aveva parlato all’inizio si avvicinò a Matteo.

«Questa potrebbe essere una buona idea.» ringhiò.

Francesco avvertì una fitta allo stomaco più forte di tutti i calci che aveva preso fino ad allora.

Li obbligarono a salire su un furgoncino e li fecero scendere davanti ai giardinetti della Guastalla. Uno di loro aveva in mano un coltellino e intimò ad entrambi di scavalcare la cancellata che di notte veniva chiusa. Li portarono nel punto più isolato del parco, con una corda legarono le mani e i piedi di Francesco e gli strinsero più forte il fazzoletto sulla bocca. Poi si rivolsero a turno a Matteo.

«Bene… eccoci qui… e così anche tu sei una checca schifosa, eh? Adesso facciamo un patto. Se fai tutto quello che ti diciamo noi, noi non facciamo niente al tuo amichetto. Ma se cerchi di ribellarti o anche solo ti permetti di emettere un lamento… noi gli facciamo male… molto male.»

«Spogliati brutto stronzo…» gli ordinò un altro. «Si può sapere perché, se sei un fottutissimo finocchio, non lo hai detto a tutti? Almeno tutte le fighe del quartiere avrebbero smesso di guardare il tuo visino di merda. Tanto che problemi avevi ad ammetterlo? Il tuo paparino è ricco sfondato.»

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Francesco capì il perché di tanto odio. Non era solo perché loro due erano gay. Ce l’avevano con il suo amico, da sempre, per invidia.

Matteo si spogliò ubbidiente e rimase in mutande.

«Ma allora non ci siamo capiti…» lo minacciò uno del gruppo con tono di scherno. «…forse dobbiamo fare male al bambino qui. Ti devi togliere tutto, devi rimanere nudo, come un verme.»

Matteo ubbidì e non disse nulla.

Poi lo stesso dei quattro si rivolse a Francesco.

«Tu devi guardare… hai capito? Più ti giri e più gli facciamo male.»

Costrinsero Matteo ad inginocchiarsi per terra mentre quello che sembrava il capo del piccolo branco si toglieva la cintura con fibbia di ferro dai pantaloni. Iniziò a colpirlo sulla schiena con violenza. E Matteo non disse nulla. Francesco ebbe l’impressione che il sangue non gli scorresse più nelle vene.

Frustarono Matteo per dieci minuti senza che emettesse un solo suono.

Poi lo fecero sdraiare supino e iniziarono a colpirlo sulle gambe, sulle braccia, sul petto, sui genitali.

Matteo non disse nulla. Francesco sentì più male che se avessero strappato a lui un pezzo alla volta a morsi.

Ad un certo punto, forse per una cinghiata ancora più forte delle altre, Matteo si fece uscire un piccolo gemito impercettibile. Smisero di pestarlo. Lo guardarono fisso.

«Allora, vuoi che facciamo provare la fibbia di ferro anche al tuo amichetto?» gli chiese in tono canzonatorio il presunto capo della banda.

Francesco sperò con tutte le sue forze che smettessero di colpire l’amico e iniziassero a prendersela con lui. Ma Matteo li guardò con uno sguardo implorante.

«No… vi supplico. Fatemi qualsiasi cosa. Qualsiasi. Ma lasciatelo stare.»

Poi uno dei quattro arrivò con una specie di bastone, forse un ramo staccato da un albero. Francesco pensò che volessero percuotere il suo amico con qualcosa di più pesante. E invece sentì la voce terribile del capo che si rivolgeva con disprezzo a Matteo.

«Bene… Così vediamo se ti entra dove sai tu. Girati, bastardo.»

Francesco vomitò. Matteo non disse nulla e si girò.

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Mentre in due lo afferravano per le gambe, si sentirono dei rumori dalla strada che si avvicinavano sempre di più. Lo lasciarono e quello che teneva il bastone glielo scagliò con tutta la violenza possibile sulla schiena. Poi fuggirono tutti e quattro insieme.

Matteo si trascinò fino a raggiungere Francesco, gli tolse il fazzoletto dalla bocca e lo slegò con le ultime forze che gli rimanevano. Si guardarono in silenzio, incapaci di dire qualsiasi cosa, con la disperazione e l’angoscia negli occhi. Poi l’amico fissò i segni dei calci sul suo viso.

«Prima che arrivassi cosa ti hanno fatto, Fra?»

Francesco rimase sbalordito. Matteo non poteva essere vero. Lo avevano pestato a sangue per mezz’ora e riusciva ancora a preoccuparsi di lui!

Lo vestì cercando di non causargli altro dolore. Lo prese in braccio e raggiunse la cancellata. Poi, con una forza che non sapeva di avere, scavalcò tenendolo sulle spalle. Per fortuna passava un ragazzo tunisino che li aiutò senza fare loro nessuna domanda.

«Teo, qui di fronte c’è il pronto soccorso. Ce la fai ad arrivare fino a lì?» gli chiese una volta fuori dal parco.

«Ti prego. Non ho niente di rotto. Sono solo botte. Domani andrà già meglio. Portami a casa con te.»

Forse aveva ragione lui. Di sicuro, se fossero andati in ospedale, avrebbero dovuto sporgere denuncia, raccontare l’umiliazione che Matteo aveva subito, le motivazioni dell’aggressione. Francesco lo caricò su un taxi che fece fermare davanti ad una farmacia di turno. Comprò acqua distillata, garze, bende, anti-dolorifici e gocce per dormire. Si fece lasciare davanti a casa e riuscì a portarlo fino in camera, sempre tenendolo in braccio.

«Ce la faccio da solo. Lasciami pure.» gli diceva Matteo con la poca voce che riusciva a far uscire.

Lo adagiò sul letto, lo spogliò, lo disinfettò con la fisiologica e mise delle bende sulle lesioni più gravi. Ebbe paura di farlo soffrire troppo usando le garze sulle ferite più dolorose e gliele pulì con la sua stessa saliva, passando la lingua delicatamente.

Poi gli diede degli anti-dolorifici e alcune gocce per dormire. Si sedette sul letto, di fianco a lui, gli tenne la mano e gli accarezzò la testa fino a quando i calmanti fecero effetto e Matteo si addormentò. Allora Francesco iniziò a tremare e pianse. Guardava il corpo martoriato dell’amico e gli sembrava di impazzire. Era come se risentisse su di sé ogni colpo che avevano inflitto a lui. E pensò che quella sofferenza sarebbe durata per tutta la vita.

Non smise un solo secondo di tenergli la mano e di baciargliela. Matteo si agitava e lui lo accarezzava per cercare di calmarlo. Poi verso l’alba l’amico si svegliò e si girò verso di lui.

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«Fra… Non hai dormito niente? Adesso riposati tu un po’, che io mi prendo cura di te.» Lo disse nonostante non riuscisse nemmeno a sollevarsi. Francesco gli sorrise, come a un bambino che ti offre i suoi risparmi per saldare i debiti.

«Vado di sotto a prenderti qualcosa da mangiare. Arrivo subito.» disse.

Mise su un vassoio un succo di frutta, dei biscotti e una tazza di latte caldo.

Quando tornò, forse per l’effetto dei calmanti, l’amico si era riappisolato.

Posò il vassoio, si inginocchiò ai piedi del letto, appoggiò la testa sulle sue caviglie e pianse di nuovo. Matteo si svegliò e gli sorrise. Francesco lo guardò disperato.

«Era come se, per ogni colpo che ti davano, mi strappassero un pezzo di corpo.» disse con la voce che gli tremava.

L’amico si sollevò a fatica e gli prese le mani.

«Mi sarei fatto ammazzare pur che non ti facessero più nemmeno un graffio.»

Francesco capì che quel sentimento non poteva essere solo amore. Era molto di più. Era la capacità di annullarsi l’uno per l’altro.

Gli si sedette accanto e iniziò a imboccarlo.

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27.

 

 

 

 

 

 

Elisabetta tornò verso le undici di mattina. Matteo si era riaddormentato. Francesco sentì la chiave nella serratura e si precipitò giù per le scale. Voleva avvisarla. Spiegarle ciò che era successo prima che vedesse il fratello in quelle condizioni.

«Ciao, Fra.» lo salutò lei distrattamente.

«Ciao, Eli. Puoi venire un attimo?»

L’amica, forse sorpresa dal suo tono allarmato, sollevò lo sguardo su di lui e rimase sgomenta.

«Cosa ti è successo?»

Solo allora Francesco si ricordò che, in fondo, avevano picchiato anche lui. Si toccò il viso in corrispondenza di un sopracciglio, forse il punto che a pensarci gli faceva più male. Probabilmente doveva essere gonfio.

«No, a me non è successo niente, qualche botta. Solo che… solo che hanno pestato Teo.»

Poi, vedendo la sua espressione terrorizzata, aggiunse subito:

«E’ su in camera… non ha niente di rotto.»

«Cosa vuol dire che l’hanno pestato? Chi lo ha pestato?»

«Non so se hai presente quel gruppo di teppistelli del cazzo che gira da queste parti? Avranno sui ventidue, ventitrè anni. Spesso usano un furgoncino scassato.»

«Sì, forse ho capito… e perché se la sono presa con lui?»

«Veramente all’inizio hanno preso di mira me. Mi sfottono ogni volta che mi vedono. Solo che questa volta hanno iniziato a riempirmi di calci. Ero sceso a comprare le birre. Matteo non mi ha

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visto arrivare e mi ha raggiunto. E…» Francesco sentì un groppo alla gola e le lacrime che riaffioravano. Si sforzò di continuare:

«… e , per difendermi, ha proposto che colpissero lui.» Non riuscì a dire altro.

«Gli hanno fatto molto male?»

Lui rispose solo: «Sì.» e abbassò gli occhi mentre le lacrime cominciavano a scendere.

Elisabetta salì le scale ed entrò in camera di Matteo che era in una sorta di dormiveglia.

Si avvicinò, si inginocchiò di fianco al letto e guardò il corpo del fratello che il lenzuolo lasciava in parte scoperto. Vide i segni viola scuro, le bende ancora sporche di rosso, i lividi sul collo, sulle braccia. Gli prese una mano e iniziò a piangere.

Matteo si svegliò e le sorrise.

«Betty… cosa fai? Sono solo un po’ di botte e qualche escoriazione. Domani non ho più niente.»

«Senti molto male?»

«No.. a parte che, con tutta la roba che Fra mi sta dando da bere, non sentirei male nemmeno se mi avessero tagliato via un dito!» cercò di scherzare. Ma la voce era debole, un po’ per le percosse, un po’ per effetto degli anti-dolorifici e dei calmanti.

Dopo un po’ Matteo si riassopì e loro due uscirono dalla camera.

«Siete andati al pronto soccorso?» chiese immediatamente Elisabetta.

«No, Eli. Non ha voluto.»

«Non ha voluto perché si vergognava, vero? E quindi immagino che non sporgerete nemmeno denuncia?»

«Credo di no.»

«Lo hai medicato tu?»

Francesco abbassò lo sguardo.

«Ho fatto il possibile. Comunque, per il momento, la febbre non gli è salita e questa notte è riuscito anche a dormire un po’.»

Lo guardò perplessa.

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«Mi sa che sei tu che non hai chiuso occhio. Hai una faccia più brutta della sua. E delle tue ferite non ti sei occupato minimamente. Adesso ci penso io. Ti metto almeno qualcosa su quel sopracciglio. Poi vai a stenderti un po’ e lì con lui ci resto io.»

«Ti ringrazio, davvero, ma non riesco ad allontanarmi da quella camera per più di dieci minuti. Se non ti costa molto, potresti fargli qualcosa da mangiare.»

«Magari lo faccio anche per te qualcosa da mangiare o tu hai deciso che non dormi più, non mangi più, tanto, se lo fa Matteo, lo assorbi per osmosi?»

«Grazie, Eli. E’ che non posso non pensare a quello che ho visto e non posso perdonarmi che lui… che lui si sia sacrificato per me.»

«Ma non avete tentato di reagire?»

Francesco ricominciò a tremare scosso dai sussulti.

«Mi hanno legato mani e piedi e gli hanno detto che, se fiatava, avrebbero fatto provare a me le stesse cose che stavano facendo a lui. E lui… è rimasto lì, mentre loro si accanivano sempre di più e… non si è mai lasciato scappare un lamento.»

Elisabetta lo abbracciò forte.

«Avresti sentito meno male se se la fossero presa solo con te, vero?»

La fissò con gli occhi disperati.

«Se mi avessero fatto qualsiasi cosa, Eli. Qualsiasi… te lo giuro.»

Lei lo guardò con tutta la comprensione di cui fu capace.

«Lo so. Ma adesso almeno manda giù qualcosa, sennò tra poco non sarai nemmeno più in grado di stargli vicino.»

Poi Francesco cercò di farsi forza.

«Eli, scusa, ma dovremmo avvertire i tuoi…» disse.

«Mi hanno telefonato ieri sera sul cellulare. Forse a casa non hanno trovato nessuno. Si fermano in Liguria fino a venerdì per cui… credo che Teo preferisca che non sappiano niente.»

«Credo anch’io.»

«Piuttosto, domani non può certo andare al giornale così…»

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«Magari chiami tu che se sua sorella, avvisi solo che non sta molto bene. Io chiedo qualche giorno di ferie in agenzia, dico che ho dei problemi familiari e resto con lui. Tu ce la fai, vero? Tanto mi telefoni in qualsiasi momento e…»

«Sì, Fra, ce la faccio, ce la faccio.»

 

Nei giorni seguenti Matteo cominciò a stare un po’ meglio e a recuperare un po’ alla volte le forze. Francesco non lo abbandonò un secondo. La mattina veniva una domestica a ore assunta da Rebecca per occuparsi della casa durante la temporanea assenza di Maria e Daniel. In realtà la signora Neri aveva insistito perché la donna si fermasse tutto il giorno così da preparare la cena per i tre ragazzi. Ma la figlia era riuscita a convincerla che non ce ne fosse assolutamente bisogno, tanto più, le disse, che la maggior parte delle sere avrebbero cenato fuori. Elisabetta era stata impeccabile e si era occupata di tutte le incombenze pratiche. Aveva spiegato alla domestica del mattino che Matteo aveva avuto un piccolo incidente ma che i genitori non avrebbero dovuto saperne niente. Cercava di rincasare il prima possibile nonostante le giornate in agenzia senza il collega fossero ancora più impegnative del solito. La sera cucinava per tutti e lasciava pronto il pranzo per i due ragazzi.

All’ora di cena obbligava Francesco a sedersi a tavola per mangiare qualcosa di decente. Per convincerlo, nel frattempo lei saliva da Matteo. Sapeva che l’amico non avrebbe mai accettato di lasciarlo da solo nemmeno per un quarto d’ora. E lui, durante quei pasti velocissimi, restava a tavola con il fidanzato di lei. Marco, avvisato di quanto successo, aveva trascorso tutte le sere a casa Neri. Si era limitato a commentare l’aggressione consigliando di sporgere denuncia. Se non altro per evitare che l’episodio potesse ripetersi. Era stato molto discreto, riuscendo a mostrare interesse e dispiacere per quanto successo senza mai risultare invadente. Inoltre sembrava aver reagito con disinvoltura alla notizia che il fratello della sua fidanzata era gay, anche se le occhiate che lanciava al corpo sinuoso di Elisabetta che si muoveva tra i fornelli la dicevano lunga su quanto fosse scettico sull’attrazione di Francesco per i muscoli di Matteo. Di solito dopo venti minuti l’amica tornava in tinello. Preparava il vassoio con la cena del fratello e fermava Francesco che spesso aveva già iniziato a sparecchiare. «Lascia, frana. Torna dal tuo ossigeno.» gli diceva. «Non vorrei mai che si svegliasse senza vederti e mi entrasse in crisi!» Lui faceva finta di protestare debolmente per poi lasciarsi convincere e precipitarsi su per le scale senza nemmeno vedere i gradini.

Erano passati tre giorni da quando li avevano picchiati.

«Quando sono scesa stava dormendo. Se si sveglia tra molto, la riscaldiamo.» disse Elisabetta mettendogli in mano il vassoio con la cena di Matteo.

Francesco ritornò in camera dell’amico cercando di fare meno rumore possibile ma l’impercettibile cigolio della porta gli fece aprire gli occhi.

«Ciao, piccolino. Come ti senti?» gli chiese sorridendogli.

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«Adesso che ti vedo, bene.»

Si avvicinò al letto e posò il vassoio sulle sue gambe.

«Purtroppo stasera il menù di tua sorella prevede spaghetti al sugo per cui mi sarà un po’ difficile imboccarti. Lo so che ce la fai senza problemi a mangiare da solo ma mi piace tanto occuparmi di te.»

Matteo lo guardò dolcemente.

«Non viziarmi troppo, potrei farci l’abitudine.»

Lui gli diede un bacio sulla fronte, approfittando per accertarsi che non gli fosse salita la febbre.

«Ti amo.» sussurrò con il viso a pochi millimetri dal suo.

L’amico mangiò quasi tutto quello che la sorella gli aveva preparato. Come ebbe finito, Francesco spostò il vassoio e lo aiutò ad alzarsi. Lo portò in bagno, lo spogliò cercando di coccolarlo nel modo più casto e meno malizioso di cui fu capace, si spogliò a sua volta e lo accompagnò sotto la doccia per aiutarlo a lavarsi. Lo fece sedere su uno sgabello, gli si inginocchiò davanti e iniziò a passare la spugna delicatamente sul suo corpo facendo attenzione a non toccare le ferite più profonde che comunque si stavano rimarginando. Poi vide gli occhi trasparenti di Matteo accendersi di desiderio. In quei tre giorni il dolore, la debolezza e i calmanti avevano impedito al suo amico di guardarlo in quel modo.

Matteo si avvicinò per baciarlo mostrando intenzioni sempre più esplicite. Francesco rispose ai suoi baci con tenerezza. Poi lo allontanò dolcemente.

