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DOMENICA 9 DICEMBRE 2007 D omenica La di Repubblica il fatto C’era una volta il Belgio ANDREA BONANNI la società La guerra gentile dei Gormiti spettacoli GINO CASTALDO e PAOLO CONTE cultura i sapori La cucina dalla A alla Z LICIA GRANELLO e CARLO PETRINI la memoria PAOLO RUMIZ GORIZIA N evica bagnato sull’ultima frontiera, sulle garitte da smantellare, le trincee del Carso e i bunker del Gran- de Freddo. L’inverno scende a raffiche dalle gole del- l’Isonzo e dal varco di Caporetto, spazza i duty free già chiusi e gli autoporti semideserti. La notte del 20 dicembre fi- nisce un mondo: l’Italia perde il suo ultimo confine di terra, quel- lo con la Slovenia, sezione meridionale nel grande allargamen- to a Est dell’Europa di Maastricht, fra Baltico e Adriatico. Il mu- ro del traffico commerciale è già stato sfondato tre anni fa, una notte di pioggia, a Capodanno, con concerti solenni e alzaban- diera. Ora cade il muro degli uomini, e sarà un’apertura epoca- le. La più importante per l’Italia, perché avverrà sull’ex Cortina di ferro e il fronte di due conflitti mondiali. Tutto cambia. Terre di nessuno escono dal letargo di sessant’anni, pezzi di Carso off limits ridiventano percorribili, vecchie strade tornano impor- tanti e spazi marginali si riscoprono al centro. La locanda El Be- pon del signor Carlo Brumat a Gorizia, per esempio, che ebbe la porta d’ingresso sigillata dalla Cortina di ferro, ora potrà final- mente aprirlo, quell’uscio sull’altro mondo, e fare affari. Lo stes- so per la sperduta trattoria di Botazzo, a due passi da Trieste, un posto da clandestini e romanzi di Le Carré, a un metro dalla sbar- ra, fra rocce a picco e sentieri nella foresta. (segue nelle pagine successive) ALESSANDRA LONGO TRIESTE È da almeno un paio di mesi che fra triestini, sloveni, go- riziani, amici da una vita, ci telefoniamo. Immanca- bilmente si finisce per parlare del confine, di quel con- fine che ha accompagnato la nostra infanzia, che ci ha insegnato a essere curiosi, rispettosi e aperti verso il mondo, quando l’Europa di oggi ancora non esisteva o, al contrario, ha prodotto, in altri, terribili arroccamenti, rancori, pregiudizi, raz- zismi. Parliamo entusiasti e increduli di quel confine che ora non c’è più, si sposta verso la Croazia e poi sparirà. Per una volta non posso parlare in terza persona, non sto rac- contando la storia di altri, ma la mia. Io, nata a Trieste, sul confi- ne. Solo dieci chilometri da casa, era già Jugoslavia. «Salite in macchina, si va in Jugo», diceva mia madre. Andavamo a com- prare la carne «dall’altra parte» perché era più buona, a far ben- zina perché costava meno. Ricordo i posti di blocco come dei luoghi sgradevoli, gente armata, raramente un sorriso. Dober- dan, dicevano loro. Buongiorno, dicevamo noi, senza mai me- scolare le nostre lingue. Ogni tanto facevano aprire il bagagliaio, a rivendicare un ruolo, un piccolo potere su chi passava. A volte erano nervosi gli italiani, a volte gli jugoslavi. Il clima cambiava spesso a causa di tensioni «in alto» di cui ovviamente eravamo ignari. (segue nelle pagine successive) Ultima Frontiera Due conflitti mondiali, poi la Guerra Fredda Ora tra Italia e Slovenia quella che fu la Cortina di ferro sparisce del tutto FOTO PAOLO SORIANI NELLO AJELLO CONCITA DE GREGORIO Il ritorno del Cavaliere Errante FRANCO CARDINI e MASSIMO NOVELLI Rca, nella bottega della musica Le Corbusier, viaggio in Italia Repubblica Nazionale

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DOMENICA 9DICEMBRE 2007

DomenicaLa

di Repubblica

il fatto

C’era una volta il BelgioANDREA BONANNI

la società

La guerra gentile dei Gormiti

spettacoli

GINO CASTALDO e PAOLO CONTE

cultura

i sapori

La cucina dalla A alla ZLICIA GRANELLO e CARLO PETRINI

la memoria

PAOLO RUMIZ

GORIZIA

N evica bagnato sull’ultima frontiera, sulle garitte dasmantellare, le trincee del Carso e i bunker del Gran-de Freddo. L’inverno scende a raffiche dalle gole del-l’Isonzo e dal varco di Caporetto, spazza i duty free

già chiusi e gli autoporti semideserti. La notte del 20 dicembre fi-nisce un mondo: l’Italia perde il suo ultimo confine di terra, quel-lo con la Slovenia, sezione meridionale nel grande allargamen-to a Est dell’Europa di Maastricht, fra Baltico e Adriatico. Il mu-ro del traffico commerciale è già stato sfondato tre anni fa, unanotte di pioggia, a Capodanno, con concerti solenni e alzaban-diera. Ora cade il muro degli uomini, e sarà un’apertura epoca-le. La più importante per l’Italia, perché avverrà sull’ex Cortinadi ferro e il fronte di due conflitti mondiali. Tutto cambia. Terredi nessuno escono dal letargo di sessant’anni, pezzi di Carso offlimits ridiventano percorribili, vecchie strade tornano impor-tanti e spazi marginali si riscoprono al centro. La locanda El Be-pon del signor Carlo Brumat a Gorizia, per esempio, che ebbe laporta d’ingresso sigillata dalla Cortina di ferro, ora potrà final-mente aprirlo, quell’uscio sull’altro mondo, e fare affari. Lo stes-so per la sperduta trattoria di Botazzo, a due passi da Trieste, unposto da clandestini e romanzi di Le Carré, a un metro dalla sbar-ra, fra rocce a picco e sentieri nella foresta.

(segue nelle pagine successive)

ALESSANDRA LONGO

TRIESTE

Èda almeno un paio di mesi che fra triestini, sloveni, go-riziani, amici da una vita, ci telefoniamo. Immanca-bilmente si finisce per parlare del confine, di quel con-fine che ha accompagnato la nostra infanzia, che ci ha

insegnato a essere curiosi, rispettosi e aperti verso il mondo,quando l’Europa di oggi ancora non esisteva o, al contrario, haprodotto, in altri, terribili arroccamenti, rancori, pregiudizi, raz-zismi. Parliamo entusiasti e increduli di quel confine che ora nonc’è più, si sposta verso la Croazia e poi sparirà.

Per una volta non posso parlare in terza persona, non sto rac-contando la storia di altri, ma la mia. Io, nata a Trieste, sul confi-ne. Solo dieci chilometri da casa, era già Jugoslavia. «Salite inmacchina, si va in Jugo», diceva mia madre. Andavamo a com-prare la carne «dall’altra parte» perché era più buona, a far ben-zina perché costava meno. Ricordo i posti di blocco come deiluoghi sgradevoli, gente armata, raramente un sorriso. Dober-dan, dicevano loro. Buongiorno, dicevamo noi, senza mai me-scolare le nostre lingue. Ogni tanto facevano aprire il bagagliaio,a rivendicare un ruolo, un piccolo potere su chi passava. A volteerano nervosi gli italiani, a volte gli jugoslavi. Il clima cambiavaspesso a causa di tensioni «in alto» di cui ovviamente eravamoignari.

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UltimaFrontiera

Due conflitti mondiali,poi la Guerra FreddaOra tra Italia e Sloveniaquella che fula Cortina di ferrosparisce del tutto

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NELLO AJELLO

CONCITA DE GREGORIO

Il ritorno del Cavaliere ErranteFRANCO CARDINI e MASSIMO NOVELLI

Rca, nella bottega della musica

Le Corbusier, viaggio in Italia

Repubblica Nazionale

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la copertina Dal 21 dicembre cade il confine tra Italia e SloveniaL’Europa si riprende un altro pezzo di se stessa rimastoin letargo. E noi riabbracciamo una storia perduta

28 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 9DICEMBRE 2007

La fine del Grande Freddo(segue dalla copertina)

Poco lontano, le vigne confi-narie di Santa Barbara, uncolle al limitare dell’Istria,hanno già dato vita a una“annessione” vegetale, sal-dandosi spontaneamente

con le viti dell’altra parte. A Gorizia la milizia slovena se n’è an-

data e nelle garitte non c’è più nessunoa controllare. E mentre sul lato italianole istituzioni sembrano subire gli even-ti, Lubiana ha già trasferito la macchinadei controlli verso la Croazia. «Ieri era-vamo un rudere jugo-comunista —sembrano dirti con fierezza gli sloveni— e oggi siamo i guardiani della NuovaEuropa». Lungo la Ferrovia Transalpina— dove la rete divisoria è stata tolta datempo — il confine di Gorizia s’è giàspostato dalla piazza al bar della stazio-ne, dieci metri più in là, e al posto dellapolizia hai una banconiera che tra uncaffè e l’altro ti dà un’occhiata ai docu-menti. Gli sloveni ordinano «pivo» (bir-re) dal lato est, gli italiani chiedono

«aperitivi» da ovest, e tra loro c’è appe-na lo spazio della macchina dell’espres-so.

Subito fuori, i vecchi binari asburgicibagnati di pioggia puntano dritti a Nordverso l’Isonzo e Vienna, sulla linea chealla vigilia della Prima guerra mondialefu costruita dall’Austria per ridare ossi-geno al porto di Trieste. Un capolavorodi ingegneria, con grandiosi tunnel eviadotti, e il ponte in pietra a una sola ar-cata più grande del mondo. «Narranoche il costruttore l’abbia collaudato te-nendosi la pistola alla tempia, ma eranoaltri tempi», sorride Alberto Puhali, chestudia ferrovie austro-ungariche dauna vita e alla Transalpina ha dedicatouna magnifica mostra a Gorizia. «Le fer-rovie imperiali ridiventano strategiche:è il passato che ritorna, il segno di unmondo che per secoli non fu mai divi-so».

Nadja Veluscek, slovena, si stringenel cappotto guardando il Monte Sabo-tino coperto di nubi. «È come se si fossechiusa una parentesi, come se qualcu-no dicesse: scusate, ci eravamo sbaglia-ti, il Novecento è cancellato dai libri, orasi torna a quando si poteva viaggiare fi-

no a Praga e Budapest senza passapor-to». Nadja ha passato una vita tra le dueGorizie: cinque, anche dieci passaggi algiorno. «Sono cinquant’anni che aspet-to che cada, e quando accadrà farò festagrande. Ma un’ombra di timore è resta-ta, alla vista della sbarra la mia macchi-na ha imparato a fermarsi da sola…».Anche Dario Stasi, goriziano “di qua”,ha aspettato una vita che il Muro cades-se, e per accelerare il disgelo s’è inven-tato una rivista bilingue; ma sa che il«salto a est» può inquietare qualcuno, e«la barriera delle memorie divise è de-stinata a rimanere a lungo».

La gente ha ben stampato in mentequel giorno di sessant’anni fa, quandola frontiera fu tracciata alla buona, «co-me una pisada de can». Giunse un ma-nipolo di allegri ufficiali angloamerica-ni che passarono con secchi di vernicebianca e pennelli tra le case, persino suicimiteri. Sembrava una cosa irreale, loscherzo di un buontempone, e invececalò come una mannaia sulla vita degliuomini, divenne muro reale, duro, fisi-co, che per anni si attraversò con paurae senso di colpa anche se non c’era nien-te da dichiarare. Era il segno della guer-

ra perduta che solo qui si trasformava inbarriera linguistica, politica e di siste-ma. L’Italia quasi non se ne accorse,perché la guerra pensava di averla vin-ta, e con gli Alleati preferiva festeggiareballando il boogie-woogie.

Qualcuno mangiò subito la foglia, co-me la contessa Liduvska Hornik, la cuilussuosa residenza stava per finire «dilà». Amica di Churchill, proprietaria dienormi tenute in Africa, piombò comeun falchetto tra i militari alleati e diedefeste indimenticabili nella sua villa sul-l’Isonzo a Salcano. Risultato: in quell’u-nico punto la linea retta del confine sispezzò per contornare i muraglioni del-l’augusta residenza. «Se guardi la carta,lì il confine sembra un pitone che ha in-goiato un topo intero», ride Roberto Co-vaz, autore di una ricca antologia di rac-conti frontalieri, freschi di stampa, daltitolo Niente da dichiarare.

Ma per i più i giochi erano fatti. Moltifinirono «di qua» avendo i parenti «dilà». Il fisico Carlo Rubbia rimase in Ita-lia per pochi metri, e forse non sarebbediventato Nobel se fosse cresciuto sottoil regime. A qualcuno capitò di finire in-trappolato nella “No man’s land”, come

gli abitanti di Breg sul Collio dei grandivigneti, che fino al 1974 ricevettero lachiamata al servizio militare sia da Ro-ma sia da Belgrado. O lo sloveno AntonFurlan, che a Gorizia si ritrovò con la ca-sa tra le due sbarre di confine, e per ses-sant’anni, ogni volta che doveva venire«di qua», era costretto a tornare «di là»per avere dalla sua polizia il diritto diespatriare. Un viaggio alla Kafka, che siripeteva in senso inverso a ogni rientro.

Più tardi le cose cambiarono e la fron-tiera divenne la più aperta di tutto l’Est,l’unico varco nella Cortina. Ma ora Na-tale manda tutto in archivio, anche il di-sgelo: la pacchia del commercio deijeans venduti a montagne all’Est, il pic-colo contrabbando, i sentieri dei “pas-seur”, i clandestini aggrappati alla retedi Gorizia, l’abbaiare dei cani antidroga,il «niente da dichiarare». Senza la divi-sione, che gusto ci avranno i bracconie-ri friulani della Val Resia a sparare ai ca-mosci dell’altra parte? Dove va a finirequell’impagabile fregola da espatrioche invadeva gli italiani ansiosi di farsispennare dai biscazzieri d’oltre frontie-ra? Come si nasconderanno i distillatoriabusivi del Natisone, quando le loro val-

PAOLO RUMIZ

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(segue dalla copertina)

La sbarra si alzava, i miei occhi di bambina rubavano scorci di campagna mera-vigliosa, nel segno della continuità di profumi e odori. Ovviamente non capivoperché bisognava avere il lasciapassare per andare in un posto distante pochi

minuti da casa mia. E mi sembrava impossibile quando mi raccontavano che qual-cuno dai boschi italiani aveva sconfinato e «gli sc’iavi» avevano risposto col mitra. Ilnonno, nato sotto l’Impero, madrelingua tedesca, mi portava a prendere le paste aCapodistria. Lo strudel era lo stesso, quello di Trieste, quello di Vienna.

Sono cresciuta così, «sconfinante», e ho sempre pensato che sia stato un arricchi-mento, un regalo, un valore aggiunto. Ho avuto la fortuna di non pagare prezzi per-sonali. Il nonno acquisito, ebreo, era scampato ad Auschwitz e alla Risiera. Nessunodei miei ha lasciato la casa dall’altra parte, né ha conosciuto da vicino il dramma del-le foibe. Però tutti questi orrori li ho respirati nell’aria e ho detestato chiunque abbiacavalcato politicamente le paure e la memoria difficile di questi luoghi.

Ormai da anni, quel confine non è più un muro. Si entra e si esce con lievità. È la«vendetta della storia», come avrebbe detto il sociologo Darko Bratina. Perché i mu-ri non resistono, prima o poi cadono e il quadro si ricompone. Nel 2004, alla stazio-ne Transalpina di Gorizia, il primo passo, con la libera circolazione delle merci. Maquesta volta è diverso, è definitivo. Questa volta sparisce il confine con la Slovenia,già Jugoslavia. Un confine che è stato duro, che ha segnato le persone, da una partee dall’altra. Io e i miei amici sentiamo di essere improvvisamente e piacevolmentedatati. Chi nasce adesso questa storia la leggerà sui libri.

La festa d’addio sarà il 21 dicembre al valico triestino di Rabuiese. Confesso che ioho fatto già una cerimonia tutta mia. Sono andata di notte al valico di San Gabriele, aGorizia, quello che ha diviso per sessant’anni due quartieri della città. Non c’era nes-suno. Ho alzato da sola le sbarre e sono passata in Slovenia. Poi ho fatto il percorsoinverso. Come in un gioco, ero di nuovo in Italia. Io, nata sul confine, ho provato unasensazione di stordimento, di emozione. Che bello, è finita, ho pensato.

“Addio Novecento”la festa degli Sconfinanti

ALESSANDRA LONGO

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 29DOMENICA 9DICEMBRE 2007

li non saranno più a fondo cieco? E, so-prattutto, cosa faranno i partiti che han-no costruito sullo scontro etnico la lororendita elettorale?

Crolla una politica, un immaginario,persino un folclore. «Alza la gamba Mà-riza, mòstrime la propùsniza, se la xetimbrada màndila, … a Nova Gòriza»,cantano i cabarettisti Boris Kobal eMaurizio Soldà alludendo “sessual-mente” al lasciapassare per frontalieri— la mitica “propusnica”, ultimo em-blema del confine facile — sul quale ve-nivano segnate le quantità di carne e si-garette comprate «dall’altra parte». Unloro concerto il 21, al Palasport di NovaGorica, celebrerà la fine di tutto, e i po-sti sono già prenotati da mesi.

Dura liberarsi del Secolo Breve. Per-ché è questo che finisce, il 20 dicembre,diciotto anni dopo la caduta del Muro diBerlino. Il vecchio centenario tira lecuoia, lasciando un’eredità di disastri:la cacciata degli istro-veneti dalle terredi Tito, le armerie clandestine di “Gla-dio”, i Centomila di Redipuglia e i cimi-teri austro-ungarici, le foibe e le violen-ze fasciste. Tutto lì, in pochi chilometri:incluse le sparatorie sulla frontiera con

l’Italia, dove sedici anni fa iniziò — da-vanti alle telecamere di tutto il mondo— il crollo della Jugoslavia. «MacchéFronte occidentale, qui c’è molto dipiù», dice lo storico Roberto Spazzali.«Una massa di eventi come dieci sbar-chi in Normandia, concentrato in unospazio infinitamente minore».

