UDINE CITTA’ APERTAle, via Mercatovecchio. Il che vuol dire anche via Manin, piazza Libertà,...

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Periodico d’informazione culturale dell’Associazione “Gli Stelliniani” di Udine – Anno XVII – Numero 2 – Settembre 2018 Periodicità quadrimestrale – Spedizione in abbonamento postale – D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n. 46) art. 1, comma 1 DCB UDINE QUESTA RIVISTA È STATA PUBBLICATA CON IL CONTRIBUTO DELLA N el precedente numero della Voce abbiamo scritto come uno degli obiettivi della nostra associazione debba essere quello di intervenire nel dibattito che periodicamente si accende su argomenti di attualità, che riguardano il territorio in cui viviamo. È anche in questi interventi, infatti, e nel contributo costruttivo e critico che ne può derivare, che trova la propria ra- gion d’essere un sodalizio come il nostro, a cui si aggiungerà – se, come in questo caso, si parlerà di Udine – il piacere di parlare della nostra città. A questo proposito, il tema più discusso dell’estate udinese è stata certamente la decisione della nuova giunta comunale di ri- aprire al traffico fino al prossimo 31 gennaio, in via sperimenta- le, via Mercatovecchio. Il che vuol dire anche via Manin, piazza Libertà, piazza Marconi, riva Bartolini e piazza San Cristoforo. La pubblica opinione si è già schierata e, almeno fino ad ora, sem- bra che i contrari alla riapertura siano in maggioranza. A questo ‘partito’ appartengono moltissime persone con le quali ho avuto modo di confrontarmi e – lo confesso – appartengo anch’io, tan- to da essermi ripromesso di non entrare mai con l’auto in quelle stesse strade, nel segno di una convinta e spero vittoriosa ‘obie- zione civica’. Ciò non toglie che una serena disamina della situazione richie- da di analizzare innanzitutto le cause che hanno portato fino a questo punto. I primi interventi di chiusura al traffico del centro storico udinese risalgono agli anni Ottanta e la realizzazione della Zona a Traffico Limitato in via Mercatovecchio e nel suo bacino di percorrenza è dei primi anni Novanta. Da allora sono trascorsi quasi trent’anni: un periodo eccezionalmente lungo, soprattutto in relazione alla velocità con cui oggi si consuma il tempo. Ep- pure, se cerco di ricordare com’erano trent’anni fa via Mercato- vecchio, via Manin e via Gemona, ma lo stesso potrei dire per via Vittorio Veneto, direi che erano esattamente come ora. Il traffico privato, cioè, era stato ridotto, ma l’arredo urbano, il fondo delle strade, i percorsi degli autobus, forse anche la posizione dei tavo- lini sui marciapiedi erano gli stessi che abbiamo conosciuto sino al luglio scorso. Da allora e per quasi trent’anni, mentre il mondo cambiava, mentre si passava dalla prima alla seconda repubblica, dalla lira all’euro, dall’emergenza della guerra fredda a quella dell’immi- grazione, tutto o quasi è rimasto immutato e apparentemente im- modificabile. La causa di questo immobilismo non è da imputare soltanto alle varie amministrazioni che si sono succedute (nono- stante tutte avessero fatto della chiusura e dell’arredo del centro la propria bandiera), ma anche al concorso di altri fattori, tra cui ragioni di bilancio, la cronica lentezza dei progetti di iniziativa pubblica, l’ostilità verso la pedonalizzazione che ha mantenuto una certa parte dei commercianti e, non da ultimo, il fatto che la stessa cittadinanza non abbia espresso con sufficiente energia il proprio consenso per quella soluzione. Di certo, però, faremmo un torto all’intelligenza se ci strappassimo le vesti per la speri- mentale riapertura, dimenticando quale enorme spreco di tempo, di progettualità e di occasioni è stato commesso nei tre decenni che l’hanno preceduta. Il severo giudizio che si deve esprimere riguardo al fatto che a Udine non sia stata portata a compimento la pedonalizzazione del centro storico non può tuttavia esimere da un giudizio ancor più severo sull’errore che verrebbe commesso, se la scelta della riapertura diventasse definitiva. E questo tema chiama in causa il ‘modello di città’ che si vuole proporre per Udine e a chi spetti di deciderlo. Cominciando da quest’ultimo aspetto, riteniamo che qualsiasi scelta non possa essere condizionata dalla volontà di una catego- ria e tantomeno da quella di alcuni soltanto dei suoi esponenti. Luoghi come Mercatovecchio e piazza Libertà sono infatti beni che appartengono a tutti e che hanno una fortissima valenza identitaria e simbolica. Una valenza di cui ogni giunta e ogni cit- tadinanza devono essere consapevoli, perché queste strade, que- sti portici e queste piazze sono il teatro della storia comune e lo spazio della memoria condivisa Passando al modello da realizzare, chi abbia visitato una qua- lunque delle maggiori o minori città europee, sa bene che il centro di queste città è quasi interamente chiuso al traffico privato. È così a Trieste come a Treviso, a Klagenfurt come a Lubjana, a Lisbona come a Torino, a Firenze come a Napoli, a Roma come a Parigi, a Vienna come a Milano. Ed è, in parte, così anche a Udine, perché piazza San Giacomo e le strade circostanti, che si trovano esatta- mente accanto a quelle che sono state riaperte, sono rifiorite pro- prio quando sono state trasformate in isola pedonale. Restiamo sconcertati al pensiero che spazi raccolti come via Manin o riva Bartolini o monumentali come piazza Libertà o di grande valore ambientale come via Mercatovecchio tornino ad essere invasi dal- le macchine e già immaginiamo i rumori, le esalazioni e il disordi- ne che sarebbero prodotti dal traffico. Un traffico che sarebbe qua- si esclusivamente passivo, perché il cuore di Udine diventerebbe un mero asse di scorrimento e gli automobilisti navigherebbero alla ricerca di posti che, quasi sempre, troverebbero già occupati. Ma siamo altresì convinti che spesso è solo di fronte alle emer- genze e alle grandi sfide che la comunità dei cittadini trova rispo- ste adeguate e si scuote di dosso l’inerzia, l’indifferenza e l’apatia. Ecco perché vogliamo credere che sarà proprio la sperimentale riapertura di quelle vie a dimostrare il fallimento di questo ten- tativo e a convincere sull’esigenza di seguire un altro percorso. Un percorso che dovrà partire dalla consapevolezza che Udine ha già un meraviglioso centro storico, non solo e non tanto per la bellezza, ma soprattutto per la varietà degli elementi che lo compongono. Sono poche, infatti, le città che hanno una strada come via Mercatovecchio e scenari come quelli di piazza Libertà e di piazza San Giacomo. E sono ancora meno quelle che, pur tro- vandosi al centro di un’arida pianura, sono attraversate da corsi d’acqua ed hanno una collina con un Castello e oltre il Castello le gallerie dell’Arcivescovado, il Teatro e un Giardin Grande che dovrà finalmente diventare un Grande Giardino. E meno ancora sono quelle che, oltre a quegli spazi già ragguar- devoli, ne possono vantare altri come le piazze del Duomo, XX Settembre, Patriarcato, Garibaldi, San Cristoforo e Antonini: aree in buona parte incompiute, ma che una progettualità illuminata può trasformare in contesti non solo architettonicamente ma an- che culturalmente e commercialmente accoglienti e vitali. Questa è la Udine che vogliamo ed è su questo modello di città che anche la nostra associazione impegnerà le proprie forze e le proprie idee. Ma è una città che vogliamo subito, non fra altri trent’anni. Andrea Purinan 31 luglio 2018: manifestazione in via Mercatovecchio contro la riapertura al traffico del centro storico (dal «Messaggero Veneto» del 1° agosto 2018). UDINE CITTA’ APERTA MA NON AL TRAFFICO!

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  • Periodico d’informazione culturale dell’Associazione “Gli Stelliniani” di Udine – Anno XVII – Numero 2 – Settembre 2018Periodicità quadrimestrale – Spedizione in abbonamento postale – D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n. 46) art. 1, comma 1 DCB UDINE

    QUESTA RIVISTA È STATA PUBBLICATA CON IL CONTRIBUTO DELLA

    Nel precedente numero della Voce abbiamo scritto come uno degli obiettivi della nostra associazione debba essere quello di intervenire nel dibattito che periodicamente si accende su argomenti di attualità, che riguardano il territorio in cui viviamo. È anche in questi interventi, infatti, e nel contributo costruttivo e critico che ne può derivare, che trova la propria ra-gion d’essere un sodalizio come il nostro, a cui si aggiungerà – se, come in questo caso, si parlerà di Udine – il piacere di parlare della nostra città.

    A questo proposito, il tema più discusso dell’estate udinese è stata certamente la decisione della nuova giunta comunale di ri-aprire al traffico fino al prossimo 31 gennaio, in via sperimenta-le, via Mercatovecchio. Il che vuol dire anche via Manin, piazza Libertà, piazza Marconi, riva Bartolini e piazza San Cristoforo. La pubblica opinione si è già schierata e, almeno fino ad ora, sem-bra che i contrari alla riapertura siano in maggioranza. A questo ‘partito’ appartengono moltissime persone con le quali ho avuto modo di confrontarmi e – lo confesso – appartengo anch’io, tan-to da essermi ripromesso di non entrare mai con l’auto in quelle stesse strade, nel segno di una convinta e spero vittoriosa ‘obie-zione civica’.

    Ciò non toglie che una serena disamina della situazione richie-da di analizzare innanzitutto le cause che hanno portato fino a questo punto. I primi interventi di chiusura al traffico del centro storico udinese risalgono agli anni Ottanta e la realizzazione della Zona a Traffico Limitato in via Mercatovecchio e nel suo bacino di percorrenza è dei primi anni Novanta. Da allora sono trascorsi quasi trent’anni: un periodo eccezionalmente lungo, soprattutto in relazione alla velocità con cui oggi si consuma il tempo. Ep-pure, se cerco di ricordare com’erano trent’anni fa via Mercato-vecchio, via Manin e via Gemona, ma lo stesso potrei dire per via Vittorio Veneto, direi che erano esattamente come ora. Il traffico privato, cioè, era stato ridotto, ma l’arredo urbano, il fondo delle strade, i percorsi degli autobus, forse anche la posizione dei tavo-lini sui marciapiedi erano gli stessi che abbiamo conosciuto sino al luglio scorso.

    Da allora e per quasi trent’anni, mentre il mondo cambiava, mentre si passava dalla prima alla seconda repubblica, dalla lira all’euro, dall’emergenza della guerra fredda a quella dell’immi-grazione, tutto o quasi è rimasto immutato e apparentemente im-modificabile. La causa di questo immobilismo non è da imputare soltanto alle varie amministrazioni che si sono succedute (nono-stante tutte avessero fatto della chiusura e dell’arredo del centro la propria bandiera), ma anche al concorso di altri fattori, tra cui ragioni di bilancio, la cronica lentezza dei progetti di iniziativa pubblica, l’ostilità verso la pedonalizzazione che ha mantenuto una certa parte dei commercianti e, non da ultimo, il fatto che la stessa cittadinanza non abbia espresso con sufficiente energia il proprio consenso per quella soluzione. Di certo, però, faremmo un torto all’intelligenza se ci strappassimo le vesti per la speri-mentale riapertura, dimenticando quale enorme spreco di tempo, di progettualità e di occasioni è stato commesso nei tre decenni che l’hanno preceduta.

    Il severo giudizio che si deve esprimere riguardo al fatto che a Udine non sia stata portata a compimento la pedonalizzazione del centro storico non può tuttavia esimere da un giudizio ancor più severo sull’errore che verrebbe commesso, se la scelta della riapertura diventasse definitiva. E questo tema chiama in causa il ‘modello di città’ che si vuole proporre per Udine e a chi spetti di deciderlo.

    Cominciando da quest’ultimo aspetto, riteniamo che qualsiasi scelta non possa essere condizionata dalla volontà di una catego-

    ria e tantomeno da quella di alcuni soltanto dei suoi esponenti. Luoghi come Mercatovecchio e piazza Libertà sono infatti beni che appartengono a tutti e che hanno una fortissima valenza identitaria e simbolica. Una valenza di cui ogni giunta e ogni cit-tadinanza devono essere consapevoli, perché queste strade, que-sti portici e queste piazze sono il teatro della storia comune e lo spazio della memoria condivisa

    Passando al modello da realizzare, chi abbia visitato una qua-lunque delle maggiori o minori città europee, sa bene che il centro di queste città è quasi interamente chiuso al traffico privato. È così a Trieste come a Treviso, a Klagenfurt come a Lubjana, a Lisbona come a Torino, a Firenze come a Napoli, a Roma come a Parigi, a Vienna come a Milano. Ed è, in parte, così anche a Udine, perché piazza San Giacomo e le strade circostanti, che si trovano esatta-mente accanto a quelle che sono state riaperte, sono rifiorite pro-prio quando sono state trasformate in isola pedonale. Restiamo sconcertati al pensiero che spazi raccolti come via Manin o riva Bartolini o monumentali come piazza Libertà o di grande valore ambientale come via Mercatovecchio tornino ad essere invasi dal-le macchine e già immaginiamo i rumori, le esalazioni e il disordi-ne che sarebbero prodotti dal traffico. Un traffico che sarebbe qua-

    si esclusivamente passivo, perché il cuore di Udine diventerebbe un mero asse di scorrimento e gli automobilisti navigherebbero alla ricerca di posti che, quasi sempre, troverebbero già occupati.