«Amore, non possiamo, sei ancora troppo debole.»

L’amico abbassò lo sguardo mortificato.

«Scusa, Fra. Sono un egoista. Ho dato retta solo al mio desiderio e non ho minimamente pensato a te che giustamente non hai nessuna voglia di scoparti uno conciato così. Mi spiace tanto. Eppure mi sono visto e lo so di fare schifo. Ma eri qui, nudo, davanti a me, bello come il sole e non ho capito più niente. Perdonami, non volevo metterti in difficoltà.»

Lo guardò allibito.

«Come puoi pensare una cosa del genere? Lo sai che ti desidererei da impazzire anche se tu avessi la peste. Vuoi che mi possano far cambiare idea delle ferite e qualche livido?»

Poi lo fece adagiare sul letto e iniziò a baciarlo. Percorse con la lingua ogni più piccola parte del suo corpo. Il respiro di Matteo divenne sempre più veloce.

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«Ti prego, Fra. Facciamo l’amore.» gli disse ormai senza fiato. Francesco continuò a baciarlo dappertutto con l’intenzione di soddisfare il suo desiderio ma facendolo affaticare il meno possibile.

«Lascia che mi occupi solo di te.» Ma Matteo gli rivolse uno sguardo implorante. E lui lo assecondò con tutta la delicatezza e l’attenzione di cui fu capace. Poi gli si sdraiò accanto e continuò a cullarselo fra le braccia.

 

Mercoledì sera Matteo dichiarò di sentirsi molto meglio e di voler tornare al lavoro. La mattina seguente Francesco lo aiutò a prepararsi. Scelse per lui un abbigliamento che nascondesse il più possibile i segni rimasti, controllò che facesse una colazione abbondante ed insistette per accompagnarlo al giornale in macchina.

Venerdì Rebecca ed Enrico tornarono dal mare e, come i tre ragazzi si erano augurati, non si accorsero di niente.

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28.

 

 

 

 

 

 

Domenica mattina il solito raggio di sole, ligio al suo dovere, lo avvertì che era ora di tornare nella sua stanza. Matteo era già sveglio e forse guardò con un po’ di rabbia quel raggio di sole, colpevole di aver ricordato al suo amore che avrebbe dovuto lasciarlo.

Francesco si sentiva strano, la testa gli scoppiava e fece fatica a sollevarla dal cuscino. Si girò verso l’amico.

«Buongiorno, amore.» disse sforzandosi di sorridergli lo stesso.

Matteo lo baciò e lo guardò perplesso.

«Cucciolo, ti senti bene? Hai una faccia distrutta.»

Poi avvicinò le labbra alla sua fronte e la sua espressione divenne preoccupata.

«Tu scotti, Fra.»

Francesco fece per alzarsi e tornare in camera sua ma Matteo lo trattenne deciso.

«Dove vai? Non vedi che non stai in piedi? Adesso ti accompagno io e proviamo la febbre.»

Lo scortò fino alla sua stanza, lo fece distendere sul letto, lo coprì e andò a recuperare il termometro. Ci mise dieci minuti a ricordare dove lo avessero messo e quando tornò Francesco si era riaddormentato. Dopo un po’ riaprì gli occhi e Matteo era lì di fianco a lui seduto su una sedia. L’amico gli accarezzò la fronte.

«Come stai? Sei ancora un po’ caldo.» E gli fece infilare il termometro sotto al braccio.

«Adesso mi sento molto meglio. Forse prima è stato solo un momento.» Probabilmente la tensione e la stanchezza accumulata nei giorni scorsi gli stavano facendo qualche scherzo.

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Passati cinque minuti Matteo sfilò il termometro.

«Quasi trentotto. Ti porto qualcosa da mangiare così puoi prendere una pastiglia che te la faccia abbassare.»

Francesco si appoggiò sui gomiti.

«No, Teo. Grazie. Preferisco venire giù io. Me la sento.»

Come scese dal letto gli sembrò che la testa fosse molto più pesante del resto del corpo e che le gambe non riuscissero a sorreggerla. L’amico lo aiutò a vestirsi e raggiunsero il resto della famiglia che era già in tinello. Non aveva appetito e faceva fatica a deglutire. Assaggiò giusto un biscotto con un goccio di te.

«Fra, non hai fame?» gli chiese Matteo.

«Non molta, non sono in forma. Magari vado a stendermi ancora un po’.» Poi si alzò dalla sedia, fece due passi e il tinello iniziò a girare sempre più forte. Barcollò, la vista si annebbiò e capì che stava cadendo a terra. Quando riprese coscienza dovevano essere passati solo pochi secondi. Matteo gli sorreggeva la testa e lo sollecitava preoccupato.

«Fra, mi senti? Fra, ti prego! Mi vedi?»

Francesco non riusciva bene a realizzare cosa stesse succedendo. Gli sorrise a fatica. Erano tutti intorno a lui, Elisabetta, Daniel, ma anche Rebecca ed Enrico.

Matteo gli accarezzò la fronte.

«Ti ricordi quello che è successo? Va meglio, amore?»

Ebbe un momento di lucidità. Realizzò che Rebecca ed Enrico avevano appena visto e sentito quello che aveva visto e sentito lui e fu sicuro di svenire di nuovo. Poi, come se non bastasse, Matteo lo prese in braccio e lo portò su per le scale dirigendosi senza esitazioni in camera sua. Lo adagiò sul letto e mandò la sorella a prendere il termometro rimasto nella stanza di Francesco.

Era completamente intontito ma gli sembrava che l’amico continuasse a prendersi cura di lui come se fossero stati soli. Solo che era quasi sicuro che non fossero soli.

Ad un certo punto Matteo chiese a tutti di uscire dalla stanza, lo aiutò a spogliarsi, gli fece indossare un suo pigiama che gli stava un po’ grande, lo coprì e gli mise il termometro sotto l’ascella. Poco dopo lo sentì parlare a bassa voce con Elisabetta che era ritornata.

«Ha più di quaranta. Gli ho dato una tachipirina. Per chiamare il medico è meglio che scenda, così non lo sveglio.»

Poi non si accorse più di niente.

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Fu svegliato da alcune urla che provenivano dal piano di sotto. Gli sembrava la voce di Enrico ma non riusciva a distinguere le parole. Si alzò con un grande sforzo e uscì dalla stanza per capire cosa stesse succedendo. Si aggrappò alla ringhiera delle scale per non rischiare di cadere di nuovo e rimase atterrito dalla scena che si trovò davanti: Matteo era accucciato in un angolo dell’ampio ingresso e cercava di ripararsi la testa con le mani mentre il padre lo scuoteva con violenza facendolo sbattere in continuazione contro il muro. Sentì la voce disperata dell’amico.

«Papà, ti prego.» supplicava. «Prenditela con me quanto vuoi ma non farti sentire da Francesco. Ha più di quaranta di febbre e ha bisogno di stare tranquillo.»

«Cosa, e io non dovrei disturbare quel frocetto di merda? Ma io vi ammazzo tutti e due. Ho accettato che quella femminuccia malefica venisse ad abitare qui, coglione che non sono altro, ma giuro che, se adesso tu ti fai traviare dalle idee di quello lì, io ti faccio fuori per lo stesso motivo per cui ti ho messo al mondo!»

Enrico gridava senza smettere di strattonare il figlio scaraventandolo contro la parete.

Matteo si difendeva solo proteggendosi il capo con le braccia e parlava con un tono molto più basso.

«Papà, capisco che tu ti senta preso in giro. Puoi insultare me come e quanto vuoi ma non voglio che tu dica una sola frase contro di lui. Non lo permetto. Lui non c’entra niente. Non è lui che si è nascosto per anni.»

Queste parole tolsero al dottor Neri qualsiasi capacità di autocontrollo. Si scagliò con tutta la forza che riuscì a trovare contro il figlio e gli picchiò la testa contro il muro.

«Non voglio mai più sentire queste cazzate.» gridò. «Io un figlio diverso, un figlio ricchione non lo accetto. Piuttosto ti ammazzo.»

Rebecca ed Elisabetta erano atterrite. Francesco, che fino a quel momento aveva assistito alla scena paralizzato, si sentì morire. Si precipitò verso di loro, si infilò tra Matteo e il padre cercando di fare da scudo all’amico e si rivolse ad Enrico.

«La supplico, dottor Neri, è solo colpa mia. Ha ragione a volersela prendere con me. Ma la prego lasci stare Matteo.»

Enrico rimase impietrito. Matteo guardò Francesco che era lì, davanti a lui, scalzo, con addosso il suo pigiama un po’ grande, gli occhi lucidi per la febbre e per la tensione. Lo fissò preoccupato, come se tutto quello che era successo fino a un secondo prima non contasse più.

«Cosa fai qui, Fra? Hai più di quaranta di febbre. Devi stare a letto.» Poi lo strinse a sé e si indirizzò verso le scale strattonando Enrico che cercava di fermarli.

«Lasciami stare. Non vedi che sta male. Non si regge in piedi.»

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Appena furono in camera Francesco lo guardò incredulo.

«Teo, perché hai fatto in modo che lo scoprissero?»

«Non ho fatto in modo che lo scoprissero. Solo che quando ti ho visto a terra non ho capito più niente.»

 

Le ore successive sprofondò in uno stato di semicoscienza e faticò per mettere a fuoco quello che succedeva intorno a lui. Gli sembrò che Matteo avesse chiuso a chiave la porta della stanza e che avesse aperto solo un paio di volte ad Elisabetta ma non ricordava niente di quello che i due fratelli si fossero detti. Nel pomeriggio arrivò il medico. Lo visitò mentre lui si faceva tastare inerme e lo sentì comunicare la sua diagnosi all’amico.

«Non sembra che ci sia nessuna infezione, né alla gola, né a livello intestinale. Però, se mi dice che nei giorni scorsi è stato sottoposto ad un forte stress e ha passato notti insonni, può essere che sia solo una reazione. A volte succede ma di solito queste febbri, dovute ad improvvise fonti di preoccupazione, scompaiono nel giro di una notte. Continui a dargli la tachipirina e a misurargli la temperatura ad intervalli regolari. Se domani la situazione non dovesse migliorare, ci risentiamo.»

La notte dormì profondamente. Matteo, steso di fianco a lui, non chiuse praticamente occhio. Ogni tanto gli faceva provare la febbre, gli dava qualcosa da bere e cambiava il panno bagnato sulla sua fronte.

Il lunedì mattina si svegliò tardissimo. L’amico, seduto accanto a lui, gli sorrise.

«Buongiorno, piccolino. Ieri mi hai fatto prendere uno spavento. Come ti senti?»

«Mi sembra di essere tornato nel mondo dei vivi.»

«Il dottore ti ha prescritto un paio di giorni di riposo. Ha detto che forse la febbre alta ti è venuta perché la settimana scorsa ti sei preoccupato per me e per quello che mi avevano fatto.»

Francesco gli prese una mano e se la portò alle labbra.

«Che Rebecca ed Enrico hanno scoperto tutto non me lo sono sognato, vero?» chiese titubante.

«No, Fra. E’ tutto vero. Adesso non preoccuparti. Pensa solo a guarire. Appena ti rimetti ce ne andiamo da qui. Io e te insieme. Lontano da chi non capisce. L’unica cosa che mi fa soffrire è che mio padre si sia permesso di parlare così di te.» poi aggiunse:

«E’ mezzogiorno. Ti porto la colazione. Purtroppo devo per forza passare al giornale per un paio d’ore. Cerco di fare prima che posso. Mi aspetti, vero?»

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Francesco era allibito. Matteo non sembrava per niente sconvolto per la reazione dei suoi. Suo padre lo aveva aggredito e gli aveva riversato addosso le offese più gravi con una rabbia e una violenza insospettabili in un uomo tanto indifferente a tutto. E lui provava dispiacere solo per gli insulti che Enrico aveva rivolto a Francesco. Non solo, ma, come se fosse la scelta più naturale del mondo, aveva deciso di lasciare tutto. Aveva deciso che sarebbero andati via insieme.

 

Matteo appoggiò il vassoio sulle sue gambe e lo baciò sulla fronte.

«Allora io vado. Mi raccomando non ti stancare troppo.»

Dopo venti minuti gli sembrò di sentire la voce di Enrico. Di solito rincasava non prima delle sette e non capitava praticamente mai che nel pomeriggio passasse da casa. Disse qualcosa di indecifrabile alla moglie, poi salì le scale nervosamente mentre continuava a imprecare da solo. Soltanto allora Francesco realizzò che stava venendo da lui e si alzò dal letto. Probabilmente Rebecca lo aveva avvisato dell’uscita di Matteo. Dopo pochi secondi lo vide aprire con violenza la porta della stanza e, prima ancora che Francesco si potesse rendere conto che fosse entrato, lo sentì gridare.

«Brutto frocetto di merda che non sei altro. Tu te ne devi andare subito da questa casa, hai capito? Non me ne frega un cazzo se sei debole o se hai la febbre! La febbre ce l’hai perché sei una femminuccia senza palle. Non voglio più vederti e non voglio che tu veda mai più mio figlio!»

Non riusciva a credere alle sue orecchie. Rimase impietrito continuando a non capacitarsi di una reazione tanto violenta da parte di un uomo così apatico, distaccato dalla realtà e incurante del mondo che lo circondava. Deglutì e gli rivolse uno sguardo mortificato ma deciso allo stesso tempo.

«Lei ha tutti i diritti di sbattermi fuori da casa sua ma non mi può chiedere di rinunciare a suo figlio.»

Per poco gli occhi di Enrico non schizzarono fuori dalle orbite mentre urlava ad un volume assurdo.

«Io non ti permetterò mai di rovinare la mia vita e quella della mia famiglia. Mio figlio farà il mio lavoro. E io sono a contatto tutti i giorni con uomini di chiesa. Non posso nemmeno minimamente pensare di avere un figlio omosessuale. Mi hai capito bene?»

Entrò Rebecca. Fino ad allora probabilmente era rimasta ad ascoltare sul pianerottolo ma adesso, temendo per le coronarie del marito, aveva deciso di intervenire. Enrico non la lasciò nemmeno parlare.

«Rebecca, per favore, non ti mettere di mezzo.» Poi guardò Francesco e il suo tono divenne più calmo.

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«Mio figlio non è gay. Lo conosco da ventisei anni e ne sono sicuro. Si è solo invaghito di te che gli hai messo in testa delle idee sbagliate. Ma tu non puoi distruggergli la vita. Se va avanti in questa cosa assurda, perderà la sua famiglia, le sue prospettive ma, soprattutto, non potrà mai avere una famiglia sua e dei figli. Se tu te ne vai e sparisci per sempre, lui con il tempo si dimenticherà di te e si innamorerà di una ragazza. Come tutte le persone normali.»

Francesco si sentì gelare il sangue nelle vene. E se Enrico avesse avuto ragione? Se davvero Matteo avesse avuto bisogno di non vederlo più per capire che era stato solo un episodio ma che questa non era la sua vera natura? O perlomeno non l’unica? Non poteva rischiare di essere responsabile di avergli fatto rinunciare ai suoi affetti, ad una vita facile, alla possibilità un giorno di diventare padre. Doveva provare a lasciarlo. Doveva non farsi trovare più per un periodo. L’idea di farlo soffrire lo faceva impazzire ma lo amava troppo per negargli la possibilità di tentare di vivere un’esistenza più semplice. Capì che solo facendo perdere le sue tracce avrebbe potuto permettergli di fare questo tentativo. E in un secondo prese la decisione più difficile e più dolorosa della sua vita.

«Dottor Neri, che lei ci creda o meno, io voglio un bene infinito a Matteo.» dichiarò. «E se davvero lei pensa che, sparendo dalla sua vita, lui possa riuscire a rifarsene una più normale, più facile, senza doversi privare di una gioia come quella di avere dei figli, se lei ne è veramente convinto, io me ne andrò e cercherò di non farmi trovare da lui, almeno per un periodo. Ma posso riuscirci solo se me ne vado subito, adesso. Perché se rivedessi suo figlio non sarei più in grado di farlo. Le chiedo solo di permettermi di venire a prendere le mie cose domani, mentre Matteo è al lavoro.»

Enrico sembrava sorpreso di aver ottenuto quello che voleva così facilmente e stupito di aver trovato una controparte tanto arrendevole.

«Bene, vedo che ci siamo capiti.» disse «Per le tue cose non c’è problema. Te le faccio preparare da Daniel così dovrai solo venirle a ritirare.» E uscì dalla stanza trascinando la moglie per un braccio.

Francesco rimase da solo. Guardò il letto dove lui e Matteo si erano amati infinitamente e fu sicuro di non farcela. Cercò di non pensare. Andò in camera sua, mise lo spazzolino e un ricambio in uno zaino e iniziò a ragionare su un possibile alloggio, se non altro per i primi giorni. Dopo, per tenere fede al suo proposito, avrebbe dovuto inevitabilmente lasciare Milano. Per iniziare sarebbe potuto andare qualche giorno dai suoi ma non era sicuro che ne sarebbero stati felici. E poi sarebbe stato costretto a dar loro almeno una spiegazione parziale di quanto successo. Sicuramente la soluzione migliore sarebbe stata quella di rimanere in città fino alla fine della settimana. Se non altro in questo modo sarebbe potuto rientrare al lavoro, avrebbe dato le dimissioni personalmente e avrebbe salutato Elisabetta. Ma l’unica persona che gli venne in mente per chiedere qualche giorno di ospitalità fu il suo ex amante. Prese il cellulare e cercò il nome nella rubrica.

Carlo rispose subito. Il suo tono era sorpreso e sarcastico al tempo stesso.

«Buonasera. Chi non muore si risente.»

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Lui si limitò a un «Ciao, Carlo. Spero che tu stia bene.» assolutamente privo di enfasi.

«Francesco, tutto a posto? Hai una voce!»

«Diciamo che ho passato periodi migliori. Magari te lo spiegherò con calma. Ho bisogno di chiederti un favore.»

