Pagine da bisciotti ginocchio

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LA BIOMECCANICA DEL GINOCCHIO 2 1 Gian Nicola Bisciotti L’ articolazione del ginocchio, sia da un punto di vista puramente biomeccanico che funzionale è, in sé, piuttosto complessa. La sua posizione intermedia nel contesto anatomico dell’arto inferiore, richiede infatti sia una stabilità ottimale, in modo tale da poter agevolmente tra- smettere le cospicue sollecitazioni funzionali provenienti a monte dall’arti- colazione dell’anca, ma anche una soddisfacente mobilità consona alla nostra deambulazione bipodalica. Tuttavia, nel ginocchio, a differenza di quanto invece sia riscontrabile in altre articolazioni, come ad esempio quel- la del gomito, la stabilità dei segmenti ossei non è garantita da una notevo- le congruenza dei capi articolari. Questa sorta di “carenza strutturale” è comunque vicariata dai robusti e numerosi legamenti di cui l’articolazione del ginocchio è provvista, nonché dalla sua potente muscolatura. I capi ossei che costituiscono l’articolazione del ginocchio sono: la parte distale del femore, la tibia prossimale e la rotula, inoltre in circa il 15-20% della popolazione è presente la fabella (Seebacher e coll., 1982; Müller e coll., 1983), una piccola cartilagine sesamoide occasionalmente presente al di sopra del condilo femorale fibulare all’inizio del capo laterale del muscolo gastrocnemio, che può occasionalmente essere suddivisa in due o tre parti (fabella bipartita o tripartita).

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Il ginocchio Gian Nicola Bisciotti

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LA BIOMECCANICA DEL GINOCCHIO

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Gian Nicola Bisciotti

L’articolazione del ginocchio, sia da un punto di vista puramentebiomeccanico che funzionale è, in sé, piuttosto complessa. La sua

posizione intermedia nel contesto anatomico dell’arto inferiore, richiedeinfatti sia una stabilità ottimale, in modo tale da poter agevolmente tra-smettere le cospicue sollecitazioni funzionali provenienti a monte dall’arti-colazione dell’anca, ma anche una soddisfacente mobilità consona allanostra deambulazione bipodalica. Tuttavia, nel ginocchio, a differenza diquanto invece sia riscontrabile in altre articolazioni, come ad esempio quel-la del gomito, la stabilità dei segmenti ossei non è garantita da una notevo-le congruenza dei capi articolari. Questa sorta di “carenza strutturale” ècomunque vicariata dai robusti e numerosi legamenti di cui l’articolazionedel ginocchio è provvista, nonché dalla sua potente muscolatura. I capiossei che costituiscono l’articolazione del ginocchio sono: la parte distaledel femore, la tibia prossimale e la rotula, inoltre in circa il 15-20% dellapopolazione è presente la fabella (Seebacher e coll., 1982; Müller e coll.,1983), una piccola cartilagine sesamoide occasionalmente presente al disopra del condilo femorale fibulare all’inizio del capo laterale del muscologastrocnemio, che può occasionalmente essere suddivisa in due o tre parti(fabella bipartita o tripartita).

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L’articolazione femoro-tibiale è costituita dai due condili femorali, lateralee mediale, che presentano una forma convessa, e dalle due facce tibiali,di cui quella mediale presenta una forma di tipo ovalico, mentre quellalaterale è rotondeggiante e lievemente concava. Da un punto di vista biomeccanico sarebbe classificabile come un gingli-mo articolare, anche se, la presenza delle due faccette articolari la rendemolto simile a due articolazioni condiloidee. Tra la superficie femorale equella tibiale, sono interposti i due menischi, oltre alla cartilagine ialina. Igradi di libertà sono due e permettono i movimenti di flesso-estensione erotazione.

LA BIOMECCANICA DEL GINOCCHIO 1

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1 L’articolazione femoro-tibiale

L e articolazioni possono essere classificante secondo tre principi, il primo deiquali riguarda il grado di reciproca mobilità dei capi ossei coinvolti nel movi-

mento, il secondo prevede una classificazione basata sul tipo di movimento che learticolazioni stesse permettono. Utilizzando il primo tipo di classificazione avremo:

Articolazioni mobili o diatrosi: di cui un esempio è costituito dal ginocchio,dalla spalla, oppure dalle dita. Sono le più numerose e permettono l’esecuzionedi movimenti di notevoli ampiezza.