    Ma siamo altresì convinti che spesso è solo di fronte alle emer-genze e alle grandi sfide che la comunità dei cittadini trova rispo-ste adeguate e si scuote di dosso l’inerzia, l’indifferenza e l’apatia. Ecco perché vogliamo credere che sarà proprio la sperimentale riapertura di quelle vie a dimostrare il fallimento di questo ten-tativo e a convincere sull’esigenza di seguire un altro percorso. Un percorso che dovrà partire dalla consapevolezza che Udine ha già un meraviglioso centro storico, non solo e non tanto per la bellezza, ma soprattutto per la varietà degli elementi che lo compongono. Sono poche, infatti, le città che hanno una strada come via Mercatovecchio e scenari come quelli di piazza Libertà e di piazza San Giacomo. E sono ancora meno quelle che, pur tro-vandosi al centro di un’arida pianura, sono attraversate da corsi d’acqua ed hanno una collina con un Castello e oltre il Castello le gallerie dell’Arcivescovado, il Teatro e un Giardin Grande che dovrà finalmente diventare un Grande Giardino.

    E meno ancora sono quelle che, oltre a quegli spazi già ragguar-devoli, ne possono vantare altri come le piazze del Duomo, XX Settembre, Patriarcato, Garibaldi, San Cristoforo e Antonini: aree in buona parte incompiute, ma che una progettualità illuminata può trasformare in contesti non solo architettonicamente ma an-che culturalmente e commercialmente accoglienti e vitali.

    Questa è la Udine che vogliamo ed è su questo modello di città che anche la nostra associazione impegnerà le proprie forze e le proprie idee. Ma è una città che vogliamo subito, non fra altri trent’anni.

    Andrea Purinan

    31 luglio 2018: manifestazione in via Mercatovecchio contro la riapertura al traffico del centro storico (dal «Messaggero Veneto» del 1° agosto 2018).

    UDINE CITTA’ APERTAMA NON AL TRAFFICO!

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    I PROGETTI DEGLI STELLINIANI

    PROGETTO DIRITTO E GIUSTIZIA 2017/2018Il nichilismo della cultura moderna e postmoderna

    L’intervento del prof. Mauro Ferrari. Alla sua sinistra l’avv. Gabriele Damiani e il prof. Daniele Picierno; alla sua destra l’avv. Andrea Purinan e la prof.ssa Elettra Patti.

    Il progetto ‘Diritto e Giustizia’, realizzato anche grazie al sostegno del dott. Massi-mo Sarti, figlio del docente cui è dedicato il concorso filosofico che ne costituisce parte integrante, è frutto di una collaborazione tra l’Associazione ‘Gli Stelliniani’, che ne è l’ente ideatore e promotore, e il liceo ‘Stellini’, con la partecipazione dell’Unione Giuristi Cattolici Italiani di Udine e Gorizia. Giunto alla quattor-dicesima edizione e coordinato da un comitato scientifico formato dai professori Elettra Patti, Claudio Giachin e Daniele Picierno, il progetto rappresenta l’impegno più importante con cui si cimenta annualmente il nostro sodalizio e con la sua stessa longevità dimostra non solo la tenacia e la motivazione degli organizzatori, ma soprattutto la sua validità.

    Il prof. Ferrari è venuto comunque molte altre volte al liceo ‘Stellini’, verso il quale nu-tre un profondo affetto, che dimostra appunto con le sue frequenti visite ma soprattutto invi-tando i nostri allievi negli Stati Uniti per una straordinaria e utile esperienza nei laboratori di ricerca. A questo riguardo la prof.ssa Patti ha ricordato che tra gli allievi ospitati per la prima volta negli Stati Uniti per interessamen-to del prof. Ferrari, c’era anche Luigi Motti, un suo allievo della sezione E. Si era nel 1995 e la borsa di studio fu messa a disposizione dall’Associazione Italiana d’America. In quel-la occasione gli studenti (due dello ‘Stellini’ e due del ‘Copernico’) svolsero una ricerca di bioingegneria nei laboratori dell’Università di Berkeley.

    All’evento hanno preso parte anche gli av-vocati Gabriele Damiani e Andrea Purinan, all’epoca rispettivamente presidente dell’asso-ciazione e direttore de La Voce degli Stelliniani, i quali hanno proposto al prof. Ferrari ulteriori temi di riflessione, sempre declinati sul tema del nichilismo come costante della cultura con-temporanea.

    La prima delle considerazioni affrontate nel corso dell’intervista ha riguardato il rapporto tra gli studi classici e la ricerca scientifica, in-tesa come valore e dunque come ‘antidoto’ al nichilismo.

    Ferrari ha ricordato i suoi trascorsi allo ‘Stel-lini’ («ero uno studente brillante, ma non il pri-mo della classe») e ha sottolineato l’importan-za che la cultura umanistica ha avuto nella sua formazione, paragonando quegli studi a una sorta di prisma culturale che rivela i diversi co-lori della conoscenza. «Ciascuno di noi, infatti – ha osservato Ferrari – possiede determinati talenti, ma il segreto è quello di capire quali sono e il liceo classico mi ha insegnato a tro-varli.»

    Ferrari ha poi ripercorso l’itinerario che lo ha portato dagli studi di matematica a quelli di

    bioingegneria e infine alla medicina e alla ri-cerca contro il cancro, alle quali è giunto attra-verso una dolorosa vicenda personale (Ferrari ha perduto la prima moglie quando era anco-ra giovane e madre di due gemelle in tenera età. N.d.r). E’ stato allora che egli ha compreso come il valore per eccellenza a cui dedicarsi sia l’impegno a favore del prossimo, soprattutto quando il prossimo è una persona vulnerabi-le, debole e malata. «Ecco perché – ha detto Ferrari – il tema del nichilismo è estraneo alla mia dimensione. Come uomo, come studioso e come cristiano, sento il dovere di aiutare chi soffre e ogni persona che si rivolge al nostro istituto merita il massimo della nostra com-petenza e della nostra attenzione. Non so dire se, anche senza una formazione classica, avrei maturato egualmente queste convinzioni, ma sono certo che nessuna scuola più di questa fa apprezzare il valore fondamentale della per-sona umana, proprio perché è una scuola che parla costantemente dell’uomo e dell’unicità e irripetibilità di ogni vita.»

    Ascoltando il prof. Ferrari e la sua capacità di emozionare e di emozionarsi, strappando più di un sorriso pur senza rinunciare alla profondità del ragionamento, si comprende appieno il senso di uno dei messaggi che ha voluto trasmettere: quello secondo cui l’obiet-tivo che dovremmo porci, nella ricerca come nella vita di ogni giorno, è di «riuscire a sor-prenderci». L’esistenza infatti non è mai banale e ogni persona dovrebbe sentire il piacere di mettersi costantemente alla prova e di reinven-tare sé stessa.

    Il prof. Picierno è intervenuto a questo punto ricordando come la sua carriera di insegnante di storia e filosofia allo ‘Stellini’ fosse inizia-ta nell’anno scolastico 1977/78, proprio nella sezione liceale frequentata allora da Mauro Ferrari. Nacque quell’anno un rapporto che avrebbe travalicato i limiti e la forma delle re-lazioni esistenti tra docente e discente: un rap-

    Il naufragio della speranza, celebre dipinto di Caspar David Friedrich noto anche come Il mare di ghiaccio (1823/24), non è stato scelto a caso dagli organizzatori come immagine per la locandina dell’ultima edizione del progetto ‘Diritto e Giustizia’, dedicata al tema Il nichili-smo della cultura moderna e postmoderna.

    Il relitto raffigurato nel dipinto è quello della Speranza, una delle due navi che parteciparono alle prime spedizioni per la ricerca del passag-gio a Nord-Ovest. Se il tema della navigazione, retaggio di una lunga tradizione allegorica ri-salente alla cultura greca, è stato spesso usato come metafora della peregrinazione dell’uomo alla ricerca incessante di un obiettivo e in stre-nua lotta contro le avversità della vita, traspo-sto in quello del naufragio, è divenuto simbolo della fragilità dell’uomo in balia degli elementi naturali e può essere letto come una parabo-la religiosa, in cui la nave, simbolo della vita umana, è bloccata in una condizione immuta-bile di cui non si riesce a penetrare il mistero.

    Può altresì prestarsi a un’interpretazione po-litica, come nel caso del nostro dipinto, in cui la nave sfasciata simboleggia il naufragio del-le speranze della Germania nel periodo della Restaurazione, esattamente come, nel 1815, La Zattera della Medusa di Théodore Géricault aveva alluso al naufragio della Francia napo-leonica.

    Agli organizzatori del progetto la scelta di questa immagine è sembrata adatta a illustra-re la minaccia sottesa al nichilismo, che oggi è divenuto una sorta di mentalità diffusa a tutti

    i livelli e largamente condivisa, conseguenza della crisi del razionalismo e del modello di sapere assoluto e onnicomprensivo che dal ra-zionalismo era scaturito.

    Il nichilismo, nato in Germania nell’Ottocen-to, si diffuse ampiamente in Russia nella secon-da metà dell’Ottocento, assumendo il carattere di un vero e proprio programma di azione e

    di vita, mentre in Occidente venne posto da F. Nietzsche al centro della problematica filosofi-ca. Esso si caratterizza per la totale negazione dei valori e dei significati elaborati dai diversi sistemi religiosi, morali e filosofici. Nel presen-te post ideologico si configura come consape-volezza della fine delle ideologie e delle tensio-ni ideali che avevano accompagnato i grandi

    progetti di emancipazione dell’umanità, di cui esempi classici sono la filosofia hegeliana, il marxismo e il liberalismo politico-economico.

    La caratteristica specifica del nichilismo, a differenza delle forme di pessimismo o di atei-smo consistenti nella negazione di Dio e dei va-lori, è quella di presentarsi come consapevolez-za dell’esito di un processo storico nel corso del quale le certezze e i valori tradizionali si sono andati lentamente, ma inesorabilmente, consu-mando. Esso salva, è vero, la libertà come va-lore, ma la relega nella sfera individuale come principio di autodeterminazione del singolo, al di là delle ideologie e delle morali. Prospetta, quindi, a livello etico, un relativismo generale e generalizzato, non proponendo, comunque, un nuovo sistema di valori al posto di quello tradizionale.

    Come non condividere a questo punto il giu-dizio espresso vent’anni fa da Giovanni Paolo II nell’enciclica Fides et ratio, dove si legge che «nell’interpretazione nichilista la vita è solo un’opportunità per sensazioni ed esperienze in cui l’effimero ha il primato»?

    Ma tornando al nostro progetto, quest’anno i momenti riservati alla riflessione e al dibattito sono stati due, anche se il primo, tenutosi il 29 novembre 2017, è consistito in una sorta di pre-messa al seminario vero e proprio in program-ma per il successivo mese di marzo, nel corso del quale sarebbero stati assegnati i premi ai vincitori del concorso di filosofia intitolato al prof. Sergio Sarti.

    Daniele Picierno intervista Mauro Ferrari

    La prima fase del progetto, dunque, si è svolta in forma di amichevole intervista fat-ta dal prof. Daniele Picierno al suo ex allievo prof. Mauro Ferrari, socio onorario degli Stel-liniani dal 2005, ricercatore di fama internazio-nale e presidente del Methodist Research Institut di Houston.

    Come ha ricordato nell’introduzione al con-vegno la prof.ssa Elettra Patti, che ha rivolto un saluto particolarmente caloroso all’illustre relatore, era questa la terza volta in cui il prof. Ferrari veniva ospitato dal nostro sodalizio. La prima fu nel 1995, quando egli venne invitato allo ‘Stellini’ dall’allora presidente avv. Lino Comand, e la seconda nel 2003, quando tenne un’interessante conferenza sulle nanotecnolo-gie applicate alla lotta contro il cancro.

    Caspar David Friedrich, Il naufragio della speranza.

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    Aprile 1978. Sulla gradinata di accesso allo ‘Stellini’ il prof. Picierno con la Classe III F. Tra gli allievi è riconoscibile (il primo da sinistra in seconda fila) il futuro scienziato Mauro Ferrari.