«Spero che non sia un prestito perché sono senza un soldo!»

«No, figurati.» Poi si fece coraggio.

«Avrei bisogno che mi ospitassi per qualche giorno. Possiamo metterci d’accordo, ti darei qualcosa.»

«I tuoi ti hanno sbattuto fuori di casa?»

«Non vivo più con i miei.»

Carlo sembrava stupito.

«Va bene. Se è solo per qualche giorno, non ci sono problemi. Sarò a casa tra venti minuti.»

«Grazie mille. A dopo.»

Adesso rimaneva il compito più difficile. Matteo. Qualcosa doveva pur lasciargli detto. E soprattutto qualcosa che lo facesse desistere dal cercarlo. Si vide davanti gli occhi trasparenti che adorava più di se stesso. E sentì una fitta lancinante in mezzo al petto mentre contemporaneamente lo stomaco gli si contraeva in uno spasmo doloroso. Si era concentrato sugli aspetti pratici organizzativi e per un po’ non aveva pensato a quello che stava per fare. Come quando si perde una persona cara e ci si fa assorbire dalle mille incombenze burocratiche e obbligatorie. Lo si fa come se si fosse in trans. Come se non fossimo noi ma qualcun altro ad occuparsene. Pensò che forse quegli occhi non li avrebbe rivisti mai più. Si sentì morire. Fu sicuro che gli stessero portando via l’anima. Non c’è niente di più doloroso di quando per un secondo o qualche minuto si rimuove un motivo di sofferenza atroce e poi, improvvisamente, ci se ne ricorda. Quell’attimo ti sembra di non farcela. L’angoscia è talmente forte che si pensa di non essere in grado di vivere fino al momento dopo.

Con uno sforzo immane prese un foglietto e scrisse: “Scusami ma ho bisogno di non vederti e non sentirti almeno per un periodo. Non mi cercare. Ti prego.” Poi andò in camera di Matteo e posò il biglietto sul cuscino. Il cuore si spezzò e le lacrime iniziarono a scendere a fiumi.

Baciò quel cuscino, se lo strinse al petto. Fu sicuro di impazzire. Spense il telefonino e uscì di corsa, senza dire una parola a nessuno.

 

Page 153: Un Amore in Ginocchio

Arrivò davanti alla porta dell’appartamento di Corso Lodi. Aveva citofonato e Carlo lo aspettava sul pianerottolo.

«Ciao. Vedo che per stare qualche giorno non ti sei portato granchè.»

«No, ho preso giusto due cose per stasera. Domani passo a ritirare il resto.»

Si strinsero la mano e si baciarono sulla guancia.

L’ex amante gli fece strada in quella casa minuscola. Si ricordò dell’ultima volta che era stato lì e di quanto si fosse sentito umiliato. Non era stato niente in confronto alla sofferenza straziante che stava provando in quel momento. Pensò agli occhi trasparenti dell’amico. Di sicuro, se fosse stato Matteo a chiedergli di accettare le stesse frustrazioni di quella notte, sarebbe stato solo felice di accontentarlo.

Posò lo zaino sul divanetto e si rivolse al suo momentaneo padrone di casa.

«Mi hai salvato. Non so come ringraziarti.»

«A me vengono in mente tanti modi per ringraziarmi.» ammiccò Carlo guardandolo malizioso.

Si sentì male. Non aveva minimamente riflettuto sulla possibilità che il suo salvatore si aspettasse di ricevere una riconoscenza di quel tipo. E l’idea di farsi sfiorare da qualcuno, dopo tutti quei mesi in cui solo le mani di Matteo avevano toccato il suo corpo, gli diede la nausea. Deglutì a fatica.

«Carlo, vorrei dirti subito che ho solo bisogno di un posto per dormire. In cambio posso pagare una specie di affitto, pulirti tutta la casa e cucinare per te. Ma, credimi, non posso e non voglio darti altro. Se ti aspettavi qualcosa di diverso, non c’è problema. Lo capisco e cerco un’altra soluzione.»

Carlo lo guardò attonito ma si riprese subito.

«No, non c’è nessun problema. Come preferisci. Vada per la pulizia dell’appartamento e per la preparazione della cena. E dove vuoi dormire? Perché, non so se te lo ricordi, ma io ho solo questo divano letto.»

«Preferirei dormire per terra. Magari potresti prestarmi il tuo sacco a pelo.»

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29.

 

 

 

 

 

 

Fu la notte più lunga della sua vita. Almeno cento volte ebbe l’impulso di tornare da Matteo. Di implorare il suo perdono. Di dirgli che avrebbe voluto dargli la possibilità di un’esistenza normale ma era un egoista e senza i suoi occhi trasparenti non riusciva a vivere. E cento volte si era violentato per non farlo. Per restare in quel sacco a pelo sul pavimento. Era scomodo ma avrebbe voluto essere su un letto di spine e di chiodi pur di avere Matteo di fianco. Anzi, se lo sarebbe sdraiato addosso Matteo, così le spine e i chiodi sarebbero stati solo per lui!

Finalmente arrivò la mattina. Si alzò insieme a Carlo e gli preparò la colazione.

«Non vai al lavoro oggi?» gli chiese il padrone di casa mentre si faceva servire.

«No, domenica mi sono sentito male e il medico mi ha dato due giorni di malattia. Oggi pomeriggio penso di uscire per andare a prendere le mie cose.»

«Ah, bene così stamattina puoi rispettare il nostro patto e pulirmi la casa. Sei fortunato. Non è nemmeno tanto grande!» E non si capiva se stesse scherzando o dicesse sul serio.

La sera prima Carlo gli aveva fatto pochissime domande e lui gli aveva dato pochissime risposte. Si era limitato a spiegare che c’erano stati dei disguidi con la famiglia presso cui viveva e che aveva deciso di andarsene. Non una parola su Matteo né sulla sua intenzione di lasciare tutto per andare lontano.

La mattina restò in casa e, un po’ per ingannare il tempo un po’ perché gli venne il dubbio che Carlo lo pretendesse davvero, cercò di sistemare come meglio poteva quel buco di appartamento.

Il pomeriggio sarebbe dovuto passare dai Neri ma fu più forte di lui. Lo straziava l’idea di tornare in quella casa per l’ultima volta. Di salire nella sua stanza, di ripensare a Matteo e ai momenti insieme su quel lettino singolo o chiusi nel bagnetto minuscolo, uno di fianco all’altro, intrecciati, senza la forza di lasciarsi. E adesso lui quella forza l’aveva trovata per sempre. Per amore. Perché lo adorava. Perché avrebbe dato la vita pur di vederlo felice. E l’aveva già data la

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vita, perché lasciarlo era stato come rinunciare a vivere. Decise che avrebbe telefonato per chiedere a Daniel di mandargli i bagagli da qualche parte.

Verso sera si mise a cucinare qualcosa, non tanto per lui che non toccava cibo dal giorno prima e non ne avrebbe toccato per molto tempo, ma per Carlo, perché non si stancasse subito di ospitarlo. Gli aveva telefonato per avvisarlo che sarebbe tornato dal lavoro molto tardi. Alle dieci di sera non si era ancora visto. Francesco sentì suonare alla porta e andò ad aprire con ancora addosso il grembiule indossato per evitare di sporcare il suo unico cambio.

Fuori, sul pianerottolo, con una faccia sconvolta e gli occhi di chi aveva pianto fino a finire le lacrime, c’era Matteo. Francesco ebbe l’impulso di buttarsi ai suoi piedi e di abbracciarlo ma una forza sovrumana lo inchiodò al pavimento per qualche secondo. L’amico lo fissò. Guardò il grembiule, la tavola apparecchiata e il suo viso divenne una maschera di dolore e delusione.

«Quando Lidia mi ha suggerito di cercarti in questa casa ho creduto che fosse pazza. E invece aveva ragione lei. Sei qui e stai aspettando il tuo fidanzatino con tanto di cena pronta. E fino a ieri mi dicevi che non potevi vivere senza di me.» Gli occhi sprizzavano rabbia, il risentimento diventò lancinante, la sua mano si alzò e colpì con uno schiaffo deciso il viso di Francesco. Poi si girò e scese le scale correndo all’impazzata, senza mai voltarsi indietro.

Francesco rimase stordito, incapace di reagire per qualche minuto, terrorizzato da come lo avevano guardato quegli occhi… come se non fossero in grado di sopportare quello che avevano visto. Poi si precipitò giù per le scale ma Matteo non c’era già più. Guidò disperatamente fino a casa dei Neri. Gli sembrava di impazzire. Di sicuro il suo Teo lo avrebbe guardato così per sempre… lo avrebbe disprezzato per tutta la vita perché lui aveva tradito la sua fiducia, aveva tradito il loro amore. Si immaginava già in ginocchio mentre lo supplicava di perdonarlo, di lasciarlo spiegare, di fare di lui quello che voleva pur che non lo escludesse per sempre dalla sua vita. Avrebbe fatto giorno e notte solo quello che voleva lui, non avrebbe più respirato senza il suo permesso, qualsiasi cosa… non pretendeva che tornasse tutto come prima ma… non poteva pensare di vivere senza di lui.

Arrivò davanti al portone della palazzina di Via Podgora, lasciò la macchina sul passo carraio, salì le scale facendo due, tre gradini alla volta, suonò alla porta, superò Daniel che era venuto ad aprire ma si trovò davanti Enrico che gli sbarrò la strada.

«Dove cazzo credi di andare, frocetto di merda?» urlò. «Ti ho detto che devi lasciare stare mio figlio.»

Francesco non gli rispose neanche, lo spinse da parte e corse verso le scale. Matteo si precipitava da basso senza nemmeno guardare i gradini. Non fece in tempo a dire nulla. La famiglia Neri li fissava attonita. L’amico si buttò ai suoi piedi e parlò tutto di un fiato, con la voce che si spezzava.

«Fra, non so come ho potuto fare una cosa del genere. Ti prego, dammi una possibilità, una sola… Sono uno stronzo, ho creduto che non volessi più vedermi, poi ti ho visto in quella casa e non ho capito più niente. Reagisci, colpiscimi, prendimi a pugni, a calci…»

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Francesco lo guardava allibito, cercando di farlo rialzare o, perlomeno di abbassarsi al suo livello, ma Matteo era talmente avvinghiato alle sue ginocchia da impedirgli qualsiasi movimento.

«Ho avuto paura, Teo. Ho avuto paura che mi avresti guardato come prima per sempre. Mentre guidavo mi sembrava di diventare pazzo, come se stessi andando in ospedale da qualcuno che ha appena avuto un incidente grave. Vieni qui, abbracciami.»

Matteo lo guardò sbalordito alzando gli occhi su di lui.

«Fra, sei sicuro?» balbettò sempre restando in ginocchio. «Io ti ho tirato uno schiaffo…» e lo disse con l’incredulità di chi pensa di aver compiuto il più grave dei reati ma, invece di sentirsi condannare, scopre che gli vogliono dare una medaglia.

«Non me frega un cazzo di quello schiaffo.»

Finalmente l’amico allentò la presa e Francesco riuscì ad inginocchiarsi a sua volta e a stringerlo forte.

«Non succederà mai più.» disse Matteo con la voce che continuava a tremargli. «Sei libero di vedere chi vuoi. Non pretendo assolutamente di essere l’unico.»

Mentre parlava afferrava con foga il viso dell’amico che a sua volta lo abbracciava. Era come se non riuscissero a credere di potersi toccare ancora.

«Teo, ti giuro, non è come pensi tu… lascia che ti spieghi…»

«Non m’importa. Qualunque cosa tu abbia fatto o farai non mi interessa. Anzi, mi interessa perché sono un geloso di merda ma… non ho nessun diritto, io…»

Francesco non poteva credere alle sue orecchie. Si chiedeva cosa pensassero Rebecca, Enrico ed Elisabetta. Forse che lui si approfittasse di Matteo, lui che avrebbe dato la sua vita per quegli occhi trasparenti.

Poi Enrico si rivolse al figlio, gridando per cercare di sovrastare la sua voce concitata.

«Il tuo amichetto se n’è andato perché l’ho cacciato io. E se adesso tu te lo vuoi riprendere lo stesso, se non ti interessa che si sia subito fatto consolare da un altro… beh, fallo fuori di qui. Questa è casa mia e voglio che ve ne andiate immediatamente. Non m’importa se vi ritroverete in mezzo a una strada alle undici di sera.»

Francesco non riuscì nemmeno ad articolare una frase in sua difesa, la voce gli si strozzò in gola mentre Matteo gridava più forte del padre.

«Va bene, papà. Ce ne andiamo. Subito.»

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Enrico guardò il figlio sconsolato.

«Non solo sei frocio ma non hai nessuna dignità.» disse sprezzante.

«La dignità non c’entra niente con i sentimenti.» gli rispose Matteo con il tono di chi non ha alcuna speranza che le sue parole vengano comprese. «Quando ami qualcuno più della tua vita… sei disposto a qualunque cosa… accetti tutto, anche le umiliazioni… solo che non ti senti umiliato. Mi spiace solo che tu non lo proverai mai!»

Enrico lo fissò incapace di ribattere a quelle frasi così lontane da lui.

«Te ne vai ma da me non avrai un soldo. Adesso ti blocco il conto corrente e non ti azzardare a portare via la tua macchina. Lo sai che è intestata allo studio per cui da oggi non è più tua.»

Salirono ognuno nella sua stanza per buttare qualche vestito in una borsa. Francesco fece più in fretta possibile scegliendo a caso dalle valigie che Daniel gli aveva già preparato. Era inutile portarsi dietro tutto. Più avanti si sarebbe fatto mandare il resto in qualche modo, sempre che nel frattempo Enrico non avesse dato disposizioni di mandare tutto al macero.

Non appena ebbe finito, raggiunse Matteo in camera sua.

L’amico gli sorrise.

«Fra, hai già fatto? Un secondo e sono pronto anch’io.»

Francesco teneva gli occhi bassi, senza il coraggio di guardarlo.

«Teo, ieri sono andato via perché ho parlato con tuo padre.»

Matteo lo fissò.

«Cosa ti ha detto?»

«Mi ha detto che lui ti conosceva da ventisei anni, che era sicuro che tu non fossi gay, che ti eri solo invaghito di me e che… che, se io fossi sparito, tu ti saresti rassegnato e ti saresti riaccorto delle donne. E io ho avuto paura. Ho avuto paura che avesse ragione. Ho avuto paura di costringerti a fare una scelta difficile, che ti impedirà di farti una famiglia, di avere una vita normale. E’ lo stesso motivo per cui non ho mai voluto che tu dicessi a tutti di noi. Perché magari da un momento all’altro potevi accorgerti di esserti sbagliato e, se fosse stato solo un segreto nostro, potevi sempre tornare indietro. Io… non avrei fatto niente per trattenerti. Non farò mai niente. Ci sarò solo fino a quando tu vorrai.»

Matteo lo fissò incredulo.

«Francesco…» Non lo chiamava mai con il suo nome e a Francesco sembrò strano sentirglielo pronunciare.

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«… a me non piacciono le donne. Non mi sono mai piaciute. Solo che sono stato un vigliacco. Se non ti avessi conosciuto forse mi sarei anche sposato, avrei fatto dei figli, per poi farmi beccare a letto con uomo. Con il risultato che avrei rovinato la mia e la vita di tutti quelli che ne avrebbero fatto parte. Ma per fortuna sei arrivato tu. Non puoi nemmeno immaginare che inferno ho passato da quando ti ho incontrato. Da quando mi hai detto “piacere, Francesco” non ho fatto altro che desiderarti. Milioni di notti ho sognato che entravi in camera mia e mi facevi di tutto. All’inizio ho cercato di starti lontano. Poi hai scritto quell’articolo, il primo, quello sul messaggio pubblicitario. Eri lì, alla mia scrivania, concentratissimo e io ti guardavo da dietro. Vedevo i tuoi riccioli che sfioravano l’inizio del collo, la tua schiena che si contraeva impercettibilmente sotto la camicia, i jeans che aderivano perfettamente alle tue gambe, beati loro! Credevo che ti sarei saltato addosso anche se c’era mia sorella in stanza con noi. E invece sono andato a sciacquarmi la faccia con l’acqua gelata e ho respirato profondo. Poi ho sperato che, diventando amici, mi sarebbe passata questa continua e spasmodica voglia di te. Ma più ti conoscevo, più mi facevi diventare matto. E quella sera, in questa camera, mentre scrivevi il mio pezzo sulle Torri Gemelle, ho capito che, se non mi avessi scopato quella notte stessa, sarei potuto impazzire. Erano mesi che speravo in tuo gesto, in un tuo passo, anche piccolo, anche solo la ricerca di un contatto fisico. Ma tu niente. Eri dolcissimo, mi riempivi di attenzioni ma non mi toccavi mai.»

Francesco gli sorrise… non sapeva cosa dire. Pensò a quanto anche lui avesse desiderato Matteo da subito, si ricordò di quanta fatica avesse fatto per concentrarsi sugli articoli avendolo lì a pochi centimetri da lui, rivisse gli sforzi compiuti per stargli lontano durante le gite in bicicletta e le partite di tennis, gli vennero in mente tutte le volte che avrebbe voluto essere al posto della sua racchetta, o, meglio ancora, del suo sellino.

«Teo, ma io pensavo che ti piacessero le donne! Non volevo offenderti, mancarti di rispetto. A volte mi arrivavano dei segnali ma ero convinto che fosse la mia immaginazione malata, malata di te, a mandarmi dei messaggi sbagliati. Mi sento uno stupido ma sono sicuro che, se tu non fossi stato esplicito, non avrei mai fatto niente per anni. Mi dispiace, sono stato un coglione. Ma davvero non avevo capito….»

Matteo gli si avvicinò.

«Siamo stati due scemi… non ci rimane che cercare di rimediare.» disse con tono ammiccante cercando la sua bocca.

Francesco cercò di fermarlo dolcemente.

«Non si può… dobbiamo andare via.»