Articolazioni semimobili o anfiartrosi: ne sono un esempio la colonna verte-brale e le articolazioni del piede. Permettono movimenti di ampiezza piuttostoridotti. I capi ossei in questo tipo di articolazioni sono uniti tra loro tramite unlegamento interosseo, che è costituito da un disco cartilagineo che assolve lafunzione meccanica di cuscinetto ammortizzante; nel contempo un insieme dilegamenti laterali e di muscoli rafforzano l’insieme articolare.

Articolazioni fisse, altrimenti dette sinartrosi o suture: ritrovabili in struttu-re come la scatola cranica. Queste articolazioni non permettono movimenti. Icapi ossei presentano spesso dei margini seghettati che si incastrano completa-mente tra loro.

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LE LESIONI ACUTE DEL GINOCCHIO

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Nell’ambito della traumatologia sportiva, le lesioni del ginocchio, siaacute che da usura, rappresentano insieme circa il 15% della tota-

lità dei traumi sportivi (Garrick e Requa, 1981). In effetti nella pratica spor-tiva l’articolazione del ginocchio è esposta ad un’ampia casistica di possibilitraumi, ancor più di quanto non si verifichi per le altre articolazioni. Nel-l’ambito delle lesioni acute, il fatto di poter stabilire una diagnosi precisa, oquantomeno un’adeguata diagnosi differenziale, costituisce un fattored’importanza fondamentale. Ad una precisa diagnosi debbono poi seguire iltrattamento iniziale, le eventuali indicazioni per una consulenza di tipospecialistico, il trattamento definitivo, ed infine quello riabilitativo. Lelesioni acute del ginocchio comprendono una vasta casistica, per la mag-gior parte dei casi di origine traumatica, e possono interessare i capi osseiarticolari, i menischi, i legamenti, la rotula e le strutture tendinee. In tabel-la 1 sono evidenziate le principali lesioni acute nelle quali l’articolazione delginocchio può incorrere.

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Osteocondrite dissecante Femore condilo medialeRotula

Lussazione Rotula

Tendinee Tendine rotuleoTendine quadricipitale

Meniscali Menisco lateraleMenisco mediale

Legamentose Legamento crociato anterioreLegamento crociato posterioreLegamento collaterale medialeLegamento collaterale laterale

Fratture RotulaFemore epifisi distaleTibia epifisi prossimaleTibia tuberosità anterioreSpina tibialeTesta della fibulaDistacchi epifisariFratture da stressFratture osteocondrali

LE LESIONI ACUTE DEL GINOCCHIO 2

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Tabella 1Le principali lesioni acute a carico dell’articolazione del ginocchio.

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LE LESIONI DA SOVRACCARICO

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Con il termine di lesioni da sovraccarico si intendono tutte quellepatologie derivate da ipersollecitazione funzionale, e quindi dovute

essenzialmente a microtraumatismi reiterati. Esistono, in quest’ambito, deifattori predisponenti di ordine esogeno e endogeno. Tra i fattori di ordineesogeno sono da segnalare le calzature utilizzate durante l’attività sporti-va, la natura dei differenti terreni di gioco, la biomeccanica dei gesti tecni-ci, gli errori di tipo dietetico, ecc. Mentre tra i fattori endogeni invece ricor-diamo le anomalie strutturali congenite e quelle acquisite, le asimmetriedegli arti inferiori, gli squilibri muscolari, le lesioni muscolari o articolaripregresse, gli squilibri metabolici, ecc…Le principali lesioni da sovraccarico riguardanti l’articolazione del ginoc-chio sono costituite dalle tendinopatie, dalle apofisiti, oltre che da tre sin-dromi principali: la sindrome femoro-rotulea, la sindrome della plicamedio-patellare e la sindrome da frizione della bandeletta ileo-tibiale.In tabella 5 riassumiamo le principali lesioni da sovraccarico nelle qualil’articolazione del ginocchio può incorrere.