    Da sinistra: il prof. Giulio Corrado, il dott. Massimo Sarti, la prof.ssa Gabriella Zanocco, il prof. Daniele Picierno, l’avv. Andrea Purinan, il prof. Stefano Perini, l’avv. Gabriele Damiani, il prof. Agostino Longo.

    porto che lo stesso professore chiarisce riferen-do un aneddoto che dà la misura dell’umanità del Nostro. Alcuni anni or sono i compagni di classe avevano organizzato una rimpatriata in onore di colui che era ormai diventato uno scienziato illustre. Nel corso della serata, a un certo punto lo stesso Picierno aveva parago-nato Ferrari a un moderno Ulisse che, attratto dalla ricerca, lascia la sua terra di origine, ma ritorna puntualmente a casa, a Udine e allo ‘Stellini’. «Ma quale Ulisse!» gli aveva risposto l’allievo con imperturbabile ironia. L’unico ri-ferimento all’eroe omerico che lui riconosceva nella propria vita era, infatti, la Fiat Ulysse su cui caricava la numerosa famiglia. Con classi-co senso del limite aveva così riconsegnato a tutti sorriso e conviviale buonsenso.

    È venuto spontaneo, alla fine, chiedere al prof. Ferrari se, dal suo privilegiato punto di osservazione, scorga davvero il rischio di una deriva nichilista e cioè di un mondo nel quale gli interessi individuali e il relativismo morale siano destinati a prevalere su valori assoluti e condivisi. Per rispondere a questa domanda

    egli ha fatto ricorso ad una metafora ispirata alla pallacanestro praticata in gioventù. «Per me, che sono un ricercatore, il ‘valore’ è im-manente in quello che faccio ogni giorno. Una volta, quando mi presentai ad alcuni giocatori americani di basket per spiegare il mio lavoro, dissi che il ‘mio basket’ era, a differenza del loro, uno sport che prevede una sola partita: una partita che dura tutta la vita e in cui l’av-versario (la malattia) sta venti punti sopra, ma che noi ricercatori tentiamo di vincere egual-mente».

    Il numeroso pubblico che affollava l’aula magna, composto in prevalenza da studenti, ha salutato con un lungo applauso questa in-dimenticabile lezione. La lezione di uno scien-ziato che sa essere anche, come ha testimonia-to più volte professando le sue convinzioni cri-stiane, un uomo di fede. Un uomo per il quale il ‘valore’ consiste nel mettersi al servizio del prossimo e realizzare una condizione morale che riempie di significato l’esistenza e scongiu-ra il pericolo del nichilismo.

    Seminario filosofico e ‘Premio Sarti’

    Il cultore di filosofia che ha la fortuna di leggere e magari rileggere i lavori di Sergio Sarti che giudizio può trarne? La prima impressione è senz'altro quella di una padronanza pressoché perfetta dei temi e dei problemi della tradizione di pensiero in cui si riconosceva: A. Rosmini, M.F. Sciacca, M. Gentile e non da ultimo J. Maritain. D’altro canto, e nello stesso tempo cosa ab-bastanza rara, questo riconoscersi in modo forte in un ben determinato solco di pensiero non gli impediva di confrontarsi con questioni che richiedevano strumenti di analisi che non erano quelli normalmente praticati nel suo campo favorito di studi. Nel volume Logica e Metafisica si trova una trattazione di uno dei problemi fondamentali della filosofia della scienza del Novecento: verte sul cosiddetto problema dei fondamenti dei sistemi formali e più in dettaglio riguarda il problema se sia possibile risolvere il concetto semantico di verità in quello sintattico di dimostrabilità, secondo la linea seguita da K. Godel, il quale con il suo secondo teorema ha provato che con strumenti finitistici – appartenenti all’aritmetica elementare – non è possibile dimostrare la non-contraddit-torietà nemmeno dell’aritmetica stessa. Sarti illustra il problema passo dopo passo e conclude con una valutazione critica che converge con le tesi della filosofia della scienza post-positivista ovvero che i teoremi di Godel costituiscono un momento decisivo nel cammino che porta alla fine, non solo nella logica, ma più in generale nella cultura filosofica nel suo insieme, dell’‘Uomo Cartesia-no’. Fin qui il saggista preparato e brillante. Passiamo adesso al pensatore.

    Per esserlo davvero, non bastano preparazione e tecnica d’analisi, sono necessarie immagina-zione e sensibilità a tutto campo. Per Sergio Sarti la sintesi di questi diversi talenti è confluita in una sintesi originale di filosofia della storia, l'intuizione dell’‘Uomo Assiale’, da cui il titolo del volume omonimo. Si tratta, in estrema sintesi, di questo: se si vuole dar conto del carattere di ‘ci-

    La seconda fase del progetto 'Diritto e Giustizia' si è svolta nello scorso mese di marzo e, come da tradizione, si è concentrata su argomenti filosofico-letterari collegati al tema del nichilismo. Dopo il saluto della prof.ssa Gabriella Zanocco, allora dirigente scolastica del Liceo, e quello

    dell’avv. Andrea Purinan, neo-presidente dell’associazione ‘Gli Stelliniani’, l’avv. Gabriele Da-miani ha introdotto l’argomento del seminario e presentato i relatori: il prof. Agostino Longo, già docente di latino e greco allo ‘Stellini’, materie che attualmente insegna presso il liceo ‘Pe-trarca’ di Trieste, avrebbe illustrato un esempio di nichilismo greco tratto dal Sisifo di Crizia; il prof. Daniele Picierno avrebbe invece parlato del nichilismo come ‘ospite inquietante’ della cultura postmoderna, mentre il prof. Giulio Corrado, docente di storia e filosofia allo ‘Stellini’, avrebbe tratteggiato il pensiero filosofico di Sergio Sarti.

    Ringraziando i relatori per il materiale che ci hanno fornito, pubblichiamo di seguito una sintesi dei loro interventi.

    Un caso di nichilismo greco: l’invenzione degli dei nel ‘Sisifo’ di Crizia

    Ci si chiede se la filosofia occidentale nasca dal nichilismo o ci arrivi, pensandolo come crollo di tutte le certezze. Certo, se si fa una disamina del pensiero greco sembra che il ni-chilismo sia già presente fin della nascita della filosofia: per tutti i filosofi greci la riduzio-ne dell’ignoto al noto avveniva secondo le forme della bellezza che lottava contro il nichilismo ascetico della separazione fra anima e corpo, il mondo dell’aldilà e la natura umana.

    Tale nuovo nichilismo estetico e antropocentrico esalta la vita come lotta tragica perché attiva e disprezza quella statica perché contemplativa.

    Per Nietzsche dunque era inevitabile che fossero stati i Greci gli autori de la nascita della tragedia, in cui da un lato esprimevano il dolore del mondo e dall’altro con l’arte riuscivano a superarlo.

    I Greci avevano capito che ogni ente è ni-ente, è il nihil dei Latini che o si annienta da sé per lo scorrere del tempo della vita o viene annientato da un altro ente nella lotta tragica dell’esistenza.

    Ecco perché il nichilismo è «l’ospite inquietante che ormai si aggira nelle nostre case» e l’unica cosa da fare è guardarlo in faccia come consiglia Nietzsche.

    Per i Greci la stessa volontà di potenza che creava il dolore della lotta si annullava, svelandosi sulla scena agli spettatori.

    Non prima ma dopo il crollo del mondo antico, ci si accorse che tale soluzione estetica era a buon mercato perché i miti greci furono affossati del tutto dal Cristianesimo che chiuse per sem-pre i giochi di Olimpia e il tempio di Delfi.

    Come scrisse Heidegger, «Gli dei non si affacciarono più dall’Olimpo per trasformarsi nelle forze belle e tragiche della natura». Da allora la filosofia è stata scalzata dal dominio della tecnica e l’uomo prometeico con la tecnica distrugge se stesso e la stessa natura.

    Il nostro futuro sarà cosi? Certo ci aspetta il compito tragico di mutare il divenire in un essere che abbia senso. Possiamo farlo privi della cultura classica e senza la concezione tragica della realtà che fu dei Greci? Ne dubito.

    Daniele Picierno

    Un noto frammento di un dramma satiresco, il Sisifo, attribuito al sofista Crizia, ci resti-tuisce una singolare rappresentazione del sorgere del senso religioso nella comunità umana. Si tratta di una di quelle narrazioni delle origini care già alla letteratura greca arcaica e divenute poi tipiche dell'età dei Sofisti.

    Dapprima il genere umano vive confusamente allo stato bestiale; poi, senza che questo pas-saggio sia distinto in tutti i particolari, si narra che sorsero le leggi a tutela del senso di giustizia, da tempo insito nelle coscienze degli uomini eppure spesso deliberatamente ignorato nella lotta per l’affermazione del più forte.

    Le leggi tuttavia sono deboli e insufficienti: gli uomini possono ancora nuocere e prevaricare di nascosto, la loro coscienza può ancora ordire malvagità. Si dà dunque la necessità di una for-za d’inibizione che agisca più a fondo e con maggiore efficacia. Ed ecco che un uomo «accorto e saggio» diffonde tra gli uomini la nozione dell’esistenza di una divinità punitrice, che scruta sempre e a fondo le coscienze, e giunge in ogni modo a punire.

    Questa divinità ha la sua sede in cielo, luogo di atavici terrori e di supreme consolazioni per il genere umano. Da lì il dio guarda con sguardo implacabile le azioni umane e tutela la giustizia ispirando la paura.

    Il racconto contenuto nel Sisifo esprime un’idea della divinità e dei valori che può essere util-mente posta a confronto con alcuni aspetti del nichilismo moderno: i valori infatti non sono di per sé, ma sono posti dagli uomini nel comune negoziato per la sopravvivenza; la giustizia stes-sa, supremo dei valori, ha un carattere violento, imponendosi con la forza sulle forze precedenti ed essendo tutelata dalla forza coercitiva delle leggi, ulteriormente perfezionata da quella della divinità; il divino non è fonte dei valori, bensì invenzione a tutela dei valori: esso non è propria-mente esistente se non nella forma di un racconto diffuso da un inventore di natura umana, e ciò basta a imporne la forza.

    La religione dunque non sarebbe altro che un'antica mistificazione e questo racconto eziologi-co ne sarebbe l’amaro disvelamento.

    Agostino Longo

    Il nichilismo: l’ospite inquietante tra vizi tradizionali e nuovi vizi nel post-moderno

    Sergio Sarti: il pensatore

    (segue a pagina 4)

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    viltà’ che noi attribuiamo a quelle culture umane che hanno superato le forme più elementari di associazione all’interno delle quali tale carattere comincia a manifestarsi, la risposta la si trova non facendo riferimento allo schema tradizionale che distingue la componente elitaria che promuove la civilizzazione a proprio beneficio da coloro che, esclusi dalle opportunità dei primi, rimangono elementi passivi, ma dal lavoro svolto da un gruppo di individui, distribu-iti nei diversi segmenti sociali, che, aldilà delle distinzioni di ceto, condividono una attitudine di base che Sarti decide di chiamare, in modo assolutamente originale, ‘assiale’.

    Nei termini dell’antropologia culturale, si tratta di un ‘universale culturale’ che continua ad attraversare le diverse storie delle civiltà umane: un guerriero masai, un francescano, un samurai che si sottrae all’inutile violenza, un volontario di una organizzazione non gover-nativa, quando agiscono sentendosi in prima persona responsabili nei confronti degli altri esseri umani che incontrano nel corso della loro ‘missione’ agiscono assialmente ovvero, metaforicamente, sono ‘in asse’ non solo rispetto a se stessi, ma pure rispetto alla situazione in cui agiscono. Agiscono così perché pongono sempre dei limiti alle loro azioni, il limite det-tato dalla loro speciale attitudine al senso di responsabilità, in loro, ad esempio, l’eventuale esercizio della forza non travalica mai il confine netto che lo separa dalla violenza. Dai loro atti nasce e si consolida il baricentro di ogni civiltà, l’esistenza di un complesso variegato di norme con cui le diverse civiltà tengono a bada il gioco caotico delle forze scatenato da quella parte dell’umanità che, di fronte al continuo mutamento delle circostanze, non trova modo di porre dei limiti alle proprie azioni.

    All'interno di questa visione, trova originale espressione il cristianesimo di Sarti. Il sen-timento cristiano dell’esistenza è un perfezionamento del carattere assiale. In altri termini, esso non ha primogenitura da rivendicare in merito ai tratti costitutivi dell’assialità, ma pro-prio per questo può essere una potente leva di dialogo interculturale, oltreché religioso. Non c’è bisogno, a questo punto, di sottolineare l’estrema originalità e maturità di pensiero a cui era giunto Sergio Sarti.