Carso fra Redipuglia e il Castello diDuino, bora e nevischio. Tra il mare e lafrontiera cinque chilometri appena.«Qui i nemici della Grande Guerra era-no così vicini — spiega l’esploratore ditrincee Alberto Todero — che gli italianipotevano capire che minestrone bollis-se nelle cucine austriache». Proprio quile memorie del secolo si compattano nelmodo più impressionante. Dietro la do-lina dei Bersaglieri, sullo sterrato per Ja-miano dove il confine e il fronte quasicoincidono, dormono, affogati nel ce-mento, i bunker d’acciaio costruiti neglianni Cinquanta contro un possibile at-tacco comunista. Oggi la linea di con-fronto è diventata etnica: così la rileggo-no anche gli sloveni, che di fronte a Re-dipuglia hanno appena sbattuto un mo-numento ai Caduti, una torre che rileg-ge Caporetto come vittoria mitteleuro-

pea, e la Grande Guerra come alba dellacoscienza nazionale.

Ultima frontiera: luoghi pieni di sto-rie, vite come romanzi. Il Castello di SanSergio, alto sul golfo di Trieste, dove Ti-to si affacciò con Nikita Kruscev per mo-strare quella che doveva diventare laSettima repubblica jugoslava. Borst-Sant’Antonio, un paesino del Carso do-ve negli anni Ottanta furono trovati i pri-mi clandestini morti (di freddo), e l’e-vento fu così sensazionale per quei tem-pi che i quattro (erano africani) vennerosepolti lì e tutto il paese prese parte al fu-nerale con corone di fiori. Il rudere delcampo per profughi istriani a Padricia-no, cupo come una caserma, recintatocome i Cpt di oggi, i malfamati centri dipermanenza per stranieri illegali. «Quinella vita di chiunque c’è tutto il Nove-cento», dice Moreno Miorelli, un trenti-no che ha costruito quindici anni dieventi per ricucire memorie divise.

Castello di Gorizia, prime luci che siaccendono nel tramonto verso le mon-tagne e gran vista sulla topografia dellaseparazione. Si domina tutto, come daun aereo in atterraggio. Di qua una testasenza corpo, una città rubata alle sue

valli dopo mille anni di simbiosi assolu-ta. Di là il corpo rimasto senza testa: i vil-laggi, le foreste e i fiumi che — privati delloro mercato — dovettero inventarsi unpolo alternativo, Nova Gorica, città-modello del comunismo, costruita dalnulla in mezzo alla campagna. In mez-zo, la linea d’ombra, con altre storie. Ilpiccolo aeroporto dove nel ‘52 arrivò ungiovane senatore del Massachusetts dinome John Kennedy per vedere il Muro.Merna, tagliata fuori dal suo cimitero,dove potevi entrare solo due volte l’an-no, e poiché quelle erano le uniche oc-casioni per sapere cosa succedeva «dilà», davanti ai cari estinti era tutta una“ciàcola” di comari.

A Gorizia la storia dell’ultimo Murocoincide con gli sforzi per superarlo.Cominciò nell’agosto del ‘50, quandoseimila jugoslavi, inferociti per la para-lisi del mercato socialista, sfondaronole sbarre per comprare in Italia. Torna-rono a casa brandendo scope, così tan-te che quella rimase per sempre «la do-menica delle scope», primo scricchioliodell’intera Cortina di ferro. Erano tem-pi da Ragazzi della via Pàl, e per i più pic-coli la prova d’ardimento era ricupera-

re il pallone caduto «dall’altra parte»senza farsi beccare dai soldati. Ma i sol-dati chiudevano un occhio, o calciava-no oltre la sfera pur di avere un contat-to con l’Altro. E che dire dell’ospedalepsichiatrico italiano, che ha il muro sul-la frontiera: i matti preferivano scappa-re in “Jugo” piuttosto che farsi prende-re dai “normali” in patria, e in quella vo-glia di darsi alla macchia si innestò ilgerme della rivoluzione che liberò i re-clusi nei manicomi d’Italia. Fu giustocosì: poiché gli adulti erano “impazzi-ti”, la frontiera fu sfondata da matti ebambini.

«Qualcuno fece di necessità virtù»,mi dicono alla trattoria Zovica dal buonprofumo di zuppa di rape, e mostranooltre la pioggia l’Isonzo che spumeggiafuori dalle gole, accanto al centro dei ca-noisti sloveni. Poiché dopo il ‘47 non sipoteva più navigare «in giù», verso ilmare, agli sportivi «di là» non restò cheandare «in su». «Fecero tali muscoli —racconta l’oste, un tipo gigantesco co-me un Golem — che nel ‘59 due ragazzidi qua, Tone Prijon e Pavle Bone, vinse-ro il primo e il secondo posto al mon-diale di Kayak. Non è straordinario?».

IL LIBRO E LA MOSTRA

Le immagini di queste pagine e quella della copertina sono tratte dal libroL’Assenza dei Confini, l’Essenza dei Confini, testi di Stefania Seghetti,foto di Paolo Soriani, Dueffe Edizioni, 2007 ( www.assenzadeiconfini.com)È anche in corso una mostra (a cura di Simona Brunetti) delle stesse fotografienella sede della Società Geografica Italiana a Palazzetto Matteipresso Villa Celimontana, Roma, che si chiuderà il 15 dicembreNella foto di copertina la targa commemorativa dell’entrata della Slovenianella Ue in piazza Transalpina a Gorizia. Nelle foto di queste pagine, da sinistrain alto in senso orario: stazione ferroviaria di Gorizia dal lato iltaliano;piazza Transalpina vista dalla stazione slovena; vecchio cippo di confine fra Italiae Austria a Pontebba; valico pedonale San Gabriele tra Italia e Slovenia; confineItalia-Austria di Prato alla Drava; “Ristorante al Confine” di Prato alla Drava;valico di passaggio agricolo Salcano II tra Italia e Slovenia

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il fattoVuoti di potere

Domani Bruxelles raggiungerà un nuovo primato: sei mesi dopole elezioni politiche, il Paese è ancora senza governo. Anche se solol’estrema destra fiamminga parla apertamente di secessione,la possibilità che questo Stato binazionale nel cuore dell’Europasi sciolga è reale. Ma ci sono buoni motivi perché ciò non accada...

30 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 9DICEMBRE 2007

BRUXELLES

A ppese ai davanzali dellefinestre, drappeggiatesui parapetti dei balconi,pavesate sui cancelli, in-

filate su aste di fortuna, le bandiere ne-ro-giallo-rosse del Belgio si infradicia-no e scolorano nella pioggerellabruxellese che non dà tregua. Le aveva-no esposte il 18 novembre, giorno del-la «grande manifestazione» per l’unitànazionale. Alla manifestazione venne-ro trentamila persone, tutti i politicifrancofoni e neppure un politico fiam-mingo. Un disastro. Da allora i tricolo-ri sono rimasti lì, afflosciati sulle paretidi condomini e villette, un po’ come lenostre bandiere della pace contro laguerra in Iraq: ricordo di una speranzavana quanto ostinata.

Ma poiché questa è la terra dei para-dossi, succede che le bandiere finisco-no per marcare e rendere visibile pro-prio quel confine che avrebbero volutonegare: la linea di demarcazione travalloni e fiamminghi che diventa ognigiorno più profonda e più netta. Se aBruxelles, soprattutto nei quartieri re-sidenziali della piccola e media bor-ghesia, le case impavesate e quelle sen-za bandiera si alternano, basta lasciare

la capitale per notare che l’esposizionedei colori nazionali si ferma al limitaredei sobborghi fiamminghi della capita-le. Grimbergen, Vilvoorde, Strombeek,Elewijt: non una sola bandiera. Perfinoa Laeken, dove pure sorge la reggia diAlberto II, i vessilli esposti sono soloquelli degli edifici pubblici.

Domani, 10 dicembre, il Belgio stabi-lirà un nuovo primato: sei mesi dopo leelezioni politiche che hanno segnatoun netto successo dei democristiani, ilPaese è ancora senza un governo. YvesLeterme, il leader dei dc fiamminghitrionfatore alle urne con ottocentomi-la preferenze personali, per due volteha ricevuto dal re l’incarico di formareuna coalizione e per due volte ha dovu-to gettare la spugna. Democristiani e li-berali fiamminghi non riescono a met-tersi d’accordo con i loro compagni dipartito francofoni sul programma digoverno. Il pomo della discordia è unanuova riforma dello Stato federale chedovrebbe dare ancora più autonomiaalle Fiandre, soprattutto in campo eco-nomico. I fiamminghi la consideranoindispensabile. I valloni non ne voglio-no sentire parlare. Il fatto che Leterme,a lungo presidente delle Fiandre, primadi ricevere l’incarico avesse definito ilBelgio «un accidente della storia» e sifosse perfino sbagliato ad intonare laBrabançonne, l’inno nazionale,

confondendolo con la Marsigliese, nonha certo contribuito a rasserenare glianimi dei francofoni circa le sue realiintenzioni.

Così Guy Verhofstadt, il liberale cheha guidato il Belgio dal 1999 e che, puravendo perso le elezioni, è rimasto incarica da giugno per gli affari correnti,ora si è visto affidare da Alberto II il com-pito di cercare una via di uscita alla cri-si. E c’è già chi ipotizza che potrebbe re-stare alla guida di un governo di mino-ranza fino al 2009, mentre i politici del-le due comunità discuteranno in una“Convenzione” le modalità di una nuo-va riforma federale. Verosimilmentesenza riuscire a trovare un accordo.

Ma questo, naturalmente, è lo scena-rio più ottimista. Il rischio che il Belgiofinisca davvero per scegliere la via del-lo scioglimento è reale. I fiamminghi,che sono il sessanta per cento della po-polazione in un Paese di poco più didieci milioni di abitanti, sono stanchi di«pagare il conto» per una Vallonia chenon si è mai ripresa davvero dalla crisidella siderurgia europea e che registraun tasso di disoccupazione tre volte su-periore a quello delle Fiandre. Il costodei trasferimenti di denaro pubblicodal nord al sud del Paese varia, natural-mente, se a calcolarlo sono economistifiamminghi o valloni, ma si colloca co-munque tra i cinque e i dieci miliardi di

euro all’anno: una cifra enorme in rap-porto alla popolazione.

Gli imprenditori fiamminghi, in par-ticolare le piccole e medie imprese chesono proliferate negli ultimi due de-cenni e che costituiscono il motoreeconomico della regione, sentono pe-santemente la concorrenza dei viciniolandesi e tedeschi e accusano «la cul-tura politica e sindacale dei valloni»che, secondo loro, rallenta la corsa aduna maggiore competitività.

Per la verità, a parte l’estrema destradel “Vlaams Belang” che peraltro haraccolto quasi il venticinque per centodei voti nelle Fiandre, nessuno invocaapertamente la secessione. Però i fiam-minghi non vogliono più continuare asubire il «freno» economico dei valloni.E i valloni, dopo due riforme che hannotrasformato il Belgio in uno Stato fede-rale, si sentono perseguitati e non in-tendono più cedere alle richieste di au-tonomia dei loro ingombranti vicini.

In effetti l’intransigenza dei fiam-minghi, popolo celebre per la scarsaflessibilità, ha negli ultimi tempi assun-to connotazioni vessatorie. Comequando le Fiandre hanno rifiutato diconvalidare l’elezione di quattro sin-daci in piccoli comuni attorno a Bruxel-les perché avevano inviato ai loro am-ministrati francofoni documenti scrit-ti in francese invece che in fiammingo.

O come quando, poche settimane fa, ilParlamento federale ha varato, con lasola maggioranza dei deputati fiam-minghi, una legge che di fatto impedi-rebbe a centoventimila francofoni resi-denti nella circoscrizione elettorale diVilvoorde di votare per i partiti del lorostesso gruppo linguistico.

Quest’ultimo episodio è consideratoparticolarmente grave perché costitui-sce la prima violazione di quel «pattodel consenso» in base al quale una co-munità non può approfittare della pro-pria superiorità numerica per deciderecontro il volere dell’altra. Ed è su questaintesa, non scritta ma sempre rigorosa-mente rispettata, che si era finora basa-ta la convivenza dei due gruppi. Secon-do il quarantatré per cento dei valloni,questa «rottura del patto democratico»segna l’inizio della fine dello Stato uni-tario. Una prospettiva che, secondo ilsessantatré per cento dei fiamminghi,appare comunque inevitabile, almenoa lungo termine.

«Il processo di disintegrazione è sor-prendente, ma non sarebbe un proble-ma se il Paese esplodesse», ha dichiara-to qualche settimana fa il capogruppodei verdi al Parlamento europeo, Da-niel Cohn-Bendit, «in ogni caso il pesodel Belgio in Europa è pari a zero».

È vero che, nonostante una situazio-ne che si fa sempre più surreale e sem-

C’era una volta il BelgioANDREA BONANNI

‘‘CaseAttraversaronoNeeroeteren, nient’altroche un paesino sulle rivedel canale, un tipicovillaggio fiammingocon le case basse e scuree le strade lastricate

Georges Simenon,La casa sul canale (Adelphi, 2005)

‘‘PioppiOvunque la campagnaera piatta e, a eccezionedi qualche bosco di abeti,era sempre e soloun albero, il pioppo,a dividere con i suoi filariil paesaggio in rettangoli

Georges SimenonLa casa sul canale (Adelphi, 2005)

PER UNA RISCOSSA LAICAventi saggi di libero pensiero

un numero speciale

fuori abbonamento

240 pagine, 14 euro

* * *

Il saggio di apertura di

Paolo Flores d’Arcais

LE TENTAZIONIDELLA FEDE

(undici tesi contro Habermas)

è stato anticipato in traduzione

tedesca dal settimanale

con una replica

dello stesso Habermas,

pubblicata in italiano

da Repubblica

DANIEL DENNETT

FERNANDO SAVATER

THOMAS NAGEL

DAN SPERBER

SAM HARRIS

AVISHAI MARGALIT

NOGA ARIKHA

MARCEL GAUCHET

MARK LILLA

* * *

PIERFRANCO PELLIZZETTI

MARCO REVELLI

ROBERTA DE MONTICELLI

TELMO PIEVANI

EUGENIO LECALDANO

MARIA BONAFEDE

ALESSANDRO DAL LAGO

LINA PAVANELLI

GIAN ENRICO RUSCONI

EMILIO CARNEVALI

CARLO AUGUSTO VIANO

GLORIA ORIGGI …

Contro la tortura di Chiesa

e di Stato, il diritto

sulla propria vita

La politica di Dio e

l’esplodere dei terrorismi

Le basi materiali

della laicità

L’impostura contro la verità

e la teologia contro

la scienza

Il matrimonio come

patto civile e il matrimonio

come peccato

Chi ha paura dell’ateismo?

La fiction in mano alla Cei

e la Tv confessionale

Contro la deriva clericale

della scuola

La manipolazione

agiografica e devozionale

della storia

L’eutanasia di Papa Wojtyla

che la Chiesa vuole

nascondere

Repubblica Nazionale

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pre più preoccupante, nessuno sem-bra veramente inquietarsi per l’ipotesidi disgregazione di uno Stato che si tro-va nel cuore dell’Europa e ne ospita leprincipali istituzioni. Per molti osser-vatori il processo si inserisce in una piùgenerale tendenza al regionalismo e al-la fine degli Stati nazionali che sarebbela naturale conseguenza dell’integra-zione europea. Il professor Josep Colo-mer ha addirittura teorizzato il feno-meno in un libro, Great empires, smallnations, secondo cui, tendenzialmen-te, «l’impero europeo» dovrebbe por-tare alla progressiva disgregazione deigrandi Stati nazionali in favore di realtàpiù piccole ed omogenee, come leFiandre, la Scozia, la Baviera, il Galles,la Catalogna e via elencando.

È anche vero che, se non fosse cosìprofondamente integrato in Europa, ese non facesse parte dell’area euro, ilBelgio non potrebbe permettersi seimesi di vacanza del potere politico. Seesistesse ancora il franco belga, peresempio, ora i tassi di interesse sareb-bero alle stelle e la valuta si troverebbeoggetto di ogni tipo di attacco specula-tivo. Lo stesso presidente della Bancacentrale belga, Guy Quaden, riconosceche «l’euro protegge le imprese, i ri-sparmi e l’insieme della popolazioneda certe turbolenze politiche». E tutta-via avverte: «Non si può rinviare troppo

a lungo la formazione di un governodotato di pieni poteri. È quello che vuo-le la gente, ed è quello che mi chiedonoi rappresentanti degli imprenditori edei sindacati al consiglio direttivo dellabanca».

Il costo del non governo comincia afarsi sentire. I pompieri lamentano lamancanza di mezzi per i servizi di ur-genza. I fondi erano stati votati dal Par-lamento in maggio ma il governo nonha il potere di firmare i decreti di attua-zione. La polizia manca di cinquecentoagenti rispetto all’organico previsto,cosa che per un Paese grande quanto laLombardia non è poco. E i sindacatihanno convocato per il 15 dicembreuna manifestazione unitaria (fiam-minghi e valloni) in difesa del welfarefederale.