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LE LESIONI DA SOVRACCARICO 3

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Tendinopatie Tendinopatia rotuleaTendinopatia del m. quadricipite femoraleTendinopatia della zampa d’ocaTendinopatia della bandeletta ileotibialeTendinopatia del m. popliteoTendinopatia del m. semimembranosoTendinopatia del m. bicipite femorale

Entesopatie Entesopatia dei mm. gemelli

Borsiti Borsite prerotuleaBorsite della zampa d’ocaCisti di Baker

Apofisiti Malattia di Osgood-SchlatterMalattia di Sinding-Larsen-Johansson

Sindromi Sindrome femoro-rouleaSindrome della plica mediopatellareSindrome da frizione della bandeletta ileotibiale

Tabella 5Le principali lesioni da sovraccarico dell’articolazione del ginocchio.

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ANATOMIA DI SUPERFICIE DELL’ARTICOLAZIONE DEL GINOCCHIO4

La conoscenza anatomica, la capacità palpatoria, la capacità di anali-si e di comprensione del problema lamentato dal paziente, unite

ovviamente all’esperienza, costituiscono per il terapista i mezzi di maggioraffidabilità al fine di poter ottenere un’ottimale comprensione delle variepatologie, soprattutto per ciò che riguarda i tessuti molli. Naturalmente l’e-same ecografico, la RM e la TC, costituiscono dei formidabili mezzi diagno-stici in grado di confermare, oppure confutare, la diagnosi clinica. In questocapitolo vengono illustrate le basi pratiche minime di conoscenza in mate-ria di anatomia di superficie dell’articolazione del ginocchio. È opportunocomunque ricordare che, se per il terapista o per il laureato in ScienzeMotorie desideroso di specializzarsi nell’ambio della riabilitazione funzio-nale dell’atleta, la conoscenza dell’anatomia funzionale e delle varie patolo-gie, si rivela indispensabile per una propria completezza professionale, ladiagnosi è, e rimane, di esclusiva competenza medica.

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ANATOMIA DI SUPERFICIE DELL’ARTICOLAZIONE DEL GINOCCHIO 4

Muscolo Innervazione Nervo segmentale

Sartorio L1-L3 N. femorale

Quadricipite femorale L2-L4 N. femorale

Gracile L2-L4 N. otturatorio

Tensore della fascia lata L4-L5 N. gluteo superiore

Popliteo L4-S1 N. tibiale

Semitendinoso L5-S1-S2 N. tibiale

Semimembranoso L5-S1-S2 N. tibiale

Grande adduttore L2-L4 / L4-L5 / N. otturatorio – L5-S1-S2 – N. ischiatico – N. tibiale

Capo lungo del bicipite femorale L5-S1-S2 N. tibiale

Capo corto del bicipite femorale S1-S2 N. peroneo comune

Soleo S1-S2 N. tibiale

Gastrocnemio S1-S2 N. tibiale

Tabella 6I muscoli dell’articolazione del ginocchio, la loro innervazione segmentale ed i nervi corrispondenti.

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IL CONCETTO DEL PUZZLE5

Spiegare in termini chiari e comprensibili come sia nata un’idea costi-tuisce solitamente un’impresa difficoltosa, soprattutto considerando

che l’idea in questione potrà sicuramente urtare la suscettibilità di alcuniche credono fermamente nelle loro idee. Nel momento in cui si parla di valu-tazione funzionale spesso si cade in un errore concettuale di fondo, ossiaquello di credere che con un unico test, o prova funzionale, si possa avere unquadro chiaro e preciso della situazione neuro-muscolare, e quindi funzio-nale, dell’arto leso. Così in effetti non è, non esiste infatti nessun tipo di testo prova funzionale di carattere per così dire “esaustivo”, che sia in grado difornirci tutti i dati necessari, sia alla comprensione della limitazione funzio-nale determinata dalla patologia sia alla stesura di un idoneo piano riabilita-tivo. Da questa constatazione è nato quello che in questo testo è definito ilconcetto del puzzle. Si immagini di dover indovinare una figura componen-done i tratti grazie all’assemblaggio di un certo numero di tasselli di unpuzzle; sarebbe difficoltoso per chiunque poter dare la giusta riposta avendoa disposizione un solo tassello. È altrettanto ovvio che maggiore sarà ilnumero di tasselli assemblati coerentemente tra loro, più alta risulterà laprobabilità di poter interpretare correttamente la figura in questione. Nel-l’ambito della riabilitazione funzionale avviene all’incirca la stessa cosa: piùprove funzionali, assemblate coerentemente tra loro, saranno sicuramentein grado di fornirci un numero d’informazioni utili indiscutibilmente mag-giore di quanto non possa darci un unico test. Avere a disposizione un mag-gior numero d’informazioni significa, in ultima analisi, avere un quadrodella situazione funzionale del paziente sempre più chiaro e delineato, che cipermetterà di conseguenza una più efficace possibilità d’intervento. Il con-cetto del puzzle nasce appunto dall’esigenza di fornire all’operatore, nellospecifico il fisioterapista, il medico sportivo, il fisiatra, o qualsiasi altra figu-ra professionale che si occupi di riabilitazione funzionale, uno strumento“modulare” attraverso il quale poter costruire un quadro di riferimentosempre più chiaro e preciso in funzione dei “moduli” utilizzati.