    Giulio Corrado* * *

    Al termine del seminario sono stati premiati gli studenti classificatisi ai primi tre posti del concorso dedicato alla memoria del prof. Sergio Sarti e consistito nella stesura di un saggio ispirato al tema del convegno. Oltre alla consegna di un diploma, ad essi è stato attribuito

    un premio in denaro messo a disposizione del dott. Massimo Sarti. Questi i riconoscimenti decisi dalla giuria, composta dai professori Elettra Patti, Stefano Perini e Daniele Picierno.

    I premio: Virginia Bernardis, V D del Liceo classico ‘Stellini’II premio: Giovanni Fabris, V A del Liceo europeo ‘Uccellis’III premio ex-aequo: Martina Virili, V AU del Liceo delle Scienze umane ‘Percoto’III premio ex-aequo: Daniele Lizzi e Paolo Petrucco, V E del Liceo classico ‘Stellini’

    Elettra Patti e Andrea Purinan

    (continua da pagina 3)

    STELLINIANI ILLUSTRI

    Gli Stelliniani piangono la scomparsa del senatore Giuseppe Tonutti, mancato il 21 luglio all’età di 93 anni. Il senatore Tonutti, socio onorario del nostro sodalizio dal 2011, aveva ricoperto ruoli di primissimo piano nella politica udinese e nazionale, come attesta la sua ricca biografia.

    Nato a Udine il 19 marzo 1925, aveva ottenuto la maturità classica allo Stellini nel 1944 e si era poi laureato in filosofia. In quegli stessi anni cominciò la propria militanza nell’Azione Cattolica e si iscrisse alla Democrazia Cristiana. Nel 1946 fondò, con i professori Sarti, Toso e Frangipane, il mensile «Momento della cultura e dell’arte». Dirigerà in seguito, dal 1966 al 1975, «Il Popolo del Friuli Venezia Giulia». Nel maggio 1948 venne chiamato ad assumere la direzione del settimanale del partito «Il nuovo Friuli», che avrebbe mantenuto fino al 1952. Sempre nel 1952 assunse la segreteria provinciale della DC e fu eletto consigliere comunale di Udine. Ritornato a Roma nel 1954, diventò direttore amministrativo della GEPI, società proprietaria di diversi periodici e quotidiani a diffusione nazionale.

    Nel 1964 rientrò a Udine per collaborare con Alfredo Berzanti all’organizzazione della neonata Regione Friuli Venezia Giulia. Nel 1966 fu eletto segretario regionale della Democrazia Cristiana, carica che conservò fino all’autunno del 1976. Dopo

    GIUSEPPE TONUTTI, POLITICO E GALANTUOMO

    Giuseppe Tonutti con Aldo Moro.

    il terremoto del 1976 fu tra i protagonisti della ricostruzione anche perché, proprio in quell’anno, venne eletto al Senato della Repubblica, dove rimase per altre due legislature sino al 1987. Dal 1982 al 1986 fu segretario amministrativo nazionale della Democrazia Cristiana e tra le sue amicizie una delle più significative fu certamente quella che lo legò ad Aldo Moro. Giuseppe Tonutti ricoprì anche importanti incarichi in ambito regionale, tra cui la presidenza della Cassa di Risparmio di Udine e Pordenone e della società finanziaria Friulia.

    Persona di grande integrità morale e di profondi valori cristiani, il senatore Tonutti è stato tra i più qualificati rappresentanti della Prima Repubblica e ha goduto di unanime stima per la competenza e autorevolezza che hanno sempre contraddistinto la sua attività politica. Proprio in virtù di queste benemerenze era stato nominato socio onorario degli Stelliniani, investitura che aveva accolto con viva soddisfazione.

    Alla sua famiglia e alla nipote Chiara, già apprezzata insegnante allo ‘Stellini’ ed attuale segretaria di questo sodalizio, giungano le nostre più sentite espressioni di cordoglio e di riconoscenza.

    Andrea Purinan

    Completiamo il ritratto di Giuseppe Tonutti attraverso il commovente tributo della nipote Marta Franco, anche lei stelliniana, letto durante la cerimonia funebre.

    «Caro Nonno Bepi, è difficile descrivere in poche parole quello che sei stato per noi. Jacques Maritain, che tu ben conoscevi per i tuoi studi di filosofia, ha scritto: «La cosa principale è essere uomo retto piuttosto che uomo dotto». Tu sei stato entrambi.

    La tua vita è stata da sempre connotata dall’amore per la politica, da quando, nel dopoguerra, sulle orme del papà Elio, hai scelto di entrare tra le file della Democrazia Cristiana, nella prospettiva di dare un nuovo assetto allo Stato, fondandolo sui valori della libertà, della democrazia e del solidarismo cristiano. Questo ti ha portato a rivestire diversi ruoli di responsabilità, ma la cosa che da sempre abbiamo apprezzato di te è stata la tua discrezione, la tua serietà e correttezza, la tua integrità nel ricoprire tutti gli incarichi a te affidati, anche quelli più delicati.

    Dai tanti libri che hai letto, raccolto e gelosamente custodito, abbiamo poi capito la profondità della tua cultura, mai ostentata, e la tua curiosità nel voler conoscere ogni cosa nei suoi vari aspetti e nella sua evoluzione.

    Elegante e riservato, all’apparenza ‘uomo che incuteva timo-roso rispetto’, con noi sei stato un nonno allegro e divertente, sempre pronto allo scherzo, alla battuta e all’affettuosa presa in

    giro. Dietro i tuoi modi scherzosi abbiamo però sempre perce-pito la tua sensibilità, il tuo buon cuore, la tua attenzione ver-so di noi. Il tuo sostegno nei momenti di difficoltà non è mai mancato. Oltre alla politica ciò che ha caratterizzato la tua vita è stato l’amore per la nonna, la tua Antonietta, il tuo ‘faro nella nebbia’ fino all’ultimo.

    Raccontavi sempre che il cappellano della Parrocchia del Redentore, don Guerrino, all’annuncio del vostro fidanzamento aveva detto: «Una vera grazia per lui, spero anche per lei». Sicuramente è stata una grazia per noi. Tu e la nonna, con il vostro esempio, ci avete insegnato il valore della famiglia, quella unita nonostante le difficoltà, aperta e accogliente verso tutti, e ci avete fatto capire il significato dell’amore, quello vero e duraturo, quello del «nel bene e nel male, in salute e in malattia, per tutti i giorni della vita». Vorrei concludere citando una frase che penso possa sintetizzare i dubbi della ragione umana e l’essenza delle fede cristiana che appartenevano al tuo modo di pensare, nella speranza, un giorno, di rivederci: “Vorrei capire, con i miei piccoli occhi mortali, come ci si vedrà dopo. Se ci fosse luce, sarebbe bellissimo”.

    Ciao Nonno, e grazie…»

    BENVENUTA, PRESIDE ZILLI!

    Gli Stelliniani porgono il più cordiale benvenuto al nuovo dirigente scolastico dello Stellini, la dott.ssa Anna Maria Zilli, che dividerà la reggenza del nostro liceo con l’Istituto ‘Stringher’, di cui è preside. Nata a Udine e laureata in Pedagogia all’Università degli Studi di Trieste, la dott.ssa Zilli ha ricoperto numerosi incarichi nell’ambito dell’amministrazione scolastica, ha svolto ruoli di docenza anche a livello universitario ed ha partecipato a vari progetti condivisi con il MIUR e con associazioni e categorie professionali.

    Nel formulare alla nuova dirigente i migliori auguri per lo svolgimento di questo prestigioso mandato, gli ‘Stelliniani’ esprimono tutta la loro gratitudine alla prof.ssa Gabriella Zanocco, che aveva retto lo ‘Stellini’ dopo la scomparsa del preside Santoro, dimostrandosi sempre attenta e collaborativa nei confronti del nostro sodalizio.

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    Laureata in Italianistica presso l’Università di Trie-ste con una tesi sul teatro di Ibsen, dottore di ricerca nel 1987 a Roma con un lavoro e una dissertazione sul teatro di D’Annunzio, pubblicista e critico teatrale presso la pagi-na spettacoli del «Gazzettino», Angela Felice aveva da tem-po dirottato i suoi interessi in campo teatrale, fino ad assu-mere dal 1999 la direzione arti-stica del Teatro Club di Udine e la vicepresidenza dell’Ente Regionale Teatrale del FVG. Aveva al suo attivo un nutrito numero di interventi saggistici di critica letteraria e teatrale su riviste specializzate, insieme a varie pubblicazioni presso le case editrici Laterza, Principa-to, Palumbo e Marsilio.

    Già docente di letteratura italiana e latina presso l’Isti-tuto Magistrale ‘C. Percoto’ di Udine, dal 2009 al 2017 è stata direttore del Centro Studi Pier Paolo Pasolini di Casarsa della Delizia.

    Per questo insieme di attivi-tà, in equilibrio tra teatro, impegno culturale e attività didattica, le è stato assegnato nel 1995 il Cavalierato al Merito della Repubblica Italiana, nel 2006 il ‘Morèt d’aur’ e nel 2009 il Diploma al merito di Grand’Ufficiale.

    Sono al computer. Apro la cartella ‘Teatro Club’. All’interno trovo la cartella ‘Angela Felice’. Per prima cosa guardo le foto e mi ritrovo a parlare con lei per una vecchia, molto vecchia, abitudine. Giornalmente mi teneva al telefono per un tempo interminabile. Conclude-va un argomento e con la formula, oggi tanto di moda, ‘detto questo’ passava ad altro. Se tenta-vo di interferire, mi interrompeva con ‘perdona-mi’ e riprendeva l’incontenibile flusso espositi-vo delle sue idee. Ora le posso parlare senza il timore di essere interrotto. Non uso la formula ‘detto questo’ che detesto se non altro perché è troppo usata. Mi risulta facile parlare con la sua immagine, ossia senza starle fisicamente di fronte o in collegamento telefonico. Il mio non è neppure monologo perché mi sembra di ascol-tare, chissà per quanto ancora, la sua particolare voce. Mi convinco che mi risponda. Le parlo e so che non devo cercarla in vicolo del Paradiso a Udine, perché voglio pensare che sia andata da qualche parte, forse a Tallinn in Estonia per la seconda volta, a far conoscere Pasolini. Le dico che l’aspetto a Udine per discutere con lei diver-se questioni. Come presidente e responsabile legale del Teatro Club le dico che sono preoccu-pato per tutte le iniziative da lei avviate perché i fondi sono scarsissimi, perché potrebbe non esserci la copertura economica. Le consiglio di contenere la sua esuberanza creativa e le faccio presente che non intendo pignorare la mia casa per il Teatro Club, per quanto l’ente rappresen-ti buona parte della mia esistenza e per quanto inossidabile sia la mia riconoscenza verso Ro-dolfo Castiglione e Ciro Nigris. Lei trova ecces-sive le mie preoccupazioni, quasi mi rimprove-ra, facendomi notare che è inconciliabile la mia congenita generosità con tali meschine preoc-cupazioni economiche; alla fine mi assicura che il Teatro Club è incrollabile, sebbene qualcuno cerchi di impossessarsene. Lo spero anch’io che il Teatro Club sopravviva nella sua originaria libertà e autonomia, ora affidato alla direzione artistica di Massimo Somaglino che forse è l’u-nica persona in grado di proseguire sulla strada da lei intrapresa... ma quanta fatica e quante bat-taglie fatte insieme per non far morire il Teatro Club, cara Angela! Interrompo il dialogo perché mi sento un groppo alla gola al pensiero che le cose appena dette sono state ripetute tante vol-te e che ormai riaffiorano solo come un’eco che non vuole spegnersi. Apro un’altra cartella con il titolo ‘Curriculum di Angela’. Ho bisogno di dati certi per scrivere di lei per «La Voce degli Stelliniani», e allora scopro, senza sorprender-mi, che vi sono tre versioni del suo interminabi-le curriculum.