«Sì… io non so dove andremo ma, ovunque sia, non credo di riuscire ad aspettare fino a quando arriviamo.»

«Va bene, vorrà dire che ci fermiamo subito, appena usciamo da qui.» poi abbassò lo sguardo e aggiunse:

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«Teo, ti giuro che stanotte ho dormito per terra nel sacco a pelo.»

Matteo gli sorrise con la riconoscenza di un cane a cui il padrone dà da mangiare dopo molti giorni di digiuno.

«Grazie per avermelo detto.»

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30.

 

 

 

 

 

 

Lasciarono l’appartamento di via Podgora senza parlare. Enrico si era chiuso nello studio. Rebecca era rimasta in salotto. Forse non aveva avuto la forza di guardare il figlio che usciva da quella porta, cacciato come se fosse il peggiore dei criminali. Elisabetta scese con loro. Davanti al portone strinse il fratello, abbracciò Francesco e pianse. Pianse come una bambina, la voce rotta dai singhiozzi.

«Voi lo sapete che, di nascosto da lui, io posso farvi avere tutto quello che vi serve?»

La macchina di Francesco era ancora lì sul passo carraio. Matteo salì al posto di guida e l’amico gli si sedette accanto. Si diressero verso Via Caldara.

Era mezzanotte passata. Non sapevano dove andare. Non avevano un posto per dormire. Non mangiavano tutti e due da due giorni e gli unici soldi di cui disponevano erano i pochi spiccioli che avevano in tasca. Ma Francesco si sentiva tranquillo. Si ricordò di quando era piccolo e i suoi decidevano di mettersi in viaggio di notte per trovare meno traffico. Sull’autostrada si fermavano ai punti ristoro di fianco ai benzinai. Erano gli unici clienti. Il barista di turno sonnecchiava dietro al banco. E lui si diceva che, se fosse stato da solo, avrebbe avuto una paura tremenda. Ma non era solo, c’erano la sua mamma e il suo papà che lo tenevano per mano. E si sentiva protetto da tutto e da tutti. Guardò Matteo e riprovò la stessa sensazione di quelle notti. Gli prese una mano e iniziò a strofinarsela sul viso. Gli succhiò le dita guardandolo con la testa inclinata e gli occhi socchiusi. L’amico fece scivolare la mano sul suo petto, sul suo diaframma, sugli addominali e giù fino a sfiorare l’inguine. Francesco gemette e si allungò verso di lui cercando di abbassargli la cerniera dei jeans. Si guardarono e, senza che si fossero detti una parola, Matteo si diresse verso Linate. Francesco cominciò a sfiorargli il collo con la lingua. Cercò la sua bocca. Gli sbottonò i primi bottoni della camicia e infilò una mano facendogliela scivolare sulle spalle, sulla schiena, sui fianchi. E finalmente Matteo parcheggiò in una zona isolata dietro l’aeroporto.

 

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Erano seduti sul sedile posteriore della macchina. Matteo gli accarezzava i riccioli sudati e lui posava la testa sulle sue cosce muscolose. Avevano fatto l’amore. Era la prima volta che facevano l’amore in macchina. Francesco si era appoggiato Matteo sulle gambe e avevano fatto l’amore. Avevano fatto l’amore per dirsi che si amavano più di prima. Avevano fatto l’amore per dirsi che andava tutto bene. Andava tutto bene anche se non avevano niente.

Matteo gli sfiorò la fronte con una mano.

«Sembra che la febbre non ti sia più risalita. Non scotti più.»

Alzò il capo dalle sue gambe e lo baciò sulla pancia piatta.

«Strano perché fino a dieci minuti fa mi sembrava di andare a fuoco.»

Matteo sorrise.

«Cosa facciamo, piccolino?»

«Che ore sono?»

L’amico sbirciò l’orologio sul cruscotto.

«Le quattro.»

Francesco si sollevò e lo guardò con tenerezza.

«Teo, credo che, per difenderci dall’ira funesta di tuo padre, dobbiamo andarcene da Milano. Se continuassimo ad abitare e a lavorare qui, non ci lascerebbe vivere.»

«Penso che tu abbia ragione. E hai in mente qualcosa?»

«Non ho nessuna idea concreta. So solo che vorrei un posto dove non ci conoscesse nessuno, un posto solo nostro. Non voglio niente intorno che mi ricordi questa città. Ho sempre amato Milano ma adesso ogni angolo puzza di quello che qui siamo stati costretti a subire. Se per te va bene, per il momento, potremmo provare ad andare in un paesino sul lago.»

 

Presero l’autostrada in direzione Lecco e fecero sosta in un autogrill per bere un caffè.

All’ingresso Francesco si fermò per allacciarsi una stringa. Matteo fece qualche metro senza accorgersene. Poi si girò, lo vide lì sulla porta, tornò indietro e lo prese per mano.

«Tutto bene, amore?»

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Francesco si sentì bambino e fu sicuro che non gli sarebbe successo nulla. Una coppia che usciva in quel momento li guardò con curiosità. Presero due cappuccini con brioche e si sedettero ad un tavolo di legno. Contarono i soldi di cui disponevano: novantacinque euro in due oltre a centocinquanta euro sul conto di Francesco.

Guardò l’amico. Pensò al lusso in cui aveva vissuto fino a quel giorno. Pensò alla sua macchina sportiva nuova di pacca. Pensò al maggiordomo e alla domestica che lo avevano servito da quando era nato. Pensò alle case di villeggiatura della sua famiglia sparse per l’Italia. Gli accarezzò una guancia e lo fissò mortificato.

«Teo, mi dispiace che tu sia in questa situazione per colpa mia.»

Matteo gli sorrise.

«Non sono mai stato così felice. E non ho mai avuto meno paura di adesso.»

 

Quando lasciarono l’autostrada cominciava ad albeggiare e il lago era ancora più bello del solito. O forse sembrò così a lui perché con Matteo vicino qualsiasi posto splendeva di luce riflessa. Si fermarono nel primo paesino che incontrarono e presero un vicolo che si poteva percorrere solo a piedi. Una scalinata lunghissima dai gradini in pietra leggermente sconnessi sfociava in una piazzetta ottocentesca. Una chiesetta si specchiava nell’acqua. La luce soffusa di alcuni lampioni di ferro illuminava le panchine rivolte verso il lago. Sulla sponda opposta si intravedeva Bellaggio. Si respirava un’atmosfera d’altri tempi. Gli ricordò la sensazione che aveva provato la prima volta in cui, passeggiando sui Navigli a Milano, si era ritrovato inaspettatamente in Vicolo delle Lavandaie. Tutto sembrava fermo da anni. E lui aveva creduto che da un momento all’altro da uno dei palazzi sarebbe uscita una donna con un cesto di panni.

Nella piazzetta non c’era nessuno. Matteo lo attirò a sé e lo baciò.

«Qui mi sembra perfetto. Cosa dici? Proviamo a vedere se troviamo una camera scalcinata?»

Risalirono il vicolo ed entrarono in un bar già aperto. Il proprietario disse che avrebbero potuto trovare un affittacamere piuttosto economico in una delle viette che partivano dalla strada principale. Seguirono le sue indicazioni e si ritrovarono in un vicoletto. Su una palazzina fatiscente, si intravedeva un cartello scolorito su cui si indovinava la scritta “Camere”.

Entrarono in una specie di reception composta da un tavolo di legno e da una signora anziana che passava uno straccio sul pavimento dell’ingresso. Li guardò con aria interrogativa. Francesco si avvicinò.

«Buongiorno. Vorremmo sapere se ha disponibilità di una camera doppia.»

La donna li squadrò da capo a piedi.

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«Con due letti singoli?» chiese.

Lui si voltò verso Matteo.

«Se è possibile, matrimoniale.» disse l’amico deciso.

La signora anziana sospirò, infilò gli occhiali e controllò un quaderno consunto.

«Quanto tempo dovreste fermarvi?»

«Non lo sappiamo. Ma se non costasse molto anche parecchio tempo.» rispose Francesco.

«Se volete una soluzione molto economica, ho una stanza arredata in un palazzo qui vicino, con bagno e un piccolo angolo cottura. Di solito la affittiamo a persone che si trattengono per lunghi periodi per motivi di lavoro o di salute.»

Si guardarono e risposero quasi insieme che sarebbe andata benissimo.

Poi la donna lanciò loro un’occhiata minacciosa.

«La camera è libera e io ve la posso dare. Ma la prima volta che mi vengono riferiti episodi spiacevoli vi metto in strada, qualunque ora sia. Lì non ci deve entrare nessun altro a parte voi. Intendo dire che non voglio festini e personaggi strani nelle mie stanze. Ci siamo capiti?»

I due amici abbassarono lo sguardo.

«Non si preoccupi, signora. Non le creeremo alcun problema.» assicuròMatteo.

Il mini appartamento era anche peggio di quanto si fossero aspettati. Il mobilio si componeva di un letto di ferro senza testata, un armadio a due ante che doveva fungere da guardaroba, un tavolo con quattro sedie sgangherate, una credenza di legno con i cassetti che chiudevano a malapena, un fornello scalcinato e un lavandino minuscolo sotto una finestrella che rappresentava l’unico punto luce della camera. Ma l’affitto era più conveniente di quanto non avessero sperato per cui, senza esitazione, diedero i documenti d’identità alla signora che aspettava con aria annoiata.

Appena furono soli Matteo gli accarezzò una guancia.

«Vado a prendere le borse.»

Francesco lo afferrò per un braccio e lo attirò a sé.

«Non ho capito bene. Dove credi di andare? Tu non vai da nessuna parte se prima non mi scopi.»

«Pensavo che fossi stanco.»

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«Ah, pensavi che fossi stanco? Adesso ti faccio vedere io se sono stanco!» lo canzonò mentre lo spingeva sul letto facendogli il solletico.

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31.

 

 

 

 

 

 

Guardava fuori dalla finestrella sopra il lavandino e aspettava che arrivasse Matteo. La camera si affacciava sul retro di un ristorante. La casa dall’altra parte della via era talmente vicina che allungando una mano avrebbe potuto quasi toccarla. La luce filtrava appena e il lago non si intravedeva nemmeno in lontananza. Sul ballatoio di fronte un cane abbaiava e un bambino lo stuzzicava incosciente. Passò un uomo in bicicletta e gli fece un cenno di saluto. Non sapeva spiegarsi di preciso il perché ma gli venne in mente un passo di “Marcovaldo”. La figlia del protagonista guardava le insegne luminose della pubblicità: erano vicinissime alla finestra dell’unico locale in cui viveva con tutta la famiglia. Si ricordava che tutto intorno a lei trasudava povertà. Ma di quella povertà che unisce. Che ti unisce alla famiglia e ti unisce ai tuoi vicini, chiunque siano. La ragazza era giovane e pensava all’amore. E lui aveva avuto la sensazione che fosse felice. Anche lui si sentiva felice. Anzi non si era mai sentito così felice come in quel momento in cui nella stanzetta squallida si diffondeva l’odore del sugo di pomodoro che stava cucinando per Matteo.

Erano arrivati da una settimana. Il primo giorno si erano separati ed erano andati alla ricerca di un bar o un ristorante che fosse a corto di camerieri. Avevano bisogno di soldi e forse quello era il modo più veloce per guadagnare uno stipendio. Per la verità lui avrebbe preferito lavorare anche per Matteo e permettergli di trovarsi un’occupazione decente con più calma. Aveva insistito tantissimo, gli aveva detto che gli si stringeva al cuore all’idea di vederlo servire ai tavoli con una laurea e dopo che per due anni aveva scritto articoli per un giornale. Ma l’amico non aveva voluto saperne. Non solo: come era ovvio, anche lui avrebbe voluto guadagnare anche per Francesco e consentirgli di cercare un impiego gratificante anche se non subito remunerativo. Alla fine avevano deciso che per il momento nessuno dei due avrebbe badato alla qualità ma solo alla sostanza, anche perché, dopo l’anticipo dell’affitto, i soldi rimasti erano veramente pochi. Per fortuna lo zona era abbastanza turistica e la stagione favorevole. E, grazie a qualche dritta della padrona della stanza, entrambi avevano trovato un posto da camerieri nel giro di pochi giorni in due paesini limitrofi. Matteo aveva iniziato in una specie di pub. Francesco in una tavola calda: «cercano di sicuro» gli aveva suggerito la signora. «il proprietario è un pazzo schizofrenico e di solito il personale si licenzia dopo pochi giorni.» Ma lui dopo una settimana non si era ancora licenziato.

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La sera del primo giorno di lavoro era entrato nella stanzetta. Matteo era già arrivato. Gli era andato incontro e lo aveva abbracciato forte.

«Come è andata, Fra? Il padrone è così terribile come diceva la vecchia?»

Francesco aveva emesso un verso indefinito e Matteo aveva intuito che la donna non aveva esagerato. Anzi.

Lo aveva guardato preoccupato.

«Ha fatto lo stronzo?»

«No. Non più di tanto.» E l’amico aveva scosso il capo sconsolato come per dire che aveva capito che doveva essere stato un inferno.

Poi Francesco lo aveva guardato negli occhi.

«Anche con te non devono essere stati il massimo, vero?»

Matteo lo aveva fissato sorpreso.

«Perché dici così?»

«Perché sennò mi avresti proposto di fare cambio.»

In quella settimana era stata una gara continua per occuparsi l’uno dell’altro. Entrambi volevano cucinare, pulire, stirare, lavare i piatti, fare la spesa. Qualsiasi cosa pur che l’amore della loro vita non si abbassasse ad incombenze del genere. Di solito vinceva chi arrivava per primo. E quella sera aveva vinto Francesco.

Sentì Matteo che saliva le scale e andò ad aprirgli la porta. L’amico arrivò trafelato e gli diede un bacio.

«Scusa, Fra. Mi hanno tenuto lì un po’ di più. Sei arrivato da tanto?» chiese concitato.

«Calma, cucciolo. Respira.»

Matteo sorrise.

«Per farmi perdonare di averti lasciato fare tutto da solo… ti ho preso un dolcino. Un semifreddo alla nocciola. Mi hanno detto che è la gelateria più buona della zona. Spero che non si sia squagliato con il caldo che fa!»

Francesco aprì il pacchettino per metterlo in freezer. Matteo aveva comprato solo una porzione.

«Per te non l’hai preso, Teo?»

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«No, io l’ho già mangiato perchè quando sono uscito morivo dalla fame.» Ed era chiaro che stesse mentendo spudoratamente. Chissà cosa costava quel pugnetto di gelato! E per se stesso quei soldi non li avrebbe mai sprecati.

Lui lo guardò accondiscendete.

«Va bene, vorrà dire che di questo rimasto faremo metà per uno.»

Poi lo prese per mano e lo fece sedere sul letto.

«Aspettami qui, arrivo subito.»

Andò in bagno e riempì una bacinella di acqua tiepida. Tornò nella stanzetta e posò il catino davanti all’amico. Gli si inginocchiò davanti e iniziò a slacciargli le stringhe delle scarpe da ginnastica. Matteo cercò di fermarlo.

«Fra, cosa fai? Faccio da solo.»

Lui, sempre inginocchiato, lo guardò mortificato.

«Lo sai che mi piace prendermi cura di te.»

L’amico gli accarezzò i riccioli e lo lasciò fare rassegnato. Francesco gli tolse le scarpe, gli sollevò i pantaloni per sfilargli le calze, gli baciò le ginocchia, le caviglie, i polpacci. Poi gli fece immergere nella bacinella i piedi indolenziti da dodici ore fra i tavoli e iniziò a massaggiarglieli con dolcezza. Quando ebbe finito, glieli asciugò con cura e glieli baciò con un gesto che racchiudeva tutta la devozione che provava per lui.

«Va un po’ meglio?» gli chiese.

Matteo lo prese per la vita dei pantaloncini e lo attirò a sé. Francesco, senza rialzarsi, appoggiò il viso tra le gambe di lui e, in un unico gesto collaudato, con una mano gli sollevò la maglietta e con l’altra gli sbottonò i jeans iniziando a baciarlo ovunque. E l’acqua della pasta evaporò completamente.

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32.

 

 

 

 

 

 

Correva veloce verso la fermata del pullman. Era in ritardo ma sperava di salire al volo, altrimenti avrebbe dovuto aspettare più di mezz’ora. La mattina era riuscito a lasciare la macchina a Matteo. Di solito se la dividevano a seconda dei rispettivi turni di lavoro ma è inutile dire che entrambi volevano sempre che la tenesse l’altro. Piuttosto che privarsi a vicenda di una comodità, si sarebbero fatti dieci chilometri a piedi a testa. Era quasi arrivato alla pensilina trasparente quando sentì squillare il telefonino. Stava già rispondendo “Ciao, amore” convinto che fosse Matteo, quando si accorse che sul display compariva un numero sconosciuto.

«Sì?» disse pensando che si trattasse di uno sbaglio.

«E’ il signor Francesco?» Era una voce di donna e a quanto pareva cercavano proprio lui.

«Sì, sono io. Francesco Ghezzi. Chi parla?»

«Mi scusi, signor Ghezzi, ma non conoscevamo il suo cognome. Abbiamo chiamato lei perché al telefono dell’abitazione di Milano, presso cui risulta residente il signor Neri Matteo, non risponde nessuno. E, sul cellulare del signor Neri, l’ultimo numero presente nelle chiamate in uscita è il suo. Lei può aiutarci a rintracciare la famiglia? Chiamiamo dall’ospedale di Lecco.»

Francesco non vide più niente. Fu sicuro di svenire. Barcollò e si sedette sul marciapiede.

«Cosa è successo?» balbettò senza nemmeno accorgersi di parlare.

«C’è stato un incidente e il signor Neri è stato portato qui.»

Si sentiva soffocare. Gli tremavano le gambe, le mani, la voce.

«Cosa si è fatto?» Era frastornato, sconvolto ma allo stesso tempo capiva con una lucidità impressionante che da quella risposta dipendeva la sua vita.