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Valutare funzionalmente un atleta comporta le stesse problematiche dellavalutazione funzionale di un individuo sedentario? Per definizione un atle-ta è un individuo che utilizza, ovviamente in rapporto al modello prestati-vo della disciplina praticata, le proprie capacità condizionali e coordinati-ve al massimo della loro possibile espressione funzionale. Diverso è ovvia-mente il caso di colui che non pratica nessun tipo d’attività sportiva ed ilcui scopo sia quello di ritornare ad una funzionalità che non interferiscanegativamente con la qualità di vita desiderata. Mi sembra quindi ovvioche, senza chiaramente sottostimare le legittime attenzioni dovute a chiatleta non è, né intende diventarlo, la valutazione funzionale di uno spor-tivo necessiti di un’attenzione particolare.Da sempre il test principale a cui ogni sorta di tipologia d’atleta si sottopo-neva era, ed è tuttora, il test isocinetico. Ma l’isocinetica è una metodicavalutativa veramente affidabile? E soprattutto, nel caso della valutazionefunzionale di un atleta, può fornire le informazioni necessarie al particola-re tipo d’attivazione muscolare che l’atleta, una volta completata la riabili-tazione, si troverà ad affrontare sul campo? La risposta è ancora una voltanegativa. Infatti, anche se l’isocinetica ha indubbiamente permesso unimportante progresso nell’ambito dello studio del comportamento musco-lare (Hislop e Perrine, 1967; Perrine e Edgerton, 1968), il tipo di contra-zione muscolare prodotto attraverso la modalità isocinetica, presentadelle notevoli ed imprescindibili differenze con il tipo di contrazione cheviene effettuata nel corso di un movimento naturale.

Vediamo allora di chiarire, seppur sommariamente, quali siano i limitiinterpretativi di un test isocinetico. La prima fondamentale differenza cheintercorre tra la contrazione isocinetica e quella naturale, è costituita dalfatto che, nel primo caso il muscolo si contrae a velocità costante, senzaquindi poter generare accelerazione, che al contrario, costituisce una dellecaratteristiche principali della contrazione naturale. Secondariamenteoccorre ricordare come la maggior parte dei movimenti naturali, sia nel-l’uomo che nell’animale, sia caratterizzata da un’attivazione muscolareche comporta una fase di contrazione muscolare di tipo eccentrico, a cuifa seguito una limitatissima fase di stabilizzazione isometrica, immediata-mente seguita da una fase concentrica. Questo particolare tipo d’attivazio-

IL CONCETTO DEL PUZZLE 51 La valutazione funzionale dell’atleta

2 I limiti dei test isocinetici

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IL TESYS GLOBUS EVALUATION SYSTEM6