    Angela, con malcelato eppure legittimo or-goglio, ci teneva a farmi sapere quanto fosse attiva in ogni campo del sapere umanistico. Ha sempre voluto farmi presente che il suo con-tributo era prezioso non soltanto per il Teatro Club, di cui lei era direttore artistico dal 1999, ma che aveva collaborato per una serie di enti, istituzioni, associazioni e che continuamente le arrivavano richieste da ogni parte. Mi voleva te-nere costantemente aggiornato sui suoi succes-si, come se temesse che io, presidente del Teatro Club, potessi trascurare di riconoscerle qualche merito, limitando la mia visione della sua atti-vità all’ente che presiedo. Mi ha sempre ferito la sua convinzione che non potessi misurare la sua eccellenza, che non fossi in grado di gratifi-carla a sufficienza. Incontro una certa difficoltà a mentire e quindi devo confessare che spesso ho litigato con lei, come sono sicuro che molti altri, che si censurano per generosità, hanno fatto. Era una donna dal carattere forte e, in quanto don-na, rispetto agli uomini sosteneva di avere una ‘marcia in più’. Questa la sua premessa. Sia chia-ro: i litigi sono sempre stati scontri fra pensieri

    costruttivi, direi complementari, nel corso dei quali lei imponeva il suo volere anche se, con un sapiente giro di parole, si appropriava della mia tesi. Mi contraddiceva sempre per poi affermare ciò che lei pensava e confermare anche ciò che io avevo sostenuto. Quello che dicevo di sensato doveva sembrare a ogni costo una cosa sua. Ed era giusto che fosse così, perché nel momento dell’applicazione di un’idea, della realizzazione di un progetto, tutto portava l’inconfondibile se-gno della sua intelligenza. A me bastava questo; ne ero appagato perché non potevo non apprez-zare gli ottimi risultati del suo lavoro. Era giusto che lei, dedita giorno e notte ai progetti con-cordati, si sentisse e fosse sempre riconosciuta come la sola protagonista. Fortunatamente uno dei pochi peccati capitali a me estranei è quello dell’invidia, per quanto il mio orgoglio persona-le mi abbia spinto spesso ai contrasti di cui ho parlato. Per questo non trovo alcuna difficoltà a riconoscere che era impareggiabile e trovo do-veroso riconoscerle tutti i meriti. Io non ho mai potuto dedicare ai progetti culturali il tempo e le energie che lei vi ha sempre impiegato.

    Era impossibile negare la sua superiorità. Im-possibile non esserle grati. Angela poteva fare quello che faceva perché viveva solo di inizia-tive culturali e artistiche, senza dover rendere conto a nessuno in termini di tempo, luoghi, vitto, alloggio, affetti.

    Per esempio negli ultimi otto anni, ossia da quando dirigeva il Centro Pasolini, Angela, donna libera e senza stretti o condizionanti le-gami famigliari, sentiva di avere degli obbli-ghi soltanto verso il ‘suo fidanzato’ Pier Paolo che faceva conoscere mediante pubblicazioni, dibattiti e conferenze in Italia e all’estero. Era una donna infaticabile e di brillante intelligen-za. Credo che per lei sia stato un grande dolo-re dover abbandonare la direzione artistica del Centro Studi Pier Paolo Pasolini di Casarsa. A me non lo voleva far sapere. Le ragioni della sua esclusione mi risultano incomprensibili. Tutti sanno o dovrebbero sapere che il Centro Studi Pier Paolo Pasolini di Casarsa prima che Angela ne diventasse direttore, non esisteva quasi per nessuno e che solo con lei ha ottenuto notorietà nazionale e internazionale. Ecco: per quanto il mio puntiglio di orgoglio mi spinga a difender-mi dalle sue critiche, non potrei mai condividere le ragioni della sua esclusione dal Centro Studi. Nessuno mi voglia male per la mia sincerità.

    Come Angela, il 5 marzo e il 2 novembre di ogni anno, posava una rosa rossa sulla tomba di Pasolini nel cimitero di Casarsa, io ne vorrei posare due, là dove lei riposa, una rossa e una bianca: la bianca per ricordare la sua onestà in-tellettuale e la sua generosità e la rossa per la sua passione per Pasolini, il Palio, i giovani, il Teatro Club, il suo impegno civile, il suo entusiasmo per ogni avventura culturale.

    Gianni Cianchi

    ANGELA FELICE, STELLINIANA DALLA TEMPRA ECCEZIONALE, NEL RICORDO

    DI UN AMICO E COLLABORATORE

    STELLINIANI ILLUSTRI

    1968. Angela Felice (la seconda da destra) con alcuni compagni della classe III E davanti all'ingresso dello 'Stellini'.

    2015. Angela Felice, relatrice nel seminario del progetto 'Diritto e Giustizia', tra Elettra Patti e Gabriele Damiani.

    1968. Angela Felice (prima da destra) alla cena di matura della classe III E. Al centro il professor Guido Ferro.

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    Elvina Del Negro, ‘segretaria’ storica del Liceo Stellini

    Album di Famiglia

    Il prof. Sergio Zannier, nel cinquantesimo anniversario del suo in-gresso allo ‘Stellini’, ci ha inviato un ricordo personale di Elvina del Negro.

    Nel 1968, quando timido e impacciato arrivai da un piccolo paese per iniziare gli studi allo ‘Stellini’, lei lavorava in se-greteria e lì la conobbi; poi l’avrei vista tante volte quando, per vari motivi, avevo bisogno di documenti.

    Conclusi gli studi classici nel 1973, per tanti anni non ebbi più contatti con lei, fino al 1995 quando, avendo saputo che era nata l’associazione degli Stelliniani, ritornai al mio liceo per iscriver-mi e lì l’incontrai di nuovo, felice ed entusiasta per la nascita del sodalizio. In quell’occasione parlammo a lungo dello ‘Stellini’ e della sua storia e così anche l’anno dopo.

    Sono questi gli ultimi ricordi che ho di lei perché, quando ri-tornai nel 1997 per rinnovare l’iscrizione, non la ritrovai più in segreteria e, chiesto di lei, mi fu detto che purtroppo era morta improvvisamente un giorno in cui si era recata a Cercivento, il paese dei suoi avi.

    È passato tanto tempo ma da allora ho sempre portato con me il suo ricordo.

    Poi, alcuni anni fa, è arrivata nella scuola di Anduins di Vito d’Asio, in cui io lavoro, Liviana Pitt, un’insegnante di quel paese carnico; e un giorno, mentre discutevamo di problemi didattici, accidentalmente il discorso è caduto sullo ‘Stellini’; lei mi ha det-to che una sua cugina (esattamente cugina di suo padre) aveva lavorato lì per tanti anni e, chiedendone il nome, ho scoperto che questa parente era proprio Elvina. Abbiamo quindi parlato a lun-go di lei, io raccontando di quando la vedevo allo ‘Stellini’ e lei di tante vicende familiari.

    Cercivento (il paese delle querce secondo alcuni o del vento se-condo altri) era per me fino a poco tempo fa uno dei tanti paesi dell’amata Carnia, ma adesso lo conosco bene ed è entrato nel mio cuore. Con i nostri allievi, nell'anno scolastico appena concluso, ci siamo recati due volte a visitarlo. Che dire delle splendide monta-gne che l’attorniano? E che dire degli splendidi mosaici, che sono stati definiti «una Bibbia a cielo aperto»? Una meraviglia che la-scia stupiti e attoniti.

    Elvina, nata a Udine nel 1938, allo ‘Stellini’ era arrivata negli anni Sessanta del secolo scorso e vi lavorò per più di trent’anni, fino alla sua scomparsa, divenendo un’«autentica colonna della segreteria», come afferma la professoressa Elettra Patti in Storia dell’Associazione ‘Gli Stelliniani’, testo da me reperito sul sito Inter-net dell’associazione stessa.

    La fondazione de ‘Gli Stelliniani’ avvenne il 20 febbraio 1995 presso lo studio del notaio Tania Andrioli di Udine. Elvina, che faceva parte del comitato promotore, fu tra i soci fondatori.

    E adesso cedo la parola alla mia collega di lavoro, affinché ci parli di Elvina come solo un parente stretto può fare.

    «Elvina aveva dato un pezzo di cuore allo ‘Stellini’; e in effetti non l’ha mai lasciato: era fiera di far parte di qualcosa di tangibil-mente glorioso. D’altro canto allo ‘Stellini’ lei era la ‘signorina Del Negro’, rispettata da tutti come un’istituzione. Quando dovevo recarmi a Udine, ci accordavamo per pranzare e trascorrere un po’ di tempo insieme; io l’andavo a prendere allo ‘Stellini’ al termine

    del suo orario di lavoro. Una volta nell’atrio, giravo a sinistra, entravo nel suo ufficio e la trovavo imman-cabilmente seduta alla scrivania. Mi accoglieva con quella sua alle-gria e con le sue battute gioviali, seguite da una risata fragorosa che non dimenticherò mai.

    Elvina era figlia di Lidia, sorella di mio nonno, e dunque cugina di mio padre. Per me però era come una zia, una sorella maggiore. Sta-vamo spesso insieme e lei mi fa-ceva sempre tante foto; ne ho una seduta sopra la sua ‘Mini’ bianca: quella macchina era un mito!

    Mio padre mi diceva sempre: “Ridi come tua cugina”. E in effetti, come ogni ragazzina che attinge ai propri modelli per crearsi uno sti-le, ero affascinata dai suoi racconti di viaggi in giro per l’Europa, da cui mi mandava sempre un carto-lina con scritto “Mandi, Elvina”; adoravo i suoi vestiti variopinti e femminili, i suoi accessori, i suoi gioielli.

    Lei amava il teatro e anch’io lo amavo, a tal punto da calcare di tanto in tanto le scene. Così fui molto felice quando venne a ve-dermi ne La Locandiera di Goldoni. In quell’occasione mi regalò un

    piccolo bouquet che conservai a lungo. Ho ancora le sue cartoline e un carillon che mi aveva regalato come portagioie.

    La sua casa, antica e nel cuore di Udine, le memorie di famiglia che si mescolavano alle mie, ma anche i racconti di suo padre Ma-rio sull’illustre zio, l’architetto Raimondo d’Aronco, mi trasporta-vano sempre in un mondo pieno di fascino e di storia, dove senti-vo fortemente il valore delle radici.

    Veniva spesso nella casa di famiglia a Cercivento per passarvi il fine settimana o le vacanze. Prima di arrivarci si fermava sempre, come un rito, a salutare i miei genitori.

    Forse anche quell’ultima volta l’aveva fatto, ma, non sapendo che sarebbe arrivata, i miei non erano a casa. Così nessuno sapeva che era lì. Se ne andò in silenzio, stroncata da un infarto, fuori del-la casa antica dei nostri antenati. La trovarono solo il giorno dopo.

    Da allora sono trascorsi più di vent’anni ma io, passando davan-ti allo ‘Stellini’, non posso ancora fare a meno di pensare a quando ne uscivamo insieme, bicicletta alla mano, per andare verso la sua casa, dove ci aspettavano zio Mario e il gatto. Sento ancora la sua risata e mi manca ancor di più ora che, da donna adulta, vorrei condividere con lei mille pensieri. Era una donna straordinaria che comunicava gioia di vivere. Piaceva a tutti quelli che la cono-scevano, ma tante volte mi chiedo se, oltre a me, qualcuno l’abbia apprezzata come meritava.»

    Io non posso aggiungere altro; queste parole mi hanno profon-damente commosso e chiudo ripetendo, con un altro senso, quello che lei scriveva alla cugina: “Mandi, Elvina!”

    Sergio Zannier

    Approfittiamo dell’occasione per pubblicare anche il ritratto che ne fece per il volume Il Liceo classico ‘Jacopo Stellini’. Duecento anni nel cuore del Friuli (Udine, 2010) la prof.ssa Isabella Baccetti Londero, preside dello ‘Stellini’ dal 1981 al 1994.

    «Quindici anni sono passati da quando il 31 agosto del 1994 ho lasciato la presidenza del liceo ‘Stellini’, dopo avercene trascor-si tredici, ricchi di intensa attività e di un vissuto di cadenzati, sostanziali cambiamenti nella vita scolastica e nel tessuto sociale.

    Quando ripenso, spesso, a quel lungo periodo e a quel luogo così familiare dove si svolgeva buona parte della mia giornata, una folla di ricordi si presenta alla mente: volti di studenti, di pro-fessori, episodi di vita quotidiana o eventi speciali, momenti di sana allegria e cameratismo, o situazioni difficili e pesanti...

    Ma su tutti e su tutto si sovrappone, a sintesi di ciò che lo ‘Stel-lini’ ha rappresentato per me, un volto, un personaggio: Elvina Del Negro.

    Non era, non era mai stata, gerarchicamente, il numero uno del personale amministrativo del Liceo, eppure per tutti, studenti, ge-nitori, professori, della sua scuola come degli altri istituti seconda-ri cittadini, era la 'segretaria dello Stellini' per antonomasia. Anche perché altri segretari-capo si erano succeduti nel corso degli anni a prestar servizio nella scuola ed erano passati poi ad altre sedi, ma Lei era sempre rimasta lì, inamovibile, dal 1963, quando, gio-vanissima, vi era entrata, rinunciando, per quell’incarico ammini-strativo, ad una carriera di maestra, per la quale certamente aveva notevoli doti umane e solida preparazione culturale.