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«L’impatto è stato molto violento. Al momento non siamo in grado di fare diagnosi perché il paziente non ha ancora ripreso conoscenza.»

Ma lui aveva bisogno di una conferma. Ne aveva bisogno per riuscire a respirare di nuovo. Deglutì e si fece coraggio.

«La prego. Mi dica se è vivo.» disse.

«Signor Ghezzi, ho detto solo che non ha ripreso conoscenza non che è deceduto.»

L’aria ricominciò a entrare nei polmoni. Poi la donna chiese:

«Scusi, ma lei è un parente?»

La voce gli si era paralizzata in gola: era già uno sforzo sovrumano far entrare l’ossigeno ma far uscire le parole era quasi impossibile. Avrebbe voluto dirle che “no, non era un parente ma senza di lui non poteva vivere nemmeno un secondo”. Avrebbe voluto dirle che “era solo un amico ma, se non avesse potuto rivedere la vita in quegli occhi trasparenti, non avrebbe avuto più senso niente.” Avrebbe voluto dirle che “era un semplice amico e che, se non fosse stato per una coincidenza, non avrebbe avuto nemmeno il diritto di essere avvisato.” Ma quello che la donna sconosciuta non sapeva era che, come quegli occhi trasparenti guardavano lui, non avevano mai guardato nessuno.

«No… non sono un parente. Sono… sono un amico. Ma non si preoccupi conosco la famiglia molto bene.»

Fermò un taxi. Per fortuna da pochi giorni aveva preso lo stipendio del primo mese. Almeno avrebbe avuto i soldi per pagare la corsa.

«Devo andare all’ospedale di Lecco…» e aggiunse implorante:

«.. . la prego, faccia più in fretta che può.»

Il tassista, forse impietosito dalla disperazione della sua voce, risparmiò i soliti commenti del calibro “senta, io posso anche andare veloce ma se c’è traffico il taxi non vola” e si limitò ad un discreto e compassionevole «speriamo solo che non ci siano ingorghi.».

Era seduto sul sedile posteriore e guardava fuori dal finestrino senza trattenere nemmeno un’immagine di quelle che gli scorrevano davanti. Si accorse che stava pregando. Non sapeva nemmeno lui a chi o a cosa si stesse rivolgendo ma ad un certo punto si rese conto che le sue labbra si muovevano. Emettevano un sussurro che anche lui faceva fatica a percepire. Ma le parole erano chiare nella sua mente: “Ti supplico, fallo vivere. Solo questo. Fallo vivere.” e continuavano così all’infinito. Poi la voce del tassista lo riportò alla realtà.

«Siamo arrivati.»

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Pagò la corsa e, senza aspettare il resto, si mise a correre il più veloce che poteva verso l’ingresso del pronto soccorso.

Raggiunse la reception.

«Sto cercando Neri Matteo. Ha avuto un incidente e lo hanno portato qui.» disse ansimando.

L’infermiera interrogò il computer. Ci mise pochi secondi ma a lui sembrarono un’eternità.

«Corridoio in fondo, secondo piano, reparto rianimazione.» Alla parola “rianimazione” una vertigine lo attraversò per tutto il corpo e fu sicuro di non riuscire a restare in piedi. Si fece forza, si concentrò sulle indicazioni appena ricevute e si ritrovò davanti all’insegna che stava cercando. Si guardò intorno alla ricerca di qualcuno con un camice a cui poter chiedere informazioni e vide due donne in un angolo che avevano tutta l’aria di essere infermiere.

«Scusate. Sto cercando Neri Matteo. Mi hanno detto che dovrebbe essere qui.»

Lo fissarono titubanti e lui aggiunse:

«E’ un ragazzo. Ventisei anni. Ha appena avuto un incidente.»

Una delle due assunse un’espressione come per dire “ho capito”.

«Lei è un parente?» chiese.

Era una signora con una massa di capelli rossi ribelli e gli occhiali. Francesco ebbe l’impulso di strozzarla ma si limitò a sospirare.

«No, sono un amico. Solo che qui ci sono solo io. Condividiamo l’appartamento. La famiglia è a Milano.»

La donna annuì.

«Il suo amico si trova al di là di quella porta.» e con la mano indicò una stanza poco distante da loro. «solo che al momento non lo può vedere nessuno.»

Francesco la guardò disperato.

«La prego. Può almeno dirmi se è molto grave?»

«Il colpo è stato forte. E’ ancora incosciente. Ha perso molto sangue. Credo che dovranno intervenire chirurgicamente perché, con ogni probabilità, c’è in corso un’emorragia interna.»

Nella voce dell’infermiera c’era una nota di comprensione. La comprensione di chi è costretto a fare i conti quotidianamente con situazioni paradossali ma riesce lo stesso a non dimenticarsi che ogni vita è unica. Poi continuò:

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«Comunque può aspettare nella sala di attesa in fondo al corridoio.»

Uscì dalla porta da cui era entrato e compose il numero di Elisabetta. L’amica rispose allegra.

«Ciao, Fra. Come stai?» Per un secondo rivisse una scena a cui aveva assistito qualche anno prima: stava guardando una vetrina di un negozio in Corso di Porta Romana e di fianco a lui si era fermato un ragazzo. Lo aveva notato perché era piuttosto bello. Ad un certo punto il cellulare del ragazzo era squillato. Lui aveva risposto con la leggerezza di chi vede sul display un nome comparso tante volte. Ma dopo pochi secondi si era appoggiato al muro e, sempre con il telefono attaccato all’orecchio, era scoppiato a piangere, disperato. In un attimo, una notizia aveva cambiato la vita di quel poveretto, magari per sempre. Francesco aveva aspettato con discrezione a pochi metri da lui. Avrebbe voluto chiedergli se aveva bisogno di qualcosa, se poteva riaccompagnarlo a casa per non farlo guidare in quello stato. Ma il ragazzo si era allontanato senza smettere di telefonare.

«Ciao, Eli. Dove sei?» chiese con il tono più tranquillo di cui fu capace. Voleva assicurarsi che Elisabetta non stesse guidando o non fosse in casa da sola. Oltretutto sapeva che l’amica non era assolutamente in grado di gestire le sue reazioni anche di fronte a notizie molto meno gravi.

«Dove vuoi che sia? Sono ancora in ufficio. Da quando non ci sei più tu e mi hanno affiancato quel “cocco di mamma”, qui è diventato un inferno!»

Francesco si fece coraggio.

«Eli, devo dirti una cosa. Teo ha avuto un incidente. Sono qui con lui all’ospedale di Lecco.»

L’amica rimase in silenzio e dopo qualche secondo fece la stessa domanda che aveva fatto lui mezz’ora prima.

«Francesco, dimmi se è vivo.» Il tono era pieno di angoscia ma nello stesso tempo autoritario.

«E’ vivo, Eli. Te lo giuro. Ma… credo che sia grave. Dovete venire subito.»

«Arriviamo.» disse l’amica con la voce che le tremava.

Rientrò nel reparto rianimazione proprio mentre un medico usciva dalla stanza in cui avevano portato Matteo. Gli si avvicinò timoroso.

«Mi scusi, la prego, può dirmi come sta?»

Il medico lo fissò qualche secondo.

«Dobbiamo operarlo.» rispose. «Ma adesso la prima cosa da fare è sottoporlo a delle trasfusioni di sangue. Ne ha perso troppo e, così, non sarebbe mai in grado di affrontare un intervento.»

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Francesco si ricordò che qualche settimana prima stava sistemando l’armadio della stanzetta e aveva trovato gli esami del sangue di Matteo. Come lui, anche l’amico aveva deciso di portarli con sé, quasi che quel test negativo rappresentasse un trofeo, un passepartout per amarsi senza limiti. Aveva preso la cartella e l’aveva messa insieme alla sua in un cassetto. Ma non gli era sfuggito che il loro gruppo sanguineo fosse identico: B Positivo. E aveva sorriso per quella coincidenza che li univa.

Adesso Matteo avrebbe dovuto ricevere il sangue da uno sconosciuto e, anche se le probabilità erano molto basse, avrebbe pur sempre corso il rischio di contrarre qualche malattia. Guardò il medico e gli si rivolse con tono implorante.

«La prego dottore. Potete prendere il mio? Abbiamo lo stesso gruppo sanguineo.»

Il chirurgo lo fissò attonito.

«Guardi che non è così semplice. Innanzitutto dovremmo farle delle analisi e poi il ragazzo ha bisogno di molto più sangue di quello che potrebbe dargli lei.»

Francesco non si arrese.

«Scusi, ma, se lui ha perso tutto quel sangue ed è ancora vivo, perché non potete toglierne altrettanto a me?»

L’altro lo fissò come se fosse pazzo.

«Perché noi dobbiamo salvare le vite in pericolo non metterne in pericolo delle altre.»

Gli occhi sconsolati di Francesco erano pieni di quella rabbia che solo la disperazione può scatenare.

«Lei, per quanto riguarda la mia persona, non ha nessuna responsabilità. Mi dica dove devo firmare. Ma mi faccia questo cazzo di prelievo e prenda tutto il sangue che serve.»

Il medico non si scompose e il suo tono rimase professionale e distaccato.

«Non c’è nessuna sua firma che possa scagionarmi se metto a repentaglio la sua salute. Le faremo donare il sangue in base alle quantità consentite dalla legge. Di più non posso fare. Mi segua.»

 

«Mi raccomando signor Ghezzi, rimanga seduto almeno per un’oretta e cerchi di mangiare qualcosa.» si raccomandò l’infermiera mentre tamponava il buco procurato dall’ago.

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Era la prima volta che donava il sangue. Per la verità avrebbe sempre voluto farlo ma lo stile di vita che aveva condotto fino a qualche mese prima non corrispondeva proprio ai requisiti di un bravo donatore.

Tornò nella saletta d’attesa e, incurante dei consigli ricevuti, non ingerì nemmeno una caramella.

La porta della stanza si aprì e due infermieri portarono fuori una barella. Sopra c’era Matteo. Lo riconobbe a fatica. Era completamente nascosto da tubicini che partivano da ogni parte. Si avvicinò e gli sfiorò una mano da sopra il lenzuolo. Guardò quel viso bellissimo pieno di lividi e si accorse che le lacrime avevano iniziato a rigare il suo. Rimase lì, con il cuore stretto da una tenaglia, mentre la barella si allontanava verso la sala operatoria. Si sedette con la testa fra le mani e, senza rendersene conto, ricominciò a pregare.

Dopo un’ora si sentì toccare una spalla. Era l’infermiera con i capelli rossi e gli occhiali.

«Signor Ghezzi, il suo amico sta per uscire dalla sala operatoria. E’ andato tutto bene. Non ha ancora ripreso conoscenza ma sembra che sia fuori pericolo. Sono riusciti a bloccare l’emorragia. Adesso lo portano in camera. Se vuole seguirmi può aspettarlo lì.»

Ebbe l’impulso di cadere ai suoi piedi tanto le era riconoscente. Invece guardò in basso e cercò di non piangere.

«Grazie. Non so come ringraziarla.» mormorò solo.

Riportarono Matteo quasi subito.

«Potrebbe risvegliarsi da un momento all’altro. Appena succede, sia così gentile da chiamarci.» disse il medico asciutto. Poi lo scrutò qualche secondo e aggiunse:

«Scusi, ma questo ragazzo non ha una famiglia?»

Francesco sostenne il suo sguardo.

«Sì, li ho avvisati quasi un’ora fa ma abitano a Milano. Solo che purtroppo non credo siano gli unici a venire al lago il venerdì sera a fine luglio.»

E finalmente lo lasciarono solo con Matteo. Si sedette su una sedia accanto a lui e gli prese una mano. Se la portò alla bocca e vi posò sopra le labbra senza riuscire a staccarle. Avrebbe voluto abbracciarlo forte e riempire di baci quel corpo indifeso, ma le flebo e i vari tubicini glielo impedivano. Dopo venti minuti gli occhi trasparenti si aprirono e quelli di Francesco si riempirono di lacrime. Suonò il campanello e si inginocchiò di fianco al letto. Matteo gli sorrise a fatica e lui lo guardò con la riconoscenza di un bambino che si è perso in un grande magazzino e che vede tornare la mamma. Non riuscì a dire una parola. Sollevò la mano dell’amico e iniziò a strofinarsela sul viso baciandola millimetro per millimetro.

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Ad un certo punto si accorse che l’infermiera dai capelli rossi era sulla porta e lo osservava. Si rialzò imbarazzato e, a testa bassa, si scostò per farle posto. Poi arrivò il medico e gli chiese di uscire dalla stanza. Francesco ubbidì. Gli occhi di Matteo lo seguirono. E lo fissavano con la stessa espressione di quando, la mattina a casa Neri, era costretto ad abbandonarlo nel letto in cui si erano abbracciati per tutta la notte.

 

33.

 

 

 

 

 

 

Era nel corridoio, subito fuori dalla stanza. Aspettava paziente che finissero di visitare Matteo.

La famiglia Neri entrò nel reparto rianimazione. Camminavano trafelati e si guardavano intorno smarriti. Francesco andò loro incontro e, appena si accorsero di lui, sei occhi sgomenti lo fissarono pieni di angoscia. Solo che in quelli di Enrico c’era posto anche per una rabbia cieca, la rabbia di chi pende dalle tue labbra e nello stesso tempo ti ritiene il solo colpevole di quanto dirai.

Elisabetta gli strinse le dita di una mano mentre Rebecca lo assaliva di domande.

«Come sta? Cosa gli hanno fatto? Si è svegliato? Ha chiesto di noi?»

Per la prima volta da quando la conosceva, l’aspetto della signora Neri non era impeccabile. Il trucco, di solito sempre perfetto, era colato incidendo due solchi neri nel fondotinta. Gli occhi erano rossi e persino la piega dei capelli castoro era sparita per lasciare posto ad un’acconciatura scompigliata, come se si fosse presa la testa fra le mani senza preoccuparsi di spettinarsi. E per la prima volta da quando la conosceva gli sembrò umana. Le rivolse una sguardo rassicurante.

«Sta molto meglio. Lo hanno operato e hanno bloccato l’emorragia. Ha ripreso conoscenza dieci minuti fa. Non ha chiesto nulla ma credo che sia ancora debole per parlare.» poi aggiunse mortificato:

«Mi dispiace di avervi spaventati a morte ma all’inizio la situazione sembrava molto più disperata.»

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Uscirono il medico e l’infermiera. Il dottore strinse la mano ai nuovi arrivati.

«Possiamo dire che il peggio è passato e che adesso è praticamente fuori pericolo. Potete entrare ma mi raccomando non deve affaticarsi per nessun motivo.»

Francesco li lasciò passare tutti e tre e rimase in disparte sulla porta. Rebecca si avvicinò al figlio e gli accarezzò i capelli spettinati.

«Teo, ci hai fatto perdere dieci anni di vita. Come ti senti? Sei ancora debole?»

Il figlio le sorrise senza parlare. Poi si girò verso la sorella. Elisabetta gli prese una mano portandosela alle labbra.

«Sei un disgraziato. Quando Fra mi ha chiamato ho creduto di morire.» disse mentre la voce le si rompeva in singhiozzi liberatori.

A quel punto la madre si girò verso Francesco che era rimasto sull’ingresso. Era come se, adesso che c’erano loro, lui non avesse più il diritto di entrare.

«A proposito come mai l’ospedale ha avvisato te? Di prassi non dovrebbero chiamare la famiglia?»

«Hanno chiamato a casa vostra ma non ha risposto nessuno. Allora hanno controllato il suo cellulare e il mio era l’ultimo numero che aveva fatto.» Parlò con gli occhi bassi quasi fosse stata colpa sua.

«Sì, in effetti è possibile. Quando la Betty ci ha avvistati eravamo già partiti per Santa Margherita con Maria e Daniel.» precisò Enrico con il tono di chi, almeno per questa volta, ti concede di aver detto la verità.

Solo allora Matteo guardò il padre e, nonostante avesse appena rischiato di morire, i suoi occhi trasparenti lo fissarono pieni di risentimento. Era come se volesse fargli capire che la paura non poteva abbattere la barriera di disprezzo che si era creata fra di loro. Ed erano le offese che Enrico aveva rivolto a Francesco che Matteo non poteva perdonargli, nemmeno dopo tutti i litri di sangue che aveva perso.

Ritornò l’infermiera per controllare la flebo.

«Mi spiace, signori, ma adesso, durante la notte, in stanza può restare solo una persona.»

Rebecca quasi non la lasciò finire di parlare.

«Ovviamente rimango io. Sono la madre.»

Elisabetta si voltò verso Francesco che rimase impassibile senza osare sollevare lo sguardo.

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A quel punto Matteo girò il capo verso di lui.

«Fra…» Era la prima parola che pronunciava e la sua voce era debolissima.

Francesco si scostò dallo stipite a cui era appoggiato, si avvicinò al letto e strinse la mano che Matteo gli allungava.

L’amico sorrise e continuò a fatica:

«Ci vediamo domani, vero?»

Lui si sentì stringere il cuore. Aveva una voglia pazzesca di abbracciarlo. Gli accarezzò la fronte e si accovacciò di fianco al letto.

«Non ti preoccupare, non vado via. Resto qui fuori nella sala d’aspetto.» sussurrò.

«Ma non vuoi andare a casa a riposarti un po’?»

Era sempre il solito Matteo. Era lì che non riusciva nemmeno a muoversi e si preoccupava per lui.

«No, tanto non chiuderei occhio.» rispose cercando di dare meno peso possibile alle parole.

«Ma, allora, se comunque resti qui…» mormorò l’amico. Elisabetta venne in aiuto del fratello e si rivolse decisa a Rebecca.

«Mamma, credo che per questa notte Matteo preferisca che rimanga Francesco.»

Nella stanza calò il gelo. Rebecca guardò la figlia sbalordita. Francesco rimase immobile fissando la sponda del letto. Enrico gli lanciò un’occhiata piena di biasimo.