I giornali belgi, soprattutto quellifrancofoni, sono pieni di riferimenti al“divorzio di velluto” che nel 1993 portòalla separazione indolore di cechi e slo-vacchi. Ma, come osserva il settimana-le Le Vif, se si arrivasse alla separazionele cose in Belgio non sarebbero altret-tanto tranquille. Per due motivi: Il pri-mo è che nel ‘93 la Cecoslovacchia eraun Paese appena uscito dal regime co-munista e non aveva praticamente de-bito pubblico, mentre il Belgio ha tut-tora il più alto debito pubblico in rap-porto al Pil dopo l’Italia: la divisione de-

gli oneri tra fiamminghi e valloni po-trebbe rivelarsi estremamente com-plessa e certamente non consensuale.

Il secondo e più serio motivo è che laseparazione territoriale tra cechi e slo-vacchi corrispondeva sostanzialmenteai confini geografici delle due regioni.In Belgio, invece, il problema di Bruxel-les si rivelerebbe praticamente insolu-bile. Geograficamente Bruxelles è inmezzo alle Fiandre, che ne hanno fattola propria «capitale irrinunciabile» e vihanno insediato il parlamento regio-nale. E tuttavia la città, che oggi gode diautonomia amministrativa ed è l’unicaprovincia del Belgio ad avere un regimedi bilinguismo, risulta all’ottantacin-que per cento popolata da francofoni,che non accetterebbero mai di essereseparati dalla Vallonia.

La questione di Bruxelles e quella deldebito pubblico, insieme con il proble-ma della casa regnante che è simbolodell’unità del Belgio, sono oggi i princi-pali ostacoli ad uno smembramento delPaese. Ma un motivo certo meno con-creto, più sottile e però probabilmentealtrettanto influente nel convincerefiamminghi e valloni a restare uniti no-nostante le differenze, risiede nella spe-cificità non detta della loro identità na-zionale. Che si è alimentata nel corsodegli anni della supponenza, per nondire del malcelato disprezzo, con cui

questo piccolo regno è stato guardatodai suoi potenti ed arroganti vicini.

Non è un caso se, sia in Francia sia inOlanda, il belga risulta la vittima delleinesauribili barzellette sulla stupiditàumana. Né è un caso che entrambi iPaesi abbiano cercato di appropriarsidei grandi artisti che il Belgio ha dato al-l’umanità: da Simenon alla Yourcenar,da Jacques Brel a Magritte, a Delvaux,van Eyck, van der Weyden, Bruegel. Enon è un caso che, stando a due recen-ti sondaggi, intervistati sull’ipotesi diannettere la Vallonia alla Francia e leFiandre all’Olanda, il quarantuno percento dei francesi e il quarantanove percento degli olandesi si siano detti fer-mamente contrari.

Per quanto poco si amino, fiammin-ghi e valloni sanno che i loro vicini liamano ancora meno. La loro conviven-za, che ormai dura da 177 anni, ha con-sentito a questi due popoli di trovareinsieme una dignità che probabilmen-te non avrebbero potuto ottenere né dasoli né fondendosi con gli Stati confi-nanti. Come succede a certe vecchiecoppie litigiose, il vero cemento che letiene insieme va cercato in ragioni chenessuno dei due litiganti è, probabil-mente, disposto a riconoscere neppu-re di fronte a se stesso. Ma, proprio perquesto, alla fine si rivela un cemento in-distruttibile.

54 A.C.Come narra nel De bello gallico,Giulio Cesare sconfiggeun popolo chiamato «belga»,che definisce «il più valorosotra quelli delle Gallie»

*

1830I moti rivoluzionari portanoalla creazione di uno Statoindipendente. La maggioranzadella popolazione, di linguafiamminga, viene discriminata

*

1885Al Congresso di Berlinore Leopoldo ottiene il Congo,enorme e ricchissima coloniaafricana cui i belgi infliggerannoinaudite crudeltà

*

2007Le elezioni politiche di giugno,vinte dai partiti fiamminghi,danno luogo a una crisiistituzionale senza precedenti:il Paese è ancora senza governo

*

la storia

‘‘CanaliUna gran quantitàdi lucciole vagavasul mare, e in certi puntive n’era un’intera fila:erano i pescherecciche uscivano dal canaledi Ostenda

‘‘DialettiSi avvertiva una gustosacacofonia fatta di gridain dialetto vallone,dello scampanellaredei tram rossie del quadruplice zampillo

di una fontana

Georges SimenonL’impiccato di Saint-Pholien (Adelphi, 1993)

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 31DOMENICA 9DICEMBRE 2007

Georges SimenonIl borgomastro di Furnes (Adelphi, 1994)

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Repubblica Nazionale

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Nel corso della sua vita il più grande architetto del Novecento visitòquattro volte il nostro Paese. L’occasione più importante fu quelladel 1934, quando, già affermato e famoso, scese a Roma cercandocontatti, finanziamenti, commesse. La scoperta del suo taccuinodi viaggio rivela per la prima volta i pensieri romani del padredel Moderno e lo schizzo di un edificio che non vedrà mai la luce

la memoriaOspiti illustri

IL CONVEGNO

Si svolgerà a Roma dal 13 al 15dicembre il Quindicesimo convegno

internazionale della FondazioneLe Corbusier, intitolato L’Italia

di Le Corbusier: 1907-1965,a cura di Marida Talamona,

in collaborazione con la Casadell'Architettura di Romae l'Università degli StudiRoma Tre - Dipsa e con

il contributo dell'Accademiadi San Luca e la direzione

di Villa Adriana a Tivoli

32 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 9DICEMBRE 2007

IL PROGETTOQui sopra, lo schizzo del ’34 per un edificioin via dei Fori a Roma, che Le Corbusierriprodurrà l’anno successivo nel suo libroAircraft (a destra). Documenti ineditie fotografie di queste paginesi pubblicano per gentile concessionedella Fondation Le Corbusier/Siae

Repubblica Nazionale

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Talamona, curatrice del convegno romano e docente di sto-ria dell’Architettura a Roma Tre. Ne darà conto in un inter-vento al convegno, appunto (di quel carnet si offre un assag-gio in questa pagina).

Nomi, cognomi, schizzi di edifici. Giudizi fulminanti. Rag-guagli d’ambiente. Figurano in questo journal gli amici vec-chi e nuovi dell’ospite illustre: Pirandello, Bontempelli con lasua giovanissima compagna Paola Masino, Fiorini, Libero DeLibero, Bardi, il pittore Corrado Cagli. Sfilano gli industrialiche egli ha voluto incontrare — Olivetti, Agnelli, Volpi di Mi-surata — e sui quali conta per appoggi finanziari in vista di fu-turi progetti costruttivi, per esempio l’Expo parigina del ‘37.Seguono cenni al modo di passare svagatamente le serate.

Quella Roma in cui, atteso o temuto, piomba il grande ar-chitetto è teatro di polemiche pubbliche, che però lo riguar-dano da vicino. Ci si divide, in politica, sul peso e il significatoda dare all’architettura moderna. I fautori del “nuovo” — Bot-tai, Bontempelli, Filippo Tommaso Marinetti, Enrico Pram-polini, Luigi Figini, Gino Pollini, Luigi Piccinato, Giovanni Mi-chelucci e il gruppo Banfi, Belgioioso, Peressutti e Rogers —sono avversati dai tradizionalisti, di nome oscuro ma risolutinel considerare i fautori del “razionalismo” una schiera di in-vasori esterofili. In una zona di mezzo si collocano alcuni no-tabili illustri, del livello, ad esempio, d’un Piacentini.

La presenza di “Corbu” a Roma s’inscrive in questa batta-glia. Alla vigilia del suo arrivo, il 26 maggio, c’era stata alla Ca-mera una rumorosa sollevazione contro l’architettura mo-derna, identificata con Sabaudia e con la nuova stazione di Fi-renze, in costruzione. I tradizionalisti hanno gridato alloscandalo, ma il 10 giugno Mussolini s’è pronunziato a favoredei giovani “razionalisti” e li ha ricevuti a palazzo Venezia. Co-sì a maggior ragione, per l’ospite, l’esigenza primaria diventauna sola: farsi ricevere dal Duce. Ma non ci riesce (e lo rac-conta nella lettera alla madre riprodotta in questa pagina).Forse, per Mussolini, concedere udienza a una grande firmadell’architettura straniera significa esporsi troppo.

Non gli mancano, comunque, i pretesti per indugiare. Il 14giugno arriverà in Italia, ed è la prima volta, Adolf Hitler. Il 15ci sarà una solenne manifestazione a Venezia. Giovedì 20 giu-gno, l’amico Bardi comunica a Le Corbusier che il Duce po-

trebbe incontrarlo fra il 27 e il 29. Ma lui deci-de di ripartire. L’aver atteso l’udienza per di-ciassette giorni è troppo per il suo orgoglio.Di carattere brusco ed egocentrico, com’è,pensa che si sia abusato della sua pazienza.

È stata un’occasione perduta? Si può ri-spondere di sì. Uno degli obiettivi cui ilmaestro mirava era Pontinia, la terza cittàfascista da edificare nel basso Lazio dopoLatina e Sabaudia. Ma resta un miraggioincompiuto. E rimane appena schizzata,nel carnet, l’area in cui dovrebbe sorgereil Palazzo del Littorio, al cui progetto con-corrono molti architetti italiani. L’edifi-cio che Le Corbusier immagina, per pu-ro estro personale, ha uno scheletro diacciaio e vetro. Non sarà mai realizzato.

Né mai vedrà la luce la costruzione diquell’ospedale di Venezia, a San Giob-be, il cui progetto verrà affidato a LeCorbusier assai più tardi e che, dopoaverne visto soltanto un plastico pre-paratorio, Bruno Zevi giudicheràun’opera «grandiosa», forse la «piùsemplice ed eloquente» del maestro. Ilprogetto di massima viene presenta-to a Venezia nell’aprile del 1965. Il 27

agosto Le Corbusier annega, per infarto, nel ma-re di Cap Martin in Costa Azzurra, dove ha trascorso l’estatein un cabanondi legno che s’è costruito sulla roccia. «È mor-to in un capanno solitario», così lo commemora André Mal-raux, «l’uomo che aveva concepito delle capitali».

«Sua Eccellenza il Capo del Governo»,informa una nota ufficiale in data 15 gen-naio 1934, «si è compiaciuto di dare il pro-prio assenso perché abbia luogo in Italiail progettato corso di conferenze sullenuove forme dell’Architettura moder-

na» ad opera del «noto architetto francese Le Corbusier». Diquesto soggiorno romano dell’artista, che avrebbe poi avutoluogo nel giugno del ‘34, si parlerà dal 13 al 15 dicembre, a Ro-ma, in un convegno intitolato L’Italia di Le Corbusier: 1907-1965, a cura di Marida Talamona.

Ma ricostruiamo quel viaggio di settantatré anni fa. All’in-teressato, il quarantasettenne Charles-Edouard Jeanneret,Le Corbusier appunto, che la aspettava a Parigi, la notizia fucomunicata per lettera da un suo amico italiano, l’ingegnerGuido Fiorini, con molta esultanza: «Victoire! Victoire!».

Di una vittoria, infatti, si trattava. Da due anni il maestrodell’architettura moderna si adoperava per ottenere il bene-stare alla sua visita nella capitale italiana. La richiesta avevaappena fatto in tempo ad arrivare a Roma, che intorno ad es-sa s’erano aggrovigliati pareri discordi. Lo scontro, dopo avercoinvolto i sindacati dei Professionisti e degli Artisti, finì perinvestire vari ministeri: Esteri, Corporazioni, Interni. Fra leobiezioni al viaggio ne spiccava una: il «proponente» era«straniero» e, forse, «comunista» (diceria, quest’ultima, erro-nea). Non restava dunque che appellarsi al Duce, come perun affare di Stato. A rimuovere l’iniziale veto di Mussolini in-tervennero mediazioni significative. Per impulso di PietroMaria Bardi, attivo difensore dell’architettura “razionalista”,si mossero in favore del viaggio Giuseppe Bottai e l’accade-mico d’Italia Massimo Bontempelli, direttore, insieme conBardi, della rivista Quadrante. Essi si fecero garanti della cor-rettezza politica di Le Corbusier e riuscirono ad attenuare leriserve del Duce sui problemi interni che poteva suscitarel’arrivo a Roma di un personaggio-simbolo dell’urbanisticamoderna. L’assenso finale del dittatore mitigò la contesa.

In Italia, “Corbu” era stato già tre volte. A vent’anni, nel1907, aveva visitato Firenze, Lucca, Siena, Pisa, Ravenna; in-fine Venezia, che lo abbagliò: «Je prends Venise à témoin»,avrebbe spesso ripetuto. Nel 1911, in un viaggio alla scopertadel Mediterraneo era riapprodato a Roma: Massenzio e ilPantheon, il Campidoglio e San Pietro, il Vaticano e VillaAdriana, ma anche una chiesa paleocristiana come SantaMaria in Cosmedin divennero luoghi cari alla sua vocazionedi “costruttore”. Scopi professionali ebbe una sua trasferta aRoma nel 1921: vi instaurò rapporti di scambio fra L’Espritnouveau, la rivista da lui diretta, e alcuni periodici, da Valoriplastici di Mario Broglio ad Architettura ed Arti Decorative diGustavo Giovannoni e Marcello Piacentini. Quest’ultimopresentò per la prima volta in Italia, in quelle pagine, la figu-ra e l’opera di Le Corbusier.

E adesso, nel 1934? Roma figura, più che mai, nei program-mi del grande architetto. È un luogo importante per i suoi pro-getti di lavoro: cioè per la realizzazione della «Ville Radieuse»,la città che, come un idolo, occupa la sua immaginazione. Perattuare questo piano ideale occorre appellarsi all’autorità po-litica, di qualunque colore essa sia: è un concetto che eglidiffonde in ogni occasione, utilizzando anche i Ciam, i Con-gressi internazionali dell’architettura moderna, di cui è granparte. Con quell’intenzione apolitica, o meglio “omnipoliti-ca”, egli ha progettato nella Mosca di Stalin il Centrosoyuz, ungrande fabbricato di uffici e sale riunioni. E nella stessa otti-ca, nell’ottobre del 1931, ha pensato di inviare a Mussolini unManifesto che lo induca ad appoggiare il suo progetto per lacostruzione del Palazzo delle Nazioni a Ginevra. Progetto alquale si propone di associare i rappresentanti della «giovanearchitettura italiana».

Quell’appello non è andato a buon fine, ma ecco giunto ilmomento di riprovarci con l’Italia. Le tre settimane che LeCorbusier vi trascorre sono annotate dall’artista in un suocarnet: un mucchietto di fogli graffiati da un’ardua scrittura.A interpretarli e trascriverli per la prima volta è stata Marida

Le Corbusierviaggioin Italia

I DOCUMENTINel tondo, un curioso ritratto di Le Corbusiercon un gatto sulla spalla. A sinistra, pagine del taccuinodel viaggio in Italia del 1934. In basso, sotto la letteraalla madre, l’incipit di una lettera a lui indirizzataquell’anno dall’amica italiana Paola Masino,che ne simboleggia il nome con il disegnodi un piccolo corvo (per l’assonanza in francesetra il diminutivo “Corbu” e la parola corbeau)

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 33

LETTERA ALLA MADRE«Cara mammina», scriveLe Corbusier nella lettera

inedita datata 1° luglio 1934che riproduciamo

qui a fianco, «ho passato21 giorni in Italia»

«La convocazioneMussolini mi è stata fissatatroppo tardi», narra ancoral’architetto, che malgradoquesto smacco descrive

il viaggio comeun grande successo:

«Laggiù sonoconsiderato (di già)

il padre dell’architetturamoderna»

NELLO AJELLO

DOMENICA 9DICEMBRE 2007

Repubblica Nazionale

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34 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 9DICEMBRE 2007

la societàGiochi di massa

I bambini tra i quattro e gli otto anni ne vanno pazzi,le madri e i padri si litigano i doppioni da scambiare,l’azienda italiana che li produce ne ha venduti trentamilioni di pezzi in due anni. Sembrano soltanto mostruosiminipupazzi da collezione ma sono la spia di un fenomenosociale complesso che coinvolge genitori e educatori

il prezzo di un singolo Gormita, in edicola o in negozio

1,90 eurola quotazione su eBay per la prima serie di 42 personaggi

1.000 euroi pezzi venduti nei primi due anni di produzione

30 milioni

Dalle illustrazioni di que-ste pagine può sembrareche ci si occupi qui di gio-cattoli, minipupazzi mo-struosi da collezione. Chinon ha figli né nipoti ma-

schi tra quattro e otto anni potrebbe es-sere tentato di pensare che la cosa nonlo riguardi: giochi, bambini, sciocchez-ze insomma. Tutt’al più un’indicazio-ne buona per Natale.

Non è proprio così. I Gormiti, eroi diorrendo aspetto dotati dei poteri dellaTerra, del Mare e del Vulcano, sono unsuccesso commerciale senza prece-denti (italiano l’inventore, italiana laditta produttrice: a ottobre 2007 hannosuperato nelle vendite il marchio Bar-bie) e sono diventati negli ultimi dueanni simbolo e veicolo di molto altro,molto che riguarda anche gli adulti.

Primo: sono l’unità di misura dell’i-nadeguatezza e dell’ansia da presta-zione delle madri, impegnate in unaperpetua e frustrante corsa alla conci-liazione dei tempi e delle esigenze pro-prie e altrui. Non trovare il Gormita de-siderato dal figlio equivale al crollo diuna ormai fragile diga emotiva: «Rien-travo dall’ufficio per andare a parlarecon la candidata baby sitter che dovràsostituire quella che da una settimanaci ha lasciati. Pensavo: ho dimenticatodi scongelare il pranzo. Ho chiesto allamamma di un compagno di classe di Fi-

lippo di portarlo a casa loro, sarei pas-sata io alle cinque. Ho disdetto la lezio-ne di yoga. Quando mi sono ricordatache nemmeno oggi avevo trovatoGheos il signore della Terra— lui me l’a-vrebbe chiesto, stasera, mi avrebbeaspettato per sapere se glielo avevoportato — ho fermato la macchina, homesso le doppie frecce e sono scoppia-ta a piangere». Così scrive Monica, im-piegata romana, in un blog.