    Ecco perché quella mattina del 16 marzo del 1997, quando Lucia

    Toso mi telefonò a casa (ero ormai in pensione da oltre due anni) la terribile notizia dell’improvvisa e tragica fine di Elvina, una fine quasi beffarda, stentai per qualche momento a recepire quell’in-concepibile realtà. E l’onda dei ricordi e delle emozioni riaffiorò prepotente.

    Quando, nell’ottobre del 1981, ero arrivata, preside, allo ‘Stelli-ni’, era Lei il punto di riferimento obbligato, l’archivio vivente e parlante della scuola, della quale sapeva e ricordava tutto: i dati del personale, i profili degli studenti, le loro vicende, la loro car-riera, gli eventi che riguardavano la scuola e che ne avevano carat-terizzato la storia.

    Naturalmente i primi approcci non furono del tutto facili: dico “naturalmente” perché Elvina aveva una forte personalità e come tutti gli esseri umani, i suoi difetti: era immediata, sbrigativa, impulsiva, schietta, qui si dice “da vera carnica”, quale era e si vantava di essere: non guardava in faccia nessuno quando doveva esprimere un suo giudizio, era alquanto autoritaria e accentratrice.

    Ma certamente era anche la diffidenza, quella sì autenticamente friulana, verso un capo d’Istituto sconosciuto, piovuto da fuori e per giunta donna (la prima di questo sesso nella storia dei presidi del vecchio liceo) che la faceva essere verso di me guardinga e spigolosa.

    Poi, a mano a mano che ci conoscevamo, imparammo ad ap-prezzarci a vicenda e ad adattarci l’una all’altra, smussando gli an-goli dei nostri caratteri, fino a raggiungere la sicurezza, entrambe, della piena affidabilità reciproca; fino al punto che, quando al ter-mine dell’anno scolastico 1993-94 andai in pensione, ci lasciammo con l’affetto sincero e la commozione di due vere amiche.

    In quei tredici anni di lavoro svolto 'a contatto di gomito' ho imparato a valutare nella giusta misura le sue doti di intelligenza, vivace e pragmatica, il suo generoso impegno nel lavoro, ed anche il calore umano con cui lo svolgeva; ma soprattutto l’assoluta fe-deltà e dedizione alla 'sua' scuola, dedizione estesa a tutti coloro che ne facevano e ne avevano fatto parte, purché nel suo giudizio morale li ritenesse, a loro volta, sinceramente dediti al bene del-lo ‘Stellini’, la scuola che rappresentava così gran parte del suo mondo.

    Ho conosciuto anche altri aspetti importanti della sua perso-nalità, al di fuori della scuola: ho visto quanti amici veri aveva, come fosse sempre pronta ad ogni sacrificio personale per onorare quelle amicizie; ho potuto apprezzare la sua sensibilità per il bel-lo, la passione per la musica e per l’arte, il culto per le tradizioni della sua terra; ho imparato ad accogliere divertita, io riservata e un po’ distaccata per natura, le sue esplosioni di vivacità, le sue dissacranti battute su uomini e cose, la sua ironia e soprattutto la sua autoironia, segno innegabile d’intelligenza e di equilibrio interiore.

    Anche dopo la mia uscita dal servizio continuammo ad operare insieme in una Associazione di volontariato culturale, 'Gli Amici dei Musei Udinesi' alla quale da tanti anni Elvina offriva la sua entusiastica collaborazione e la sua competenza: ma ha troncato questo bel rapporto un destino assurdo e crudele, appunto quel 16 marzo del ’97, a pochi giorni dal ritorno da una bella gita fatta insieme a Firenze, a veder mostre e monumenti, dove, come al solito, contagiava tutti i presenti con la sua gioia d’immergersi nel bello.

    Con l’immagine di quei giorni ti ricordo, Elvina, così come ognuno di quelli che ti hanno incontrato lungo il loro cammino conserverà, credo, un frammento di te, una parola, un episodio, un gesto, di quelli, tuoi tipici, che ti rivelavano tutta.»

    Possono iscriversi, in qualità di soci sostenitori o ordinari, gli ex allievi, i docenti e il personale amministrativo e tecnico dell’Istituto, anche se non più in servizio. Possono aderire come soci simpatizzanti tutti coloro che, pur non godendo dei requisiti per iscriversi come soci ordinari o sostenitori, condividano le finalità dell’Associazione. La durata dell’iscrizione è annuale. Lo statuto dell’Associazione e le altre notizie che la riguardano sono reperibili sul sito internet dedicato.

    L’iscrizione avviene:– rivolgendosi alla segreteria dell’associazione: cell. 347 / 9241345– compilando il modulo che si può scaricare dal sito internet

    dell’Associazione e inviandolo all’indirizzo di posta elettronica, corredato della ricevuta di versamento sul c.c.b. n° 000105327557, presso la banca Unicredit, agenzia Udine Zanon - Codice IBAN IT02R0200812313000105327557

    L’indirizzo di posta elettronica e quello del sito internet dell’Associazione sono:

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    COME DIVENTARE SOCI

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    Quote associative annuali

    1994, atrio dello 'Stellini'. Elvina Del Negro, la prima da sinistra in basso, con la preside Isabella Baccetti Londero (al centro), il vice preside Eros Pitton (alle loro spalle) e i colleghi del personale ATA.

  • 7

    Ah… la matematica! Non so a voi, ma a me, per quanto ri-spetto – o timore? – io possa avere per questa nobile e utilissima materia, non è mai riuscito di an-darci d’accordo, sebbene – lo giuro! – abbia cercato di farci amicizia e an-che di corteggiarla goffamente, pur riconoscendo con me stesso che non c’è approccio peggiore del partire prevenuti e che la mia idiosincrasia ha radici lontane, risalenti addirittu-ra ai tempi delle elementari… Evi-dentemente non è mai stato un ma-trimonio ‘da farsi’.

    Comunque sia, per noi studentelli di quella quarta ginnasiale in esilio logistico presso la succursale di San Quirino, il professor Stellio Cernec-ca ha rappresentato l’incarnazione della matematica e ha continuato a esserlo per altri quattro anni.

    Ciò che del prof. Cernecca ci col-piva innanzitutto era il suo look ten-dente al démodé: alto di statura, por-tava capelli con taglio ‘a sfumatura alta’ e indossava perennemente un abito grigio (raramente negli anni si concesse una variante cromatica) ac-cessoriato con l’immancabile cartella contenente il registro dei voti, fonte, come vedremo, dei nostri thrilling moment che precedevano le sue in-terrogazioni.

    Una costante assolutamente im-mutabile era anche la sua maniera di presentarsi in classe. Appena la sua persona si stagliava sulla soglia dell’aula, tutti gli alunni dovevano accoglierlo in piedi, e le ragazze do-vevano indossare il triste e claustrale grembiule nero all’epoca (anni ’70, sigh…) d’ordinanza; la mancata os-servanza di questo dettame poneva la malcapitata a ‘rischio interroga-zione’…

    Il sempiterno rituale prevedeva poi l’ingresso del professore, che a passi decisi guadagnava la cattedra (sulla quale depositava, sempre nel medesimo posto, la cartella), quindi con uno sguardo panoramico indi-viduava eventuali violazioni delle disposizioni di cui sopra, dopodiché recitava la formula consueta: «Signo-ri, buongiorno… Seduti!»

    A questo punto era di prammatica il suo «Allora… come va?», seguito dalla nostra immancabile risposta corale «Maaleee…!»

    Questo rituale si svolse puntual-mente a ogni sua lezione, per cinque anni!

    Le interrogazioni di matematica, dicevo prima. Ebbene, non si può dire che fossero difficili o complica-te, ma, probabilmente a causa della generalizzata scarsa propensione alla materia, si svolgevano in un cli-ma carico di una suspense degna del miglior Edgar Allan Poe. Quando si concretizzava la prospettiva di una giornata dedicata a ‘mettere voti’, il prof. Cernecca apriva il suo regi-stro e iniziava, concentrato e a capo chino, a vagliare i nominativi degli alunni, procedendo in rigoroso ordi-

    IL PROFESSOR STELLIO CERNECCAovvero la matematica in ‘salsa stelliniana’

    Nozze di diamante per la Classe III A - 1957/58

    Caro Professore...

    ne alfabetico a partire dalla A. Nella classe la tensione si tagliava con il machete: mancava soltanto il rullo dei tamburi!

    «Allora… venga fuori…». Intanto lo sguardo del professore scendeva lungo l’elenco del registro e, mentre gli alunni ‘graziati’ si rilassavano, quelli ancora ‘in ballo’ raggiungeva-no apici di tachicardia parossistica. Alla fine venivano individuati gli in-terrogandi di turno che si recavano, di solito lentamente, alla lavagna con un’aria da dead man walking…

    Al termine dell’interrogazione, a chi aveva la curiosità di sapere quale fosse il voto che la sua prestazione meritava, il prof. Cernecca immanca-bilmente rispondeva (ridacchiando): «Come che voto?… quattro, no…?!», anche nel caso che la valutazione fosse stata superiore o avesse addi-rittura raggiunto la sufficienza.

    Va detto che le interrogazioni era-no strutturate in maniera ciclica, ov-vero il professore interrogava tutti una prima volta, per poi ricomincia-re il giro; questa prassi faceva sì che chi era già stato interrogato, specie fra i primi ‘estratti’, vivesse per un bel po’ di settimane in un’aura di calma olimpica, spesso sconfinante nell’atarassia, che gli consentiva di guardare con condiscendenza e su-periorità ai tapini costretti ad atten-dere il loro turno all’OK Corral!

    Almeno una volta l’anno, con la scusa di un’improbabile gita scolasti-ca, chiedevamo al professore se fosse disposto ad aggregarsi in qualità di accompagnatore, al che le giustifi-cazioni per declinare questo invito ‘virtuale’ erano immancabilmente le seguenti (fatte tra il serio e il faceto):

    1) In una eventuale gita scolasti-ca, gli alunni avrebbero dovuto, per quel che riguardava il pernottamen-to, essere rigorosamente separati tra maschi e femmine, e ubicati ad al-meno un’ora di autobus gli uni dalle altre: i ragazzi in un convento di frati e le ragazze in un analogo convento di suore!

    2) Avendo a suo tempo anche lui partecipato a una gita scolastica in qualità di alunno (gite che negli anni Cinquanta venivano fatte a bordo di camion militari…), il prof. Cernec-ca ricordava che la prorompente ed esuberante vivacità dei partecipanti aveva fatto sì che, lungo il tragitto della gita, le stazioni dei Carabinieri si allertassero l’una con l’altra, pre-annunciandosi il transito di un’orda di studenti schiamazzanti!

    3) In conclusione, forte della sua esperienza personale e delle sue convinzioni, si sarebbe in ogni caso guardato bene dall’offrirsi come in-segnante accompagnatore di qual-sivoglia gruppo di teenagers, più o meno scatenati.

    L’esposizione, eseguita con do-vizia di particolari, di queste argo-mentazioni, faceva sì che si perdes-sero almeno una ventina di minuti, ottenendo, con questo collaudato ed

    efficace stratagemma (un po’ infin-gardo), la ‘grazia’ dalle interroga-zioni, in considerazione del fatto che il tempo residuo non sarebbe stato sufficiente per ‘giustiziare altri due condannati’…

    Un’altra peculiarità del nostro rap-porto insegnante-studenti era l’uti-lizzo delle giustificazioni: ogni alun-no ne aveva a disposizione due per ogni trimestre, che dovevano essere utilizzate previa comunicazione ver-bale al prof. Cernecca all’inizio della lezione, quando questi rivolgeva alla classe la domanda di rito «Qualcuno si giustifica oggi?».

    A volte, però, il professore se ne dimenticava, così si poteva assistere a siparietti del tipo: «Venga fuori… venga fuori… (incerto): questo XY! (deciso)».

    «Eh… no, Professore… (sornione), io mi volevo giustificare, ma Lei non ce lo ha chiesto…»

    «Ah… già! (sorpreso): qualcun al-tro si giustifica?»

    E a questo punto non era raro assi-stere a un quasi plebiscitario levarsi di mani anelanti a scampare il peri-colo…

    «Eh… ma non si fa così (visibil-mente contrariato)… Vabbè (rasse-gnato), vorrà dire che oggi spiegherò …»

    Sospiro di sollievo generale, ma

    anche di rammarico per essere stati costretti a ‘bruciare’ una giustifica-zione che magari poteva tornare più utile in un altro, più ‘drammatico’ frangente.

    Personalmente, nelle materie del professor Cernecca sono sempre riuscito a ‘sfangarla’, mentre altri compagni e compagne di classe, che ritenevo molto più dotati di me nell’apprendimento della matemati-ca, si ritrovavano con l’insufficienza a fine anno scolastico e con la con-seguente necessità di passare parte dell’estate sui libri a studiare per gli esami di riparazione. E qui pos-so soltanto ringraziare la mia buona stella… (o il buon Stellio?)