«Non ci posso credere.» disse disgustato. «Ha appena rischiato di morire e chi vuole vicino? Non sua madre che lo ha messo al mondo ma un frocetto senza palle che conosce da due giorni!»

Rimasero tutti esterrefatti. Gli occhi di Matteo si riempirono di odio. Lui gli strinse la mano che già teneva fra le sue.

«Teo, non fa niente. Lascia stare. Fallo per me.» sussurrò muovendo solo le labbra per non farsi sentire dagli altri e scuotendo il capo in maniera impercettibile.

Poi, ad alta voce ma guardando solo l’amica, aggiunse:

«Eli, voi cosa pensate di fare?»

«Beh, a questo punto, se non serviamo a niente, andiamo a riposare da qualche parte e torniamo domani mattina.» rispose Rebecca al posto della figlia.

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Francesco ignorò il tono polemico e continuò timidamente.

«Signora, credo solo che in questo periodo farete fatica a trovare un albergo libero. Se non vi offendete posso darvi le chiavi di casa nostra. Oddio, casa è una parola grossa! E’ una stanza, molto squallida tra l’altro ma… potete andare lì giusto nel caso in cui fosse tutto pieno. E’ in un paesino vicino a qui. Vi scrivo l’indirizzo, tanto con il navigatore non dovreste avere problemi.»

Enrico lo fissò come se avesse visto qualcuno vomitare.

«Scusa, spero di non aver capito bene. Noi dovremmo dormire dove tu e mio figlio vi fate i vostri schifosissimi porci comodi e…» Elisabetta non lo fece finire di parlare.

«Papà, ha solo detto che possiamo andarci se non troviamo nient’altro.»

Francesco la guardò riconoscente.

«Eli, un letto solo per tre è quello che è. Giusto per sdraiarsi. Comunque nell’unico armadio, sul secondo ripiano, ci sono gli asciugamani puliti e le lenzuola di ricambio.»

Rebecca ed Enrico uscirono dalla stanza. Elisabetta baciò il fratello sulla fronte e abbracciò l’amico.

«Mi spiace per mio padre, Fra. Mi spiace tanto.» mormorò sconsolata. Poi si scostò da lui e lo osservò: era pallido per il prelievo, gli occhi gonfi per le lacrime, l’aspetto distrutto per la tensione della giornata.

Lei scosse la testa.

«Oh, possibile che tutte le volte che sta male mio fratello, tu c’hai una faccia più brutta della sua?» scherzò.

Appena rimasero soli Matteo gli prese la mano.

«Amore, non so cosa dire… lo avrei ammazzato…» ma Francesco, facendosi spazio tra le medicazioni e i tubicini, gli chiuse le labbra con un bacio.

«Non m’interessa Teo, non m’interessa per niente. Fino a qualche ora fa la mia vita ha rischiato di non avere più senso, cosa vuoi che me ne freghi se adesso qualcuno mi insulta senza motivo?» Ed era la verità. Le offese di Enrico non lo avevano toccato minimamente. Era così felice che Matteo fosse fuori pericolo che non avrebbe reagito nemmeno se lo avessero preso a pugni. L’unico dispiacere era che Enrico lo avesse denigrato davanti al figlio perché sapeva che l’impossibilità di difenderlo faceva soffrire l’amico più di tutti i lividi e le ferite procurati dall’incidente.

Tutta la notte non si mosse dalla sedia e non lasciò la mano di Matteo nemmeno un secondo. L’amico, imbottito di sedativi, dormì quasi sempre.

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La mattina presto entrò l’infermiera coi capelli rossi e gli occhiali. Si avvicinò a Matteo per verificare l’ago della flebo.

«Allora come ti senti? Un pochino meglio? Magari domani riusciamo già a staccarti tutto questo armamentario e a farti mangiare con la tua bocca.» poi, lanciando un’occhiata di sfuggita a Francesco, aggiunse:

«Adesso, Matteo, dovresti convincere il tuo amico a mandare giù qualcosa perché sennò mi sa che tra poco lo ricoveriamo al posto tuo. Da ieri non tocca cibo, non dorme, non va in bagno, senza contare che si è fatto anche prelevare mezzo litro di sangue per darlo a te!»

Lui abbassò gli occhi imbarazzato cercando di fare cadere nel vuoto le parole della donna, ma Matteo lo guardò pieno d’amore e di riconoscenza.

«Fra, ti prego, mangia qualcosa.»

L’infermiera sorrise e gli fece portare la colazione, quella che in realtà sarebbe stata destinata al malato se non fosse stato nutrito attraverso la flebo.

Matteo rimase in ospedale poco più di una settimana. Francesco, in cambio di una promessa di abnegazione a vita, ottenne di poter fare dei turni ridotti al bar. Elisabetta chiese qualche giorno di ferie che, dato l’imminente inizio del periodo estivo, le concessero senza problemi. Alcune sere la raggiunse anche Marco. Enrico si fece mandare dalle segretarie un portatile e una serie di incartamenti e decise di lavorare da lì. Rebecca si fece spedire da Daniel tre valigie con il cambio per tutta la famiglia: dopo quel momento di defiance del primo giorno, realizzato che il figlio presto o tardi si sarebbe rimesso, era tornata la donna ineccepibile di sempre.

I coniugi Neri alloggiarono in un albergo extra-lusso nei pressi dell’ospedale mentre Elisabetta non volle sentire ragioni e restò tutto il tempo nella stanzetta squallida con Francesco. Non solo, ma, durante il poco tempo che non trascorreva in ospedale, si occupò di lui: lavò e stirò le sue cose e quelle di Matteo, gli cucinò qualcosa di veloce obbligandolo a mangiare, gli fece riparare la macchina.

Lui passava quasi tutto il tempo libero di fianco al letto dell’amico, comprese la maggior parte delle notti. Di solito andava a lavorare direttamente, senza nemmeno fare tappa a casa. Elisabetta riuscì a sostituirlo solo una volta e una volta lo convinse a farsi dare il cambio da Rebecca. Quella notte dormirono insieme, nel letto dove lui e Matteo avevano dormito abbracciati per un mese. L’amica posò la testa sulla sua spalla e lui le accarezzò i capelli. In quel momento capì che, se non fosse stato gay, si sarebbe innamorato di lei. E i Neri, per un motivo o per l’altro, avrebbero dovuto comunque sopportare la sua presenza. Ad un certo punto Elisabetta si girò verso di lui.

«Eravate felici qui, Fra?» gli chiese.

Lui le sorrise.

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«Credo che non fossimo mai stati così felici in vita nostra. Non credevo nemmeno che lo si potesse essere così tanto.» e, mentre pronunciava queste parole, davanti ai suoi occhi scorrevano le immagini di Matteo che entrava in casa e lo baciava trafelato, di Matteo che usciva dalla doccia e lo guardava ammiccando, di Matteo che cucinava con addosso solo un paio di bermuda, di Matteo che sorrideva e gli allacciava l’ultimo bottone della camicia, di Matteo che lo aspettava fuori dal bagno dicendo che non ce la faceva più a stare senza di lui, di Matteo che gli baciava gli occhi la mattina appena sveglio, di lui e Matteo che facevano l’amore ogni giorno, ogni ora, ogni secondo.

L’amica gli diede un bacio su una guancia.

«Ti voglio bene, Fra. Lo so che mio padre ti odia ma tu rimani il mio più caro amico e, adesso, sei anche un po’… un po’ mio cognato.»

Scoppiarono a ridere. Poi Francesco le accarezzò i capelli.

«Anch’io ti voglio bene, Eli.»

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34.

 

 

 

 

 

 

Era l’orario delle visite ed erano tutti e quattro intorno al letto di Matteo. Anzi tutti i cinque perché c’era anche Marco che, essendo domenica, aveva raggiunto la fidanzata.

Il medico si affacciò alla porta della camera.

«Allora, Matteo, domani ti dimettiamo? Sei contento? Ti è andata bene tutto sommato.»

Rebecca si avvicinò al dottore.

«Signora, mi raccomando, almeno per quindici giorni il ragazzo deve stare a completo riposo, seguire una dieta equilibrata e assumere molte vitamine.»

Lei gli strinse la mano.

«La ringrazio, dottore. Non si preoccupi, ci atterremo ai suoi consigli.»

Poi si rivolse al figlio.

«Teo, mi sembra ovvio che tu non possa rimanere qui, in quello schifo di stanza, tutto il giorno da solo mentre Francesco lavora, senza nessuno che ti cucini qualcosa e che si occupi di te. Per adesso vieni a casa con noi.»

Francesco sentì un pugno fortissimo dritto nello stomaco. Rebecca aveva ragione. Matteo a casa dei suoi avrebbe ricevuto tutte le cure e le premure fondamentali in un periodo di convalescenza. La madre esagerava dicendo che lì, nella stanzetta, nessuno si sarebbe occupato del figlio. Perché lui si sarebbe fatto in quattro pur di non fargli mancare niente. Forse non gli avrebbe potuto tenere compagnia tutto il giorno ma di certo avrebbe cucinato per lui, lo avrebbe accudito ogni secondo libero e, a costo di non mangiare per quindici giorni, gli avrebbe comprato qualsiasi alimento nutriente e costoso gli fosse servito per rimettersi più in fretta. Ma nell’appartamento di via Podgora non gli sarebbe mancato niente. Tanto per cominciare c’era l’aria condizionata invece del caldo soffocante della loro camera, sua madre sarebbe rimasta tutto il giorno con lui,

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Maria gli avrebbe preparato ogni sorta di squisitezza ed Elisabetta avrebbe cercato si sopperire alla mancanza di affetto dovuta alla lontananza da Francesco.

Matteo squadrò la madre come se avesse appena negato con convinzione la sfericità della terra.

«Stai scherzando, mamma? Io in quella casa non ci metto più piede!»

Francesco si avvicinò all’amico, si chinò su di lui e gli accarezzò la fronte.

«Teo, tua madre ha ragione. E’ molto più ragionevole che tu vada via con loro.»

Matteo lo guardò incredulo e allora lui aggiunse:

«Solo per questo periodo di convalescenza. Fino a quando non ti sentirai meglio. Io non riuscirei mai a darti tutto quello che avresti in casa tua.»

«Sì, ma a casa mia non ci saresti tu. Non m’importa se di giorno tu lavori, se in quella stanza fa caldo, se mangerò male.»

I suoi occhi trasparenti lo fissavano quasi volessero supplicarlo di capire ma Francesco tentò ancora di dissuaderlo: «Teo, sono solo quindici giorni…».

Matteo si sollevò e si mise seduto.

«Fra, io senza di te non vado da nessuna parte.» disse deciso.

«La soluzione migliore sarebbe che venisse anche Francesco.» propose Elisabetta facendosi coraggio e guardando la madre. Poi si rivolse all’amico.

«Fra, tanto se state da noi, non avete bisogno di lavorare per sopravvivere. E, se anche quella bestia che ti ha preso alla tavola calda ne troverà un altro al posto tuo, allora che ritorni il nuovo arrivato avrà già fatto in tempo a licenziarsi!» E questo era vero. Nessuno avrebbe sopportato quell’arrogante che ti aggrediva per qualsiasi cosa. Francesco era rimasto solamente perché lo stipendio da cameriere era un po’ più alto rispetto agli altri locali. E, quei pochi euro in più, li usava per fare qualche sorpresa a Matteo. Ma, comunque, in ogni caso, non poteva accettare di vivere spesato dai Neri anche se solo per due settimane.

«Eli, come potrei? A Milano non ho più un lavoro e devo pur mantenermi in qualche modo!»

L’amica lo fissò incredula e stava già per dire che, ovviamente, sarebbe stato ospite, quando Enrico bruciò tutti sul tempo.

«Questo mi sembra il minimo. Se per poter curare mio figlio devo accettare di avere anche te fra i piedi, di certo non ho intenzione di darti vitto e alloggio gratis. Vorrà dire che, se verrai da noi, sostituirai Daniel che è tornato un mese nelle Filippine.»

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La figlia e la moglie si girarono verso di lui sbalordite. Matteo fulminò il padre con lo sguardo e fece per alzarsi dal letto per andare a dirgli faccia a faccia quello che pensava di lui. Ma Francesco lo fermò. Avrebbe accettato qualsiasi cosa pur che Matteo potesse trascorrere la sua convalescenza lontano dai disagi di quella camera malsana. Trattenne l’amico per un braccio e si abbassò su di lui.

«Teo, ti supplico, fallo per me.» disse sottovoce. «Non potrei mai perdonarmi di averti fatto restare qui. Tanto cosa mi cambia, non è che qui facessi il manager, cameriere per cameriere! E poi a casa tua almeno ti vedo quando voglio.»

Matteo scosse il capo sconsolato e lui continuò:

«Ti prego, Teo. Mi sento molto meglio così. Sono solo due settimane. Poi torniamo qui insieme, soltanto noi. Ma adesso, fino a quando non ti rimetti un po’ in forze, come faccio a prendermi cura di te se sono da solo e lavoro tutto il giorno?»

 

La mattina dopo caricarono i bagagli. Elisabetta andò in macchina con Marco che alla fine era rimasto a dormire lì. Rebecca salì con il marito. E Francesco aiutò Matteo a sedersi di fianco a lui, sull’auto su cui una settimana prima aveva rischiato di perdere la vita. Non era stata colpa sua: stava percorrendo una strada a scorrimento veloce e una signora si era immessa senza dare la precedenza, colpendolo dritto dritto nella fiancata sinistra.

Come partirono Matteo appoggiò una mano sulla coscia di Francesco accarezzandogliela.

«Fra, appena arriviamo a casa parlo con quello stronzo di mio padre e gli dico che tu non fai il maggiordomo di nessuno.»

Lui gli sorrise.

«Lascia perdere, ti prego. Lo fai per me? Sono solo pochi giorni. Cerchiamo di farli passare nel modo più indolore possibile.»

«Non sono sicuro di riuscirci. Comunque, qualunque cosa dicano, io e te dormiamo insieme. Sennò vengo via.»

Fece scorrere la mano un po’ più in su e aggiunse:

«E’ più di una settimana che non sto con te come dico io. Sai quante volte avrei voluto scoparti in ospedale?»

Francesco sollevò la mano e gliela baciò. Lo guardò con affetto.

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«Teo, non se ne parla nemmeno. Stavolta non mi corrompi in nessun modo. Il medico ha parlato chiaro: quindici giorni di riposo assoluto. Assoluto vuol dire che non si può nemmeno scopare. Capito?»

L’amico sorrise malizioso.

«Questo lo vedremo. E poi il medico non lo sapeva che fare l’amore con te fosse fondamentale per la mia completa guarigione.»

Arrivarono davanti alla palazzina di via Podgora. Si ricordò di quando se l’era trovata davanti per la prima volta, con le tapparelle invece delle persiane, di quando si era trasferito a vivere lì, pieno di speranza immotivata per la convivenza con Matteo che lo aspettava, di quando se ne era andato via da solo lasciando lì l’anima, di quando se ne erano andati via insieme, senza niente ma convinti di avere tutto.

Marco baciò la fidanzata, salutò tutti dicendo che sarebbe andato direttamente in studio e diede una pacca d’incoraggiamento sulla spalla a Matteo. Rebecca insieme ad Elisabetta aiutò il figlio a salire in ascensore.

Francesco parcheggiò e tornò verso il portone. Enrico lo aspettava. Non lo guardò nemmeno in faccia. Gli tirò le chiavi della sua macchina ma con un lancio talmente breve che gli sarebbe stato impossibile prenderle. Caddero davanti a lui. Senza dire una parola Francesco si avvicinò e si chinò a raccoglierle. Enrico lo fissò soddisfatto.

«Mettimi la macchina in box e poi porta su le valigie.» gli ordinò secco.

Francesco non disse nulla e ubbidì. Pregò solo che Matteo non si accorgesse di niente.

Quando arrivò in casa, di nascosto chiese a Rebecca dove avrebbe dovuto mettere i bagagli.

«Portali pure nelle nostre stanze. Poi per disfarli chiedo a Maria.»

Lui la guardò imbarazzato.

«Signora…» balbettò. «ho assicurato a suo marito che avrei sostituito Daniel. Non si faccia problemi. Tutto quello che doveva fare lui, adesso lo faccio io.»

«Grazie. Va bene così. Davvero. Matteo ti aspetta in camera sua. Ha detto che se non ti permettiamo di dormire lì, lui se ne va immediatamente. Adesso cerco di far ragionare Enrico ma non sarà per niente facile.»

Salì le scale con due borse per parte. Quante volte avevano fatto l’amore anche lì. Quando erano a casa da soli e non riuscivano ad aspettare di arrivare fino in camera!

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Depositò le valigie dove gli era stato indicato ed entrò nella stanza di Matteo. L’amico era seduto sul letto dal lato della finestra e non si accorse che era entrato. Salì in ginocchio sul materasso e, quasi di sorpresa, lo abbracciò da dietro appoggiandogli la testa tra il collo e la spalla. Poi gli avvicinò le labbra all’orecchio.

«Mi ami un pochino?» gli chiese sussurrando.

Matteo gli prese le mani e senza muoversi se lo strinse addosso come uno zainetto.

«Ti amo da morire.»

Francesco lo aiutò a spogliarsi, lo fece sdraiare, sistemò i suoi vestiti e svuotò le borse di entrambi.

Poi gli si sedette vicino.

«Se ti do una mano a fare la doccia, mi prometti che fai il bravo?»

Matteo sorrise malizioso.

«Ma tu la faresti con me, la doccia?»

«Mi stai dicendo che per, farti stare buono, devo entrare sotto l’acqua per lavarti senza svestirmi?»

«Sto dicendo che già faccio fatica a comportarmi bene così, non puoi pretendere di metterti lì davanti a me, senza nulla addosso, bello da impazzire, mentre mi passi una spugna dappertutto, senza che io faccia niente. Cazzo, Fra, se non avessi nessuna reazione mi preoccuperei, indipendentemente da quanti litri di sangue ho perso!»