Strazianti alcune richieste in Inter-net per avere Sommo Luminescente, ilsignore della Luce paragonabile al Fe-roce Saladino, leggendaria figurina in-trovabile in tempi ormai remoti:«Scambio il Sommo con qualunque al-tro bene: denaro, giochi, libri e dvd, unaspirapolvere Folletto mai usato». L’a-spirapolvere Folletto, per chi non lo sa-pesse, ha un valore commerciale chesupera alcune migliaia di volte il prez-zo di un pupazzo di gomma (un euro enovanta): è evidente che abbiamosconfinato nell’irrazionale. Ci muovia-mo nel terreno del disagio familiare edemotivo, il pupazzo ne è solo una spia.

L’ansia da Gormita mancante è unfenomeno di massa: se ne parla fuoridai portoni delle scuole, in piscina, aigiardinetti. Si organizzano se-dute pomeridiane di scam-bio dei doppioni in cui ac-cade che si innervosiscanole madri, non i figli. Un’a-nalista bancaria e una do-cente universitaria di stati-

stica sono state filmate ad una festic-ciola di compleanno mentre tentavanodi dissuadere i bambini dallo scam-biarsi Mistica Falena e l’AccecanteGuardiano. Madre 1, analista: «Guardache Mistica Falena è più potente di Ac-cecante guardiano, e poi non è vero chece l’hai doppione. Tutt’al più puoi dareBeccoduro». Madre 2, statistica: «Nograzie, Beccoduro non lo vogliamo, è diterza linea. Casomai Battiquercia o Pa-ludis. Cerchiamo di non barare». Laproprietaria del filmino da settimaneminaccia di scaricarlo su Youtube, insubordine di inviarlo per posta a NanniMoretti.

Collettiva è la preoccupazione del si-stema scolastico di fronte all’invasionedel Popolo di Gorm negli asili e nelleclassi elementari. Siamo al secondopunto. Agli occhi degli educatori nellafascia quattro-otto anni i Gormiti sono

l’equivalente del telefono cellulare de-gli adolescenti: un elemento costantedi distrazione e disturbo, un ostacolo alregolare svolgimento del programma.Così come i quattordicenni non sonointeressati al Petrarca ma piuttosto alfilmato rubato alla compagna di bancoe alla nuova suoneria, così i seienni siscambiano di nascosto i pupazzi occul-tati nello zaino: primi episodi di insu-bordinazione all’autorità didattica.

In moltissime scuole sono già partitele circolari e le raccomandazioni ai ge-nitori: è fatto divieto di consentire ai fi-gli di portare Gormiti in classe. C’è an-che chi ne approfitta in senso positivo:chi è più attento ai meccanismi che sca-tenano l’attenzione dei bambini e li ca-valca. Si narra di un giovane insegnan-te di religione che, ascoltato un bambi-no dire che Dio è come il Vecchio Saggio(il motore invisibile del Popolo diGorm, colui che tutto crea e tutto cono-sce e che mai si vede) si sia presentatoin classe con il Sommo (Luce) e Obscu-rio (Tenebre) e giocando coi due pu-pazzi abbia spiegato come ilLuminescente sia l’arcange-lo, il Signore delle tenebreun angelo caduto agli in-feri: una lezione me-morabile, trionfale.

Terzo fenomeno dicostume di cui il Gor-mita è portatore: laprima e definitiva di-stinzione fra generi.

Maschi e femmine: fino all’ingresso ascuola i bambini giocano indifferente-mente con mostri e bambole, con trenie pentole. È quando arrivano nella co-munità dei simili che si aprono le ac-que: a destra le bambine con le Winx, asinistra i maschi coi Gormiti. Giochi“da femmine” e giochi “da maschi”:impossibile varcare il confine. Il tema èdelicatissimo, un seme che si getta quie può fiorire virtuoso o germinare neglianni, se poco e mal controllato, sottoforma di gramigna: il bullismo, la so-praffazione, la violenza di genere e susu fino alle abitudini neo-maschilistedei bamboccioni accuditi da fidanzatevice-madri.

Chili di saggistica per spiegare comee perché si sia tornati a una così netta espesso disastrosa distinzione di ruolifra generi. Dal libro di Loredana Lippe-rini, Ancora dalla parte delle bambine:«Un colosso dell’immaginario infanti-le propone questa tabella sui bisognidei bambini: “Le femmine fra due e cin-que anni vogliono fantasia, somigliare

alla mamma, abiti per sé e per lebambole. I maschi della stessa

età chiedono di sentirsi piùgrandi, di giocare e di se-parare il male dal bene”».È sempre stato così, soloche fino a qualche annofa c’erano la palla e lemacchinine, il dolcefor-no e cicciobello. Ora l’in-

dustria del gioco è sofisti-

CONCITA DE GREGORIO

La guerragentiledei Gormiti

TARTANTICA SPORIUS SKORPIOSSABIS VORTICUS SENTILLA ROCK PRISMAGON PALUDIS OPALE NERO

LO SCENARIOA centro paginala Valle del Destino,uno degli scenariper il gioco dei GormitiSopra quarantottopersonaggi

MUSCHIANTICO MISTERIOSO CAVALIERE MULTIPLOP MISTICA FALENA MANGIATERRA

BOMBOS FORGIUS DRAGON2ACCECANTE GUARDIANO GHEOS

GAYSER OMBRASSASSINA

GRANDALBERO

Repubblica Nazionale

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LA DOMENICA DI REPUBBLICA 35DOMENICA 9DICEMBRE 2007

i profitti in euro della Giochi Preziosi legati ai Gormiti

100 milionii popoli in cui si dividono gli abitanti dell’isola di Gorm

7i personaggi tra serie vecchie, nuove, speciali e ricolorate

286

cata e potente, le bambole somiglianoa Pamela Anderson, hanno corpi a for-ma di clessidra e labbra enormi, i mo-stri fanno la guerra con corazze al tita-nio ed armi di sterminio micidiali.

I Gormiti, in questo, sono un esem-pio di virtù quasi poetica. Sono, sì, dueeserciti — il Male e il Bene — in lottaperpetua. Tuttavia non dispongono dimitragliatori né di lanciafiamme: han-no a disposizione solo i poteri della Na-tura. Sono, sì, mostri, ma soltanto nelsenso che sono versioni antropomorfedegli alberi e delle meduse, della lava edel vento. Raccontano la saga del gior-no e della notte, del mare e della terra inlotta per l’armonia. Solo l’unione di tut-ti i popoli può vincere il Male, solo in-sieme si vince: la morale solidale è ga-rantita. Combattono una guerra, se co-sì si può dire, gentile. Gentilissima, poi,se paragonata a quella di altri mutanti erobot concorrenti nel medesimo seg-mento di mercato.

Gentile è del resto Leandro Consumi,trentaquattrenne inventore del popolodi Gorm, fiorentino di modi rinasci-mentali, padre di una bambina ditre anni, Giulia. «Con mia figliagiochiamo molto ai Gormiti: leifa il Popolo della Luce io quel-lo delle Tenebre, ci rincorria-mo, in casa, accendendo espegnendo le lampade. È ve-ro che i Gormiti sono più “damaschi” ma poi dipende: miricordo benissimo che da

bambino quando giocavo alle Barbie lofacevo di nascosto. Fuori andavo con ilpallone e con le macchinine eppure ilfascino delle bambole me lo ricordoquanto quello della mitica Fyrrel az-zurra a sei ruote, quattro davanti e duedietro».

Con cosa giocavi da bambino, siamoal punto quattro. Il mondo fantastico diriferimento dell’adulto che sarai si for-ma adesso, quando hai cinque anni epoi dieci. C’è ancora qualcuno dispo-sto a dire che essere cresciuti con PippiCalzelunghe, con Lady Oscar o con leSuperchicche non faccia differenza?Che essere stati ragazzini con i Fanta-stici Quattro, con Goldrake o con iPokemon sia uguale? L’inventore degliIncredibili, la famiglia di «supereroiquasi normali» — enorme successo diqualche stagione fa — ha raccontato diaver semplicemente «voluto riprodur-re i supereroi della mia infanzia, quelliche acquistavano poteri magici a causadi un infortunio o una disgrazia». Il su-

perpotere dall’handicap, lafortuna nella sfortuna. Il

lato luminoso del do-lore. Cosa hai inven-

tato nei tuoi giochidi bambino diven-ta la matrice deituoi pensieridi adulto: uneccellentemotivo per

o s s e r v a r e

meglio la generazione Gorm ed esserepiù svelti a capire, fra quindici anni, ache tipo di giovani uomini saremo difronte.

Leandro Consumi, la sua infanzia: «Imiei genitori erano molto sobri, nonera l’epoca di un regalino al giorno: igiochi si dovevano meritare. Si giocavaa pallone in cortile, si andava a chiede-re un bicchier d’acqua al bar, acqua dirubinetto per la disperazione del bari-sta. Avevo il Lego, le macchinine: la Fyr-rel celeste come un idolo. Da ragazzinocollezionavo gli Exogini, pupazzetti diplastica monocolore di cui i Gormiti so-no senz’altro figli: quando ho comin-ciato a disegnare sono andato d’istintosu quel modello». Dopo la laurea ineconomia, da adulto, al momento dicercare lavoro è andata così: «Da picco-lo, le dicevo, avere un giocattolo era unevento. Quando passavamo in macchi-

na sulla Firenze-Mare, andando in Ver-silia, vedevo la Gig fabbrica di giochi em’immaginavo che ci fosse dentro unmondo meraviglioso di creature magi-che. Dopo la laurea mi hanno offerto unlavoro sicuro, fisso, a Prato. Ne ho scel-to uno precario e incerto alla Gig: inquel momento era in amministrazionecontrollata, stava passando alla Prezio-si e non assumeva nessuno. Non ho maidubitato. Dicevo: se ci metto piede nonesco più».

Inizi al marketing, a inserire le fattu-re dei fornitori. Era il momento del Si-gnore degli Anelli, il primo diffondersimassiccio dei giochi di ruolo per adole-scenti. «Ho amato moltissimo Tolkien,pensavo: bisognerebbe portare la ma-gia di questo mondo a un livello piùsemplice, adatto ai bimbi piccoli. Hoscritto la storia, Il mondo di Gorm. All’i-nizio Magor, il signore del Male, con-quista Gorm. Le lacrime dei popolisconfitti, il loro dolore, alimentano ilpotere del Vecchio Saggio, il signore delBene. Il primo personaggio è statoGheos, nato dalla Terra. Avevotrent’anni, ero in azienda da pochissi-mo, chiesi appuntamento al titolare, ilsignor Preziosi. Lui mi ricevette, mistette a sentire in silenzio per mezz’o-ra, alla fine disse solo: di questi pupaz-zi ne vendiamo milioni. Sembra unafiaba ma è andata proprio così».

Trenta milioni di perso-naggi in due anni, per l’e-

sattezza. Quattro milioni

in dieci giorni all’uscita della secondaserie, distribuita anche in edicola: bu-stine chiuse con pupazzo a sorpresa,effetto collezione. Un euro e novanta,una spesa settimanale o bisettimanaleaccettabile, per i più ricchi persino unaspesa quotidiana. I Gormiti della Gio-chi Preziosi rappresentano quasi lametà del mercato nazionale, il quaran-tadue per cento. Doppiano il primo in-seguitore — i Dragonball — fermo al di-ciotto. Hanno venduto per cento milio-ni di euro. Nell’ottobre di quest’annohanno superato come “valore di licen-za”, vendite per logo, il marchio Barbiedella Mattel. Sono secondi. Al primoposto restano le Winx, un altro prodot-to italiano.

Consumi è tra quei privilegiati che alavorare si diverte. I nomi dei perso-naggi sono spesso anagrammi: «Di miopadre e di mio nonno quelli buoni, peri cattivi mi sono ispirato a gente che mista molto antipatica, Linguacida hauna dedica specifica. Comunque sonotutti nomi attraverso i quali si capiscel’anima del personaggio: Troncanno-ne, un tronco d’albero che spara, l’Im-mobile paziente, l’Accecante guardia-no. È un mondo di colori in bianco e ne-ro: il bene, il male. Non sono mostri, so-no eroi. I bambini lo sanno. Per i bam-bini il mondo è così: una lotta tra buonie cattivi, tra desideri e privazioni. Fraciò che si può fare nella realtà e quel chesi vorrebbe nella fantasia. Per gli adulti,tutto sommato, anche».

IL MERCHANDISINGQui accanto, a sinistra

e nei cerchi, oggettidel merchandisinglegato al successodel popolo di Gorm

DA COLLEZIONE

I Gormiti sono i personaggi di un gioco da tavolo realizzatodal Gruppo Preziosi. I personaggi del gioco, minipupazzidi plastica alti tre-cinque centimetri vengono vendutiin buste che contengono un personaggio, una carta da giococon la descrizione delle sue caratteristiche, e l’adesivo circolaredi uno dei sette popoli in cui i Gormiti sono distribuiti. Il gioco,lanciato un paio d’anni fa, ha avuto grande successonella fascia d’età - bambini tra i quattro e gli otto anni -alla quale è destinato, ma anche nel giro dei collezionistiadulti di questo tipo di pupazzi

OPALE NERO OSCURO SANGUINOLENTE NOBILMANTIS OBSCURIO NAVUS BARBATAUSANTICO THORG

MANGIATERRA LINGUACIDA LANCIASASSI LAMACCIAIO LUNARIS INCANDESCENTE FANTASMA BATTIQUERCIA ARMAGEDDONSILENTE

DRAGON1 DIAMANTES DEVILFENIX COMET CAVAREX IMMOBILE PAZIENTE KOLOSSUS SOMMO LUMINESCENTEBECCODURO

CARRAPAXNARVALION

Repubblica Nazionale

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Un uomo solitario parte alla conquistadell’amata e si ritrova ad affrontare draghi,incantesimi, pericoli. E il nemico più

insidioso, se stesso. Non è il ciclo arturiano, ma il poema tardomedievale del marchese di Saluzzo. Ne esistevano soltantodue copie, una a Parigi e una a Torino. Araba Fenice,una piccola casa editrice, l’ha riportato alla luce

CULTURA*

36 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 9DICEMBRE 2007

tessuto iniziatico del romanzo di Tommaso III s’i-spirano, dal canto loro, a un’altra opera del Petrar-ca, I Trionfi.

Infine, l’exploit letterario del marchese di Saluz-zo, nel cui zibaldone confluisce tutto il sapere enci-clopedico delle innumerevoli epitomi medievali(bestiari, erbari, lapidari, opere come gli Specula diVincenzo di Beauvais e i trattati eruditi di GiovanniBoccaccio), deve molto all’oceanica opera di unodei più enigmatici e affascinanti personaggi femmi-nili del Trecento, la poetessa e studiosa Christine dePizan. Figlia dell’illustre medico e astrologo Tom-maso di Benvenuto, nata a Pizzano presso Bolognae giunta in Francia verso il 1368, Christine aveva sa-puto affermarsi alla corte di Carlo V re di Francia ed

La ricerca del Graalistruzioni per l’uso

E CHEVALIER errant diTommaso III marchese diSaluzzo è un testo in appa-renza strano, per certi ver-si testimonianza pseudo-autobiografica del tempoin cui fu composto — l’ul-timo decennio del Quat-tordicesimo secolo — peraltri composizione ibrida,mista di prosa e di versi, ametà strada tra il romanzocavalleresco, il trattato

enciclopedico e lo scritto etico-allegorico. Certo,questa presentazione può sembrar fatta appostaper far pensare al lettore più o meno digiuno di co-se medievali che ci si trovi davanti a un enorme in-digesto polpettone. E, intendiamoci, in fondo è ap-punto così. Eppure chi si addentrasse nella sua let-tura potrebbe alla fine, anche senza bisogno di co-var impulsi sadomaso, trovarlo affascinante. Pro-viamo a spiegarci.

Il “romanzo” racconta l’Aventure del protagoni-sta, un io narrante che s’identifica con l’autore eche, partito in cerca dell’amata, passa attraverso isuccessivi regni del Dio d’amore, di Dama Fortunae infine di Dama Conoscenza (la saggezza), visitan-do anche il palazzo degli eletti dove fa la conoscen-za dei “nove Preux” (i “Prodi”, i re-eroi fondamen-tali nella storia e nella letteratura epica, desunti tredalla storia sacra, tre da quella profana antica e treda quella cavalleresca: Giosuè, David, Giuda Mac-cabeo; Ettore, Alessandro, Cesare; Artù, Carloma-gno, Goffredo di Buglione). Questi nove personag-gi esemplari, cui si affiancarono anche nove figurefemminili illustri (le Preuses), furono alla base diuna specie di vero e proprio culto: ne parlò per pri-mo verso il 1312 Jacques de Longuyon in un com-ponimento scritto in celebrazione di un torneo, ilVoeux du Paon, e da allora essi si trovarono al cen-tro di scritti, cortei e spettacoli — ma anche parodie

— fino al Cinquecento. Nella grande sala del castel-lo della Manta presso Saluzzo il figlio illegittimo etemporaneo erede di Tommaso III, cioè Valevanodetto “il Burdo”, fece affrescare il ciclo completo deidiciotto Eroi ed Eroine insieme con un’altra imma-gine famosa, quella della Fontana della giovinezza.

L’Aventure era fin dal Dodicesimo secolo il cen-tro esistenziale del romanzo cavalleresco, comeben si vede nei romanzi del cosiddetto “ciclo delGraal”. È forse riduttivo tradurre tale termine con laparola “avventura”. In realtà, si trattava di una ri-cerca all’inizio senza scopo preciso, che si traduce-va in un viaggio privo di una meta: tuttavia, nel cor-so di esso, il cavaliere acquisiva progressiva co-scienza di se stesso tanto da trasformare l’Aventurein vera e propria Queste, cerca di se stesso e della ve-rità ultima delle cose (che poteva, appunto, venirsimboleggiata dal Graal). In tal modo il racconto,che si era snodato attraverso la narrazione di amo-ri, di battaglie, d’incontri con creature terribili e/omeravigliose — draghi, mostri, demoni, fate ecce-tera — approdava a una sorta di seduta psicotera-peutica attraverso la quale istinti e desideri si depu-ravano e si sublimavano.