    A onor del vero, in occasione del-la cena di maturità, essendo seduto proprio di fronte al professore, al termine della serata (corroborato da qualche bicchiere…) mi decisi a chiedergli: «Professore, mi sveli un enigma! Io, in questi cinque anni, me la sono sempre cavata a giugno nelle Sue materie, anche se costantemen-te con il patema. Come mai, invece, qualcuno, incontestabilmente più bravo di me, si è poi ritrovato con la matematica a settembre?»

    Serafica e lapidaria la risposta: «Perché tu hai sempre avuto l’occhio della sufficienza!»

    Ipse dixit, niente da eccepire…

    Nonostante il clima ansiogeno e terrorifico che si instaurava durante le sue ore di lezione, con il professor Cernecca si è spesso riso, ma il ride-re al quale inducevano le sue uscite aveva un po’ le caratteristiche della ‘risata nervosa’ atta a scaricare, al-meno in parte, la tensione creata da quella materia così affascinante, ma sovente così storicamente indigesta, che è la matematica al liceo classico.

    Firenze, luglio 2018

    Pino De VitaIII F - 1973/74

    Aula magna dello 'Stellini'. In prima fila, da sinistra a destra: Gianpaolo Tosel, Paola Migotto, Giorgio Gorlato, Daniela Masarin, Pietro di Prampero. In seconda fila: Nicoletta d'Attimis, Tullio Vici, Tarcisio Mizzau, Giulia Ventura, Mario Giannarini. In terza fila: Beppino Maieron, Francesco Sguazzin, Franco Casarsa. Sullo sfondo la vicepreside Beatrice Rigatti e il presidente degli Stelliniani Andrea Purinan.

  • 8

    Dopo quindici edizioni consecutive, per la prima volta quest’anno il concorso di traduzione dalle lingue classiche in friulano non ha avuto luogo a causa di alcune difficoltà insorte nella gestione. L’interruzione non è stata gradita e alcuni studenti hanno espresso il proprio rammarico al Consiglio direttivo, sollecitando anche la ripresa della periodica pubblicazione dei migliori elaborati arrestatasi nel 2012 con l’uscita del quinto volumetto. Motivati da questa reazio-ne, gli organizzatori hanno deciso di considerare la sospensione come una pausa di riflessione e di rilanciare il progetto con rinnovato entusiasmo il prossimo anno, magari apportando qualche novità.

    Nel frattempo, per dare soddisfazione agli studenti interessati, la direzione della «Voce» ha rite-nuto opportuno riservare alcune pagine di questo giornale ai migliori elaborati dell’ultimo quin-quennio. Limitandoci per motivi di spazio a tre per anno, pubblichiamo pertanto i testi proposti e le traduzioni premiate e segnalate, i nomi degli autori con gli essenziali dati anagrafici, l’indica-zione della scuola all’epoca da essi frequentata e qualche notizia relativa al loro impegno attuale.

    Invochiamo venia dai lettori più esperti: non siano giudici troppo severi e apprezzino gli sforzi di questi ragazzi sensibili che hanno dato il proprio apporto alla lotta per la sopravvivenza della lingua friulana.

    I PROGETTI DEGLI STELLINIANI

    CONCORSO DI TRADUZIONEDAL LATINO E DAL GRECO IN FRIULANO

    a cura di Elettra Patti

    XI EDIZIONE - A. SC. 2012/2013TESTI PROPOSTI CON INDICAZIONE DEI VINCITORI E SEGNALATI

    LATINO BIENNIO: L’esemplare virtù di Lucrezia (Livio, Ab urbe condita, I 57, 4-10). Nessun allie-vo premiato. Allievi segnalati: Anna Chesani del Liceo scientifico ‘Grigoletti’ di Pordenone ed Elisa Trevisanut del Liceo scientifico ‘Vincenzo Manzini’ di San Daniele.LATINO TRIENNIO: Tenere la porta di casa ben chiusa! (Plauto, Aulularia, vv. 79-99). Allievi premiati ex aequo: Massimiliano Ghiro e Valentina Martinoia del Liceo classico ‘Jacopo Stellini’ di Udine. Allievi segnalati: Nicoletta Bressa ed Enea D’Andrea del Liceo classico ‘Leopardi-Majorana’ di Pordenone e Matteo Trevisanut del Liceo scientifico ‘Vincenzo Man-zini’ di San Daniele.GRECO BIENNIO: Vicende di Admeto e Alcesti (Apollodoro, Biblioteca, III 10). Nessun concorrente.GRECO TRIENNIO: Che mangiate, in tempo di pace! (Aristofane, Pace, vv. 1127-1153). Allieva premiata: Nicoletta Bressa del Liceo classico ‘Leopardi-Majorana’ di Pordenone. Allievi se-gnalati: Valentina Martinoia del Liceo classico ‘Jacopo Stellini’ di Udine ed Enea D’Andrea del Liceo classico ‘Leopardi-Majorana’ di Pordenone.

    TESTO LATINO TRIENNIOPlauto, Aulularia, vv. 79-99

    Tenere la porta di casa ben chiusa!

    EUCLIO: Nunc defaecato demum animo egredior domo,postquam perspexi salva esse intus omnia.Redi nunciam intro atque intus serva. STAPHYLA: Quippini?Ego intus servem? An ne quis aedis auferat?Nam hic apud nos nihil est aliud quaesti furibus,ita inaniis sunt sunt oppletae atque araneis.EUCLIO: Mirum quin tua me causa faciat IuppiterPhilippum regem aut Dareum, trivenefica.Araneas mihi ego illas servari volo.Pauper sum: fateor; patior; quod di dant fero.Abi intro, occlude ianuam; iam ego hic ero.Cave quemquam alienum in aedis intromiseris.Quod quispiam ignem quaerat, exstingui volo,ne causae quid sit quod te quisquam quaeritet.Nam si ignis vivet, tu exstinguere extempulo.Tum aquam aufugisse dicito, si quis petet.Cultrum, securim, pistillum, mortarium,quae utenda vasa semper vicini rogant,fures venisse atque abstulisse dicito.Profecto in aedis meas me absente neminemvolo intromitti.

    TRADUZIONE DI MASSIMILIANO GHIRO1Tignî la puarte di cjase ben siarade!

    (furlàn de Basse furlane)

    EUCLIO: Cumò in pâs e in caritât o voi four di cjase, dopo che o ai vidût che dentri al è dut a puest. Torne subite dentri e sta atente.STAFILA: Po si po! E ce varessio di tignî di voli? Ca no vessino di partà vie i mûrs? Chi di nô no l’è nuie di robâ par i laris, la cjase a è plene di vueit e di telis di rai.EUCLIO: Miracul che par colpe tÔ Giove no mi fasi re come Filippo o Dario, striate par tre voltis! Jo o vuei ca mi si tegni a ments ches telis. Jo o soi pùar: lu amèt; lu sopuarti; o cjapi chel che i deos a mi

    dan. Va dentri, siare la puarte. Subite jo o sarai chi. Sta atente di no fa entrâ nissun in cjase. Par via che cualchidun al domandi fouc, o ai voe che al sedi distudât, di môt che nol sedi pi resòn che cualchidun a lu domandi. Di fat se al reste piât, tu sarâs tu a jessi distudade davor-man. Se dopo cualchidun al ves di domandâ aghe, dîs ca è finide. Se chei dongie, come ca fasin simpri, a vessin di domandâ imprest un curtìs, la manare, un batidôr o un mortâr tu dîs ca son stâts i laris e an partât vie dut. Si che duncje cuant che jo no soi no vuei che al entri nissun in cjase me.

    1. Nato a San Vito al Tagliamento il 26/03/1994, Massimiliano risiede a Teor (UD). All’epoca del concorso frequentava l’ultimo anno nella sezione D del liceo ‘Stellini’. Nel luglio del 2017 ha conseguito la laurea in Lettere classiche presso l’ateneo udinese e ora sta proseguendo gli studi, sempre a Udine, in Archeologia, la sua vera passione, effettuando campagne di scavo a Codroipo, in Oman e, dall'agosto scorso, nel Kur-distan iracheno. Nel 2017 è stato premiato al concorso di poesia friulana in memoria di Eugenio Pilutti. Dal 2013 è istruttore di atletica per la ASD Atletica 2000 di Codroipo.

    TRADUZIONE DI VALENTINA MARTINOIA2Tignî la puarte di cjase ben sierade!

    (furlàn di VenÇon)

    CLION: Cumò si ch’i pues lâ fûr di cjase, finalmentri, cul cûr lizêr, dopo jessimi sigurât che lavie dentri al è dut a puest. Torne subìt dentri e stà in vuaite!STAFILE: Ah, pardabòn? I scuegn stâ in vuaite? Cussì nissun ti robe la cjase? Insome, achì nol è nue ce robâ, par i laris, al è dut plen di nue e di telis di rai!CLION: Strani che Jupiter no mi fâs deventâ, par colpe tô, rasse cussine, come il re Filìp o Dari! Jo lis telis di rai i vuei tignilis di cont! I soi puar, i lu sai, lu ten a ment, parcè che i cjapi dome ce che mi ufrissin chei dius. Va’ dentri, e siere la puarte! I torni t’un lamp. Viôt di no fâ ientrâ nissun in cjase. Se ti domàndin dal fûc, viôt ch’al seti studât, cussì nissun al varà nue

    ce dî. Se quant ch’o torni lu cjati impiât, ti studi te! E se qualchidun tal domande, l’aghe e jè disgotade vie. E s’a vegnin chei dongje a domandâ simpri chês robis (curtìs, manarie, pestedôr, mortâr) diur ch’a son vignûs i laris e àn sgrafignât dut. Insome, quant che jo i voi e no soi, no vuei vê nissun par cjase.

    2. Nata a Tolmezzo il 10/02/1996, Valentina risiede a Gemona. All’epoca del concorso frequentava il terzo anno nella sezio-ne A del liceo ‘Stellini’. Nel concorso del 2013 è stata anche segnalata per la traduzione del brano di greco. Attualmente vive a Roma dove si è laureata con lode presso l’università 'La Sapienza' in Scienze archeologiche con una tesi in proto-storia europea e antropologia fisica. Si occupa principalmente di analisi dei resti umani di età preistorica e protostorica.

    TESTO GRECO TRIENNIOAristofane, Pace, vv. 1127-1153

    Che mangiate, in tempo di pace!

  • 9TRADUZIONE DI NICOLETTA BRESSA3

    Cé mangiàde, in tèimp de pès!(Koinè furlan di Erto)

    Sùi cóntèint, sùi cóntèint, parcì che mé sùi liberè dai èlmi, dal fromài e dale théole. Dìàl, iùa no me dévartis a fi guéra, ma a bèive vesìn del fèuc coi amìthi che me piès a mì, brusàndo le légne pì sésce, taiàde dé istè e cuiéndo thèişer, molàndo sul fèuc giànde e bussàndo la sèrva intant che la fémena la se lava. No lé, difàti, na ròba pì béla, daspù avéi semenè, che al Signèur al la bàin e che chel che sta da vésìn al te diga: «Dime, cé fasóne intànt, Comarchide?». «A mì me piàsarés bèivege su sèura, in-tant che al Signèur al né fè dal béin. Fémena, brustóléa un pòth de fasùi, mesédeli col fromèint, tira fòra i fighi e Sira al gé diga a Manes da vegnì fòra dal sciàmp». Difàti, uncùi, nó sé pù pròpi dhì a sapè le vic, parcì che la téra lé bagnàda. Calchedùn al mé pòrt chél tordo e i dói tha-vàtoi. L’èra àin un tin dé cónège dèintre sciàsa e quatre tòc de lìavre, se nol se li à fath fòra la giàta alséra; ovì de dèintre, la fiva no sé cé brut susùri. De chi quatre tòc, pòrtenin tre a nosàltre, servo, e dàgin un a mé père.

    3. Nata a Pordenone il 14/11/1995, Nicoletta risiede a Cimolais (PN). All’epoca del concorso frequentava il quarto anno del Liceo classico ‘G. Leopardi-E. Majorana’ di Pordenone. Nel concorso del 2013 è stata se-gnalata anche per la traduzione del brano di Plauto. Si è laureata nell’ottobre del 2017 in Economia, com-mercio internazionale e mercati finanziari presso l’Università degli Studi di Trieste e frequenta il secondo anno della laurea magistrale in Marketing e comunicazione presso l’Università ‘Ca’ Foscari’ di Venezia. Nel giugno del 2017 è stata eletta assessore alla Cultura, sport, politiche giovanili e attività ricreative nel Comune di Cimolais (PN), il piccolo paese della Valcellina dove ha sempre risieduto.