Il consistente sviluppo dei dinamometri isotonici (meglio ancor definibilicon il termine di isoinerziali visto che il loro compito è quello di calcolarei parametri biomeccanici dello spostamento di un carico la cui inerzia gra-vitazionale è costante) ha determinato un grande impulso nello sviluppodei protocolli d’indagine dei parametri biomeccanici del movimentoumano nel muscolo in situ (Bosco, 2002). Molti di questi protocolli sonostati specificatamente dedicati allo studio dell’ipofunzionalità di un arto inseguito ad un evento traumatico. In questo caso, la possibilità d’indagareil comportamento muscolare in condizioni di attivazione naturale, ha per-messo, al contrario di quanto invece non avvenga in condizioni isocineti-che, di meglio identificare le caratteristiche dell’ipofunzionalità connessaal trauma. In questo ambito specifico uno degli aspetti di maggiore impor-tanza è costituito dal fatto di poter quantificare la resistenza muscolaredell’arto leso, nei confronti del controlaterale sano, intendendo con que-sto termine la capacità da parte del muscolo di effettuare reiteratamentenel tempo delle contrazioni muscolari opponendosi ad una resistenzaesterna (Baltzopoulos e Brodie, 1989). Questo tipo di test è normalmenteutilizzato per poter quantificare obiettivamente la resistenza alla faticadell’arto leso, nei confronti del controlaterale (Baltzopoulos e Brodie,1989). I protocolli che si basano su questo tipo di concetto, nonostanteabbiano già conosciuto un largo utilizzo nell’ambito dei test isocinetici,paradossalmente non sono mai stati codificati e standardizzati secondouna procedura rigorosamente scientifica (Montgomery e coll., 1989). Iprotocolli isocinetici più utilizzati per indagare le caratteristiche resistive ela fatica periferica muscolare possono essere schematicamente suddivisiin 3 categorie:

• Categoria I: comprende tutti i test isocinetici che richiedono unnumero predeterminato di ripetizioni da eseguire con il massimoimpegno muscolare (Baltzopoulos e Brodie, 1989; Barnes, 1981;Gleeson e Mercer 1992; Molczyk e coll., 1991; Thorstensson e Karls-son, 1976).

• Categoria II: riguarda tutti i tipi di test in cui il soggetto esegue, in undeterminato periodo di tempo e con un determinato carico, il massi-mo numero di ripetizioni con il massimo impegno muscolare (Baltzo-poulos e Brodie, 1989; Felicetti e coll, 1994; Montgomery e coll.,1989).

1 Introduzione

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6• Categoria III: comprende i protocolli di test che si basano sull’analisi

di quella che potrebbe essere definita con il termine di “curva di affa-ticamento del soggetto”. Normalmente, i tipi di protocollo in questacategoria richiedono al soggetto testato l’esecuzione del movimentosotto forma di ripetizioni consecutive dello stesso. Il test si protraesino al punto in cui il momento di coppia, registrato dal dinamome-tro (oppure in alcuni casi la potenza od il lavoro) diminuisca di unadata percentuale, normalmente il 50%, rispetto al valore massimale(Patton e coll., 1978; Emery e coll., 1994; Schwendner e coll., 1995).

Tuttavia, anche un test isocinetico specificatamente concepito per laquantificazione della resistenza muscolare, può dare delle valide informa-zioni per ciò che riguardi la massima espressione di forza contrattile deldistretto muscolare indagato. Questo è possibile nel momento in cui ci silimiti a considerare le prime contrazioni muscolari della serie richiesta,normalmente le prime tre. In tal caso i valori di forza registrati possonoessere assunti come valore massimo di coppia di forze isometrica delmovimento indagato, in quanto l’effetto fatica, in tale punto della curvaisocinetica, risulta essere ancora del tutto assente (Emery e coll., 1994;Schwendner e coll., 1995). La metodologia isocinetica, come abbiamo giàavuto modo di esaminare nel capitolo precedente, pur rimanendo un vali-do strumento d’indagine delle caratteristiche neuromuscolari, presentaalcune problematiche di ordine pratico e concettuale che sostanzialmentepossono essere così riassunte.

IL TESYS GLOBUS EVALUATION SYSTEM

Nel corso di un movimento isocinetico il muscolo, contraendosia velocità costante, non può generare accelerazione che, al contrario,costituisce una delle caratteristiche principali del movimento naturale.

La maggior parte dei movimenti umani è caratterizzata da un’at-tivazione muscolare che comporta una fase di contrazione muscolaredi tipo eccentrico, immediatamente seguita da una fase concentrica(Goubel, 1987; Komi, 1987).