Si è parlato a lungo della “verosimiglianza” delpercorso descritto nei romanzi d’Aventure. Essa erain realtà un percorso spirituale, che tuttavia potevatradursi, per le aristocrazie armate dei secoli Dodi-cesimo-Quindicesimo e magari oltre, in formeconcrete: la crociata, la partecipazione a veri e pro-pri campionati di torneo, il servizio militare merce-nario. In tali occasioni, il cavaliere metteva alla pro-va l’educazione etico-iniziatica ricevuta, la tradu-ceva in termini di coraggio e di lealtà oppure la tra-diva.

I modelli che stanno alla base del componimen-to di Tommaso III sono molti. Senza dubbio anzi-tutto la Psychomachia redatta in latino nel 405 daPrudenzio, un poema che sotto forma allegoricanarra della lotta che si svolge nell’anima tra le setteVirtù teologali e cardinali e i sette Vizi capitali, rap-presentati tutti sotto l’aspetto di eroi epici. Model-lo capitale di Prudenzio era La Tebaidedi Stazio, chenell’Undicesimo secolo era, insieme con Ovidio,l’autore latino più letto, e che si era a sua volta ispi-rato alla tragedia di Eschilo I sette contro Tebe: ver-so il 1150 un chierico normanno restato anonimo siera ispirato a Stazio per redigere un Roman de The-bes. Ma l’opera di Prudenzio era rimasta fonda-mentale per chiunque intendesse fornire al ro-manzo cavalleresco un senso allegorico-morale.

Non bisogna neppure dimenticare l’esempiofornito dal romanzo allegorico-cortese per eccel-lenza, il Roman de la Rose; né quello del petrarche-sco poema latino in esametri Africa dove, seguen-do un modello ispirato al poeta tardo-romanoClaudiano (un altro “divo” per la letteratura me-dievale), si era rappresentato il Palazzo della fama.Anche le successive visite ai “regni” dell’Amore,della Fortuna e della Saggezza che costituiscono il

L’itinerario allegorico altro non erache l’ennesima veste del tema poeticopiù antico del mondo, il viaggioiniziatico verso l’Altro mondo

IL LIBROIl Libro del Cavaliere

Errante - 600 pagine,oltre 50 miniaturedel Quattordicesimosecolo, 89 euro - escea gennaio pubblicatoda Araba Fenice Editore(a destra la copertina)Informazioni sul sitowww.arabafenicelibri.ito inviando una mail ainfo@ arabafenicelibri.it

FRANCO CARDINI

Repubblica Nazionale

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TORINO

«Ce fu en avril ou en may/ que toutes choses sont sigay/par le plaisir du doulz temps». Comincia con questi dol-ci versi in francese antico, che parlano di un creato «leggia-dro/ per la festa della primavera», il poema Le Livre du Che-valier Errant, che Tommaso III, marchese di Saluzzo, com-pose nell’ultima decade del Quattordicesimo secolo. Era ungiorno chiaro e primaverile pure quando Alessandro Dutto,giovane editore di Boves, in provincia di Cuneo, andò a visi-tare il medievale Castello della Manta, alle porte di Saluzzo,e vide gli affreschi della sala baronale. Una guida gli disse chele pitture, quelle “Nove Eroine” e quei “Nove Prodi” raffigu-rati, erano state ispirate probabilmente dal Chevalier Errant.

Incuriosito, cercò una copia del poema del marchese che,oltre alla passione per i romanzi improntati agli ideali caval-

lereschi, trascorreva il suo tempo amando unagiovane donna del popolo, battagliando con ivicini Savoia e facendosi vassallo della Francia.Dutto scoprì che il libro non era mai stato tra-dotto e stampato in Italia, nonostante la fama dicui godeva a Saluzzo e nel mondo, e l’aura di og-getto di culto che lo impreziosiva. E venne a sa-pere che le uniche due copie manoscritte si po-tevano trovare alla Bibliothèque nationale deFrance, a Parigi, e alla Biblioteca nazionale diTorino. Quest’ultima, però, era stata seriamen-te danneggiata dall’incendio nel 1904 della bi-blioteca. Decise così di compiere l’impresa incui, nel paese di Tommaso III, nessuno avevavoluto cimentarsi: fare tradurre e pubblicare ilpoema.

Dopo tante difficoltà, tanti travagli degni de-gli eroi del nobile letterato, il sogno di Alessan-dro e del fratello Fabrizio si è finalmente tra-dotto in realtà: Le Livre du Chevalier Errant ve-drà presto la luce per la loro casa editrice ArabaFenice. L’opera uscirà grazie anche ad alcuni

sponsor (la Fondazione della Cassa di risparmio di Saluzzo,la Cassa di risparmio di Saluzzo, il Comune saluzzese, la Re-gione Piemonte e “Torino capitale mondiale del libro”), chehanno contribuito a far nascere un volume di millecento pa-gine e con sessanta splendide miniature quattrocentesche,le stesse del maestro de La Cité de Dame e del maestro del-l’Epître d’Othéa à Hector che illustrano i due manoscritti ori-ginali.

Pubblicato sotto il coordinamento scientifico di Marco

Piccat, ordinario di Filologia romanza all’Università di Trie-ste, il poema dovrebbe essere in libreria a gennaio.

Scritto in un francese popolare e adeguato al parlato di unostraniero, in parte in prosa e in parte in versi, venne proba-bilmente composto a Parigi, sebbene la leggenda racconti diuna sua stesura avvenuta a Torino fra il 1394 e il 1396, men-tre Tommaso era in carcere per avere effettuato alcune scor-rerie nei territori dei nemici sabaudi, che lo avrebbero poi li-berato in cambio di un riscatto di qualche migliaio di fiorinid’oro. Spiega il professor Piccat: «Il testo, che nelle due copiepresenta delle varianti, è emblematico della cultura cavalle-resca, mito dell’aristocrazia europea alla fine del Quattordi-cesimo secolo. Tommaso, sotto le vesti di un cavaliere er-rante, narra in modo allegorico la sua ricerca di “avventure”,attraversando, nel desiderio dell’amata, i regni del Dio d’a-more, di Signora Fortuna e infine di Signora Conoscenza, perconcludersi nella celebrazione delle virtù cristiane. Nel cor-so dei viaggi, una volta giunto nel Palais des Esleus, incontrai Nove Prodi e le Nove Eroine. A questo proposito il codice diParigi ha conservato le spettacolari miniature con le loro im-magini in sequenza, che secondo alcuni esperti di arte me-dievale potrebbero avere ispirato i celebri affreschi del Ca-stello della Manta, o quantomeno derivare da un archetipocomune».

Tommaso, nato nel 1356 e morto nel 1416, aveva come cul-tura di riferimento i poemi e i romanzi cavallereschi france-si, dal Roman de la Rose a quelli dei cicli arturiani, carolingi edell’età classica, anche quando, avverte Piccat, «commentaepisodi propri della cultura italiana come la novella di Gri-selda, che non riprende da fonti petrarchesche ma già da unaloro rilettura d’oltralpe». Nel poema, tuttavia, il marchese diSaluzzo, «nel tentativo di colorare la sua patina di autobio-grafismo, corre a tratti ai ripari presentando evidenti spac-cati di contemporaneità attraverso gli incontri con i grandidel suo tempo: da Carlo V di Francia ai duchi di Valois, Berry,Bourgogne, Bourbon, Anjou, al re d’Inghilterra, di Napoli,Aragona, Portogallo, Navarra, Cipro, fino a Gian Galeazzo Vi-sconti e al marchese di Monferrato. E racconta la sua parte-cipazione ai più nobili tornei del tempo, come quello di SaintDenis del 1390».

Non a tutti, comunque, Le Livre du Chevalier Errant andòa genio. Forse per giuste osservazioni critiche, e magari perun pizzico di invidia, ci fu chi disse che Tommaso rimava «co-me un gentil’uomo» e che usava «formule, non versi». Restail fatto che il suo poema ha davvero sfidato il tempo e riappa-re, come in un colpo di scena da romanzo di avventure, oltreseicento anni dopo il suo concepimento.

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 37DOMENICA 9DICEMBRE 2007

era divenuta la diva delle varie corti principeschedell’epoca, la sanguigna e affascinante età dellaGuerra dei cent’anni cui Johan Huizinga ha dedica-to il suo indimenticabile Autunno del medioevo.

Nel poema di Tommaso si colgono molto netti gliechi di molte opere di Christine: ma la cronologia ècomplessa, e non è detto che l’una e l’altro si sianoinfluenzati a vicenda, magari in una specie di garanon scevra di aspetti polemici. Certo è che le tema-tiche dei due scrittori si somigliano e s’intrecciano:esse sono, del resto, quelle tipiche dell’ultima etàgotica. A Christine de Pizan è stato di recente dedi-cato un bel libro da Maria Giuseppina Muzzarellidell’Università di Bologna, Un’italiana alla corte diFrancia. Christine de Pizan, intellettuale e donna (IlMulino).

Ma il carattere erudito e fantastico del poema diTommaso III non deve farne dimenticare l’aspettopolitico e politologico. Il marchese di Saluzzo, le ter-re del quale erano passate dall’egemonia franceseall’attrazione nella sfera viscontea fino alla sovra-nità savoiarda, tendeva a sottolineare — col rac-conto del suo viaggio dalla sensuale e giovanilespensieratezza del “regno del Dio d’amore” all’in-certezza del “regno della Fortuna” e quindi al solidoapprodo in quello della Saggezza — ch’era all’espe-rienza, alla solida preparazione e all’equilibrio del-le sua capacità di governo, non al solo diritto dellearmi e della discendenzaereditaria, ch’egli doveva ilsuo feudo.

Il percorso allegorico nelracconto epico-avventuro-so dei romanzi di cavalleriafece comunque epoca. Giàavviato dal Roman de la Ro-se, si andò riflettendo e ri-frangendo in tutti i capola-vori tardomedievali e pro-tomoderni del genere: daltoscano Guerin Meschino alLivre de Coeur d’amour éprisdi “re” Renato d’Angiò, alcastigliano Amadis de Gau-la, fino allo stesso immorta-le Don Chisciotte. Del restogli stessi temi barocchi dellalibertina Mappa dell’Amore(La Carte du Tendre: ricor-date la vecchia canzone di Georges Moustaki?) e delgesuitico Itinerario dal Mare del peccato all’Isola disalvezza continuarono ad ispirarvisi, variamentecombinandosi con la letteratura utopica. E pourcause: l’itinerario allegorico-cavalleresco altro nonera, in fondo, che l’ennesima veste del tema poeti-co più antico del mondo, il viaggio iniziatico versol’Altro mondo. Da Gilgamesh a Dante, non abbiamomai cessato di sognare, di scrivere, d’immaginare diquello. Se ne sono ricordati anche l’Ulyssesdi JamesJoyce e La storia notturna di Carlo Ginzburg.

MASSIMO NOVELLI

LE IMMAGINILe immaginidella pagina,tratte dal libro,sono miniatureoriginali del Trecentocustoditedalla BibliothèqueNationale de Paris

L’epopea di un libro perdutoF

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38 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 9DICEMBRE 2007

la letturaParole e note

Dal 1958 al 1972 Leonard Bernstein con la New YorkPhilharmonic presentò in tv un programma dal titolo“Young People’s Concert”. Trasformò una generazionedi americani in appassionati. Le sue performancedivennero un bestseller che ora per la prima voltaviene pubblicato in Italia

Di che cosa parla un qualsiasi pezzo di musica? Per esempio, di checosa pensate che parli questa melodia?

Sono sicuro che capirete quello che mi disse mia figlia Jamie da bambina quan-do glielo suonai: «È la canzone del Lone Ranger, Hi-ho Silver! Cowboy e banditi ecavalli nel Far West...». Detesto contraddirla, e anche contraddire voi, ma il LoneRanger non c’entra nulla. Questa melodia parla di note: di do e di la e di fa e anchedi fa diesis e di mi bemolle. Non importano le storie che la gente vi racconta sul si-gnificato della musica, dimenticatele. Le storie non sono ciò che la musica signi-fica. La musica non parla mai di cose. La musica semplicemente è. È note e suonimessi insieme così bene che proviamo piacere ad ascoltarli. Così quando chie-diamo: «Che cosa significa questo pezzo di musica?» stiamo ponendo una do-manda difficile. Faremo del nostro meglio per darvi una risposta.

La questione del “significato” nella musica è curiosa. Quando dite «Cosa signi-fica?», state in realtà dicendo «Che cosa sta cercando di dirmi?» o «Cosa mi fa pen-sare?». È proprio come con le parole. Quando sentiamo delle parole, scaturisconodei pensieri. Se grido: «Ahi, mi sono scottato un dito!» voi cominciate subito a pen-sare una serie di cose:

mi sono scottato un dito;fa male;per un po’ non potrò suonare il pianoforte;quando mi lamento ho una voce forte e sgradevole.Una concatenazione di pensieri di questo tipo. Pensieri di parole.Ma se vi suono al pianoforte delle note come queste:

le note non vi trasmetteranno nessun pensiero fatto di parole. Le note non par-lano di dita scottate o di viaggi nello spazio, di paralumi o di qualsiasi altra cosa.

Di che cosa parlano? Parlano di musica. Prendete per esempio questo piccoloPreludio di Chopin:

È bella musica. Ma di cosa parla? Di niente. Oppure prendete un passaggio da una sonata di Beethoven:

Anche questo non parla di niente. O ancora, un pezzetto di jazz:

Di cosa parla? Di niente. Tutti questi pezzi non parlano di niente, ma è piacevo-le ascoltarli. Perché mai dovrebbe essere piacevole ascoltarli? Non lo so. Sempli-cemente fa parte della natura umana provare piacere quando si ascolta musica.

Le note non somigliano per nulla alle parole. Perché se io dico anche una solaparola, per esempio «razzo», significa qualcosa. Vi viene subito un’idea. Vedeteun’immagine nella vostra mente.

Razzo. Bang!Ma una nota, una piccola nota tutta sola:

non significa nulla. È solo il povero vecchio fa diesis — o si bemolle.

È un suono, niente di più.È più acuto:

o più grave:

PIÙ FORTE:

o più piano:

Sarà diverso se lo suono sul pianoforte, o se lo canto, o se lo suona un oboe…

o uno xilofono…

o un trombone.

È sempre la stessa nota, ma con timbri diversi.Tutta la musica è una combinazione di suoni di questo tipo organizzati secon-

do un certo progetto. La persona che progetta è il compositore, che si potrà chia-mare Rimskij-Korsakov o Richard Rodgers. E il suo progetto consiste nel mettereinsieme i suoni con ritmi e voci o strumenti diversi, in modo che ciò che ne risultaalla fine sia emozionante, o divertente, o commovente, o interessante, o tutte que-ste cose insieme.

Questo è ciò che si chiama musica, e significa ciò che il compositore ha proget-tato. Ma è un progetto musicale, quindi ha un significato musicale, e non ha nullaa che vedere con storie o immagini o altre cose di questo tipo.

Naturalmente va benissimo anche se c’è una storia collegata a un pezzo di mu-sica. In un certo senso dà un significato aggiuntivo alla musica; ma è un supple-mento come la senape sull’hot dog. La senape non fa parte dell’hot dog. È un ex-tra. E così anche la storia non fa parte della musica. Qualunque sia il reale signifi-cato della musica, non è quindi la storia — neppure quando essa è collegata allamusica.

Ora proviamo a vedere se riusciamo a scoprire che cosa significa la musica. Fac-ciamo il primo passo. Vi ricordate quel pezzo di cui abbiamo parlato all’inizio?

Pensate ancora che questo pezzo significhi il Far West perché è la melodia delLone Ranger? Bene, non può significare il Far West per il semplice fatto che è sta-to scritto da un uomo che non aveva mai sentito parlare del Far West. Era un ita-liano, e si chiamava Rossini. Possiamo pensare che questa musica evochi cavalli ecowboy perché così ci hanno insegnato i film e gli spettacoli televisivi. Ma in realtàRossini scrisse questa musica come ouverture per l’opera Guglielmo Tell, che èambientata in Svizzera, ben lontano quindi dal Far West. Tutti conoscono la sto-ria di Guglielmo Tell, l’uomo che dovette colpire con una freccia una mela postasulla testa di suo figlio.

Potreste allora pensare che la musica voglia parlare di Guglielmo Tell e dellaSvizzera invece che di cowboy. Ma non è nemmeno così. Non parla di GuglielmoTell, né di cowboy, né di paralumi o di razzi o di qualunque altra cosa che possa es-sere descritta a parole.

Che cosa dunque la rende così eccitante? Le ragioni che la rendono eccitante so-no migliaia, ma sono tutte ragioni musicali.

Prendete per esempio il ritmo:

Ta ra dam, ta ra dam, ta ra dam dam dam

LEONARD BERNSTEIN

Lezione di musica in forma di gioco

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LA DOMENICA DI REPUBBLICA 39DOMENICA 9DICEMBRE 2007

Ci sono i violiniche usano l’arco

facendolo rimbalzareper produrre

l’effetto di un suonogaloppante

Non avete mai sentitoil bisogno di cantare,di danzare per qualcosache vi è accaduto?Tutti conosciamoquesta sensazione

Battetelo con le nocche delle dita su un tavolo di legno, e forse vi ricorderà il rit-mo di cavalli al galoppo. O battetelo su un tamburo militare, se ne avete uno in ca-sa, e sembrerà il ritmo di tamburi in una battaglia. Ma questo non significa che lamusica parli di cavalli o di una battaglia. Il significato è solo l’eccitazione del ritmo.