Francesco scoppiò a ridere.

«Guarda che se fai così chiamo la Eli e ti faccio lavare da lei!»

 

Come aveva previsto, fin dai primi giorni i coniugi Neri non gli risparmiarono nessuno degli incarichi solitamente svolti da Daniel. Lucidava l’argenteria, faceva la polvere, aiutava Maria in cucina, passava l’aspirapolvere, lavava i vetri. In realtà, in molte delle incombenze che di volta in volta gli venivano assegnate aveva dovuto improvvisarsi. E menomale che, nel mese in cui aveva vissuto da solo con Matteo, aveva preso un po’ di dimestichezza con le faccende domestiche. Altrimenti non ce l’avrebbe mai fatta.

La più allibita era Maria e c’era da capirla. Con tutto l’impegno che poteva metterci, la povera donna non riusciva a capacitarsi del perché uno, dopo essere stato lì per mesi servito e riverito, ad un certo punto fosse stato sbattuto fuori di casa in malo modo e adesso ci ritornasse per fare il

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domestico. Ma quello che proprio non poteva spiegarsi era come mai al malcapitato, che adesso era a servizio, fosse permesso di dormire in camera con il figlio dei padroni! Spesso Francesco l’aveva sorpresa a guardarlo con tenerezza mentre lui litigava con il battitappeto. O quando tentava di sistemare i mille cuscini del divano del salotto con una forma il più possibile uguale a quella che avevano sempre avuto. Sempre, prima che sistemarli diventasse un suo compito! E, grazie al cielo, impietosita, Maria spesso gli era venuta in aiuto senza farsi notare da nessuno.

Era Rebecca ad affidargli di volta in volta i diversi incarichi. Anche se, il tono imbarazzato con cui lo comandava, lo aveva convinto che in realtà la sera Enrico pretendesse un resoconto dettagliato di tutte le attività svolte dall’ospite ingrato durante la giornata. Oltretutto niente e nessuno gli toglieva dalla testa che il dottor Neri chiedesse espressamente di assegnargli i compiti più umili. Guarda a caso la pulizia di tutti bagni della casa spettava sempre e soltanto a lui! E non era un lavoro da poco, considerato che ce n’era uno per camera oltre a quelli comuni.

I pasti dei coniugi Neri venivano serviti in tinello mentre lui doveva restare in cucina con Maria. Elisabetta, in aperto contrasto con i genitori, quando cenava a casa, immancabilmente prendeva il suo piatto e si faceva fare posto sul tavolino attaccato al muro dove sedevano l’amico e la domestica. Francesco, da parte sua, aveva ringraziato il cielo per la disposizione di Rebecca. E non solo perché la compagnia di Maria fosse molto più piacevole. Ma perché, almeno mentre mangiava, gli venivano risparmiati i continui insulti, le offese sempre più pesanti e i rimproveri ogni giorno più umilianti che Enrico gli rivolgeva senza interruzione.

Per non parlare poi di quando pretendeva che fosse lui a servire a tavola, anche se quello era sempre stato un compito di Maria e non di Daniel. Già nei primi giorni era successo un paio di volte e sempre quando la figlia non cenava a casa. Francesco aveva portato i diversi piatti pregando di non far cadere nulla e benedicendo la sua recente esperienza di cameriere. Ma, anche se nell’insieme tutto era filato liscio come l’olio, Enrico aveva trovato il modo per offenderlo. In un’occasione aveva fatto cadere apposta a terra una forchetta e, quando Francesco si era piegato sulle ginocchia per raccoglierla, lo aveva guardato con disprezzo.

«Strano che tu ti sia chinato così…» aveva detto con tutto il sarcasmo e la cattiveria di cui era capace. «pensavo che quelli come te fossero abituati a piegarsi solo in un altro modo!»

Francesco, come sempre, non aveva detto nulla. Ma aveva iniziato a credere di essere stato catapultato per sbaglio in una di quelle fiabe per bambini in cui l’eroina e l’eroe di turno venivano sottoposti alle angherie più assurde da famiglie adottive senza cuore. Di solito i protagonisti di quelle fiabe soffrivano per un po’ di anni le pene dell’inferno per poi diventare ricchi e sposare il principe o la principessa. Invece lui, per la sua ricompensa, non doveva aspettare anni. Ce l’aveva già tutti i giorni, tutte le mattine, tutte le sere, tutte le notti. Bastava che gli occhi di Matteo gli sorridessero e in un secondo dimenticava qualsiasi ingiuria. Tanto più che le accettava solo per lui e per la sua convalescenza.

Trascorreva con l’amico tutto il tempo che gli rimaneva. Lo coccolava e lo viziava in ogni modo. Lo aiutava a lavarsi, gli sbucciava la frutta perché assumesse senza fatica le vitamine, lo sosteneva mentre si cambiava la biancheria, gli leggeva i libri e il giornale.

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L’unica difficoltà consisteva nel far sì che Matteo non avesse sentore di quello che succedeva al di fuori della sua stanza. E per i primi giorni Francesco riuscì a tenere a bada la situazione. Minimizzava sulle incombenze che gli venivano assegnate, taceva su tutto quello che era costretto a sentirsi dire da Enrico e ovviamente non gli riferiva mai nessuna offesa o umiliazione a cui suo padre lo sottoponeva senza remore. Si chiedeva solo come avrebbe fatto a continuare in questa impresa di occultamento quando Matteo si fosse sentito meglio e avesse iniziato a girare per la casa.

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35.

 

 

 

 

 

 

Era un pomeriggio piuttosto caldo. Aveva appena aiutato Matteo a farsi una doccia per rinfrescarsi e gli stava facendo indossare la maglietta pulita. Erano arrivati a casa Neri cinque giorni prima e in realtà l’amico, pur se ancora debilitato, avrebbe potuto benissimo affrontare quelle piccole prove con le sue sole forze. Ma Francesco adorava prendersi cura di lui. Come quelle mamme che allattano il bambino fino a due anni o che gli danno la mano per attraversare la strada fino a quindici. Salvo poi ritrovarsi il preservativo del figlio o, peggio, la pillola della figlia in giro per casa senza nemmeno essersi rese conto che il pargolo era cresciuto.

Sentì bussare alla porta della camera. Andò ad aprire convinto che fosse Elisabetta ma si ritrovò davanti Maria. La donna era visibilmente imbarazzata.

«Francesco, la signora ha chiesto se puoi venire un attimo.»

Lui si rivolse all’amico sorridendo.

«Teo, mi aspetti? Arrivo subito. »

Rebecca ed Enrico lo aspettavano in salotto. La domestica andò ad aprire la porta ad Elisabetta. L’amica rientrava dal lavoro presto perché, durante il periodo estivo, il venerdì l’agenzia concedeva ai dipendenti una specie di orario ridotto.

Francesco si avvicinò a Rebecca.

«Signora, mi ha detto Maria che mi cercava.» La signora Neri era palesemente in difficoltà e non parlò. Si limitò a guardare il marito. Proprio in quel momento la figlia si affacciò alla porta della stanza per salutare. Enrico alzò lo sguardo dal giornale, le fece un cenno con la testa, poi si girò verso di lui e gli si rivolse con tono sprezzante.

«Ah eccoti, culetto d’oro. Ti ho mandato a chiamare io. Volevo sapere se stamattina hai pulito il mio bagno.»

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Francesco abbassò lo sguardo e, come al solito, incassò l’offesa senza battere ciglio.

«Sì, l’ho pulito come tutte le mattine.»

Enrico lo fissò fingendosi incredulo.

«Strano perché il cesso non era molto lindo. E dire che, con tutto quello che devi aver leccato nella tua vita, non credo che ti farà schifo pulire un cesso!»

Francesco cercò di rispondere nel modo più umile possibile per non indisporlo ulteriormente.

«Mi dispiace, dottor Neri. Vado subito a lavarlo di nuovo.» e si girò per uscire dalla porta. Ma Elisabetta lo fermò, poi guardò il padre come avrebbe guardato un uomo che violenta un bambino.

«Adesso basta, papà. Adesso hai proprio esagerato. Adesso ci hai rotto. Adesso gli chiedi scusa e la smetti una volta per tutte. Ma cosa speri di ottenere in questo modo? Ma non vedi che più ti accanisci e più si amano? Ma non lo capisci? Ma, secondo te, uno che accetta di essere trattato così solo perché tuo figlio si faccia la convalescenza con tutti gli agi, può farsi scoraggiare da un’umiliazione in più o in meno? Sei ridicolo, papà. Te ne rendi conto?»

Francesco rimase impietrito. Rebecca guardò la figlia come se la vedesse per la prima volta. Enrico si alzò, andò verso di lei e le mollò una sberla secca in faccia.

«Primo, tu non ti permetti mai più di parlarmi in questo modo perché io ti gonfio anche se hai ventiquattro anni. Secondo, non ti mettere di mezzo perché, se tu non ci avessi portato in casa questo frocetto di merda, a quest’ora tuo fratello sarebbe ancora normale.» Dopodichè uscì dalla stanza sbattendo la porta.

Rebecca rimase immobile e si prese la testa fra le mani, con la disperazione di chi vede la sua famiglia perfetta sgretolarsi. Francesco si avvicinò all’amica e la strinse tra le braccia. Lei appoggiò la testa sul suo petto mentre le lacrime iniziavano a scendere senza tregua.

«Non ce la faccio più, Fra. Non ce la faccio più a sentire che ti tratta così. Ho provato in tutti i modi a farlo ragionare con le buone ma, appena affronto l’argomento, la faccia gli si trasforma, è come se diventasse pazzo. Solo che così non posso andare avanti. Oggi quando parlava mi veniva da vomitare. E non ti azzardare a pulirgli quel cazzo di bagno. Se vuole se lo pulisce da solo!»

Lui le accarezzò i capelli e le parlò come se si rivolgesse ad un bambino che deve prendere una medicina cattiva.

«Eli, ascolta. Dobbiamo farlo per Teo. Ha bisogno di restare qui. Come faccio a portarlo via adesso? Non posso nemmeno andarmene io perché lui mi seguirebbe. Ti prego, Eli. Tra poco più di una settimana starà già meglio e sarà tutto diverso.»

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L’amica si calmò e lo guardò con i suoi occhioni da bimba.

«Ma Teo non sa niente?» chiese incredula.

«Diciamo che per ora tuo padre perlomeno ha evitato di urlare. Anche oggi non ha alzato la voce più di tanto. Ovviamente io non gli riferisco nulla e, quando mi fa domande, un po’ mento e un po’ sdrammatizzo. Il problema è che al massimo da domani inizierà a girare per casa e allora questa situazione può durare poco.»

Rebecca fino a quel momento si era crogiolata nel suo dolore di perfetta moglie e madre, costretta ad assistere a scenate inimmaginabili prima di allora. Ma le ultime parole di Francesco la riportarono alla realtà e improvvisamente si ricordò di avere un figlio che aveva rischiato di morire.

«Come sarebbe a dire che dura poco? Il dottore ha detto almeno quindici giorni ma lui ha bisogno di stare qui di più.»

La guardò affranto.

«Ha ragione, signora. Io per adesso ho tamponato. Ma lei capisce che non posso convincerlo in nessun modo ad accettare che suo padre mi tratti peggio di una pezza da piedi. E il motivo per cui sono sicuro di non riuscire a convincerlo è che, se fosse il contrario, io mi farei ammazzare pur di non accettarlo.»

Rebecca scosse il capo rassegnata.

«Sì, io capisco. Il fatto è che Elisabetta ha ragione. Mio marito non accetta nessun compromesso. Anche prima, quando ha voluto che ti mandassi a chiamare, non c’è stato niente da fare. La verità lo ha fatto uscire di testa. E non solo perché, quando la gente saprà, questo sarà un problema insormontabile per la sua attività. Ma perché mai al mondo si sarebbe aspettato che suo figlio fosse gay. Suo figlio aveva tutto quello che lui avrebbe voluto avere da giovane. Era intelligente come il padre ma, allo stesso tempo, era brillante, era bello e soprattutto piaceva alle donne. Enrico non ha mai avuto un grande ascendente sul genere femminile ma Matteo doveva rifarsi di tutto il successo che gli era mancato. Per dire la verità Teo non ha mai dato molta importanza alle sue doti naturali di seduttore. Ma le ragazze gli sono sempre girate intorno a flotte. Poi sei arrivato tu. E noi ci siamo spiegati molte cose. Solo che Enrico si rifiuta di ammetterlo e attribuisce a te tutta la colpa. Per una famiglia come la nostra non è facile accettare una situazione del genere. Abbiamo sempre sostenuto che l’omosessualità fosse una forma di perversione, una scelta sbagliata. E adesso dovremmo permettere che nostro figlio faccia questa scelta?» Si mise le mani nei capelli e continuò:

«Solo che quello che Enrico non capisce è che in questo modo Matteo non cambierà idea. Anzi non capisce che Matteo non cambierà mai idea.»

Elisabetta ascoltò la madre con attenzione.

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«Sì, ma prima o poi dovrà farsene una ragione. O perderà suo figlio per sempre.» disse categorica.

Mentre saliva le scale per tornare da Matteo si augurava che l’amico non si fosse accorto di niente. Per fortuna la sua camera era molto distante dal salotto. Lo trovò seduto sul letto che tentava di leggere un giornale.

«Scusa, amore, ci ho messo un po’ più del previsto. E’ che nel frattempo è arrivata la Eli e lo sai com’è tua sorella quando inizia a parlare!» Gli baciò la fronte e continuò disinvolto:

«Come stai? Ti senti un po’ meglio oggi? Vuoi che te lo legga io il giornale?» e glielo prese dalla mani con dolcezza continuando ad alta voce l’articolo di cronaca che l’amico aveva iniziato. Dopo pochi secondi Matteo lo interruppe.

«Fra, cosa ti chiedono di fare i miei esattamente?» domandò calmo.

Francesco arrossì e annaspò.

«Dipende, Teo. Niente di che. Le solite cose che si fanno in una casa.» riuscì solo a balbettare.

Ma Matteo non era per niente soddisfatto.

«E mio padre come si comporta? Voglio sapere cosa ti fa fare. Voglio sapere, per esempio, se ti fa pulire i bagni.» Sicuramente aveva sentito qualcosa. Forse non aveva capito il senso del discorso ma aveva captato qualche parola.

Lui cercò di usare un tono che facesse sembrare tutto il più naturale possibile.

«E’ successo solo ogni tanto, Teo. Ma alla fine qual è il problema? E’ un compito come un altro. Sai quante volte ho pulito il cesso al bar! E ti assicuro che i bagni di casa tua sono oro in confronto!» E sapeva di mentire perché Enrico faceva in modo di lasciarli sporchi. Matteo scosse la testa.

«Non è per questo. E’ che lui lo fa apposta. Io non ce la faccio più a stare qui mentre m’immagino quel bastardo che se ne approfitta di te!»

Francesco gli prese il viso fra le mani.

«Teo, ti giuro che non me ne frega un cazzo. Te lo giuro. Mi scivola addosso. Pur di farti restare qui adesso, pulirei tutti i cessi di casa tua anche cento volte al giorno.»

L’amico lo abbracciò con tutta la forza che era riuscito a riacquistare.

«Cosa ho fatto per meritarmi che tu mi voglia così bene?»

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Francesco sorrise.

«Non hai fatto niente. Ti sei limitato ad essere tutto quello che volevo dalla vita.»

Ed era così. Solo che ormai lo avrebbe amato anche se fosse cambiato, anche se non lo avesse più riconosciuto, anche se fosse diventato un altro. Quando lo aveva conosciuto si era sentito come una bottiglia d’acqua versata sul pavimento. E aveva capito che solo Matteo avrebbe potuto assorbire ogni goccia di quell’acqua. Ma Matteo non si era soltanto impregnato di lui. Matteo se lo era bevuto tutto. E adesso lui gli apparteneva. Gli apparteneva per sempre.

Gli baciò la fronte.

«Ora devo andare a dare una mano a Maria e a rimediarti qualcosa per la cena. Hai delle preferenze? Ormai quella donna mi adora e riesco a convincerla a prepararti qualsiasi cosa.»

Matteo lo baciò.

«Tu la sai la mia preferenza ma continui a dire che sono troppo debole.» rispose ammiccando.

Mentre scendeva le scale si accorse che Enrico era nell’ingresso. E per andare in cucina non c’erano strade alternative. Sarebbe dovuto passare per forza di lì. Il dottor Neri stava dando un’occhiata veloce alla posta del giorno. Si augurò che le scarpe da ginnastica molleggiate facessero lo stesso rumore di un paio di pantofole, camminò rasente alla parete e pregò che la sua presenza passasse il più possibile inosservata. Ma gli occhi di Enrico si sollevarono e si accorsero di lui inchiodandolo al muro. Francesco si bloccò, abbassò la testa, si strinse nelle spalle e si preparò a ricevere la solita valanga di insulti. E questa volta, dopo la reazione di Elisabetta di poco prima, sarebbero stati anche peggio del solito. Non faceva niente. Non avrebbe aperto bocca. Come sempre. Avrebbe cercato di pensare solo a Matteo.

Enrico gli si avvicinò e lo guardò come se avesse trovato il colpevole della strage di tutta la sua famiglia. E invece l’unica colpa di Francesco era quella di essere gay e di amare suo figlio perdutamente. Poi lo aggredì e la sua voce era un grido disumano.

«Mi fa schifo vederti girare per casa mia. Hai capito? Mi fa schifo.»

Le urla forti avevano richiamato l’attenzione dell’intera famiglia e tutti accorsero a vedere cosa fosse successo. Tutti compreso Matteo.

Francesco deglutì e parlò piano con un tono sottomesso per non far alterare Enrico ancora di più.

«Io la capisco, dottor Neri. Avevamo deciso così solo per il bene di Matteo. Era solo una soluzione temporanea. Comunque se per lei è una situazione insopportabile, ci inventiamo qualcos’altro. Le giuro che dopo questa volta non sarà mai più costretto ad avere a che fare con me.»