Nell’esercizio isocinetico non è possibile accumulare energiaelastica durante la fase eccentrica del movimento. Perché la resisten-za offerta dall’apparecchiatura è proporzionale alla forza espressa

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IL SALTO COME METODO DIAGNOSTICO7

I l salto nell’uomo costituisce un movimento che potremmo definireoccasionale, molto più legato ad un modello prestativo in ambito

sportivo, di quanto non lo sia nella quotidianità dei movimenti che abitual-mente si effettuano. L’impossibilità di saltare non precluderebbe poi moltoin termini di qualità di vita e senz’altro risulterebbe molto meno problema-tico di quanto sarebbe il non poter più camminare anche se, vista la seden-tarietà dilagante nel nostro stile di vita, molti sedentari incalliti dovrebberoandare molto indietro nel tempo per avere memoria di aver saltato. Al di làdi questo, il balzo è stato da sempre uno degli argomenti più analizzati dabiomeccanici e fisiologi, probabilmente perché il salto costituisce nel nostroimmaginario collettivo il movimento “esplosivo” per eccellenza. Già nel1921 Seargent codificò quello che divenne poi uno dei test più famosi edutilizzati nel campo valutativo: il Seargent test. Il protocollo del test preve-deva che l’atleta effettuasse un CMJ e toccasse con la punta delle dita unascala centimetrata affissa alla parete, la differenza tra l’altezza raggiunta equella di partenza, preventivamente misurata, forniva in modo discreta-mente corretto l’altezza del salto.Nel 1938 Abalakov ideò un semplice ma ingegnoso congegno che permette-va di misurare l’altezza del salto in modo agevole e sufficientemente preci-so, utilizzando come punto di partenza il test di Saergent; si tratta di unnastro centimetrato fissato alla cintura dell’atleta e avvolto in un rullogirevole che si dipana durante l’azione di salto, misurandone in tal modol’altezza.Con l’avvento delle piattaforme dinamometriche (dispositivi in grado dimisurare le forze accelerative durante un movimento come il salto) si pote-rono effettuare i primi protocolli di lavoro che, su base scientifica, indaga-rono i principi biomeccanici del salto. Tra i primi studi che utilizzaronoquesto tipo d’indagine, particolarmente significativi sono quelli di Cavagnae coll., del 1971.

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IL SALTO COME METODO DIAGNOSTICO 7

Figura 73Il Saergent test, ideato nel 1921.

Figura 74Il dispositivo ideato da Abalakov nel 1938 per misurare l’altezza di salto.

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L’attenta valutazione della risposta funzionale della muscolatura implicatanei movimenti principali a carico dell’articolazione indagata, riveste unruolo di primaria importanza nella diagnosi dei traumi articolari.In un contesto di valutazione funzionale post-traumatica, la disfunzionemuscolare può evidenziarsi sotto forma di un alterato pattern di recluta-mento muscolare a carico dell’arto leso nei confronti del controlateralesano (Edgerton e coll., 1996). Quest’alterazione, nell’ambito della strate-gia di risposta neuromuscolare riscontrabile nell’arto leso, testimoniereb-be un cambiamento degli input neurali a carico della muscolatura implica-ta nel movimento specifico.L’elettromiografia di superficie (EMG) può rappresentare una metodicad’indagine clinica atta ad evidenziare un’alterazione della strategia direclutamento muscolare, od un pattern di reclutamento di tipo compensa-torio nell’arto che ha subito l’insulto traumatico, rispetto al pattern di atti-vazione neuromuscolare naturale registrabile a carico dell’arto controlate-rale sano (Edgerton e coll., 1996; De Luca, 1993). I cambiamenti nel pattern di attivazione neuromuscolare ed i conseguentimeccanismi fisiologici di adattamento della risposta muscolare stessa, eviden-ziabili attraverso EMG, possono quindi essere utilizzati con successo a fini dia-gnostici, considerando anche la buona riproducibilità di questo tipo di indagi-ne (Worrell e coll., 1995; Bamman e coll., 1997; Poyhonen e coll., 1999).Lo scopo di questo studio è presentare un protocollo di indagine EMG,atto alla diagnosi nell’ambito di traumi articolari e basato sull’alterazionedell’attivazione neuromuscolare riscontrabile nell’arto traumatizzatorispetto al controlaterale sano. Tale protocollo va considerato nell’ambitospecifico della ricostruzione del Legamento Crociato Anteriore (LCA) inseguito a rottura isolata od associata del legamento stesso, valutando idati disponibili in funzione sia della terapia riabilitativa svolta che del pos-sibile rischio di recidiva traumatica.Per una miglior comprensione della problematica affrontata, è importantechiarire, seppur brevemente, alcuni aspetti particolari relativi all’ambito distudio considerato.