Un altro motivo per cui ci esalta è che è una bella melodia, facile da ricordare.Comincia con una frase ascendente — come potete vedere semplicemente guar-dando le note, anche se non siete in grado di suonarle:

e poi risponde con una frase discendente:

È come se ci fossero domanda e risposta. O forse somiglia più a una discussionein cui vince il secondo interlocutore. Potete provare a farlo con un amico, cantandoa turno, e vedendo chi vince. Prima il vostro amico canta la frase introduttiva, così:

e voi ribattete con la seconda frase:

Poi lui insisterà di nuovo con la terza frase (che è uguale alla prima):

e voi chiuderete la discussione con l’ultima frase, così:

Avete vinto! Sentite che eccitazione c’è in quest’ultima frase? C’è tuttala soddisfazione e il trionfo dell’essere usciti vincitori da una discussione.

Ci sono altre ragioni per cui questa musica è esaltante — il modo incui è suonata o gli strumenti che la suonano. Per esempio, ci sono i vio-lini che usano l’arco facendolo rimbalzare, per produrre l’effetto di unsuono galoppante. Quando tutti gli archi lo fanno insieme, la musicadavvero galoppa! Questa musica è eccitante perché è scritta per esse-re eccitante, per ragioni musicali e non di altra natura.

Vi potrete chiedere allora perché mai un compositore dia dei titolialla sua musica. Perché non la intitola semplicemente Sinfonia o Trioo Composizione numero 28? Perché dà un titolo come L’apprendista

stregone o qualunque altra cosa, se non è importante per la musica?Il motivo è semplicemente il fatto che, una volta ogni tanto, un artista

può essere stimolato a esprimersi da qualcosa di esterno a se stesso — unalettura, qualcosa che gli accade o che vede. Non vi è mai capitato di sen-tire il bisogno di cantare, di danzare o di esprimere in qualche modo i vo-stri sentimenti per qualcosa che vi è accaduto? Tutti conosciamo questasensazione, e per un compositore è la stessa cosa.

Johann Strauss, per esempio, scrisse un sacco di valzer. Uno lo intitolòSul bel Danubio blu; forse lo conoscete, fa così:

Ora, il fiume Danubio può avere ispirato Strauss a comporre il valzer,ma quelle note non hanno nulla a che vedere con il fiume. Un altro bel-lissimo valzer di Strauss si intitola Storie dal bosco viennese, e non ha nul-la a che vedere con i boschi di Vienna né con qualunque altro bosco. Sisarebbe tranquillamente potuto intitolare Sul bel Danubio bluo Valzerdell’Imperatore o che so io. Uno qualunque dei valzer di Strauss conqualunque altro titolo è semplicemente un bellissimo valzer.

Il titolo non ha nessuna importanza, se non per aiutarvi a distin-guerli l’uno dall’altro, e forse per dare alla musica un po’ più di colo-re, come un costume di scena.

Traduzione di Silvia Tuja© 2007 excelsior 1881, Milano

IL LIBRO

Si intitola Giocare con la musica

il libro che raccoglie le lezionitenute da Leonard Bernsteinin tv in cui insegnava agli americani a capire e amarela musica. Il volume, a curadi Jack Gottlieb (392 pagine,24,50 euro) è pubblicatoda excelsior 1881 e sarà in libreria dall’11 dicembreIn queste pagine anticipiamoparte di una lezione dedicata al significato della musica

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40 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 9DICEMBRE 2007

Nata a Roma nel dopoguerra, per volere di papaPio XII, la casa discografica divenne in pochi anniun punto di riferimento per cantanti e produttori

Ma fu sotto la guida di Lilli Greco, capace di sfide, sperimentazioni e rischi inusuali,che arrivò il grande successo di artisti come Rita Pavone, Morandi, Tenco, Paoli,Conte. Ora un libro ricorda, e racconta per immagini, l’età d’oro del celebre marchio

SPETTACOLI

Pochi lo sanno ma la storia della gloriosaRca italiana inizia per volere di un Papa.Fu Pio XII, memore dei bombardamentinel quartiere di San Lorenzo, a chiedereal cattolicissimo Frank Folsom, allorapresidente della casa madre, la Rca Vic-

tor, di costruire una fabbrica a Roma, proprio in quelquartiere sventrato dalle bombe. Folsom, nel qua-dro degli investimentiamericani del pianoMarshall, mantenne lapromessa, primaaprendo degli uffici e poinel 1951 un vero e pro-prio stabilimento, an-che se la sede della fab-brica fu stabilita non aSan Lorenzo, bensì alkm 12 di via Tiburtina,dove ancora oggi, pas-sando per il Grande Rac-cordo Anulare, si puòvedere il panciuto edifi-cio su cui sopravvive ilmarchio storico, im-presso con un rossostinto che un tempo eraquasi fluorescente. Lostabilimento, dove poi furono costruiti i famosi stu-di di registrazione, quelli che hanno fatto la canzoneitaliana, è diventato un deposito di scarpe. In un pae-se che ha scarsa sensibilità per la memoria urbana,quello che poteva diventare un luogo di culto, ma-gari un museo, una gigantesca biblioteca della mu-sica, è solo un vuoto simulacro di quella stagione.Pochi ricordano che tra quelle mura sono nati i di-schi di Modugno, Paoli, Rita Pavone, Morandi, Ba-glioni, Venditti, De Gregori, Lucio Dalla, Paolo Con-te, Renato Zero, Patty Pravo, per citarne solo alcuni.

A ricordare questa importante porzione della sto-ria della canzone italiana ci aiuta C’era una volta laRca, uno splendido libro, magnificamente illustra-

to, nel quale Maurizio Becker ripercorre la storia delcelebre marchio discografico attraverso una lungaconversazione con Lilli Greco, che della Rca è statoun leggendario produttore. La sua voce è continua-mente spezzata da quelle di altri protagonisti, uncontrocanto che compone un ritratto di famiglia.

Greco è un personaggio pressoché unico nel pa-norama musicale italiano, un musicista, un produt-tore burbero e determinato, dotato di una simpatiainnata e corrosiva, abituato a scontrarsi con chiun-

que sull’onda della passione, deciso a brutalizzare icantanti pur di tirare fuori da loro il meglio (che spes-so non sanno di avere), per questo amato e odiato dai“suoi” artisti, uno per tutti Francesco De Gregori, colquale è entrato spesso in rotta di collisione, che nel-la canzone Marianna al bivio gli ha persino dedica-to un verso: «Lilli Greco non capisce, ma che Dio lobenedica». Nominate Lilli Greco a uno dei tanti can-tanti con cui ha lavorato, e sicuramente otterrete ungran sorriso e un’espressione di sgomento, come aricordare un’esperienza di quelle che segnano.

Il racconto, è quello di una grande avventura. Gre-co arrivò agli studi di via Tiburtina alla fine degli an-ni Cinquanta, proprio nel momento in cui la Rca sta-va cambiando rotta. Invece di stampare e diffonde-re esclusivamente i dischi che arrivavano dall’Ame-rica, iniziò a produrre artisti italiani, con una cresci-ta rapida, quasi vertiginosa. E anche qui, pare assur-do, c’è lo zampino del Vaticano, che della societàmanteneva una quota del dieci per cento, e ne ave-va affidato la direzione al fedele conte Enrico PietroGaleazzi. Nel 1954, le cose andavano male, e si era sulpunto di chiudere. Pio XII che, chissà perché, a que-sta cosa teneva enormemente, tenne duro e fece no-minare direttore un suo brillante giovane segretario,Ennio Melis, il quale fu di fatto l’iniziatore di quel-l’avventura. La cosa ancora più singolare è che Me-lis ottenne carta bianca dal suo mentore. E ne ap-profittò, con audacia e libertà, producendo quellache è stata una parte della laicissima, a volte perfinoirriverente, storia della canzone italiana, facendo di-menticare quell’originale ombrello pontificio.

Attraverso quei solchi sono passati praticamentetutti, dai primi vagiti cantautorali di Modugno e Pao-li, Tenco, Sergio Endrigo e Nico Fidenco, fino al sur-reale esordio di Gianni Meccia con i suoi barattoli ro-tolanti e pullover amorosi, continuando con la alle-gria adolescenziale di Morandi e Rita Pavone, poiancora il beat, con Patty Pravo, i Rokes, allargandopoi alla nuova canzone d’autore di Venditti e De Gre-gori, Lucio Dalla, Riccardo Cocciante, e ancora Ba-glioni, Renato Zero, Ciampi, Paolo Conte, GabriellaFerri, Nada e tanti altri. E quasi sempre c’è lo zampi-no di Lilli Greco.

GINO CASTALDO

Nella bottega della canzone italiana

storiaLa

della

AL BARLilli Greco e FrancescoDe Gregori al bar internodell’Rca. Sopra a sinistra,la foto di Patty Pravoin abito rosso è statascattata da FernandoMuscinelliLe altre immaginidelle pagine sono trattedal libro C’era una voltala Rca. Conversazionicon Lilli Greco,Coniglio editore

Negli studi sulla viaTiburtina sono passatitutti: da Modugno a Nadada Patty Pravo a Dalla

Repubblica Nazionale

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LA DOMENICA DI REPUBBLICA 41DOMENICA 9DICEMBRE 2007

E alcuni geniali tecnicirealizzarono con i solchiuna vera e propriarivoluzione del suono

INEDITO SU REPUBBLICA.IT

Da oggi su Repubblica.it una audiogalleriadi Gino Castaldo con immagini storichedella Rca e un brano inedito di Gianni Morandie Luis Bacalov, Se non avessi più te,fornito dagli archivi della casa discograficaA cura di Andrea Galdi e Matteo Pucciarelli

IN LIBRERIA

S’intitola C’era una volta la Rca. Conversazionicon Lilli Greco il libro, di Maurizio Beckerproposto da Coniglio editore (350 pagine, 48 euro),che racconta, attraverso i protagonistie i loro successi, la storia della casa discograficaitaliana. Il volume, riccamente illustrato con fotod’epoca, sarà in libreria venerdì 14 dicembreNelle pagine riproduciamo il testo di Paolo Conteche costituisce la prefazione del libro

Il racconto ci proietta in un’era felice della disco-grafia, un mondo di esperimenti, di invenzioni,quando il mercato, seppure interessato all’aspettocommerciale, era ammaliato da un travolgente ven-to artistico e tutti si comportavano di conseguenza:tecnici, direttori artistici, produttori, cantanti. Gliepisodi di questi primi anni sono irresistibili: la de-scrizione di Gianni Meccia che girava nei corridoi ecantava, quando poteva, le sue canzoni a tutti perriuscire a farsi prendere sul serio, la genesi de Il mon-do di Jimmy Fontana, la vendetta di Anna Moffo, acui aveva tagliato alcuni acuti eccessivi, che si fi-danzò con un’importante dirigente della Rca ame-ricana e pretese che gli acuti tagliati fossero reinseri-ti, l’allegria contagiosa della sedicenne Rita Pavone,le litigate con Venditti e De Gregori, gli scontri conPatty Pravo, le follie e la genialità di Gabriella Ferri.La scoperta di Paolo Conte, l’opera di persuasioneper convincerlo a cantare lui stesso le sue canzoni ea salire su un palcoscenico.

Quello di Paolo Conte è un episodio che da solospiega le profonde differenze tra ieri e oggi. Conte erariottoso, disinteressato al successo, non era convin-to di dover andare oltre la scrittura dei pezzi, e poi lesue canzoni non le capiva nessuno. Quando Greco eMimma Gaspari riuscirono a organizzare delle sera-te al teatro Centrale di Roma, la sala restò deserta peruna settimana. Ma con la complicità di Ennio Melis,Greco decise di insistere e, a poco a poco, si formò ilmito di Paolo Conte. C’era amore, passione, si cre-deva in un artista fino in fondo, si insisteva, si ri-schiava.

Il marchio Rca era celebre, suggestivo, incuteva ri-spetto, era un punto di riferimento fondamentale

per l’area romana, ma non solo. Eral’unica casa americana ad aver im-piantato una sede autonoma nel no-stro Paese col compito di lavorare sulcatalogo italiano. Anni dopo l’avreb-bero imitata anche la Sony, la Emi, la Warner, la Poly-gram, ma per molti anni la Rca è stata l’unica a com-petere con le italiane, allora potenti, come la Ricor-di, la Cgd e la Fonit Cetra.

Nelle pagine del libro si respira un clima da bot-tega dell’arte. Negli studi della Rca ci si sforzava diraggiungere gli standard produttivi dei dischiamericani, si introdussero compressori, echi, na-stri multitraccia, alcuni geniali tecnici realizzaro-no una vera e propria rivoluzione del suono, e Gre-co racconta l’intreccio che questa progressionecreava con la parte più squisitamente artistica. Inuovi gruppi beat, i cantautori, portavano canzo-ni insolite, con forme ardite che trattavano degliargomenti più disparati, canzoni che avevano bi-sogno di essere “vestite” con abiti moderni. Furo-no chiamati giovani promettenti arrangiatori co-me Ennio Morricone e Luis Bacalov, e pochi san-no che la maggior parte di quello che oggi ricono-sciamo come il tipico suono delle canzoni deglianni Sessanta, porta soprattutto la firma di questidue musicisti. Da Se telefonando a In ginocchio date, da Cuore di Rita pavone a Sapore di sale di GinoPaoli, con tanto di assolo al sax di Gato Barbieri, al-la voce “arrangiatore” compare immancabilmen-te o l’uno o l’altro. Prima ancora c’era stato Ar-mando Trovajoli.

Più che una semplice casa discografica la Rca eraun laboratorio, un luogo operoso e articolato dovesi partiva dalla ricerca dei nuovi talenti e si arrivavaalla stampa del vinile che finiva nei negozi. Studi diregistrazione, uffici direttivi e presse erano nellostesso complesso. Al bar, al mitico bar dell’azienda,si incontravano operai, cantanti, autori, dirigenti,in un clima oggi impensabile in quel che rimane delmondo discografico. Oggi sono rimaste solo le ma-cerie. La musica è notevolmente peggiorata e forseaspetta che qualcuno, da qualche parte, ricrei unapossibilità del genere.

Io e Lilli siamo molto amici: dunque, chiunque può comprenderlo, mi viene difficile scri-vere prendendo le distanze dalla dolcezza di questa amicizia.Ma, dal momento che si tratta di un gran personaggio, di cui questo libro va a cantare le

gesta e la leggenda, tenterò comunque la via del panegirico.Tra gli individui che si occupano di cose non ordinarie e rivelano l’attitudine all’insegui-

mento della bellezza, tre figure sembrano avere dei tratti comuni: lo snob, l’intellettuale, ildandy.

Il primo la bellezza se la procura e se ne ammanta, il secondo se la studia, il terzo ne fa og-getto di una caccia estenuante, pronto ad inseguirla fino al martirio.

Che Lilli appartenga, grazie a Dio, a questo tipo ultimo, non c’è dubbio alcuno. Un taledandy, forte di preparazione accademica, dotato di un senso alto e semplice della cultura,spirito puro nell’impuro Novecento, una volta entrato a lavorare in una grande azienda di-scografica, non poteva, e con la massima naturalezza, non scegliersi — à perpéte — il gradodi caporale, ad altri lasciando, con la stessa naturalezza, le gerarchie più elevate.

Il dandy caporale, che scopre e che alleva, intuisce e sprona, con ferrea pazienza e inesau-sta curiosità per l’arte.

L’ho osservato intrattenere per ore e ore ragazzotte in cerca di fortuna discografica, votateall’imitazione della diva del momento, facendo loro ascoltare dischi di Bessie Smith e di Za-rah Leander, pur di ottenerne una benefica reazione.

L’ho sentito invocare Dio perché facesse incontrare in paradiso Johann Sebastian Bach egli Hot Five di Louis Armstrong, e ho sentito risuonare negli studi di registrazione la sua or-mai leggendaria frase: «Provate a pensare come farebbero gli americani…», nell’estremo ten-tativo di trovare una sintesi stilistica…

Recentemente mi ha telefonato dicendomi che una mia canzone era «disperatamente bel-la»: commistione tutta sua di un avverbio e di un aggettivo, estasi e realtà mescolati insieme.

Non so fino a che punto Caporale Dandy sia disposto a congratularsi con se stesso per lariuscita e la carriera dei tantissimi artisti che ha intuito e allevato. Per lui, probabilmente, con-ta sempre l’antico adagio romantico di Schelling: «Vale più la caccia della preda».