    XII EDIZIONE - A. SC. 2013/2014TESTI PROPOSTI CON INDICAZIONE DEI VINCITORI E SEGNALATILATINO BIENNIO: Spettacoli circensi: L’elefante, La naumachia, La cerbiatta (Marziale, Liber de spectaculis, XVII, XXIV, XXIX). Nessun concorrente.LATINO TRIENNIO: Gli spettacoli volgari ci abbrutiscono (Seneca, Epistulae morales ad Lucilium, VII, 1-3). Nessun allievo premiato. Allieva segnalata: Aghite Pavan del Liceo classico ‘Ja-copo Stellini’ di UdineGRECO BIENNIO: Solo chi ama è disposto a morire per un altro (Platone, Simposio,VII b-d). Nes-sun concorrente.GRECO TRIENNIO: Ultime parole di Alcesti (Euripide, Alcesti, vv. 280-307). Allievo premiato: Marc Vezzi del Liceo classico ‘Jacopo Stellini’ di Udine. Allieva segnalata: Elisa Romanzin del Liceo classico ‘Jacopo Stellini’ di Udine.

    TESTO LATINO TRIENNIOSeneca, Epistulae morales ad Lucilium, VII, 1-3

    Gli spettacoli volgari ci abbrutiscono

    Quid tibi vitandum praecipue existimes quaeris? Turbam. Nondum illi tuto committeris. Ego certe confitebor imbecillitatem meam: numquam mores quos extuli fero; aliquid ex eo quod composui turbatur, aliquid ex iis quae fugavi redit. Quod aegris evenit quos longa imbecillitas usque eo adfecit ut nusquam sine offensa proferantur, hoc accidit nobis quorum animi ex longo morbo reficiuntur. Inimica est multorum conversatio: nemo non aliquod nobis vitium aut com-mendat aut imprimit aut nescientibus adlinit. Utique quo maior est populus cui miscemur, hoc periculi plus est. Nihil vero tam damnosum bonis moribus quam in aliquo spectaculo desidere; tunc enim per voluptatem facilius vitia subrepunt. Quid me existimas dicere? Avarior redeo, ambitiosior, luxuriosior? Immo vero crudelior et inhumanior, quia inter homines fui. Casu in meridianum spectaculum incidi, lusus expectans et sales et aliquid laxamenti quo hominum oculi ab humano cruore adquiescant. Contra est: quidquid ante pugnatum est misericordia fuit: nunc omissis nugis mera homicidia sunt. […] Subducendus populo est tener animus et parum tenax recti: facile transitur ad plures.

    TRADUZIONE DI AGHITE PAVAN4Gli spettacoli volgari ci abbrutiscono

    Tu tu domandis ce che soredut tu varessis di evitâ? La marmaie. Tu no tu ti dâs ancjemò a cheste cence risi. Jo dal sigûr o confessarai la me debolece, no puarti mai indaûr la moralitât ch’o ài puartât fûr; alc di ce ch’o ài rangjât, si savolte, alc di chês robis ch’o ài parât vie, al torne. Chel ch’al capite ai malâts cussì indebilîts di une lungje infermitât al pont di no podê lâ di nissune bande cence dam, chest al sucêt ancje a nÔ ch’o vin i cûrs ch’a si ripiin di une lungje malatie. Al puarte dam stâ adun cun la plui part de int: no l’è nissun ch’a no ti sofli, ch’a ti no inficj, ch’a no ti tachi sù cualchi pecje cence che nô si rindini cont. Inalore cun plui int a si messedin, tant plui grant al è il pericul. Nuie in veretât al è tant danôs par i bogns costums tant che assisti a un spetacul, ancje parcè che in grazie al divertiment, i vizis si tàchin sù plui facilmentri. Ce crodistu ch’o disedi? Ch’o torni dongje plui seneôs, plui ambizionôs, plui dissolût? Ti disarai, ancjemò plui crudêl e plui barbar parcè che o soi stât tal mieç dai omps. Par câs o soi capitât a un spetacul di misdì, o mi sares spietât di viodi mateçs e stocadis e cualchi straviament in dulà che i voi de int a cjatassin padìn dal sanc dai omps. Al contrari: ducj i com-batiments prime e jerin misericordie invesite cumò, lassant di bande i scherçs, a son par da bon dai maçalizis. Bisugne tignî lontan de int un cûr debul e che pôc al sa sta in stangje: facil ch’al passi de bande dai tancj.

    4. Nata a San Daniele del Friuli il 06/01/1997, Aghite risiede a Udine. All’epoca del concorso frequentava il terzo anno nella sezione D del liceo ‘Stellini’. Attualmente studia Scienze psicologiche, cognitive e psi-cobiologiche all’Università degli studi di Padova e lavora come fotografa di eventi quali mostre, concerti, conferenze, inaugurazioni e festival. 

    TESTO GRECO TRIENNIOEuripide, Alcesti, 280-307

    Ultime parole di Alcesti

    TRADUZIONE DI MARC VEZZI5Ultimas peraulas di Alcesti

    (variant lenghistiche cjargnele di Darte)

    Admêt, tu che tu viouts ben cemût ch’a è la mê situazion, ti voi dî prime di murî ce ch’i sint. Jo, vinti onorât e vinti dât sôre la mê vite par che tu tu podès encjemò cjalâ la lûs dal soreli, i mûr par te, pur podint fâ di mancul sielgint un omp tra i Tessai e stâ contente intune cjase da regjine. Ma no vint volût vivi lontan da te cui fîs vuarfins, no ai sparagnât la mê gioventût, pur vint cun cui gjoldi. Di sigûr to pâri e to mâri ti an tradît, di une bande rispiet ai ains, jessint ben par lôr murî, di che âte podint salvâ lôr fi e murî cun glorie. Difat tu tu eras l’unic fi par lôr, e a no ‘nd ere nissune sperance, muart tu, di vei aitis fruts. Tant jo che tu podaressin vivi il timp ch’a nus reste, e no tu vaiares la tô femine jessint bessôl e no tu tirares sù i tiei fîs da vuarfins. Ma un diu al à volût che las roubas as lèssin cussì. E cussì ch’al seti; tu cumò tu as di veimi agrât par chest: difat no ti domandarai mai un plasei compagn di une bande, (nue al à plui valôr che la vite), e just di che âte, come che tu disarâs encje tu: difat, se tu pensas ben, tu tu vûs bon ai tiei fîs no mancul di me. Sopuarte che chescj fruts a sêtino parons in cjase noste e no sta dàur une mari-lastre che, jessint une femine plui triste di me, par gjelosie, a alçarà las mans sui tiei e miei fîs.

    5. Nato a Tolmezzo il 12 /07/1996, Marc risiede ad Avosacco di Arta Terme. All’epoca del concorso fre-quentava il quarto anno nella sezione A del liceo ‘Stellini’. Sarebbe stato premiato anche nel concorso dell’anno successivo (2015) per le traduzioni da Alceo e Archiloco nonché segnalato per quella da Orazio. Attualmente frequenta il terzo anno del corso universitario di laurea triennale in Lettere a indirizzo sto-rico presso l’Università degli Studi di Udine.

    TRADUZIONE DI ELISA ROMANZIN6

    Lis ultimis paraulis di Alcesti(furlan di Spilimberc)

    Admêt, tu viodis in ce condizions ch’i soi; prima di murî i voi dîti li’ mês volontâts. Jo, ch’i ti puarti rispiet e ch’i ti ai fat viodi chista lûs in cambi da la mê anima, i mûr, ancja se par me al era pussibil no murî par te, ma i podevi vê l’om ch’i volevi jo tra i Tessai e vivi in una cjasa par siôrs. I no ai volût vivi cença di te, cun i fîs cença un pari, e i no ai sparagnât la zoventût, ancja se i vevi in lôr una rason par essi contenta. Chel om ch’al ti a fat e chê femina ch’a ti a fat vignî al mont, invece, a ti àn bandonât. Par lôr, come etât, al era ben murî; al era ben salvâ la vita dal lôr fi e murî cun gloria. Di fat tu tu eris par lôr l’unic fi e, muart tu, a no era nissuna sperança di fâ nassi altris fîs. Jo e te i podevin vivi il timp ch’al restava e no tu ti saressis dolèt di essi restât cença la tô femina, e no tu varessis vût di tirâ sù i nestris fîs come uarfins. Ma un diu al à fat chistis robis in mût ch’a zessin cussì. E ch’a sedi! Tu cumò par chistis robis tegnimi cont dal plasê: i no ti domandarai mai un plasê dal stes valôr (parcè ch’a nol è nuia c’al vâl di pui da la vita), ma ti lu do-mandarai just, come che tu disarâs ancja tu: di fat no tu volis mancul ben di me a chiscju canais, se tu âs sintiment. Tegniju come parôns da la me cjasa, e no stâ dâ a chiscju fîs una marilastra che, femina piês di me, a alçarà li’ mâns sui tiei e mei canais par invidia.

    6. Nata a San Vito al Tagliamento il 22/09/1996, Elisa ri-siede a Lestans-Sequals. All’epoca del concorso frequen-tava il quarto anno nella sezione D del liceo ‘Stellini’. Conseguita la maturità classica nel 2015, è laureanda in Scienze e tecniche del turismo culturale presso l’ateneo di Udine. Molto attiva, lavora presso la Maniago Nuoto di Maniago e presta la sua opera anche in ambito sociale.

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    XIII EDIZIONE - A. SC. 2014/2015TESTI PROPOSTI CON INDICAZIONE DEI VINCITORI E SEGNALATI

    LATINO BIENNIO: Cicerone scrive alla moglie Terenzia e ai figli Tullia e Cicerone (Cicerone, Ad Fami-liares, 14, 4). Allievo premiato: Gianmaria Castellan del Liceo scientifico ‘G. Marinelli’ di Codroi-po. Allievo segnalato: Niccolò Scussolin del Liceo scientifico ‘G. Marinelli’ di Codroipo.LATINO TRIENNIO: Fuori si gela: stiamo al caldo tra amici (Orazio, Carmina, 1, 9). Allievo premia-to: Marco Petruzzi del Liceo scientifico ‘N. Copernico’ di Udine. Allievo segnalato: Marc Vezzi del Liceo classico ‘J. Stellini’ di Udine. GRECO BIENNIO: L’addio di Pantea al marito Abradata (Senofonte, Ciropedia, passim). Nessun concorrente.GRECO TRIENNIO: Il vino e gli amici (Alceo, frr. 333 e 338 V.; Archiloco, fr. 4 W.). Allievo premia-to: Marc Vezzi del Liceo classico ‘J. Stellini’ di Udine.

    TESTO LATINO BIENNIOCicerone, Ad Familiares, 14,4

    Cicerone scrive alla moglie Terenzia e ai figli Tullia e Cicerone

    Ego minus saepe ad vos do litteras, quam possum, propterea quod cum omnia mihi tempora sunt misera, tum vero, cum aut scribo ad vos aut vestras lego, conficior lacrimis, sic ut ferre non possim. Quod utinam minus vitae cupidi fuissemus! Certe nihil, aut non multum in vita mali vidissemus. Quod si nos ad aliquam alicuius commodi aliquando recuperandi spem fortuna re-servavit, minus est erratum a nobis; sin haec mala fixa sunt, ego vero te quam primum, mea vita, cupio videre et in tuo complexu emori, quando neque di, quos tu castissime coluisti, neque ho-mines, quibus ego semper servivi, nobis gratiam rettulerunt. O me perditum! O me adflictum! Quid nunc rogem te, ut venias, mulierem aegram, et corpore et animo confectam? Non rogem? Sine te igitur sim? Opinor, sic agam: si est spes nostri reditus, eam confirmes et rem adiuves; sin, ut ego metuo, transactum est, quoquo modo potes, ad me fac venias. Unum hoc scito: si te habebo, non mihi videbor plane perisse.

    TRADUZIONE DI GIANMARIA CASTELLAN7Ciceron ur scrîf ae femine Terensie e ai fîs Tulie e Ciceron

    Jo us mandi letaris mancul dispès di chel che o pues, par vie che, se di une bande o soi simpri avilît, di chê altre, cuant jo us scrîf o o lei lis vuestris letaris, o soi cjapât da lis lagrimis tun stât che jo no pues sopuartâlu. Volessial il cîl che noaltris o fossin mancul seneôs di vite! Par sigûr no varessin provât nuie o no masse di mâl inte vite. Dut câs, se il destin nus à dât une cualchi sperance di tornâ, un doman, a dâ di ca, o varin falât di mancul; se al contrari i mâi di cumò a son stabii, jo par sigûr o volarès vioditi il prime possibil, vite mê, e murî tai tiei braçs, par vie che ni i dius che tu cun devozion tu as onorât, ni i oms che jo o ai simpri servît, nus àn tornât il plasê. O biât mai me! O avilît mai me! Parcè mo ti domand