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Ma Enrico delle scuse e delle promesse di Francesco non se ne faceva niente. Il suo era un odio viscerale. Avrebbe voluto ammazzarlo. Lo fissò con disprezzo.

«Ma si può sapere….» chiese con un tono in cui il biasimo, la rabbia e la disperazione si univano in una miscela esplosiva. «si può sapere, brutta checca che non sei altro, perché, con tutti gli uomini che ci sono al mondo, proprio da mio figlio dovevi fartelo mettere nel culo?»

Francesco, senza sollevare la testa, si guardò intorno. Rebecca, Maria ed Elisabetta erano paralizzate. Ma Matteo camminava lentamente verso il padre. I suoi occhi trasparenti lo fissavano con aria di sfida. Trasudavano repellenza. Francesco pregò che l’amico non dovesse mai per qualsiasi ragione guardarlo in quel modo.

«Lo sai qual è il colmo, papà?» La voce di Matteo era bassa, lenta, consapevole che a breve avrebbe affondato l’avversario con una sola frase. «Il colmo è che di solito succede il contrario. E’ lui che me lo mette nel culo. E non solo. Io lo supplico perché lo faccia.»

Francesco capì che quella era la fine. Si prese la testa fra le mani e aspettò che la casa gli crollasse addosso. Pregò solo che Enrico se la prendesse con lui e non con Matteo. Ed Enrico lo accontentò. Lo afferrò per la camicia e tentò di scaraventarlo con violenza contro il muro. Lui sapeva che sarebbe bastato un gesto per liberarsi di quell’uomo piccolo e magro che, per quanto accecato dall’odio, non avrebbe mai potuto competere con un ragazzo sportivo di venticinque anni. Ma grazie a quell’uomo esisteva Matteo e lui non poteva fargli del male.

Solo che era Matteo a non pensarla così. Afferrò Enrico per le spalle costringendolo a mollare Francesco. E lo scagliò a terra con una violenza inaudita per uno che nemmeno due settimane prima era stato in punto di morte. Poi, non contento, mentre il padre tentava di recuperare gli occhiali che aveva perso nella caduta, gli si avventò addosso cercando di rimetterlo in piedi per il colletto. Francesco lo fermò intrappolandogli le braccia. Ma, anche senza potersi muovere, l’amico continuava a gridare contro Enrico con tutto il fiato che aveva in gola.

«Sei un bastardo! Da oggi non sei più mio padre. Te lo giuro sulla mia vita!»

Poi scoppiò in singhiozzi e lui lo abbracciò forte.

«Amore, calmati. Adesso ce ne andiamo via. Solo noi due.»

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36.

 

 

 

 

 

 

Guidava più veloce possibile cercando di destreggiarsi nell’inevitabile traffico di un paese sul lago in una sera d’estate. Moriva dalla voglia di vedere Matteo. Ma quella sera la sua impazienza aveva un’aggravante in più: era riuscito a comprare i biglietti per il concerto di Vasco e non vedeva l’ora di fare una sorpresa al suo Teo. Adorava tornare a casa con un pensiero inaspettato per lui. Fin da piccolo aveva sempre preferito fare i regali piuttosto che riceverli. Andare alla ricerca di quell’idea che avrebbe fatto felice la persona a cui era destinata. Immaginare nei giorni precedenti l’espressione di sua madre, di suo padre, di sua sorella quando avrebbero scartato il pacchetto. Non c’era paragone rispetto a quando il regalo era per lui: in un attimo lo apriva ed era tutto finito.

Entrò nella stanzetta squallida. Matteo stava cucinando. Era di schiena, scalzo, a torso nudo, con addosso solo i jeans. Era così bello che Francesco si sentì cedere le ginocchia. Mise i biglietti sotto un piatto sulla tavola già apparecchiata e gli si avvicinò da dietro. Lo respirò, gli accarezzò il sedere perfetto e gli abbracciò i fianchi iniziando a baciargli la schiena.

«Amore, come cazzo fai a essere così bello?»

Matteo si girò e gli diede un bacio frettoloso.

«Cucciolo, ti sto preparando una cenetta che nemmeno t’immagini!»

Ma a Francesco la fame era passata completamente. Si infilò tra il fornello e l’amico, si inginocchiò e gli sbottonò i jeans. E, cominciando a leccarlo, gli parlò come se stesse spiegando la tabellina del due ad un laureato in matematica.

«Io lo so che tu stavi cucinando. Ma tu non puoi metterti qui a cucinare così e chiedermi di aspettare. Non lo vedi che è come se ogni parte di te dicesse “scopami”? Io cosa posso fare? Rispondo solo ad un comando!»

Matteo spense il gas e lo sdraiò sul pavimento.

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«Vorrà dire che adesso ti toccherà baciarle tutte queste parti di me!»

Francesco si scostò leggermente e lo guardò negli occhi.

«Lo sai qual è il problema?» gli chiese serio.

«Qual è?»

«E’ che io posso baciarti qui, e qui, e qui, e qui, e qui…» e mentre parlava la lingua accompagnava la sua voce come fossero due strumenti che suonano insieme «ma non posso baciare il tuo pancreas, la tua milza, il tuo fegato, il tuo midollo, il tuo cuore…»

«Beh, vorrà dire che per adesso mi accontenterò che tu mi baci qualcos’altro.»

 

«Come hai fatto a trovare i biglietti? Io li ho cercati ovunque ma non ce n’era più nemmeno mezzo!» Matteo lo guardava incredulo e felice. Vasco era in assoluto il cantante preferito di entrambi e i suoi concerti un evento a cui si preparavano con mesi di anticipo. Non c’erano parole per descrivere l’atmosfera che si respirava mentre le note di “Sally”, di “Albachiara”, di “Dormi Dormi”, di “Un Senso”, di “Senza Parole” riempivano lo stadio. Era un brivido continuo. Un’emozione che andava dritta allo stomaco.

Squillò il telefonino di Francesco. Era Elisabetta. Magari anche lei era riuscita a trovare i biglietti per il concerto e sarebbero andati tutti e quattro insieme.

Erano passati due anni da quando i due amici se ne erano andati dall’appartamento di Via Podgora.

E da allora, di tutta la famiglia Neri, frequentavano solo Elisabetta. Rebecca aveva chiamato il figlio qualche volta ma Enrico e Matteo non si erano mai più né visti né sentiti.

I due amici vivevano ancora nella stessa stanza squallida e l’unico lusso in più che si erano concessi era stato l’acquisto di un divanetto con due poltroncine e di una televisione con tubo catodico. In realtà stavano tentando di risparmiare ogni mese qualche spicciolo per uno con l’intenzione di comprarsi una casetta. E l’affitto contenuto della stanzetta permetteva loro di sognare. Lavoravano ancora come camerieri ma da un po’ Matteo aveva iniziato a scrivere qualche articolo per un giornale locale e Francesco collaborava saltuariamente con una casa editrice di Como per la recensione di nuovi libri.

Quando Francesco e Matteo se ne erano andati definitivamente da Milano, Elisabetta aveva passato tutte le ferie in un albergo lì vicino con Marco e aveva cercato di aiutare l’amico a barcamenarsi tra il lavoro e le cure che necessitava il fratello allora convalescente. Poi aveva continuato a vederli molto spesso, da sola o con il fidanzato. Uscivano tutti e quattro insieme e passavano delle giornate indimenticabili impregnate di leggerezza e di intesa.

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I due ragazzi, turni di lavoro permettendo, facevano visita anche ai genitori di Francesco. I nonni erano totalmente assorbiti dalla scoperta quotidiana del nipotino e l’atmosfera era diventata leggermente più respirabile. Anche se di solito, quando passavano un week-end ad Arenzano, i due amici preferivano vedere Angela e Mario solo di sfuggita e trascorrere il resto del tempo al mare con Elena e Lorenzo. Francesco adorava il nipote e sapeva che il bene che sentiva per lui era il sentimento più vicino ad un affetto che non avrebbe mai potuto provare: quello per un figlio. Soffriva quotidianamente per la consapevolezza di questa inevitabile rinuncia, non tanto per se stesso ma per Matteo. Solo che non c’era niente da fare. I bambini avevano bisogno di una mamma e di un papà e di questo nessuno dei due aveva mai dubitato.

«Ciao, Eli. Come stai?» rispose allegro.

«Ciao, Fra. Io benissimo e a voi non lo chiedo neanche.» poi, senza respirare come al solito, aggiunse:

«Sei con Teo, vero?»

Lui pensò che stesse facendo la solita allusione al loro unico modo di passare il tempo libero.

«Sì, abbiamo appena finito di cenare.» precisò. «Ho trovato i biglietti per Vasco.»

«Ah bene, anche Marco è riuscito a recuperarne due, così andiamo insieme. Senti, Fra, devo dirti una cosa. Puoi far finta che ti stia raccontando una delle solite scenate del lavoro?»

Francesco fece un piccolo sospiro.

«Cazzo, veramente. E la madama cosa ha detto?» chiese stando subito al gioco.

L’amica rise soddisfatta.

«Sei un grande. Ascolta. Ti ricordi che io e Marco ci sposiamo a settembre?»

«Eli, non lavoro più lì ma non mi sono rincoglionito del tutto.»

«Sì, scusa. Beh, comunque ho chiesto un regalo ai miei…. Ho chiesto loro che accettino di venirvi a trovare e di vedervi insieme dopo due anni. Lo so che state bene così e che a Matteo non mancano per niente. Ma voglio che loro si rendano conto di quanto vi amiate. Ti prego. L’ho detto a te perché se lo avessi detto a mio fratello non mi avrebbe nemmeno lasciata finire di parlare. Ma tu puoi convincerlo. Lo so che puoi convincerlo a fare qualsiasi cosa. Lo fai, Fra? Me lo fai come regalo di nozze?»

Francesco si ricordò dell’ultima volta che aveva visto Enrico e di quanto avesse fatto soffrire Matteo. Ma quell’uomo che aveva reagito in modo tanto assurdo restava pur sempre suo padre. E lui sapeva quanto si può volere bene al proprio padre anche se non ti approva completamente. Solo che in quel momento capì che forse non si poteva fare a meno di provare affetto per i propri genitori anche se non ti accettano per niente.

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«Va bene, Eli. Lo faccio. Te lo prometto.» disse piano sospirando. Poi, per farsi sentire da Matteo, aggiunse:

«Cosa vuoi farci, Eli? Quella lì è sempre la solita stronza. Ci sentiamo così ci mettiamo d’accordo per vederci. Bacio.»

Si girò. Matteo aveva già sparecchiato tutto e si era seduto su una delle poltroncine nuove. Francesco si accovacciò davanti a lui, gli baciò le mani e lo guardò con tenerezza.

«Amore, la fai una cosa per me?»

Matteo lo fissò senza capire.

«Per te faccio qualsiasi cosa.»

«Sì, ma questo favore che ti sto chiedendo non ti piacerà per niente.»

«Se mi chiedessi di tagliarmi via un dito, me lo taglierei senza nemmeno chiederti perché. Pensi che questa cosa che devo fare sia peggio?»

Francesco sorrise.

«Forse sì.»

L’amico lo guardò con ansia.

«Fra, hai conosciuto qualcuno? Hai bisogno…»

Francesco lo baciò per farlo tacere.

«La Eli ha convinto i tuoi a venirci a trovare e io vorrei tanto che tu accettassi. Lo fai per me?»

 

Avevano chiesto alla proprietaria della stanza un tavolino da campeggio e un paio di sedie perché sulla loro tavola sgangherata non avrebbero mai potuto mangiare in sei. Francesco aveva insistito perché venissero tutti a cena da loro. Elisabetta, con la saggezza tipica delle donne, aveva provato a convincerlo che magari, come primo incontro, sarebbe stato sufficiente un caffè. Ma alla fine lui aveva avuto la meglio.

Matteo era molto teso e si capiva chiaramente che ogni momento che passava si pentiva sempre di più di aver acconsentito. Francesco gli posò le mani sulle spalle, si sollevò leggermente e gli soffiò sul collo.

«Su, non fare così. Andrà tutto bene. Tu pensa solo a parlare con loro. Per il resto faccio tutto io.»

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Matteo sorrise ma la sua voce era seria.

«La mia unica paura è che, quando me lo vedrò qui davanti, non riuscirò a fare a meno di pensare a come ti ha trattato l’ultima volta e deciderò di spaccargli la faccia, anche se sono passati due anni.»

Lui gli sollevò il viso per costringerlo a guardarlo negli occhi.

«Eh no, Teo. Così non va bene per niente. Lo fai per la Eli, vero? E lo fai per me? Promesso?»

Matteo annuì rassegnato.

 

«Fra, te lo sei inventato tu questo sugo?» chiese Elisabetta stupita mentre gli passava il piatto per aiutarlo a sparecchiare.

«Cosa credevi, Eli? Qui la cucina è di alta classe!» scherzò.

L’amica scoppiò a ridere.

La cena era trascorsa in modo piuttosto indolore. Enrico e Matteo avevano parlato pochissimo ma se non altro non si erano mai attaccati. Ed era già un traguardo. Non solo, ma il dottor Neri aveva anche evitato di insultare Francesco. E questo, dato i trascorsi, non era per niente da sottovalutare.

Il tema principale era stato l’imminente matrimonio di Elisabetta e Marco. Lei era entusiasta e lui, sempre molto innamorato, la assecondava con benevolenza. Ma era stato chiaro a tutti che, per quanto l’amasse, non fosse nemmeno lontanamente interessato ai milioni di studiatissimi preparativi che per la fidanzata sembravano questione di vita o di morte.

Dopo cena Francesco aveva convinto Matteo a sedersi sul divano con i genitori e il futuro cognato mentre lui e la sorella si occupavano di piatti e pentole. Francesco ed Elisabetta li osservavano di nascosto con un po’ di preoccupazione e confidavano nell’indiscussa capacità di Marco di mettere tutti a proprio agio. Appena finito di riordinare il minuscolo angolo cottura, si unirono anche loro al resto della famiglia. Elisabetta si accomodò sul bracciolo di fianco al fidanzato e Marco non perse occasione per appoggiarle con disinvoltura una mano su una gamba. Francesco stava per prendere una sedia ma all’ultimo momento cambiò idea. Si avvicinò a Matteo, trattenne l’amico che già si stava alzando per lasciargli il posto e si sedette per terra con la schiena appoggiata alle sue gambe. E Matteo, con un gesto quasi del tutto impercettibile, gli fece una carezza discreta. Rebecca li guardò, poi guardò Elisabetta e Marco. E Francesco capì cosa stesse pensando.

Pensava all’amore indiscusso che c’era tra la figlia e il fidanzato. A quanto fossero in sintonia perfetta e a come se lo dimostrassero in continuazione con mille attenzioni, senza inibizioni. Il loro era un amore che faceva venire voglia di sperare a chiunque li vedesse. Erano orgogliosi

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l’uno dell’altra ed erano orgogliosi di amarsi. Rebecca stava pensando che quell’amore perfetto era un amore facile, un amore che non aveva incontrato nessun ostacolo, un amore per cui Elisabetta aveva ricevuto l’approvazione di tutti. Quell’approvazione che aveva ricercato per tutta la vita. E adesso si sarebbero sposati, Marco avrebbe affiancato Enrico nello studio notarile e gli sposini avrebbero potuto vivere fin da subito con tutti gli agi e le comodità possibili.

Ma Rebecca pensava anche a Francesco e Matteo. E Francesco ne era sicuro. Pensava a come per il figlio e l’amico fosse stato difficile fin dall’inizio. A quante difficoltà si fossero trovati davanti, a quanti ostacoli continuassero ad incontrare e a quante rinunce sarebbero andati incontro. E a come il loro amore resistesse a qualsiasi barriera, imperterrito.

Rebecca pensava al figlio che aveva rinunciato a tutto per difendere con le unghie quell’amore senza cui non avrebbe potuto vivere. Aveva abbandonato il lusso, la sicurezza, la ricchezza certa per una stanzetta squallida, per la lotta di tutti i giorni con la mancanza di soldi, per un lavoro umile.

Rebecca guardava Elisabetta e Marco scambiarsi tenerezze senza remore e guardava Francesco e Matteo che si sfioravano appena e quasi si sentivano colpevoli di sorridersi davanti agli altri. Ma il loro amore trasudava. Era impossibile non accorgersene. Bastava guardarli mentre i loro occhi si incrociavano, mentre si versavano da bere, mentre cercavano di prevenirsi in tutto.

Rebecca pensava a Francesco che aveva cucinato per tutti e aveva sorriso mentre serviva loro la cena. Aveva sorriso anche ad Enrico. Ad Enrico che lo aveva insultato, ad Enrico che lo aveva umiliato, ad Enrico che lo aveva trattato come una pezza da piedi. E Francesco lo aveva fatto per Matteo, lo aveva fatto perché lo adorava, lo aveva fatto perché lo amava incondizionatamente.

Rebecca si chiedeva se Elisabetta avrebbe mai sopportato tanto per Marco. Si chiedeva se i due sposini sarebbero stati capaci di perdonarsi. Di sicuro si sarebbero perdonati le piccolezze. Ma chi poteva dire se sarebbero stati capaci di perdonarsi le offese che bruciano, un tradimento, un’umiliazione. E pensava a Francesco e Matteo che avrebbero accettato ogni possibile torto l’uno dall’altro, si sarebbero adattati a qualsiasi frustrazione, anche gratuita. E lo avrebbero fatto perché l’uno senza l’altro non potevano respirare. E se uno dei due fosse impazzito, l’altro avrebbe accettato di vivere per sempre ai suoi piedi, in ginocchio, aspettando il permesso di alzarsi, di parlare e di respirare.

Francesco guardò Rebecca e fu sicuro che pensasse che un amore così, anche se non si riusciva accettarlo, avesse almeno il diritto di essere rispettato.