Così è Lilli, e la caccia continua…© 2007 Coniglio editore, Roma

PAOLO CONTE

Panegirico sul mio amico Lilliun dandy a caccia di talenti

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i saporiIn libreria

Esce, aggiornata a cura dell’Università di Pollenzo,la Grande enciclopedia illustrata della gastronomiafirmata Guarnaschelli Gotti. Un viaggio nelle tradizioniculinarie, una miniera di ricette, ma anche un termometroche segnala quanto, in vent’anni, il cibo e i suoi sacerdotisiano diventati protagonisti centrali della nostra società

42 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 9DICEMBRE 2007

AutoctonoIl limite di un tempo è diventatoprivilegio di oggi. Non soloi vitigni, ma anche la frutta,le verdure, le razze. Dalla peramadernassa alla vacca rossareggiana fino al nero d’Avola,sono colture e allevamentifortemente legati al territoriod’origine

ABrunoiseUno degli esercizi di cucinapiù noiosi e pignoli per chilo pratica. Ma le verdure(o la frutta, nella cucinainnovativa) tagliate in minuscolicubetti, grandi poco piùdi una lenticchia, al palatoriescono godibili e di grandepiacevolezza cromatica

BCartoccioUtile e dilettevole riunitiin un fagottino cartaceoLa capacità di imprigionare gustie aromi nella carta pergamenatachiusa (accartocciata) permetteanche di limitare al minimol’uso dei condimenti, esaltandol’odore di erbe e speziee limitando il sale

CDopLa protezione dei cibi più buonidel mondo passa dalla dicitura“denominazione di origineprotetta”, quella dei viniè “controllata” (doc) oppure“controllata e garantita” (docg)I disciplinari di produzionesono depositati pressol’Unione Europea

DEstrattoInventato dal dottor Liebigper dare proteinea chi non si poteva permetterela carne, veniva aggiuntoalle pietanze o spalmatosul pane. Il concetto,banalizzato e molto peggiorato,è stato applicato alla produzionedei dadi da brodo

E

ZestaLa scorza sottratta alla bucciadegli agrumi con un coltellinoaffilato o un tagliapatate –per evitare l’amaro datodalla parte bianca – regalaprofumo e freschezzanelle preparazioni dolci e salateFondamentale usare soloarance e limoni biologici

ZVitamineI piccoli tesori indispensabilialla salute sono largamentepresenti nelle produzioniagricole non contaminatedalla chimica. L’industriafarmaceutica tende a restituiresotto forma di integratoriciò che viene sottrattodalle lavorazioni industriali

VUmidoLa cottura che privilegia l’usodi liquidi per manteneree incrementare morbidezzae scioglievolezzadelle preparazioni è spessoabbinata a cotture lunghee lente. Nella cucina sottovuoto,si prepara aggiungendonepochissima quantità e sigillando

UL’OPERA

È in libreria per i tipidi Mondadori la GrandeEnciclopedia illustrata della gastronomia(1152 pagine, oltre 1000immagini, 80 euro)curata da MarcoGuarnaschelli Gotti,Lo storico librodei gourmet si presenta ora in un’edizioneaggiornata da CarloPetrini e dagli espertidell'Università di ScienzeGastronomiche

Le ventuno vociproposte in questepagine sono presentinell’opera, ma sono stateda noi rielaborate per darconto dell’evoluzionedella gastronomiaitaliana degli ultimi anni

Siamo a un passo dal Natale. Borse del-la spesa rigonfie, menù in continuo ag-giornamento, libri di cucina consulta-ti freneticamente per recuperare unaricetta antica o provare quella nuovis-sima che farà parlare di voi in tutte le

prossime riunioni di famiglia. Ma delle goderec-ce, sensualissime, eccessive ostriche fritte gu-state in Francia non c’è traccia da nessunaparte. Altra ricetta, altro problema. Dicono:aggiungere un poco di levistico. Come sefosse facile: saràuna spezia o unasalsa esotica, un or-taggio sconosciutoo una polvere magica? E ancora. C’è sem-pre un amico gourmand che dispensa per-le di saggezza enologica. Per il primo dei tan-ti brindisi di fine anno, voilà una bicchierata au-gurale col vino nuovo. A dicembre? Certo, graziealla macerazione carbonica è già pronto, anzi, vabevuto adesso, che a primavera ha già perso il me-

glio di sé. Annuiamo e mettiamo la carbonicanel-l’elenco di cose che prima o poi impareremo. Sen-za parlare delle dispute tra i sostenitori del pollo al-la cacciatora col pomodoro e chi inorridisce soloall’idea rivendicando come indispensabili aceto erosmarino.

Deve essere nata così, la Grande enciclopedia il-lustrata della gastronomia che da trent’anni aquesta parte viene assimilata a una bibbia laicaper migliaia di appassionati dei fornelli. Una cu-riosità dietro l’altra, una definizione dietro l’altra.Ma anche l’esigenza colta di mettere un punto atutta l’incredibile messe di informazioni che ruo-ta intorno al mondo della cucina. Con una son-tuosa varietà di voci dotte, storiche, inamovibili, emoltissime altre in aggiornamento continuo.

Scopriamo così che le ostriche fritte nascono inGiappone, vanno infarinate e passate nell’uovosbattuto, cotte a centosessanta gradi per tre mi-nuti e servite con prezzemolo fritto in un’altra pa-della. Che il levistico è un sedano di montagna dalgusto aromatico e marcato. Che la macerazionecarbonica è una non-pigiatura dell’uva in vaschesature di anidride carbonica: la fermentazione av-viene all’interno degli acini e il vino conserva tut-ta la freschezza di una spremuta d’uva. E che la di-zione “alla cacciatora” non definisce una sola ri-cetta ma almeno due: una — arrossata di pomo-doro e ammorbidita dalla cottura umida — nata alnord, e l’altra — quella in bianco, con aceto e odo-ri — figlia della cultura dell’Italia centrale.

La nuova edizione arriva dove quella storica sifermava, perché nulla ci resti più segreto, dagli in-sondabili comandamenti del soufflé, che ancoraci respingono — perfetto in forno, tristemente ri-piegato su se stesso un attimo dopo esserne usci-to — alle tipologie di finger food con cui affascina-re gli amici alla prossima cena. Tutto quello cheavreste voluto sapere sulla gastronomia e nonavete mai osato chiedere.

L’Italia da mangiaretorna la gastro-bibbia

LICIA GRANELLO

CucinaAdalla

allaZ

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Io non posso che tornare con la mente ai tempi in cui essere gastrono-mo significava soprattutto essere autodidatta. Si avevano a disposizio-ne pochi libri o guide, era una scoperta continua di un mondo e di una

disciplina che oggi si è molto evoluta e va continuamente autodefinendo-si. Anche soltanto una ventina d’anni fa essere gastronomi non era facile,tutta la grande moda e l’attenzione che oggi i media riservano al tema nonesisteva, e il confine con il puro folclore era sempre molto labile. Pochigrandi, mitici, personaggi insegnavano, divulgavano con maestria le lorostorie, i loro consigli, i racconti dei prodotti tradizionali e del vino. Noi gio-vani appassionati ci facevamo affascinare dai loro scritti che parlavano distoria popolare, di vita contadina, di piacere semplici e profondi.

Era la riscoperta, la prima vera codificazione della nostra cultura mate-riale in un momento in cui essa cominciava ad andare in crisi: la moder-nità tendeva a omologare e quindi a cancellare le diversità, la ricchezza deinostri patrimoni regionali correva il rischio di sparire in nome di qualcosadi più freddo, senz’anima, cultura, gusto.

La Grande enciclopedia illustrata della gastronomia di GuarnaschelliGotti era un compendio indispensabile per gli addetti ai lavori e per i sem-plici appassionati: la rara copiache abbiamo nella sede di SlowFood Editore sta ancora là, inbella mostra nella nostra bi-blioteca, tutta consunta da an-ni e anni di consultazioni, do-po aver accompagnato in re-dazione la nascita di tutte lenostre pubblicazioni. Rian-dando nuovamente a queglianni “ruggenti” della pubblici-stica gastronomica, ci si accorge di quanto il concetto stesso di gastrono-mia sia cambiato in questi anni.

Da un lato molto si è fatto per la salvaguardia dei prodotti e delle tradi-zioni che rischiavano di scomparire. [...] D’altro lato però è pure vero chequesta coscienza non è ancora così lucidamente diffusa, nonostante la ga-stronomia abbia ottenuto sempre maggiore spazio sui media. Perché pro-prio sui media spesso il tema gastronomico è affrontato con grande su-perficialità, limitandosi agli aspetti culinari, alla semplice ricettistica perintenderci. Questo non fa giustizia alla gastronomia, che ritengo sia unavera e propria scienza, riguardante, come già sosteneva Jean-AnthelmeBrillat-Savarin nella sua Fisiologia del Gusto, «tutto ciò che è inerente al-l’uomo in quanto egli si nutre».

Una definizione giustamente così ampia ci fa immediatamente capirecome le implicazioni della gastronomia possano essere culturali, sociali,economiche, storiche, agricole, scientifiche, mediche, antropologiche. Iomi spingerei anche oltre, legando lo studio gastronomico anche a tuttoquanto è espressione di cultura popolare e materiale: musica, architettu-ra, oralità, i famosi “usi e costumi”. Ritengo la gastronomia una vera e pro-pria scienza, una disciplina complessa e a sé stante. [...]

© 2007 Arnoldo Mondadori Editore Spa, Milano

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 43DOMENICA 9DICEMBRE 2007

Finger foodDalle tartine gustate davantialla tv ai bocconi masticatial banco della happy hour,la riscoperta del cibo afferratocon le mani (monodose)è diventata moda negli eventiche prevedono pranzi o cenea buffet. Gli chef si scatenanoin presentazioni artistiche

FGourmetAggiornamento della figuradel ghiottone-mangione,panciuto, rubizzo, falsamentebonario. Il gourmet è adessogastro-colto, predilige la qualitàalla quantità, assaggiae non si abbuffa, è sensibileall’ambiente e alla sostenibilitàdelle produzioni alimentari

GHummusUno degli antipasti cardinedelle cucine del bassoMediterraneo, mix golosoe salutare di legumi (passatodi fave o ceci) e semi oleosi(sesamo). Viene spalmatosu pane e crostini o abbinatoalle verdure, accompagnaanche le carni bianche

HImbiondireLa morte del soffritto, praticapopolarissima nella cucinad’antàn, ha coincisocon la scelta di far prenderesapore a fuoco più morbido,così da ridurre al minimola degradazione dei grassiCipolla, aglio, porri, assumonoun colore dorato

ILeccardaSa di Medioevo la parolache identifica il piatto sagomatoappoggiato sotto lo spiedoper raccogliere il sugodelle carni arrostiteCon il “grasso che cola” e l’aiutodi un cucchiaio dal manicolungo (o rametti di rosmarino),si unge la superficie abbrustolita

L

MolecolareLa nuova frontiera della cucinaprevede l’interazionedi conoscenze con chimicae fisica, grazie alle qualimigliorano sapore e salubrità:mousse senza panna, cotturesottovuoto a bassa temperaturao con l’azoto liquido,frittura nello zucchero

M

NovellameGli avanotti dei pesci sonouna prelibatezza della cucinamarinara, crudi, sbollentati,in coccio o pastellati. Bianchetti(sardine), rossetti (triglie)e piccoli di anguille,(ceche in toscano, angulasin Spagna) sono protettidal fermo biologico stagionale

N

OffellaL’antica, semplice focaccinadolce, nei secoli si è arricchitadi tutta la fragranza del burro

e della lievitazione naturale,tanto che in alcune zonetra Lombardia e Venetofa concorrenza al panettoneLa parola offelleria è sinonimodi pasticceria

O

TostaturaLa cottura a secco di chicchi,semi, fave, incide moltissimosul gusto finale a secondadi tecnica e gradi. Dal maltoper il whisky alle farine, finoa cioccolato, caffè e semi oleosi,ogni tostatore ha una ricettapersonale per ottenere saporipiù o meno marcati

TSifoneReinventato dallo chef catalanoFerran Adrià, è lo stessothermos a pressione con cuisi montano panna e seltzPassate al setaccio fine cremedolci o purè di verdure,e caricata la bombolacon le capsule, si ottengonomousse leggerissime

SRidurreLa tecnica di concentrazionefa parte di moltissime ricetteper salse e sughi, da quelleclassiche (vale a dire fondidi cottura, arrosti, brasati)alle più recenti a base di acetobalsamico, birra, salsa di soiaEvaporata l’acqua, si nappano(velano) carni e pesci

RQuicheLa tradizionale torta salatafrancese ha nella lorraine,con formaggio, pannae prosciutto, la ricettapiù conosciuta. Le varianti sonoinfinite e sposano la tradizionemediterranea delle torted’erbette o quella anglosassoneche utilizza il salmone

QPestelloEliminato dalla dittaturadel cutter (il robot tritatutto),il piccolo arnese di legnoindissolubilmente legato all’usodel mortaio è difeso a spadatratta dai puristi della cucinaIl calore delle lame e il taglio,infatti, alterano gustoe consistenza delle erbe

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Noi, pionieri Slow Foode quel libro bussolaCARLO PETRINI

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le tendenzeModa e stagioni

Le temperature continuano ad alzarsi, sparisconodagli armadi gli abiti pesanti, i cappotti vengono indossatipochissimo. Gli stilisti americani hanno già inseritotra i propri consulenti i meteorologi, in Italia s’imponeil look multistrato.E nelle nostre case tornano in augeplaid e pantofole di lana per risparmiare sulla bolletta

44 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 9DICEMBRE 2007

L’inverno, quello vero, sembra un lontano ricordo.È sparita la stagione prediletta dagli animi piùmalinconici. Dissolta nel nulla. Di conseguenzala vita va riorganizzata, a partire dal guardaroba.Negli Stati Uniti gli stilisti, prima di disegnare leloro collezioni autunno-inverno, pare siano ri-

corsi a un’attenta attività di spionaggio climatico. Nulla è statodisegnato, e prodotto, prima di aver ascoltato il parere d’inediti“consulenti meteo” chiamati a pronunciarsi sul “dove si fer-merà il termometro”. È inutile, devono aver ragionato le griffe,disegnare pellicce e cappotti destinati ad affollare i negozi perpoi rimanere invenduti.

In Italia le temperature sono cresciute, negli ultimi cin-quant’anni, di circa un grado e mezzo. Ciò significa che l’avanza-ta del caldo ha viaggiato alla velocità di 2,8 gradi per secolo, quat-tro volte più rapidamente della media mondiale degli ultimi cen-to anni. Guardando i termometri di gennaio, stabilmente sopra idiciotto gradi, ci si scambiano occhiate luttuose da Palermo a Bol-zano ricordando l’inverno che fu. E dunque, come i colleghi ma-de in Usa, anche gli stilisti italiani si organizzano per offrire un lookmultistrato, che vada bene quasi tutto l’anno. «Ormai il cambio distagione si fa solo per le pellicce e i bikini», scherza la stilista Lau-ra Biagiotti, «tutto il guardaroba vive nella contemporaneità e siportano i sandali sino a novembre». E proprio lei, consacrata dalNew York Times come la regina del cachemire, consiglia: «Vesti-tevi di provvidenziali strati con mantelle e grandi sciarpe: il ca-chemire resiste perché è leggerissimo ma caldo. E, se possibile,evitate di fare come gli inglesi che nei salotti parlano solo del tem-po che cambia».

Naturalmente il futuro tropicale è ancora lontano e gli appar-tamenti continuano ad essere intiepiditi, se pur con il termostatoorientato su gradazioni più soft. Anche perché, le recenti quota-

zioni vertiginose del petrolio, spingono a premere piuttosto a ma-lincuore il tasto “on” della caldaia. Per invogliare i consumatori,in preda a un’inevitabile crisi di vocazione, le aziende produttricidi caloriferi, stufe e coperte hanno aguzzato l’ingegno. Come di-retta conseguenza l’autunno-inverno 2008 si è aperto all’insegnadel caldo griffato. A subire la più sconvolgente mutazione sono ivecchi caloriferi. Più simili a opere d’arte destinate a gallerie d’a-vanguardia, i nuovi termosifoni sono solo lontani parenti dei tra-dizionali blocchi di ghisa. Progettati dai maestri del design con-temporaneo sono belli da vedere e da toccare, con le loro formebombate e avveniristiche. Nomi come Ron Arad, Karim Rashid eMassimo Iosa Ghini si sono scomodati per realizzare un riscalda-mento dall’anima hi tech, all’altezza dei clienti più sofisticati.

Ma c’è dell’altro. Anche il look casalingo subisce una muta-zione. Meglio un golf in più e un’ora di caldaia in meno. Filoso-fia applaudita dagli ecologisti che tremano al pensiero dei gasserra e del surriscaldamento del pianeta. Calzerotti bucati e golfsformati sono tramutati in capi quasi da sfilata. Colori vivaci,sfumature moderne. Chi l’avrebbe detto che, grazie alla crisi deldollaro, anche la vestaglia sarebbe diventata glamour. E i plaidvivono la loro “second life”. Se un tempo erano relegati in qual-che cassetto e tirati fuori solo all’occorrenza, ora sono impudi-camente esposti, esibiti e mostrati. In materiali più preziosi de-gli abiti, con tessiture di eleganza ricercata, sono anche un rega-lo utile ma soprattutto chic.

E per i più piccoli le novità non mancano. Oggi, grazie allenuove fibre, i bambini sgambettano per la casa con capi legge-ri ma tiepidi al punto giusto. Finalmente liberi, sono tra i pochiad esultare per la fine dell’inverno, sostituito da una sorta dimonostagione lunga dodici mesi.

IRENE MARIA SCALISE

Il tempo fa i capriccicambiano i consumi

FUMO DI LONDRAPer chi vuole anchela pantofola all’ultimamoda Bottega Venetaha pensatoalle scarpe da casain puro shearlingfumo di Londra

PROVE ESAGONALIDisegnato da Jamesdi Marco per la lineaCaleido fine designdi Co-Ge.Fin,Honey Honeyè un elegantecalorifero a moduliesagonalidalle diverseprofondità

SCELTE ESTIVESi chiamano Mammoth le Crocsper il grande freddo con rivestimentointerno in pelliccia ecologica. Quelliche le hanno scelte d’estate, oranon potranno farne a meno

COME NELLA GIUNGLAÈ comodissima ma anche un po’

audace, per la scelta della fantasiain stile animalier, la coperta bianca

e nera firmata Missoni HomeUn originale regalo di Natale

MORBIDE TENTAZIONISono di Cucinelli

le morbide e lunghecalze in cachemire

grigio. Perfetteper le serate casalinghe

ma la tentazioneè di portarle, almeno

ogni tanto,per andare al lavoro

Repubblica Nazionale

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LA DOMENICA DI REPUBBLICA 45DOMENICA 9DICEMBRE 2007

Quando ero ragazzino, a Natale sul lungomare di Sanremo pas-savano le sciure lombarde e le madamin piemontesi blindatedentro grosse pellicce, pochi visoni per le poche ricche, qual-

che raro leopardo per cafonissime mantenute o simil-soraye aspi-ranti al jet-set, e una moltitudine di tristi “castorini” per i plotoni dimadri di famiglia piccolo-borghesi dai lombi forti che scendevano inRiviera per vedere l’effetto che fa.