Le possibili cause di danno del tessuto muscolare

Il danno a carico della fibra muscolare può essere causato sia da una singo-la contrazione muscolare che dall’effetto cumulativo di una serie di contra-zioni (Armstrong, e coll., 1991). In ogni caso, il meccanismo più associato al

L’ANALISI ELETTROMIOGRAFICA NELLA RICOSTRUZIONE DEL LCA

1 Introduzione

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Una delle caratteristiche peculiari degli infortuni al legamento crociatoanteriore (LCA) è la perdita di forza massimale a carico degli estensoridella gamba sulla coscia, sia nell’immediato periodo post-operatorio chedopo un periodo di follow-up (Ardvisson e coll., 1981; Delitto e coll.,1988; Snyders-Mackler e coll., 1991; Wigerstad-Lossing e coll., 1988),mentre la perdita di forza a carico dei flessori appare molto più limitata(St Clair Gibson e coll., 2000). La perdita della capacità di forza massimaledopo intervento a carico del LCA è riscontrabile, sia attraverso la modalitàdi contrazione isometrica (Delitto e coll., 1988; Wigerstad-Lossing e coll.,1988) che durante una contrazione di tipo isocinetico (Elmqvist e coll.,1988; Snyders-Mackler e coll., 1991; Tibone e Antich, 1988). Questo defi-cit di forza nell’arto leso è riscontrabile anche nel caso in cui il LCA nonsia stato trattato chirurgicamente (Elmquvist e coll., 1988). Tuttavia occor-re considerare come il deficit di forza presente nell’arto leso sia moltevolte imputabile, per lo meno in parte, alla sensazione algica riferita dalpaziente durante una contrazione muscolare massimale che ponga in ten-sione il neo legamento. Quest’eventualità è particolarmente ricorrentesoprattutto nel caso in cui il test dinamometrico sia effettuato in catenacinetica aperta (OKC): modalità durante la quale la translazione anterioredi tibia, che si verifica in tale modalità di esercitazione, può comportareun importante tensionamento del neo-legamento stesso (Colonna, 1997).Oltre ad un deficit di forza contrattile, l’arto leso dopo la ricostruzione delLCA, presenta normalmente una più o meno marcata ipotrofia a caricodel quadricipite femorale (Jarvinen e Kannus, 1987, St Clair Gibson e coll.,2000.) e soprattutto a carico del vasto mediale obliquo (Bisciotti e coll.,2001). La forza massimale mostra, sino a certi livelli, una forte correlazio-ne con la sezione traversa muscolare, ciò anche nel caso di ricostruzionedel LCA, e la successiva perdita di trofismo muscolare si mostra scarsa-mente correlata alla capacità contrattile del quadricipite femorale (Elmqu-vist e coll., 1988; Lorentzon e coll., 1989). Si potrebbe quindi ipotizzareche, una parte del deficit contrattile dell’arto leso sia imputabile sia ad uncambiamento della tipologia metabolica e/o meccanica della fibra musco-lare (Snyder-Mackler e coll. 1993) che ad un alterato pattern di attivazionedelle unità motorie, causato dal danneggiamento dei recettori sensorialidel LCA leso (Solomonow e coll., 1987; Solomonow e coll., 1987(2)). Oltreal decremento della forza massimale, un altro parametro riguardantesempre la contrattilità muscolare che potrebbe risultare alterato dopo unintervento ricostruttivo di LCA, è la resistenza muscolare, ossia la capacità

RICOSTRUZIONE DEL LCA

1 Introduzione

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L’IMAGING

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L’imaging, ossia la rappresentazione anatomica effettuata attraver-so differenti tecniche figurative, ha assunto, e sta assumendo, sem-

pre maggior importanza nell’ambito della diagnostica delle patologiemuscolo-scheletriche, soprattutto in campo sportivo. In special modo laTAC e la RMN, costituiscono, in quest’ambito, dei formidabili mezzi diapprofondimento diagnostico. Se quindi l’esame radiologico tradizionaleresta l’esame di elezione per ciò che riguarda i grandi traumatismi schele-trici, TAC, RM ed ecografia, rendendo possibile la valutazione dei tessutimuscolo-tendinei e legamentosi, hanno enormemente migliorato l’accura-tezza delle indagini diagnostiche. In questi capitolo descriveremo e mostre-remo alcuni esempi delle tecniche di imaging appena citate.