Con una punta di allegro classismo, gli adulti di famiglia mi face-vano notare le fronti imperlate di sudore di tutte quelle militanti delbenessere, che pur di sfoggiare la pelliccia sfidavano i quindici gradie rotti di quei Natali rivieraschi, che sono da sempre quasi primave-rili. E si scioglievano come coni gelati dentro quelle cappe torride, chesolo a vederle mettevano tenerezza per quanto incongruo era il lorouso. Mancava, all’epoca, una qualunque sensibilità animalista a pro-posito di quel pelo. La pelliccia era piuttosto l’oggetto di una diffusae bonaria satira sociale, con robuste venature anti-femminili, figura-va nelle barzellette e negli sketch dei comici come tipico feticcio del-le signore che volevano mostrarsi in ascesa, il marito ostentava la ci-lindrata della macchina e “la sua signora” qualche metro quadrato dibestia assortita, raramente esotica, frequentemente conigli o toponiindigeni, con tanto di leggende pre-metropolitane che attribuivanoil misterioso astrakan al barboncino, allora prediletto dalle signoreanche da vivo.

Poi credo sia cambiato il clima, non tanto e non solo quello meteo,anche il clima sociale. Gli anni Settanta, con tutti i loro difetti, non so-no passati del tutto invano. A parte le varie asperità animaliste, contutte quelle gabbie aperte e quei poveri mustelidi dispersi per la tristePadania a finire sotto le macchine, l’abbigliamento è diventato in ge-nere meno pomposo, meno gerarchico, più casuale. E più funziona-le. Piumini di ogni consistenza e prezzo, materiali nuovissimi, fannole veci della pelliccia in molti guardaroba, se vogliamo fin troppo tra-scurati e rassegnati al sintetico. L’ansia sociale, anche quella femmi-nile, si indirizza verso altre mete, e per esempio la chirurgia esteticafarebbe pensare che l’accanimento sadico contro gli esseri viventi sistia lentamente trasferendo dagli ocelot, dai visoni e dagli ermelliniall’uomo. Sullo stesso lungomare di cui sopra, lo stesso sguardo di-vertito che un tempo si rivolgeva alle goffe silhouette delle impellic-ciate, oggi lo si rivolge alle rifatte, ai loro assurdi lineamenti egizi, acerti nasi che la pelle tirata mantiene tesi come corde di chitarra, epuntuti come pungiglioni.

Sì, si vedono in giro meno pellicce, ultimamente, gli inverni menorigidi hanno aiutato i ripensamenti, favorito le ristrutturazioni del-l’estetica. La leggerezza sembra un pochino meno lontana, comeidea, molte pellicce sbucano dagli armadi o dai caveaux quasi comeuna citazione dei (bei?) tempi andati. In Liguria, e suppongo anchealtrove, i molto citati nuovi ricchi dell’Est arrivano in parecchi, conpile di carte di credito grosse come mazzi di carte, ma perfino le lorodonne sono meno impellicciate di quanto si potrebbe supporre, al-meno quando sbarcano nei nostri climi che a loro devono parere qua-si tropicali. La pelliccia, eccettuati i picchi di eccentricità o di lusso, leprime scaligere, i cenoni per superabbienti, sta tornando a esserequello che è dai tempi dei tempi, un capo d’abbigliamento etnico, an-cestrale, nordico, la scimmia nuda che impara a coprirsi con il pelodelle altre bestie. Ampiamente surrogata, nell’abbigliamento di mas-sa, dall’industria tessile e chimica, dai manufatti moderni.

Non si vede neanche più la mitica pubblicità Annabella con AlainDelon, che fu un must degli anni Ottanta, quelli dell’ultimo e ingor-do boom, in televisione era ovunque, la pelliccia oggetto comune co-me un sapone o un aspirapolvere, la pelliccia per tutte, e rateazioniper ogni tasca. Non so come sia messo il mercato, ma la pelliccia inquanto mito sociale, involucro risolutivo per le signore amate e benprotette, non c’è più. Tanto che nessuno, sentendo in televisione Cet-to Laqualunque (Antonio Albanese) che invoca «chiù pilu pe’ tutti»,più pelo per tutti, rischia di equivocare. Il pelo di cui si parla è certa-mente di origine umana.

TACCO D’OBBLIGOPer chi anche in casanon vuole rinunciare

al tacco c’è il tronchettodi Paco Gil con scollatura

in lana grigio scuroIl piede è caldo

e l’eleganza è salva

DOPPIA ELLISSEL’idea di un modulo

tridimensionale a doppiaellisse ha generato

il radiatore ArabesqueUn movimento di linee

sinuose di tubi in acciaioinox ideato da Ron Aradper Tubor. Un calorifero

effetto scultura

QUESTIONE DI LUSSOPer le superchic, dentroe fuori casa, eccola proposta di LoroPiana: plaid in marmottadalla tonalità dorata,doppiato in cachemiree bordato in suèdeCosì il tepore diventauna questione di lusso

SOTTO LA GIACCAPettorina

con cappuccioed elastico in vita,

antipioggia,caldissima. Nataper “completare”la giacca. In nylon

lucido con imbottiturain piuma. Di Outrage

TUTTI IN VIAGGIOCoperta in pile doppiata in pelodi Beretta. Morbidissima, si puòarrotolare e legare con appositestringhe di cuoio. Perfettaanche da portarsi in viaggio

BAMBINE VANITOSEPiaceranno alle bambine più vanitose

le pantofole da casa in lana cotta proposteda Giesswein. La fantasia rigata alla caviglia

riprende il tono arancio acceso utilizzatoper il piede. Modello disponibile in vari colori

BEBÈ COCCOLATOÈ di Saga Furs il porte enfant morbido

e peloso. Può essere molto utileper trasportare comodamente il bimbofuori casa o per farlo riposare all’interno

di una stanza non troppo riscaldata

PROTEZIONE CHICÈ lungo quasisino al gomitoil guanto grigioin morbidanappa e lapindi PolliniAssicurauna protezionechic controi rigori dell’inverno

La scimmia nuda in pellicciaun mito sconfitto dal clima

MICHELE SERRA

Repubblica Nazionale

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‘‘

‘‘l’incontroDive

PARIGI

Ha lo sguardo fermo e soli-tario di un gatto. Un po’sfinge, un po’ luna. Im-mutabile. Ogni nuovo

incontro è un ritorno al futuro, un giro-tondo del tempo che sempre ne resti-tuisce, intatto, il candore carnale, oggicome dieci, venti, trent’anni fa. È dal ‘69che “The Look”, come l’hanno ribattez-zata con amorevole fierezza i Cahiers

du Cinéma per l’aspetto vellutatamen-te circolare, si offre tra calibrati andiri-vieni tra schermo, teatro, musica, esempre più prolungate sparizioni, in-terrotte da epifanie-evento. L’annoscorso, Maria Stuarda di Hildeshei-mer. Quest’anno, Figaro, fiction tv daBeaumarchais, in dicembre su France3, e il nuovo album, B.O., atteso a Nata-le, «un film senza immagini», come leilo definisce, su musiche di Pascal Obi-spo. I suoi ritorni sono, ogni volta, undiluvio di promesse: «Sono già al lavo-ro su un altro album, che dovrebbeuscire alla fine del 2008». Il cinema, perora, è in volo tra Parigi e Los Angeles (enei cumuli di valigie sparse per il suoappartamento): tanti meeting oltreAtlantico per un film da girare l’annoprossimo. Mentre lei attende, la sua so-cietà di produzione, Isia Films, è lì chescalpita: «Ho acquisito i diritti d’un li-bro, Une vie bouleversée di Etty Hille-sum, filiazione di Se questo è un uomo

di Primo Levi, contrappunto adulto alDiario di Anna Frank: rivolge unosguardo pieno di compassione all’es-sere umano travolto dall’odio nazista.Sto cercando un partner, meglio, unmecenate: è un film da fare esistere, as-solutamente. Sarebbe un messaggiod’amore universale».

Isabelle Adjani risplende di questi af-fanni infantili con cui s’accanisce a rin-correre il presente, anche quello di ierie dell’altro ieri, sgomitolandosi da unadedizione fatale a eroine antiche, resetattili sullo schermo dalle sue mani digiovane antenata, dall’azzurro dei suoiocchi di cammeo, in Adele H., Nosfera-

tu, Camille Claudel, La Regina Mar-

got... Vortici cinematografici, che ognivolta la riprecipitano dentro gonne eangosce ottocentesche, settecente-sche (il prossimo Figaro), persino rina-scimentali: «È vero, da sempre ho undebole per figure di vittima eroica, didonna perdente, ma anche una com-plicità difensiva con chi non accetta disacrificarsi, come in L’estate assassinaoin Toxic Affair». Il repertorio quasiesclusivo di sventurate sublimi è statoper lei un buon apprendistato nellequestioni di cuore? «Al contrario — ri-de l’attrice — Sono io che ho insegnatoloro qualcosa! Sono una regina di dolo-ri solo in via provvisoria, il tempo di unfilm. E non so piangere sulla mia sorteche prendendo in giro le mie lacrime».Vivere, e recitare, è per la Adjani, confrase rubata a Camille Claudel, «far gi-rare la statua», cercare le ombre attor-no alla propria immagine. Tornio elet-to per farsi “scolpire” e riscoprire, in ga-ra di martirio col suo personaggio, è,vent’anni fa, la scultrice sorella del poe-ta Paul Claudel (da lui definita «un mi-stero in piena luce»), allieva e amante diAuguste Rodin, trascinata nella folliadall’eccesso di richieste vitali rimasteinappagate. Isabelle come Camille(culmine anche della lunga relazionecol regista, Bruno Nuytten, cui ventot-to anni fa ha dato un figlio, Barnabé)?«Chissà: all’inizio questa giovane hatutto, benessere, doti, successo, e viavia perde tutto, fino a distruggersi. Nonè la parabola dell’attrice?».

Nella Claudel, al tempo delle riprese,la Adjani ha ritrovato coincidenze or-gogliose anche di fronte alla fastidiosapersecuzione di media che la volevanosieropositiva, addirittura morta, co-stringendola a un’immediata smentitavideo. Diva e martire, pure lei, “misteroin piena luce”, esaltata dai riflettori, in-fangata dal pettegolezzo. Acclamata ereietta, come Camille, finita in manico-mio, anche perché spediva escrementiper posta: «Ma lo faceva con i potenti,come il ministro delle Belle arti. Ho se-guito il suo esempio quando la miabanca, cui erano arrivate le voci chefossi colpita dall’Aids, mi ha sollecitataper un conto scoperto, come a dire:sbrighiamoci, prima che crepi... Conamici ho raccolto ai Jardins du Luxem-bourg merdine di cane, né troppo durené troppo molli, e le ho messe nella bu-sta con l’assegno».

Adorazione e dispetto, ammirazionee malevolenze sono il flusso-riflussoche da sempre accompagna il suo an-dare e venire alla ribalta. La platea chela circonda di premure è la prima a ne-garle il diritto d’appartarsi. Meglio ma-

perduto, quando ha ripreso a lavorare?«Non c’è stato tempo perduto, ma tem-po donato. La vita vince sempre. È la vi-ta che mi toglie al cinema, talora per pe-riodi troppo lunghi, ma è sempre la vi-ta che mi ci riporta».

Esemplare protetto nella sparuta ri-serva transalpina di star — accanto aFanny Ardant, Catherine Deneuve, Isa-belle Huppert, Juliette Binoche —, èl’unica a avere fatto del grande scher-mo il suo altare del sacrificio: bella tra lespire d’una bestia infernale (Possession

di Andrzey Zulawski), stuzzicante Ju-stine in morbosi meandri domestici(Quartet di James Ivory), pedina di la-birinti grotteschi (L’inquilino del terzo

pianodi Roman Polanski) o romantica-mente carbonari (Subway di Luc Bes-son), stremata dal destino in Barocco eLe sorelle Brontë di André Téchiné (en-trambi riproposti nella prima persona-le italiana del regista, al Sottodiciotto diTorino dal 6 al 15 dicembre). Una lun-ga collezione di disinganni, macerazio-ni, autoflagellazioni. E di premi d’inter-pretazione: due nomination all’Oscar,Palme d’or a Cannes, Orso a Berlino,quattro Césars (un primato), GrandPrix des Amériques a Montreal, tre an-ni fa, attribuito per la prima volta aun’attrice francese.

In questo carosello d’allori e tormen-ti, sfavilla Adele H., magico incrocio dicolpi di fulmine: della Adjani, che deci-de di divenire attrice dopo aver visto nel‘69, a quattordici anni, il film diFrançois Truffaut La mia droga si chia-

ma Julie, e di Truffaut che scopre laAdjani in tv (come succederà per la Ar-dant) — «la sola che mi abbia fatto pian-gere davanti al piccolo schermo» —nella registrazione di La scuola delle

mogli, la rivede nel ‘74 nel film La gifle

di Claude Pinoteau e la induce a rom-pere il contratto con la ComédieFrançaise, rinviando le riprese, purchésia lei la protagonista, anche se troppogiovane rispetto al personaggio dellasecondogenita di Victor Hugo. «Un in-contro insperato, di cui non ho capitosubito l’importanza: prematuro, pur-troppo — è il suo rimpianto — Ero trop-po giovane, una debuttante. Lui nutri-va il desiderio, come ha poi scritto stu-pendamente, di rubarmi, filmandomi,qualcosa di prezioso, “tutto quel chesuccede in un volto e in un corpo in pie-na trasformazione”. Mi è rimasta la fru-strazione di non aver girato di nuovocon lui. Mi ha trasmesso allora il suoamore del cinema. M’ha insegnatoquel che è importante e non importan-te in un film: e mi ha fatto capire che latecnica non è il contrario della verità».Truffaut, sul set, sapeva anche inna-morare e innamorarsi: «Ma io avevo di-ciannove anni ed ero vergine. Neanchea parlarne».

Cresciuta a Gennevilliers, ai marginidi Parigi, in una famiglia di rigidi princì-pi — padre algerino e madre tedesca —la Adjani ne ha tratto l’immobile bel-lezza d’effigie egizia e l’indole cocciuta,

lata che inattiva. «Non è un caso che miabbiano attribuito un male che sfigura,che infetta la bellezza». Come se i pro-lungati ritiri d’amore — negli anni No-vanta, a Londra, con Daniel Day Lewis,cui deve il secondo figlio, Daniel-Kane,di dodici anni, poi, fino al 2004, conJean-Michel Jarre, l’ex di CharlotteRampling — fossero il suo tradimentodel pubblico, sparizioni troppo altere,un inaccettabile “mistero in pienobuio”: «Esistere e sparire fa parte dellemie libertà». Persino l’identità anagra-fica è per lei uno stato interiore: «Perstare vicino a Day Lewis, avevo abban-donato la Francia, divenendo residen-te inglese. Il mio Paese è dove è la miavita. Per tre anni la mia esistenza è sta-ta più bella di qualsiasi film. Perchéqualcosa cambi, bisogna a volte assu-mersi il rischio di perdere tutto. Valeper l’amore come per il resto». Non hasentito di dover riguadagnare il tempo

combattiva, mai rassegnata, che l’hamessa sempre in trincea, risollevando-la pure da depressioni e delusioni amo-rose. Non solo Day Lewis, ma ancheJarre, contro cui, prendendo come leidice «il mio coraggio di budda a dodicimani», ha promosso tre anni fa, in anti-cipo su pubblici richiami all’ovile di fir-st ladies di casa nostra, una campagnastampa incandescente: «Anche in quelcaso, non ho voluto che i miei problemirimanessero privati, ma che divenisse-ro stimolo, per gli altri, a difendersi, areagire. Oggi si presta ascolto, talvolta,alle vittime di aggressioni fisiche. E levittime di aggressioni psichiche? Nellanostra società non sono aiutate, pro-tette. Ho voluto, partendo da me, met-tere in guardia dalle coercizioni emo-zionali, cercando anche di far cambia-re la legge francese, che non riconoscenella sfera privata la crudeltà mentale ola persecuzione morale».

Lo scorso ottobre, «Adjani la sauva-

ge» — altra etichetta francese, dovutaall’irruenza invasata dei suoi ruoli pas-sionali — s’è inalberata, firmando unapetizione, contro la decisione del go-verno francese di introdurre il test deldna per gli immigrati: «Un identikit ge-netico di chiara discriminazione xe-nofoba, per di più in un Paese dove tut-ti, me inclusa, siamo di sangue misto».Perché queste scariche elettriche,quando un fidanzato o un governo nonsi comportano come dovrebbero?«Una volta nella giostra dello spettaco-lo, diventiamo protagonisti dei media:non possiamo permetterci d’essere ar-tisti e basta, dobbiamo fare sentire lanostra voce, essere presenti, interveni-re. Sia nella sfera pubblica che privata,non bisogna mai avere paura, o vergo-gna, di rompere il cerchio che si chiudesu aggressore e vittima. Occorre solocoraggio. Io ce l’ho».

Quando la miabanca, cui eranoarrivate le vociche fossi colpitadall’Aids, mi hasollecitata per unoscoperto ho raccoltomerdine di canee le ho messe nellabusta con l’assegno

All’inizio fu un colpo di fulmineincrociato: lei che decide di farel’attrice guardando un filmdi Truffaut e lui che anni doposi innamora di lei guardandola

recitare in tv. Poi, unaserie di successi senzafine. “Da sempre”, dice,“ho un debole perfigure di vittima eroica,ma anche una complicità con le donne che nonvogliono sacrificarsi”

Una lezione che non l’ha messaal riparo dalle sofferenze d’amore ma che le ha insegnato a reagire

Isabelle Adjani

MARIO SERENELLINI

46 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 9DICEMBRE 2007

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Repubblica Nazionale